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Sviluppo civile: per una critica simpatetica del paradigma ... - Aiccon

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Università degli Studi di Torino<br />

Facoltà di Economia<br />

TESI DI LAUREA<br />

<strong>Sviluppo</strong> <strong>civile</strong>: <strong>per</strong> <strong>una</strong> <strong>critica</strong><br />

<strong>simpatetica</strong> <strong>del</strong> <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo<br />

Relatore: Carlo Salone<br />

sviluppo<br />

Candidato: Marco Cavallero<br />

Correlatore: Roberto Burlando<br />

Anno Accademico 2007/2008


Indice:<br />

Introduzione Pag. 4<br />

Capitolo primo: Il concetto classico <strong>del</strong>lo sviluppo economico 9<br />

- Adam Smith: lo sviluppo nella società mercantile 13<br />

- Karl Marx: sviluppo capitalistico 20<br />

- John Maynard Keynes: l’inizio <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo 27<br />

- I mo<strong>del</strong>li di crescita economica: da Harrod – Domar a Solow 31<br />

Capitolo secondo: Il problema <strong>del</strong> sottosviluppo 35<br />

- La teoria <strong>del</strong>la modernizzazione 37<br />

- Lo strutturalismo e la teoria <strong>del</strong>la dipendenza 42<br />

- La <strong>critica</strong> neo- marxista e la teoria <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo 51<br />

Capitolo terzo: Il contributo “eterodosso” ai mo<strong>del</strong>li di sviluppo 58<br />

- La grande trasformazione di Karl Polany 60<br />

- François Perroux e i poli di sviluppo 65<br />

- Albert Hirschman e la dimensione ermeneutica <strong>del</strong>lo sviluppo 71<br />

- L’istituzionalismo nella teoria <strong>del</strong>lo sviluppo: Gunnar Myrdal 77<br />

Capitolo quarto: Le critiche liberali ai mo<strong>del</strong>li di sviluppo 84<br />

- La visione liberista: Peter Tomas Bauer 85<br />

- Amartya Sen: sviluppo è libertà 91<br />

- Joseph Stiglitz: globalizzazione e sviluppo 101<br />

2


Capitolo quinto: La fine <strong>del</strong>la crescita 107<br />

- La bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen 109<br />

- L’economia ecologica di Herman Daly 113<br />

- Jeremy Rifkin: il problema energetico 121<br />

- La decrescita di Serge Latouche 126<br />

- Gilbert Rist e le origini <strong>del</strong>lo sviluppo 135<br />

Capitolo sesto: Lo sviluppo locale <strong>per</strong> un’economia <strong>civile</strong> 139<br />

- Dalla crescita regionale allo sviluppo locale 140<br />

- Introduzione all’economia <strong>civile</strong> 146<br />

- Lo sviluppo <strong>civile</strong> 151<br />

- La fine <strong>del</strong>l’economia: l’inizio <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> 156<br />

Conclusioni 160<br />

Riferimenti bibliografici 166<br />

3


Introduzione<br />

“Gli economisti e altri studiosi di<br />

scienze sociali generalmente si<br />

astengono dal proporre le proprie<br />

utopie, anche quando le hanno,<br />

<strong>per</strong>ché temono di essere<br />

considerati ingenui sognatori; è<br />

bene vincere questo timore,<br />

naturalmente presentando le idee<br />

dopo <strong>una</strong> riflessione ancora<br />

maggiore di quella consueta”.<br />

Paolo Sylos Labini<br />

Cos’è lo sviluppo? La definizione sul dizionario Devoto-Oli recita così: “crescita,<br />

aumento progressivo, allargamento, espansione. In economia: aumento<br />

<strong>del</strong>l’occupazione, <strong>del</strong>la ricchezza, espansione, crescita”.<br />

Se noi partissimo da questa definizione potremmo esclusivamente pensare allo<br />

sviluppo in termini quantitativi, ma non è così. Lo sviluppo non è solamente<br />

l’aumento di <strong>una</strong> data variabile nel tempo, bensì l’aumento <strong>del</strong>la qualità <strong>del</strong>la vita<br />

umana. La crescita, al contrario, non considera gli elementi qualitativi<br />

concentrandosi esclusivamente sugli elementi quantitativi. La crescita economica<br />

illimitata è razionale? La risposta sembra ovviamente negativa, ma se analizziamo il<br />

pensiero economico dominante degli ultimi decenni rischiamo di ritrovarci di fronte<br />

a un vero e proprio paradosso: la tecnica al servizio <strong>del</strong> mercato ha come unico<br />

obiettivo la crescita economica infinita in un mondo in cui <strong>per</strong> definizione le risorse<br />

sono finite. Il vulnus di ogni singolo ragionamento sullo sviluppo deve partire da<br />

questo problema. Questo lavoro, ri<strong>per</strong>correndo la storia <strong>del</strong> concetto stesso di<br />

sviluppo economico, vorrebbe esporre un’alternativa plausibile al problema <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo. Il sistema capitalistico è, <strong>per</strong> usare la metafora di Giorgio Ruffolo, un<br />

moderno Faust dannato alla crescita illimitata ed autodistruttiva.<br />

4


Sarebbe un errore non riconoscere al capitalismo il suo ruolo nello sviluppo <strong>del</strong>la<br />

specie umana: <strong>del</strong>la sua potenza, <strong>del</strong>la sua ricchezza, <strong>del</strong> suo benessere. Quali che<br />

siano stati i suoi orrori, e sono stati immensi, non sono certo su<strong>per</strong>iori a quelli <strong>del</strong>le<br />

civiltà che l’hanno preceduto, fondate sulla schiavitù, sull’oppressione, sulla<br />

violenza; mentre immensamente su<strong>per</strong>iori sono i suoi meriti: l’incomparabile<br />

promozione <strong>del</strong>le attività di produzione, la diffusione prodigiosa <strong>del</strong>le innovazioni<br />

tecnologiche e, nei tempi più recenti, il compromesso politico con l’altro grande<br />

merito <strong>del</strong>la modernità: la democrazia. Una riflessione seria non può, d’altra parte,<br />

non riconoscere il rovescio <strong>del</strong>la medaglia: non solo l’esaltazione di Faust, ma anche<br />

la sua dannazione. Il capitalismo ha scatenato poderose forze distruttive<br />

<strong>del</strong>l’ambiente naturale e <strong>del</strong>la coesione sociale, fino a minacciare la sopravvivenza<br />

stessa <strong>del</strong>la specie. La sua “dannazione” sta nell’assurdità <strong>del</strong>la sua logica <strong>del</strong>la<br />

crescita illimitata. In natura non esistono processi di crescita illimitati, che non siano<br />

votati allo sterminio. I bambini non crescono come giganti, gli alberi non crescono<br />

all’infinito.<br />

I critici più radicali <strong>del</strong>lo sviluppo usano correntemente la metafora <strong>del</strong> treno in corsa<br />

verso l’abisso. Quali sono le alternative? Tendenzialmente tre: 1) scendere dal treno,<br />

cioè la decrescita <strong>del</strong>la quale ci si occu<strong>per</strong>à nel quinto capitolo; 2) richiudersi nel<br />

treno oscurando i finestrini; 3) cambiare direzione. La prima possibilità, pur essendo<br />

desiderabile, è altamente utopica e prevede <strong>una</strong> vera e propria “rivoluzione<br />

culturale”. La seconda possibilità è quella che la società attuale sta <strong>per</strong>correndo senza<br />

neppure rendersene conto. La terza possibilità è quella auspicabile <strong>del</strong>la deviazione<br />

verso un’economia solidale che abbia al centro <strong>del</strong> suo stesso modo di essere uno<br />

sviluppo umano e <strong>civile</strong>. (Ruffolo, 1994)<br />

Questo lavoro intende <strong>per</strong>correre la storia <strong>del</strong> pensiero economico puntando<br />

l’attenzione ai lavori di coloro che hanno visto e descritto questo <strong>per</strong>corso e che<br />

hanno proposto soluzioni <strong>per</strong> modificarne la natura suicida.<br />

L’obiettivo <strong>del</strong>la deviazione può essere raggiunto attraverso il raggiungimento di uno<br />

“stato stazionario”, che <strong>per</strong> gli economisti classici era un passaggio inevitabile<br />

nell’economia capitalistica. Questa deviazione, dalla crescita all’equilibrio,<br />

comporterebbe <strong>una</strong> formidabile redistribuzione <strong>del</strong>le risorse tra i ricchi e i poveri <strong>del</strong><br />

mondo, dato che non è concepibile che la crescita possa essere fermata <strong>per</strong> entrambi<br />

5


mantenendo l’attuale livello di disuguaglianza; comporterebbe inoltre, all’interno di<br />

ogni paese, la fissazione di qualche limite <strong>del</strong> reddito, minimo e massimo e,<br />

comunque, la sterilizzazione <strong>del</strong>le possibilità di accumulazione <strong>del</strong>la moneta.<br />

Richiederebbe di ridurrebbe di molto il dominio <strong>del</strong>l’economia finanziaria su quella<br />

produttiva, che da molti viene considerato come l’origine dei problemi <strong>del</strong>l’economia<br />

contemporanea.<br />

La deviazione richiederebbe un rovesciamento <strong>del</strong>le priorità tra beni collettivi e beni<br />

privati. La " resistenza fiscale” e la netta prevalenza nella soddisfazione dei desideri<br />

privati rispetto ai bisogni pubblici potrebbero essere su<strong>per</strong>ati da un “mercato dei beni<br />

pubblici”, forniti da imprese sociali o coo<strong>per</strong>ative di cittadini autogovernate che<br />

darebbero a questi ultimi il controllo <strong>del</strong>le scelte e <strong>del</strong>la spesa relativa, eliminando i<br />

costi <strong>del</strong>la burocrazia e l’iniquità <strong>del</strong>l’evasione fiscale. Lo sviluppo <strong>del</strong> cosiddetto<br />

Terzo settore o<strong>per</strong>a proprio secondo questa logica.<br />

Quella teorizzata da questo approccio è un’economia solidale e <strong>civile</strong> che rompe lo<br />

schema marginalista, o monetarista, al punto che c’è da chiedersi se quella così<br />

sommariamente tracciata sia ancora economia nel senso in cui noi la intendiamo, e<br />

cioè <strong>una</strong> produzione e distribuzione <strong>del</strong>le risorse fondata sugli interessi degli<br />

individui e non su quelli <strong>del</strong>la società: i quali, con buona pace <strong>del</strong> pensiero unico,<br />

non coincidono affatto “automaticamente” con i primi attraverso il meccanismo <strong>del</strong><br />

libero mercato.<br />

Quel che è certo, è che un radicale riorientamento <strong>del</strong>la specie umana dall’attuale<br />

corsa letteralmente insensata verso <strong>una</strong> condizione di equilibrio, dalla competizione<br />

alla coo<strong>per</strong>azione, non richiede soltanto <strong>una</strong> riforma <strong>del</strong>l’economia, ma <strong>una</strong><br />

rivoluzione culturale, o addirittura antropologica. Richieda uno sviluppo <strong>del</strong>la<br />

coscienza, anziché <strong>una</strong> crescita <strong>del</strong>la potenza: <strong>del</strong>l’essere, rispetto all’avere; la “fine<br />

<strong>del</strong> <strong>paradigma</strong> economico” cioè <strong>del</strong>l’autonomizzazione <strong>del</strong>l’economia e il suo<br />

“rientro” (rembeddment) nell’ambito di <strong>una</strong> società che abbia riacquistato la<br />

consapevolezza dei limiti naturali e dei bisogni di solidarietà sociale.<br />

La fine <strong>del</strong>l’economia, che J.M. Keynes vorrebbe raggiungere <strong>per</strong> “liberare l’uomo<br />

dal bisogno”, può avvenire solo attraverso un’economia solidale ed uno sviluppo<br />

<strong>civile</strong> ed essi passano attraverso la dimensione locale <strong>del</strong>lo sviluppo e attraverso il<br />

capitale umano e sociale.<br />

6


I problemi fondamentali hanno <strong>una</strong> doppia natura, etica ed ecologica e come si vedrà<br />

i vari autori che si incontreranno pongono questi due aspetti in primo piano. Il<br />

problema ecologico viene affrontato sistematicamente nel capitolo quinto; quello<br />

etico accompagna tutto il lavoro. La separazione <strong>del</strong>la scienza economica dall’etica<br />

ha causato e causa un grave deficit di capacità di analisi <strong>del</strong>l’economia stessa.<br />

La scienza economica ha smesso di indagare i fini <strong>per</strong> occuparsi dei mezzi dopo aver<br />

reciso il cordone che la legava ai principi morali. L’economia, al contrario, deve:<br />

“poter spiegare qual è il modo in cui i beni possono maggiormente servire <strong>per</strong><br />

aumentare il benessere, certamente la ricchezza, ma anche la felicità, la felicità che è<br />

inscritta non nei libri di economia, ma lo è in <strong>una</strong> <strong>del</strong>le più grandi costituzioni<br />

politiche <strong>del</strong>la storia, la costituzione americana: happiness, la felicità <strong>del</strong> popolo. Gli<br />

economisti dovrebbero essere coscienti che la ricchezza serve alla felicità, che<br />

l’economia serve all’uomo e non è l’uomo a servire l’economia”. “L’economia non<br />

insegna a produrre. Quello è il compito <strong>del</strong>la tecnica. L’economia insegna a<br />

scegliere. Scegliere quali cose produrre e quali metodi <strong>del</strong>la produzione utilizzare.<br />

Produrre cose utili. Utili, <strong>per</strong> l’economista, significa solo che sono richieste da<br />

qualcuno, <strong>per</strong> qualunque ragione. Qualcuno che è disposto a pagare qualche cosa <strong>per</strong><br />

averle. Si chiamano beni. Anche quando, moralmente parlando, sono mali. Perciò<br />

l’economista è un tipo un po’ cinico. Lui si definirebbe: un realista.” (Ruffolo, 2007,<br />

p.3)<br />

Ciò che mi interessa approfondire, in questo contesto, è proprio il concetto di<br />

sviluppo, idea dinamica <strong>per</strong> definizione, che nella storia <strong>del</strong>la filosofia e<br />

<strong>del</strong>l’economia ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Per effettuare questo<br />

“viaggio” è stato necessario fare <strong>del</strong>le scelte che hanno escluso necessariamente <strong>del</strong>le<br />

tappe importanti attraverso gli innumerevoli contributi <strong>del</strong>le varie scienze umane.<br />

Questo lavoro cercherà di offrire, nella sua prima parte, un quadro interpretativo<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo prendendo come riferimento autori fondamentali nella teoria<br />

economica, dai classici agli autori di mo<strong>del</strong>li di crescita di formazione keynesiana.<br />

La scelta degli autori è stata fatta nel tentativo di seguire un sentiero interpretativo<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo che va dalla sua concezione classica alla sua <strong>critica</strong> più feroce,<br />

attraverso la negazione <strong>del</strong>la stessa crescita. I primi due capitoli hanno il compito di<br />

introdurre il concetto di sviluppo economico attraverso ottiche differenti ma che<br />

7


hanno il denominatore comune <strong>del</strong> “progressismo” 1 . In questi capitoli si analizza in<br />

che modo la teoria <strong>del</strong>lo sviluppo è stata formulata all’interno <strong>del</strong>la scienza<br />

economica. I tre capitoli successivi attraversano i contributi più disparati al concetto<br />

stesso di sviluppo; contributi spesso poco considerati <strong>per</strong> ragioni di contrapposizione<br />

politica (Polanyi, Myrdal, Georgescu – Roegen, etc..) passando <strong>per</strong> teorie più recenti<br />

legate alle varie sensibilità degli autori (Sen, Stiglitz, Latouche, etc..).<br />

Questi primi cinque capitoli forniscono il quadro interpretativo <strong>per</strong> comprendere il<br />

senso <strong>del</strong>le proposte concettuali <strong>del</strong> sesto capitolo dove, coniugando l’economia<br />

<strong>civile</strong> allo sviluppo locale, e avendo ben chiare le critiche esposte nei capitoli<br />

precedenti, si formalizzerà il concetto di sviluppo <strong>civile</strong>.<br />

In conclusione si tenterà di esporre un quadro interpretativo al “problema <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo” tra democrazia economica, localismi, previsioni di scenari e rivendicazioni<br />

di identità.<br />

1 Questo concetto viene spiegato nel primo capitolo nell’introduzione <strong>del</strong> contributo degli economisti<br />

“classici” alla teoria <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

8


CAPITOLO PRIMO:<br />

Il concetto classico di sviluppo<br />

“Prima di provare un forte<br />

interessamento <strong>per</strong> gli altri,<br />

dobbiamo essere a nostro agio. Se<br />

siamo angosciati nella stessa<br />

miseria non abbiamo il tempo di<br />

occuparci di quella <strong>del</strong> vicino”<br />

Adam Smith<br />

“Il ruolo svolto dagli economisti<br />

ortodossi, il cui buon senso è stato<br />

insufficiente ad arrestarne la<br />

logica sbagliata, è stato<br />

estremamente disastroso.”<br />

J.M. Keynes<br />

Nonostante l’ abitudine degli economisti di considerare i termini crescita e sviluppo<br />

come sinonimi, non si può certo affermare che essi lo siano. Nella sua accezione<br />

economica la crescita è l'aumento di beni e servizi prodotti dal sistema economico in<br />

un dato <strong>per</strong>iodo di tempo, mentre con sviluppo ci si riferisce soprattutto a<br />

modificazioni qualitative di elementi di natura sociale, culturale e politica, oltre che<br />

economica.<br />

La crescita è un concetto riferito alla capacità di un sistema economico di<br />

incrementare la disponibilità di beni e servizi <strong>per</strong> la popolazione. L’usuale<br />

supposizione è che la disponibilità di beni e servizi debba aumentare nel tempo, in<br />

quanto tendenzialmente cresce la popolazione e con essa la domanda di beni. Il tasso<br />

di crescita reale è l'indicatore economico maggiormente utilizzato dagli economisti,<br />

dai governi e dalle organizzazioni economiche internazionali. Spesso è associata<br />

9


direttamente al benessere <strong>del</strong>la popolazione, ma la relazione tra le misure <strong>del</strong>le<br />

crescita generalmente in uso e il benessere è molto complessa e controversa.<br />

Nell’economia classica la crescita è sinonimo di sviluppo anche se la scienza<br />

economica non era ancora quella “scienza triste” che tutti conoscono.<br />

Il “progressismo” di Marx e Smith è l’elemento centrale <strong>del</strong>l’analisi economica e <strong>per</strong><br />

questo lo sviluppo può essere solamente crescita, progresso verso la pros<strong>per</strong>ità, <strong>una</strong><br />

crescita che <strong>per</strong>ò non deve essere fine a se stessa ma deve avere <strong>una</strong> naturale finalità,<br />

cioè la fine <strong>del</strong> bisogno e la felicità.<br />

Per i classici la crescita, non è la mera ricerca di punti <strong>per</strong>centuali di Pil o il libero<br />

consumismo, bensì è uno strumento fondamentale <strong>per</strong> fini molto più “nobili”.<br />

E’ importante sottolineare come l’impostazione classica, al contrario di quella<br />

neoclassica, si concentri sugli elementi dinamici e non statici <strong>del</strong>l’economia: “Il<br />

sistema classico è diretto verso l’analisi di sequenze temporali; il metodo è dinamico,<br />

nel senso che le sequenze sono irreversibili. I marginalisti impiegano il metodo<br />

statico: si ipotizza che l'economia sia stazionaria (che la quantità e le caratteristiche<br />

<strong>del</strong>la popolazione restino costanti nel tempo e non vi siano cambiamenti di<br />

tecnologia né di scarsità <strong>del</strong>le risorse e i gusti dei consumatori siano invariati).<br />

L’economia marginalista si basa sul principio di sostituzione: nel campo <strong>del</strong><br />

consumo riconosce la sostituibilità tra un paniere di beni e un altro; nella produzione<br />

tra <strong>una</strong> combinazione di fattori e un’altra. L’analisi è fatta in termini di possibilità<br />

alternative tra cui i soggetti possono scegliere. Il metodo richiede che le alternative<br />

siano a<strong>per</strong>te e che decisioni siano reversibili. Nella misura in cui le alternative siano<br />

a<strong>per</strong>te le decisioni dei soggetti economici sono s<strong>per</strong>imentali e quindi reversibili. Il<br />

processo di sostituzione può quindi continuare finché l’o<strong>per</strong>are <strong>del</strong> mercato porta alla<br />

produzione massima dei produttori e alla massima utilità dei consumatori. Per i<br />

marginalisti il consumo e non l’accumulazione è movente principale <strong>del</strong>la attività<br />

economica... e la sovranità dei consumatori si sostituisce alla sovranità dei capitalisti.<br />

Una volta considerata l’accumulazione come la forza motrice che sottostà all’attività<br />

economica, si riconosce l’esistenza di <strong>una</strong> classe capitalistica che grazie alla<br />

proprietà <strong>del</strong> capitale gode <strong>del</strong> privilegio di impiegare il lavoro. Se si considera il<br />

consumo come la forza motrice lo scopo <strong>del</strong>l’economia è la soddisfazione dei<br />

bisogni umani. C’è ragione di credere che la ricerca dei marginalisti di un approccio<br />

10


alternativo alla teoria economica, ricerca chiaramente scientifica, avesse uno scopo<br />

intrinsecamente politico. Appare innegabile il collegamento tra l’avvento <strong>del</strong><br />

marginalismo e il movimento socialista <strong>del</strong> tempo. Nella dimostrazione di Ricardo<br />

che i salari sono in relazione inversa ai profitti è implicito il riconoscimento che il<br />

conflitto di classe è inevitabile nell’economia capitalistica.” (Dasgupta, 1987) 1 .<br />

Nell’economia moderna dopo la svolta marginalista si tende ad ignorare ciò che <strong>per</strong><br />

gli economisti classici era l’elemento centrale <strong>del</strong>la “scienza economica” cioè lo<br />

sviluppo umano e sociale <strong>del</strong>l’uomo, tendendo eccessivamente a considerare gli<br />

elementi amorali ed esclusivamente quantitativi.<br />

In Smith e Marx, e con loro Ricardo, Mill e molti altri, è molto chiaro che il<br />

“nemico” da sconfiggere è la povertà. I vari autori propongono politiche e strumenti<br />

completamente diversi <strong>per</strong> risolvere questo problema ma <strong>per</strong> tutti l’economia non è<br />

la scienza che, <strong>per</strong> Lionel Robbins, “studia la condotta umana” in relazione a risorse<br />

scarse e a fini alternativi. Il concetto di scarsità walrasiano diventa la “legge<br />

<strong>del</strong>l’economia”. “L'economia è indifferente rispetto ai fini, nel senso che essa non è<br />

in grado di dare su di essi un giudizio, allo stesso titolo <strong>per</strong> cui è in grado di dare un<br />

giudizio sui più convenienti usi dei mezzi <strong>per</strong> <strong>per</strong>venire ai fini stessi. Gli scopi che<br />

l'azione umana si prefigge sono naturalmente soggetti ad altri tipi di valutazione, in<br />

sede morale, religiosa, politica, ecc.” spiega Claudio Napoleoni: “Secondo questa<br />

concezione l'economia è <strong>una</strong> scienza positiva, libera cioè da giudizi di valore”<br />

(Napoleoni, 1963). L’idea sull’economia di Smith e Marx - ma anche in parte di<br />

Keynes - non è certo quella di Robbins, così come l’idea stessa di sviluppo è<br />

necessariamente diversa.<br />

In molti economisti classici le innovazioni istituzionali hanno avuto un peso rilevante<br />

e sia Smith che Marx individuano nella classe borghese il motore <strong>del</strong>lo sviluppo in<br />

contrasto ad un classe nobiliare conservatrice e corporativa. Smith e Marx, che in<br />

questo capitolo sono presi come esempi <strong>del</strong>la concezione classica <strong>del</strong>lo sviluppo,<br />

sono entrambi “modernisti” e “progressisti” invocando a gran voce l’abolizione di<br />

“privilegi esclusivi”.<br />

1 La citazione è contenuta nella relazione di Luciano Iacoponi al XLII convegno Sidea <strong>del</strong> 22-23<br />

febbraio 2005<br />

11


Ritengo che il contributo di economisti come Smith, Ricardo, Marx e Schumpeter<br />

siano fondamentali <strong>per</strong> comprendere come il problema “originario” <strong>del</strong>l’economia<br />

sia lo sviluppo, legando questo concetto alla produttività; nell’economia<br />

marginalista, al contrario, l’elemento centrale è lo scambio e quindi l’equilibrio.<br />

Nei primi due paragrafi di questo capitolo si analizzeranno le teorie sullo sviluppo<br />

presenti in due pensatori fondamentali <strong>per</strong> l’economia classica (Smith e Marx)<br />

evidenziando come le loro soluzioni siano spesso in a<strong>per</strong>to contrasto tra loro, ma<br />

come rappresentino l’ ideal- tipo di un’idea progressista <strong>del</strong>lo sviluppo stesso.<br />

Nel terzo paragrafo è mia intenzione concentrare l’attenzione su colui che più ha<br />

influito sul pensiero economico dominante in gran parte <strong>del</strong> Novecento, cioè J. M.<br />

Keynes. Questo paragrafo sottolinea l’importanza <strong>del</strong>l’o<strong>per</strong>a <strong>del</strong>l’economista inglese<br />

nel dare il via a tutte le teorie sullo sviluppo ponendosi in modo critico nei confronti<br />

<strong>del</strong>la scuola neoclassica. Keynes, e la crisi degli anni ’30, forniscono il riferimento<br />

ideale <strong>per</strong> quasi tutte le teorie sullo sviluppo considerate nel capitolo successivo.<br />

L’ultimo paragrafo è dedicato ad offrire al lettore <strong>una</strong> veloce sintesi di alcuni mo<strong>del</strong>li<br />

di crescita di stampo post -keynesiano: quelli di Harrod- Domar e di Kaldor,<br />

a<strong>per</strong>tamente ispirati al lavoro di Keynes, ma anche il mo<strong>del</strong>lo neo-classico di Solow,<br />

riferimento centrale di questa visione.<br />

Per ragioni di spazio e di rilevanza rispetto ai temi dei capitoli successivi non si<br />

tratteranno altri mo<strong>del</strong>li di crescita come quello <strong>del</strong>lo sviluppo dualistico di Kuznets<br />

o quello di Lewis <strong>per</strong> i quali rimando nei vari testi di Economia <strong>del</strong>lo sviluppo.<br />

12


Adam Smith e lo sviluppo nella società mercantile<br />

L’idea <strong>del</strong> progresso e <strong>del</strong>la crescita è sempre stata presente nella filosofia<br />

illuministica e trovò nell’illuminismo scozzesi uno dei suoi portavoce più affermati,<br />

cioè Adam Smith.<br />

Il filosofo scozzese, così come gli altri economisti classici, fondarono la loro teoria<br />

sulla ricchezza <strong>del</strong>la nazioni su tre elementi fondamentali: capitale, terra e lavoro.<br />

Smith attribuisce la priorità <strong>del</strong>la crescita pro capite, la quale dipende in primo luogo<br />

dalla produttività <strong>del</strong> lavoro. Per Sylos Labini l’obiettivo di Smith “ è sradicare la<br />

miseria <strong>per</strong>seguendo lo sviluppo economico non come fine in sé, ma <strong>per</strong> il fine che<br />

veramente conta, lo sviluppo <strong>civile</strong>”, concetto che rivedremo in modo più<br />

approfondito negli ultimi capitoli (Sylos Labini, 2004).<br />

Il filosofo scozzese, considerato il padre <strong>del</strong>l’economia classica, fu certamente<br />

espressione <strong>del</strong>la scuola liberale britannica che aveva in Locke ed Hume i suoi<br />

rappresentanti di maggior prestigio. Adam Smith è sempre stato associato alla sua<br />

o<strong>per</strong>a più famosa “La ricchezza <strong>del</strong>le nazioni” anche se il realtà lo studioso<br />

britannico è stato prima di tutto un importante esponente <strong>del</strong>la filosofia morale<br />

contribuendo all’arricchimento <strong>del</strong>le teorie che, prima di lui, Hobbes, Locke e<br />

Mendeville avevano formato. Allievo <strong>del</strong> filosofo Hutchenson, il giovane Smith gli<br />

succede alla cattedra di filosofia morale pubblicando nel 1759 <strong>una</strong> <strong>del</strong>le sue o<strong>per</strong>e<br />

più importanti “Teoria dei sentimenti morali”. Per comprendere veramente le sue<br />

argomentazioni economiche non si può non prescindere da quest’o<strong>per</strong>a di filosofia<br />

morale; etica ed economia si fondano nel pensiero <strong>del</strong> filosofo scozzese.<br />

Il concetto fondamentale <strong>del</strong>la filosofia smithiana è il principio di simpatia, che sarà<br />

il denominatore comune <strong>del</strong>la sua teoria <strong>del</strong>la “mano invisibile”.<br />

Adam Smith descrive un sistema morale fondato sul principio di simpatia che<br />

comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce<br />

dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. Per simpatia,<br />

sentimento innato nell'uomo, va intesa la capacità di identificarsi nell'altro, la<br />

capacità di mettersi al posto <strong>del</strong>l'altro e a comprenderne i sentimenti in modo da<br />

potere ottenere l'apprezzamento e l'approvazione altrui. Da questo sentimento gli<br />

individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è<br />

13


allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che<br />

l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e<br />

intersoggettivo. Il mercato e la mano invisibile sono il terreno e lo strumento <strong>per</strong> il<br />

naturale corso <strong>del</strong>lo sviluppo economico.<br />

Per Adam Smith, ne “La ricchezza <strong>del</strong>la nazioni”, lo schema di sviluppo economico<br />

può essere riassunto come un “progresso naturale <strong>del</strong>la pros<strong>per</strong>ità”.<br />

Il criterio di valutazione <strong>del</strong> progresso economico è il valore <strong>del</strong> prodotto annuale e<br />

<strong>del</strong>la sua crescita, che è funzione <strong>del</strong>la quantità di lavoro produttivo impiegato e dal<br />

valore prodotto <strong>per</strong> unità di lavoro. Il motore <strong>del</strong>lo sviluppo è l’accumulazione <strong>del</strong><br />

capitale che aumenta grazie al risparmio di reddito di un determinato <strong>per</strong>iodo. Il<br />

risparmio è, <strong>per</strong> i classici, assimilabile all’investimento. In questo modo l’elemento<br />

centrale <strong>per</strong> lo sviluppo è il risparmio, quindi la parsimonia dei privati e <strong>del</strong>lo Stato.<br />

Alle spalle <strong>del</strong>la parsimonia <strong>per</strong>ò c’è l’o<strong>per</strong>osità che rende possibile l’accumulazione<br />

<strong>del</strong> capitale. Il progresso naturale si svolge secondo <strong>una</strong> serie precisa di fasi<br />

successive: “quanto è maggiore la quota di [capitale] impiegata nell’agricoltura, tanto<br />

maggiore sarà la quantità di lavoro produttivo che esso mette in moto all’interno <strong>del</strong><br />

paese; e tanto maggiore sarà pure il valore che tale impiego di capitale aggiunge al<br />

prodotto annuo <strong>del</strong>la terra e <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong>la società. Dopo l’agricoltura è il capitale<br />

impiegato nelle manifatture che mette in moto la più grande quantità di lavoro<br />

produttivo e che aggiunge il maggior valore al prodotto annuo.” (Smith, 1973, p.360)<br />

Secondo Smith l’aumento l’investimento è come l’acqua che passa da <strong>una</strong> vasca ad<br />

un’altra in <strong>una</strong> serie di “allagamento” continuo: l’accumulazione di capitale in un<br />

settore provoca l’aumento di produzione e a sua volta abbiamo un eccedenza di<br />

prodotto e capitale che straripano in un altro settore e così via. I sovrappiù di<br />

produzione e di capitale regolano lo sviluppo naturale <strong>del</strong>l’economia.<br />

La volontà naturale degli uomini ad aumentare il proprio patrimonio e la propria<br />

condizione porta, quindi, ad un progresso continuo e naturale. La produttività è al<br />

centro <strong>del</strong> ragionamento smithiano ed aumenta con il progresso <strong>del</strong>la divisione <strong>del</strong><br />

lavoro.<br />

Il progresso economico costituisce, secondo l’economista scozzese, un “ordine di<br />

cose che in generale, anche se non in ogni singolo paese, è imposto dalla necessità, è<br />

promosso in ogni singolo paese dalle inclinazioni naturali <strong>del</strong>l’uomo” (1973, p.374).<br />

14


Smith dimostra in questo passaggio il suo “progressismo” ed “eurocentrismo” dove il<br />

progresso deve essere al centro <strong>del</strong>l’azione umana conforme a natura e ragione. Il<br />

padre degli economisti dimostra l’impostazione peculiare di tutti gli economisti che<br />

lavorano “<strong>per</strong> lo sviluppo economico” e che cerco di riassumere in questo primo<br />

capitolo.<br />

L’economista scozzese <strong>per</strong>ò evidenzia come questo ordine naturale <strong>del</strong>le cose sia<br />

stato nel corso <strong>del</strong>la storia rovesciato sotto molteplici aspetti. Questo rovesciamento<br />

ha instaurato un ordine <strong>del</strong>le cose che essendo innaturale è stato lento e retrogrado.<br />

L’ordine storico non ha seguito l’ordine naturale a causa di azioni artificiali che <strong>per</strong>ò<br />

non possono dipendere dall’azione umana <strong>del</strong> singolo individuo bensì da “istituzioni<br />

umane” che vengono rappresentate da gruppi sociali il cui interesse particolare si<br />

oppone all’interesse generale. Inoltre questi gruppi devono essere portatori di un<br />

potere tale da influire in modo così distorsivo sul corso naturale <strong>del</strong>le cose. Questi<br />

gruppi di potere sono le oligarchie.<br />

Il libero mercato è lo strumento di espansione <strong>del</strong> marcato <strong>del</strong> lavoro ed esso deve<br />

essere immune dagli interventi statali. Lo stato deve concentrarsi sulla salvaguardia<br />

<strong>del</strong>la proprietà privata e sulla difesa, evitando di intervenire direttamente<br />

sull'economia. Perché, dice Smith, se lo stato interviene nell'economia finirebbe col<br />

favorire qualcuno a scapito di altri e dunque alimenterebbe le tendenze<br />

monopolistiche <strong>del</strong>la classe capitalistica: il meglio che lo stato può fare in economia<br />

è salvaguardare la libertà di commercio, cioè la concorrenza, contro l'oligarchia.<br />

La condizione <strong>del</strong> rovesciamento <strong>del</strong>l’ordine naturale è dunque la formazione di <strong>una</strong><br />

oligarchia il cui interesse particolare non coincide con l’interesse generale e che può,<br />

tramite lo Stato, imporre la sua volontà all’intera società.<br />

La concezione di Stato di Smith è la prima formulazione sistematica <strong>del</strong> liberalismo<br />

ed è visibilmente influenzata dall’economicismo cioè il riduzionismo funzionalistico<br />

<strong>del</strong>l’apparato statuale. Il liberalismo di Smith, come condizione ideale di sviluppo,<br />

può essere riassunto così: “Avendo così scartato tutti i sistemi sia di preferenza che<br />

di limitazione, il sistema semplice ed ovvio <strong>del</strong>la libertà naturale si stabilisce<br />

spontaneamente da solo. Ognuno, nella misura in cui non viola le leggi <strong>del</strong>la<br />

giustizia, è lasciato <strong>per</strong>fettamente libero di <strong>per</strong>seguire il suo interesse a modo suo, e<br />

di mettere in concorrenza sia la sua attività che il suo capitale con quelli di chiunque<br />

15


altro o qualsiasi ordine sociale. Il sovrano è completamente dispensato da un<br />

compito, nel tentativo di attuare il quale sarà sempre esposto ad innumerevoli<br />

<strong>del</strong>usioni, e <strong>per</strong> la giusta attuazione ness<strong>una</strong> saggezza o conoscenza umana potrà mai<br />

essere sufficiente: il compito di sovrintendere all’attività produttiva dei privati e di<br />

indirizzarla verso gli impieghi più confacenti all’interesse <strong>del</strong>la società”. Lo Stato<br />

“ha solo tre compiti da svolgere, tre compiti di grande importanza, in effetti, ma<br />

chiari e comprensibili <strong>per</strong> ogni intelletto: primo il compito di proteggere la società<br />

dalla violenza e dall’invasione <strong>del</strong>le altre società indipendenti; secondo, il compito di<br />

proteggere, <strong>per</strong> quanto è possibile, ogni membro <strong>del</strong>la società stessa, cioè il dovere di<br />

stabilire un’esatta giustizia; terzo, il compito di esigere e di conservare certe o<strong>per</strong>e<br />

pubbliche e certe pubbliche istituzioni la cui edificazione e conservazione non<br />

possono mai essere interesse a un singolo individuo o a un piccolo numero di<br />

individui, anche se può spesso rimborsarlo abbondantemente a <strong>una</strong> grande società”<br />

(1973, p.681).<br />

Tralasciando i primi due ruoli affidati allo Stato (difesa e giustizia) Smith parla<br />

a<strong>per</strong>tamente di “istituzioni pubbliche” che si occupino <strong>del</strong>l’interesse generale e non<br />

particolare. Uno Stato che non deve intervenire in economia ma che deve evitare che<br />

gli interessi particolari vincano sull’interesse generale. Attraverso questo punto che è<br />

fondamentale <strong>per</strong> assicurare il corso naturale <strong>del</strong>lo sviluppo tramite il mercato,<br />

l’analisi smithiana consiste principalmente ad un <strong>critica</strong> al monopolio.<br />

Qui nasce quelli che molti individuano come contraddizione nel pensiero liberale<br />

<strong>del</strong>l’economista scozzese: lo Stato è condizione necessaria <strong>del</strong> monopolio. La<br />

soluzione <strong>del</strong> problema <strong>del</strong> monopolio è quindi l’eliminazione <strong>del</strong>l’interventismo<br />

statale. E’ interessante notare come il ruolo <strong>del</strong>lo Stato <strong>per</strong>ò possa diventare da<br />

negativo a positivo se il controllo di esso sia esercitato da un classe il cui interesse è<br />

quello generale e non particolare. Ma lo Stato <strong>per</strong> Smith, nella sua visione puramente<br />

economicista, è privo di razionalità economica al contrario <strong>del</strong> mercato. Il mercato è<br />

il luogo <strong>del</strong>la razionalità economica complessiva, lasciando allo Stato un ruolo<br />

marginale e poco chiaro. Riassumendo si può affermare che <strong>per</strong> Smith la “mano<br />

invisibile” ed il libero mercato siano quindi strumenti di giustizia contro prepotenze<br />

di oligarchie che tendono al monopolio attraverso lo Stato. In quest’ottica il<br />

16


liberismo smithiano sembra seguire un filone “liberal” di lotta ai poteri conservatori<br />

e “retrogradi” <strong>del</strong>la società inglese dei suoi tempi.<br />

La visione anti- oligarchica di Smith sembra <strong>una</strong> contraddizione in termine nei<br />

confronti <strong>del</strong> liberismo moderno che tende ad ignorare questi gruppi sociali che<br />

fanno pressioni affinché l’interesse particolare prevalga su quello generale.<br />

L’economista scozzese sembra <strong>per</strong>ò ridurre questa questione all’interventismo statale<br />

come “braccio” <strong>del</strong>l’oligarchia e offrendo <strong>una</strong> soluzione semplicistica al problema:<br />

l’eliminazione <strong>del</strong>l’intervento statale in economia.<br />

Non si capisce <strong>per</strong>ché il mercato, entità astratta, possa essere il luogo <strong>del</strong>la<br />

razionalità economica in funzione di quello sviluppo che <strong>per</strong> Smith, quindi, non è<br />

salvaguardato se lo stato interviene nell'economia <strong>per</strong>ché esso finirebbe col favorire<br />

qualcuno a scapito di altri e dunque alimenterebbe le tendenze monopolistiche <strong>del</strong>la<br />

classe capitalistica: il meglio che lo stato può fare in economia è salvaguardare la<br />

libertà di commercio, cioè la concorrenza, contro l'oligarchia.<br />

Di qui dunque <strong>una</strong> distinzione netta - anche se spesso dimenticata - tra due concetti<br />

chiave <strong>del</strong>l'analisi economica e <strong>del</strong>la ricerca storica e antropologica rivolta<br />

all'economia: mercato e capitalismo. Il mercato, se lasciato libero di o<strong>per</strong>are, è un<br />

meccanismo in grado di garantire la pace sociale e il massimo benessere possibile.<br />

Ma il ceto capitalistico che si oppone al libero mercato, in combutta con lo stato, può<br />

rovinare quell'armonia ed il conseguente “progresso naturale <strong>del</strong>la pros<strong>per</strong>ità”.<br />

Un’interpretazione volutamente liberista di Smith ha certamente contribuito<br />

all'ambiguità <strong>del</strong> concetto di mercato e <strong>del</strong>la conseguente ideologia politica<br />

antistatalista: lanciando da un lato l'idea <strong>del</strong>la "mano invisibile" che governa il<br />

sistema <strong>del</strong>la domanda e <strong>del</strong>l'offerta senza bisogno di regole pubbliche; ma dall'altro<br />

ammettendone i limiti quando esprime esplicitamente la consapevolezza <strong>del</strong> fatto che<br />

in fondo il più importante e temibile avversario <strong>del</strong>la concorrenza è l'oligarchia, <strong>del</strong>la<br />

quale lo stato può diventare strumento. Per questo il filosofo scozzese prevede un<br />

sistema giudiziario che garantisca lo svolgersi <strong>del</strong> naturale corso verso la pros<strong>per</strong>ità<br />

senza che “gruppi sociali dominanti” facciano prevalere l’interesse privato su quello<br />

pubblico.<br />

Nel sistema smithiano questo non produce <strong>una</strong> contraddizione <strong>per</strong>ché di fatto<br />

l'oligarchia capitalistica si sviluppa solo se aiutata dallo stato. Questa è <strong>una</strong><br />

17


conclusione che oggi appare troppo semplicistica: poiché l'oligarchia capitalista<br />

preesiste a qualunque o<strong>per</strong>azione liberista e non trae origine solo dal supporto <strong>del</strong>la<br />

politica, sicché di fatto la riduzione <strong>del</strong> ruolo economico <strong>del</strong>lo stato, anche nella<br />

forma moderna <strong>del</strong>la deregolamentazione, non provoca solo la liberazione <strong>del</strong>l'effetto<br />

armonizzante <strong>del</strong>la mano invisibile ma anche e soprattutto l'esplosione <strong>del</strong> potere di<br />

quei gruppi sociali che lo stesso Smith individuava come i primi nemici <strong>del</strong> mercato.<br />

L’oligarchia capitalista si riproduce e si rafforza anche senza lo Stato poiché questa<br />

entità, quasi teologica, che è il “mercato”, in realtà è solo uno strumento non privo di<br />

“fallimenti”. Quasi tutti gli elementi di un dibattito plurisecolare sono dunque già<br />

posti nell'o<strong>per</strong>a di Smith. Mercato e interesse. Razionalità e armonia sociale.<br />

Pubblico e privato. Ma anche concorrenza e oligarghia. La tesi liberale è nata nella<br />

sua interpretazione più innovativa e <strong>per</strong>icolosa <strong>per</strong> i ceti sociali dominanti: la mano<br />

invisibile diventa un “deus ex machina” che non è più lo strumento che Smith vedeva<br />

guidato dal principio di simpatia ma un fine taumaturgico che va lasciato libero di<br />

agire senza controllo sociale o politico.<br />

Il corso naturale <strong>del</strong>lo sviluppo che ha profonde radici filosofiche diventa nei decenni<br />

a venire <strong>una</strong> legge naturale da difendere in chiave antistatalista e sono gli stessi<br />

poteri oligarchici a trasformare questo strumento nato in funzione anti- corporativa<br />

come mezzo stesso <strong>del</strong>l’affermazione <strong>del</strong> proprio potere in senso conservatore.<br />

Questa grave distorsione <strong>del</strong> pensiero <strong>del</strong>l’economista scozzese viene individuato da<br />

Alessandro Roncaglia nella reinterpretazione di Dugald Steward, primo biografo di<br />

Adam Smith. Roncaglia scrive: “Assieme a Hume, Smith viene considerato un<br />

<strong>per</strong>icoloso sovversivo dagli intellettuali conservatori <strong>del</strong>l’epoca. Il punto è che tutti<br />

questi pensatori, favorevoli o avversi alle posizioni di Smith, non <strong>per</strong>cepivano alc<strong>una</strong><br />

cesura tra il liberismo in campo politico e quello in campo economico, tra la difesa<br />

<strong>del</strong>la libertà (freedom) e la difesa <strong>del</strong> libero commercio (free trade)”. Il mutamento<br />

<strong>del</strong> clima politico dovuto al Terrore francese porta il biografo di Smith a rendere le<br />

tesi <strong>del</strong> filosofo scozzese più accettabili, distinguendo liberismo economico e<br />

liberalismo politico. Roncaglia aggiunge: “Con questa sottile reinterpretazione, <strong>una</strong><br />

tesi politicamente progressista che pone in rilievo la necessità di combattere le<br />

concentrazioni di potere di ogni tipo viene trasformata in <strong>una</strong> tesi conservatrice, che<br />

nella fase <strong>del</strong>l’industrializzazione giunge ad assumere connotati reazionari, fungendo<br />

18


da giustificazione <strong>per</strong> un disinteresse completo <strong>del</strong>la nuova classe imprenditrice<br />

verso i pesanti costi umani <strong>del</strong>le nuove tecniche produttive e verso la miseria diffusa<br />

nella società: qualcosa di molto lontano dalla sensibilità ripetutamente dimostrata<br />

dall’economista scozzese <strong>per</strong> le sofferenze umane, e dal suo interesse <strong>per</strong> il continuo<br />

miglioramento <strong>del</strong>le condizioni di vita <strong>del</strong>la grande massa <strong>del</strong>la popolazione”<br />

(Roncaglia,, 2001).<br />

In questo breve riassunto <strong>del</strong> pensiero di Smith sullo sviluppo abbiamo incontrato<br />

interpretazioni che spesso possono essere in contrasto l’<strong>una</strong> con l’altra rendendo la<br />

figura <strong>del</strong> filosofo scozzese prima come il padre di uno sfrenato liberismo economico<br />

dopo come il saggio padre di uno strumento anti-conservatore che non deve <strong>per</strong>dere<br />

di vista il fine, cioè lo sviluppo <strong>civile</strong>. Smith è tutto questo. Spesso ci si dimentica <strong>del</strong><br />

principio di simpatia <strong>per</strong>dendo, a mio parere, il senso stesso <strong>del</strong>la filosofia smithiana<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo (pros<strong>per</strong>ità e fine <strong>del</strong>la povertà <strong>per</strong> uno sviluppo <strong>civile</strong>).<br />

In questo paragrafo mi sembra corretto fare anche un piccolo accenno a David<br />

Ricardo che non si occupò mai esplicitamente di sviluppo economico ma che nella<br />

sua o<strong>per</strong>a non mancò di individuare gli elementi frenanti <strong>del</strong>lo sviluppo. L'analisi<br />

<strong>del</strong>la distribuzione dei redditi servì a Ricardo <strong>per</strong> formulare <strong>una</strong> teoria "pessimistica"<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo economico capitalistico. Posta come condizione allo sviluppo stesso<br />

l'esistenza di un saggio di profitto sufficientemente elevato da <strong>per</strong>mettere un'adeguata<br />

accumulazione di capitale e quindi un aumento <strong>del</strong>la produzione, l'economista<br />

inglese rilevò che la tendenza <strong>del</strong> saggio di profitto a diminuire (in quanto la<br />

necessità di coltivare terre sempre meno fertili in seguito allo sviluppo demografico<br />

avrebbe determinato da <strong>una</strong> parte un aumento <strong>del</strong>la rendita e dall'altra un aumento<br />

<strong>del</strong> prezzo <strong>del</strong>le derrate alimentari e quindi dei salari correnti) avrebbe frenato lo<br />

sviluppo economico. Questa teoria, nota come “la caduta tendenziale <strong>del</strong> saggio <strong>del</strong><br />

profitto”, ispirerà Marx nella formulazione <strong>del</strong>le sue teorie, alle quali rimando nel<br />

prossimo paragrafo.<br />

19


Karl Marx: sviluppo capitalistico<br />

Karl Marx può essere certamente considerato uno dei più grandi economisti classici<br />

che si è occupato di sviluppo economico.<br />

Il contributo di Marx allo sviluppo <strong>del</strong> pensiero economico è molto importante a<br />

prescindere dal suo progetto rivoluzionario. Per questo motivo, nel valutare tale<br />

contributo alla scienza economica è importante tenere presente il quadro in cui si<br />

iscrive, ma allo stesso tempo evitare di farsene travolgere, come se tutti gli elementi<br />

<strong>del</strong>la costruzione marxiana reggessero o cadessero insieme al progetto<br />

rivoluzionario.<br />

In questo paragrafo cercherò di riassumere la posizione <strong>del</strong> filosofo tedesco nei<br />

confronti <strong>del</strong>lo sviluppo con continui richiami a coloro che elaborarono le proprie<br />

teorie avendo come base le argomentazioni di Marx: lo sviluppo ciclico che divenne<br />

elemento fondamentale nell’o<strong>per</strong>a di Schumpeter ma anche il processo di sviluppo<br />

presente nel mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>l’economista torinese Sraffa.<br />

Il debito di Schumpeter è verso il Marx studioso <strong>del</strong>lo sviluppo economico e, in<br />

particolare, alla sua concezione di tale sviluppo come basato su un meccanismo<br />

autopropulsivo. Concezione analoga, sottolinea Schumpeter, a quella presente nella<br />

sua Teoria <strong>del</strong>lo sviluppo economico (Schumpeter 1937) Nel comporre la Teoria,<br />

leggiamo nella prefazione <strong>del</strong>l’autore all’edizione giapponese <strong>del</strong>l’o<strong>per</strong>a, egli si era<br />

proposto di formulare: “<strong>una</strong> teoria economica pura <strong>del</strong>lo sviluppo economico, che<br />

non facesse assegnamento soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema<br />

economico da un equilibrio all’altro... questa idea e questa intenzione sono<br />

esattamente le stesse che stanno alla base <strong>del</strong>la dottrina economica di Karl Marx. In<br />

effetti, ciò che lo distingue dagli economisti <strong>del</strong> suo tempo come da quelli che lo<br />

precedettero è <strong>una</strong> visione <strong>del</strong>l’evoluzione economica come di un processo<br />

particolare generato dal sistema economico stesso” (Sylos Labini, 1973, p.LX).<br />

Paolo Sylos Labini nel saggio Il problema <strong>del</strong>lo sviluppo economico in Marx e<br />

Schumpeter 2 , analizza la teoria <strong>del</strong>lo sviluppo in Marx proprio confrontandola con<br />

quella schumpeteriana. In questo paragrafo mi occu<strong>per</strong>ò <strong>del</strong>la prima accennando<br />

solamente allo sviluppo ciclico di Schumpeter.<br />

2 Il saggio è contenuto in: Economie capitalistiche ed economie pianificate, Laterza, 1960<br />

20


In Marx, così come era anche <strong>per</strong> Smith e Ricardo, il vero motore <strong>del</strong>lo sviluppo è<br />

l’accumulazione , ossia dall’impiego produttivo (impiego che genera plusvalore)<br />

ossia ancora dall’investimento <strong>del</strong> reddito netto; essa si fonda su <strong>una</strong> riproduzione<br />

continua su <strong>una</strong> scala allargata. Per Marx la società capitalistica non è e non può<br />

essere stazionaria.<br />

I diversi elementi che stanno alla base <strong>del</strong>l’analisi <strong>del</strong> processo di sviluppo contenuta<br />

nel capitolo XXIII <strong>del</strong> primo libro <strong>del</strong> Capitale sono: (a) l’introduzione <strong>del</strong>le<br />

macchine, prima di tutto, che consente di ridurre i costi e di ottenere un “plusvalore<br />

straordinario” – a condizione, in generale, che venga aumentata la scala produttiva;<br />

(b) il conseguente stimolo alla riduzione dei prezzi, che mette alla frusta i<br />

concorrenti, costringendoli ad adottare a loro volta i nuovi metodi di produzione; (c)<br />

la spinta che ne deriva all’investimento e all’assorbimento di lavoratori addizionali,<br />

che può condurre all’assottigliamento <strong>del</strong>l’“esercito industriale di riserva”, formato<br />

dai disoccupati, e al rafforzamento <strong>del</strong> potere contrattuale dei lavoratori; (d)<br />

l’aumento dei salari e la corrispondente diminuzione <strong>del</strong> saggio <strong>del</strong> profitto; se<br />

oltrepassa un certo limite, la diminuzione <strong>del</strong> saggio <strong>del</strong> profitto provoca <strong>una</strong> caduta<br />

<strong>del</strong>l’incentivo a investire, conducendo a <strong>una</strong> crisi; nel contempo, l’aumento dei salari<br />

fornisce un potente stimolo alla sostituzione <strong>del</strong> lavoro con macchine; (e) si<br />

ricostituisce, <strong>per</strong> entrambe le vie, l’“esercito industriale di riserva”, mentre<br />

l’introduzione <strong>del</strong>le macchine dà impulso a un nuovo ciclo di accumulazione.<br />

Ma da dove proviene la necessità <strong>del</strong>l’accumulazione e quindi <strong>del</strong>lo sviluppo?<br />

“L’accumulazione è la conquista <strong>del</strong> mondo <strong>del</strong>la ricchezza sociale. Essa estende,<br />

oltre la massa <strong>del</strong> materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto ed indiretto <strong>del</strong><br />

capitalista” (Marx, 1989, libro primo, p.52). Questo sta alla base <strong>del</strong> processo che ho<br />

riassunto in alcune righe poco sopra.<br />

Due aspetti <strong>del</strong> quadro qui sommariamente tracciato meritano di essere sottolineati. Il<br />

primo è quello su cui Sylos richiama l’attenzione quando osserva che nell’analisi di<br />

Marx (come in quella di Schumpeter) “trend e ciclo appaiono come due aspetti di un<br />

unico fenomeno; sono, <strong>per</strong> così dire, combinati chimicamente” (Sylos Labini, 1960,<br />

p.64). Quello che viene descritto non è un movimento ciclico che si sovraimpone a<br />

<strong>una</strong> crescita di lungo <strong>per</strong>iodo che ha luogo indipendentemente da esso, ma un<br />

movimento complessivo <strong>del</strong>l’economia che procede in forma ciclica; movimento dal<br />

21


quale solo a posteriori è possibile, se lo si desidera, ricavare un trend di crescita,<br />

facendo statisticamente astrazione dall’aspetto ciclico. Un abisso separa questa<br />

visione da quelle teorie che ritengono di poter fare astrazione dal ciclo nell’analisi<br />

<strong>del</strong>la crescita, concependo le fasi di espansione e di contrazione <strong>del</strong>l’economia come<br />

scostamenti temporanei da un trend predeterminato. In un caso lo schema di<br />

ragionamento è “a<strong>per</strong>to”: dove l’economia si troverà – in termini di reddito effettivo<br />

e potenziale – al termine di un certo numero di cicli dipenderà dalla sequenza di<br />

azioni e reazioni che si sarà dipanata nel tempo. Nell’altro il punto d’arrivo è noto in<br />

anticipo, e nulla di quel che avviene lungo il cammino può modificarlo.<br />

Il secondo aspetto è strettamente connesso a quello appena visto. Ciò che<br />

l’impostazione di Marx, fatta propria da Sylos Labini, induce a negare è non solo che<br />

siano in azione forze capaci di far crescere l’economia al suo saggio “naturale”, ma<br />

anche che abbia senso riferirsi a un simile saggio come a un limite su<strong>per</strong>iore imposto<br />

alla capacità di crescita <strong>del</strong>l’economia. Che la crescita sia limitata dalla disponibilità<br />

di lavoro che spontaneamente si manifesta è un’affermazione che l’es<strong>per</strong>ienza storica<br />

e l’osservazione di quel che accade sotto i nostri occhi fanno apparire ridicola. E’<br />

evidente, infatti, che, in generale, lo sviluppo economico non incontra difficoltà a<br />

procurarsi la manodo<strong>per</strong>a di cui ha bisogno. Marx ci ha insegnato che esso<br />

incessantemente assorbe ed espelle lavoratori, e che i processi di espulsione si<br />

intensificano quando i lavoratori cominciano a scarseggiare. L’offerta e la domanda<br />

di lavoro non possono dunque essere concepite come “due potenze indipendenti che<br />

agiscano l’<strong>una</strong> sull’altra. Les dés sont pipés. Il capitale agisce contemporaneamente<br />

da tutte e due le parti” (Marx, 1989, Libro primo, p.700). Ciò vale, come Marx<br />

sottolinea, sia <strong>per</strong> la produzione industriale che <strong>per</strong> quella agricola. Ma ci sono poi i<br />

colossali trasferimenti di popolazione dall’agricoltura all’industria, che hanno<br />

storicamente accompagnato, e continuano ad accompagnare, lo sviluppo industriale<br />

dei diversi paesi. Per non parlare <strong>del</strong>l’ingresso nel mercato <strong>del</strong> lavoro di masse di<br />

<strong>per</strong>sone che ne restavano ai margini. E degli immani flussi migratori sollecitati dalla<br />

presenza, nei paesi di destinazione, di <strong>una</strong> domanda di lavoro insoddisfatta .<br />

La capacità produttiva, dal canto suo, cresce nel tempo sulla base <strong>del</strong>le occasioni di<br />

investimento create dagli sbocchi commerciali disponibili <strong>per</strong> le merci che essa<br />

consente di produrre. E la stessa crescita <strong>del</strong>la produttività è stimolata non solo<br />

22


dall’aumento dei salari (“effetto di Ricardo”), ma anche dall’espansione <strong>del</strong> mercato<br />

(”effetto di Smith”) 3 .<br />

Ciò, naturalmente, non significa che <strong>una</strong> concezione <strong>del</strong>la crescita come vincolata<br />

dalle risorse non sia giustificata. Significa <strong>per</strong>ò che dobbiamo essere capaci di<br />

distinguere i vincoli imposti arbitrariamente dalla teoria dai vincoli reali, che<br />

nascono dall’esistenza di risorse naturali scarse e dai drammatici problemi<br />

ambientali.<br />

Il limite imposto all’aumento dei salari, e dunque dei consumi di massa, dal<br />

meccanismo descritto prima e l’impulso che lo stesso meccanismo dà allo sviluppo<br />

<strong>del</strong>le forze produttive determinano, secondo Marx, un crescente divario fra<br />

produzione e consumo. Né il rimedio può essere cercato nella crescita <strong>del</strong>la domanda<br />

di beni di investimento, poiché tale crescita non può aver luogo indefinitamente<br />

senza <strong>una</strong> corrispondente crescita dei consumi (Marx, 1989 ,libro terzo, pp.293-303,<br />

366 e 569)<br />

Marx accoglie dunque la tesi dei teorici <strong>del</strong> sottoconsumo, secondo cui la<br />

compressione <strong>del</strong>la quota dei salari sul reddito condanna il sistema capitalistico a <strong>una</strong><br />

cronica insufficienza <strong>del</strong>la domanda. Egli respinge invece un’altra tesi, che nella<br />

tradizione sottoconsumista si presenta come un corollario <strong>del</strong>la precedente: quella<br />

secondo cui l’aumento dei salari ha conseguenze univocamente positive. L’aumento<br />

dei salari, sostiene Marx, allevia bensì il problema <strong>del</strong>l’insufficienza <strong>del</strong>la domanda,<br />

ma fa, nello stesso tempo, diminuire il saggio <strong>del</strong> profitto, aprendo la strada a <strong>una</strong><br />

crisi d’altro tipo. Il sistema capitalistico gli appare <strong>per</strong>ciò stretto in <strong>una</strong><br />

“contraddizione”:<br />

“Contraddizione <strong>del</strong> modo di produzione capitalistico: gli o<strong>per</strong>ai in quanto<br />

compratori <strong>del</strong>la merce sono importanti <strong>per</strong> il mercato. Ma in quanto venditori <strong>del</strong>la<br />

loro merce – la forza-lavoro – la società capitalistica ha la tendenza a ridurli al<br />

minimo <strong>del</strong> prezzo” (Marx, 1989, libro secondo).<br />

Per Marx “quale sia il saggio dei salari, alto o basso, la condizione dei lavoratori<br />

deve peggiorare” (Marx, 1989, libro primo, p. 95). Questa posizione spiega la<br />

convinzione <strong>del</strong> filosofo tedesco di considerare lo sviluppo come un ciclo continuo di<br />

3 cfr. a Torniamo ai classici, Sylos Labini, 2004, p. 18 e capitolo III<br />

23


miglioramento che non influisce sulla condizione dei lavoratori che <strong>per</strong> questo<br />

possono aspirare esclusivamente alla rivoluzione.<br />

Marx non prevedeva in nessun modo che le mutate condizioni sindacali, che lui<br />

riteneva dannose <strong>per</strong>ché inutile palliativo a discapito <strong>del</strong>la rivoluzione, potessero<br />

portare ad <strong>una</strong> relativa redistribuzione <strong>del</strong>le risorse che <strong>per</strong>mise <strong>una</strong> maggiore<br />

dinamicità dei salari verso le classi lavoratici con conseguente sostegno alla domanda<br />

di consumo.<br />

Un ultimo elemento interessante da considerare è la dinamica che porta al<br />

monopolio. Secondo Marx l’accumulazione (quindi lo sviluppo) porta ad <strong>una</strong><br />

concentrazione di capitali e quindi di imprese. Quello che <strong>per</strong> Smith poteva accadere<br />

solo <strong>per</strong> colpa <strong>del</strong>lo Stato, <strong>per</strong> Marx è invece un processo tendenziale di lungo<br />

<strong>per</strong>iodo in <strong>una</strong> società capitalista.<br />

Per Marx la “riproduzione semplice” <strong>del</strong>lo sviluppo tramite l’accumulazione è <strong>una</strong><br />

caratteristica fondamentale <strong>del</strong> sistema capitalistico che sopravvive solo se si rinnova<br />

ma, al contrario di Schumpeter, egli ritiene che codesto sistema sia insopportabile <strong>per</strong><br />

i lavoratori che sono “soffocati” dalla tesi <strong>del</strong>l’immiserimento e che la tendenza al<br />

monopolio possa provocare <strong>una</strong> mutazione <strong>del</strong> sistema.<br />

“La tesi fondamentale di Marx è che il sistema economico fondato sulle imprese<br />

private – il sistema capitalistico – via via che procede nel suo sviluppo tende a creare<br />

condizioni incompatibili con la <strong>per</strong>petuazione <strong>del</strong>lo sviluppo medesimo e a<br />

trasformarsi in un sistema diverso: un sistema “socialistico” (Sylos Labini,<br />

1960,p.72).<br />

In conclusione <strong>per</strong> Marx la crisi generale <strong>del</strong> capitalismo sarebbe dovuta<br />

principalmente alla caduta tendenziale dei profitti e quindi lo sviluppo stesso porta<br />

alla crisi <strong>del</strong> capitalismo e alla sua caduta.<br />

Per Schumpeter, invece, come vedremo nelle prossime righe, il capitalismo è<br />

economicamente stabile ed il suo sviluppo economico non ha limiti di natura<br />

economica, ma politica: “Il capitalismo, pur essendo stabile economicamente, e<br />

<strong>per</strong>fino accrescendo la propria stabilità, crea <strong>una</strong> mentalità ed uno stile di vita<br />

incompatibili con le sue stesse condizioni fondamentali, motivazioni ed istituzioni<br />

sociali. Per questo il capitalismo subirà <strong>una</strong> trasformazione verso un ordinamento che<br />

potrà o no essere definito socialismo semplicemente sulla base dei gusti e <strong>del</strong>le scelte<br />

24


terminologiche. Ciò anche se questa trasformazione non sarà causata da necessità<br />

economica, e probabilmente anche se essa implicherà qualche sacrificio in termini di<br />

benessere economico” (Schumpeter, 1928, p.385-6).<br />

L’economista austriaco è famoso <strong>per</strong> questa sua teoria sullo sviluppo che evolve il<br />

pensiero marxista modificandolo completamente nelle conclusioni.<br />

Il “flusso circolare” di Schumpeter ha alcune differenze rispetto l’idea di<br />

“riproduzione semplice” basata sul plusvalore di Marx. Nel flusso circolare esistono,<br />

oltre ai salari, rendite e redditi di monopolio; non sono presenti profitti ed interessi.<br />

L’economista austriaco distingue “fattori interni” e “fattori esterni” di cambiamento<br />

al sistema economico. Tra questi ultimi ricorda le guerre, i terremoti e gli interventi<br />

<strong>del</strong>l’autorità pubblica. Tra i primi si possono ricordare i cambiamenti nei gusti o i<br />

cambiamenti nei metodi di offerta dei prodotti.<br />

In un nuovo approccio dinamico, assimilabile a quella marxista, Schumpeter<br />

introduce la figura <strong>del</strong>l’imprenditore che introduce nuovi prodotti, sfrutta le<br />

innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative <strong>del</strong>la<br />

produzione. L'imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a<br />

disposizione dalle banche, che remunera con l'interesse, ossia <strong>una</strong> parte <strong>del</strong> profitto<br />

aggiuntivo realizzato grazie all'innovazione.<br />

La teoria <strong>del</strong>le innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l'alternarsi, nel ciclo<br />

economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono<br />

introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni <strong>per</strong>iodi di tempo - che, <strong>per</strong><br />

questo, sono caratterizzati da <strong>una</strong> forte espansione - a cui seguono le recessioni, in<br />

cui l'economia rientra nell'equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio <strong>per</strong>ò, non<br />

uguale a quello precedente, ma mutato dall'innovazione. Le fasi di trasformazione<br />

sotto la spinta di innovazioni maggiori vengono definite da Shumpeter di<br />

"distruzione creatrice", alludendo al drastico processo selettivo che le<br />

contraddistingue, nel quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si<br />

rafforzano.<br />

Il susseguirsi infinito di cicli economici guidati dall’imprenditore- innovatore<br />

salvaguardano il sistema capitalistico dalla fine prevista da Marx.<br />

25


Marx è la base classica di molti ragionamenti sullo sviluppo ed il suo lavoro ispirerà<br />

il mo<strong>del</strong>lo di Sraffa e le sue conclusioni sulla crescita nella “scala allargata” ma<br />

anche molte analisi sullo sottosviluppo che vedremo nel prossimo capitolo (Sweezy).<br />

Per tutti questi motivi ritengo che l’importanza <strong>del</strong>l’impostazione marxista sia<br />

fondamentale <strong>per</strong> coloro che cercano di fornire un quadro <strong>del</strong>la concezione classica<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo. Questa parola è sempre stata considerata come sinonimo di crescita e<br />

ci si è concentrati sulla sua “faccia” classica cioè l’accumulazione.<br />

Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo è necessario accennare al contributo di uno<br />

dei più grande economisti <strong>del</strong> Novecento che, pur non essendo considerato un<br />

“classico”, assume un importanza miliare nella storia dei mo<strong>del</strong>li economici di<br />

crescita: J.M. Keynes è sicuramente l’ispiratore di tutti quei mo<strong>del</strong>li che vedono nella<br />

crescita l’unica via d’uscita dalla miseria e si rendono conto che il mercato da solo<br />

non è in grado di assolvere questo compito.<br />

26


John Maynard Keynes e l’inizio <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

Il pensiero <strong>del</strong>l’economista inglese è certamente <strong>una</strong> <strong>del</strong>le pietre miliari <strong>del</strong>la scienza<br />

economica e se si desidera accennare un quadro sullo sviluppo non si può<br />

prescindere da J.M. Keynes. Ponendosi spesso in contrapposizione con la scuola<br />

liberale neo-classica Keynes offre nuove idee <strong>per</strong> lo sviluppo, allontanandosi dal<br />

laissez faire di Adam Smith e fornendo gli strumenti necessari allo sviluppo: moneta<br />

ed occupazione.<br />

Dopo i classici (Smith, Ricardo e Marx) la scienza economica aveva concentrato i<br />

suoi interessi principalmente sui problemi <strong>del</strong>l’equilibrio in condizione di<br />

riproduzione semplice e sulla base <strong>del</strong> presupposto metodologico secondo il quale i<br />

teoremi fondamentali <strong>del</strong>l’economia hanno validità universale.<br />

La Teoria generale di Keynes e la sua influenza sugli economisti negli anni<br />

successivi costituiscono un punto di rottura con importanti conseguenze. In primo<br />

luogo la posizione <strong>critica</strong> di Keynes nei confronti <strong>del</strong> capitalismo e <strong>del</strong>le sue<br />

insufficienze a garantire la riproduzione con piena occupazione ripropone prospettive<br />

di lunga durata che vedono nel sistema economico capitalista non un mero<br />

presupposto <strong>del</strong>la ricerca economica ma un vero problema. In secondo luogo, anche<br />

se dal punto di vista analitico l’impostazione keynesiana è quella <strong>del</strong>la statica<br />

comparata le domande poste dal lavoro <strong>del</strong>l’economista inglese sollecitano<br />

l’interesse <strong>per</strong> <strong>una</strong> visione dinamica e <strong>per</strong> questa sollecitazione alcuni autori si<br />

pongono negli anni successivi l’obiettivo di dinamizzare il mo<strong>del</strong>lo keynesiano<br />

dando vita ad un insieme di mo<strong>del</strong>li di crescita ai quali accennerò in questo<br />

paragrafo.<br />

In terzo luogo, il fatto che Keynes ammetta la validità <strong>del</strong>la teoria neoclassica nella<br />

situazione, teorica, <strong>del</strong>la piena occupazione, mentre elabora <strong>una</strong> diversa teoria<br />

sull’economia reale caratterizzata da disoccupazione sembra legittimare la ricerca di<br />

teorie reali e particolari diverse da quelle elaborate <strong>per</strong> i paesi<br />

<strong>del</strong>l’industrializzazione. Keynes con la sua o<strong>per</strong>a crea, incrinando il principio<br />

metodologico <strong>del</strong>l’unicità e <strong>del</strong>l’universalità <strong>del</strong>la teoria neoclassica, le basi <strong>per</strong> la<br />

27


formulazione di <strong>una</strong> vera e propria teoria economica <strong>del</strong>lo sviluppo.(Hirschman,<br />

1983, 196-197).<br />

Al centro <strong>del</strong>l’o<strong>per</strong>a keynesiana c’è sicuramente il principio <strong>del</strong>la domanda effettiva,<br />

principio elaborato all’interno di un’analisi di breve <strong>per</strong>iodo in cui si suppone che le<br />

decisioni di investimento siano un dato funzione <strong>del</strong>l’efficienza marginale <strong>del</strong><br />

capitale.<br />

La teoria <strong>del</strong>la domanda effettiva keynesiana spiega il livello di reddito prodotto ed il<br />

livello di occupazione corrispondente in base alle circostanze che regolano<br />

separatamente le decisioni di consumo e le decisioni di investimento.<br />

Questo principio, <strong>per</strong>ò, sembra immerso in <strong>una</strong> visione di lungo <strong>per</strong>iodo<br />

sull’evoluzione <strong>del</strong> sistema economico attraverso la quale si manifestano le cause che<br />

influiscono sulle decisioni di investimento e dunque sull’efficienza marginale <strong>del</strong><br />

capitale. Questa interpretazione <strong>del</strong>l’o<strong>per</strong>a keynesiana <strong>per</strong>mette un su<strong>per</strong>amento <strong>del</strong><br />

riduzionismo neoclassico anche <strong>per</strong> merito di un “seguace” di Keynes, Hansen, che<br />

ampliò questo concetto dando vita alla “teoria <strong>del</strong> ristagno” secondo la quale nel<br />

capitalismo avanzato si ha un eccesso di risparmio rispetto agli sblocchi remunerativi<br />

che si offrono all’investimento. Keynes teorizza che le opportunità di investimento<br />

dipendano da fattori esogeni, quali la crescita <strong>del</strong>la popolazione o l’innovazione<br />

tecnologica, e che essi <strong>per</strong>dano di intensità con l’aumento <strong>del</strong>l’accumulazione. Il<br />

fatto che gli investimenti, quindi la crescita, dipendano da fattori esogeni che sono<br />

decrescenti al procedere <strong>del</strong>l’accumulazione provoca <strong>per</strong> il principio <strong>del</strong>la domanda<br />

effettiva un posizionamento <strong>del</strong> reddito nelle economie capitalistiche inferiore a<br />

quello realizzabile in base al pieno utilizzo <strong>del</strong>le risorse disponibili. Tuttavia il<br />

principio <strong>del</strong>la domanda effettiva è da Keynes applicato solo al breve <strong>per</strong>iodo, quindi<br />

questa sua teorizzazione sul destino “stagnante” <strong>del</strong> capitalismo poggia su basi<br />

teoriche inadeguate. Sarà Harrod a giungere a conclusioni simili a quelle keynesiane<br />

attraverso un mo<strong>del</strong>lo dinamico al quale si accennerà successivamente.<br />

La teoria <strong>del</strong> ristagno dimostra tutti i dubbi keynesiani sulle capacità <strong>del</strong> sistema<br />

economico capitalista di conseguire ritmi adeguati di accumulazione, cioè di poter<br />

garantire i bisogni considerato il problema <strong>del</strong>la scarsità.<br />

Keynes considera il processo di accumulazione capitalistico sostanzialmente<br />

instabile e vede nel sottoinvestimento il vero nemico <strong>del</strong> sistema. Da questo<br />

28


convinzione nascerà la sua teoria <strong>del</strong> moltiplicatore ed il suo interventismo regolatore<br />

nell’economia.<br />

Per l’economista inglese il sistema di accumulazione capitalistico, grazie alle<br />

continue innovazioni tecnologiche, sembra in grado di risolvere “nel giro di un<br />

secolo” quello che egli stesso considera il “problema economico” ossia il<br />

soddisfacimento dei bisogni essenziali <strong>del</strong>l’uomo. “Ciò significa che il problema<br />

economico non è, se guardiamo al futuro, il problema <strong>per</strong>manente <strong>del</strong>la razza<br />

umana” (J.M. Keynes, 1991, p.63)<br />

Una volta eliminato il problema <strong>del</strong>la scarsità, anche il capitalismo, ed il sistema di<br />

valori ad esso connesso che Keynes considera estremamente deprecabile, non avrà<br />

più motivo di essere, in quanto strumento con cui si è raggiunto il fine che si<br />

prefiggeva , e l’umanità se ne potrà liberare <strong>per</strong> dedicarsi ad attività più importanti<br />

alla natura <strong>del</strong>l’uomo. “L’amore <strong>per</strong> il denaro come possesso, e distinto dall’amore<br />

<strong>per</strong> il denaro come mezzo <strong>per</strong> godere i piaceri <strong>del</strong>la vita, sarà riconosciuto <strong>per</strong> quello<br />

che è: <strong>una</strong> passione morbosa, un po’ ripugnante, <strong>una</strong> di quelle propensioni a metà<br />

criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo<br />

specialista di malattie mentali” (p.65).<br />

Questo è l’aspetto <strong>del</strong>la mentalità keynesiana che, a mio parere, si deve sottolineare<br />

quando si parla di sviluppo: <strong>per</strong> l’economista inglese lo sviluppo capitalista è <strong>una</strong><br />

fase necessaria <strong>per</strong> eliminare il problema economico e <strong>per</strong> potersi occupare di ciò che<br />

conta veramente nella vita. La visione <strong>del</strong> più grande economista <strong>del</strong> Novecento, alla<br />

luce <strong>del</strong>la moderna concezione di sviluppo infinito, sembra essere radicalmente<br />

estranea all’economia contemporanea: il denaro come mezzo e non come fine, lo<br />

sviluppo come mezzo e non come fine.<br />

La visione ottimistica di Keynes nei suoi saggi meno tecnici lascia all’intervento<br />

pubblico il “solo” compito di far si che via sia equilibrio tra risparmi ed investimenti<br />

e un maggior controllo <strong>del</strong>le decisioni di investimento affinché siano meno soggette<br />

“al capriccio individuale”. Nella Teoria Generale, dopo la grande Crisi, lo Stato<br />

assume un ruolo molto più invasivo. L’atteggiamento di Keynes nei confronti <strong>del</strong><br />

capitalismo è profondamente mutato. “La <strong>critica</strong> al meccanismo <strong>del</strong> mercato, alle sue<br />

capacità di autoregolazione, lo induce a sollecitare non soltanto l’azione ma la<br />

presenza diretta nell’economia di un soggetto che fino ad allora ne era rimasto in<br />

29


gran parte estraneo.” “Dunque, secondo Keynes, il capitalismo potrà continuare a<br />

svolgere <strong>una</strong> sua funzione produttiva, a risolvere il problema <strong>del</strong>la scarsità e quindi a<br />

trovare <strong>una</strong> legittimazione, soltanto se saprà modificare alle radici la propria struttura<br />

sociale.” (Saltari, 1980).<br />

Keynes nel corso <strong>del</strong>la sua vita riconosce un ruolo importante nel processo di<br />

accumulazione a fattori monetari ponendo nel sottoconsumo e nel risparmio, favorito<br />

da fenomeni monetari, il vero elemento fondante <strong>del</strong>lo sviluppo.<br />

L’o<strong>per</strong>a <strong>del</strong>l’economista inglese è importante <strong>per</strong> questa sua capacità di anticipare<br />

temi di dinamica economica senza aver gli strumenti <strong>per</strong> proporre mo<strong>del</strong>li analitici<br />

sulla crescita, riuscendo a porre alcune questioni sugli “errori” <strong>del</strong> sistema di mercato<br />

che si riferiscono si al breve <strong>per</strong>iodo ma che possono tranquillamente essere posti sul<br />

lungo <strong>per</strong>iodo.<br />

“Sebbene egli [Keynes] scrivesse spesso come se stesse parlando di uno stato di<br />

breve <strong>per</strong>iodo <strong>del</strong>l’economia – e questa è l’interpretazione, o l’applicazione, che i<br />

suoi seguaci, con poche eccezioni, avevano avuto presente – si può difficilmente<br />

trascurare l’esigenza di dare un’altra interpretazione “L’equilibrio di<br />

disoccupazione”, <strong>del</strong> quale egli parla tanto spesso, può essere interpretato come un<br />

equilibrio di breve termine, come <strong>una</strong> situazione temporanea; ma c’è chiaramente<br />

insito il suggerimento che se non si fa qualcosa, tale equilibrio <strong>per</strong>marrà a lungo,<br />

forse in maniera <strong>per</strong>manente. Stagnazione, non depressione!” (Hicks, 1975, pp.45-<br />

46).<br />

Dopo aver <strong>del</strong>ineato l’importanza <strong>del</strong> lavoro di Keynes nella nascita di tutte quelle<br />

teorie che vanno sotto il nome di “economia <strong>del</strong>lo sviluppo” si espongono<br />

brevemente alcuni mo<strong>del</strong>li di ispirazione keynesiana come quello di Harrod – Domar<br />

e quello di Kaldor, <strong>per</strong> poi passare al mo<strong>del</strong>lo sulla crescita più importante <strong>per</strong> la<br />

scuola neoclassica cioè quello di Solow.<br />

30


I mo<strong>del</strong>li di crescita: da Harrod- Domar a Solow<br />

Tutti questi mo<strong>del</strong>li si pongono un unico obiettivo: la crescita economica. Partendo<br />

da prospettive diverse individuano varie soluzioni <strong>per</strong> favorire la crescita.<br />

Roy F. Harrod ( 1939 ) ed Evsey D. Domar ( 1946 ), quasi indipendentemente l’uno<br />

dall’altro, hanno cercato di integrare l’analisi keynesiana con degli elementi di<br />

crescita economica; essi hanno usato funzioni di produzione con poca sostituibilità<br />

tra i fattori, <strong>per</strong> dimostrare che il sistema capitalista è tendenzialmente instabile 4 . Essi<br />

ritengono che <strong>una</strong> crescita uniforme, capace di eguagliare domanda ed offerta nel<br />

mercato dei beni ed in quello <strong>del</strong> lavoro, richieda che il tasso naturale di crescita<br />

<strong>del</strong>la forza lavoro eguagli il «livello garantito», dato dal rapporto tra il tasso di<br />

risparmio e la quota di capitale sulla produzione; affermano, inoltre, che non esiste<br />

alc<strong>una</strong> ragione <strong>per</strong> cui si debba verificare l’uguaglianza tra queste due grandezze, in<br />

quanto ciasc<strong>una</strong> <strong>del</strong>le variabili indicate potrebbe essere considerata un parametro<br />

esogeno oppure <strong>una</strong> variabile indicativa di programmazione. Dal momento che il<br />

progresso tecnico rappresenta <strong>una</strong> tendenza inerente ad ogni economia<br />

industrializzata, col tempo la quota di capitale sulla produzione dovrebbe<br />

progressivamente ridursi, spingendo in alto il tasso garantito di crescita; <strong>per</strong><br />

mantenere nel tempo l’uguaglianza, dovrebbe aumentare il tasso naturale di crescita<br />

<strong>del</strong>la forza lavoro oppure diminuire il tasso di risparmio ( o entrambe le cose ). In<br />

caso contrario, si determinerebbe <strong>una</strong> situazione di eccesso di offerta e di deflazione,<br />

che condurrebbe ad un processo di auto aggravamento; l’ammontare <strong>del</strong>la spesa<br />

pubblica dovrebbe risultare su<strong>per</strong>iore al consumo degli individui in modo tale che il<br />

governo possa essere in grado di evitare di far precipitare l’economia in <strong>una</strong> fase di<br />

depressione.<br />

L’analisi di lungo <strong>per</strong>iodo di Keynes è <strong>per</strong>tanto confermata, a dispetto <strong>del</strong>l’apparente<br />

incremento <strong>una</strong> tantum nel tasso garantito di crescita ottenibile con un aumento <strong>del</strong><br />

livello di risparmio. A questo, Harrod aggiunge un ulteriore intreccio: le decisioni di<br />

investimento privato sono guidate da incrementi attesi <strong>del</strong>le vendite ma, affinché<br />

l’investimento sia compatibile con il tasso garantito di crescita, il parametro che lega<br />

4 Per <strong>una</strong> spiegazione completa <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di Harrod e di Domar si rimanda a Saltari, E. (1980)<br />

31


le due variabili ( investimenti e vendite ) deve eguagliare il rapporto capitale-lavoro e<br />

tutto ciò si verifica solo <strong>per</strong> caso e nessun meccanismo di aggiustamento può essere<br />

utile a causa <strong>del</strong>l’intrinseca instabilità <strong>del</strong>l’equilibrio descritto; questo «filo <strong>del</strong><br />

rasoio» richiede quindi ancora l’intervento di un governo benevolo, dal momento che<br />

anche il più piccolo shock impedisce al mercato di assicurare un’uguaglianza tra<br />

domanda e offerta, determinando, conseguentemente, le condizioni di un circolo<br />

vizioso inflazionistico o deflativo: l’analisi di Keynes, così, viene giustificata e resa<br />

compatibile con un cornice di teoria <strong>del</strong>la crescita anche con riferimento al breve<br />

<strong>per</strong>iodo.<br />

Il mo<strong>del</strong>lo di Kaldor 5 pur utilizzando gli strumenti e le ipotesi <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo<br />

keynesiano di Harrod e Domar pone l’accento sulla distribuzione <strong>del</strong> reddito e sugli<br />

effetti di questa sul tasso di crescita <strong>del</strong>l’economia. Tralasciando i passaggi<br />

matematici e logici si può dire che questo mo<strong>del</strong>lo pone trae le seguenti conclusioni:<br />

la crescita dipende dalla distribuzione e affinché l’economia possa crescere in<br />

equilibrio è necessario che le quote distributive restino costanti; tuttavia quando<br />

questa condizione è soddisfatta solo la propensione al risparmio dei capitalisti<br />

determina la crescita.<br />

I contributi successivi sono stati quelli <strong>del</strong> premio Nobel Robert Merton Solow e di<br />

Trevor W. Swan entrambi datati 1956; Solow dimostra che la crescita e la piena<br />

occupazione non sono fuori <strong>del</strong>la portata dei normali meccanismi di mercato e che, al<br />

contempo, tutti i paesi possono s<strong>per</strong>are di convergere verso un livello massimo di<br />

benessere.<br />

L’aspetto principale <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di Solow-Swan 6 è la forma neoclassica <strong>del</strong>la<br />

funzione di produzione, <strong>per</strong> la quale si assumono rendimenti costanti di scala,<br />

rendimenti decrescenti <strong>per</strong> ciascun fattore produttivo e un’elasticità di sostituzione<br />

tra gli input positiva anche se non elevata; questa funzione di produzione, omogenea<br />

di primo grado, è combinata con un tasso costante di risparmio ed altre assunzioni<br />

tipiche <strong>del</strong>la teoria neoclassica (concorrenza <strong>per</strong>fetta, piena informazione,<br />

comportamenti razionali ) <strong>per</strong> generare un mo<strong>del</strong>lo estremamente semplice di<br />

equilibrio generale di un’economia.<br />

5 Per <strong>una</strong> spiegazione completa <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di Kaldor si rimanda a: Saltari, E. (1980)<br />

6 Per <strong>una</strong> spiegazione completa <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di Solow si rimanda a: Solow, R. (1956)<br />

32


Il mo<strong>del</strong>lo potrebbe essere considerato <strong>una</strong> generalizzazione <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di Harrod:<br />

il rapporto capitale-produzione non è esogeno, come nel caso <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di Harrod<br />

ma, attraverso la flessibilità <strong>del</strong>la funzione di produzione neoclassica, può essere<br />

determinato in modo da rendere ogni rapporto capitale-lavoro adeguato al tasso di<br />

crescita demografica; di conseguenza, non si verifica alc<strong>una</strong> divergenza tra tasso<br />

naturale e tasso garantito di crescita, dal momento che il mercato <strong>del</strong> lavoro sopporta<br />

l’onere <strong>del</strong>l’adeguamento <strong>del</strong>la funzione derivata <strong>del</strong>la domanda, che risulta dal<br />

rapporto capitale-lavoro in funzione <strong>del</strong> rapporto tra livello <strong>del</strong>la rendita e livello<br />

salariale. Inoltre, ness<strong>una</strong> divergenza, tra la domanda e l’offerta di beni sarebbe<br />

possibile: data la propensione al risparmio, gli investitori sono pronti a pagare ai<br />

risparmiatori il valore <strong>del</strong>la produttività marginale <strong>del</strong> capitale, mentre gli stessi<br />

risparmiatori sono disposti a rinunciare ad <strong>una</strong> data quota <strong>del</strong> reddito; in presenza,<br />

<strong>per</strong>ò, di un ammontare crescente di capitale <strong>per</strong> lavoratore, la produttività dei<br />

lavoratori aumenta e, fissato esogenamente il tasso di crescita demografica, il<br />

medesimo incremento si determina a livello di produzione e di risparmio.<br />

Nel mo<strong>del</strong>lo di Solow, la crescita è, dunque, la conseguenza di <strong>una</strong> diminuzione<br />

continua <strong>del</strong> rapporto capitale-lavoro, che avviene attraverso un incremento <strong>del</strong>la<br />

produttività <strong>del</strong> lavoro, causato dal crescente quantitativo di capitale attribuito a<br />

ciascun lavoratore; poiché la produttività marginale <strong>del</strong> capitale decresce, ogni<br />

aumento in eccesso <strong>del</strong>la crescita <strong>del</strong>la forza lavoro diverrà alla fine insostenibile.<br />

Il mo<strong>del</strong>lo di Solow risolve in questo modo il “dilemma <strong>del</strong>la lama <strong>del</strong> rasoio” di<br />

Harrod, dal momento che la crescita con piena occupazione è non solo possibile, ma<br />

addirittura inevitabile. Nello stato stazionario la produzione può aumentare solo se<br />

aumenta l’occupazione, mentre al di fuori di questo stato, in primo luogo, nessun<br />

paese può s<strong>per</strong>are di crescere ad un tasso maggiore di quello consentito dalla<br />

migliore tecnologia disponibile e, in secondo luogo, i paesi con dotazioni minori di<br />

capitale pro capite possono s<strong>per</strong>are di crescere più velocemente dei paesi ricchi.<br />

E’ questa <strong>una</strong> previsione <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo che è stata sfruttata seriamente come ipotesi<br />

empirica solo negli anni recenti, ed è nota come convergenza condizionata: quanto<br />

più basso è il livello iniziale <strong>del</strong> Pil reale pro capite, relativamente alla posizione di<br />

lungo <strong>per</strong>iodo o di crescita uniforme, tanto più veloce è il tasso di crescita; questa<br />

proprietà deriva dall’ipotesi di rendimenti decrescenti <strong>del</strong> capitale, infatti, le<br />

33


economie che hanno meno capitale <strong>per</strong> lavoratore ( relativamente al loro capitale <strong>per</strong><br />

lavoratore di lungo <strong>per</strong>iodo ) tendono ad avere più alti tassi di rendimento e più alti<br />

tassi di crescita. La convergenza è condizionata <strong>per</strong>ché nel mo<strong>del</strong>lo di Solow - Swan<br />

i livelli di crescita uniforme <strong>del</strong> capitale e <strong>del</strong> prodotto <strong>per</strong> lavoratore dipendono dal<br />

tasso di risparmio, dal tasso di crescita <strong>del</strong>la popolazione e dalla posizione <strong>del</strong>la<br />

funzione di produzione – caratteristiche che potrebbero variare tra le diverse<br />

economie.<br />

Tutti questi mo<strong>del</strong>li pur giungendo a conclusioni diverse, quindi proponendo<br />

politiche differenti, hanno un’unica idea <strong>del</strong>la sviluppo economico e quindi <strong>del</strong>la<br />

crescita, dato che <strong>per</strong> loro sono sinonimi, e propongono un ideale equilibrio di<br />

produzione ed investimenti che possano garantire lo sviluppo <strong>del</strong> sistema<br />

capitalistico. Questi mo<strong>del</strong>li di natura econometrica rischiano di sottovalutare<br />

elementi che sono fuori dal “calderone economicistico” e che contribuiscono in<br />

modo determinante a quello che noi tutti intendiamo come vero e proprio sviluppo.<br />

Inoltre come si vedrà nel capitolo quinto i mo<strong>del</strong>li di crescita neoclassici si scontrano<br />

con i limiti fisici <strong>del</strong> nostro pianeta.<br />

Nel prossimo capitolo si abbandonerà questa visione puramente economica<br />

esponendo teorie che hanno tentato di “risolvere” il problema <strong>del</strong> sottosviluppo<br />

offrendo <strong>una</strong> “chiave di lettura” più completa. Si cercherà di andare oltre i mo<strong>del</strong>li e<br />

le ricette economiche <strong>per</strong> considerare lo sviluppo in modo sempre meno<br />

economicista e sempre più a<strong>per</strong>to alle varie scienze sociali.<br />

34


CAPITOLO SECONDO:<br />

Il problema <strong>del</strong> sottosviluppo<br />

“Non esistono <strong>per</strong>corsi<br />

generalmente validi di sviluppo,<br />

proprio <strong>per</strong>ché non esiste <strong>una</strong><br />

definizione universalmente valida<br />

di sviluppo. Ogni popolo deve<br />

scrivere la propria storia”<br />

K.J. Jameson e C. K. Wilber<br />

Il concetto di sottosviluppo nasce in contrapposizione al concetto di sviluppo con<br />

riferimento ai paesi che “sono caratterizzati da un minor reddito pro capite, <strong>una</strong><br />

minore efficienza produttiva, <strong>una</strong> organizzazione economica meno complessa e<br />

curata, <strong>una</strong> ricerca tecnico-scientifica meno progredita, un più basso grado di<br />

industrializzazione, i consumi <strong>del</strong>la popolazione meno ricchi e variati, e <strong>per</strong>fino la<br />

demografia diversa, a causa di più elevati tassi di natalità e mortalità. Il sottosviluppo<br />

di cui si parla è economico, ma è indubbio che le sue manifestazioni oltrepassano i<br />

confini <strong>del</strong>l'economia.” (Ricossa, 1982, voce sottosviluppo)<br />

Storicamente si è iniziato a discutere <strong>del</strong> tema <strong>del</strong> sottosviluppo nel secondo<br />

dopoguerra quando sono nate le prime teorie sulle cause <strong>del</strong> sottosviluppo stesso.<br />

L’espressione “economia <strong>del</strong>lo sviluppo” fu coniata da H. Truman quando nel suo<br />

discorso di reinsediamento alla presidenza degli Stati Uniti (20 gennaio 1949)<br />

affermò che l’obiettivo era quello d’indicare la via liberal- capitalista <strong>del</strong>la pros<strong>per</strong>ità<br />

agli stati di recente indipendenza caratterizzati da sottosviluppo, ovvero da bassi<br />

livelli di crescita economica, altrimenti attratti dal mo<strong>del</strong>lo concorrente socialista. La<br />

visione ottimistica <strong>del</strong> cosiddetto <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>la modernizzazione era fiduciosa<br />

nell’uniformità <strong>del</strong> processo di cambiamento economico, sociale e politico già<br />

avvenuto nelle società <strong>del</strong> primo mondo. Quest’ultimo era interpretato in termini di<br />

passaggio da <strong>una</strong> situazione di arretratezza a <strong>una</strong> caratterizzata da<br />

industrializzazione, urbanizzazione, e alti livelli di benessere materiale. Su queste<br />

35


asi, l’Occidente pretendeva di applicare le elaborazioni di tale auto-<br />

rappresentazione al terzo mondo, considerato di conseguenza un blocco unico e<br />

indifferenziato. Tutte le più importanti teorie economiche <strong>del</strong> <strong>per</strong>iodo partivano dal<br />

presupposto comune che lo sviluppo consistesse in un processo evoluzionistico<br />

mosso da forze endogene lungo stadi temporali validi <strong>per</strong> tutti i paesi. In quest’ottica<br />

nacquero i mo<strong>del</strong>li di crescita, ai quali ho accennato nel precedente capitolo, e il<br />

<strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>la modernizzazione che aprirà questo.<br />

L’intenzione in questa parte è quella di inquadrare il concetto di sviluppo e la sua<br />

importanza nelle teorie moderne. Questa schematica rappresentazione <strong>del</strong>le teorie più<br />

importanti nate in funzione <strong>critica</strong> o in a<strong>per</strong>to contrasto con il <strong>paradigma</strong> modernista<br />

è necessaria <strong>per</strong> comprendere quelle che saranno le critiche e le posizioni più<br />

particolari alle quali si dedicheranno i capitoli successivi.<br />

36


La teoria <strong>del</strong>la modernizzazione<br />

La differenza tra le condizioni economiche di diversi paesi nel mondo pone agli<br />

economisti due ordini di problemi: in primo luogo bisogna chiedersi <strong>per</strong>ché in alcuni<br />

paesi non si sia giunti, grazie ad istituzioni, conoscenze e comportamenti, a livelli di<br />

reddito e benessere simili a quelli dei paesi sviluppati; in secondo luogo ci si chiede<br />

in che modo sia possibile colmare questo gap. Negli anni 40 sono nate scuole di<br />

pensiero che avevano come obiettivo la risoluzione di questi problemi. Denominatore<br />

comune di queste scuole è, con alcune importanti differenze, consapevolmente o<br />

meno, il <strong>paradigma</strong> etnocentrico <strong>del</strong> progresso, <strong>del</strong> quale si è parlato nel capitolo<br />

precedente. Questa visione comune si sviluppa nel <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong> progresso moderno<br />

attraverso un’impostazione evoluzionistica e un continuo ricorso alla comparazione<br />

tra paesi.<br />

“Nell’analisi <strong>del</strong>la maggior parte degli economisti lo sviluppo è, come il progresso<br />

dei moderni, un’evoluzione continua e necessaria, immanente nella natura e nella<br />

ragione umana e orientata verso <strong>una</strong> direzione… La linea lungo la quale lo sviluppo<br />

economico procede è identificata, secondo il metodo comparatistico, astraendo dalla<br />

storia <strong>del</strong>le società europee ed occidentali caratteristiche che si suppone abbiano<br />

costituito stadi successivi <strong>del</strong>l’evoluzione <strong>del</strong>l’umanità nel suo assieme, il cui punto<br />

d’arrivo è l’economia moderna capitalistica con i comportamenti individuali e le<br />

istituzioni che la caratterizzano.” (Volpi, 1994, p.32)<br />

Il primo autore che rappresenta <strong>per</strong>fettamente l’impostazione evoluzionistica ed il<br />

metodo comparatistico è senza dubbio l’economista e sociologo Walt Whitman<br />

Rostow. Studioso di storia economica, il professore americano teorizzava la necessità<br />

di integrare l’economia teoretica con la storia <strong>del</strong>l’economia: “la teoria <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo economico può sorgere soltanto da uno studio di quei fattori sociali che<br />

erano in passato, e dovranno rimanere in avvenire, il materiale <strong>del</strong>la storia<br />

economica: mutamento <strong>del</strong>le forze economiche, dei gusti e <strong>del</strong>le quantità <strong>del</strong>le<br />

risorse” (Rostow, 1962, p.9)<br />

Rostow pone alla base <strong>del</strong>la sua teorizzazione la teoria <strong>del</strong>le “propensioni sociali”<br />

che sono alla base <strong>del</strong>la ricerca storica degli economisti e che devono, quindi, essere<br />

37


sempre considerati nella realizzazione dei vari mo<strong>del</strong>li di sviluppo. Secondo l’autore<br />

queste “propensioni sociali”sono tre: propensione a consumare e risparmiare,<br />

propensione a sviluppare la scienza pura e applicata, tendenza concreta allo sviluppo<br />

<strong>del</strong>la popolazione. Queste “propensioni sociali” sono le coordinate grazie alle quali<br />

l’economista può formalizzare le proprie teorie.<br />

La teoria degli stadi ha il merito di affrontare lo sviluppo seguendo non un mero<br />

schema economicistico ma offrendo <strong>una</strong> chiave di lettura storico- economico-<br />

sociologica.<br />

L’autore individua cinque stadi attraverso i quali avviene la trasformazione di <strong>una</strong><br />

società agricola in società industriale:<br />

1. società tradizionale. Il sistema economico è bloccato su un trend di stagnazione e<br />

su un susseguirsi di eventi catastrofici che intervengono <strong>per</strong>iodicamente a riportare in<br />

equilibrio la dinamica <strong>del</strong>la popolazione con quella <strong>del</strong>le risorse<br />

2. transizione. La società comincia a produrre innovazione <strong>per</strong>ché cerca il<br />

mutamento. Nascono figure imprenditoriali pionieristiche, aumenta il profitto e con<br />

esso il tasso di accumulazione <strong>del</strong> capitale<br />

3. decollo o take off. La formazione di un gruppo di imprenditori dinamici determina<br />

un forte aumento degli investimenti che porta ad <strong>una</strong> accelerazione <strong>del</strong> sistema<br />

economico creando discontinuità con il passato: più profitto, più accumulazione, più<br />

investimento, più produttività. Il <strong>per</strong>iodo di crescita, big push o big spurt, è trainato<br />

da settori guida che generano un processo di crescita settoriale squilibrato, ma in<br />

grado col tempo di trascinare avanti tutto il sistema<br />

4. maturità. L’intero sistema è ormai modernizzato, ma la crescita rallenta <strong>per</strong>ché si<br />

riducono le opportunità di investimento legate alla creazione di nuove tecnologie<br />

5. età dei consumi di massa. I consumi privati che erano rimasti compressi fino alla<br />

maturità <strong>per</strong> far posto ai grandi investimenti necessari alla modernizzazione <strong>del</strong><br />

sistema possono crescere sensibilmente poiché non è più necessario mantenere un<br />

alto tasso di accumulazione. A quel punto le imprese investono nella<br />

standardizzazione dei prodotti <strong>per</strong> ridurre i costi e allargare i consumi dai quali viene<br />

ormai a dipendere la crescita <strong>del</strong>l’intero sistema economico.<br />

Per Rostow gli stadi non sorgono l’uno dall’altro in modo né casuale né meccanico.<br />

38


Le condizioni che consentono il “decollo” devono affiorare nello “stadio<br />

preparatorio” sono sostanzialmente tre:<br />

a) uno sviluppo <strong>del</strong>la produttività nel settore agricolo, tale da <strong>per</strong>mettere il<br />

sostentamento <strong>del</strong>la popolazione che comincia ad addentrarsi nei settori<br />

“progressivi”.<br />

b) Uno coevo sviluppo nel settore <strong>del</strong>le esportazioni<br />

c) Un certo sviluppo <strong>del</strong> “capitale sociale”: miglioramenti nei trasporti,<br />

<strong>del</strong>l’utilizzazione <strong>del</strong>le fonti di energia, <strong>del</strong>l’istruzione professionale, ecc..<br />

Sostanzialmente il decollo consiste nella realizzazione di uno sviluppo rapido,<br />

prolungato e autosostenuto di determinati settori – chiave.<br />

Il take off non è uno stadio che debba sorgere necessariamente dallo “stato<br />

preparatorio”. Si possono avere decolli “abortivi” sia <strong>per</strong> la mancanza di un sostegno<br />

tecnico al processo autosostenuto sia <strong>per</strong> la mancata trasformazione sociale,<br />

psicologica e politica atta a sostenere questa “rivoluzione” tecnico- economica.<br />

Per l’economista americano il vero problema è quale direzione prenderanno i paesi<br />

occidentali che nel secondo dopoguerra sono in piena fase <strong>del</strong>la maturità. Rostow<br />

teorizza tre alternative: la sicurezza sociale e la riduzione <strong>del</strong> tempo di lavoro;<br />

l’espansione, anche bellica, in campo internazionale; oppure lo stadio “<strong>del</strong> consumo<br />

di massa”. Per l’autore i paesi che giungono a questo stadio (Usa e Urss) hanno il<br />

dovere di accompagnare allo sviluppo gli altri paesi evitando di <strong>per</strong>seguire <strong>una</strong><br />

“politica di potenza”.<br />

Lo stesso Rostow si pone <strong>una</strong> domanda che pare logica: “è corretto, da un punto di<br />

vista scientifico, impiegar il concetto di stadi <strong>del</strong>lo sviluppo, tratto da <strong>una</strong><br />

generalizzazione <strong>del</strong>l’es<strong>per</strong>ienza storica <strong>del</strong> passato, nell’analisi dei problemi attuali<br />

<strong>del</strong>l’aree sottosviluppate?”<br />

La sua risposta positiva è alquanto discutibile soprattutto alla luce di<br />

un’interpretazione speculare <strong>del</strong> suo lavoro: è corretto creare un mo<strong>del</strong>lo “storico”<br />

<strong>per</strong> tentare di spiegare il presente? Rostow <strong>per</strong> motivi politici sembra proprio<br />

compiere questo tipo di analisi cercando di mantenere “un’impostazione scientifica”<br />

che è quantomeno discutibile.<br />

Il <strong>per</strong>corso schematizzato dall’autore è un processo evoluzionistico mosso da forze<br />

endogene che viene “omologato” <strong>per</strong> tutte le economie e tutti i paesi. Questa pretesa<br />

39


di “universalismo” rende fragile l’applicazione <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo in realtà diverse da<br />

quella capitalista. La presenza di fattori extra- economici, quali i valori accolti dalla<br />

società o dalle istituzioni politiche, <strong>per</strong>mettono di leggere il mo<strong>del</strong>lo come <strong>una</strong> tesi<br />

<strong>del</strong> mutamento sociale <strong>del</strong> tipo <strong>del</strong>la modernizzazione, ossia “il processo di<br />

cambiamento verso quel tipo di sistemi sociali, economici e politici che si sono<br />

sviluppati nell’Europa occidentale e Nord America dal diciassettesimo al<br />

diciannovesimo secolo.” (Eisenstadt 1966)<br />

Questa impostazione fa in modo che tutta le teoria si possa prestare alle stesse<br />

critiche che sono state poste al <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>la modernizzazione.<br />

La <strong>critica</strong> più importante riguarda l’impostazione dicotomica tra i due estremi <strong>del</strong>la<br />

teoria che corrispondono al “tradizionale” versus il “moderno”. Quest’ultimo viene<br />

definito tramite un’astrazione empirica <strong>del</strong>la società capitalista e rappresenta un<br />

insieme di valori positivi, al contrario il “tradizionale” è tutto ciò che non è moderno.<br />

Questa prospettiva ha due conseguenze negative.<br />

La prima deriva dalla definizione “in negativo” <strong>del</strong>le società tradizionali: le<br />

differenze tra le società vengono ignorate e tutte hanno il solo compito di essere la<br />

base uniforme <strong>del</strong>lo sviluppo. La seconda conseguenza negativa, non meno<br />

importante, è che la prospettiva occidentale diventa l’unica possibile e i principi che<br />

la guidano sono le regole universali che guidano tutte le società. Questa assunzione<br />

rende impossibile quella che gli antropologi chiamano “comprensione” di <strong>una</strong> società<br />

diversa. Quando queste differenze sono evidenti la teoria tende a considerarle<br />

irrazionali, quindi da escludere dalla teoria economica, o “primitive”, quindi<br />

eccezionali o troppo semplici.<br />

Il risultato di questa impostazione è <strong>una</strong> completa assenza di capacità da parte <strong>del</strong>la<br />

scienza economica di poter affrontare il “problema <strong>del</strong>lo sviluppo” nei termini<br />

corretti e applicabili, provocando forzature incomprensibili da società non identiche<br />

alla nostra.<br />

E’ interessante notare come <strong>per</strong> questa concezione il sottosviluppo debba essere<br />

considerato come lo “stadio originario” prima di un progresso <strong>del</strong>la società moderna<br />

occidentale verso l’organizzazione economica “ideale”, cioè la società moderna o<br />

capitalista.<br />

40


“Questa idea implica che la storia <strong>del</strong>l’umanità sia la somma di due storie distinte e<br />

indipendenti l’<strong>una</strong> dall’altra: <strong>per</strong> <strong>una</strong> parte dei popoli <strong>una</strong> storia di progresso, <strong>per</strong> gli<br />

altri <strong>una</strong> storia di stagnazione, e che <strong>per</strong> questi ultimi l’unica prospettiva di sviluppo<br />

sia quella di rincorrere i primi lungo la stessa via.” (Volpi, 1994, p. 35)<br />

41


Lo strutturalismo e la teoria <strong>del</strong>la dipendenza<br />

All’inizio degli anni 60 il dibattito sullo sviluppo si concentrò sul commercio<br />

internazionale favorendo il sorgere di scuole di pensiero estranee all’es<strong>per</strong>ienza di<br />

Usa ed Europa. In risposta alla teoria <strong>del</strong>la modernizzazione di Rostow in America<br />

Latina si sviluppò uno scuola che riuniva sociologi ed economisti nel tentativo di<br />

dare <strong>una</strong> soluzione diversa al problema <strong>del</strong> sottosviluppo; questa scuola aveva come<br />

riferimento la Economic Commission for Latin America, ECLA, ed il suo leader<br />

Raul Prebisch.<br />

La “tesi di Prebisch” si sviluppa da <strong>una</strong> <strong>critica</strong> <strong>del</strong> principio ricardiano <strong>del</strong>la<br />

specializzazione e si fonda su un concetto fondamentale <strong>per</strong> la scuola strutturalista,<br />

cioè la dicotomia centro-<strong>per</strong>iferia. L’idea principale è che i paesi <strong>per</strong>iferici siano<br />

svantaggiati nel commercio internazionale e che questi effetti negativi si manifestino<br />

in quattro modi: i tendenziale squilibrio <strong>del</strong>la bilancia commerciale da parte dei paesi<br />

<strong>per</strong>iferici, il trasferimento dei frutti <strong>del</strong> progresso tecnico da questi a quelli centrali,<br />

l’approfondimento <strong>del</strong> gap tecnologico tra gli uni e gli altri e le distorsioni nella<br />

produzione e nel consumo dei primi.<br />

Le cause di questi effetti sono da riscontrare, come si vedrà, nella diversa struttura<br />

dei mercati <strong>del</strong> “centro” e <strong>del</strong>la “<strong>per</strong>iferia”, nelle caratteristiche <strong>del</strong>la domanda<br />

internazionale dei prodotti industriali, nelle condizioni che creano <strong>una</strong> difficoltà <strong>del</strong>la<br />

<strong>per</strong>iferia di godere <strong>del</strong>l’economie di scala, comprese le loro esternalità connesse al<br />

progresso tecnico.<br />

Questa tesi strutturalista trovò lo spunto principale nella crisi degli anni 30’ quando<br />

la “grande depressione” provocò un crollo <strong>del</strong>la domanda di materie prime dei paesi<br />

industriali. Questa situazione portò alla formulazione di questa tesi secondo la quale<br />

le ragioni di scambio dei paesi <strong>per</strong>iferici tendono nel lungo <strong>per</strong>iodo a peggiorare<br />

rispetto a quelle dei paesi di centro.<br />

Questa tesi contrastava a<strong>per</strong>tamente la teoria sul commercio internazionale sostenuta<br />

da tutti gli economisti <strong>per</strong> i quali il prezzo dei beni manufatti sarebbe diminuito,<br />

rispetto ai prodotti agricoli, grazie all’economie di scala e al progresso tecnico.<br />

Prebisch documentò invece che il miglioramento <strong>del</strong>le ragioni di scambio <strong>per</strong> la Gran<br />

42


Bretagna, paese preso come idealtipo <strong>del</strong> “centro”, portarono tra il 1870 ed il 1938ad<br />

uno speculare peggioramento <strong>del</strong>le ragioni di scambio dei paesi produttori di beni<br />

primari.<br />

Alla base di questa dicotomia tra l’andamento <strong>del</strong>le ragioni dei paesi <strong>del</strong> centro e<br />

quelli <strong>per</strong>iferici esistono due motivazioni economiche: la diversità tra l’elasticità<br />

rispetto al reddito tra i beni primari e i beni industriali e nella diversa struttura dei<br />

mercati <strong>per</strong>iferici e centrali. La prima causa si spiega con la legge di Engel 1 mentre la<br />

seconda causa si spiega col fatto che nei paesi industrializzati la tendenza a forme<br />

oligopolistiche o monopolistiche non spinge il prezzo dei beni industriali a diminuire<br />

con l’aumento <strong>del</strong>la produttività e <strong>del</strong>le economie di scala, ma si tenderà ad<br />

aumentare profitti o salari (a seconda <strong>del</strong>la forza sindacale); al contrario nei paesi<br />

<strong>per</strong>iferici l’assenza di sindacalismo e <strong>una</strong> forte offerta di lavoro <strong>per</strong>mette al prezzo di<br />

oscillare secondo le regole <strong>del</strong>la concorrenza internazionale portando ad un prezzo<br />

necessariamente più basso. (Singer, 1973)<br />

Un’importante conseguenza di questa situazione è che i frutti <strong>del</strong> progresso tecnico<br />

tendono a trasferirsi dalla <strong>per</strong>iferia al centro. Infatti, mentre nei paesi industriali<br />

l’aumento <strong>del</strong>la produttività si traduce in maggiori profitti e salari, la maggior<br />

produttività <strong>del</strong>le attività primarie esportatrici dei paesi <strong>per</strong>iferici porterà a prezzi più<br />

bassi dei quali si avvantaggeranno i consumatori <strong>del</strong> centro (Prebisch 1959)<br />

La soluzione a questa situazione venne individuata da Prebisch nel creare industrie in<br />

grado di produrre beni che sostituissero le importazioni, la cosiddetta “import –<br />

substitution industrialization (Preston, 1996).<br />

La scarsità di capitali e di capacità imprenditoriali private portava a considerare<br />

fondamentale il ruolo <strong>del</strong>lo stato; di conseguenza, ad adottare sistemi d monopolio<br />

<strong>del</strong> commercio ed <strong>una</strong> disciplina dei prezzi e dei tassi di cambio che ponevano<br />

vincoli allo scambio con l’estero.<br />

La priorità <strong>del</strong>la domanda interna e la limitazione degli scambi con l’estero sono<br />

obiettivi riproposti da coloro che non vedono nell’industrializzazione accelerata la<br />

vera soluzione dei problemi <strong>del</strong> sottosviluppo, ma ritengono che sia di vitale<br />

importanza il sostegno pubblico all’agricoltura primaria e alle tradizioni autoctone al<br />

1 La legge di Engel afferma che la <strong>per</strong>centuale <strong>del</strong>la spesa familiare destinata all’alimentazione è<br />

decrescente al crescere <strong>del</strong> reddito familiare disponibile<br />

43


fine di raggiungere l’autosufficienza alimentare e la soddisfazione dei bisogni<br />

essenziali <strong>del</strong>la popolazione. Gli aspetti più negativi <strong>del</strong> commercio internazionale,<br />

secondo questa visione, sono la totale dipendenza verso mo<strong>del</strong>li di consumo dei paesi<br />

industrializzati con un progressivo decadimento <strong>del</strong>le colture tradizionali. Le<br />

soluzione proposte da alcuni economisti sono lo svincolamento dei paesi <strong>per</strong>iferici<br />

dal mercato mondiale nella prima fase <strong>del</strong>lo sviluppo oppure l’aumento<br />

<strong>del</strong>l’interscambio tra i paesi <strong>per</strong>iferici con <strong>una</strong> riduzione dalle dipendenza dalla<br />

domanda dei paesi <strong>del</strong> centro.<br />

Questa politica di tipo “protezionistico” o “introverso” (Volpi, 1994), accompagnate<br />

da un accentramento <strong>del</strong> potere economico nelle mani di o<strong>per</strong>atori pubblici troppo<br />

spesso corrotti, ha portato alcuni paesi che si erano affidati a questo schema ad<br />

alcune gravi crisi degli anni ’80 dovute soprattutto a politiche di finanza pubblica<br />

improntate sul debito.<br />

Oggi le grandi organizzazioni economiche internazionali (Fondo Monetario<br />

Internazionale, Banca mondiale, etc..) tendono a favorire politiche che sono in a<strong>per</strong>to<br />

contrasto con le ricette à la Prebisch cercando di spingere i paesi in via di sviluppo a<br />

convertirsi senza remore al liberismo <strong>del</strong> mercato. Questa volontà <strong>per</strong>ò copre<br />

un’ipocrisia di fondo dei paesi occidentali, che monopolizzano le organizzazioni<br />

internazionali: questa ipocrisia consiste nella politica protezionistica , attraverso<br />

barriere tariffarie e non, proprio verso le esportazioni di prodotti agricoli ed<br />

industriali da parte dei paesi <strong>per</strong>iferici; inoltre essa si mostra nel costante rifiuto dei<br />

paesi industrializzati a contribuire alla formazione di un “Nuovo Ordine Economico”<br />

da molti invocato nelle varie conferenze internazionali (ad esempio Davos).<br />

Seguendo il <strong>per</strong>corso tracciato dalla scuola strutturalista l’America Latina offre un<br />

altro contributo importante alle teorie <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo, cioè la Teoria<br />

<strong>del</strong>la dipendenza.<br />

E’ possibile considerare Raul Prebisch il fondatore <strong>del</strong>la teoria <strong>del</strong>la dipendenza dato<br />

che essa si colloca <strong>per</strong>fettamente nel mo<strong>del</strong>lo strutturalista <strong>del</strong>l’economista<br />

argentino. La teoria <strong>del</strong>la dipendenza rappresenta un insieme di contributi teorici<br />

<strong>del</strong>le scienze sociali (concepita da studiosi di vari paesi sviluppati e in via di<br />

sviluppo), accom<strong>una</strong>ti da <strong>una</strong> visione <strong>del</strong> mondo che suggerisce che i paesi poveri e<br />

sottosviluppati <strong>del</strong>la <strong>per</strong>iferia siano in qualche modo dipendenti e sfruttati dai paesi<br />

44


sviluppati <strong>del</strong> centro. Questi paesi, grazie allo sfruttamento dei primi, sostengono il<br />

proprio sviluppo economico.<br />

La teoria <strong>del</strong>la dipendenza afferma che la povertà dei paesi nella <strong>per</strong>iferia è il<br />

risultato <strong>del</strong> modo distorto e ingiusto di come essi sono stati “integrati” nel sistema<br />

mondiale, laddove gli economisti <strong>del</strong> mercato libero sostengono invece che questi<br />

paesi si stanno pienamente “integrando” e la loro arretratezza non è che uno dei<br />

(necessari ma temporanei) risultati di questo processo di integrazione.<br />

Secondo molti teorici <strong>del</strong>la “dipendenza” i paesi <strong>del</strong> Primo Mondo <strong>per</strong>petuano<br />

attivamente, ma non <strong>per</strong> questo coscientemente, uno stato di dipendenza attraverso<br />

varie politiche ed iniziative. Tale comportamento ha molte “facce”, coinvolgendo<br />

l’economia, il controllo dei mass-media, la politica, o<strong>per</strong>azioni bancarie e finanziarie,<br />

la formazione, lo sport e tutti gli aspetti <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>del</strong>la risorsa umana.<br />

I tentativi dalle nazioni dipendenti di resistere alle influenze <strong>del</strong>la dipendenza<br />

provocano spesso le sanzioni economiche e/o l’invasione e il controllo militare.<br />

Molti teorici <strong>del</strong>la dipendenza invocano la rivoluzione sociale <strong>per</strong> provocare<br />

cambiamenti nelle disparità economiche.<br />

La teoria <strong>del</strong>la dipendenza è divenuta popolare negli anni 60 e negli anni 70 come<br />

<strong>critica</strong> <strong>del</strong>la teoria <strong>del</strong>la modernizzazione che sembrava incapace di spiegare il<br />

mancato sviluppo dei paesi più arretrati <strong>per</strong> via <strong>del</strong>la continua povertà diffusa in<br />

grandi parti <strong>del</strong> mondo. Con lo sviluppo apparente <strong>del</strong>le economie <strong>del</strong>l’Asia<br />

Orientale e <strong>del</strong>l’India degli anni più recenti, tuttavia, la teoria ha largamente <strong>per</strong>so<br />

consensi. Essa si contrappone acutamente all’economia <strong>del</strong> libero-mercato e classica.<br />

È molto più accettata nelle discipline quali la storia e l’antropologia. Si sostiene che<br />

la”dipendenza” sia nata con la rivoluzione industriale e l’espansione degli im<strong>per</strong>i<br />

europei nel mondo grazie alla loro conseguente su<strong>per</strong>iore potenza e alla ricchezza<br />

accumulata. Alcuni sostengono che prima di questa espansione su scala mondiale, lo<br />

sfruttamento era interno ai paesi, con i centri economici principali che dominavano il<br />

resto <strong>del</strong> paese (<strong>per</strong> esempio l’Inghilterra sud-orientale che dominava la Gran<br />

Bretagna, o <strong>del</strong> nordest americano che dominava il sud e l’ovest). Stabilendo i<br />

pattern di scambio globali nel diciannovesimo secolo ha <strong>per</strong>messo al capitalismo di<br />

spargersi globalmente. I ricchi si sono vieppiù isolati e separati dai poveri,<br />

profittando sproporzionatamente dalle loro pratiche im<strong>per</strong>ialistiche. Questa<br />

45


separatezza ha minimizzato i <strong>per</strong>icoli interni di sommosse e ribellioni dei contadini<br />

poveri. Piuttosto che rivoltarsi contro i loro oppressori come nella guerra <strong>civile</strong><br />

americana o nelle rivoluzioni comuniste, i poveri non hanno più potuto<br />

“raggiungere” i ricchi, e di conseguenza le nazioni meno sviluppate sono state<br />

inghiottite nella spirale di vere e proprie guerre civili. Una volta che le nazioni ricche<br />

im<strong>per</strong>ialiste hanno stabilito il controllo formale, esso non ha potuto più essere<br />

rimosso facilmente. Tale controllo assicura che i profitti nei paesi meno sviluppati<br />

siano rimessi alle nazioni sviluppate, impedendo il re-investimento interno, causando<br />

la fuga dei capitali e così ostacolando lo sviluppo.<br />

Gli economisti liberisti indicano molti esempi che confutano la teoria <strong>del</strong>la<br />

dipendenza: il miglioramento <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>l’India dopo che è passata da<br />

un’economia controllata dallo Stato ad <strong>una</strong> a<strong>per</strong>ta al commercio internazionale e al<br />

controllo privato, è l’esempio più spesso citato. L’esempio <strong>del</strong>l’India apparentemente<br />

contraddice le affermazioni dei teorici <strong>del</strong>la dipendenza riguardo ai vantaggi<br />

comparati ed alla mobilità, visto che il relativo sviluppo economico <strong>del</strong>l’India è stato<br />

certamente dovuto anche a fattori come l’out-sourcing—<strong>una</strong> <strong>del</strong>le forme più mobili<br />

di trasferimenti di capitali. Dall’altro lato, invece, abbiamo esempi come quello <strong>del</strong>la<br />

Corea <strong>del</strong> Sud, che ha visto diminuire drasticamente i suoi tassi di povertà ricorrendo<br />

a molte di quelle misure raccomandate dalla teoria <strong>del</strong>la dipendenza.<br />

I pensatori <strong>del</strong> mercato libero considerano legittime le lamentele dei teorici <strong>del</strong>la<br />

dipendenza, anche se vedono le loro prescrizioni di politica economica come<br />

profezie fatte <strong>per</strong> auto avverarsi, in quanto quelle politiche aggravano soltanto la<br />

disparità fra le nazioni sviluppate e le nazioni sottosviluppate isolandole dai mercati<br />

liberi. I fautori <strong>del</strong> commercio libero vedono l’attuale struttura <strong>del</strong> capitalismo e <strong>del</strong><br />

commercio favorire i proprietari di capitali piuttosto che i consumatori, ma credono<br />

anche che le prescrizioni dei teorici <strong>del</strong>la dipendenza condurrebbero soltanto a più<br />

ricchezza <strong>per</strong> i proprietari capitali ed a più povertà <strong>per</strong> il terzo mondo; con ciò<br />

implicando che il loro invocare restrizioni commerciali e auto-sviluppo<br />

condurrebbero allo stesso risultato che il mercantilismo ottenne sotto il colonialismo.<br />

I liberisti <strong>critica</strong>no la teoria <strong>del</strong>la dipendenza <strong>per</strong>ché mette insieme economia <strong>del</strong><br />

libero mercato e disposizioni commerciali economiche <strong>del</strong> capitalismo corrente e<br />

46


presuppone così che il commercio internazionale <strong>del</strong> mercato libero non aumenterà<br />

lo sviluppo economico e lo sviluppo.<br />

E’ importante, prima di chiudere il paragrafo, soffermarsi su un grande contributo<br />

nella tradizione strutturalista e <strong>del</strong>la dipendenza, cioè l’o<strong>per</strong>a <strong>del</strong>l’economista<br />

brasiliano Celso Furtado (Furtado, 1970, 1975). Gli scritti di Furtado sulla teoria <strong>del</strong><br />

sottosviluppo evidenziano chiaramente l’influenza <strong>del</strong>la teoria e metodologia<br />

marxista che analizzeremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo. Il suo<br />

approccio storico e le stesse conclusioni a cui <strong>per</strong>venne, sull’importanza <strong>del</strong>l’impatto<br />

dei paesi sviluppati su quelli sottosviluppati, presentano molte somiglianze coi lavori<br />

di Baran. Il sottosviluppo non è <strong>una</strong> fase specifica nel processo di sviluppo, è<br />

piuttosto <strong>una</strong> condizione storica particolare. Furtado volle distinguere chiaramente il<br />

concetto di crescita (produzione in aumento) da quello più articolato di sviluppo (che<br />

implica l’impiego <strong>del</strong>la forza lavoro in un modo di produzione che utilizza le<br />

tecnologie più moderne e massimizza la produttività <strong>del</strong> lavoro). E, nell’ambito dei<br />

processi di sviluppo, le rivoluzioni tecnologiche nella produzione interna di beni di<br />

consumo e poi di investimento che caratterizzarono lo sviluppo economico dei paesi<br />

avanzati sul piano industriale furono ben diverse dal cambiamento nelle economie<br />

sottosviluppate, non trainato da dinamiche interne ma indotto dall’esterno, cioè dal<br />

lato <strong>del</strong>la domanda. Nel primo caso, come in Inghilterra, l’introduzione di migliori<br />

tecnologie <strong>per</strong>mise di abbassare i prezzi dei beni di consumo, il che fece aumentare<br />

la domanda e, quindi, la produzione, fintantoché esisteva un eccesso di offerta di<br />

lavoro. Nel 1870, secondo la ricostruzione storica di Furtado, in Inghilterra l’eccesso<br />

di offerta di lavoro a basso costo si era ormai esaurita e questa rigidità determinò ben<br />

presto il rialzo dei salari e la diminuzione dei profitti nel settore dei beni di consumo.<br />

Una conseguenza diretta fu la riduzione <strong>del</strong> tasso di investimento nel settore, con <strong>una</strong><br />

contrazione successiva anche <strong>del</strong>la domanda di produzione di beni capitali e il<br />

rischio di un arresto <strong>del</strong> processo di crescita economico, a causa <strong>del</strong>l’iniziale<br />

contrazione <strong>del</strong>la forza lavoro. Quel che evitò questa <strong>per</strong>versa spirale fu il processo<br />

ininterrotto alla fine <strong>del</strong> XIX secolo di innovazione tecnologica nella produzione di<br />

beni capitali, che consentì di recu<strong>per</strong>are il tasso di profitto tanto nel settore dei beni<br />

di consumo quanto in quello dei beni capitali. L’espansione su scala mondiale di<br />

economie come quella inglese interessò direttamente anche le sorti <strong>del</strong>le economie<br />

47


sottosviluppate, confinate a <strong>per</strong>iferie lungo le nuove linee commerciali, oggetto di<br />

investimenti diretti nella produzione di materie prime da parte <strong>del</strong>le imprese<br />

multinazionali. Si creavano così <strong>del</strong>le strutture ibride e dualistiche nelle economie<br />

dei paesi sottosviluppati, in parte simili a un sistema capitalistico in parte<br />

<strong>per</strong>petuazione <strong>del</strong>le caratteristiche dei sistemi preesistenti.<br />

Secondo Furtado, l’espansione di <strong>una</strong> enclave moderna all’interno <strong>del</strong>le economie<br />

sottosviluppate risultava così direttamente dipendente dalla crescita degli<br />

investimenti indotti dall’esterno, e <strong>per</strong> ciò stesso non sostenibile in termini di un<br />

processo di sviluppo a lungo termine. La questione centrale diventava allora capire se<br />

la produzione <strong>per</strong> l’esportazione poteva essere sufficiente a generare effetti positivi<br />

anche sul piano <strong>del</strong>la domanda interna, cioè, se poteva servire a far aumentare la<br />

domanda necessaria <strong>per</strong> avviare un processo duraturo di crescita di investimenti <strong>per</strong><br />

il mercato interno. In un’analisi <strong>per</strong> diversi aspetti simili a quella sviluppata da<br />

Lewis 2 , la quantità di forza lavoro occupata nel nucleo moderno <strong>del</strong>l’economia, il<br />

salario reale medio, l’ammontare di tasse pagate dalle imprese nel settore moderno<br />

(e, quindi, la scala possibile di spesa pubblica attivabile), la domanda indotta di beni<br />

manifatturieri prodotti localmente e il livello di profitti e salari spesi sul posto sono i<br />

fattori indicati da Furtado come cruciali <strong>per</strong> stimare la scala <strong>del</strong>la domanda generata<br />

da <strong>una</strong> enclave orientata alle esportazioni. Inizialmente, la quota di salari tende ad<br />

essere bassa, come pure limitate sono le tasse riscosse, né il sistema locale è in grado<br />

di competere sul piano <strong>del</strong>la produzione di beni capitali e di consumo di lusso, <strong>per</strong><br />

cui la capacità di trattenere e investire localmente i profitti dipendono essenzialmente<br />

dal tasso di crescita <strong>del</strong>la domanda estera e dalla scala di occupazione <strong>del</strong>la forza<br />

lavoro nel settore moderno. Solo la crescita sostanziale <strong>del</strong>la forza lavoro impiegata<br />

nel settore moderno può giustificare la diversificazione <strong>del</strong>la produzione a favore<br />

<strong>del</strong>la manifattura <strong>per</strong> la produzione di beni di consumo <strong>per</strong> il mercato locale. Ma<br />

Furtado non era molto ottimista circa la possibilità di attrarre su vasta scala lavoratori<br />

nel settore moderno: ipotizzava, in particolare, <strong>una</strong> cifra pari al 5% come il valore<br />

medio <strong>del</strong>la proporzione di lavoratori assorbiti nel settore <strong>per</strong> l’esportazione. Le<br />

implicazioni erano <strong>per</strong>ciò opposte a quelle formulate da Lewis: non è l’espansione<br />

2 Per approfondire la teoria di Lewis fare riferimento a: A. Lewis “The theory of economic growth”<br />

Routledge 2003<br />

48


<strong>del</strong> nucleo capitalistico la via di sviluppo, quanto piuttosto il reinvestimento locale<br />

dei profitti di quella enclave e, a causa <strong>del</strong>le dinamiche dei profitti, le economie<br />

sottosviluppate s<strong>per</strong>imentano <strong>una</strong> espropriazione dei profitti che fuggono all’estero.<br />

Per altro, il caso <strong>del</strong> Brasile serviva a Furtado a rafforzare il suo pessimismo: il<br />

nucleo capitalistico concentrato nella produzione di caffè <strong>per</strong> l’esportazione aveva<br />

dato vita, sin da XIX secolo, a <strong>una</strong> massa consistente di lavoratori impiegati che<br />

avrebbero dovuto generare <strong>una</strong> domanda di beni di consumo da produrre localmente<br />

e che invece, <strong>per</strong> mancanza di capacità competitiva necessaria a reggere l’urto <strong>del</strong>la<br />

concorrenza estera, si era tradotta semplicemente in un incremento di importazioni<br />

dall’estero. Il Brasile, aggiungeva Furtado, era inoltre un’economia di così grandi<br />

dimensioni da poter immaginare un’espansione degli investimenti locali non solo nel<br />

settore dei beni di consumo, ma anche in quelli di investimento; in realtà l’es<strong>per</strong>ienza<br />

brasiliana indicava che, a fronte di un coefficiente di importazioni pari a circa il 10%<br />

<strong>del</strong>l’economia nel suo complesso, la partecipazione <strong>del</strong>le importazioni al valore<br />

complessivo degli investimenti risultava pari a un terzo, il che significava un<br />

coefficiente su<strong>per</strong>iore di tre volte rispetto a quello medio nazionale. La dinamica di<br />

dipendenza dall’estero <strong>del</strong>le economie sottosviluppate sembrava condannare il<br />

processo di cambiamento a un’industrializzazione fonte di domanda crescente di beni<br />

capitali da importare, come anche pezzi di ricambio e componentistica. Mancava, in<br />

altre parole, alcun segno di un processo di generazione di tecnologia locale <strong>per</strong><br />

sostituire i beni intermedi, il design e il know-how importati. Ciò si traduceva in un<br />

continuo incremento di domanda di valuta estera <strong>per</strong> acquistare le importazioni<br />

necessarie e in ricadute negative sul piano occupazionale, <strong>per</strong>petuando la natura<br />

dualistica <strong>del</strong>le economie sottosviluppate. La tecnologia finiva così con l’assumere la<br />

valenza di variabile indipendente nel processo di sviluppo economico, determinante,<br />

al pari <strong>del</strong>la formazione di capitale <strong>del</strong> settore moderno e <strong>del</strong> tasso di crescita<br />

demografico, <strong>del</strong>l’incremento occupazionale e cioè – nei termini di Furtado – <strong>del</strong>la<br />

relazione tra crescita e sviluppo economico. In assenza di appropriati interventi di<br />

politica economica, concludeva Furtado, lo sviluppo industriale è destinato a<br />

rimanere bloccato, mantenendo la struttura dualistica <strong>del</strong>l’economia. Opzioni<br />

politiche auspicabili, in questa prospettiva, sono <strong>per</strong>ciò la formazione di mercati<br />

comuni <strong>per</strong> allargare il mercato e la promozione da parte <strong>del</strong> settore pubblico di<br />

49


sostituzione <strong>del</strong>le importazioni, particolarmente nel caso dei prodotti con alta<br />

elasticità <strong>del</strong>la domanda rispetto al reddito. Infine, tema ricorrente nelle analisi degli<br />

economisti strutturalisti, Furtado affronta il problema strutturale <strong>del</strong>le economie<br />

latinoamericane di un’alta inflazione interna e di crisi <strong>del</strong>la bilancia dei pagamenti.<br />

Una caratteristica distintiva <strong>del</strong>la scuola di pensiero strutturalista è stata quella di<br />

rifiutare l’approccio e le soluzioni neoclassiche e monetariste ai problemi degli<br />

squilibri, sia inflazionistici che di bilancia dei pagamenti, <strong>del</strong>le economie<br />

sottosviluppate e un merito di Furtado è stato quello di chiarire analiticamente i limiti<br />

<strong>del</strong> monetarismo e <strong>del</strong>l’idea secondo cui sia le pressioni sulla bilancia dei pagamenti<br />

sia quelle sull’inflazione interna sarebbero sintomi <strong>del</strong>lo stesso problema, cioè<br />

<strong>del</strong>l’eccesso di domanda generata da <strong>una</strong> troppo rapida espansione <strong>del</strong>l’offerta<br />

monetaria. Le ricette monetariste, essenzialmente volte a svalutare il cambio e<br />

indurre <strong>una</strong> deflazione interna al fine di ridurre la domanda di valuta estera e<br />

aumentare gli introiti valutari produrrebbero, insieme a <strong>una</strong> correzione degli squilibri<br />

monetari, l’arresto <strong>del</strong>lo sviluppo. La scarsa elasticità <strong>del</strong>la domanda rispetto ai<br />

prezzi sia nel caso <strong>del</strong>le importazioni che <strong>del</strong>le esportazioni, il controllo estero <strong>del</strong>la<br />

produzione di beni <strong>per</strong> l’esportazione e i limiti nella capacità di espansione <strong>del</strong>le<br />

esportazioni sono le tre principali ragioni che sconsigliano il ricorso a ricette<br />

monetariste.<br />

Le tesi di Prebisch e dei teorici <strong>del</strong>la dipendenza (Furtado, Dos Santos, Cardoso,<br />

etc..) hanno diversi punti di contatto con la teoria Neo-Marxiana di Paul Baran,<br />

Andrè Gunder Frank ed altri. Questi contributi saranno analizzati nell’ultimo<br />

paragrafo di questo capitolo insieme ad <strong>una</strong> veloce dissertazione <strong>del</strong>la teoria<br />

<strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo.<br />

50


La <strong>critica</strong> neo- marxista e la teoria <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo<br />

Nel corso degli anni ’50, Paul Baran cominciò, in modo allora solitario nel campo<br />

<strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo, ad approfondire l’importanza <strong>del</strong> contributo teorico di<br />

Marx <strong>per</strong> l’analisi <strong>del</strong> sottosviluppo. Giudicando molto feconda l’analisi marxiana,<br />

ma ritenendola anche insufficiente <strong>per</strong> l’assenza di conoscenze specifiche<br />

approfondite sulla realtà dei paesi colonizzati, Baran criticò l’eccessivo ottimismo di<br />

Marx in merito alle “naturali” prospettive di sviluppo capitalistico di quei paesi e<br />

fece ricorso alla teoria <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo di Lenin, alla quale si dedicherà la parte<br />

finale di questo paragrafo. Baran introdusse presto nuovi concetti, a cominciare da<br />

quello di surplus economico effettivo (corrispondente alla differenza tra prodotto e<br />

consumo effettivo), con cui su<strong>per</strong>ava lo schema marxiano ortodosso.<br />

Paul Baran può essere considerato a tutti gli effetti il fondatore <strong>del</strong> neo-marxismo ed<br />

il suo contributo “The political economy of growth” può essere certamente ritenuto il<br />

primo contributo neo- marxista nella storia <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo. Per Karl<br />

Marx il futuro dei paesi sottosviluppati era già segnato: capitalismo, rivoluzione,<br />

socialismo. La fine <strong>del</strong> colonialismo e la rivoluzione cinese portarono il pensiero<br />

marxista verso un’evoluzione che attraverso la teoria <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo e la teoria<br />

economica standard portarono ad <strong>una</strong> scuola che, come vedremo, si distingueva sia<br />

dal marxismo classico sia dagli altri teorici <strong>del</strong>la dipendenza.<br />

Per l’economista russo i paesi sottosviluppati erano co<strong>per</strong>ti da “la cupa ombra<br />

<strong>del</strong>l’arretratezza” (Baran, 1952, p.75) e l’unico modo <strong>per</strong> uscirne era la crescita<br />

economica, assicurata da un aumento costante <strong>del</strong>la produzione totale. La posizione<br />

di Baran non era diversa da quella degli altri economisti <strong>del</strong> suo tempo (Nurkse,<br />

Singer, Rosenstein – Rodan) ma si distingueva dai suoi colleghi <strong>per</strong> un impostazione<br />

<strong>del</strong>l’economia “politica” puramente marxista. “Il fatto cruciale, che trasforma la<br />

realizzazione di un programma di sviluppo è qualcosa di illusorio, è costituito dalla<br />

struttura politica e sociale dei governi al potere.” (p.86)<br />

Il tentativo di istaurare un sistema capitalistico in <strong>una</strong> società praticamente feudale<br />

avrebbe avuto risultati catastrofici poiché gli aspetti negativi dei due sistemi<br />

(sfruttamento capitalistico e assenza di libertà civili) avrebbe portato ad un’<br />

51


amalgama politico – economico che avrebbe impedito ogni possibilità di crescita<br />

economica.<br />

In questa situazione le soluzioni proposte da tutti gli economisti <strong>del</strong>la crescita<br />

economica non avrebbe portato a niente e <strong>una</strong> programmazione pianificata avrebbe<br />

portato solo ad un aumento <strong>del</strong>la corruzione. Secondo Baran l’unica soluzione<br />

possibile sarebbe stata “il collettivo sociale” attraverso <strong>una</strong> “transizione brusca e<br />

dolorosa” (p.90)<br />

L’economista russo non aveva nessun dubbio sulla desiderabilità <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

economico, come sinonimo di crescita, e come Marx attendeva con ansia “il<br />

crescente dominio <strong>del</strong>la razionalità umana sulla natura” (Sweezy, 1965, p.459) ma<br />

insisteva sulla “incompatibilità tra <strong>una</strong> crescita economica costante ed il sistema<br />

capitalista […] La pianificazione economica socialista rappresenta l’unica soluzione<br />

razionale a tale problema.” (p.119)<br />

A differenza di Marx, Baran non considera il capitalismo come uno stadio necessario<br />

allo sviluppo ma bensì un ostacolo al progresso umano. “Lo sviluppo economico dei<br />

paesi sottosviluppati è profondamente nemico degli interessi dominanti nei paesi<br />

capitalistici avanzati”. (Baran, 1960, p.120)<br />

L’elemento centrale <strong>del</strong>l’analisi di Paul Baran è, come ho già accennato, il surplus<br />

economico secondo due eccezioni: il surplus effettivo, cioè “la differenza tra la<br />

produzione effettiva corrente ed il consumo effettivo corrente”, e il surplus<br />

potenziale, cioè “la differenza tra la produzione che si potrebbe ottenere in un dato<br />

ambiente naturale e tecnologico con l’ausilio <strong>del</strong>le risorse produttive impiegabili, e<br />

ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile” (Baran, 1971, p.34-<br />

35). Nelle condizioni di un’economia capitalistica monopolistica la differenza tra<br />

surplus effettivo e surplus potenziale si allarga a causa <strong>del</strong>la sottoproduzione.<br />

I paesi sottosviluppati quindi sono necessari <strong>per</strong>ché diventano un vero e proprio<br />

“hinterland” dei paesi capitalisti che in essi trovano la fonte di materie prime, di vasti<br />

profitti e sbocchi di investimento. In Baran c’è già l’accenno a quel mo<strong>del</strong>lo che in<br />

Prebisch e nei “dipendentisti” sarà l’ossatura stessa <strong>del</strong>la teoria, cioè il rapporto<br />

centro- <strong>per</strong>iferia. Il capitalismo monopolistico con l’im<strong>per</strong>ialismo dei paesi<br />

occidentali e l’arretratezza dei paesi sottosviluppati sono le due facce <strong>del</strong>la stessa<br />

medaglia e costituiscono un problema globale.<br />

52


Alla fine degli anni ’60, l’approccio di Baran aveva attratto diversi studiosi, a<br />

cominciare da Andre Gunder Frank, proveniente dall’università di Chicago e<br />

trasferitosi a lavorare in America latina.<br />

Il contributo <strong>del</strong> sociologo tedesco è importante <strong>per</strong>ché <strong>per</strong> la prima volta si<br />

individua nel capitalismo il vero motivo <strong>del</strong> sottosviluppo. A differenza di Marx, <strong>per</strong><br />

il quale il capitalismo era un passaggio necessario, e a differenza di Baran, <strong>per</strong> il<br />

quale il capitalismo era diventato un ostacolo nel progresso <strong>del</strong>l’uomo, Frank<br />

credeva che il sottosviluppo fosse causato dal capitalismo.La sua tesi si ricollegava in<br />

parte alle conclusioni <strong>del</strong>la teoria <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo di Lenin, alla quale si accennerà<br />

tra poco, secondo cui lo sviluppo capitalistico dei sistemi metropolitani si era<br />

affermato a danno <strong>del</strong>le colonie sottosviluppate attraverso l’esproprio <strong>del</strong> loro<br />

surplus. Affermando che capitalismo e sottosviluppo erano parte <strong>del</strong>lo stesso sistema,<br />

Frank sosteneva che soltanto a causa <strong>del</strong>l’infiltrazione <strong>del</strong> capitalismo che i paesi<br />

<strong>del</strong>l’America Latina erano stati colpita da sottosviluppo. Secondo il sociologo<br />

tedesco la borghesia era incapace di sostenere quel ruolo progressista che aveva<br />

avuto in Europa <strong>per</strong>ché essa era membra (e servile) di <strong>una</strong> classe internazionale di<br />

proprietari.<br />

Grazie all’economista senegalese Samir Amin, che usò l’apporto analitico <strong>del</strong>la<br />

teoria <strong>del</strong>lo scambio ineguale di Arghiri Emmanuel, il <strong>paradigma</strong> neomarxista si<br />

andava definendo in modo più rigoroso, accentuando l’importanza <strong>del</strong>l’estrazione di<br />

surplus attraverso il commercio, <strong>del</strong>ineando le prospettive di sviluppo <strong>del</strong> modo di<br />

produzione capitalistico in relazione alla specifica posizione nell’economia<br />

internazionale, sottolineando la contrapposizione tra centro e <strong>per</strong>iferia che<br />

evidenziava un interesse convergente di tutte le classi dominanti (sia nei paesi <strong>del</strong><br />

centro che in quelli <strong>per</strong>iferici) a non favorire lo sviluppo di un capitalismo produttivo<br />

nelle <strong>per</strong>iferie.<br />

Egli individuava il rimedio non tanto nello sviluppo che avrebbe fatto crescere<br />

gradualmente i livelli di produttività <strong>del</strong> lavoro e i salari reali nei paesi in via di<br />

sviluppo, quanto alla “liberazione <strong>del</strong>la <strong>per</strong>iferia” attraverso la rivoluzione socialista,<br />

poiché il socialismo totale sarà necessariamente fondato su un’economia moderna a<br />

produttività elevata”(Amin, 1977).<br />

53


L’analisi neomarxista <strong>del</strong>la posizione <strong>del</strong>le economie sottosviluppate all’interno <strong>del</strong><br />

regime internazionale trovava molti punti di contatto con la teoria strutturalista<br />

latinoamericana degli anni ’40 e ’50, avviata da Raul Prebisch, da cui <strong>per</strong>ò si<br />

discostava <strong>per</strong> l’impiego <strong>del</strong>l’analisi di classe come determinante prima <strong>del</strong><br />

sottosviluppo e <strong>per</strong> il ricorso al concetto di surplus economico. Il neomarxismo, cioè,<br />

non riconosceva come fondamentale l’importanza alle strutture economiche esistenti,<br />

considerate invece le principali cause <strong>del</strong> sottosviluppo da parte degli strutturalisti,<br />

che proponevano soluzioni riformiste specifiche (a cominciare dalle politiche di<br />

sostituzione <strong>del</strong>le importazioni); secondo i neomarxisti tali politiche erano da<br />

considerare puri palliativi rispetto all’unica strategia <strong>per</strong>corribile, di riappropriazione<br />

<strong>del</strong> surplus attraverso <strong>una</strong> rivoluzione socialista (in ciò, venendo <strong>critica</strong>ti dai marxisti<br />

ortodossi che ritenevano, invece, il capitalismo <strong>una</strong> fase necessaria nel <strong>per</strong>corso<br />

verso il raggiungimento <strong>del</strong> socialismo).<br />

Il lavoro di economisti neo – marxisti, dei “dipendentisti” e di Samir Amin portarono<br />

più volte nelle conferenze dei paesi non allineati e nelle varie commissioni ONU<br />

l’idea <strong>del</strong>la necessità di un Nuovo Ordine Economico Internazionale: “Qualsiasi<br />

forma di sviluppo si produca, questa è distorta o iniqua, coinvolgendo solo <strong>una</strong><br />

piccola parte <strong>del</strong>la popolazione e riguardando ambiti esclusivamente settoriali e<br />

regionali.” (Anell e Nygren, 1980)<br />

Prima di chiudere questo capitolo è necessario soffermarsi su <strong>una</strong> teoria che ha<br />

fortemente influenzato tutta la teorizzazione sul sottosviluppo, cioè la teoria<br />

<strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo.<br />

I primi teorici <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo economico sono Lenin, J. Hobson e Rosa<br />

Luxembourg. Per Hobson, il capitalismo inglese, sviluppato ormai in concentrazioni<br />

monopolistiche, avrebbe provocato un eccesso di risparmio che tuttavia non avrebbe<br />

trovato utilizzo interno, a causa <strong>del</strong>l'impoverimento <strong>del</strong>la maggior parte <strong>del</strong>la<br />

popolazione. La necessità di facilitare gli investimenti esteri, quindi, avrebbe indotto<br />

la spinta espansionistica. Su queste basi, Hobson suggeriva <strong>una</strong> serie di interventi<br />

volti ad aumentare il potere di acquisto <strong>del</strong>le masse, <strong>per</strong> poter disinnescare la<br />

tendenza im<strong>per</strong>ialista.<br />

Rosa Luxembourg vedeva l'incorporazione forzata di popolazioni e territori nei<br />

processi di accumulazione <strong>del</strong> capitale come <strong>una</strong> caratteristica costante di<br />

54


quest'ultimo, dovuta ai tentativi dei suoi agenti di su<strong>per</strong>are le croniche tendenze alla<br />

sovrapproduzione.<br />

Per Lenin “l’im<strong>per</strong>ialismo è la fase monopolistica <strong>del</strong> capitalismo” (Lenin, 1966) e<br />

riteneva che l'imporsi dei processi di concentrazione <strong>del</strong>la produzione e <strong>del</strong> capitale<br />

avrebbe posto termine al <strong>per</strong>iodo <strong>del</strong>la libera concorrenza <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

capitalistico, e trasformato il mondo in un teatro di lotta economica tra associazioni<br />

monopolistiche internazionali. Questa lotta sarebbe destinata a concludersi nella<br />

guerra im<strong>per</strong>ialistica <strong>per</strong> la spartizione dei domini coloniali.<br />

Tra le ragioni <strong>per</strong> cui la dottrina leninista <strong>del</strong>l'im<strong>per</strong>ialismo è ancora oggi la più<br />

diffusa tra i sostenitori <strong>del</strong> marxismo vi è il fatto che essa ebbe <strong>una</strong> maggiore<br />

capacità di rivolgersi a fenomeni im<strong>per</strong>ialistici diversi da quelli <strong>del</strong>l'espansione<br />

coloniale stessa. Nel tempo essa venne integrata fino ad essere estesa al fenomeno<br />

<strong>del</strong> neocolonialismo, alle situazioni, cioè, in cui i paesi “sfruttati” mantennero un<br />

governo almeno formalmente indipendente dagli stati “sfruttatori”. Dopo la Seconda<br />

Guerra Mondiale emerse <strong>una</strong> nuova importante interpretazione <strong>del</strong>l'im<strong>per</strong>ialismo<br />

dovuta ai marxisti di formazione americana Baran e Sweezy, che fornirono forse il<br />

più importante contributo marxista all'analisi dei fenomeni <strong>del</strong> neocolonialismo e <strong>del</strong><br />

sottosviluppo. Animati dal proposito di su<strong>per</strong>are la teoria di Lenin, ancora troppo<br />

legata ad un’economia di tipo concorrenziale, i due studiosi costruirono un mo<strong>del</strong>lo<br />

teorico che considerava più esplicitamente l'economia monopolistica come il<br />

principale fattore <strong>del</strong>l'im<strong>per</strong>ialismo.<br />

Sweezy, fondendo due diverse letture di Marx, vede nell’esportazione di capitale e<br />

nella creazione di colonie come strumento <strong>per</strong> crearvi condizioni ad essa favorevoli il<br />

modo in cui il capitalismo si oppone alla caduta tendenziale <strong>del</strong> saggio di profitto e<br />

alle conseguenze <strong>del</strong> sottoconsumo.<br />

Per quanto riguarda il problema <strong>del</strong> sottosviluppo, questa teoria si riallacciò a un<br />

filone di pensiero, <strong>del</strong> quale si è parlato in questo paragrafo, ampiamente sviluppato<br />

da numerosi studiosi marxisti, diretto a sottolineare lo sfruttamento dei paesi neo-<br />

indipendenti. Il termine colonialismo è stato spesso usato come sinonimo di<br />

im<strong>per</strong>ialismo, e più specificamente <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo di tipo "diretto" o "formale".<br />

Ciò è dovuto sicuramente al fatto che il <strong>per</strong>iodo storico comunemente considerato<br />

come "il <strong>per</strong>iodo di splendore" <strong>del</strong>l'im<strong>per</strong>ialismo coincide con la spartizione<br />

55


coloniale <strong>del</strong>l'Africa e in parte <strong>del</strong>l'Asia tra il XIX e il XX secolo. In realtà il<br />

colonialismo è solo <strong>una</strong> <strong>del</strong>le forme che l'im<strong>per</strong>ialismo ha assunto nel corso <strong>del</strong>la<br />

storia, con contenuti più complessi che nelle epoche precedenti. In linea generale,<br />

con il termine “colonizzazione”, ci si riferisce al processo di espansione e di<br />

conquista, alla sottomissione <strong>per</strong> mezzo <strong>del</strong>l'uso <strong>del</strong>la forza e <strong>del</strong>la su<strong>per</strong>iorità<br />

economica di altri territori e popolazioni. Il termine “colonialismo”, invece, definisce<br />

più propriamente la dottrina e la pratica politica <strong>del</strong>l'organizzazione di sistemi di<br />

dominio, ossia all'organizzazione di forme statuali coloniali, il cui fine era la<br />

strutturazione di ciascun paese assoggettato in funzione di un razionale sfruttamento<br />

<strong>del</strong>le risorse. Dopo la II Guerra Mondiale, di fronte all'esaurimento <strong>del</strong>la spinta<br />

im<strong>per</strong>ialista degli stati europei e <strong>del</strong> Giappone, al processo di decolonizzazione, e<br />

alla sopravvivenza <strong>del</strong> capitalismo, molti studiosi marxisti o neomarxisti hanno<br />

sentito l'esigenza di costruire nuove teorie legate all'espansione im<strong>per</strong>ialista. Essi<br />

hanno visto il fenomeno <strong>del</strong>l'im<strong>per</strong>ialismo continuare a manifestarsi sia nei rapporti<br />

egemonici instauratisi fra le due nuove su<strong>per</strong>potenze (USA e URSS) e gli stati nel<br />

loro blocco, sia nel cosiddetto "neocolonialismo", praticato soprattutto dagli Stati<br />

Uniti. In seguito, il neocolonialismo prese ad essere riferito, più che al dominio<br />

politico esclusivo di <strong>una</strong> metropoli sui suoi ex possedimenti coloniali, al dominio <strong>del</strong><br />

mercato capitalistico internazionale sui paesi produttori di materie prime. Questi<br />

sono dipendenti dai paesi ricchi sul piano finanziario e tecnologico, e governati da<br />

classi politiche pesantemente condizionate dalla struttura <strong>del</strong>la dipendenza<br />

economica. In questo modo l'im<strong>per</strong>ialismo viene oggi a essere collegato a temi come<br />

il sottosviluppo, la povertà, etc. Seguendo questa linea di pensiero, all'idea <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo di un "im<strong>per</strong>ialismo informale" è legata alla teoria <strong>del</strong>la dipendenza, che è<br />

già stata affrontata.<br />

L'im<strong>per</strong>ialismo può manifestarsi attraverso diverse sfere, dal governo, alla politica,<br />

dall'economia alla cultura. Secondo <strong>una</strong> diffusa lettura si è distinto tra due forme di<br />

im<strong>per</strong>ialismo:<br />

Diretto o formale: quando <strong>una</strong> potenza esercita un pieno controllo su un'area<br />

dipendente, da cui sottrae la capacità decisionale;<br />

indiretto o informale: quando uno stato potente esercita un dominio effettivo su uno<br />

più debole senza occuparlo materialmente. In quest'ultimo caso, gli strumenti<br />

56


possono essere i più vari, dalle minacce di interventi militari alle pressioni<br />

diplomatiche.<br />

Oggi queste teorie <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo sembrano inutili <strong>per</strong> affrontare tematiche<br />

immerse ormai in fenomeni globalizzati, ma si può tranquillamente affermare che<br />

tendenze im<strong>per</strong>ialistiche non siano affatto scomparse e che i cosiddetti “agenti <strong>del</strong>la<br />

globalizzazione” siano il nuovo strumento di un im<strong>per</strong>ialismo completamente<br />

rinnovato.<br />

57


CAPITOLO TERZO:<br />

Il contributo “eterodosso” ai mo<strong>del</strong>li di sviluppo<br />

“Se l'effetto immediato di un<br />

cambiamento è <strong>del</strong>eterio, allora,<br />

fino a prova contraria, lo è anche<br />

l'effetto finale”<br />

Karl Polanyi<br />

In questo capitolo si affronterà la tematica <strong>del</strong>lo sviluppo secondo approcci differenti<br />

che inseriscono il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>lo sviluppo regionale in teorie che si erano<br />

esclusivamente interessate di fenomeni nazionali o inerenti al mercato. Già nel<br />

capitolo precedente si è visto come i mo<strong>del</strong>li proposti dagli “economisti <strong>del</strong><br />

sottosviluppo” provocarono <strong>una</strong> rottura concettuale nei confronti dei mo<strong>del</strong>li neo-<br />

classici di crescita. Le o<strong>per</strong>e che analizzeremo in questo capitolo sono di autori che si<br />

pongono in contrapposizione al mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>l’equilibrio di ispirazione neoclassica.<br />

L’economia <strong>per</strong> questi autori non può fare a meno <strong>del</strong>lo studio dei rapporti sociali.<br />

La scienza economica in questo capitolo torna ad essere <strong>una</strong> scienza sociale.<br />

Il contributo <strong>del</strong>l’antropologia economica di Karl Polanyi e gli elementi di storia,<br />

sociologia e filosofia di Gunnar Myrdal e Albert Hirschman, ma anche l’elemento<br />

spaziale nella teoria di Francois Perroux evolvono il concetto di sviluppo che nel<br />

secondo dopoguerra dominava la cultura mainstream <strong>del</strong>la scienza economica e <strong>del</strong>la<br />

politica.<br />

Questi autori hanno analizzato lo sviluppo rompendo con la tradizione puramente<br />

economicista dei neoclassici e, in parte, dei keynesiani. Il loro contributo più<br />

importante è stato quello di aver fornito le basi <strong>per</strong> un’interpretazione diversa<br />

<strong>del</strong>l’economia che ha portato a consolidare quel trait-d’union che deve<br />

necessariamente esserci tra la scienza economica e le scienze sociali.<br />

Questo capitolo può essere considerato anche come un’introduzione alla seconda<br />

parte dove verrà analizzato il contributo <strong>del</strong> concetto di “sviluppo locale” dato che i<br />

58


contributi degli autori trattati in questi paragrafi inseriscono la dimensione spaziale<br />

nel ragionamento sullo sviluppo.<br />

La volontà di questi economisti è quella di descrivere ed interpretare il processo <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo economico in termini contrapposti a quelli lineari <strong>del</strong>l’equilibrio<br />

neoclassico. In quest’ottica, la proposta teorica fornita da Perroux, Myrdal ed<br />

Hirschman può essere compresa come un tentativo di spiegare la crescita economica<br />

in modo più realistico di quanto non si potesse desumere dai mo<strong>del</strong>li di crescita<br />

equilibrata proposti nella tradizione neoclassica. Su questa nuova interpretazione<br />

<strong>del</strong>l’economia reale si baseranno molte politiche di programmazione economica e<br />

territoriale <strong>del</strong> dopoguerra che stravolsero quella che <strong>per</strong> Perroux era solo <strong>una</strong><br />

descrizione analitica <strong>del</strong>la realtà.<br />

Si inizierà questo capitolo con <strong>una</strong> breve dissertazione <strong>del</strong>l’o<strong>per</strong>a “La grande<br />

trasformazione” di Karl Polanyi che pone l’attenzione sui problemi basilari<br />

<strong>del</strong>l’economia capitalistica e <strong>del</strong> suo sviluppo.<br />

59


La grande trasformazione di Karl Polanyi<br />

L’argomento principale di Karl Polanyi, recu<strong>per</strong>ato da molti altri economisti<br />

eterodossi, è che l’economia è immersa nei rapporti sociali e che le dinamiche <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo non possono essere apprese appieno restando all’interno di <strong>una</strong> logica<br />

meramente economicistica. Questo è il messaggio che “La grande trasformazione”<br />

porta nella scienza <strong>del</strong>lo sviluppo: esso non può essere interpretato dall’esclusiva<br />

ottica <strong>del</strong> “mercato autoregolato”.<br />

Polanyi nell’incipit spiega il senso <strong>del</strong>la “grande trasformazione”: “La civiltà <strong>del</strong><br />

diciannovesimo secolo è crollata. Questo libro si occupa <strong>del</strong>le origini politiche ed<br />

economiche di questo avvenimento oltre che <strong>del</strong>la grande trasformazione che l' ha<br />

seguito. La civiltà <strong>del</strong> diciannovesimo secolo poggiava su quattro istituzioni. La<br />

prima era il sistema <strong>del</strong>l'equilibrio <strong>del</strong> potere che <strong>per</strong> un secolo impedì che tra le<br />

grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici. La seconda era la base<br />

aurea internazionale, che simboleggiava un'organizzazione unica <strong>del</strong>l'economia<br />

mondiale. La terza era il mercato autoregolato che produceva un benessere<br />

economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale…Tra queste istituzioni la<br />

base aurea si dimostrò decisiva; la sua caduta fu la causa prossima <strong>del</strong>la catastrofe e<br />

al tempo in cui essa cadde la maggior parte <strong>del</strong>le altre istituzioni erano state<br />

sacrificate in un vano sforzo di salvarla. La fonte e la matrice <strong>del</strong> sistema era tuttavia<br />

il mercato autoregolato: fu questa innovazione a dare origine ad <strong>una</strong> civiltà specifica.<br />

La base aurea era semplicemente il tentativo di estendere il sistema <strong>del</strong> mercato<br />

interno al campo internazionale; il sistema <strong>del</strong>l'equilibrio <strong>del</strong> potere era <strong>una</strong><br />

sovrastruttura eretta sulla base aurea e in parte o<strong>per</strong>ante su di essa; lo stato liberale<br />

era esso stesso <strong>una</strong> creazione <strong>del</strong> mercato autoregolato. La chiave <strong>del</strong> sistema<br />

istituzionale <strong>del</strong> diciannovesimo secolo si trovava nelle leggi che governavano<br />

l'economia di mercato. La nostra tesi è che l'idea di un mercato autoregolato<br />

implicasse <strong>una</strong> grande utopia. Un'istituzione <strong>del</strong> genere non poteva esistere <strong>per</strong> un<br />

qualunque <strong>per</strong>iodo di tempo senza annullare la sostanza naturale e sociale <strong>del</strong>la<br />

società; essa avrebbe distrutto l'uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo<br />

60


ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse <strong>del</strong>le misure <strong>per</strong><br />

difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l'autoregolazione <strong>del</strong><br />

mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così la società in <strong>per</strong>icolo in un<br />

altro modo. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo <strong>del</strong> sistema di mercato in un<br />

solco preciso ed infine a far crollare l'organizzazione sociale che si basava su di<br />

esso.” (Polanyi, 1974, p. 5-6)<br />

Secondo l’economista ungherese il capitalismo non è, come sosteneva la tradizione<br />

liberale, un naturale punto di approdo nelle società umane, ma l’estrema artificiosità<br />

di un sistema in cui l’economia si sottrae al controllo sociale diventa evidente al<br />

tramonto <strong>del</strong>la “civiltà <strong>del</strong> diciannovesimo secolo”. Dopo la crisi e le guerre la<br />

“società di mercato” non è più “naturale” <strong>del</strong>le altre società ma assai meno e , <strong>per</strong><br />

questo, è destinata a chiudersi con <strong>una</strong> crisi violenta come tutti i casi “patologici”.<br />

Il fallimento evidente <strong>del</strong>la filosofia liberale basata sul meccanismo <strong>del</strong> mercato si<br />

concretizza nella comprensione <strong>del</strong> problema <strong>del</strong> cambiamento. L’economia<br />

neoclassica è statica è quindi inadatta a comprendere un economia necessariamente<br />

dinamica.<br />

Polanyi mina le basi antropologiche <strong>del</strong>la dottrina economica liberale negando la<br />

pulsione fondamentale <strong>del</strong>l’attività economica cioè, sulla scorta di A. Smith, la<br />

“propensione al baratto, al commercio e allo scambio di <strong>una</strong> cosa con l’altra”. Su<br />

questa propensione si è formato l’utilitarismo e il <strong>per</strong>seguimento <strong>del</strong> benessere<br />

individuale è diventato un dovere, legittimo ed utile <strong>per</strong> tutta la società.<br />

L’economista ungherese è radicale nell’affermare la falsità di questo sistema:<br />

“Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo<br />

secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto <strong>una</strong> parte<br />

importante nell’economia e <strong>per</strong> quanto l’istituzione <strong>del</strong> mercato fosse abbastanza<br />

comune a partire dalla tarda Età <strong>del</strong>la Pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei<br />

confronti <strong>del</strong>la vita economica” (p. 57). Il sistema economico è <strong>una</strong> funzione <strong>del</strong><br />

sistema sociale e non viceversa, come sostengono i liberisti:“l’importanza vitale <strong>del</strong><br />

fattore economico <strong>per</strong> l’esistenza <strong>del</strong>la società preclude qualunque altro risultato<br />

poiché <strong>una</strong> volta che il sistema economico sia organizzato in istituzioni separate,<br />

basate su motivi specifici e conferenti uno speciale status. La società deve essere<br />

61


formata in modo da <strong>per</strong>mettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie<br />

leggi” (p.74).<br />

Il sistema di mercato si auto- regola e si auto- riproduce e attraverso la<br />

mercificazione <strong>del</strong> lavoro, <strong>del</strong>la terra e <strong>del</strong>la moneta, si <strong>per</strong>mette “ al meccanismo di<br />

mercato di essere l’unico elemento direttivo <strong>del</strong> destino degli esseri umani e <strong>del</strong> loro<br />

ambiente naturale e <strong>per</strong>fino <strong>del</strong>la quantità e <strong>del</strong>l’impiego <strong>del</strong> potere d’acquisto” e ciò<br />

“porterebbe alla demolizione la società.” (p. 93)<br />

L’opinione <strong>del</strong>l’economista ungherese <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>del</strong>la società di mercato<br />

capitalista si concretizza in un’analisi spietata secondo la quale, <strong>una</strong> volta messo in<br />

moto dai processi sociali, vale a dire dalla spietata avidità dei capitalisti, avallato<br />

dalle forze politiche che rappresentavano i loro interessi e teorizzato dagli utilitaristi<br />

e dagli economisti classici, il meccanismo diabolico <strong>del</strong> “mercato regolato” produce<br />

di fatto, nel corso <strong>del</strong>l’800, i suoi effetti: la crescita prodigiosa <strong>del</strong>la ricchezza è<br />

pagata al prezzo di un enorme aumento <strong>del</strong>la miseria e <strong>del</strong>la degradazione umana.<br />

Il costo <strong>del</strong>lo sviluppo capitalistico è necessariamente troppo alto e la trasformazione<br />

<strong>del</strong>l’economia di mercato in un vero e proprio “credo” attestato <strong>per</strong> un verso su di<br />

<strong>una</strong> rivendicazione apologetica <strong>del</strong>la fondatezza scientifica <strong>del</strong>le leggi economiche<br />

che governano il mercato e <strong>per</strong> un altro su di un’orgogliosa difesa dalle critiche<br />

secondo la quale l’incompleta applicazione dei suoi principi era la ragione di tutte le<br />

difficoltà che ad esso venivano attribuite. La difesa <strong>del</strong> liberismo capitalista è<br />

totalizzante e <strong>per</strong>icolosa poiché attraverso questa difesa il liberismo paradossalmente<br />

si spiritualizza, nel senso che, contro l’evidenza <strong>del</strong>le cose, esso diventa il paladino<br />

<strong>del</strong> progresso contro le oscure forze conservatrici che ad esso si oppongono: lo Stato<br />

burocratico e la classe lavoratrice miope e accecata dai sindacati “di fronte ai<br />

benefici ultimi di un’illimitata libertà economica verso tutti gli interessi umani,<br />

compresi i suoi” (p. 185).<br />

Il vero <strong>per</strong>icolo <strong>del</strong>lo sviluppo capitalistico si realizza poiché il suo carattere<br />

selvaggio non sta tanto e solo nel grado di sfruttamento <strong>del</strong>l’uomo e <strong>del</strong>la natura che<br />

esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere <strong>una</strong> nuova cultura<br />

che scinda definitivamente i legami che l’uomo ha sempre sentito di avere con la<br />

società e con la natura, il tessuto umano e naturale <strong>del</strong>la vita sociale, <strong>per</strong> produrre<br />

infine l’individuo che <strong>per</strong>segue univocamente il fine di affermare i suoi interessi:<br />

62


“separare il lavoro dalle altre attività <strong>del</strong>la vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato<br />

significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo<br />

diverso di organizzazione, atomistico e individualistico” (p.210). Questa<br />

affermazione è un vero e proprio “atto di accusa” nei confronti <strong>del</strong> capitalismo e <strong>del</strong><br />

suo sviluppo. L’economista ungherese individua due possibili strade di uscita: il<br />

socialismo, nella sua eccezione democratica, ed il fascismo.<br />

La versione umanitaristica e socialdemocratica <strong>del</strong>l’alternativa socialista che Polanyi<br />

sembra sottoscrivere è “la tendenza inerente ad <strong>una</strong> civiltà industriale a su<strong>per</strong>are il<br />

mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad <strong>una</strong> società democratica…<br />

dal punto di vista <strong>del</strong>la comunità nel suo insieme il socialismo è semplicemente la<br />

continuazione di quello sforzo di rendere la società un rapporto specificamente<br />

umano tra <strong>per</strong>sone, rapporto che nell’Europa occidentale era sempre stato associato<br />

alle tradizioni cristiane. Dal punto di vista economico, esso è al contrario un<br />

allontanamento radicale dal passato immediato, nella misura in cui esso rompe con il<br />

fare dei guadagni monetari privati l’incentivo generale alle attività produttive e non<br />

riconosce il diritto degli individui privati di disporre dei principali strumenti di<br />

produzione. Ecco <strong>per</strong>ché, in ultima analisi, la riforma <strong>del</strong>l’economia capitalistica da<br />

parte dei partiti socialisti è difficile anche quando essi siano decisi a non interferire<br />

nel sistema di proprietà. Infatti la semplice possibilità che essi possano decidere di<br />

farlo diminuisce quel tipo di fiducia che nell’economia liberale è vitale, cioè<br />

l’assoluta fiducia nella continuità dei titoli di proprietà. Mentre il contenuto di fatto<br />

dei diritti di proprietà potrebbe subire <strong>una</strong> ridefinizione <strong>per</strong> mezzo <strong>del</strong>la legislazione,<br />

la sicurezza <strong>del</strong>la continuità formale è esenziale <strong>per</strong> la continuità <strong>del</strong>l’economia di<br />

mercato” (p.295). Il fascismo è <strong>una</strong> soluzione autoritaria e conservatrice che <strong>per</strong>mette<br />

alle classi borghesi il controllo dei partiti socialisti. Questa soluzione salva il mercato<br />

ma rinuncia alla democrazia attraverso un rieducazione forzata che elimina l’idea di<br />

fratellanza degli uomini.<br />

Il pensiero di Polanyi sullo sviluppo è assolutamente contrastante con lo sviluppo<br />

economico, liberale e capitalista che si è analizzato fino ad ora. L’economista<br />

ungherese, che può essere considerato un “classico”, rompe radicalmente con la<br />

tradizione liberale risalente ad Adam Smith ma soprattutto con l’economia neo-<br />

classica e l’utilitarismo ponendo <strong>una</strong> <strong>critica</strong> alla base antropologica che sottostà al<br />

63


“discorso economico”. E’ riscontrabile un “fil rouge” tra il pensiero di Karl Marx e le<br />

sue argomentazioni , ma, a differenza <strong>del</strong> filosofo tedesco, Polanyi ha il vantaggio di<br />

applicare all’analisi <strong>del</strong> liberismo un’ottica antropologica che, senza minimizzarne<br />

gli effetti economici, sottolinea la sua <strong>per</strong>vicace volontà di attentare la sostanza<br />

umana e naturale <strong>del</strong>la vita sociale: quella <strong>per</strong> cui l’uomo, nella sua lunga storia, ha<br />

sempre riconosciuto l’appartenenza ad un gruppo e alla natura come fondamento<br />

<strong>del</strong>la sua esistenza. A differenza di Marx, l’economista ungherese sottolinea<br />

vigorosamente il carattere di mutazione culturale prima ancora che economica che il<br />

liberismo introduce nella storia <strong>del</strong> mondo. Una mutazione che, secondo i liberisti,<br />

affrancherebbe finalmente l’individuo dai conservatorismi di un passato che limitava,<br />

nei rapporti sociali e in quelli con l’ambiente, la sua libertà di autorealizzazione,<br />

mentre, secondo Polanyi, essa comporta il rischio di un’atomizzazione <strong>del</strong>l’esistenza<br />

individuale e di <strong>una</strong> degradazione <strong>del</strong>la società.<br />

Storicizzando il suo pensiero, si può affermare che Polanyi trovi la soluzione <strong>del</strong><br />

“problema <strong>del</strong>lo sviluppo” in <strong>una</strong> vera e propria rivoluzione culturale <strong>del</strong> pensiero<br />

liberale che riesca a smascherare la mistificazione di un sistema di mercato <strong>per</strong> il<br />

quale tutto deve essere comprato e venduto, stravolgendo ogni attività umana, come<br />

il lavoro. La mercificazione <strong>del</strong>la società ed il falso presupposto antropologico che<br />

l’attività principale <strong>del</strong>l’uomo sia lo scambio hanno creato questa enorme<br />

mistificazione dalla quale è necessario liberarsi.<br />

Lo strumento <strong>per</strong> la liberazione dalla società capitalista deve essere <strong>per</strong> Polanyi <strong>una</strong><br />

soluzione democratica e socialista rompendo lo schema di produzione/ proprietà che<br />

domina lo sviluppo capitalistico.<br />

Lo sviluppo <strong>per</strong> Polanyi si concretizza solo in <strong>una</strong> società dove le relazioni umane<br />

non si riducono esclusivamente allo scambio o all’accumulazione capitalista. La<br />

ricetta che ci propose l’economista ungherese è <strong>una</strong> vera e propria sterzata dai binari<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo economico liberista.<br />

Dalla prospettiva sociologica ed antropologica di Karl Polanyi si può introdurre il<br />

pensiero di un autore che condizionò profondamente l’idea di sviluppo introducendo<br />

la dimensione spaziale che fino a quel momento era stata ignorata dai teorici <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo economico.<br />

64


François Perroux e i poli di sviluppo<br />

Un grande contributo alla teorizzazione <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo in<br />

contrapposizione con lo schema neoclassico <strong>del</strong>l’equilibrio è stato fornito dall’o<strong>per</strong>a<br />

<strong>del</strong>l’economista francese Francois Perroux che si occupò di scienza economica in<br />

un’ottica “sviluppista” riprendendo la visuale degli economisti classici come Marx e<br />

Schumpeter.<br />

Perroux rompe con il pensiero neoclassico <strong>per</strong>ché distingue la crescita dallo<br />

sviluppo:<strong>per</strong> crescita intendeva la crescita economica e <strong>del</strong> prodotto, e <strong>per</strong> sviluppo,<br />

lo sviluppo morale e culturale <strong>del</strong>l’individuo: l’unico fattore capace di indicare il<br />

grado di progresso sociale realmente conseguito nel campo <strong>del</strong>le libertà civili.<br />

Secondo Perroux, <strong>per</strong>ò, senza crescita economica non c’è progresso <strong>civile</strong>, e<br />

viceversa: i due fattori procedono insieme.<br />

La distinzione resta fondamentale <strong>per</strong>ché pone un problema <strong>del</strong>la qualità <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo indicando la crescita come strumento e non come fine, <strong>critica</strong>ndo il sistema<br />

capitalistico.<br />

Nell’o<strong>per</strong>a di Perroux i costi umani e sociali e il problema <strong>del</strong>la sensibilizzazione<br />

<strong>del</strong>le scienze sociali e <strong>del</strong>la disciplina economica al valore e ai bisogni <strong>del</strong>la risorsa<br />

umana sono aree di riflessione e di indagine strettamente connesse: la<br />

minimizzazione dei costi sociali <strong>del</strong> capitalismo necessita di <strong>una</strong> scienza sociale ed<br />

economica umanizzata sulla base a criteri di razionalità scientifica, formulati in<br />

termini di standard di benessere sostanziale, di “costi umani” o “minimi sociali<br />

esistenziali”. I costi sociali sono fenomeni di <strong>per</strong>dita di valore sociale derivanti dalla<br />

mancata considerazione dei costi umani o dei minimi sociali esistenziali. Perroux<br />

propone <strong>una</strong> “rivoluzione”, compatibile alla <strong>critica</strong> di Karl Polanyi, cioè <strong>una</strong><br />

“umanizzazione <strong>del</strong>la scienza economica”.<br />

Perroux affronta la problematica dei costi umani sullo sfondo <strong>del</strong>la propria <strong>critica</strong><br />

<strong>del</strong>la concorrenza pura e <strong>per</strong>fetta e <strong>del</strong>la competizione im<strong>per</strong>fetta. Egli considera gli<br />

“equilibri spontanei” tra piccole unità economiche (individui, imprese) <strong>del</strong>la<br />

concorrenza pura e <strong>per</strong>fetta, sotto l’”arbitrato ‘neutro’ <strong>del</strong> prezzo”, “nulla di più che<br />

<strong>una</strong> costruzione logica” (Perroux 1991, p.5). La concorrenza non garantisce contro<br />

65


fenomeni di spoliazione e depredamento di risorse naturali dovuti al prevalere di<br />

atteggiamenti predatori: “La ripartizione ottima <strong>del</strong>le risorse e degli impieghi<br />

attraverso il meccanismo dei prezzi e attraverso il gioco <strong>del</strong>le decisioni individuali<br />

risulta un’amara irrisione <strong>per</strong> chi prende in considerazione gli aggregati e gli effetti<br />

di lungo <strong>per</strong>iodo. L’imprenditore e il mercante distruggono la foresta, depredano i<br />

fattori naturali, si dimostrano altrettanto irrispettosi <strong>del</strong>la vita degli animali e <strong>del</strong>le<br />

piante quanto di quella degli uomini. Quando <strong>una</strong> politica <strong>del</strong>la ‘conservazione’<br />

viene ad essere decisa, essa è dovuta alla saggezza limitata, tardiva e precaria di<br />

alcune élite: certamente non alle spontaneità e agli automatismi <strong>del</strong> mercato. Le<br />

‘armonie naturali’ di F. Bastiat sembrano decisamente aver <strong>per</strong>so molta <strong>del</strong>la loro<br />

efficacia, benefica ed estetica insieme” (Perroux 1991, p. 375)<br />

Il contributo fondamentale <strong>del</strong>l’economista francese <strong>per</strong> quanto riguarda lo sviluppo<br />

è riscontrabile nell’ambito <strong>del</strong>la geografia economica. Debitrice <strong>del</strong> pensiero<br />

schumpeteriano, l’o<strong>per</strong>a di Perroux abbandona l’equilibrio e la razionalità economica<br />

neoclassica riconducendo lo sviluppo <strong>del</strong>la società ai progressi <strong>del</strong>lo processo<br />

innovativo, a quella “distruzione creatrice” tanto cara all’economista austriaco.<br />

“Senza progresso tecnico non si ammette alc<strong>una</strong> forma evolutiva, la quale unisce, in<br />

<strong>una</strong> catena di relazioni, effetti economici, sociali, politici, culturali ed ideologici.<br />

L’evoluzione economica sarà dunque un processo dialettico e dinamico, irreversibile<br />

e portatore di eterogeneità.” (Conti, 1996, p.125)<br />

L’economista francese introduce <strong>una</strong> nuova concezione di spazio astratto e<br />

topologico in contrapposizione all’idea di uno spazio banale, presente nell’economia<br />

convenzionale, dove ambito politico e spazio economico ed umano coincidevano.<br />

Lo spazio è un “campo di forze” centripete e centrifughe disseminate nel territorio,<br />

<strong>per</strong> le quali soggetti e mezzi di produzione si muovono, vendendo attratti o respinti in<br />

modo selettivo da e verso i diversi luoghi. Da questa idea nascono i “poli di crescita”,<br />

cioè dei luoghi, con diverse intensità, dai quali la crescita economica si propaga<br />

lungo canali definiti coinvolgendo in maniera diversa le parti <strong>del</strong>lo spazio.<br />

Alla base <strong>del</strong> ragionamento di Francois Perroux c’è l’idea <strong>del</strong>l’asimmetria di potere<br />

tra gli attori: la dimensione regionale è il risultato <strong>del</strong>le varie forme di<br />

agglomerazione, ed essa stessa è <strong>una</strong> manifestazione <strong>del</strong> potere esercitato in uno<br />

spazio geografico.<br />

66


La sua mo<strong>del</strong>izzazione nasce dalla <strong>critica</strong> alla teoria <strong>del</strong>l’equilibrio di Walras: la<br />

l’ipotesi restrittive <strong>per</strong> la concorrenza <strong>per</strong>fetta, in un sistema tendente all’equilibrio, e<br />

“l’atomismo” degli agenti costituiscono un’inaccettabile astrazione dal mondo reale,<br />

che è caratterizzato da concorrenza im<strong>per</strong>fetta e forme di potere coercitive.<br />

Per Perroux è necessaria <strong>una</strong> “nuova teoria <strong>del</strong>l’interdipendenza”, caratterizzata da<br />

“deviazione dal mo<strong>del</strong>lo di concorrenza <strong>per</strong>fetta” e dal “rifiuto di considerare le<br />

<strong>per</strong>sone come esseri annientati”. Egli ha proposto di ricostruire la teoria di equilibrio<br />

generale “a partire dagli gli agenti o attori e dalle unità attive.” (Perroux 19 ,p.69-70)<br />

La volontà <strong>del</strong>l’economista francese, ma anche di Myrdal ed Hirschman ai quali<br />

dedicherò i prossimi paragrafi, è quella di descrivere ed interpretare il processo <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo.<br />

Basandosi sulla <strong>critica</strong> all’equilibrio generale e attraverso l’uso <strong>del</strong> concetto<br />

<strong>del</strong>l’assimetria di potere, Perroux definisce i concetti di “poli di crescita” ed i “poli di<br />

sviluppo”, <strong>per</strong> determinati gruppi di unità (se agenti, imprese o industrie): il polo di<br />

crescita è un insieme che ha la capacità di indurre la crescita di un altro insieme (la<br />

“crescita” è stata definita come un duraturo aumento <strong>del</strong>l’indicatore dimensionale); il<br />

polo di sviluppo è un insieme che ha la capacità di generare <strong>una</strong> dialettica <strong>del</strong>le<br />

strutture economiche e sociali il cui effetto è quello di aumentare la complessità <strong>del</strong><br />

suo complesso e espandere il suo ritorno multidimensionale. (Perroux 19 ,p.48)<br />

Questi poli di crescita, che sono espressione <strong>del</strong> dominio nello spazio, corrispondono<br />

all’agglomerazioni industriali nelle quali sono localizzate le “industrie motrici”, cioè<br />

unità propulsive, imprese e settori produttivi che generano un effetto moltiplicatore<br />

capace di suscitare la crescita di altre unità economiche. Questa funzione viene<br />

esercitata da questi poli <strong>per</strong> il loro particolare potere economico in quello spazio,<br />

tendenzialmente derivato dalla loro su<strong>per</strong>iore dimensione, dal loro carattere<br />

oligopolistico e dalla loro capacità di instaurare rapporti con il tessuto circostante<br />

(imprese fornitrici o acquirenti, popolazione ed infrastrutture).<br />

Storicamente la funzione motrice è stata incarnata da vari settori come i trasporti ed<br />

il tessile nell’Ottocento, o la siderurgia e l’industria meccanica nella prima parte <strong>del</strong><br />

Novecento. Questi settori industriali sono caratterizzati da elevati tassi di crescita <strong>del</strong><br />

prodotto e <strong>del</strong>la produttività e, grazie alla loro capacità innovativa, intervengono in<br />

modo profondo nel territorio. Per questi motivi il concetto di “polo di crescita” viene<br />

67


presto sostituito da quello di “polo di sviluppo” dove i settori industriali, motore<br />

<strong>del</strong>la crescita, sono in grado di produrre trasformazioni profonde in senso tecnico,<br />

istituzionale e sociale. Il potere dei poli non si manifesta quindi solo <strong>per</strong> i<br />

componenti di natura economico – produttiva ma anche trasformando i sistemi<br />

regionali.<br />

Il ragionamento <strong>per</strong>rousiano si basa su un processo unitario sul quale si intreccia e si<br />

sovrappone <strong>una</strong> catena di anelli causali che accompagna l’evoluzione <strong>del</strong> sistema. Si<br />

può affermare che questo processo avvenga attraverso quattro processi congiunti: la<br />

crescita produttiva, la crescita socio- demografica, la formazione di economie esterne<br />

e la complessificazione <strong>del</strong>la crescita. (Conti, 1996, p.126-127)<br />

1. La crescita produttiva.<br />

Alla base <strong>del</strong>la crescita, come si è già visto, c’è “l’impresa motrice” la quale riesce<br />

ad esprimere un potere economico rilevante, originando <strong>una</strong> “dominazione”. Questa<br />

“dominazione” si realizza grazie ad un controllo <strong>del</strong>la domanda localizzata nel suo<br />

territorio e alla capacità di esportare creando profitti e controllando, de facto, il ciclo<br />

produttivo. Queste capacità di natura “oligopolistica” si manifestano solo <strong>per</strong> imprese<br />

di dimensioni rilevanti.<br />

La “dominazione”, ovvero la capacità di attrarre risorse e popolazione, origina <strong>una</strong><br />

forma di sviluppo che presuppone l’attivazione di squilibri fra i soggetti o<strong>per</strong>anti nel<br />

sistema economico: “Le cause che <strong>per</strong>mettono la nascita di un’industria dominante<br />

possono essere molteplici; esse vanno dalla dinamica interna <strong>del</strong>l’impresa,<br />

all’avvenimento storico esogeno, alla non <strong>per</strong>fetta realizzazione <strong>del</strong>la concorrenza fra<br />

eguali. In ogni caso, ciò che <strong>per</strong>mette la nascita di un’impresa è il fatto stesso che<br />

esiste, <strong>per</strong>lomeno nell’economia occidentale di mercato, un rapporto di dominazione,<br />

o - se si vuole - un rapporto di scambio fra ineguali.” 1<br />

L’impresa motrice ha la capacità di esercitare, <strong>per</strong> un <strong>per</strong>iodo tempo sufficientemente<br />

lungo, un potere su gli altri attori economici; potere che si realizza nel “imporre ai<br />

fornitori un prezzo d’acquisto dei propri input inferiore al prezzo di mercato.” 2<br />

1 A. Mela e M. Pellegrini, “Formazioni sociali e squilibri interregionali, Guida, Napoli, 1978 p.316 in<br />

S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 126<br />

2 F. Perroux “Economic space”, cit. p.24 in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 127<br />

68


2. La crescita socio- demografica.<br />

L’accumulazione <strong>del</strong>l’impresa dominante e degli altri soggetti localizzati in quel<br />

polo crea <strong>una</strong> serie di processi di polarizzazione sociale e demografica. L’aumento<br />

<strong>del</strong>l’offerta di lavoro, dovuta all’insediamento di nuova attività produttive e<br />

all’ampliamento <strong>del</strong>l’impresa dominante, crea un circolo virtuoso che si autoalimenta<br />

grazie ad un continuo incremento <strong>del</strong>la forza lavoro e <strong>del</strong>la creazioni di servizi ed<br />

infrastrutture efficienti. Crescita economica e crescita demografica si autoalimentano<br />

reciprocamente.<br />

3. La formazione di economie esterne<br />

La crescita <strong>del</strong> polo crea economie esterne che si traducono in vantaggi sia <strong>per</strong><br />

l’impresa motrice, attraverso <strong>una</strong> riduzione dei costi unitari di produzione, grazie alla<br />

presenza di produttori specializzati, sia <strong>per</strong> il sistema economico nel suo complesso,<br />

dal momento che inducono <strong>una</strong> più generale espansione <strong>del</strong>la domanda e <strong>del</strong>l’offerta.<br />

Per Perroux esistono due tipi di esternalità: quelle tecnologiche, <strong>per</strong> le quali un<br />

fattore di produzione di un’impresa entra nella funzione di produzione di un’altra, e<br />

quelle pecuniarie, <strong>per</strong> le quali l’output di un impresa influisce sui profitti di un’altra<br />

impresa senza entrare nella sua funzione di produzione.<br />

4. La complessificazione <strong>del</strong>la crescita<br />

L’espansione <strong>del</strong>la domanda <strong>del</strong>la popolazione insediata produce l’accelerazione <strong>del</strong><br />

tasso d’investimento sia nell’impresa motrice sia nei settori ad essa correlati. Questo<br />

fenomeno provoca <strong>una</strong> diversificazione <strong>del</strong> tessuto economico <strong>del</strong> polo e la<br />

formazione di intense relazioni tra gli attori localizzati.<br />

Per concludere questo paragrafo è necessario approfondire in che modo Perroux<br />

considera lo spazio e quale importanza ad esso viene affidata. La dimensione<br />

geografica di questi processi di crescita economica non emerge dal lavoro di Perroux<br />

come un elemento centrale dove la “localizzazione” risulta fondamentale. Lo spazio,<br />

anche se viene introdotto in modo preponderante, è ancora “astratto” e fa solo da<br />

cornice al processo inevitabile che coinvolge le forze economiche o<strong>per</strong>anti in <strong>una</strong><br />

società industriale. Come ricorda T. Hermansen, infatti, <strong>per</strong> Perroux “lo spazio<br />

geografico appare soltanto un piuttosto banale tipo di spazio, mentre l’oggetto<br />

principale <strong>del</strong>la sua attenzione è la crescita economica, ovvero i processi attraverso<br />

69


cui le imprese ( e le unità economiche in generale) compaiono, crescono, si<br />

stabilizzano e, talvolta, scompaiono.” 3<br />

Questa nuova interpretazione <strong>del</strong>lo sviluppo, in a<strong>per</strong>to contrasto con la concezione<br />

statica di equilibrio, apre la strada ad altre teorie <strong>per</strong> le quali la dimensione spaziale<br />

riveste <strong>una</strong>, seppur minima, importanza. I concetti introdotti da Perroux verranno<br />

usati ed interpretati da altri autori come Hirschman e Myrdal, ai quali sono dedicati i<br />

prossima paragrafi.<br />

3 T Hermansen “Development Poles and Related Theories: a Synoptic Review, in Hansen (a cura di)<br />

“Growth Centers”, cit. P.167, in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 128<br />

70


Albert Hirschman e la dimensione ermeneutica <strong>del</strong>lo sviluppo 4<br />

Il contributo di Hirschman alla teoria <strong>del</strong>lo sviluppo è molto importante <strong>per</strong>ché non<br />

solo contribuisce alla creazione di un’economia regionale ma mette in discussione le<br />

basi stesse <strong>del</strong>la teoria <strong>del</strong>lo sviluppo economico neoclassica.<br />

L’idea che l’economia possa avere un’esistenza utile separata dalla filosofia è<br />

assolutamente estranea al lavoro <strong>del</strong>l’economista tedesco che ha un approccio<br />

ermeneutico all’economia, in generale, e allo sviluppo, in particolare. La distinzione<br />

tra scelte individuali e scelte collettive, razionalità individuale e razionalità collettiva,<br />

pone Hirschman in un filone di analisi che considera necessario un approccio<br />

all’economia che consideri comunque le scelte degli individui come limitate dal<br />

sistema di valori da cui dipendono. L’economia non può essere amorale.<br />

I lavori sullo sviluppo economico di questo autore devono essere letti alla luce <strong>del</strong>la<br />

sua continua ricerca di analisi dei rapporti tra l’individuo ed il contesto collettivo. E’<br />

netta la contrapposizione di questa posizione con l’ortodossia economica <strong>per</strong> la quale<br />

i comportamenti individuali e sociali sono ridotti a reazioni meccaniche sempre<br />

prevedibili e astoriche. Il tentativo riduzionista che esclude la diversità umana e la<br />

sua imprevedibilità rischia di fallare dalle fondamenta un’economia che si eleva a<br />

potenza di scienza <strong>per</strong>fetta dimenticando la propria dimensione sociale. Il <strong>paradigma</strong><br />

neoclassico affronta il problema <strong>del</strong>l'incertezza, riducendola alla prevedibilità di<br />

eventi esterni, invece di considerarla come un risultato non predeterminato<br />

<strong>del</strong>l'azione collettiva. Tale semplificazione è resa possibile attraverso l'eliminazione<br />

<strong>del</strong>le componenti strutturali <strong>del</strong>l'incertezza, ossia le “passioni” degli individui ed il<br />

loro “sentimento sociale”.<br />

Nel tentativo di rendere l’economia la scienza <strong>del</strong>l’utilità si è proceduto a scarificare<br />

elementi fondamentali <strong>del</strong>la natura umana. Hirschman, in “Passioni ed interessi:<br />

argomenti politici a favore <strong>del</strong> capitalismo prima <strong>del</strong> suo trionfo”, affronta proprio la<br />

questione <strong>del</strong>la “rimozione” storica <strong>del</strong>le passioni e la loro sostituzione mediante un<br />

concetto di razionalità basato sul calcolo <strong>del</strong> proprio self-interest. L’uomo è un essere<br />

4 Per il titolo <strong>del</strong> paragrafo si fa riferimento a Lucio Poma “La dimensione ermeneutica <strong>del</strong>l’economia<br />

in Albert O. Hirschman” Università di Bologna, 1994<br />

71


complesso che non può essere ridotto a colui che è guidato solo dal proprio interesse.<br />

La fallacia <strong>del</strong>l’economia ortodossa sta proprio nel credere in questa semplificazione.<br />

Nel tentativo di descrivere questa doppia natura umana, fatta di passioni ed interessi,<br />

di azione individuale e di azione collettiva, Hirschman elabora i concetti di Exit e<br />

Voice dove l'exit è un comportamento individuale di defezione da un prodotto o da<br />

un processo, mentre la voice è un comportamento collettivo in quanto, anche nei casi<br />

in cui è espressa individualmente, trae la sua logica d'azione da <strong>una</strong> concezione<br />

collettiva di valori e di giustizia sociale interiorizzata dal soggetto che protesta<br />

<strong>per</strong>ché vede lesi i suoi diritti o le sue aspettative.<br />

Dopo aver inquadrato la “poetica” di Hirschman mi interessa passare ad analizzare le<br />

sue idee riguardo lo sviluppo economico, idee che ne hanno fatto uno dei “luminari”<br />

di questa materia. Il contributo <strong>del</strong>l’economista tedesco si inserisce <strong>per</strong>fettamente tra<br />

le varie teorie <strong>del</strong>lo sviluppo come quelle di Rostow, Prebisch e Perroux apportando<br />

al dibattito idee “innovative”.<br />

Questo contributo si forma sulla consapevolezza che l'economia <strong>del</strong>lo sviluppo sia<br />

solamente <strong>una</strong> <strong>del</strong>le tante sottomaterie che formano la più generale teoria <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo. L’economia <strong>del</strong>lo sviluppo deve evolversi in questo senso vero <strong>una</strong> teoria<br />

generale <strong>del</strong>lo sviluppo omnicomprensivo. Questa evoluzione, che emerge dai<br />

fallimenti di un approccio puramente economicistico al problema <strong>del</strong>lo sviluppo,<br />

individua un campo di indagine caratterizzato da <strong>una</strong> fondamentale<br />

multidisciplinarità che attinge all'economia, certamente, ma anche alla storia, alla<br />

sociologia, all'antropologia, alla psicologia.<br />

L’idea di fondo di Albert Hirschman è che lo sviluppo si manifesta attraverso <strong>una</strong><br />

catena di squilibri. Usando la teoria <strong>del</strong>la polarizzazione che Perroux aveva coniato,<br />

l’economista tedesco individua due tipi di effetti: gli “effetti di polarizzazione”,<br />

“ovvero i fattori che o<strong>per</strong>ano nel senso di accrescere le disparità di reddito” e gli<br />

“effetti di propagazione”, “ossia i fattori che o<strong>per</strong>ano nel senso di diffondere la<br />

pros<strong>per</strong>ità dalle regioni ricche alle povere” (Hirschman 1983).<br />

Per lo schema interpretativo <strong>del</strong>l’autore, che si basa sul dualismo economico e su <strong>una</strong><br />

nozione di centro- <strong>per</strong>iferia, nello sviluppo “più o meno spontaneo” <strong>del</strong> capitalismo<br />

la ricerca di maggiori profitti genera <strong>una</strong> “naturale” concentrazione geografica degli<br />

investimenti nelle regioni urbanizzate ed industrializzate, essendo “improbabile che<br />

72


lo sviluppo abbia inizio ovunque alla stessa velocità nell’ambito di un’economia”<br />

(Hirschman 1968, p.219).<br />

Questo fenomeno porta ad un’accentuazione <strong>del</strong>le differenze economiche tra le varie<br />

regioni: le regioni sviluppate usufriranno di un aumento <strong>del</strong> proprio benessere mentre<br />

le regioni arretrare rimarranno tali.<br />

Quando <strong>una</strong> certa industria ha deciso <strong>una</strong> localizzazione in un determinato spazio<br />

economico, growing point, si avvia un “processo moltiplicatore” che genera un ciclo<br />

virtuoso. La nuova domanda mossa da questo processo si manifesta da <strong>una</strong> parte<br />

attraverso l’aumento di richiesta di beni, infrastrutture e servizi <strong>del</strong>la popolazione<br />

immigrata; dall’altra la funzione attrattiva <strong>del</strong>l’impresa favorisce l’insediamento di<br />

nuove unità produttive fornitrici di input e acquirenti di semilavorati da sottoporre a<br />

successiva trasformazione.<br />

Queste relazioni sono definite da Hirschman come backward e forward linkages, cioè<br />

due tipi di effetti di collegamento “all’indietro” o “in avanti”. Questi due fenomeni<br />

influiscono su ciò che <strong>per</strong> l’autore è al centro <strong>del</strong>lo sviluppo, cioè l’”investimento<br />

indotto”. L’accresciuta disponibilità di un prodotto induce lentamente ad un<br />

incremento <strong>del</strong>la domanda di altri prodotti, complementari all’uso sostenuti dal<br />

cosiddetto “bisogno indotto”. L’investimento indotto è qualcosa di molto simile al<br />

moltiplicatore di keynesiana memoria; accade cioè che ogni investimento provoca<br />

<strong>una</strong> serie di investimenti successivi portando così con se le economie e le<br />

diseconomie esterne.<br />

Questi linkages vengono definiti in questo modo da Hirshman:<br />

1. La fornitura degli input, la domanda derivata, o gli effetti di<br />

collegamento all’indietro. Ogni attività economica che non sia <strong>del</strong> settore primario,<br />

indurrà degli sforzi <strong>per</strong> produrre localmente gli input che le sono necessari.<br />

2. L’utilizzazione degli output, o gli effetti di collegamento in avanti. Ogni<br />

attività che <strong>per</strong> sua natura non soddisfa esclusivamente la domanda finale, indurrà<br />

degli sforzi <strong>per</strong> utilizzare i suoi output come input in qualche nuova attività. (1968,<br />

p.120)<br />

Lo sviluppo economico si fonda, quindi, su questi meccanismi di induzione che<br />

<strong>per</strong>mettono allo sviluppo di propagarsi da regione a regione. Il contributo<br />

hirschmaniano deve molto alla teoria <strong>del</strong>la geografia economica e ai concetti di<br />

73


economie esterne di Marshall derivanti da quelli che alcuni chiamano come il<br />

“milieu” o meglio ancora “l’atmosfera industriale”.<br />

L’intero processo essendo cumulativo avvia nuovi cicli di sviluppo che generano<br />

nuove forme di concentrazione fino a quando o si manifestano diseconomie di<br />

agglomerazione oppure emergono nuovi centri (o poli) di crescita concorrenti che<br />

offrono vantaggi competitivi maggiori.<br />

Questo fenomeno si manifesta <strong>per</strong> la naturale tendenza degli imprenditori a<br />

concentrarsi e questo risulta essere il fattore propulsivo <strong>del</strong>la crescita economica, la<br />

è, <strong>per</strong> i motivi già visti, necessariamente squilibrata, cioè spazialmente differenziata.<br />

Il divario economico tra Nord (regioni sviluppate) e Sud (regioni sottosviluppate)<br />

tende necessariamente ad aumentare restringendo le possibilità <strong>per</strong> quest’ultime di<br />

svilupparsi, riducendo il divario.<br />

La conclusione di Hirschman sembra essere particolarmente pessimista dato che le<br />

regioni sottosviluppate sono destinate a rimanere escluse dalla concentrazione <strong>del</strong>le<br />

attività produttive ma, sempre secondo l’economista tedesco, la soluzione a questo<br />

problema avverrebbe “spontaneamente” nel lungo <strong>per</strong>iodo, “in quanto la crescita dei<br />

livelli di consumo nelle aree sviluppate determinerebbe un aumento <strong>del</strong>la domanda<br />

anche nelle regioni sottosviluppate, favorendo in queste ultime l’innesco di processi<br />

di espansione economica.<br />

Come si può facilmente intuire la teoria di Hirschman si basa principalmente<br />

sull’idea di un forte dualismo tra Nord e Sud <strong>del</strong> mondo. Questo dualismo è<br />

fortemente dialettico e prevede <strong>una</strong> contrapposizione profonda tra le due realtà che,<br />

in un’economia di mercato, sono destinate a scontrarsi.<br />

Gli argomenti che si affrontano in questa ultima parte <strong>del</strong> paragrafo sono le posizioni<br />

<strong>del</strong>l’economista tedesco su quelle che possono (o devono) essere le politiche<br />

economiche ed sul suo confronto tra la diffusione interregionale e quella<br />

internazionale <strong>del</strong>lo sviluppo economico.<br />

La difficoltà, mostrata dall’argomentazione appena descritta, di trasferire lo sviluppo<br />

da regione a regione e la difficoltà di dare avvio a processi di crescita in zone<br />

scarsamente attrattive assume particolare importanza la distribuzione regionale degli<br />

investimenti pubblici che devono fare da moltiplicatore.<br />

74


Secondo Hirschman esistono tre gruppi di interventi pubblici: la dis<strong>per</strong>sione, la<br />

concentrazione nelle regioni già sviluppate e la concentrazione nelle zone arretrate.<br />

Il primo mo<strong>del</strong>lo è quello più diffuso poiché i governi tendono a dis<strong>per</strong>dere gli<br />

investimenti <strong>per</strong> avere più popolarità possibile. Il ruolo dei governi nello sviluppo<br />

viene brillantemente riassunto da Hirschman in questo passaggio: “Per esercitare<br />

un’azione efficace, il governo deve promuovere lo sviluppo <strong>per</strong> mezzo di decisi<br />

interventi, tali da creare incentivi e pressioni <strong>per</strong> un’azione ulteriore; e deve restar<br />

pronto a reagire a queste pressioni e alleviarle in numerose aree. Qualunque sia<br />

l’importanza <strong>del</strong> ruolo <strong>del</strong>lo stato nell’economia, entrambe le funzioni sono<br />

generalmente presenti, anche se <strong>una</strong> <strong>del</strong>le due può essere predominante.” (p.242)<br />

I due compiti quindi sono la promozione e la funzione di attenuazione <strong>del</strong>le<br />

pressioni. Il primo compito , su quale si sono concentrati gli studiosi <strong>del</strong>lo sviluppo, è<br />

quello di preparare le condizioni, i prerequisiti, <strong>per</strong> la continuazione <strong>del</strong>lo sviluppo,<br />

ma questa fase è spesso incapace di promuovere lo sviluppo in aree sottosviluppate.<br />

La seconda fase si potrebbe definire “indotta” e si concretizza in <strong>una</strong> serie di<br />

interventi di riequilibrio dove lo Stato interviene a sostegno <strong>del</strong>lo sviluppo di un<br />

settore aggiornando altri settori complementari: lo sviluppo <strong>del</strong>la siderurgia necessita<br />

di uno sviluppo <strong>del</strong>l’industria energetica e dei trasporti, ma anche <strong>del</strong>l’istruzione.<br />

Ogni singolo intervento ha effetti che devono essere controllati nella loro totalità <strong>per</strong><br />

non rischiare di creare più danni che benefici.<br />

Un’altra argomentazione molto interessante <strong>del</strong>l’economista tedesco è quella sul<br />

rapporto tra lo sviluppo regionale e lo sviluppo internazionale, dato che si cerca di<br />

fare <strong>una</strong> comparazione su base spaziale.<br />

Come abbiamo visto lo sviluppo difficilmente passa da regione a regione<br />

spontaneamente e questa considerazione potrebbe far dedurre che il passaggio<br />

internazionale sia ancora meno probabile. Gli effetti di polarizzazione e di<br />

propagazione tendono a favorire tendenze separatiste o meno a seconda di quale tipo<br />

di diffusione sia più conveniente (internazionale o interregionale). Hirschiman<br />

conclude affermando che “le forze che agiscono a favore <strong>del</strong>la diffusione <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo tra regioni sono probabilmente più forti di quelle che agiscono <strong>per</strong> la sua<br />

diffusione tra paesi.” (p.236) Questa convinzione nasce dall’argomentazione che in<br />

uno stesso Paese lo sviluppo <strong>del</strong>le zone degradate sarà motivato da ragioni<br />

75


solidaristiche fondate sull’unità nazionale e sul potere di pressione politica <strong>del</strong>l’aree<br />

depresse nei confronti <strong>del</strong> governo centrale.<br />

Dopo questa breve sintesi <strong>del</strong> contributo hirschmaniano nell’economia <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

si passerò ad esaminare un altro contributo fondamentale alla materia fornito da un<br />

economista molto vicino ad Hirschman, cioè Gunnar Myrdal.<br />

76


Gunnar Myrdal: l’istituzionalismo nella teoria <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

Anche Myrdal, come gli autori appena visti, <strong>critica</strong> in modo sistematico la teoria<br />

economica generale che non è nata <strong>per</strong> spiegare lo sviluppo ed il sottosviluppo e che<br />

porta con sé troppi fattori irrealistici. La teoria economica risulta essere irrealistica, e<br />

quindi fallace, soprattutto <strong>per</strong> due elementi basilari <strong>del</strong>la teoria stessa: l’equilibrio e<br />

la completa sottovalutazione dei cosiddetti “fattori non economici” che vengono<br />

considerati dati e statici dalla teoria.<br />

Secondo l’economista svedese, l’equilibrio stabile è irrealistico <strong>per</strong>ché sottintende<br />

che ad ogni azione ci debba essere <strong>una</strong> “reazione” contraria <strong>del</strong>la stessa intensità.<br />

L’equilibrio si fonda sulle nozioni di razionalità economica e <strong>del</strong>l’armonia degli<br />

interessi che sembra aver scarso collegamento con la realtà dei fatti.<br />

“L’idea che desidero esprimere in questo libro è che, al contrario, normalmente non<br />

esiste siffatta tendenza verso <strong>una</strong> automatica e spontanea stabilizzazione nel sistema<br />

sociale. Il sistema non si muove <strong>per</strong> sé stesso verso <strong>una</strong> forma di equilibrio tra le<br />

forze, ma tende continuamente ad allontanarsi da questa posizione. Di norma un<br />

cambiamento provoca cambiamenti non in senso contrario ma, all’opposto,<br />

continuamente complementari, i quali spingono il sistema nella stessa direzione <strong>del</strong><br />

cambiamento primario ma vanno molto più in là di esso. In forza di questa causalità<br />

circolare un processo sociale tende a divenire cumulativo e spesso a procedere con<br />

moto accelerato” (Myrdal, 1974, p.23).<br />

Il principio <strong>del</strong>la causazione circolare e cumulativa è il contributo principale alle<br />

teoria <strong>del</strong>lo sviluppo myrdaliana. Sembra più corretto, tuttavia, considerare il<br />

mo<strong>del</strong>lo di Myrdal a causalità cumulativa non circolare ma a spirale trattandosi di un<br />

mo<strong>del</strong>lo dinamico e non statico.<br />

L’attenzione <strong>del</strong>l’economista svedese si concentra sul ruolo di questo sistema in<br />

un’economia di mercato <strong>per</strong> i paesi sottosviluppati e scrive: “Che nel libero gioco<br />

<strong>del</strong>le forze <strong>del</strong> mercato sia immanente <strong>una</strong> tendenza a creare squilibri regionali e che<br />

questa tendenza diventi tanto più dominante quanto più povero è un paese, sono due<br />

<strong>del</strong>le più importanti leggi <strong>del</strong> sottosviluppo e <strong>del</strong>lo sviluppo economico in condizioni<br />

77


di laissez-faire.” Nel processo cumulativo la “povertà diventa causa di se<br />

stessa”(p.42)<br />

Il funzionamento di questo processo cumulativo è molto simile all’analisi di<br />

Hirschman, secondo il quale la polarizzazione spaziale è conseguenza <strong>del</strong>l’o<strong>per</strong>ato<br />

dei meccanismi di mercato. Questa polarizzazione secondo gli autori, se non viene<br />

corretta, provoca necessariamente differenze di sviluppo tra le regioni.<br />

Il processo di causazione circolare cumulativa ha origine dall’esistenza di particolari<br />

condizioni che determinano un vantaggio iniziale <strong>per</strong> lo sviluppo economico di<br />

alcune regioni (centrali). In esse si innescherebbero quindi dei processi cumulativi di<br />

sviluppo economico, tali da coinvolgere anche le altre regioni (<strong>per</strong>iferiche), le quali<br />

verrebbero coinvolte in un processo centripeto nel corso <strong>del</strong> quale capitale e lavoro<br />

sono attratti verso la regione che dispone <strong>del</strong> vantaggio iniziale. (Conti, 1996, p.130)<br />

Lo sviluppo, mosso da questa forza centripeta, che porterà alla concentrazione di<br />

industrie, darà vita a forme di espansione economica fondate su un processo<br />

cumulativo che porterà ad un miglioramento <strong>del</strong>le condizioni infrastrutturali e un<br />

ampliamento dei servizi sociali in genere. Questa circolo, che è molto simile al<br />

“circolo vizioso” di Nurkse 5 , è <strong>una</strong> reazione a catena che produce un meccanismo di<br />

crescita economica che si alimenta da solo e che conduce, se non viene corretto,<br />

all’accentuazione <strong>del</strong> divario tra i livelli di sviluppo <strong>del</strong>la diverse regioni: “Se le cose<br />

fossero lasciate al libero gioco <strong>del</strong>le forze di mercato senza interventi di politica<br />

economica, la produzione industriale, il commercio, la banca, le assicurazioni, la<br />

navigazione, quasi tutte quelle attività che in un’economia in sviluppo tendono a dare<br />

<strong>una</strong> remunerazione su<strong>per</strong>iore alla media, verrebbero ad addentrarsi in certe località e<br />

regioni, lasciando il resto <strong>del</strong> paese più o meno stagnante.” (Myrdal, 1974, p.35)<br />

Se si ammette il realismo <strong>del</strong>la ipotesi di causalità circolare in un sistema sociale<br />

complesso è inutile cercare “un fattore fondamentale” come “il fattore economico”<br />

dato che “diventa in verità difficile comprendere quel che si debba esattamente<br />

5 Il circolo vizioso <strong>del</strong>la povertà di Nurkse implica <strong>una</strong> costellazione circolare di forze tendenti ad<br />

agire e a reagire l’<strong>una</strong> sull’altra in modo tale da mantenere un paese povero in uno stato di povertà: un<br />

povero malnutrito non potrà lavorare molto <strong>per</strong> uscire dalla povertà: “un paese è povero <strong>per</strong>ché è<br />

povero”. R. Nurkse (1952), “Some Aspects of Capital Accumulation in Under<strong>del</strong>oped Countries”,<br />

Cairo, Oxford, University Press.<br />

78


intendere quando si parla di un “fattore economico” distinto dagli altri fattori, e ancor<br />

meno si capisce come possa essere “fondamentale” dal momento che ogni cosa è<br />

causa di un’altra in un sistema di concatenazione circolare.<br />

Per analoghi motivi, l’applicazione di questa ipotesi spinge lo studio realistico <strong>del</strong><br />

sottosviluppo e <strong>del</strong>lo sviluppo di un paese o di <strong>una</strong> regione di un paese ben al di là<br />

dei confini <strong>del</strong>la teoria economica tradizionale. Ciò accade <strong>per</strong>ché necessariamente lo<br />

studio viene a toccare anche tutti quei cosiddetti “fattori non economici” che gli<br />

economisti classici univano in blocco in concetti quali “la qualità dei fattori di<br />

produzione” e “l’efficienza produttiva” e lasciavano di regola al di fuori <strong>del</strong>la loro<br />

analisi”.<br />

Alla luce di questo ragionamento pare chiaro che Mrydal ritenga indispensabili sia le<br />

indagini storiche che le analisi <strong>del</strong>le istituzioni e <strong>del</strong>le variabili culturali che possono<br />

condizionare i fattori produttivi.<br />

Il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>la causazione circolare e cumulativa elaborato da Myrdal deve quindi<br />

considerare tutti i fattori e non solo quelli economici. Esso può essere ben riassunto<br />

dallo schema <strong>del</strong>la figura 1 alla fine di questo paragrafo.<br />

Il funzionamento <strong>del</strong> meccanismo <strong>del</strong>la causazione circolare e cumulativa poggia<br />

sull’o<strong>per</strong>are congiunto di due effetti: riflusso e diffusione.<br />

I primi fattori, che tendono ad accrescere sempre di più nei dintorni <strong>del</strong>la regione<br />

centrale, si riferiscono ai trasferimenti di capitale e di altri fattori produttivi verso i<br />

“poli” in rapido sviluppo; a questi fattori di natura economica si aggiungono altri<br />

fattori “non economici” come la diffusione <strong>del</strong>la dotazione di servizi: “Sotto questa<br />

etichetta [effetti di riflusso <strong>del</strong>l’espansione economica di <strong>una</strong> data località] includo<br />

gli effetti <strong>del</strong>le migrazioni, dei movimenti di capitale e <strong>del</strong> commerci, e anche tutti<br />

gli effetti di un intero complesso degli altri rapporti sociali.. il termine è relativo agli<br />

effetti complessivi cumulativi, risultanti dal processo di causazione circolare fra tutti<br />

i fattori, “economici” e “non economici”(Myrdal, 1974, p.38)<br />

L’insieme di questi fattori concorre a far si che le aree sviluppate risultino<br />

maggiormente attrattive e, <strong>per</strong> contrasto, che le possibilità di sviluppo <strong>del</strong>le regione<br />

<strong>per</strong>iferiche siano compromesse.<br />

L’interazione tra le regioni, <strong>per</strong>ò, attiva anche <strong>del</strong>le forze di natura centrifuga che<br />

possono eventualmente tradursi in processi di diffusione <strong>del</strong>lo sviluppo: “In<br />

79


contrapposto agli effetti di riflusso vi sono, tuttavia, anche taluni effetti di diffusione<br />

centrifughi <strong>del</strong> moto di espansione dai centri in sviluppo verso le altre zone.”(p.39)<br />

L’economia centrale in espansione può stimolare la domanda <strong>del</strong>l’economia<br />

<strong>per</strong>iferica e, se fosse in grado di eliminare gli effetti di riflusso, questo processo<br />

potrebbe <strong>per</strong>mettere un eventuale innesco di processi cumulativi di sviluppo nelle<br />

aree depresse.<br />

Il processo di differenziazione tra le economie regionali segue, secondo lo schema<br />

myrdalliano, tre fasi successive:<br />

1) <strong>una</strong> prima fase, preindustriale, nella quale le differenze <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

tra le aree sono relativamente modeste<br />

2) <strong>una</strong> fase dove il processo di causazione circolare cumulativa genera<br />

processi di sviluppo in pochi poli creando forti squilibri tra le regioni<br />

3) gli effetti di diffusione mitigano gli effetti di riflusso riducendo le<br />

differenze creatisi nella fase precedente.<br />

Questa ultima fase, secondo Myrdal, si manifesta differentemente a seconda dei<br />

luoghi. Nei paesi occidentali sviluppati (Usa ed Europa) gli effetti di diffusione<br />

tendono ad essere decisamente più incisivi rispetto ai paesi sottosviluppati dove si ha<br />

un aggravamento degli squilibri interni: “.. quanto è più alto il livello di sviluppo<br />

economico già raggiunto da <strong>una</strong> nazione, tanto più forti sono di solito gli effetti di<br />

diffusione. Infatti, ad un alto livello medio di sviluppo si accompagnano un<br />

miglioramento dei trasporti e <strong>del</strong>le comunicazioni, più alti livelli di istruzione ed <strong>una</strong><br />

più dinamica comunione di idee e di valori – tutti fattori che tendono a consolidare le<br />

forze <strong>per</strong> <strong>una</strong> spinta centrifuga di espansione economica o a rimuovere gli ostacoli<br />

che si frappongono alla loro azione.”(p.41)<br />

Inoltre secondo Myrdal il fatto che le politiche di intervento pubblico a sostegno<br />

degli effetti di diffusione si possono realizzare solo in paesi con <strong>una</strong> disponibilità<br />

finanziaria sufficiente, fa si che questi effetti siano poco efficiente in un paese<br />

sottosviluppato.<br />

Lo schema myrdalliano non tiene conto <strong>del</strong>la scala geografica di riferimento,<br />

prescindendo dalla specificità <strong>del</strong>le diverse condizioni. Nonostante ciò, Myrdal<br />

ribadisce la propria estraneità al mo<strong>del</strong>lo neoclassico <strong>del</strong>l’equilibrio rifiutando l’idea<br />

che gli effetti di diffusione possano riequilibrare la situazione iniziale: “Al limite le<br />

80


due specie di effetti si bilanceranno reciprocamente e la regione resterà in condizioni<br />

di ristagno. Ma questo bilanciarsi non è uno stabile equilibrio, poiché ogni<br />

cambiamento <strong>del</strong>le forze determinerà un movimento cumulativo ascendente o<br />

discendente.”(p.39-40)<br />

Il mo<strong>del</strong>lo presenta almeno due limiti: nella sua schematicità esso analizza solo<br />

su<strong>per</strong>ficialmente i fenomeni di diffusione; in secondo luogo sembra più utile a<br />

dimostrare l‘inadeguatezza <strong>del</strong>le teorie neoclassiche <strong>del</strong>l’equilibrio economico che<br />

non proporsi come <strong>una</strong> generale teoria <strong>del</strong>lo sviluppo regionale. In particolare, la<br />

componente spaziale è individuata solo genericamente in termini di concentrazioni<br />

geografiche di attività economiche (poli) e di <strong>per</strong>sistenza <strong>del</strong>l’ineguaglianze fra<br />

queste ed il resto <strong>del</strong> sistema.(Conti, 1996, p.132-134)<br />

Ciò che si preme sottolineare in questo paragrafo è che Myrdal concepisce lo<br />

sviluppo come “movimento ascendente <strong>del</strong>l’intero sociale” avvertendo che “un<br />

cambiamento <strong>del</strong> reddito nazionale pro - capite non può <strong>per</strong>tanto essere mai usato<br />

come qualcosa di più di un indicatore approssimativo e sbrigativo di quel più<br />

complesso cambiamento <strong>del</strong>l’intero sistema sociale che in realtà vogliamo registrare”<br />

(Myrdal, 1971, p.103-104). E’ l’idea, anticipatrice, di uno sviluppo non circoscritto<br />

alla sola sfera economica ma inteso come movimento di trasformazione che<br />

arricchisce la vita di ciascuno e ne allarga gli orizzonti.<br />

La causalità non riguarda solo i meccanismi economici ma coinvolge anche<br />

fenomeni sociali o aspetti psicologici, morali, come le aspettative, le s<strong>per</strong>anze, le<br />

credenze. Myrdal ritiene che l’economia neoclassica, astratta, deduttiva, statica, sia<br />

in ritardo rispetto alla realtà che pretende di interpretare. Essa è chiusa, quasi in <strong>una</strong><br />

sorta di autismo, alle altre discipline come la sociologia e la storia mentre è<br />

necessario un approccio multidisciplinare <strong>per</strong> comprendere l’evoluzione sociale ed<br />

istituzionale. Come gli altri “eterodossi” di questo capitolo, proclama il primato <strong>del</strong>le<br />

totalità e oppone <strong>una</strong> visione solistica all’individualismo metodologico. La<br />

conclusione è conseguente: se lo sbocco <strong>del</strong>le libere forze di mercato è quello di<br />

dinamiche inegualitarie e non armoniche, l’unico modo <strong>per</strong> frenarle ed innescare<br />

tendenze controbilancianti è l’intervento pubblico. Tale intervento, infatti, è in grado<br />

di costruire causalità cumulative positive <strong>per</strong> tutti e minori disuguaglianze<br />

fondamentali <strong>per</strong> determinare più sviluppo. Auspica, al riguardo, un progetto comune<br />

81


“costruito” che si sostituisca all’ordine “spontaneo” di Hayek al quale contrappone<br />

l’armonia “creata” attraverso la discussione, il confronto, la negoziazione, il<br />

compromesso. Myrdal sembra auspicare <strong>una</strong> democrazia economica che si<br />

sostituisca ad un sistema di mercato basato sull’ineguaglianza.<br />

Nel prossimo capitolo si cercherà di offrire altri contributi che si distinguono da<br />

quelli finora esposti che rimangono nel filone <strong>del</strong>la <strong>critica</strong> alla teoria <strong>del</strong>l’economia<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo economico.<br />

82


Crescita occupazionale<br />

e demografica locale<br />

Attrazione di nuove<br />

imprese<br />

Crescita <strong>del</strong>la<br />

qualificazione<br />

<strong>del</strong>la forza lavoro<br />

<strong>Sviluppo</strong> dei<br />

servizi<br />

Localizzazione di <strong>una</strong><br />

nuova impresa<br />

<strong>Sviluppo</strong> di<br />

imprese e settori<br />

ausiliari<br />

<strong>Sviluppo</strong> <strong>del</strong>le<br />

economie esterne<br />

Crescita <strong>del</strong> benessere<br />

generale <strong>del</strong>la<br />

comunità<br />

<strong>Sviluppo</strong> <strong>del</strong>le<br />

infrastrutture <strong>per</strong><br />

l’industria e <strong>per</strong> la<br />

popolazione<br />

Aumento<br />

<strong>del</strong>l’impostazione<br />

fiscale<br />

Figura 1: Il mo<strong>del</strong>lo di causazione circolare e cumulativa secondo Myrdal<br />

(da D. Keeble “Mo<strong>del</strong>s in economic development” in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 131)<br />

83


CAPITOLO QUARTO:<br />

Le critiche liberali ai mo<strong>del</strong>li di sviluppo<br />

“La libertà non è star sopra un<br />

albero, non è neanche il volo di un<br />

moscone, la libertà non è uno<br />

spazio libero, libertà è<br />

partecipazione.”<br />

Giorgio Gaber<br />

Questo capitolo affronta la tematica <strong>del</strong>lo sviluppo sotto molteplici punti di vista<br />

molto differenti tra loro. Nella prima parte si analizzerà il contributo di un filone<br />

teorico legato all’impostazione <strong>del</strong>la Scuola Austriaca, che fondandosi<br />

sull’individualismo metodologico, considera lo sviluppo un processo naturale che<br />

non deve subire influenze esterne al mercato.<br />

Fondamentale in questa prima parte è l’o<strong>per</strong>a <strong>del</strong>l’economista ungherese, ma inglese<br />

di adozione, Peter Tomas Bauer che fornisce, negli stessi anni di Myrdal e<br />

Hirschman, <strong>una</strong> visione originale sul “problema <strong>del</strong>lo sviluppo”.<br />

Dopo questa necessaria sintesi <strong>del</strong>la <strong>critica</strong> anti-statale si proverà a riassumere le tesi,<br />

sul tema, di due autori contemporanei molto famosi: l’economista indiano Amartya<br />

Sen e l’economista americano Joseph Stiglitz, entrambi premi nobel.<br />

I due economisti analizzano il problema <strong>del</strong>lo sviluppo considerandolo da due<br />

prospettive diverse; infatti, Sen si propone di analizzare il tema attraverso un’analisi<br />

politica orientata alla libertà e alla disuguaglianza, mentre Stiglitz si occupa <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo nel contesto <strong>del</strong>la globalizzazione.<br />

84


La visione “liberista” : Peter Thomas Bauer<br />

Peter T. Bauer ci fornisce un contributo in netto contrasto con le teorie più diffuse<br />

che si sono affrontante fino ad ora. Contrastando la teoria neoclassica ed i mo<strong>del</strong>li di<br />

ispirazione keynesiana, l’economista inglese si oppone drasticamente alle teorie<br />

“sviluppiste” di Myrdal o alle teorie “strutturaliste” o “dipendentiste” di Prebisch e<br />

Furtado. Il più grande merito di questo autore è quello di fornire con la sua posizione<br />

<strong>critica</strong> un grande contributo ad un dibattito che vedeva impegnati tutti gli autori che<br />

si sono incontrati finora (e non solo).<br />

Bauer ha contestato numerose affermazioni comunemente condivise dalla<br />

maggioranza degli accademici e dalle istituzioni internazionali <strong>del</strong> suo tempo e in<br />

particolare le seguenti convenzioni:<br />

1- Esiste <strong>una</strong> sorta di ”Circolo vizioso <strong>del</strong>la povertà” che impedisce ai paesi<br />

sottosviluppati di dare inizio ad un vero processo di sviluppo. 1<br />

2- La povertà dei paesi <strong>del</strong> Terzo Mondo è <strong>una</strong> conseguenza<br />

<strong>del</strong>l’oppressione e <strong>del</strong>lo sfruttamento <strong>per</strong>petrato nei loro confronti<br />

dall’Occidente. 2<br />

3- Il protezionismo è l’unico strumento di difesa che i paesi sottosviluppati<br />

possono usare <strong>per</strong> evitare di venire schiacciati dalla competitività <strong>del</strong>le<br />

industrie occidentali.<br />

4- Senza l’intervento <strong>del</strong>l’economia è impensabile uno sviluppo autonomo<br />

dei paesi <strong>del</strong> Terzo Mondo.<br />

5- Sono fondamentali gli aiuti stranieri <strong>per</strong> dare inizio allo sviluppo<br />

Per l’economista inglese questi “precetti fondamentali” <strong>del</strong>lo “sviluppismo” sono<br />

assolutamente fallaci.<br />

Bauer argomenta le proprie posizioni portando ad esempio il suo lavoro “sul campo”<br />

in Asia. Gli esempi di sviluppo dei paesi asiatici portati dall’autore cercano di<br />

smentire le posizioni dei suoi “rivali”.<br />

1 Per quanto riguarda il “circolo vizioso <strong>del</strong>la povertà” si rimanda al capitolo terzo nota 27.<br />

2 Ci si riferisce a tutta la teorizzazione <strong>del</strong>la dipendenza e <strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo analizzata nel capitolo<br />

secondo<br />

85


L’idea che esista questo “circolo vizioso <strong>del</strong>la povertà” è stata abbandonata<br />

dall’odierna visione liberista <strong>del</strong>l’economia mainstream, basata proprio sulle teorie<br />

<strong>del</strong>l’economista inglese, che nega questo circolo affermando che anche i paesi<br />

arretrati non sono immuni dall’accumulazione <strong>del</strong>la ricchezza. In tutte le società,<br />

anche quelle più primitive, vi è lo stimolo al baratto prima e al commercio poi.<br />

Questa tendenza dei cittadini dei paesi sottosviluppati allo scambio di beni e servizi<br />

deve essere sfruttata in tutta la sua interezza in quanto è il commercio, anche su<br />

piccola scala o informale, il vero motore <strong>del</strong>lo sviluppo. Secondo Bauer, dopo essersi<br />

convertiti alla “fede” nel libero commercio, la strada verso la pros<strong>per</strong>ità economica<br />

diventa più semplice da <strong>per</strong>correre. Al contrario, continuare a giustificare sentimenti<br />

compassionevoli <strong>del</strong>l’Occidente nei confronti <strong>del</strong> Terzo Mondo, fornendo aiuti<br />

finanziari in misura esponenziale, non può essere che dannoso: essi creano solo<br />

dipendenza e impediscono la crescita.<br />

“Lord Bauer è un economista classico: i motori <strong>del</strong>lo sviluppo sono l’impresa, il<br />

commercio e l’ampliamento dei mercati.[…]. Per Bauer, il punto cruciale è il<br />

passaggio dalla produzione di sussistenza a quella <strong>per</strong> il mercato.” 3<br />

Bauer non può <strong>per</strong>ò essere considerato un economista classico tout court dato che<br />

rifiuta categoricamente l’approccio storicista che tende a costruire teorie generali. In<br />

quest’ottica Bauer è certamente più vicino ad Hayek e alla Scuola Austriaca che a<br />

Smith o Ricardo.<br />

L’economista inglese, distinguendosi fortemente dai neoclassici, affronta “il<br />

problema <strong>del</strong>lo sviluppo” soffermandosi non solo sugli aspetti tradizionali<br />

<strong>del</strong>l’analisi economica, quali l’ammontare degli investimenti, l’offerta di<br />

infrastrutture, le risorse naturali, etc. ma facendo anche riferimento ai fattori<br />

culturali e politici dei singoli paesi sottosviluppati considerati: le attitudini, i costumi<br />

e le tradizioni dei singoli cittadini e <strong>del</strong>le comunità di questi paesi.<br />

La <strong>critica</strong> di Bauer sul metodo degli economisti <strong>del</strong>lo sviluppo mainstream si<br />

concentra nella “matematizzazione” <strong>del</strong>l’approccio ai temi <strong>del</strong>lo sviluppo. Mentre<br />

inizialmente si poteva utilizzare un linguaggio più descrittivo ed evitare il ricorso a<br />

funzioni e mo<strong>del</strong>li analitici, col passare degli anni l’uso di metodi econometrici è<br />

3 Michael Lipton in G.Meier e D. Seers “I pionieri <strong>del</strong>lo sviluppo” Roma. ASAL 1988 cit. pag. 66<br />

86


diventato inevitabile. Questo processo ha portato ad un riduzionismo <strong>del</strong>la realtà che<br />

ha avuto alcune conseguenze negative:<br />

1. Ingiustificata concentrazione di elementi importanti <strong>per</strong> capire lo sviluppo<br />

sotto poche macro-variabili (es. si considerano i paesi poveri come un blocco<br />

uniforme).<br />

2. Mancata tenuta in considerazione di alcuni elementi che, seppur altamente<br />

<strong>per</strong>tinenti, non sono trasformabili in termini matematici (es. attitudini <strong>per</strong>sonali).<br />

3. Confusione tra ciò che è “significativo” e ciò che è “quantificabile”.<br />

4. Omissione <strong>del</strong> background e dei processi storici dai mo<strong>del</strong>li di crescita<br />

economica.<br />

In tutta la sua o<strong>per</strong>a l’economista inglese rivendica l’attività sul campo <strong>per</strong> la<br />

realizzazione <strong>del</strong> proprio lavoro. L’approccio di Bauer non è analitico, ma sottolinea<br />

come le sue teorie nascano <strong>del</strong>l’evidenza dei fatti stessi. L’accettazione<br />

incondizionata dei metodi quantitativi basati sull’aggregazione ha <strong>per</strong>messo il<br />

diffondersi di studi econometrici a volte inappropriati. Al contrario il metodo basato<br />

sull’attenta osservazione <strong>del</strong>la realtà è stato definito come aneddotico, poco<br />

scientifico e su<strong>per</strong>ficiale, mentre invece, dice Bauer (1987), è quello che meglio è in<br />

grado di fornire un quadro esaustivo <strong>del</strong> problema <strong>del</strong>lo sviluppo.<br />

Se la <strong>critica</strong> relativa all’eccessiva “matematizzazione” e alla conseguente scarsa<br />

attenzione agli aspetti sociali può essere riscontrata anche in molti autori critici<br />

analizzati precedentemente, la visione “anti- egalitaria” di Bauer segna <strong>una</strong> netta<br />

cesura (così come <strong>per</strong> la politica economica) con questi autori.<br />

Il concetto di “eguaglianza” e di “equità” sono sempre stati al centro <strong>del</strong>le<br />

argomentazioni <strong>del</strong>le politiche di sviluppo occidentali. Secondo Bauer questi concetti<br />

evidenziano ed amplificano quel senso di colpa latente che da almeno cinquant’anni<br />

affligge i paesi occidentali nei confronti dei ”parenti più poveri”. L’economista<br />

inglese ritiene invece che questo atteggiamento compassionevole sia frutto di un<br />

pregiudizio di base che può essere riassunto nella frase: ”i poveri sono visti come<br />

passivi ma virtuosi, i ricchi come attivi ma malvagi” (Bauer,1982).<br />

In realtà egli ritiene che vi siano almeno quattro buoni argomenti a sostegno <strong>del</strong>le<br />

differenze economiche tra Paesi avanzati e paesi in via di sviluppo:<br />

87


• Non si può pensare che, in presenza di diversi livelli culturali e politici e che<br />

a fronte di differenti capacità e motivazioni <strong>del</strong>le <strong>per</strong>sone, tutti abbiano il medesimo<br />

reddito. Secondo Bauer che produce di più è giusto che abbia un ritorno economico<br />

in proporzione<br />

• Le differenze di reddito trovano <strong>una</strong> giustificazione di tipo procedurale. Le<br />

maggiori entrate di un individuo non corrispondono ad <strong>una</strong> riduzione di quelle di un<br />

altro<br />

• Le disuguaglianze di reddito sono giustificate dalle loro conseguenze: le<br />

politiche redistributive hanno l’effetto di creare ancora più disparità tra ricchi e<br />

poveri, tranne che in qualche eccezione di breve <strong>per</strong>iodo. Potendo contare su <strong>una</strong><br />

sempre maggiore assistenza finanziaria pubblica, le <strong>per</strong>sone meno produttive<br />

<strong>per</strong>dono l’incentivo ad aumentare i propri sforzi lavorativi. Tutto questo è <strong>una</strong><br />

conseguenza di un altro male moderno, l’eccessiva politicizzazione <strong>del</strong>l’economia<br />

che distoglie le energie dall’attività economica produttiva a favore <strong>del</strong>la politica e<br />

<strong>del</strong>la pubblica amministrazione;<br />

• L’idea di egualitarismo è di <strong>per</strong> sé in contrasto con quella di società a<strong>per</strong>ta.<br />

Politiche volte al livellamento degli standard di vita sono <strong>una</strong> forma di coercizione<br />

intollerabile <strong>per</strong> <strong>una</strong> società che si definisce libera. Il raggiungimento di tale obiettivo<br />

”baratterebbe” la promessa riduzione <strong>del</strong>le differenze di reddito e di ricchezza in<br />

cambio di <strong>una</strong> nuova disuguaglianza di potere tra i governanti e i cittadini.<br />

Bauer rifiuta quindi ogni tipo di responsabilità im<strong>per</strong>ialista <strong>del</strong> mondo occidentale<br />

facendo tabula rasa <strong>del</strong>la storia centenaria <strong>del</strong> colonialismo occidentale nei paesi<br />

sottosviluppati. Queste sue argomentazioni lo portano ad essere antitetico a tutte le<br />

teorie strutturaliste o “dipendentiste” di quegli anni. Tutte queste argomentazioni su<br />

equità, sviluppo e libertà saranno ben approfondite da A. Sen al quale rimando nel<br />

prossimo paragrafo.<br />

Come si avrà già avuto modo di capire, <strong>per</strong> l’economista inglese ciò che è<br />

fondamentale è la libertà <strong>del</strong> mercato. Il commercio è il motore <strong>del</strong>la crescita. Il<br />

commercio interno è quindi un’attività produttiva in due sensi: statico, <strong>per</strong>ché<br />

assicura l’allocazione ottimale <strong>del</strong>le risorse; dinamico <strong>per</strong>ché determina la crescita<br />

<strong>del</strong> mercato. I traders, con il loro o<strong>per</strong>ato, facilitano la nascita di istituzioni<br />

commerciali e di nuove professioni. Questo <strong>per</strong>mette <strong>una</strong> crescita <strong>del</strong> livello <strong>del</strong><br />

88


capitale umano, il quale, attraverso la specializzazione, raggiunge gli standard<br />

qualitativi necessari <strong>per</strong> lo sviluppo economico. A seguito di tale crescita migliorano<br />

le condizioni di vita e si allargano le possibilità di scelta <strong>per</strong> i consumatori. Senza<br />

commercio interno non può esserci commercio internazionale, e senza quest’ultimo il<br />

progresso è fortemente limitato.<br />

La completa fede verso i meccanismi di mercato e l’assoluta negazione <strong>del</strong> suo<br />

fallimento (gli strumenti non possono fallire), fanno di Bauer il paladino <strong>del</strong><br />

liberismo <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo. Uno dei suoi principali meriti è quello di<br />

aver messo in luce gli effetti, talvolta nefasti, di politiche interventiste sullo sviluppo.<br />

La sua forte <strong>critica</strong> alla politica <strong>del</strong> FMI e <strong>del</strong>la Banca Mondiale <strong>del</strong> secondo<br />

dopoguerra si concentra proprio sulla dannosità degli investimenti specifici, tanto<br />

cari a Myrdal ed Hirschman. Secondo Bauer le “cure” hanno solo peggiorato la<br />

malattia. L’economista inglese ha sottovalutato, come egli stesso ammette (1984),<br />

l’importanza <strong>del</strong> potere politico nelle decisioni economiche: i governi tendono a<br />

governare attraverso l’uso degli “aiuti”. Si dimentica, <strong>per</strong>ò, che nel secondo<br />

dopoguerra ciò che influenzava maggiormente le decisioni di politica <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

era la “guerra fredda”: Banca Mondiale e FMI, dipendenti dagli Usa (oggi come<br />

allora) pagavano la fe<strong>del</strong>tà al capitalismo con finanziamenti in funzione anti-<br />

sovietica. Negli anni ’80, cambiata la politica economica in senso liberista, questa<br />

tendenza non si modificò, anche se al posto di finanziamenti i governi dei paesi in<br />

via di sviluppo garantivano esclusivo libero commercio alle imprese occidentali<br />

(basti pensare alla politica liberista <strong>del</strong> generale Pinochet nel Cile dittatoriale).<br />

Il liberismo di Bauer si scaglia quindi contro qualsiasi tipo di programmazione<br />

economica <strong>per</strong> i paesi sottosviluppati. Questo controllo totale potrebbe essere messo<br />

in discussione dall’a<strong>per</strong>tura al commercio estero. La riduzione o l’eliminazione <strong>del</strong>le<br />

barriere, tariffarie e non, provocherebbe, infatti, distorsioni agli effetti programmati<br />

dal governo, impedendo così l’attuazione <strong>del</strong> piano di sviluppo. Bauer invece si<br />

scaglia contro queste convinzioni, da lui ritenute non solo errate, ma anche prive di<br />

logica. La domanda che Bauer si pone è: come è possibile che la totale chiusura di un<br />

paese al mercato internazionale riesca a far aumentare i redditi dei suoi cittadini?<br />

Come è possibile, cioè, che, senza importare risorse dall’estero e senza esportare i<br />

propri prodotti, si possa generare nuova ricchezza? Ciò che i pianificatori usano <strong>per</strong> i<br />

89


loro progetti economici non sono nuove risorse ottenute ad hoc, ma sono fondi sviati<br />

da altri investimenti pubblici o privati preesistenti. Adottare un’economia orientata al<br />

mercato, sostiene Bauer, è quindi fondamentale <strong>per</strong> lo sviluppo: incentiverebbe a<br />

passare da <strong>una</strong> produzione di sussistenza ad <strong>una</strong> di scambio, farebbe importare nuove<br />

tecnologie e conoscenze scientifiche, riuscirebbe a soddisfare i bisogni dei<br />

consumatori.<br />

L’economista inglese <strong>per</strong>ò non è completamente anti-statalista e sostiene<br />

l’importanza <strong>del</strong>lo stato <strong>per</strong> garantire le istituzioni adatte allo sviluppo cioè le libertà<br />

individuali (fondamentale il diritto di proprietà) e il potere giudiziario contro la<br />

corruzione. La politica <strong>del</strong>lo stato deve esserci ma solo quando è volta a favorire il<br />

libero mercato interno ed internazionale.<br />

Ponendo al centro <strong>del</strong> proprio ragionamento la libertà, Lord Bauer cercherà di<br />

capovolgere le critiche anti-mercato con <strong>una</strong> soluzione opposta a quella auspicata da<br />

autori come Polanyi.<br />

Un altro autore che partirà dalla nozione di libertà, giungendo <strong>per</strong>ò su lidi opposti a<br />

quelli <strong>del</strong>l’economista inglese, è Amartya Sen: all’economista indiano è dedicato il<br />

prossimo paragrafo.<br />

90


<strong>Sviluppo</strong> è liberta: Amartya Sen<br />

Il contributo <strong>del</strong>l’economista indiano nella teoria <strong>del</strong>lo sviluppo si inserisce in quella<br />

“terra di mezzo” tra la filosofia, la sociologia e la psicologia e la scienza economica.<br />

Sen pone al centro <strong>del</strong>lo sviluppo la libertà: “lo sviluppo può essere visto come un<br />

processo di espansione <strong>del</strong>le libertà reali godute dagli esseri umani” in questo senso,<br />

“lo sviluppo richiede che siano eliminate le principali fonti di illibertà: la miseria<br />

come la tirannia, l'angustia <strong>del</strong>le prospettive economiche come la deprivazione<br />

sociale sistematica, la disattenzione verso i servizi pubblici come l'intolleranza o<br />

l'autoritarismo di uno stato repressivo” (Sen, 2000, p.9).<br />

L’importanza affidata da Sen alla libertà e al concetto di uguaglianza nel discorso<br />

sullo sviluppo <strong>per</strong>mettono a questa materia di aprirsi alla filosofia politica di Rawls e<br />

Nozick ma anche all’etica senza mai <strong>per</strong>dere di vista il pensiero economico.<br />

L’economista indiano è l’anello di congiunzione tra la scienza economica dedicata<br />

allo sviluppo e le altre scienze sociali; la sua capacità di fondare la teoria <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo su concetti non solo economici è fondamentale <strong>per</strong> l’approccio che questa<br />

tesi sostiene nella sua seconda parte.<br />

La libertà, intesa come libertà effettiva (di scegliersi <strong>una</strong> vita cui, a ragion veduta, si<br />

dia valore), in un senso assai vicino a quello <strong>del</strong>la real freedom di Philippe Van<br />

Parijs 4 , è, dunque, secondo Sen, il criterio in base al quale valutare gli assetti<br />

politico-sociali e orientare le politiche pubbliche.<br />

L’approccio individualista e le sue critiche all’utilitarismo e al neoclassicismo<br />

avvicinano l’economista indiano a quel filone “liberals” di cui anche Bauer fa parte.<br />

La sostanziale differenza tra i due approcci è proprio sul concetto stesso di libertà. Il<br />

liberalismo di “destra” così come quello classico concentrano l’attenzione<br />

sull’estensione dei diritti di proprietà, sia sulle cose che sulla <strong>per</strong>sona (self<br />

ownership) mentre trascura la distribuzione dei diritti di proprietà stessi.<br />

4 La “real freedom”, o libertà reale, <strong>per</strong> l’economista francese Van Parijs, si inserisce in un’ottica<br />

libertaria di “sinistra” combinando l’individualismo <strong>del</strong>la filosofia libertaria con un approccio<br />

sostanziale e non solo formale alla libertà, che finisce <strong>per</strong> avvicinarlo ad <strong>una</strong> qualche forma di<br />

(moderato) egualitarismo<br />

91


Ciò avviene soprattutto a causa <strong>del</strong>l’idea monistica <strong>del</strong>la proprietà che viene intesa<br />

come un insieme dato e fisso di caratteristiche. La teoria funzionalista <strong>del</strong> diritto ha<br />

posto in discussione questa visione interpretando la proprietà come fascio di<br />

prerogative che non necessariamente sono presenti in ogni circostanza. Un esempio<br />

di tale impostazione si ha nella scuola di analisi economica <strong>del</strong> diritto che adotta il<br />

criterio <strong>del</strong>l’efficiente utilizzo <strong>del</strong>le risorse economiche come guida <strong>per</strong> mo<strong>del</strong>lare il<br />

contenuto dei diritti di proprietà. In tal modo si apre la strada <strong>per</strong> aggiungere ai due<br />

elementi classici <strong>del</strong>l’approccio libertario alla proprietà, cioè quello <strong>del</strong>la sicurezza<br />

(“esiste <strong>una</strong> struttura di diritti di proprietà ben definiti”, sottratti quindi all’arbitrio) e<br />

quello <strong>del</strong>la proprietà su se stessi (self ownership), anche l’elemento caratterizzante<br />

<strong>del</strong>la opportunità concreta <strong>per</strong> l’individuo di <strong>per</strong>seguire la propria concezione <strong>del</strong>la<br />

vita (Van Parijs, 1995) il che è reso possibile da un’appropriata struttura <strong>del</strong> sistema<br />

dei diritti.<br />

E’ questo l’elemento che introduce un tratto sostanziale, che riempie l’idea <strong>del</strong>la<br />

libertà negativa di un contenuto positivo, detto altrimenti la rende effettiva rispetto<br />

alla sola idea <strong>del</strong>la assenza di coercizione propria <strong>del</strong> libertarismo classico. In parte<br />

questo coincide con la nozione di capabilities elaborata da Sen .<br />

L’economista indiano introduce queste sue argomentazioni effettuando <strong>una</strong><br />

distinzione tra i processi e le possibilità effettive. “L’illibertà può derivare sia da<br />

processi inadeguati (come la negazione <strong>del</strong> diritto di voto o di altri diritti politici o<br />

civili) sia dal fatto che ad alcuni non sono date adeguate possibilità di soddisfare<br />

desideri anche minimali (il che comprende la mancanza di possibilità elementari,<br />

come quella di sfuggire ad <strong>una</strong> morte prematura, a malattie evitabili o alla fame<br />

involontaria)” (Sen 2000, p.23). E’ fondamentale <strong>per</strong> Sen chiarire che lo sviluppo si<br />

basa sulla nozione più ampia possibile di libertà, che comprenda processi e<br />

possibilità.<br />

La sua analisi, più precisamente, si sviluppa sulla distinzione tra funzionamenti e<br />

capabilities (traducibile in “capacitazioni”): i funzionamenti sono stati di essere o di<br />

fare cui gli individui attribuiscono valore (ad esempio, essere adeguatamente nutriti,<br />

non soffrire malattie evitabili), mentre le capacitazioni sono gli insiemi di<br />

combinazioni alternative di funzionamenti che <strong>una</strong> <strong>per</strong>sona è in grado di realizzare.<br />

Per chiarire questa distinzione può essere utile riprendere un esempio di Sen: “un<br />

92


enestante che digiuni [...] può anche funzionare, sul piano <strong>del</strong>l'alimentazione, allo<br />

stesso modo di un indigente costretto a fare la fame, ma il primo ha un “insieme di<br />

capacitazioni” diverso da quello <strong>del</strong> secondo (l'uno può decidere di mangiar bene e<br />

nutrirsi adeguatamente, l'altro non può)” (2000, p. 79). Ora, osserva Sen, “mentre la<br />

combinazione dei funzionamenti effettivi di <strong>una</strong> <strong>per</strong>sona rispecchia la sua riuscita<br />

reale, l'insieme <strong>del</strong>le capacitazioni rappresenta la sua libertà di riuscire, le<br />

combinazioni alternative di funzionamenti tra cui essa può scegliere” (p.80).<br />

L'approccio <strong>del</strong>le capacitazioni può guardare sia ai funzionamenti realizzati sia<br />

all'insieme capacitante <strong>del</strong>le alternative a disposizione, a seconda che ci si voglia<br />

focalizzare sulle cose che <strong>una</strong> <strong>per</strong>sona fa o su quelle che è libera di fare. È, <strong>per</strong>ò,<br />

preferibile, secondo Sen, concentrarsi su queste ultime, dal momento che “è possibile<br />

dare importanza anche al fatto di avere occasioni che non vengono colte; anzi, è<br />

naturale muoversi in questa direzione, se il processo attraverso il quale vengono<br />

generati gli esiti ha un suo significato” (p. 80).<br />

L’economista indiano si confronta con i maggiori teorici <strong>del</strong>la giustizia come Nozick<br />

e Rawls ma anche con la storia <strong>del</strong> pensiero economico, in particolare con<br />

l’utilitarismo.<br />

La prospettiva di Sen è, dunque, alternativa rispetto a tutti gli approcci in qualche<br />

modo "classici" in tema di distribuzione <strong>del</strong>le risorse. In particolare, Sen contesta<br />

all'utilitarismo:<br />

1) l'indifferenza <strong>per</strong> la distribuzione <strong>del</strong>la "felicità"<br />

2) la negazione di un valore intrinseco ai diritti e alle libertà,<br />

3) <strong>una</strong> certa predisposizione a favorire condizionamento sociale e adattamento;<br />

Inoltre Sen rimprovera a Rawls: la tendenza a ridurre la libertà a un semplice<br />

“vantaggio” e a trascurare i problemi di conversione dei beni principali (beni<br />

necessari <strong>per</strong> qualsiasi piano di vita) in benessere effettivo; obietta a Nozick la<br />

mancanza di considerazione <strong>per</strong> le conseguenze derivanti dall'esercizio dei diritti<br />

(negativi) <strong>del</strong>le <strong>per</strong>sone.<br />

Sen ha la capacità di spostare l’attenzione dai mezzi (aumento <strong>del</strong>la produzione,<br />

investimenti, utilità, etc..), ai fini cioè allo sviluppo stesso. Le teorie sullo sviluppo<br />

economico, troppo spesso, si sono concentrate su un unico fine, cioè la crescita, che è<br />

diventato la legge <strong>del</strong>l’economia stessa. Sen, e con lui molti altri autori qui proposti,<br />

93


agiona invece sul concetto stesso di sviluppo allontanandosi molto dall’unico “fine”<br />

<strong>del</strong>l’economia mainstream.<br />

L’idea dominante è sempre stata che povertà, disuguaglianza, mancanza di istruzione<br />

e altri mali sociali sarebbero stati tutti contemporaneamente alleviati dalla crescita<br />

<strong>del</strong> Pil. Anzi: alla crescita <strong>del</strong> Pil si potevano sacrificare molte vite e molti rapporti<br />

sociali <strong>per</strong>ché, pur attraverso alcune sofferenze, la crescita avrebbe portato a<br />

condizioni migliori <strong>per</strong> tutti. Il Pil era insomma diventato il fine <strong>del</strong>l'economia e <strong>del</strong>le<br />

politiche che, rovesciando i termini <strong>del</strong>la logica e <strong>del</strong>l'es<strong>per</strong>ienza umana ma<br />

accettando quelli <strong>del</strong>l'economia neoclassica, si facevano dettare l'agenda dalle<br />

principali istituzioni economiche.<br />

Sen ha la capacità di rimettere al centro <strong>del</strong> discorso economico (e quindi anche <strong>del</strong><br />

discorso sullo sviluppo) il fine <strong>del</strong>l’azione economica con un’affermazione che non è<br />

così ovvia: “Se abbiamo <strong>del</strong>le ragioni <strong>per</strong> voler essere più ricchi, dobbiamo chiederci<br />

quali siano esattamente queste ragioni, come si esplichino, da che cosa dipendano e<br />

quali siano le cose che possiamo fare essendo più ricchi. In generale abbiamo ottime<br />

ragioni <strong>per</strong> desiderare un reddito o <strong>una</strong> ricchezza maggiore; e non <strong>per</strong>ché ricchezza e<br />

reddito siano in sé desiderabili, ma <strong>per</strong>ché normalmente sono un ammirevole<br />

strumento <strong>per</strong> essere più liberi di condurre il tipo di vita che, <strong>per</strong> <strong>una</strong> ragione o <strong>per</strong><br />

l'altra, apprezziamo”.<br />

Il collegamento con gli economisti classici e con tutto il filone <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong><br />

(che si vedrà meglio nella seconda parte) è evidente: la ricchezza è uno strumento e<br />

non un fine.<br />

“L'utilità <strong>del</strong>la ricchezza sta nelle cose che ci <strong>per</strong>mette di fare, nelle libertà<br />

sostanziali che ci aiuta a conseguire; ma questa correlazione non è né esclusiva<br />

(infatti esistono altri fattori, oltre alla ricchezza, che influiscono in modo<br />

significativo sulla nostra vita) né uniforme (poiché l'effetto <strong>del</strong>la ricchezza sulla vita<br />

varia a seconda di questi altri fattori)”. Queste affermazione sono illuminanti sul<br />

<strong>per</strong>ché Sen abbia elaborato questa teoria sulle libertà – capacitazioni: la crescita <strong>del</strong><br />

Pil non è l'unica strada <strong>per</strong> raggiungere obiettivi importanti <strong>per</strong> la vita umana e<br />

soprattutto non è questa strada che porta univocamente verso quegli obiettivi. Scopi<br />

<strong>per</strong> i quali valga la pena di battersi, come la possibilità di “vivere a lungo senza<br />

essere stroncati nel fiore degli anni” o “vivere bene e non nella sofferenza e<br />

94


nell'illibertà” sono desideri “quasi” universali e che solo in parte, non<br />

necessariamente in modo univoco, sono correlati alla mera crescita economica.<br />

Sicché anche nella ricerca orientata a favorire lo sviluppo occorre mantenere la<br />

consapevolezza <strong>del</strong>l’importanza dei fattori non- economici e occorre discutere i fini<br />

almeno quanto si discutono i mezzi. “Due cose sono ugualmente importanti:<br />

riconoscere il ruolo cruciale <strong>del</strong>la ricchezza nel determinare le condizioni e la qualità<br />

<strong>del</strong>la vita e rendersi conto di quanto sia condizionata e contingente questa<br />

correlazione. Una concezione adeguata <strong>del</strong>lo sviluppo deve andare ben oltre<br />

l'accumulazione <strong>del</strong>la ricchezza e la crescita <strong>del</strong> prodotto nazionale lordo o di altre<br />

variabili legate al reddito; senza ignorare l'importanza <strong>del</strong>la crescita economica,<br />

dobbiamo <strong>per</strong>ò guardare molto più in là”. E ancora: “Dobbiamo considerare ed<br />

esaminare sia i fini sia i mezzi <strong>del</strong>lo sviluppo se vogliamo capire più a fondo lo<br />

sviluppo stesso”. Sen riassume il significato di tutta la sua teoria così:“Non è sensato<br />

considerare la crescita economica fine a se stessa; lo sviluppo deve avere <strong>una</strong><br />

relazione molto più stretta con la promozione <strong>del</strong>le vite che viviamo e <strong>del</strong>le libertà di<br />

cui godiamo. L'espansione di quelle libertà che a buona ragione consideriamo<br />

preziose non solo rende più ricca e meno soggetta a vincoli la nostra vita, ma ci<br />

<strong>per</strong>mette anche di essere in modo più completo individui sociali, che esercitano le<br />

loro volizioni, interagiscono col mondo in cui vivono e influiscono su di esso” (2000,<br />

p.20-21).<br />

L’economista indiano pone alla base <strong>del</strong> suo ragionamento sulla povertà il concetto<br />

di capacitazione ponendo a sostegno <strong>del</strong>la sua tesi tre punti fondamentali (2000,<br />

p.92):<br />

1) L’approccio si concentra su privazioni che sono intrinsecamente importanti (a<br />

differenza <strong>del</strong> basso reddito che è significativo solo sul piano strumentale);<br />

2) Sull’incapacitazione, e quindi sulla povertà reale, agiscono altri fattori oltre<br />

al basso reddito (il reddito non è il solo strumento che può generare<br />

capacitazioni);<br />

3) La relazione strumentale fra basso reddito e basse capacitazioni varia da <strong>una</strong><br />

comunità all’altra e addirittura da <strong>una</strong> famiglia, o <strong>una</strong> <strong>per</strong>sona, all’altra<br />

(l’effetto <strong>del</strong> reddito sulle capacitazioni è contingente e condizionato)<br />

95


Le prime forme di sottosviluppo umano, legate al concetto stesso di povertà come<br />

“incapacitazione”, evidenziate da Sen sono la fame, la mancanza di libertà e diritti<br />

civili fondamentali, la sicurezza. È insensato sostenere, come alcuni fanno, che si<br />

possa scegliere un <strong>per</strong>corso di sviluppo che inizialmente neghi i diritti civili <strong>per</strong><br />

accelerare la crescita economica e così combattere la fame. È insensato <strong>per</strong> due<br />

ordini di motivi: <strong>per</strong>ché non è <strong>una</strong> buona definizione di sviluppo quella che tenga<br />

conto solo <strong>del</strong>la crescita <strong>del</strong> Pil e non <strong>del</strong>la libertà <strong>del</strong>le <strong>per</strong>sone; e <strong>per</strong>ché non c'è<br />

vera lotta alla fame senza democrazia. Tanto è vero che, secondo Sen, i fatti<br />

dimostrano che nelle democrazie non ci sono carestie e queste avvengono solo nei<br />

paesi governati in modo dittatoriale.<br />

Centrale nell’o<strong>per</strong>a seniana la <strong>critica</strong> alla “mania quantitativa” di molti economisti<br />

che considerano il reddito come unico indicatore di povertà: Sen non nega che vi sia<br />

<strong>una</strong> correlazione tra il basso reddito e l'analfabetismo, la cattiva salute, la fame e la<br />

denutrizione, ma la correlazione tra le variabili non significa necessariamente un<br />

rapporto di causalità. A questo punto, l’economista indiano mostra come la crescita<br />

<strong>del</strong> reddito non abbia molto a che fare con la riduzione <strong>del</strong>la disuguaglianza sociale e<br />

<strong>del</strong>la povertà umana, quella che le statistiche sul reddito, appunto, non riescono a<br />

registrare fino in fondo. A sostegno di questa tesi, Sen porta ad esempio dati che<br />

dimostrano che la probabilità di vita degli afroamericani che vivono negli Stati Uniti<br />

è inferiore a quella degli abitanti di paesi come la Cina e lo stato indiano <strong>del</strong> Kerala:<br />

nonostante che gli afroamericani abbiano redditi enormemente su<strong>per</strong>iori di quelli dei<br />

cinesi o dei keraliani. Inoltre, introducendo un discorso sull’uguaglianza, si afferma<br />

che anche tra gli afroamericani ci sono differenze: i meno fort<strong>una</strong>ti, i maschi che<br />

vivono in grandi città come New York, <strong>per</strong> esempio ad Harlem, hanno meno<br />

probabilità di raggiungere i quarant'anni di età dei maschi nati nel Bangladesh<br />

nonostante che i nati nel Bangladesh abbiano un reddito infinitamente inferiore a<br />

quello dei neri di Harlem. Questo <strong>per</strong>ché la qualità <strong>del</strong>la vita è correlata al reddito,<br />

ma non è spiegata solo dal reddito: anzi, in certi casi il reddito è <strong>una</strong> misura<br />

fuorviante.<br />

Con questo suo approccio, sicuramente Sen innova la scienza economica di chi<br />

ritiene che l'economista non si debba occupare di giudizi di valore. La sua nozione di<br />

“sviluppo im<strong>per</strong>niato sulla libertà” non è troppo diversa da quella di chi si occupa di<br />

96


questioni come la “qualità <strong>del</strong>la vita”. In questo, come si è già visto, prende le<br />

distanze dall'eccesso di matematizzazione <strong>del</strong>l'economia contemporanea ma sente<br />

<strong>una</strong> vicinanza invece con alcune istanze <strong>del</strong>l'economia originaria. La sua valutazione<br />

è semplice: “Quest'attenzione alla qualità <strong>del</strong>la vita e alle libertà sostanziali, anziché<br />

solo a reddito e ricchezza, può forse sembrare un allontanarsi dalle solide tradizioni<br />

<strong>del</strong>la scienza economica, e in un certo senso lo è davvero (soprattutto in confronto ad<br />

alcune rigorose analisi centrate sul reddito che troviamo tra gli economisti<br />

contemporanei); ma in realtà questo approccio più ampio è in armonia con alcuni<br />

orientamenti analitici che appartengono alla professione <strong>del</strong>l'economista fin dai<br />

primordi” (Sen, p. 30). A questo proposito Sen cita <strong>una</strong> serie di punti di riferimento,<br />

da Aristotele ad Adam Smith (capitolo primo), almeno <strong>per</strong> quanto riguarda la sua<br />

analisi dei beni necessari e <strong>del</strong>le condizioni di vita. Per l’economista indiano da<br />

rinnovare è l'eccesso di analisi quantitativa, il rifiuto assurdo di occuparsi <strong>del</strong> valori<br />

in economia (Sen, 2004), l’ossessiva concentrazione sul reddito, l’utilità e la crescita.<br />

A questo punto è necessario analizzare la “ricetta” prevista da Sen <strong>per</strong> favorire lo<br />

sviluppo di un paese, o meglio ancora, degli individui.<br />

Si può tranquillamente affermare che, al contrario di molti suoi predecessori<br />

“sviluppisti”, l’economista indiano non abbia <strong>una</strong> vera e propria ricetta taumaturgica<br />

ed universale: l’approccio seniano è assolutamente pratico e sostanziale.<br />

Sen analizza in che modo la ragione umana possa concepire e promuovere società<br />

migliori e più accettabili: come si può creare uno sviluppo.<br />

L’economista indiano individua tre critiche all’idea che si possano creare dei mo<strong>del</strong>li<br />

di sviluppo.<br />

La prima afferma che, dato che <strong>per</strong>sone diverse hanno preferenze e valori eterogenei,<br />

non è possibile dunque dare ai nostri ragionamenti un impianto coerente.<br />

La seconda <strong>critica</strong> è metodologica: l’uomo non è in grado di ottenere ciò che intende<br />

ottenere, infatti la storia è dominata dalle “conseguenze non volute”: queste<br />

conseguenze non possono <strong>per</strong>mettere decisioni razionali collettive.<br />

La terza <strong>critica</strong> si fonda sull’ambito dei valori umani e <strong>del</strong>le norme di<br />

comportamento: l’uomo sceglie anche al di là <strong>del</strong> “gretto interesse <strong>per</strong>sonale”? Se la<br />

risposta è negativa, esiste un solo sistema, cioè il mercato.<br />

97


Alla prima <strong>critica</strong> Sen amplia il teorema <strong>del</strong>l’impossibilità di Arrow 5 <strong>per</strong> affermare<br />

che esso non nega a prescindere la possibilità di compiere <strong>una</strong> scelta sociale derivata<br />

dalle preferenze individuali, ma bensì pone l’attenzione alla base informativa sulla<br />

quale questa scelta si compie.<br />

La “scelta sociale” assume un ruolo fondamentale nello sviluppo : “la partecipazione<br />

dei cittadini al processo decisionale è un elemento fondamentale <strong>del</strong>l’impegno<br />

sociale”(Sen, 1997, p.73). La numerosa letteratura sulla “scelta sociale” indaga in<br />

che modo gli individui si relazionano e si influenzano nel dare vita a “scelte<br />

pubbliche” in processi decisionali collettivi. Per l’economista indiano qualsiasi<br />

progetto di sviluppo passa necessariamente attraverso, consenso, scelte condivise e<br />

pubblici dibattiti.<br />

Alla seconda <strong>critica</strong>, che ha trovato in Carl Menger e Friedrich Hayek i più fe<strong>del</strong>i<br />

sostenitori, Sen risponde distinguendo tra conseguenza non voluta e conseguenza<br />

imprevedibile: nello scambio entrambe le parti possono prevedere il beneficio <strong>del</strong>la<br />

controparte anche se non vogliono tale beneficio. “Se viene intesa così (ossia come<br />

previsione di conseguenze importanti ma non intenzionali), l’idea di conseguenza<br />

non voluta non si contrappone in alcun modo alla possibilità di riforme razionali;<br />

anzi, è vero il contrario. Il ragionamento economico e sociale è senz’altro in grado di<br />

tener conto di conseguenze che possono essere intenzionali ma derivano<br />

ciononostante da determinati assetti istituzionali, e gli argomenti pro e contro un<br />

particolare assetto possono essere meglio valutati prendendo nota <strong>del</strong>la probabilità di<br />

<strong>una</strong> serie di conseguenze non volute.” (Sen, 2000, p.257).<br />

La terza <strong>critica</strong> che ha che fare con il concetto di motivazione <strong>del</strong> comportamento<br />

umano sostiene che l’uomo è interessato solo alla propria <strong>per</strong>sona. Questa visione è<br />

assolutamente semplicistica ed è difficilmente difendibile sul piano empirico. “Ogni<br />

sistema economico ha certe esigenze di etica <strong>del</strong> comportamento; il capitalismo non<br />

fa eccezione, e i valori possono influenzare le azioni individuali in modo molto<br />

pronunciato.”(2000, p. 279).<br />

5 Il teorema <strong>del</strong>l’impossibilità di Arrow s'inserisce nell'ambito <strong>del</strong>l'ampio dibattito sulla difficoltà di<br />

trasformare nel modo più corretto e coerente possibile le preferenze individuali dei cittadini su temi di<br />

interesse generale, in decisioni collettive. Più precisamente, il teorema arriva a dimostrare che non è<br />

sempre possibile determinare, nell’ambito <strong>del</strong>le scelte collettive, <strong>una</strong> maggioranza stabile ed univoca.<br />

98


E’ importante <strong>per</strong> Sen considerare tutti i fattori che influenzano il “comportamento<br />

reale” <strong>del</strong>l’uomo che è fatto di egoismo ma anche di valori morali. Non considerare<br />

l’etica e i valori significa mortificare le stesse scelte individuali.<br />

Su<strong>per</strong>ando queste tre critiche l’economista indiano individua le strade <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

in <strong>una</strong> via democratica: “scelta sociale”, discussione pubblica e impegno sociale.<br />

“La politica <strong>del</strong>lo stato ha un ruolo non solo quando mira a mettere in pratica le<br />

priorità derivanti da valori e principi sociali, ma anche in quanto facilita e garantisce<br />

discussione pubblica più completa.” In concreto le politiche pubbliche <strong>per</strong> lo<br />

sviluppo devono favorire questo dibattito, attraverso riforme che hanno come<br />

obiettivi la libertà di stampa e l’indipendenza dei media, l’espansione <strong>del</strong>l’istruzione,<br />

lo stimolo all’indipendenza economica (attraverso salari minimi garantiti o politiche<br />

di occupazione). Tutte quelle riforme che producono “trasformazioni sociali ed<br />

economiche che aiutano gli individui a essere cittadini partecipi” sono auspicabili <strong>per</strong><br />

lo sviluppo. “Al centro di un simile approccio c’è l’idea <strong>del</strong>l’opinione pubblica come<br />

forza attiva di cambiamento, anziché oggetto passivo e docile di istruzioni, o di<br />

un’assistenza elargita dall’alto.<br />

Alla luce di questi ragionamenti <strong>per</strong> Sen la libertà individuale assume un’importanza<br />

sociale dato che diventa impegno dei singolo individui nelle decisioni pubbliche. Lo<br />

stesso Bauer aveva sottolineato come l’obiettivo <strong>del</strong>lo sviluppo economico sia<br />

l’estensione <strong>del</strong>le scelte individuali. Purtroppo si è spesso confuso questo obiettivo<br />

come un ampliamento quantitativo <strong>del</strong>le scelte di consumo concentrando l’attenzione<br />

solo sulla crescita economica, eludendo tutte quelle scelte che considerano la<br />

“dimensione etica” <strong>del</strong>l’uomo. L’economista indiano ribadisce l’importanza di porre<br />

al centro <strong>del</strong> discorso sullo sviluppo la libertà <strong>per</strong>ché essa porta in sé l’aspetto<br />

processuale e possibilititante <strong>del</strong>la libertà stessa, andando oltre il concetto di<br />

sviluppo come crescita. I processi fondamentali <strong>per</strong> lo sviluppo, come la<br />

partecipazione alle decisioni pubbliche e le scelte sociali, non sono mezzi ma fini<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo stesso.<br />

L’importanza <strong>del</strong>le varie istituzioni sociali – organismi politici, media, apparati<br />

giudiziari, la comunità, etc.. – è fondamentale quando, contribuendo al processo di<br />

sviluppo, stimolano e sorreggono le libertà individuali. L’analisi <strong>del</strong>lo sviluppo esige<br />

“<strong>una</strong> comprensione integrata dei ruoli di queste istituzioni e <strong>del</strong>le loro interazioni”.<br />

99


Il pensiero di Sen è ben riassunto da lui stesso nell’osservazione finale: “Fra le<br />

caratteristiche <strong>del</strong>la libertà c’è anche quella di presentare aspetti tra loro eterogenei,<br />

legati ad <strong>una</strong> grande varietà di attività e istituzioni. Non ne possiamo estrapolare <strong>una</strong><br />

concezione <strong>del</strong>lo sviluppo immediatamente traducibile in <strong>una</strong> - “formuletta” - <strong>per</strong><br />

l’accumulazione <strong>del</strong> capitale o l’a<strong>per</strong>tura dei mercati o <strong>una</strong> pianificazione economica<br />

efficiente. Il principio organizzativo che unisce in un corpus integrato i frammenti<br />

sparsi è dato dalla preoccupazione, a tutti sovraordinata, <strong>per</strong> uno sviluppo <strong>del</strong>le<br />

libertà individuali e <strong>per</strong> un impegno <strong>del</strong>la società a realizzarlo. E’ importante che ci<br />

sia questa unità; ma, allo stesso tempo, non possiamo <strong>per</strong>dere di vista il fatto che la<br />

libertà è un concetto intrinsecamente multiforme, che comporta sia elementi<br />

processuali, sia la presenza di possibilità concrete.” (2000, p. 297)<br />

Lo sviluppo è liberta e la libertà individuale deve essere impegno sociale attraverso<br />

quella che nei prossimi capitoli si individuerà come “democrazia economica” e<br />

partecipazione.<br />

100


Globalizzazione e sviluppo: Joseph Stiglitz<br />

Se oggi si vuole parlare di sviluppo economico non si può prescindere dalla<br />

cosiddetta globalizzazione. L’autore che più incarna questa convinzione è il premio<br />

nobel <strong>per</strong> l’economia Joseph Stiglitz.<br />

Famoso <strong>per</strong> i suoi contributi all’economia <strong>del</strong>l’informazione, attraverso i suoi studi<br />

sulle asimmetrie informative, l’economista americano ha trasferito le sue riflessioni<br />

dal piano microeconomico al piano macroeconomico ed ha rivolto pesanti critiche<br />

alle politiche allo sviluppo <strong>del</strong> Fondo Monetario Internazionale e <strong>del</strong>la Banca<br />

Mondiale, di cui ha fatto parte, lottando <strong>per</strong> promuovere un giusto equilibrio tra<br />

pubblico e privato e politiche a favore <strong>del</strong>l’uguaglianza e <strong>del</strong>la piena occupazione. Le<br />

sue riflessioni a questo proposito sono illustrate nel libro “La globalizzazione ed i<br />

suoi oppositori” che ha contribuito ad impostare un nuovo dibattito sul tema. La<br />

globalizzazione è il campo in cui si sviluppano alcuni dei nostri più profondi conflitti<br />

sociali, inclusi quelli sui valori fondamentali, e le divergenze più significative<br />

riguardano il ruolo dei governi e dei mercati. Pur ammettendo che i governi, da soli,<br />

non riescono a realizzare <strong>una</strong> distribuzione <strong>del</strong> reddito socialmente accettabile, i<br />

conservatori <strong>per</strong> lungo tempo hanno sostenuto la necessità di separare i temi attinenti<br />

all’efficienza da quelli riguardanti l’equità. I limiti dei mercati sono piuttosto chiari:<br />

gli scandali degli anni novanta in America e in altri paesi hanno inferto un duro colpo<br />

alla finanza ed al capitalismo che si è rivelato antitetico allo sviluppo, che richiede<br />

invece lungimiranza di pensiero e di programmazione. L’esistenza di economie di<br />

mercato, come quella svedese, diverse da quella americana, dimostrano che esistono<br />

forme alternative che possono essere efficienti. Analogamente, benché coloro che<br />

<strong>critica</strong>no la globalizzazione abbiano ragione nell’affermare che è stata usata <strong>per</strong><br />

portare avanti alcuni interessi particolari, ma non è detto che la globalizzazione<br />

debba essere <strong>del</strong>eteria <strong>per</strong> l’ambiente, aumentare la s<strong>per</strong>equazione sociale, indebolire<br />

la diversità culturale e promuovere gli interessi <strong>del</strong>le grandi multinazionali a scapito<br />

<strong>del</strong> benessere <strong>del</strong> cittadino comune.<br />

Stiglitz cerca di dimostrare come la globalizzazione possa fare molto <strong>per</strong> migliorare<br />

le condizioni di vita sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Nei<br />

101


suoi contributi l’economista statunitense evidenzia come la politica sia stata usata <strong>per</strong><br />

forgiare i processi politici ed il sistema economico affinché avvantaggiassero pochi<br />

soggetti a scapito di tutti gli altri: affinché la globalizzazione produca vantaggi <strong>per</strong><br />

tutti è necessario un ripensamento degli accordi commerciali, <strong>del</strong>le politiche<br />

economiche imposte ai paesi in via di sviluppo, degli aiuti internazionali, <strong>del</strong> sistema<br />

finanziario globale. Queste riforme ed altre potrebbero <strong>per</strong>mettere alla<br />

globalizzazione di sviluppare tutte le sue potenzialità nel rispetto <strong>del</strong>la giustizia<br />

sociale.<br />

Stiglitz, come si vedrà più approfonditamente tra poco, illustra come l’adozione di<br />

processi a<strong>per</strong>ti e democratici possa contribuire a limitare i poteri di determinati<br />

gruppi che favoriscono interessi particolari. Così come all’interno di un’azienda,<br />

l’etica aziendale e la corporate governance possono riconoscere i diritti non solo<br />

degli azionisti, ma di tutte le parti coinvolte, analogamente, <strong>una</strong> cittadinanza<br />

impegnata ed informata può capire come far funzionare la globalizzazione, o almeno<br />

come farla funzionare meglio, e pretendere che i leader politici agiscano di<br />

conseguenza.<br />

Per <strong>per</strong>seguire questo obiettivo, così come aveva messo in luce Sen, sono necessari<br />

indicatori <strong>del</strong> progresso economico e sociale che forniscano informazioni non solo<br />

sui benefici dei sistemi di mercato, ma anche sui loro effetti <strong>del</strong>eteri <strong>per</strong> l’ambiente,<br />

<strong>per</strong> la s<strong>per</strong>equazione sociale, <strong>per</strong> la salute. E’ soltanto disponendo di indicatori<br />

<strong>del</strong>l’effettivo livello di sviluppo umano e sociale che sarà possibile giungere ad <strong>una</strong><br />

reale comprensione degli effetti <strong>del</strong>le politiche allo sviluppo e ad un loro<br />

cambiamento.<br />

Stiglitz richiama cinque ordini di problemi che questa globalizzazione evidenzia:<br />

1- La globalizzazione tende a favorire i paesi industrializzati impoverendo ancor<br />

di più quelli poveri.<br />

2- La globalizzazione antepone i valori materiali agli altri<br />

3- La globalizzazione ha indebolito le democrazie nei paesi sottosviluppati<br />

privando questi paesi <strong>del</strong>la loro sovranità<br />

4- Molte <strong>per</strong>sone con la globalizzazione si sono impoverite<br />

102


5- Il sistema economico che è stato imposto ai paesi in via di sviluppo è<br />

inadeguato e pregiudizievole poiché la globalizzazione viene intesa come<br />

americanizzazione.<br />

Questi cinque punti riassumono le critiche a chi ha gestito e controllato la<br />

globalizzazione cioè il FMI e la Banca Mondiale. La globalizzazione è <strong>una</strong> grande<br />

opportunità <strong>per</strong> l'umanità, ma finora è stata governata in modo “geloso” (a proprio<br />

vantaggio) da chi deteneva le leve <strong>del</strong> potere e cioè il mondo industrializzato, le<br />

grandi corporations e gli Stati Uniti in particolare.<br />

Questa globalizzazione è quella che non funziona <strong>per</strong>ché produce tutti queste effetti<br />

<strong>del</strong>eteri sul reale sviluppo <strong>del</strong>l’uomo. In contrapposizione a questa globalizzazione e,<br />

implicitamente, a questo sviluppo, Stiglitz propone <strong>una</strong> “visione” alternativa <strong>per</strong> lo<br />

sviluppo che è <strong>una</strong> <strong>critica</strong> al “culto <strong>del</strong> Pil”: “Il Pil è <strong>una</strong> misura pratica <strong>del</strong>la crescita<br />

economica, ma non è l’aspetto più importante <strong>del</strong>lo sviluppo”. Il consiglio che viene<br />

dato è: “E’ importante, a mio avviso, che i paesi concentrino l’attenzione sull’equità,<br />

facendo in modo che i frutti <strong>del</strong>la crescita siano ampiamente condivisi. E’ un dovere<br />

morale battersi <strong>per</strong> l’equità ma questa è necessaria <strong>per</strong>ché la crescita sia sostenibile.”<br />

(Stiglitz, 2006, p.48)<br />

Ciò che è fondamentale <strong>per</strong> l’economista statunitense sono istruzione, tutela<br />

<strong>del</strong>l’ambiente e equità. L’eccessiva disuguaglianza non rende “sostenibile” nessun<br />

tipo di sviluppo. La via allo sviluppo passa necessariamente attraverso <strong>una</strong> riforma<br />

<strong>del</strong>le politiche degli istituti internazionali, che originariamente erano stati creati <strong>per</strong><br />

promuovere lo sviluppo e non <strong>per</strong> gestire la globalizzazione a favore di pochi. La<br />

ricetta degli anni 80 era molto semplice: eliminare i governi, privatizzare e<br />

liberalizzare ma questa ricetta dopo i scarsissimi risultati in Russia ed America<br />

Latina è entrata in crisi negli anni 90. Quello proposto (ed attuato quando era chief<br />

economist alla Banca Mondiale) è un approccio omnicomprensivo allo sviluppo:<br />

fornire più risorse e rafforzare i mercati. Per Stiglitz lo Stato ha un ruolo molto<br />

importante e lui propone che ogni paese adotti un mix fra Stato e mercato a seconda<br />

<strong>del</strong>le sue caratteristiche. Secondo molti economisti il ruolo <strong>del</strong>la funzione pubblica si<br />

concentra in settori quali l’istruzione di base, l’ordinamento giuridico, infrastrutture,<br />

armonizzatori sociali, regolamentazione <strong>del</strong>la concorrenza, <strong>del</strong> settore bancario e<br />

degli impatti ambientali.<br />

103


Elemento fondamentale nel mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>l’economista statunitense è il mettere le<br />

<strong>per</strong>sone al centro <strong>del</strong>lo sviluppo: “Lo sviluppo deve trasformare la vita <strong>del</strong>le <strong>per</strong>sone<br />

e non soltanto l’economia; <strong>per</strong> questo occorre analizzare le politiche occupazionali e<br />

scolastiche attraverso <strong>una</strong> doppia lente, valutando in che modo promuovono la<br />

crescita e come influiscono direttamente sulla vita <strong>del</strong>la gente.” (2006, p. 52).<br />

Le decisioni degli organismi internazionali non possono ignorare le comunità locali e<br />

la capacità autoctona di incentivare lo sviluppo <strong>del</strong>le proprie potenzialità.<br />

Il problema principale <strong>per</strong> affrontare queste tematiche è la governance. Il naturale<br />

squilibrio tra politica ed economia in un mondo globalizzato, dove la seconda cambia<br />

nettamente più velocemente <strong>del</strong>la prima, porta a questa forte discrasia dove la<br />

politica rimane assolutamente indietro. “abbiamo un sistema caotico e scoordinato di<br />

governance globale che si riduce a <strong>una</strong> serie di istituzioni e accordi che trattano di<br />

determinati problemi, dal riscaldamento <strong>del</strong> pianeta al commercio internazionale,<br />

passando <strong>per</strong> i flussi di capitale. I ministri <strong>del</strong>le Finanze discutono le questioni che<br />

attengono al loro ambito presso l’FMI, senza preoccuparsi di come le loro decisioni<br />

influiscano sull’ambiente o sulla salute mondiale. I ministri <strong>del</strong>l’Ambiente possono<br />

chiedere che si faccia qualcosa <strong>per</strong> limitare il riscaldamento globale, ma mancano le<br />

risorse <strong>per</strong> agire in concreto”. “La governance è il nucleo centrale <strong>del</strong> fallimento<br />

<strong>del</strong>la globalizzazione”. “Nel lungo <strong>per</strong>iodo, i cambiamenti più necessari <strong>per</strong>ché la<br />

globalizzazione si metta veramente a funzionare riguardano le riforme finalizzate a<br />

ridurre il deficit di democrazia”.(2006, p.21, 103, 323)<br />

Per auspicare ad <strong>una</strong> globalizzazione che funziona veramente quella attuale deve<br />

essere profondamente riformata e Stiglitz anticipa quali siano le riforme più urgenti:<br />

la diffusione <strong>del</strong>la povertà, gli aiuti internazionali e la cancellazione <strong>del</strong> debito,<br />

l'aspirazione a un commercio equo, i limiti <strong>del</strong>la liberalizzazione economica, la tutela<br />

<strong>del</strong>l'ambiente, un sistema di governo globale.<br />

Stiglitz si concentra soprattutto sugli effetti nefasti di alcune politiche<br />

protezionistiche o corporative che creano gravi distorsioni nel commercio<br />

internazionale. Non ci si può esprimere a favore o contro la liberalizzazione dei<br />

mercati a prescindere, senza considerare il contesto in cui questi mercati o<strong>per</strong>ano. “In<br />

parte, il libero commercio non ha funzionato <strong>per</strong>ché non l’abbiamo provato: i trattati<br />

commerciali <strong>del</strong> passato non sono stati infatti né liberi né equi.” (2006, p.66)<br />

104


“Se gestita equamente, con il sostegno di politiche e provvedimenti giusti, la<br />

liberalizzazione <strong>del</strong> commercio può aiutare lo sviluppo. [..]. La questione è: i<br />

vantaggi che hanno ottenuto [i paesi in via di sviluppo] sono sostenibili e possono<br />

estendersi a tutte le popolazioni <strong>del</strong> mondo? Io credo di si, ma <strong>per</strong>ché ciò avvenga, la<br />

liberalizzazione <strong>del</strong> commercio dovrà essere gestita in modo radicalmente diverso<br />

rispetto al passato.” (2006, p.67)<br />

Stiglitz si augura un regime commerciale più equo e non genericamente più libero<br />

<strong>per</strong> favorire veramente lo sviluppo ed esso passa necessariamente attraverso la<br />

cancellazione <strong>del</strong>le barriere all’entrata dei paesi sviluppati che bloccano sul nascere<br />

l’ampliamento dei mercati <strong>del</strong>la materie prime o dei prodotti agricoli dei paesi<br />

sottosviluppati. Tutto questo può avvenire solo attraverso <strong>una</strong> forte riforma <strong>del</strong>la<br />

governance <strong>del</strong> “governo mondiale” dove pochissimi (ricchi) decidono <strong>per</strong> tutti<br />

creando un commercio globalizzato che di equo ha veramente poco.<br />

Un altro tema caro a Stiglitz è quello <strong>del</strong> problema ambientale che in un mondo<br />

globalizzato non può essere affrontato in modo autonomo dai singoli stati. Il concetto<br />

di sostenibilità che l’economista statunitense amplia anche alle problematiche sociali<br />

è urgente <strong>per</strong> l’emergenza ecologica che oggi affligge il mondo. A queste tematiche<br />

che recentemente hanno acquisito sempre più importanza sarò dedicato il prossimo<br />

capitolo.<br />

Le altre tematiche affrontate da Stiglitz, che non possono essere approfondite, sono<br />

relative alla cancellazione <strong>del</strong> debito e gli aiuti internazionali. Alle distorsioni di<br />

un’economia esclusivamente finanziaria l’autore imputa la crescente instabilità<br />

economica che aumenta ancora di più i rischi dei paesi poveri.<br />

Elemento centrale nel lavoro <strong>del</strong>l’economista statunitense è la governance: riformare<br />

la globalizzazione è <strong>una</strong> questione politica. Alla politica spetta il compito di attuare<br />

quelle riforme e quegli interventi necessari affinché la globalizzazione aiuti e non<br />

contrasti lo sviluppo. L’obiettivo di Stiglitz è <strong>una</strong> globalizzazione democratica. Per<br />

raggiungerla è necessario qualificare i lavoratori e puntare sull’istruzione in modo<br />

tale da “resistere alla competizione globale”, ma inoltre è necessario risolvere il<br />

problema <strong>del</strong> deficit <strong>del</strong>la democrazia all’interno degli organi internazionali, che<br />

restano in mano a potentati politico-economici.<br />

105


Stiglitz, in conclusione, individua vari elementi di un “contratto sociale globale” tra i<br />

paesi ricchi e i paesi poveri:<br />

- L’impegno da parte dei paesi sviluppati a lavorare nella direzione di un<br />

regime commerciale più equo che davvero promuova lo sviluppo<br />

- Un nuovo modo di intendere la proprietà intellettuale e la promozione <strong>del</strong>la<br />

ricerca che riconosca l’assoluta necessità dei paesi in via di sviluppo di<br />

accedere alle conoscenze, di potersi procurare i farmaci salvavita a prezzi<br />

abbordabili e di vedersi riconosciuto il diritto a tutelare le conoscenze<br />

tradizionali<br />

- L’impegno, da parte dei paesi sviluppati, a retribuire i paesi in via di sviluppo<br />

<strong>per</strong> i loro servizi ambientali sia <strong>per</strong> la biodiversità sia <strong>per</strong> il loro contributo a<br />

risolvere il riscaldamento globale<br />

- Il riconoscimento esplicito che tutti noi condividiamo lo stesso pianeta e che<br />

il riscaldamento globale rappresenta <strong>una</strong> minaccia concreta<br />

- La conferma <strong>del</strong>l’impegno già assunto dai paesi sviluppati di fornire ai paesi<br />

poveri aiuti finanziari in ragione <strong>del</strong>lo 0,7% <strong>del</strong> Pil<br />

- L’ampliamento a un maggior numero di paesi <strong>del</strong>l’accordo raggiunto nel<br />

giugno 2005 <strong>per</strong> il condono <strong>del</strong> debito.<br />

- Riforme <strong>del</strong>l’architettura finanziaria globale finalizzate a limitare l’instabilità<br />

attraverso soprattutto ad <strong>una</strong> riforma <strong>del</strong> sistema di riserva globale<br />

- Una serie di riforme giuridiche ed istituzionali volte a limitare il potere di<br />

mercato <strong>del</strong>le varie imprese multinazionali a livello internazionale<br />

- I paesi sviluppati dovrebbero impegnarsi concretamente a rinunciare a tutte<br />

quelle procedure che minacciano la democrazia, ado<strong>per</strong>andosi invece <strong>per</strong><br />

promuoverla. In particolare, dovrebbero ado<strong>per</strong>arsi sul fronte <strong>del</strong> commercio<br />

di armi, <strong>del</strong> segreto bancario e <strong>del</strong>la corruzione.<br />

Fondamentale <strong>per</strong> dare vita ad uno sviluppo reale è, <strong>per</strong> Stiglitz, ridurre il gap di<br />

democraticità dovuto al ritardo <strong>del</strong>la politica sull’economia. Non c’è vero sviluppo<br />

senza democrazia.<br />

106


CAPITOLO QUINTO:<br />

La fine <strong>del</strong>la crescita<br />

“Chi crede che <strong>una</strong> crescita<br />

esponenziale possa continuare<br />

all’infinito in <strong>una</strong> società finita è<br />

un folle, oppure un economista”<br />

Serge Latouche<br />

Questo capitolo, dal titolo provocatorio, pone al centro <strong>del</strong> problema <strong>del</strong>lo sviluppo il<br />

rapporto tra crescita economica e l’ecosistema in cui viviamo. Attraverso il<br />

contributo di vari autori si cercherà di affrontare i rapporti tra lo sviluppo economico<br />

e la sostenibilità ambientale.<br />

La letteratura sui “limiti ecologici <strong>del</strong>lo sviluppo” è molto amplia e complessa e,<br />

proprio <strong>per</strong> questi motivi, in questo capitolo, si cercherà di riassumere le varie teorie<br />

prendendo vari autori come esempi. Affondando la tematica <strong>del</strong>lo sviluppo ci si è<br />

resi conto che l’importanza <strong>del</strong>le tematiche ambientali hanno investito la teoria<br />

economica rivoluzionandone le basi. In questo capitolo si affronterà proprio questo<br />

impatto rivoluzionario <strong>del</strong>le teoria che coniuga ecologoia ed economia.<br />

Il primo autore “rivoluzionario” che si incontrerà può essere tranquillamente<br />

considerato il padre <strong>del</strong>la bioeconomia: Nicholas Georgescu- Roegen. Il merito più<br />

grande di questo autore è, come si vedrà nel primo paragrafo, di aver immerso la<br />

scienza economica nel mondo fisico, considerando la portata ecologica<br />

<strong>del</strong>l’ambiente.<br />

Attraverso la sua o<strong>per</strong>a si introdurrà il concetto di sviluppo sostenibile attraverso<br />

l’o<strong>per</strong>a di Herman Daly che ha contribuito in modo determinate al concetto di<br />

sviluppo sostenibile, introducendo interessanti ragionamenti sullo “stato stazionario”.<br />

Dopo questi contributi di due economisti molto importanti <strong>per</strong> tutta l’economia<br />

inserita nell’ecologia ci si soffermerà sul contributo recente di Jeremy Rifkin che<br />

analizza il problema <strong>del</strong>lo sviluppo ponendo particolare attenzione al “problema<br />

energetico”. Gli ultimi paragrafi saranno dedicati alle critiche più radicali<br />

107


<strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo, cioè all’o<strong>per</strong>a di Serge Latouche e Gilbert Rist. Il<br />

primo basandosi sugli scritti di Georgescu - Roegen e sulla sua impostazione<br />

“antropologica” fornisce <strong>una</strong> teoria che nega lo sviluppo stesso proponendo mo<strong>del</strong>li<br />

basati sulla decrescita. Il secondo pone la sua <strong>critica</strong> sulla pretesa universalità <strong>del</strong><br />

concetto stesso di sviluppo.<br />

Con Latouche e Rist si giunge alla conclusione di questo “viaggio” attraverso i vari<br />

mo<strong>del</strong>li e paradigmi <strong>del</strong>lo sviluppo, dalla crescita allo sviluppo sostenibile.<br />

108


La bioeconomia di Goergescu – Roegen<br />

L’economista rumeno Nicholas Georgescu – Roegen è il padre fondatore di <strong>una</strong><br />

teoria che sconvolge nelle fondamenta la teoria economica.<br />

Secondo l’interpretazione dei cultori <strong>del</strong>la decrescita (vedi Latouche) l’o<strong>per</strong>a di<br />

Georgescu – Roegen è basilare <strong>per</strong> comprendere le basi <strong>del</strong>la “nuova” società <strong>del</strong>la<br />

decrescita. L’economista rumeno è stato il primo a presentare la decrescita come <strong>una</strong><br />

conseguenza invitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura. Se vogliamo<br />

comprendere <strong>per</strong> quali ragioni il modo tradizionale di fare economia, teorizzato dagli<br />

economisti neoclassici, non è sostenibile, dobbiamo partire dalla teoria<br />

bioeconomica. In polemica con l’economia ecologica di Daly (vedi paragrafo<br />

successivo), che può essere considerata come un compromesso tra la bioeconomia e<br />

l’economia tout court, Georgescu – Roegen nega categoricamente che possa esistere<br />

uno sviluppo sostenibile o durevole, ricercando un’economia giusta e compatibile<br />

con le leggi fondamentali <strong>del</strong>la natura. (Bonaiuti, 2003).<br />

La <strong>critica</strong> <strong>del</strong>l’economista rumeno ruota attorno a due punti fondamentali, che<br />

richiamerò brevemente.<br />

1) Teoria <strong>del</strong>la produzione e prima legge <strong>del</strong>la termodinamica<br />

La teoria tradizionale <strong>del</strong>la crescita economica è basata su <strong>una</strong> funzione aggregata di<br />

produzione neoclassica <strong>del</strong> tipo: Q = A f (K, L, R).<br />

Ciò significa essenzialmente che la produzione (Q) cresce al crescere <strong>del</strong>la quantità<br />

di lavoro (L), <strong>del</strong>lo stock di capitale (K) e <strong>del</strong> progresso tecnologico (A). Soprattutto<br />

essa assume che sia possibile produrre un qualsiasi quantità di prodotto, (Q0)<br />

riducendo a piacimento le risorse naturali (R), purché venga aumentato<br />

sufficientemente lo stock di capitale. In altre parole, la teoria neoclassica assume<br />

completa sostituibilità fra risorse naturali e capitale fabbricato dall'uomo. Ciò<br />

significa che, come ha affermato il premio Nobel <strong>per</strong> l’economia Robert Solow “non<br />

c'è in linea di principio alcun problema, il mondo può, in effetti, andare avanti senza<br />

risorse naturali”. (Solow, 1977, p.11) 1 E' possibile dimostrare, tuttavia, che tale<br />

assunzione viola le leggi <strong>del</strong>la termodinamica. Se, come affermano i neoclassici, la<br />

1 In Bonaiuti (2003 p.35)<br />

109


funzione di produzione altro non è che <strong>una</strong> ricetta, Solow implicitamente afferma che<br />

sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi <strong>una</strong> pizza più grande<br />

semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due<br />

cuochi al posto di uno. Com'è evidente, questa formulazione semplicemente non<br />

rispetta il bilancio dei materiali: un modo diverso di leggere la prima legge <strong>del</strong>la<br />

termodinamica.<br />

Questo errore si spiega con la pretesa, tipicamente neoclassica, di estendere a tutti i<br />

fattori <strong>del</strong>la produzione quella sostituibilità che esiste solo tra capitale e lavoro.La<br />

prima legge <strong>del</strong>la termodinamica sancisce, in conclusione, che il flusso di materia<br />

che “entra” nel processo economico coincide necessariamente con il flusso di scarti<br />

che ritroviamo in uscita (beni prodotti + rifiuti).<br />

In generale, dunque, la produzione di quantità crescenti di beni e servizi implicano<br />

l’utilizzo di quantità maggiori di materie prime ed energia e, <strong>per</strong>tanto, un più incisivo<br />

impatto sugli ecosistemi.<br />

2) Degradazione entropica e limiti alla crescita<br />

Anche il secondo principio <strong>del</strong>la termodinamica, o legge di entropia, ha rilevanti<br />

conseguenze <strong>per</strong> il processo economico. Secondo Georgescu-Roegen, infatti, ogni<br />

attività produttiva comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di<br />

materia ed energia.<br />

Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con<br />

l'ambiente), ne discendono due importanti conclusioni <strong>per</strong> l'economia: l'obiettivo<br />

fondamentale <strong>del</strong> processo economico, la crescita illimitata <strong>del</strong>la produzione (e dei<br />

redditi), essendo basato sull'impiego di risorse non rinnovabili, finirà inevitabilmente<br />

<strong>per</strong> esaurire le basi energetiche e materiali su cui si fonda. Esso, <strong>per</strong>tanto, va<br />

abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto. L'evidenza empirica accumulatasi<br />

negli ultimi trent'anni è <strong>del</strong> resto, a questo proposito, robusta e concorde. La<br />

decrescita, auspicata da Georgescu – Roegen, quantomeno nel lungo <strong>per</strong>iodo, assume<br />

dunque i tratti di <strong>una</strong> necessità ecologica.<br />

La seconda conclusione è di natura metodologica: la rappresentazione pendolare <strong>del</strong><br />

processo economico, presentata in a<strong>per</strong>tura di ogni manuale di economia, secondo la<br />

quale la domanda stimola la produzione e quest'ultima fornisce il reddito necessario<br />

ad alimentare nuova domanda, in un processo reversibile e apparentemente in grado<br />

110


di riprodursi all'infinito, andrà sostituita da <strong>una</strong> rappresentazione circolare ed<br />

evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell'ambiente biofisico che lo<br />

sostiene. Questa revisione epistemologica, oltre a ricordarci l'inevitabile carattere<br />

fisico, materiale di ogni processo economico, riportando la scienza economica dalle<br />

rarefatte atmosfere <strong>del</strong>la matematica all'universo concreto <strong>del</strong> vivere quotidiano,<br />

fornisce un imprescindibile carattere transdisciplinare alla “nuova economia”.<br />

L'idea fondamentale di molti economisti è che il progresso tecnologico consentirà,<br />

come già avvenuto in passato, di "oltrepassare i limiti,” giungendo a produrre<br />

quantità crescenti di beni con un uso sempre minore di materia ed energia. Questo<br />

fenomeno è noto in letteratura come dematerializzazione <strong>del</strong> capitale. Naturalmente<br />

l’innovazione tecnologica sarà favorita da un ritmo accelerato di crescita economica.<br />

Ecco dunque che crescita e progresso tecnologico vengono a formare un binomio<br />

inscindibile e, paradossalmente, la sola possibile soluzione <strong>del</strong>la crisi ecologica.<br />

Resta dunque la domanda fondamentale: è vero che il progresso tecnologico<br />

comporta <strong>una</strong> riduzione <strong>del</strong>l’impatto sugli ecosistemi e in particolare sui consumi di<br />

materia ed energia?<br />

“E' certamente corretto affermare che le tecnologie informatiche e, più in generale, le<br />

cosiddette nuove tecnologie, siano capaci di produrre reddito con un minore impiego<br />

di risorse naturali. Tuttavia, mentre i consumi di numerose risorse <strong>per</strong> unità di<br />

prodotto sono effettivamente diminuite nei paesi più avanzati, i consumi assoluti di<br />

risorse continuano ad aumentare.”(Bonaiuti, 2003, p.38-39)<br />

Si conclude che il progresso tecnologico non riduce il consumo di energia e quindi<br />

non risolve i problemi “ecologici” sollevati precedentemente.<br />

La bioeconomia si fonda su un mo<strong>del</strong>lo di stock e flussi: gli stock sono<br />

essenzialmente di tre tipi: capitale naturale (ecosistemi), capitale economico<br />

(impianti), forza lavoro (intesa come lavoro organizzato). A differenza dei flussi, che<br />

vengono trasformati nell’ambito <strong>del</strong> processo di produzione, gli stock, in quanto<br />

sistemi autopoietici, sono ancora presenti e quindi riconoscibili al termine <strong>del</strong><br />

processo. La teoria tradizionale <strong>del</strong>la produzione assume che le quantità prodotte<br />

dipendano unicamente dai flussi in input e dalla tecnologia impiegata. In questo<br />

modo si trascura il ruolo fondamentale giocato dagli stock, ossia dai sistemi, sia di<br />

natura biologica (la biosfera ed i suoi sottosistemi) che di natura economica e sociale<br />

111


(impianti, strutture formali e informali di organizzazione <strong>del</strong> lavoro) nell’ambito <strong>del</strong><br />

processo di produzione.<br />

Il punto fondamentale è che questi sistemi richiedono continui apporti di<br />

materia/energia (e lavoro) <strong>per</strong> mantenersi “in condizioni di efficienza”. Le<br />

organizzazioni produttive hanno degli input e degli output. Queste strutture, come<br />

noto, si mantengono lontano dall’equilibrio termodinamico grazie a continui apporti<br />

di energia provenienti dall’esterno <strong>del</strong> sistema (input) e producono scarti (output).<br />

Tali strutture (stock) necessarie alle economie avanzate <strong>per</strong> produrre innovazione<br />

tecnologica (imprese multinazionali, centri di ricerca, burocrazie, sistemi di<br />

trasporto, ecc.) richiedono enormi flussi di materia/energia (e lavoro), non solo, e<br />

non tanto, <strong>per</strong> produrre benessere, quanto, innanzitutto, <strong>per</strong> mantenere se stesse<br />

La mancata considerazione di questi rapporti esterni <strong>del</strong> sistema economico non ci fa<br />

comprendere fino in fondo quando abbiamo <strong>una</strong> creazione di benessere o <strong>una</strong> vera e<br />

propria <strong>per</strong>dita.<br />

Come si vedrà meglio nel paragrafo di Latouche, la decrescita prospettata da<br />

Georgescu – Roegen è qualcosa di molto più complesso. Per quanto la decrescita<br />

alluda, sul piano economico, a <strong>una</strong> riduzione complessiva <strong>del</strong>le quantità fisiche<br />

prodotte e <strong>del</strong>le risorse impiegate, essa va intesa piuttosto come <strong>una</strong> complessiva<br />

trasformazione <strong>del</strong>la struttura socio-economica, politica, e <strong>del</strong>l’immaginario<br />

collettivo verso assetti sostenibili. Questo nella prospettiva di un significativo<br />

aumento, e non certo di <strong>una</strong> riduzione, <strong>del</strong> benessere sociale.<br />

Tale trasformazione presenta dunque un carattere multidimensionale. La decrescita si<br />

deve realizzare secondo quattro prospettive: ecologica, sociale, politica e<br />

“immaginativa”.<br />

Per questi argomenti rimando alla discussione <strong>del</strong> contributo di Latouche al<br />

penultimo paragrafo.<br />

112


L’economia ecologica di Herman Daly<br />

L’economista statunitense Herman Daly ha contribuito in modo determinante alla<br />

cosiddetta economia ecologica ponendone le basi teoriche in concetti quali lo “stato<br />

stazionario” e la sostenibilità.<br />

Il concetto di “sviluppo sostenibile” è un termine che da quando è stato introdotto dal<br />

rapporto <strong>del</strong>la Commissione Brundtland nel 1987 viene usato come un mantra. In<br />

quell’occasione lo sviluppo sostenibile identificava lo sviluppo che soddisfa le<br />

necessità <strong>del</strong> presente senza sacrificare la possibilità di soddisfare le necessità <strong>del</strong><br />

futuro. Come è evidente questo concetto è abbastanza vago e crea contrapposizioni<br />

dialettiche su quanto debba essere “sostenibile” questo sviluppo.<br />

Daly distingue chiaramente crescita economica e sviluppo economico: “La potenza<br />

<strong>del</strong> concetto di sviluppo sostenibile sta nel fatto che esso riflette e al contempo<br />

richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le<br />

attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale – un ecosistema che è<br />

finito, non crescente, e materialmente chiuso. La condizione <strong>per</strong> lo sviluppo<br />

sostenibile è che le richieste di tali attività nei confronti <strong>del</strong>l’ecosistema che le<br />

contiene, in termini di rigenerazione degli “input” di materie prime e di assorbimento<br />

di “output” di rifiuti, vengano mantenute a livelli ecologicamente sostenibili. Questo<br />

cambiamento di visione comporta la sostituzione <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo economico<br />

<strong>del</strong>l’espansione quantitativa (crescita) con quello <strong>del</strong> miglioramento qualitativo<br />

(sviluppo) quale sentiero <strong>del</strong> progresso futuro” (Daly, 2001, p. 3).<br />

L’economia <strong>del</strong>lo sviluppo, <strong>per</strong> l’economista americano, deve essere progettata senza<br />

la crescita in modo molto più completo e complesso.<br />

Il concetto – chiave <strong>del</strong>l’argomentazioni di Daly è quello di “stato stazionario” a cui<br />

ha dedicato anni di lavoro. A differenza <strong>del</strong>l’economia neoclassica il concetto di<br />

stazionarietà era già presente nel lavoro di alcuni classici come Mill. “A differenza di<br />

quella degli economisti classici, la teoria economica standard (neoclassica) attuale<br />

parte da parametri non fisici (tecnologia, preferenze, distribuzione <strong>del</strong> reddito sono<br />

presi come dati) e indaga il modo in cu variabili fisiche, e cioè la quantità di beni<br />

prodotte e di risorse utilizzate, devono modificarsi <strong>per</strong> soddisfare un equilibrio (o un<br />

113


tasso di crescita di equilibrio) determinato da parametri non fisici. Le condizioni<br />

qualitative, non fisiche, sono date e le grandezze quantitative, fisiche, vi si devono<br />

adattare. Nella teoria neoclassica tale “aggiustamento” comporta quasi sempre<br />

crescita economica. Il nuovo <strong>paradigma</strong> oggi emergente (stato stazionario, sviluppo<br />

sostenibile), tuttavia, parte da parametri fisici (un mondo finito, complesse<br />

interrelazioni ecologiche, le leggi <strong>del</strong>le termodinamica) e indaga il modo in cui le<br />

variabili non fisiche – tecnologia, preferenze, distribuzione e stili di vita – possono<br />

essere condotte a un equilibrio praticabile e giusto con il complesso sistema biofisico<br />

di cui siamo parte. […]. Questo <strong>paradigma</strong> emergente assomiglia molto di più<br />

all’economia classica che non a quella neoclassica, <strong>per</strong> il fatto che l’aggiustamento<br />

avviene attraverso lo sviluppo qualitativo e non la crescita quantitativa.”(2001, p.7).<br />

Avendo appreso l’insegnamento di Goergescu – Roegen e avendone “eliminato” le<br />

posizioni più radicali (vedi paragrafo precedente) Daly è assolutamente convinto che<br />

l’economia sia un sottosistema <strong>del</strong>l’ambiente e che esso dipenda dall’ambiente sia<br />

come fonte di input di materie prime sia come bacino ricettivo <strong>per</strong> gli output di<br />

rifiuti: “A meno che non sia supportata dalla visione preanalitica <strong>del</strong>l’economia come<br />

sottosistema, l’intera idea di sviluppo sostenibile – di un sottosistema sostenuto da un<br />

sistema più ampio di cui deve rispettare limiti e capacità – non ha alcun senso.”<br />

(2001, p.11).<br />

A luce di tutto ciò la “crescita sostenibile” non ha nessun senso, risultando un grande<br />

e contraddittorio ossimoro.<br />

Lo sviluppo sostenibile implica uno spostamento da un’economia <strong>del</strong>la crescita ad<br />

un’economia di stato stazionario. Come si è già visto lo “stato stazionario”, cioè<br />

l’assenza di crescita economica, era già stato al centro <strong>del</strong> lavoro di un grande<br />

economista come Stuat Mill.<br />

Secondo il filosofo ed economista inglese, il prezzo pagato dalla società e dagli<br />

individui <strong>per</strong> continuo aumento <strong>del</strong>la ricchezza materiale è molto alto in termini di<br />

qualità <strong>del</strong>la vita, <strong>del</strong>la possibilità di coltivare la crescita intellettuale e morale e di<br />

evitare la distruzione <strong>del</strong>la natura. Come si esprime l’autore nel 1848: “Confesso che<br />

non mi piace l’ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli<br />

uomini sia quella di <strong>una</strong> lotta <strong>per</strong> andare avanti; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con<br />

gli altri, che rappresenta il mo<strong>del</strong>lo esistente <strong>del</strong>la vita sociale, sia la sorte<br />

114


maggiormente desiderabile <strong>per</strong> il genere umano, e non piuttosto uno dei piùtristi<br />

sintomi di <strong>una</strong> fase <strong>del</strong> processo produttivo”. Inoltre aggiunge nel 1857: “Non posso..<br />

considerare lo stato stazionario <strong>del</strong> capitale e <strong>del</strong>la ricchezza con la palese avversione<br />

così generalmente manifestata verso di esso dagli economisti <strong>del</strong>la vecchia scuola.<br />

Sono propenso a credere, in complesso, che esso rappresenterebbe un notevolissimo<br />

miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali”(Daly, 1981, p.22).<br />

Per capire cosa intenda Daly <strong>per</strong> sostenibilità e stato stazionario è bene partire dal<br />

suo “esempio <strong>del</strong> battello”: “l’internalizzazione <strong>del</strong>le esternalità è <strong>una</strong> buona<br />

strategia <strong>per</strong> adattare ottimamente l’allocazione di risorse, facendo sì che i prezzi<br />

relativi rappresentino, in modo più appropriato, i costi marginali sociali relativi. Ma<br />

ciò non rende il mercato capace di fissare i propri confini fisici assoluti con<br />

l’ecosistema più allargato. Per fare un’analogia: uno stivaggio appropriato<br />

distribuisce il peso nel battello in modo ottimale, così da massimizzare il carico<br />

trasportato. Ma c’è ancora un limite assoluto a quanto peso un battello possa<br />

trasportare, anche se questo è sistemato in modo ottimale. Il sistema dei prezzi può<br />

distribuire il peso regolarmente, ma, a meno che non sia integrato da un limite<br />

assoluto esterno, continuerà a distribuire uniformemente il peso addizionale fino a<br />

che il battello, caricato in modo opportuno, affonda”.(Daly, 1994)<br />

In altre parole, la capacità <strong>del</strong>la Terra è limitata: l’economia non può non accettare i<br />

vincoli biofisici assoluti che il sistema termodinamico chiuso su cui viviamo<br />

comporta. Per definire lo stato stazionario, Daly parte dal primo principio <strong>del</strong>la<br />

termodinamica e cioè dal fatto che l’energia e la materia non possono essere né<br />

create né distrutte, ma solo trasformate: “l’uomo trasforma le materie prime in merci<br />

e le merci in rifiuti.” Prende poi in considerazione il secondo principio <strong>del</strong>la<br />

termodinamica e l’entropia <strong>per</strong> definire i vincoli e i flussi di un “sistema a<strong>per</strong>to” in<br />

stato stazionario o in equilibrio biofisico con l’ambiente esterno. Daly individua nel<br />

secondo principio e nell’entropia la coordinata fisica fondamentale <strong>del</strong>la scarsità: “se<br />

non fosse <strong>per</strong> la legge <strong>del</strong>l’entropia, non ci sarebbe alc<strong>una</strong> <strong>per</strong>dita; potremmo<br />

bruciare lo stesso litro di benzina in eterno, e il nostro sistema economico non<br />

avrebbe alcun rapporto con il resto <strong>del</strong> mondo <strong>del</strong>la natura”.<br />

Si arriva così alla definizione di economia in stato stazionario: “un’economia con<br />

“stock” costanti di <strong>per</strong>sone e prodotti, mantenuti a livelli desiderati, sufficienti, con<br />

115


assi tassi di “throughput” 3 di manutenzione, cioè, con i flussi più bassi possibile di<br />

materia e di energia dal primo stadio di produzione (sfruttamento di materiali a bassa<br />

entropia ottenuti dall’ambiente) all’ultimo stadio di consumo (inquinamento<br />

<strong>del</strong>l’ambiente con scorie e nuovi materiali ad alta entropia)”e aggiunge:“se usiamo il<br />

termine crescita <strong>per</strong> indicare un cambiamento quantitativo e il termine sviluppo <strong>per</strong><br />

riferirsi a <strong>una</strong> modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in stato<br />

stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra, di cui l’economia<br />

umana è un sottosistema. Una ricchezza sufficiente, mantenuta e allocata<br />

efficientemente, distribuita in modo equo - e non <strong>per</strong> massimizzare la produzione -<br />

costituisce il giusto fine economico” (Daly, 1981, p.26).<br />

L’economista americano sottolinea come l’economia <strong>del</strong>lo stato stazionario assuma il<br />

concetto di “livello sufficiente degli stock”, un’ipotesi assente e contraddittoria nei<br />

mo<strong>del</strong>li <strong>del</strong> <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>la crescita.<br />

I valori etici e i vincoli biofisici trovano così la loro convergenza nell’economia in<br />

stato stazionario o in equilibrio biofisico, il cui sviluppo teorico ha portato - dieci<br />

anni dopo la sua formulazione - alla messa a punto <strong>del</strong> concetto di sviluppo<br />

sostenibile.<br />

Daly ritiene che il passaggio ad un’economia stazionaria sia desiderabile <strong>per</strong>ché uno<br />

dei meriti di questo cambiamento sarebbe quello di ricollocare la scienza economica<br />

in quel continuo tra mezzi e fini: “gli economisti non parlano mai <strong>del</strong> Fine Ultimo,<br />

neppure dei mezzi primari. L’attenzione degli economisti è completamente<br />

concentrata sul campo medio di tale spettro allocando mezzi intermedi dati (lavoro,<br />

prodotti) <strong>per</strong> il raggiungimento di determinati fini intermedi (cibo, benessere,<br />

istruzione, etc..). Questa focalizzazione limitata è stata la fonte <strong>del</strong>la maggior parte<br />

<strong>del</strong>la confusione sorta a proposito <strong>del</strong>la crescita economica.” (1981, p.28).<br />

La mancanza di considerazione dei fini da parte degli economisti è dovuto ad un<br />

volontario isolamento <strong>del</strong>l’economia dall’etica e dalla tecnica.<br />

3 Esso può essere definito come un flusso antropico di sfruttamento – inquinamento composta da<br />

materia ed energia che proviene dalle fonti <strong>del</strong>la natura, attraversa l’intera economia umana, ritorna<br />

agli scarichi <strong>del</strong>la natura ed è necessario alla manutenzione e al rinnovo degli stock.<br />

116


L’economista americano si concentra sulla insanabile distanza tra l’economia e i<br />

mezzi primari o il loro tasso di utilizzazione. La distanza tra un’economia<br />

“intermedia” è le basi stesse <strong>del</strong> mondo fisico (e le sue leggi).<br />

Secondo Daly “la natura <strong>del</strong> Fine Ultimo limita, infatti, la desiderabilità di <strong>una</strong><br />

continua crescita economica, mentre la natura dei mezzi primari ne limita la<br />

possibilità.” (p.31).<br />

L’autore si concentra, come si è visto, soprattutto sul primo problema dimostrando<br />

che la scarsità assoluta rende impossibile, a un certo momento, la crescita e<br />

l’ulteriore soddisfacimento di bisogni relativi, che si autoneutralizzano, rende la<br />

crescita inutile o indesiderabile.<br />

Interessante è il rapporto, evidenziato dall’economista americano, tra la povertà e la<br />

crescita: “Il <strong>per</strong>manere di bisogni assoluti insoddisfatti tra i poveri è un argomento<br />

più a favore <strong>del</strong>la ridistribuzione che di un’ulteriore crescita. Qualora quest’ultima<br />

fosse rivolta, fondamentalmente, al soddisfacimento dei bisogni relativi dovrebbe<br />

fronteggiare un grave dilemma. Se il prodotto che risulta dalla crescita complessiva è<br />

distribuito equamente allora il soddisfacimento dei bisogni relativi è cancellato<br />

<strong>per</strong>ché nessuno può migliorare la propria posizione relativamente a quella degli altri.<br />

Per evitare tale risultato, coloro che stanno relativamente meglio devono migliorare<br />

la propria posizione, cioè deve aumentare la disuguaglianza. Dopo un certo punto, la<br />

crescita rivolta al soddisfacimento dei bisogni relativi deve sfociare in <strong>una</strong> crescente<br />

inutilità, o in <strong>una</strong> crescente disuguaglianza oppure in <strong>una</strong> combinazione di entrambe<br />

le situazioni”(p.62).<br />

L’allontanamento, già incontrato nei capitoli precedenti, <strong>del</strong>l’economia dall’etica, e<br />

quindi dai principi morali e dai fini può essere ricucito da un’economia <strong>del</strong>lo stato<br />

stazionario che è basata su principi morali quali l’umiltà, l’olismo e il sa<strong>per</strong>si<br />

accontentare.<br />

Daly individua, più precisamente, tre limiti biofisici alla crescita: esauribilità,<br />

entropia ed interdipendenza ecologica. “L’economia, nella sua dimensione fisica, è<br />

un sottosistema a<strong>per</strong>to <strong>del</strong> nostro ecosistema finito e chiuso, che agisce sia come<br />

fonte <strong>del</strong>le sue materie a basso livello di entropia sia come bacino ricettivo dei suoi<br />

rifiuti ad alto livello di entropia.” (Daly, 2001, p.46). Alla luce di ciò, la crescita <strong>del</strong><br />

sistema economico è limitata dalla dimensione fissa <strong>del</strong>l’ecosistema che lo ospita<br />

117


(esauribilità), dal livello di scambio entropico (entropia) e dalle complesse<br />

connessioni ecologiche che diventano sempre più complesse al crescere <strong>del</strong><br />

sottosistema economico (interdipendenza ecologica).<br />

Per l’economista americano esistono, come si è visto, anche dei limiti etico-sociali<br />

che lui riassume secondo quattro proposizioni:<br />

1. La desiderabilità <strong>del</strong>la crescita finanziata attraverso la riduzione <strong>del</strong> capitale<br />

geologico è limitata dal costo imposto alle generazioni future<br />

2. La desiderabilità <strong>del</strong>la crescita finanziata attraverso il processo di<br />

appropriazione degli habitat è limitata all’estinzione o riduzione nel numero<br />

<strong>del</strong>le specie non umane sensibili il cui habitat sparisce<br />

3. La desiderabilità <strong>del</strong>la crescita aggregata è limitata dai suoi medesimi effetti<br />

distruttivi sul benessere<br />

4. La desiderabilità <strong>del</strong>la crescita aggregata è limitata dagli effetti corrosivi sugli<br />

standard morali che derivano da quegli stessi comportamenti che<br />

promuovono la crescita, come la glorificazione <strong>del</strong>l’interesse individuale e<br />

<strong>una</strong> visione <strong>del</strong> mondo scientistica – tecnocratica<br />

Daly individua tra strategie alternative <strong>per</strong> integrare l’economia e l’ecosistema:<br />

1. La prima è l’ “im<strong>per</strong>ialismo economico” in cui l’economia si espande fino ad<br />

includere il sistema globale: tutto è economia e tutto ha un prezzo.<br />

2. La seconda prevede di contrarre i confini <strong>del</strong>l’economia fino ad annullarli, in<br />

modo tale che tutto sia ecosistema: il riduzionismo ecologico.<br />

3. La terza strategia è alternativa ad entrambe e prevede che l’economia continui<br />

ad essere considerato un sottosistema <strong>del</strong>l’ecosistema evitando i <strong>per</strong>icoli<br />

<strong>del</strong>l’im<strong>per</strong>ialismo e <strong>del</strong> riduzionismo ecologico.<br />

Le nuove teorie <strong>del</strong>lo sviluppo sostenibile e <strong>del</strong>l’“economia ecologica” ci pongono<br />

ora davanti un nuovo <strong>paradigma</strong>: non più un’economia basata su due parametri, il<br />

lavoro e il capitale, ma un’economia ecologica che riconosce l’esistenza di tre<br />

parametri, il lavoro, il “capitale naturale” e il “capitale prodotto dall’uomo”.<br />

Si intende <strong>per</strong> capitale naturale l’insieme dei sistemi naturali (mari, fiumi, laghi,<br />

foreste, flora, fa<strong>una</strong>, territorio), ma anche i prodotti agricoli, i prodotti <strong>del</strong>la pesca,<br />

<strong>del</strong>la caccia e <strong>del</strong>la raccolta e il patrimonio artistico-culturale presente nel territorio,<br />

si vede come sia fondamentale oggi investire in questa direzione.<br />

118


Herman Daly abbandona così le certezze <strong>del</strong>l’economia classica e il determinismo<br />

<strong>del</strong>la“mano invisibile <strong>del</strong> mercato” affrontando il tema <strong>del</strong>la complessità ecologica in<br />

questi termini: “Vi sono due modi <strong>per</strong> conservare il capitale: mantenere costante in<br />

aggregato 1) la somma <strong>del</strong> capitale creato dagli essere umani e <strong>del</strong> capitale naturale,<br />

oppure 2) ciasc<strong>una</strong> <strong>del</strong>le componenti <strong>del</strong> capitale”.(Daly, 2001, p.104)<br />

La prima strada è ragionevole qualora si pensi che i due tipi di capitale siano<br />

sostituibili l’uno all’altro. In quest’ottica è completamente accettabile il saccheggio<br />

<strong>del</strong> capitale naturale fintantoché viene prodotto dall’uomo un capitale di valore<br />

equivalente. Il secondo punto di vista è ragionevole qualora si pensi che il capitale<br />

naturale e quello prodotto dall’uomo siano complementari. Ambedue le parti devono<br />

quindi essere mantenute intatte (separatamente o congiuntamente ma con proporzioni<br />

fissate) <strong>per</strong>ché la produttività <strong>del</strong>l’<strong>una</strong> dipende dalla disponibilità <strong>del</strong>l’altra. La prima<br />

strada è detta <strong>del</strong>la “sostenibilità debole”, la seconda è quella <strong>del</strong>la “sostenibilità<br />

forte”. Il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono fondamentalmente<br />

complementari e, solo marginalmente, si possono considerare intercambiabili. Quindi<br />

è la sostenibilità forte il concetto rilevante, anche se la sostenibilità debole è un utile<br />

primo passo avanti.<br />

La strada da <strong>per</strong>corre <strong>per</strong> raggiungere lo sviluppo sostenibile è investire sul capitale<br />

naturale, dato che è la risorsa più scarsa, detto anche fattore limitante.<br />

<strong>Sviluppo</strong> sostenibile significa quindi investire nel capitale naturale e nella ricerca<br />

scientifica sui cicli biogeochimici globali che sono la base stessa <strong>del</strong>la sostenibilità<br />

<strong>del</strong>la biosfera.<br />

Infatti secondo Daly se accettiamo il fatto che il capitale naturale e quello prodotto<br />

dall’uomo sono complementari e non possono sostituirsi l’uno all’altro, cosa ne<br />

consegue? Ne consegue che se i fattori sono complementari allora quello in minore<br />

quantità sarà un fattore limitante. Se i due fattori sono intercambiabili allora nessuno<br />

dei due può essere un fattore limitante <strong>per</strong>ché la produttività <strong>del</strong>l’uno non dipende<br />

dalla disponibilità <strong>del</strong>l’altro. L’idea che o il capitale naturale o quello prodotto<br />

possano essere dei fattori limitanti non può scaturire se si continua a pensare che i<br />

due si possano sostituire a vicenda. Una volta che ci siamo resi conto che sono<br />

complementari dobbiamo domandarci quale dei due sia il fattore limitante, cioè quale<br />

sia disponibile in minor misura. Il precedente ragionamento implica la tesi che: il<br />

119


Mondo sta passando da un’era in cui il fattore limitante era il capitale prodotto<br />

dall’uomo ad un’era in cui il fattore limitante è quel che rimane <strong>del</strong> capitale naturale.<br />

(Tiezzi, 1999).<br />

L’economista americano propone quattro suggerimenti o<strong>per</strong>ativi alla Banca<br />

Mondiale <strong>per</strong> promuovere lo sviluppo sostenibile:<br />

1. Smettere di contabilizzare il consumo di capitale naturale come produzione di<br />

reddito<br />

2. Ridurre le tasse sul lavoro e sul reddito, e aumentare quelle sul consumo di<br />

risorse naturali<br />

3. Massimizzare la produttività <strong>del</strong> capitale naturale nel breve <strong>per</strong>iodo, e<br />

investire <strong>per</strong> aumentarne l’offerta nel lungo <strong>per</strong>iodo<br />

4. Allontanarsi dall’ideologia <strong>del</strong>l’integrazione economica globale guidata dal<br />

libero scambio, <strong>del</strong>la libera mobilità dei capitali e <strong>del</strong>la crescita trainata<br />

dall’esportazioni, e muoversi invece verso un’ottica più nazionalista che tenti<br />

di sviluppare la produzione interna <strong>per</strong> il mercato interno come prima<br />

opzione, lasciando il ricorso al commercio internazionale solo <strong>per</strong> i casi in cu<br />

è davvero molto più efficiente.<br />

Soffermandosi sull’ultimo punto, Daly adotta <strong>una</strong> posizione fortemente <strong>critica</strong> nei<br />

confronti di questa globalizzazione basata sul libero scambio: “Il libero scambio, la<br />

specializzazione e l’integrazione globale fanno si che i paesi non siano più liberi di<br />

non commerciare. E tuttavia la libertà di non partecipare a scambi commerciali è<br />

assolutamente necessaria <strong>per</strong> assicurare che il commercio rimanga mutuamente<br />

vantaggioso. La produzione <strong>per</strong> il mercato nazionale dovrebbe essere il cane ed il<br />

commercio internazionale la sua coda. Ma i fautori <strong>del</strong> libero-scambio vorrebbero<br />

annodare insieme le code dei cani così strettamente da far si che il nodo <strong>del</strong>le code<br />

scodinzoli i cani. I fautori <strong>del</strong>la globalizzazione vedono tutto ciò come un balletto<br />

canino dall’armoniosa coreografia. E’ più probabile che abbia invece come risultato<br />

un feroce combattimento multilaterale di cani, e gravi conflitti di classe all’interno<br />

dei singoli paesi.” (p.220)<br />

120


L’economia all’idrogeno: Jeremy Rifkin<br />

L’economista americano si è occupato dei rapporti tra biotecnologie ed economia<br />

evidenziando soprattutto il problema energetico e l’entropia <strong>del</strong> sistema.<br />

Rifkin è convinto che le priorità siano il problema energetico, legato al petrolio, e il<br />

surriscaldamento globale, legato all’entropia. Questi due ostacoli a qualsiasi forma di<br />

sviluppo devono condurre la civiltà ad <strong>una</strong> grande rivoluzione energetica verso<br />

l’idrogeno. L’economista americano non si riferisce, come Daly, al generico sistema<br />

fisico a pone al centro <strong>del</strong> suo ragionamento un problema che ritiene principale cioè<br />

l’energia.<br />

In uno dei suoi più famosi scritti (Rifkin, 2004) l’economista americano si confronta<br />

con la realtà dei limiti fisici <strong>del</strong> mondo e con l’entropia ponendo l’uomo verso le due<br />

più grandi sfide contemporanee: il riscaldamento <strong>del</strong> globo e la scarsità <strong>del</strong>le risorse.<br />

A questi problemi Rikfin contrappone un mo<strong>del</strong>lo di economia e di sviluppo basata<br />

sull’idrogeno.<br />

Rifkin parte dalla constatazione che gli Usa hanno raggiunto il cosiddetto picco <strong>del</strong>la<br />

produzione petrolifera nazionale già nel 1970 dove <strong>per</strong> picco <strong>del</strong>la produzione<br />

s’intende l’aver estratto la metà <strong>del</strong>le riserve stimate disponibili. Anche la<br />

produzione mondiale di petrolio si avvia velocemente a raggiungerlo e da questo<br />

fatto discenderebbero due importanti problemi. Prima di tutto: “anche se gli es<strong>per</strong>ti<br />

non concordano sul momento in cui la produzione mondiale raggiungerà il picco,<br />

sono tuttavia <strong>una</strong>nimi nel ritenere che, quando ciò accadrà, la quasi totalità <strong>del</strong>le<br />

riserve petrolifere mondiali ancora sfruttabili sarà nelle mani di alcuni paesi<br />

musulmani, con un conseguente potenziale <strong>per</strong>icolo <strong>per</strong> l’attuale equilibrio di potere<br />

nel mondo” e poi “se la produzione mondiale di petrolio e di gas naturale<br />

raggiungesse il picco cogliendo il mondo impreparato, gli Stati e le aziende<br />

energetiche deciderebbero di sfruttare, come sostituti <strong>del</strong> petrolio, anche idrocarburi<br />

meno “puliti”, come carbone, olio combustibile e sabbie bituminose. Il ricorso a<br />

questi combustibili comporterebbe un incremento <strong>del</strong>le emissioni di CO2<br />

nell’atmosfera, e, di conseguenza, un surriscaldamento <strong>del</strong>la terra addirittura<br />

su<strong>per</strong>iore alla già preoccupante stima di un valore oscillante tra 1,5 e 5,8 °C da qui<br />

121


alla fine <strong>del</strong> ventiduesimo secolo, con ricadute sulla biosfera ancora più devastanti di<br />

quelle già previste.” (Rifkin, 2002, p.8)<br />

Egli vede come potenzialmente <strong>per</strong>icoloso e destabilizzante il fatto che le risorse<br />

energetiche residue siano localizzate soprattutto nei paesi <strong>del</strong> Golfo Persico; inoltre si<br />

preoccupa <strong>del</strong>l’impatto ambientale ancora più devastante che l’uso incontrollato dei<br />

combustibili fossili più tradizionali avrebbe sul pianeta se questi fossero impiegati<br />

accanto al petrolio. E’ la premessa dalla quale Rifkin parte <strong>per</strong> dare alla questione<br />

energetica <strong>una</strong> risposta alternativa all’uso <strong>del</strong> petrolio, basata sull’idrogeno. In questo<br />

si può individuare il lucido punto di vista di un economista che si pone il problema<br />

<strong>del</strong>la sostenibilità ambientale <strong>del</strong>l’attuale processo di accumulazione fondato su <strong>una</strong><br />

produzione complessivamente crescente di merci che richiede ovviamente un<br />

consumo di energia altrettanto crescente.<br />

Egli si rende conto, su<strong>per</strong>ando gli interessi specifici di questo o quel settore<br />

economico, il sistema economico sta giungendo a <strong>una</strong> fase <strong>critica</strong> data dal rapido<br />

esaurimento <strong>del</strong>le risorse petrolifere e che diviene necessario e urgente cercare, con<br />

indirizzi di politica economica e con adeguati investimenti, strade alternative di<br />

approvvigionamento energetico svincolate dagli attuali limiti quantitativi e geografici<br />

dei pozzi petroliferi. Rifkin propone <strong>una</strong> rivoluzione energetica <strong>per</strong>ché, come si<br />

vedrà, essa porta anche ad <strong>una</strong> rivoluzione “culturale” e politica.<br />

Continua poi mostrando che ogni precedente civiltà, ad esempio quella di Roma<br />

antica, quando non ha saputo risolvere la propria crisi energetica ha dovuto subire un<br />

inesorabile e tragico declino. L’economista americano fa discendere dalla crisi<br />

energetica la decadenza di un sistema economico e quindi di quella che lui chiama<br />

<strong>una</strong> civiltà. In ogni caso, <strong>per</strong> Rifkin il problema si sta riproponendo. Egli lo evidenzia<br />

facendo vedere come l’odierna globalizzazione è potuta avvenire <strong>per</strong> la possibilità di<br />

consumare a basso costo crescenti quantità di energia ricavata dal petrolio. Anzi tutta<br />

la storia <strong>del</strong> capitalismo <strong>del</strong>l’ultimo secolo, prima la lotta <strong>per</strong> il carbone, poi <strong>per</strong> il<br />

petrolio, è la storia <strong>del</strong>la lotta <strong>per</strong> il controllo <strong>del</strong>le fonti energetiche. Chi le ha<br />

governate si è assicurato <strong>del</strong>le ricchezze incommensurabili, chi invece non ha potuto<br />

disporne, i paesi arretrati ad esempio, ha dovuto subire un progressivo indebitamento<br />

e depau<strong>per</strong>amento. Detto questo egli pone <strong>una</strong> questione: “la nostra vulnerabilità è<br />

particolarmente elevata a causa di un’infrastruttura energetica molto centralizzata e<br />

122


gerarchizzata, e alla struttura economica che ne deriva, creata <strong>per</strong> gestire un regime<br />

energetico fondato sui combustibili fossili… Gli enormi costi associati alla<br />

lavorazione <strong>del</strong> carbone, <strong>del</strong> petrolio e <strong>del</strong> gas naturale richiedono ingenti<br />

investimenti di capitale e portano alla formazione di colossali imprese energetiche.<br />

Attualmente, otto mega-aziende — pubbliche e private — dettano i termini <strong>del</strong> flusso<br />

<strong>del</strong>l’energia attraverso il mondo.” (p.9)<br />

In questa situazione Rifkin scorge i punti critici <strong>del</strong> sistema:”oggi, <strong>per</strong>ò,<br />

l’infrastruttura creata <strong>per</strong> sfruttare i combustibili fossili e gestire l’attività industriale<br />

comincia a invecchiare e a mostrare segni di cedimento. Si aprono crepe ovunque…<br />

Alcuni geologi stanno già ipotizzando scenari di crollo <strong>del</strong> sistema. Non essere<br />

preparati a ciò che potrebbe accadere - affermano i più catastrofisti - sarebbe<br />

un’im<strong>per</strong>donabile follia.” (p.12)<br />

Ecco che si giunge al cuore <strong>del</strong> problema cioè il trapasso dall’era <strong>del</strong> petrolio a<br />

un’era nuova fondata sull’uso <strong>del</strong>l’idrogeno come fonte di energia. Si tratta, afferma<br />

l’autore, di <strong>una</strong> vera e propria nuova rivoluzione <strong>per</strong>ché l’idrogeno è praticamente<br />

inesauribile ed è <strong>una</strong> fonte energetica pulita in quanto, non contenendo un solo atomo<br />

di carbonio, non porta ad alc<strong>una</strong> emissione di anidride carbonica: “le fondamenta<br />

<strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>l’idrogeno sono già gettate. Nei prossimi anni la rivoluzione<br />

informatica e <strong>del</strong>le telecomunicazioni, associata a quella imminente <strong>del</strong>l’energia<br />

<strong>del</strong>l’idrogeno, costituirà un mix di tale potenza da riconfigurare radicalmente le<br />

relazioni umane nel corso <strong>del</strong> ventunesimo e ventiduesimo secolo.” (p.12)<br />

La soluzione al problema energetico è la cella a combustibile alimentata a idrogeno,<br />

la macchina non inquinante <strong>per</strong> la produzione di energia elettrica, sarebbe la panacea<br />

di tutti i mali. Dato che si tratta di un microimpianto installabile presso l’utente<br />

finale, essa rovescerebbe il mo<strong>del</strong>lo energetico gerarchico e centralizzato controllato<br />

da pochi grandi potentati economici <strong>per</strong> dare luogo ad <strong>una</strong> rete fittissima, <strong>una</strong> nuova<br />

rete distribuita in tutto il mondo simile a quella <strong>del</strong> World Wide Web, di produttori-<br />

consumatori-scambiatori di energia: “La rete energetica mondiale <strong>del</strong>l’idrogeno<br />

(HEW, Hydrogen Energy Web) sarà la prossima grande rivoluzione economica,<br />

tecnologica e sociale <strong>del</strong>la storia. Si innesterà nello sviluppo <strong>del</strong>la rete globale di<br />

comunicazione, avviata negli anni Novanta, e - come questo - stimolerà la nascita di<br />

<strong>una</strong> nuova cultura <strong>del</strong>la partecipazione.” (p.13)<br />

123


Quest’ultima sarà la… “base <strong>del</strong> primo regime energetico realmente democratico<br />

nella storia <strong>del</strong>l’umanità.” (p.13)<br />

Naturalmente Rifkin <strong>del</strong>inea questo processo tenendo conto di <strong>per</strong>icoli e possibilità<br />

di fallimento. Egli avverte che bisogna, <strong>per</strong>ché trionfi la democrazia, che: “le<br />

istituzioni pubbliche e quelle non profit - soprattutto le società energetiche pubbliche<br />

che forniscono energia a milioni di utenti e le migliaia di coo<strong>per</strong>ative senza scopo di<br />

lucro… - si facciano avanti fin dai primi stadi di sviluppo di questa rivoluzione<br />

energetica e contribuiscano a costituire in tutti i paesi le associazioni <strong>per</strong> la<br />

generazione distribuita” (p.14)<br />

In questo modo: “un regime energetico decentralizzato, fondato sull’idrogeno, offre<br />

la s<strong>per</strong>anza di connettere chi non lo è e di abilitare chi è privo di ogni potere. Se<br />

questo accadesse, potremo davvero pensare a <strong>una</strong> reale possibilità di<br />

“riglobalizzazione”, questa volta partendo dal basso e con la partecipazione di tutti.”<br />

(p.15)<br />

A questo punto, <strong>per</strong> completare il <strong>per</strong>corso storico umano con un su<strong>per</strong>amento <strong>del</strong>le<br />

attuali contraddizioni e con l’affermazione di <strong>una</strong> società felicemente liberata<br />

dall’oppressione, Rifkin conclude che: “la rete energetica <strong>del</strong>l’idrogeno, come la rete<br />

globale <strong>del</strong>le telecomunicazioni, <strong>per</strong>metterà di connettere ogni uomo a ogni suo<br />

simile in <strong>una</strong> matrice sociale ed economica indivisibile e interdipendente, cosicché la<br />

specie umana potrà trasformarsi in <strong>una</strong> comunità <strong>per</strong>fettamente integrata<br />

nell’ecosistema terrestre… La geopolitica disgregante, che tanto ha <strong>per</strong>meato l’era<br />

dei combustibili fossili, cederà il passo, nell’era <strong>del</strong>l’idrogeno, a un nuovo concetto<br />

di politica <strong>del</strong>la biosfera.” (p.16)<br />

Interessante è quella che Rifkin definisce come democrazia all’idrogeno. Il futuro<br />

prospettato è quello di poter generare energia mediante celle a combustibile e<br />

vendere il surplus <strong>del</strong> fabbisogno con l'aiuto di Internet o di tecnologie digitali<br />

integrate nella rete di distribuzione elettrica stessa, acquisendo in tempo reale le<br />

quotazioni <strong>del</strong> gas naturale e <strong>del</strong>l'elettricità al momento <strong>del</strong>la vendita. Persino gli<br />

analisti più cauti <strong>del</strong> settore prevedono che in futuro la Generazione Distribuita<br />

coprirà il 30% <strong>del</strong>l'intero fabbisogno energetico degli Stati Uniti.<br />

In realtà i problemi non mancano. Oggi <strong>una</strong> centralina di generazione basata su celle<br />

a combustibile costa circa 3000 euro al Kilowatt. Si prevede che effetti di economia<br />

124


di scala ne ridurranno il costo fino a 500 euro al Kw nei prossimi anni, ma il fatto che<br />

queste tecnologie possano diventare competitive con le fonti tradizionali dipende dai<br />

singoli e dalle collettività, dato che i governi lungimiranti sono rari.<br />

Come si è visto, la più grande preoccupazione <strong>del</strong>l’economista americano è quella di<br />

proporre un mo<strong>del</strong>lo alternativo di sviluppo basato su idrogeno e democrazia. Per<br />

Rifkin il problema originario è il sistema energetico: rivoluzionato quello, si<br />

rivoluziona anche il mo<strong>del</strong>lo di sviluppo.<br />

L’economista americano non si riferisce esplicitamente ad un forte cambiamento<br />

nell’impostazione sviluppista basata sull’aumento <strong>del</strong>la crescita. Rifkin, al contrario<br />

di Daly e di Latouche, non svincola il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>lo sviluppo dalla continua crescita<br />

di produzione <strong>del</strong>le merci.<br />

125


La decrescita di Serge Latouche<br />

Serge Latouche, filosofo ed antropologo <strong>del</strong>l’economia, si pone in <strong>una</strong> posizione di<br />

assoluta <strong>critica</strong> nei confronti <strong>del</strong> concetto stesso di sviluppo. In contrasto con lo<br />

“sviluppo sostenibile” di Daly, l’autore francese fonde la bioeconomia di Goergescu-<br />

Roegen e l’antropologia di Mauss, debitrice <strong>del</strong>l’impostazione di Karl Polanyi.<br />

Come si vedrà più dettagliatamente nel paragrafo successivo l‘etnocentrismo <strong>del</strong><br />

concetto stesso di sviluppo è il primo limite <strong>del</strong> concetto stesso. Latouche si sofferma<br />

molto su questo punto e pensa che se il concetto di sviluppo indica necessariamente<br />

ciò che esso ha in comune con l'es<strong>per</strong>ienza occidentale <strong>del</strong> decollo <strong>del</strong>l'economia così<br />

come si è strutturata a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni<br />

1750 –1800 qualunque sia l'aggettivo che gli si accosti, il contenuto implicito o<br />

esplicito <strong>del</strong>lo sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione <strong>del</strong> capitale, con<br />

tutti gli effetti positivi e negativi che conosciamo: competizione spietata, crescita<br />

senza limiti <strong>del</strong>le disuguaglianze, saccheggio senza ritegno <strong>del</strong>la natura. Ora, il<br />

nocciolo duro che tutti gli sviluppi hanno in comune con quella es<strong>per</strong>ienza è legato a<br />

"valori" che sono il progresso, l'universalismo, il dominio <strong>del</strong>la natura, la razionalità<br />

quantificabile. Questi valori sui quali poggia lo sviluppo e, particolarmente il<br />

progresso, non corrispondono affatto alle aspirazioni universali profonde .<br />

Esse sono legate alla storia <strong>del</strong>l'Occidente, raccolgono poca eco nelle altre società. Al<br />

di là dei miti sui quali è basata, l'idea <strong>del</strong>lo sviluppo è totalmente priva di senso e le<br />

prassi ad essa legate sono assolutamente impossibili <strong>per</strong>ché impensabili. Secondo<br />

Latouche tali valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in<br />

discussione <strong>per</strong> trovare <strong>una</strong> soluzione ai problemi <strong>del</strong> mondo contemporaneo (e <strong>del</strong>la<br />

"mondializzazione" liberale à la Truman) ed evitare le catastrofi verso le quali ci<br />

porta l'economia mondiale. È chiaro che è lo sviluppo realmente esistente quello che<br />

da due secoli domina, che ingigantisce i problemi sociali e ambientali attuali:<br />

esclusione, sovrappopolamento, povertà, inquinamenti vari ecc. Lo "sviluppismo"<br />

manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. In questo <strong>paradigma</strong> non c'è<br />

posto <strong>per</strong> il rispetto <strong>del</strong>la natura reclamato dagli ecologisti né <strong>per</strong> il rispetto<br />

126


<strong>del</strong>l'uomo rivendicato dagli umanitaristi. Lo sviluppo realmente esistente appare,<br />

dunque, nella sua verità e lo sviluppo alternativo come <strong>una</strong> mistificazione.<br />

Secondo l’economista francese, accostando al concetto di sviluppo un aggettivo<br />

(sostenibile, umano, locale, etc..), non si mette in questione l'accumulazione<br />

capitalista, al più si tratta di aggiungere un elemento sociale o <strong>una</strong> componente<br />

ecologica alla crescita economica come non molto tempo fa si è potuto aggiungervi<br />

<strong>una</strong> dimensione culturale. Se ci si concentra sulle conseguenze sociali, come la<br />

povertà, il tenore di vita, i bisogni essenziali, o sulla nocività arrecata all'ambiente,<br />

occorre evitare gli approcci olistici o globali di un'analisi <strong>del</strong>la dinamica planetaria di<br />

<strong>una</strong> Megamacchina tecno-economica che è funzionale alla concorrenza senza pietà e<br />

ormai senza volto. Che si voglia o no, non si può impedire che lo sviluppo sia<br />

diverso da quello che è stato. Lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione <strong>del</strong><br />

mondo .(Latouche, 2005)<br />

La <strong>critica</strong> <strong>del</strong> filosofo francese si concentra sulla sostenibilità <strong>del</strong>lo sviluppo,<br />

sostenuta da Herman Daly, e sul cosiddetto “stato stazionario”. L’espressione<br />

“sviluppo sostenibile”, in particolare, viene accusata di essere un ossimoro.<br />

Attraverso lo “sviluppo sostenibile”, infatti, molti pretendono di mantenere costante<br />

la crescita economica senza <strong>per</strong>ò danneggiare l’ambiente, bensì salvaguardandolo. È<br />

chiaro dunque, <strong>per</strong> Latouche, come il concetto di sviluppo sostenibile sia <strong>una</strong><br />

semplice trovata pubblicitaria utilizzata dalla politica su indicazione <strong>del</strong>le lobbies<br />

industriali e finanziarie, al fine di continuare a <strong>per</strong>correre indisturbate la strada <strong>del</strong>la<br />

crescita a tutto scapito <strong>del</strong>l’ambiente, quindi a svantaggio <strong>del</strong>la qualità <strong>del</strong>la vita<br />

<strong>del</strong>la popolazione mondiale e, ancor più, <strong>del</strong>le popolazioni <strong>del</strong> sud <strong>del</strong> mondo, che,<br />

incolpevoli e impotenti, vedono depredare le loro terre e mutare i loro stili di vita. Se<br />

Daly afferma la necessita di uno sviluppo senza crescita, Latouche contesta questa<br />

opzione <strong>per</strong>ché, usando le parole di Georgescu- Roegen, lo sviluppo “sostenibile” o<br />

“durevole” non può essere su<strong>per</strong>ato in <strong>una</strong> società <strong>del</strong>la crescita. Il limite di Daly,<br />

secondo l’economista francese, è quello di non riuscire ad uscire dal <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo basato sull’accumulazione capitalistica, creando un concetto che è un vero e<br />

proprio ossimoro: “Questa posizione “casistica” [cioè lo “stato stazionario” di Daly]<br />

sottovaluta la dismisura specifica <strong>del</strong> nostro sistema. Non rinuncia né al modo di<br />

produzione, né al modo di consumo, né allo stile di vita prodotti dalla crescita<br />

127


precedente. Ci rassegna ad un immobilismo che conserva, ma senza mettere in<br />

discussione i valori e le logiche <strong>del</strong>lo sviluppismo e <strong>del</strong>l’economicismo. Di<br />

conseguenza, ci si priva <strong>del</strong>l’apporto positivo <strong>del</strong>la decrescita conviviale in termini di<br />

felicità collettiva.”(Latouche, 2007, p.22). L’idea di stato stazionario ispirato da Mill<br />

è simile alla società <strong>del</strong>la decrescita auspicata dal filosofo francese.<br />

Il termine decrescita non è il termine opposto di crescita (come invece è a-crescita,<br />

termine forse più corretto <strong>per</strong> descrivere il movimento vicino a Latouche) e non<br />

identifica un mo<strong>del</strong>lo pronto <strong>per</strong> l’uso, ma è piuttosto “uno slogan che raccoglie<br />

gruppi ed individui che hanno formulato <strong>una</strong> <strong>critica</strong> radicale <strong>del</strong>lo sviluppo ed<br />

interessati ad individuare gli elementi di un progetto alternativo <strong>per</strong> <strong>una</strong> politica <strong>del</strong><br />

doposviluppo. Decrescita è dunque <strong>una</strong> proposta <strong>per</strong> restituire spazio alla creatività e<br />

alla fecondità di un sistema di rappresentazioni dominato dal totalitarismo<br />

<strong>del</strong>l’economicismo, <strong>del</strong>lo sviluppo e <strong>del</strong> progresso.” (p.12) Con questo slogan ci si<br />

riferisce a qualcosa di completamente nuovo, che porti ad un cambiamento radicale<br />

<strong>del</strong>la situazione attuale in cui la felicità e il benessere <strong>del</strong>le <strong>per</strong>sone vengono misurate<br />

con un indice puramente economico, il Pil, che, in realtà, misura la ricchezza<br />

secondo un metro prettamente capitalistico, dimenticando che il ben-essere di un<br />

popolo non coincide con il ben-avere. Ormai è un dato di fatto che, seppur abbiamo<br />

<strong>una</strong> quantità enorme di oggetti e abbiamo prospettive di lunga vita, la nostra serenità<br />

non è maggiore di quella dei nostri genitori o dei nostri nonni e la nostra felicità, è<br />

evidente, non è direttamente proporzionale al Pil.<br />

Per Latouche <strong>una</strong> società come quella <strong>del</strong>la crescita, dove la felicità promessa ai<br />

vincenti si traduce in accumulazione dei beni di consumo, in aumento <strong>del</strong>lo stress,<br />

<strong>del</strong>l’insonnia, <strong>del</strong>le turbe psicosomatiche e <strong>del</strong>le malattie di ogni tipo, è <strong>una</strong> società<br />

profondamente in crisi, soprattutto se <strong>per</strong> realizzarla si deve devastare<br />

indiscriminatamente l’ambiente in cui viviamo, contribuendo ancora di più ad<br />

aumentare il nostro malessere.<br />

Più precisamente, la società <strong>del</strong>la crescita non è auspicabile <strong>per</strong> tre motivi:<br />

1- Produce enormi disuguaglianze ed ingiustizie: nel 1970 il divario di<br />

ricchezza tra il quinto <strong>del</strong>la popolazione più povero e il quinto più ricco era<br />

di 1 a 30 ma nel 2004 il rapporto era di 1 a 74.<br />

128


2- Crea un benessere illusorio: l’aumento <strong>del</strong> livello di vita <strong>del</strong>le società<br />

<strong>del</strong> Nord crea un paradosso <strong>per</strong>ché non si contano i costi (ambientali,<br />

sociali, etc) che questi tenori di vita causano.<br />

3- Sviluppa un “antisocietà” malata <strong>del</strong>la sua ricchezza e in fin dei conti<br />

poco armoniosa <strong>per</strong> gli stessi ricchi: la ricchezza ha un carattere più<br />

patologico <strong>del</strong>la povertà. La frenetica ricerca di beni di consumo si traduce<br />

in <strong>una</strong> aumento <strong>del</strong>lo stress, <strong>del</strong>l’insonnia e <strong>del</strong>le turbe psicosomatiche.<br />

All’aumento <strong>del</strong>la crescita corrisponde un aumento <strong>del</strong> disagio individuale.<br />

Di conseguenza, la società <strong>del</strong>la decrescita è <strong>per</strong> il filosofo francese <strong>una</strong> società che<br />

deve innanzitutto ristabilire le sue priorità, basandosi sul ben-essere ed eliminando<br />

tutti quei valori che hanno un effetto negativo sulla serena sopravvivenza umana; <strong>una</strong><br />

società che torni a vivere la dimensione locale, riscoprendo <strong>una</strong> vita più sobria e<br />

frugale, quasi di sussistenza, all’interno <strong>del</strong>la propria comunità in cui il valore<br />

principale è la solidarietà.<br />

Il tutto nel totale rispetto <strong>del</strong>l’ambiente, senza <strong>per</strong> questo dover arretrare e regredire<br />

ad uno stato primitivo, verso il quale, anche volendo, è impossibile rivolgere lo<br />

sguardo.<br />

Il <strong>per</strong>corso da compiere <strong>per</strong> arrivare alla decrescita, come si è visto, non passa <strong>per</strong><br />

presunte scorciatoie quali lo sviluppo sostenibile o alternativo, che in realtà sono<br />

ingannevoli, ma punta inequivocabilmente ad abbandonare il mo<strong>del</strong>lo capitalista, che<br />

<strong>per</strong> la sua esistenza pretende la crescita senza limiti.<br />

Per Latouche, la decrescita dovrebbe, quindi, essere organizzata non soltanto <strong>per</strong><br />

preservare l'ambiente ma anche <strong>per</strong> ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la<br />

quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza<br />

biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti <strong>del</strong> patrimonio naturale non<br />

pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le<br />

disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente<br />

viventi <strong>del</strong>l'umanità. La decrescita non significa un immobilismo conservatore.<br />

Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario<br />

economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità<br />

possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di<br />

129


apporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità,<br />

nella sobrietà e addirittura con <strong>una</strong> certa austerità nel consumo materiale.<br />

La parola d'ordine <strong>del</strong>la decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza<br />

l'abbandono <strong>del</strong>l'obiettivo insensato <strong>del</strong>la crescita <strong>per</strong> la crescita, obiettivo il cui<br />

movente non è altro che la ricerca sfrenata <strong>del</strong> profitto <strong>per</strong> i detentori <strong>del</strong> capitale.<br />

Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel<br />

raccomandare la decrescita <strong>per</strong> la decrescita. In particolare, la decrescita non è la<br />

crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento <strong>del</strong>la crescita sprofonda le<br />

nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei<br />

programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità <strong>del</strong>la<br />

vita. Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di <strong>una</strong> società lavoristica senza lavoro e,<br />

peggio ancora, di <strong>una</strong> società <strong>del</strong>la crescita senza crescita. La decrescita è dunque<br />

auspicabile soltanto in <strong>una</strong> "società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra<br />

organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto <strong>del</strong> lavoro, dove le<br />

relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o<br />

nocivi. La riduzione drastica <strong>del</strong> tempo dedicato al lavoro, imposta <strong>per</strong> assicurare a<br />

tutti un impiego soddisfacente, è <strong>una</strong> condizione preliminare.<br />

Latouche sembra coniugare <strong>per</strong>fettamente l’insegnamento di Karl Polanyi con la<br />

bioeconomia di Georgescu- Roegen unendo la <strong>critica</strong> “antropologica” al capitalismo<br />

con la <strong>critica</strong> “ecologica”. La sua proposta è <strong>una</strong> rivoluzione totale <strong>del</strong>la società<br />

capitalisitica.<br />

La prima tappa verso la società <strong>del</strong>la decrescita è: decolonizzare l’immaginario.<br />

La causa principale <strong>del</strong>la “colonizzazione <strong>del</strong>la nostra anima” viene individuata nella<br />

scolarizzazione (riprendendo Illich), che, non garantendo <strong>una</strong> giusta educazione è<br />

colpevole di distruggere le nostre “difese immunitarie” e, così facendo, di rendere<br />

vita facile ai media che ci bombardano quotidianamente con la pubblicità,<br />

provocando <strong>una</strong> sorta di ipnosi che induce inevitabilmente a consumare il più<br />

possibile. La crescita, secondo il filosofo francese, attraverso il consumismo, è<br />

diventata contemporaneamente un terribile virus e <strong>una</strong> droga.<br />

Per uscire da questo immaginario, bisogna innanzitutto desiderare di uscirvi, lavorare<br />

sulla nostra volontà ed entrare in azione, innanzitutto nel nostro piccolo, <strong>per</strong>ché il<br />

130


nostro primo nemico siamo noi stessi, incapaci come siamo di attuare innanzitutto su<br />

di noi la trasformazione radicale.<br />

Dobbiamo cioè convincerci e convincere gli altri che, oggi come oggi, non solo<br />

l’abbondanza di merci non ci rende felici, ma, al contrario, meno abbiamo e meglio<br />

stiamo. Se il consumismo è divenuto <strong>una</strong> droga, la soluzione è disintossicarci.<br />

Per Latouche dobbiamo ritrovare il senso <strong>del</strong> limite. Dobbiamo capire che ciò che ci<br />

viene dato dalla natura è un dono che dobbiamo accogliere (e non sradicare) nei<br />

limiti che la natura stessa ci pone, oltre i quali si sconfina nella sua progressiva<br />

distruzione.<br />

A questo punto, se non è possibile tornare al buon senso di ieri <strong>per</strong> contrastare il<br />

“buon senso” di oggi, bisogna costruire il buon senso <strong>del</strong> domani. A tal proposito,<br />

Latouche appronta <strong>una</strong> sorta di programma <strong>del</strong>la decrescita, sulla base <strong>del</strong> quale<br />

costruire un piano d’azione. Il programma consiste nelle “otto R”: rivalutare,<br />

ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare.<br />

Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la<br />

nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere<br />

sull’egoismo, la coo<strong>per</strong>azione sulla concorrenza, il piacere <strong>del</strong> tempo libero<br />

sull’ossessione <strong>del</strong> lavoro, la cura <strong>del</strong>la vita sociale sul consumo illimitato, il locale<br />

sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione<br />

deve poter su<strong>per</strong>are l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono<br />

cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare.<br />

Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di <strong>una</strong><br />

situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne<br />

completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, <strong>per</strong> i concetti<br />

di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente <strong>per</strong> scarsità e abbondanza, la<br />

“diabolica coppia” fondatrice <strong>del</strong>l’immaginario economico. L’economia attuale,<br />

infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza<br />

e bisogno, attraverso l’appropriazione <strong>del</strong>la natura e la sua mercificazione.<br />

Ristrutturare. Adattare in funzione <strong>del</strong> cambiamento dei valori le strutture<br />

economico-produttive, i mo<strong>del</strong>li di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da<br />

orientarli verso <strong>una</strong> società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà<br />

radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato.<br />

131


Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende<br />

sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica<br />

va presa su scala locale, <strong>per</strong> bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le<br />

frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo,<br />

evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto<br />

serra e cambiamento climatico).<br />

Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti <strong>del</strong> pianeta l’accesso alle risorse naturali e<br />

ad un’equa distribuzione <strong>del</strong>la ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e<br />

condizioni di vita dignitose <strong>per</strong> tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”.<br />

Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli<br />

orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta<br />

ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita<br />

decoroso (riscaldamento, igiene <strong>per</strong>sonale, illuminazione, trasporti, produzione dei<br />

beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore<br />

acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto,<br />

l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo <strong>del</strong>l’umanità resta ben sotto questa<br />

soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto <strong>per</strong> assicurare a tutti condizioni di vita<br />

eque e dignitose.<br />

Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in <strong>una</strong><br />

discarica, su<strong>per</strong>ando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi,<br />

<strong>del</strong>l’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”.<br />

Riciclare. Recu<strong>per</strong>are tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.<br />

Questo programma <strong>del</strong>le “otto R” è comunque indicativo, a detta <strong>del</strong>l’autore, e<br />

durante il suo <strong>per</strong>corso può variare, nei limiti <strong>del</strong> variabile, purché rimanga attinente<br />

agli obiettivi.<br />

Interessante l’importanza <strong>per</strong> Latouche <strong>del</strong>la democrazia locale alla quale il filosofo<br />

francese assegna il compito di mettere in atto <strong>una</strong> decrescita armoniosa e conviviale.<br />

Il locale deve tessere quei rapporti sociali che la globalizzazione e lo sviluppo<br />

tendono a distruggere. (2007, p. 138)<br />

Diverso è l’approccio che Latouche propone nei confronti <strong>del</strong> Sud <strong>del</strong> mondo, dove è<br />

sì ugualmente auspicabile, come nel Nord, <strong>una</strong> società <strong>del</strong>la decrescita con il suo<br />

circolo virtuoso, ma dove sicuramente essa si porrà in termini diversi, in quanto le<br />

132


società <strong>del</strong> Sud non sono realmente “società <strong>del</strong>la crescita” e dove bisogna dunque<br />

limitarsi ad eliminare gli ostacoli alla realizzazione di società autonome.<br />

In questo senso, Latouche fa proprie alcune posizione “terzomondiste” come quella<br />

che si è già incontrata di Samir Amin.<br />

La società <strong>del</strong>la decrescita è auspicabile <strong>per</strong>ché significa decrescere nel<br />

depredamento <strong>del</strong>la natura, quindi nella produzione, nel consumo, nei trasporti e<br />

dunque nell’inquinamento e nella creazione di rifiuti organici e non, al fine di vivere<br />

in un ambiente più bello e godibile, seppur facendo <strong>una</strong> vita più sobria e frugale.<br />

Tutto ciò nella consapevolezza che la ricchezza che ci rende effettivamente sereni e<br />

felici è quella <strong>del</strong>le relazioni <strong>per</strong>sonali. La pienezza <strong>del</strong>la nostra vita è data dalla<br />

quantità e dalla qualità dei rapporti che abbiamo con gli altri (siano essi parenti,<br />

amici, conoscenti occasionali ecc.), dal tempo che trascorriamo con loro e dal modo<br />

in cui trascorriamo questo tempo insieme. Vivere questi rapporti, che sono la nostra<br />

vera felicità, in un ambiente che sia il nostro, più genuino, godibile, sobrio, sereno,<br />

allegro in un contesto socio-economico, dove si ritorna a forme di autoproduzione<br />

(Pallante, 2005), dove il lavoro diminuisce e torna ad essere piacevole in un certo<br />

ambito (come la campagna e l’artigianato), dove il mercato torna ad avere la sua<br />

funzione di riunione popolare e riscopre lo scambio culturale attraverso lo scambio<br />

prodotto-moneta o addirittura prodotto-prodotto (il baratto) e dove la preoccupazione<br />

economica quasi scompare, essendo questa <strong>una</strong> società conviviale e pressappoco<br />

autosufficiente. Per tutti questi motivi Latouche auspica, utopicamente, <strong>una</strong> società<br />

<strong>del</strong>la decrescita.<br />

Le proposte concrete di Serge Latouche sono presenti in quello che lui definisce<br />

come un esquisse di un programma “politico” <strong>per</strong> la costruzione di <strong>una</strong> società <strong>del</strong>la<br />

crescita. Il nemico individuato dal filosofo francese sembrerebbe essere il<br />

capitalismo “Un capitalismo eco-compatibile è teoricamente concepibile, ma<br />

irrealistico sul piano pratico” e quindi “<strong>una</strong> società <strong>del</strong>la decrescita non può<br />

concepirsi se non si esce dal capitalismo”, tuttavia “questa formula comoda si<br />

riferisce a <strong>una</strong> evoluzione storica tutt'altro che semplice... L'eliminazione dei<br />

capitalisti, il divieto <strong>del</strong>la proprietà privata degli strumenti di produzione, l'abolizione<br />

<strong>del</strong> rapporto salariale o <strong>del</strong> denaro getterebbe la società nel caos e in preda a un<br />

terrorismo massiccio che tuttavia non basterebbe a distruggere l'immaginario<br />

133


mercantile. Sfuggire allo sviluppo, all'economia e alla crescita non significa quindi<br />

rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l'economia ha portato con sé (moneta,<br />

mercati e anche salariato), ma "re-integrarle " in un'altra logica.” (Latouche, Le<br />

Monde Diplomatique/il manifesto, novembre 2005).<br />

Preso atto di questa situazione, Latouche propone <strong>una</strong> serie di interventi:<br />

- Tornare ad un impatto ecologico sostenibile <strong>per</strong> il pianeta, ovvero ad <strong>una</strong><br />

produzione materiale equivalente a quella degli anni 1960-70,<br />

- internalizzare i costi dei trasporti,<br />

- rilocalizzare le attività,<br />

- restaurare l'agricoltura contadina,<br />

- trasformare l’aumento di produttività in riduzione <strong>del</strong> tempo di lavoro e<br />

creazione di impieghi, fino a quando esiste la disoccupazione<br />

- incentivare la "produzione" di beni relazionali,<br />

- ridurre lo spreco di energia di un fattore 4,<br />

- penalizzare fortemente le spese di pubblicità,<br />

- decretare <strong>una</strong> moratoria sull'innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio<br />

serio e orientare la ricerca scientifica e tecnica in funzione <strong>del</strong>le nuove<br />

aspirazioni.<br />

Attraverso queste misure la “scommessa <strong>del</strong>la decrescita”, in un’ottica <strong>del</strong>l’utopia<br />

conviviale, può favorire quella “decolonizzazione <strong>del</strong>l’immaginario” e suscitare quei<br />

comportamenti virtuosi in favore di <strong>una</strong> soluzione ragionevole: la democrazia<br />

ecologica. Per Latouche è necessario evitare quello che Ivan Illich chiamava<br />

“fascismo tecnoburocratico” attraverso <strong>una</strong> democratizzazione nella dimensione<br />

locale.<br />

134


L’origine <strong>del</strong>lo sviluppo: Gilbert Rist<br />

Gilbert Rist, professore all'Istituto universitario di studi sullo sviluppo (IUED) di<br />

Ginevra, si è occupato di analizzare nel profondo la tematica <strong>del</strong>lo sviluppo.<br />

Fortemente critico <strong>del</strong>le idee “sviluppiste”, così come Latouche, Georgescu-Roegen<br />

e W. Sachs 4 , Gilbert Rist dedica un saggio allo “sviluppo”: “<strong>Sviluppo</strong>: storia di <strong>una</strong><br />

credenza occidentale”.<br />

Il sottotitolo già preannuncia la tesi di fondo: l'idea di "sviluppo", con le conseguenti<br />

promesse di maggior benessere <strong>per</strong> i popoli è solo <strong>una</strong> recente credenza occidentale,<br />

<strong>una</strong> fede (il termine è di Rist), <strong>una</strong> fede nel senso più deteriore, inventata nei paesi<br />

occidentali a capitalismo maturo ed esportata anche nei paesi terzomondisti e<br />

"sottosviluppati".<br />

Per l’economista francese lo sviluppo è <strong>una</strong> mediocre e passeggera credenza: <strong>per</strong>ché<br />

lo sviluppo economico, dove si è imposto, lungi dal migliorare le sorti <strong>del</strong>l'umanità e<br />

<strong>del</strong> pianeta, le ha aggravate notevolmente, approfondendo le ingiustizie sociali<br />

preesistenti, generando nuovi meccanismi di esclusione a danno <strong>del</strong>la stragrande<br />

maggioranza <strong>del</strong>l'umanità (ed a vantaggio di pochi), minacciando <strong>una</strong> volta di più gli<br />

equilibri ecologici (vedi deforestazione e desertificazione crescenti, effetto serra,<br />

allargamento <strong>del</strong> buco <strong>del</strong>l'ozono, estinzione di specie animali e vegetali, ecc.),<br />

trascinando verso un produttivismo insano e unilaterale, che ha comportato lo<br />

sradicamento alienante di popoli e culture.<br />

La fine <strong>del</strong> sovietismo, salutata da molti come <strong>una</strong> liberazione, ha, di fatto, agevolato<br />

il trionfo definitivo <strong>del</strong> liberalismo e i programmi "sviluppisti", apparsi più credibili<br />

nella formula neoliberistica rispetto alle versioni produttivistiche socialiste, accusate<br />

di inefficienza.<br />

In realtà, “questa credenza, così comunemente condivisa <strong>per</strong>ché ovunque imposta,<br />

non corrisponde ad alc<strong>una</strong> realtà storica”, scrive Rist ( Rist, 1997, p. 216), ed i fe<strong>del</strong>i<br />

(gli sviluppisti) “non si preoccupano <strong>del</strong> fatto che le loro proprie pratiche<br />

contraddicono regolarmente i valori ai quali dichiarano di aderire” (p. 218).<br />

4 Di Wolfgang Sachs si segnalano: “Dizionario <strong>del</strong>lo sviluppo” (1998) e “Archeologia <strong>del</strong>lo sviluppo.<br />

Nord e Sud dopo il tracollo <strong>del</strong>l’Est” (1992)<br />

135


Occorre <strong>per</strong>ciò condividere la conclusione dì A. Hirschman (vedi capitolo terzo)<br />

quando osserva che “il declino <strong>del</strong>l'economia <strong>del</strong>lo sviluppo è in parte irreversibile”,<br />

poiché essa “lungi dall'apportare la buona vita s<strong>per</strong>ata, non ha fatto che accrescere le<br />

ineguaglianze e la marginalizzazione” (p. 221).<br />

Rist ritiene che le “bugie sviluppiste” trovino ancora, nonostante i clamorosi<br />

insuccessi, molti sostenitori <strong>per</strong>ché, attorno all'ipotesi sviluppista, si è creato, a<br />

livello internazionale, un apparato mastodontico, articolato anche a livello locale, che<br />

può sopravvivere solo grazie alte menzogne sviluppiste. Il mega-apparato è formato<br />

dai funzionari <strong>del</strong>la Banca Mondiale, <strong>del</strong> Fondo Monetario, <strong>del</strong> Programma <strong>del</strong>le<br />

Nazioni Unite <strong>per</strong> lo <strong>Sviluppo</strong>, <strong>del</strong>le varie agenzie con pretese più o meno umanitarie<br />

(UNICEF, FAO, OMS, UNESCO,...); a tutto ciò si aggiungano i vari ministeri<br />

nazionali <strong>per</strong> la Coo<strong>per</strong>azione e lo <strong>Sviluppo</strong>, i divulgatori agricoli, gli "es<strong>per</strong>ti", i<br />

ricercatori, gli agronomi, i <strong>per</strong>iti forestali, gli o<strong>per</strong>atori sanitari, i vari pianificatori, i<br />

volontari <strong>del</strong>le ONG, i missionari e senza dimenticare poi le aziende multinazionali<br />

più che mai interessate a investire e smerciare nei vari “paesi in via di sviluppo”.<br />

“E come cifrare tutti i posti di lavoro indotti dall'insieme di queste attività multiformi<br />

che non potrebbero esistere senza segretarie, senza mezzi di telecomunicazione e di<br />

trasporto, senza locali, senza fornitori di materie di ogni sorta e senza compagnie<br />

aeree” (p. 224). Veri e propri eserciti con o senz'armi, di varia nazionalità, sono<br />

schierati <strong>per</strong> far funzionare i progetti sviluppisti, e nel loro insieme costituiscono un<br />

mega-apparato sovranazionale, con giri d'affari multimiliardari ogni anno; a questo<br />

punto, poco importa che tali progetti risultino costosissimi e fallimentari a<br />

ripetizione; ciò che veramente conta, <strong>per</strong> gli uomini <strong>del</strong>l'apparato sviluppista, è che<br />

esso non venga smantellato e si <strong>per</strong>petui indefinitamente, attirando energie, miliardi e<br />

s<strong>per</strong>anze in vista di fini dichiarati che mai verranno realizzati. In realtà si potrebbe<br />

dire che, anche in questo caso, il mezzo, cioè l'Apparato, da mezzo si è trasformato in<br />

fine assoluto.<br />

Vale <strong>per</strong> l'Apparato sviluppista ciò che molti hanno più volte ripetuto a proposito <strong>del</strong><br />

Pil: se si dovesse calcolare tutto, cioè non solo quanto prodotto, ma anche le <strong>per</strong>dite,<br />

cioè quanto consumato e distrutto <strong>per</strong> ottenere un certo Pil o un certo livello di<br />

funzionamento <strong>del</strong>l'Apparato, si capirebbe immediatamente il carattere mistificatorio<br />

e fallimentare <strong>del</strong> Pil e, insieme ad esso, <strong>del</strong>l'Apparato sviluppista.<br />

136


“La difficoltà principale è allora questa: come far saltare la struttura religiosa che<br />

protegge lo sviluppo?” (p. 249).<br />

La fede irrazionale nello sviluppo è ancora molto forte, in effetti, in vaste aree<br />

mondiali, è <strong>una</strong> specie di nuova religione totalitaria e dogmatica, cui non mancano i<br />

predicatori integralisti, vale a dire gli economisti asserviti, cioè quasi tutti.<br />

Da qualche parte, <strong>per</strong>ò, ci si accorge che la prima mossa, quella decisiva, non può<br />

consistere nel voler cambiare immediatamente i fatti: più semplicemente, basterà<br />

cambiare <strong>per</strong> il momento l'interpretazione di essi. Un proverbio africano citato nel<br />

testo ci aiuta a capire che cosa significhi interpretare in modo diverso gli stessi fatti:<br />

«Tu sei povero <strong>per</strong>ché guardi quel che non hai. Vedi quel che possiedi, vedi quel che<br />

sei, e ti scoprirai straordinariamente ricco».<br />

In altre parole, i miraggi degli sviluppisti hanno fatto breccia là dove la gente si è<br />

identificata nella loro interpretazione, nel loro <strong>paradigma</strong> consumistico-<br />

produttivistico, cercando conseguentemente di inseguire quei beni economici che<br />

venivano loro promessi, in sostituzione <strong>del</strong>la nobiltà e semplicità <strong>del</strong> vivere<br />

tradizionale, visto dagli innovatori di turno come scarsità e insopportabile povertà,<br />

come arretratezza da rottamare in cambio di “incentivi allo sviluppo”.<br />

Sarà necessario rigettare quest'ultima interpretazione, <strong>per</strong> rivalutare gli stili di vita<br />

che si sottraggono ai mo<strong>del</strong>li sviluppisti transnazionali; ciò sarà sufficiente <strong>per</strong> <strong>una</strong><br />

rottura col sistema culturale-economico dominante come già avviene in certe<br />

situazioni, dove esso “non è più considerato un mo<strong>del</strong>lo da adottare ad ogni costo; di<br />

colpo finisce la frustrazione provocata dall'impossibile imitazione di uno pseudo-<br />

ideale alienante, e le energie che essa aveva finora mobilitato possono essere<br />

investite in un procedimento nuovo: la risco<strong>per</strong>ta da parte di ciascuno <strong>del</strong>la sua<br />

propria legge” (p. 248-249).<br />

Se questo compito, ovviamente, non può essere affidato agli economisti che hanno<br />

fede nello sviluppo e ne vivono, sostiene Rist, è realistico puntare su quelle culture,<br />

d'Oriente e d'Occidente, che da sempre costituiscono <strong>del</strong>le alternative alla pseudo-<br />

religione mondialista <strong>del</strong>lo <strong>Sviluppo</strong>?<br />

Gilbert Rist ci lascia nell’immaginario <strong>del</strong> “doposviluppo” così come fa Latouche<br />

constatando che “alla certezza degli errori, passati e presenti, non bisogna forse<br />

preferire l’incertezza <strong>del</strong> mondo futuro?”<br />

137


Questo capitolo ha esposto <strong>una</strong> <strong>critica</strong> radicale al mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>lo sviluppo pur<br />

sottolineando le forti differenze nell’ipostazione di Daly e Latouche che, partendo<br />

dalla bioeconomia di Georgescu – Roegen giungono a “rivoluzioni” diverse. Il<br />

carattere “concreto” di Daly si contrappone a quello “utopico” di Latouche ma de<br />

entrambi si può cogliere l’insegnamento che un mondo incentrato sullo sviluppo<br />

inteso come crescita non è solo insostenibile da un punto di vista ambientale ma<br />

anche sociale.<br />

Nel prossimo capitolo si cercheranno di coniugare le varie critiche al <strong>paradigma</strong><br />

<strong>del</strong>lo sviluppo con due temi fondamentali <strong>per</strong> questo lavoro, cioè l’economia <strong>civile</strong> e<br />

lo sviluppo locale.<br />

138


Lo sviluppo locale <strong>per</strong> un’economia <strong>civile</strong><br />

“Chi riconosce che lo sviluppo<br />

<strong>civile</strong> è l’obiettivo politico<br />

fondamentale vede dissolversi<br />

come neve al sole la separazione<br />

fra “morale” e politica”<br />

Paolo Sylos Labini<br />

Questo capitolo cerca di <strong>del</strong>ineare <strong>una</strong> linea da <strong>per</strong>corre <strong>per</strong> lo sviluppo, coniugando<br />

lo sviluppo locale con l’economia <strong>civile</strong>, alla luce degli elementi di criticità emersi<br />

nei capitoli precedenti. Lo sviluppo <strong>civile</strong> nasce nel territorio e la sua dimensione<br />

“localizzata” è necessaria affinché si formi un nuovo <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo.<br />

Globale e locale in questo contesto si fondono in un contesto di civismo umanista<br />

tipico <strong>del</strong>l’Italia illuminista. La prima parte di quest’ultimo capitolo introdurrà il<br />

concetto di sviluppo locale nell’accezione di valorizzazione di un territorio, di uno<br />

sviluppo olistico, che non comprenda la mera crescita o la competizione ma che<br />

abbia particolare attenzione al capitale umano e sociale. Il contributo dei “padri”<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo locale ci guiderà attraverso la formazione di un’ economia “altra”<br />

dove sociologi, economisti e geografi devono unire i loro sforzi <strong>per</strong> costruire un<br />

mo<strong>del</strong>lo di sviluppo che si distanzia dal <strong>paradigma</strong> che è stato precedentemente<br />

tratteggiato. Nel secondo paragrafo si introdurrà il secondo ingrediente fondamentale<br />

<strong>per</strong> lo sviluppo <strong>civile</strong>, cioè l’economia <strong>civile</strong>, con le sue caratteristiche e la sua storia<br />

secolare. Ripreso dai contributi di autori come Bruni e Zamagni, l’economia <strong>civile</strong><br />

non si concentra sui mezzi, ma pone l’attenzione ai fini <strong>del</strong> pensiero economico: la<br />

società <strong>civile</strong> e la felicità <strong>per</strong>sonale devono tornare al centro <strong>del</strong>l’economia.<br />

Negli ultimi paragrafi si cercherà di spiegare in modo più dettagliato le<br />

caratteristiche <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong>, come sintesi di sviluppo locale ed economia<br />

<strong>civile</strong>, e <strong>per</strong>ché è auspicabile un ritorno ad un economia “umanizzata” che non sia<br />

im<strong>per</strong>meabile all’ecologia, alla filosofia e alla sociologia.<br />

139


Dalla crescita regionale allo sviluppo locale<br />

Lo sviluppo locale è un concetto controverso e troppo spesso risente <strong>del</strong>l’assenza di<br />

<strong>una</strong> formulazione univoca. A strumenti di sviluppo locale non ha fatto riscontro<br />

sinora un altrettanto significativo contributo a favore di <strong>una</strong> definizione in positivo di<br />

ciò che significa “sviluppo locale”. Anzi, l’ambiguità che accompagna nella maggior<br />

parte dei Paesi occidentali il concetto di sviluppo locale è aggravata dalla mancanza<br />

di <strong>una</strong> formalizzazione esplicita di tale approccio da parte <strong>del</strong>le istituzioni<br />

comunitarie. (De Luca, Salone 2008).<br />

Lo sviluppo economico è un fenomeno territorialmente complesso che non può<br />

prescindere dal suo carattere locale (Goglio, in Becattini 2001). L’emergere di questa<br />

dimensione rompe lo schema deterministico nell’interpretazione <strong>del</strong>lo sviluppo:<br />

l’esistenza di forme non previste di sviluppo “locale” sfugge alle griglie<br />

interpretative consolidate di tipo storico- geografico, economico e sociale<br />

La varietà dei sentieri di sviluppo rivela la possibilità di rispondere in modo<br />

differenziato agli stimoli globali<br />

L’approccio attraverso lo sviluppo locale rifiuta spiegazioni univoche, fondate su<br />

logiche interpretative generali come: l’approccio dualistico nell’interpretazione <strong>del</strong>le<br />

relazioni alla macroscala (es. la dialettica lavoro-capitale e/o gli schemi rigidi centro-<br />

<strong>per</strong>iferia) o l’approccio <strong>del</strong>l’individualismo metodologico alla microscala: le<br />

dinamiche sociali come esito <strong>del</strong>l’azione dei singoli e dei loro sistemi di preferenze<br />

ed interessi.<br />

E’ necessario individuare entità intermedie tra il sistema e il soggetto singolo (dare<br />

<strong>per</strong>tinenza teorica al concetto di “sistema parziale”); dato che la teoria economica<br />

ortodossa non riconosce l’esistenza di tali “enti” e che la stessa categoria di “regione<br />

economica” appare solo come “somma dei soggetti che la compongono”<br />

Nella tradizione distrettualistica italiana (Becattini, 2001 e 2002) l’elemento centrale<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo è un nucleo di relazioni produttive o di altro genere, ancorate al<br />

territorio, capace di riprodursi nel tempo: il sistema locale. (Becattini 2001, p.18)<br />

Il sistema locale è un aggregato di soggetti che, a certe condizioni, si comporta come<br />

attore collettivo; un insieme dotato di <strong>una</strong> propria identità distinta dall’”ambiente” e<br />

140


da altri sistemi fatto da soggetti o<strong>per</strong>anti che sono consapevoli<br />

(identità/appartenenza) e sono capaci di comportamenti collettivi autonomi<br />

(autonomia).<br />

<strong>Sviluppo</strong> locale, <strong>per</strong> Dematteis, tende ad assumere un significato metaforico: “È la<br />

capacità di un territorio di decodificare e selezionare le variegate spinte <strong>del</strong>la<br />

globalizzazione, fortemente <strong>per</strong>vasive ed omologanti, <strong>per</strong> tracciare un proprio<br />

<strong>per</strong>corso evolutivo ed esprimere <strong>una</strong> propria identità ...” (Dematteis, 1994).<br />

L’aleatorietà <strong>del</strong> concetto di sviluppo locale ci pone di fronte a seri problemi mesis in<br />

evidenza da Salone e De Luca in questo passaggio: “È vero che, attribuendo al<br />

concetto un valore metaforico, attraverso di esso “alludiamo” a fatti non solo diversi,<br />

ma anche interpretabili secondo diverse prospettive. È <strong>per</strong>ò altrettanto vero che il<br />

ricorso disinvolto al concetto di sviluppo locale tende oggi a usurarne il senso.<br />

L’assenza di certezze definitorie, che non rappresenta probabilmente un problema<br />

nella fase iniziale di costruzione di un nuovo <strong>paradigma</strong>, lo diventa tuttavia quando<br />

quest’ultimo tende ad assumere un ruolo dominante all’interno di un determinato<br />

campo di pratiche.” (De Luca, Salone 2008, p. 52).<br />

Per evitare questo problema è necessario chiarire cosa si intenda <strong>per</strong> “locale” e cosa<br />

<strong>per</strong> “sviluppo”, evitando di confondere lo sviluppo regionale con lo sviluppo locale.<br />

Il primo punto è già stato in parte chiarito dal concetto di sistema locale, cioè <strong>una</strong><br />

struttura intermedia che si situi tra il soggetto singolo e il sistema economico-sociale<br />

nel suo insieme: <strong>per</strong> ritornare a Dematteis (2004), la ricerca di un’“entità<br />

intermedi[a] […] aggregato di soggetti che in varie circostanze può comportarsi di<br />

fatto come un soggetto collettivo, anche se non è formalmente riconosciuto come<br />

tale” (pag. 45).<br />

Dunque, il “locale” che qui c’interessa ha a che fare con la prossimità fisica, anche se<br />

non esclude affatto relazioni con altri “locali attivi” e con scale su<strong>per</strong>iori – regione,<br />

stato ecc. – e implica <strong>una</strong> progettualità condivisa che fa leva sulle risorse locali. (De<br />

Luca Salone, 2008, p. 55)<br />

Lo sviluppo locale all’interno dei sistemi locali può assumere tre caratteristiche<br />

differenti:<br />

141


• <strong>Sviluppo</strong> locale come alternativa “strategica” allo sviluppo economico tout-<br />

court, autosufficienza <strong>del</strong>le comunità locali come antidoto alla<br />

“colonizzazione” esterna. L’idea principale è quella di localismo autarchico,<br />

cioè <strong>una</strong> chiusura difensiva verso i processi globalizzanti (Trigilia 2005)<br />

• •<strong>Sviluppo</strong> locale come processo spontaneo nel quadro <strong>del</strong> laissez-faire, con<br />

esiti guidati da <strong>una</strong> razionalità implicita, da “ordine spontaneo”. Questo<br />

processo, chiamato dinamismo locale è basato meramente sulla crescita<br />

economica <strong>per</strong>fettamente inserita nel <strong>paradigma</strong> economicista. Questo<br />

concetto è fortemente <strong>critica</strong>to <strong>per</strong>ché tende a confondere uno sviluppo locale<br />

con un localismo eterodiretto dove la crescita dei sistemi locali avviene<br />

secondo logiche di sviluppo globali (Latouche, 2005, p.40)<br />

• Lo sviluppo locale come processo auto-organizzativo che si fonda sulle<br />

capacità di coo<strong>per</strong>azione e di strategia dei soggetti locali.<br />

Le politiche di sviluppo regionale di natura statale non hanno mai colto l’importanza<br />

dei sistema locali proponendo politiche di tipo keynesiano a sostegno <strong>del</strong>la domanda<br />

regionale. Lo sviluppo locale scardina la logica <strong>del</strong> sostegno alla crescita attraverso<br />

<strong>una</strong> nuova impostazione <strong>del</strong>l’economia istituzionalista. “Da quest’ultima deriva<br />

l’idea che l’economia è plasmata da forze collettive stabili, che la rendono un<br />

processo “istituito” e non un sistema meccanico basato sulle preferenze individuali.<br />

Le forze collettive sono, da un lato, le istituzioni formali – regole, leggi,<br />

organizzazioni – e, dall’altro, quelle informali, come le abitudini individuali, le<br />

routine di gruppo e i valori e le norme sociali (Amin, 1999 in De Luca, Salone 2008,<br />

p.55)<br />

L’idea di fondo è quella di valorizzare la ricchezza dei luoghi come fonte primaria di<br />

sviluppo e rinnovamento, assicurando la competitività economica mobilitando il<br />

potenziale endogeno <strong>del</strong>le regioni meno favorite. Si favoriscono interventi locali, dal<br />

basso, specifici <strong>per</strong> ciasc<strong>una</strong> regione, di lungo <strong>per</strong>iodo e incentrati su <strong>una</strong> pluralità<br />

di attori che rompono con l’ortodossia <strong>del</strong>la politica economica (Amin, 1999)<br />

Sulla base di questi assunti, lo stimolo allo sviluppo economico è visto in <strong>una</strong><br />

prospettiva nuova:<br />

142


- le politiche si concentrano sul rafforzamento <strong>del</strong>le reti associative e non sul singolo<br />

attore (Cooke e Morgan, 1998);<br />

- la finalità <strong>del</strong>le politiche è di promuovere la negoziazione e far emergere razionalità<br />

procedurali e adattive negli attori;<br />

- il processo di governance si fonda sulla mobilitazione di <strong>una</strong> pluralità di<br />

organizzazioni anche al di fuori degli attori di mercato e degli attori pubblici;<br />

- l’insieme di questi attori e organizzazioni costituiscono un’institutional thickness<br />

che garantisce la tenuta sociale <strong>del</strong>lo sviluppo economico (Amin, Thrift, 1994);<br />

- le politiche devono essere forgiate sulle specificità contestuali e sensibili nei<br />

confronti <strong>del</strong>le path dependencies. (in De Luca, Salone, 2008, p.55)<br />

In questa prima visione sembra <strong>per</strong>ò emergere continuamente l’elemento <strong>del</strong>la<br />

competitività territoriale che, come si vedrà in seguito, difficilmente si integra con il<br />

concetto di sviluppo <strong>civile</strong>, dato che il fatto stesso che i sistemi locali debbano<br />

competere in un sistema globale non li esula dall’essere parte di quel <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo capitalistico <strong>del</strong> quale si è parlato nei primi capitoli. Infatti tra le fila degli<br />

scienziati sociali “progressisti” non mancano quanti, pur concordando con l’assunto<br />

secondo il quale occorre valorizzare le risorse locali, mettono in luce le<br />

problematiche riscontrate da politiche incentrate su questo nuovo approccio, ad<br />

esempio l’esiguità <strong>del</strong> numero <strong>del</strong>le o<strong>per</strong>e realizzate all’interno dei progetti di<br />

sviluppo nel Mezzogiorno <strong>del</strong>le quali sia possibile valutare i benefici <strong>per</strong> le società<br />

meridionali. Eppure, nemmeno questo quadro critico sembra annullare il valore di<br />

un’es<strong>per</strong>ienza che ha rovesciato l’impostazione tradizionale, centralizzata e<br />

gerarchica, <strong>del</strong>le politiche regionali tradizionali, ha sviluppato le istanze di un<br />

policentrismo strutturalmente importante ma poco valorizzato (Salone, 2005), ha<br />

promosso <strong>una</strong> responsabilizzazione <strong>del</strong>le élites dirigenti locali rispetto agli obiettivi<br />

<strong>del</strong>le azioni di sviluppo e ha spostato il fuoco sui fattori istituzionali <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

(nel senso <strong>del</strong>le well structured institutions di Hayek). (De Luca, Salone 2008, p. 56).<br />

L’impostazione istituzionalista, di valorizzazione <strong>del</strong> territorio, è corretta ma, come<br />

mettono in luce Salone e De Luca: “la strada da <strong>per</strong>correre sembra quella di <strong>una</strong><br />

rivisitazione dei concetti-chiave alla luce <strong>del</strong>le pratiche, <strong>per</strong>ché essi non diventino<br />

refrain tanto frequenti da rischiare la vacuità (Hadjimichalis, 2006) o da riproporre,<br />

143


come è stato precocemente denunciato da Amin e Tomaney (1995), <strong>una</strong> semplice<br />

“decentralizzazione” di mo<strong>del</strong>li di sviluppo im<strong>per</strong>niati sulla mera competitività<br />

economica. (De Luca, Salone, 2008, p. 66).”<br />

In quest’ottica è possibile integrare lo sviluppo locale con l’economia <strong>civile</strong><br />

formalizzando il concetto di sviluppo <strong>civile</strong>, valorizzando, come dice Amin, la<br />

ricchezza dei luoghi, attraverso la produzione di beni collettivi locali e la<br />

valorizzazione <strong>del</strong> capitale sociale (Trigilia, 2005).<br />

Il concetto di capitale sociale 2 come le relazioni sociali tra soggetti individuali,<br />

assume, nell’ottica <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong>, un significato importante poiché in alcune<br />

circostanze il capitale sociale diviene sinonimo di cultura civica (civicness), cioè <strong>una</strong><br />

cultura condivisa che limiti i comportamenti opportunistici e favorisce la<br />

coo<strong>per</strong>azione. (Trigilia, 2005, capitolo secondo)<br />

Emerge un nuovo <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo locale che non è basato né sulle<br />

impostazioni gerarchiche <strong>del</strong>la vecchia programmazione né sul riduzionismo <strong>del</strong>le<br />

retoriche <strong>del</strong>lo sviluppo locale (il localismo) 3 (Salone, 2007, p. 93), che rischiano di<br />

trascurare le relazioni con i soggetti esterni al territorio, focalizzandosi<br />

eccessivamente sul capitale sociale insito al territorio stesso. Elementi centrali di<br />

questo nuovo <strong>paradigma</strong> sono:<br />

• Una governance di multi- livello, che coordinando le varie istituzioni ed i vari<br />

stakeholders, non deve trascurare attori <strong>del</strong>la società <strong>civile</strong> che non sono<br />

legati in modo evidente al sistema economico, ma che possono rivestire un<br />

ruolo fondamentale nello sviluppo economico e “<strong>civile</strong>”.<br />

• Una forte coesione sociale che favorisca la coo<strong>per</strong>azione tra livelli<br />

istituzionali e territori, ma anche tra gli attori stessi<br />

• L’integrazione tra settori, attori, risorse e politiche <strong>per</strong> esprimere in modo<br />

coerente <strong>una</strong> pianificazione territoriale volta allo sviluppo locale<br />

2 Per approfondire il tema <strong>del</strong> capitale sociale rimandiamo a Boerdieu (1995), Coleman (1988) e<br />

Putnam (1993)<br />

3 Per “localismo”, in questo caso, si intende quel fenomeno che carica di eccessiva enfasi l’importanza<br />

dei processi economici locali, a discapito <strong>del</strong>le influenze esterne.<br />

144


Tutti questi elementi, oltre a rivestire un ruolo fondamentale <strong>per</strong> il nuovo <strong>paradigma</strong><br />

<strong>del</strong>lo sviluppo locale, sono di primaria importanza <strong>per</strong> costruire le basi logiche <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo <strong>civile</strong>.<br />

Prima di approfondire il concetto di sviluppo <strong>civile</strong> è necessario introdurre l’altro<br />

componente concettuale che <strong>per</strong>mette di capire realmente il nuovo <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo cioè l’economia <strong>civile</strong>.<br />

145


Introduzione all’economia <strong>civile</strong><br />

La prospettiva <strong>del</strong>l’Economia Civile non è <strong>una</strong> scuola di pensiero in senso proprio,<br />

ma è un modo di guardare la realtà economica, <strong>per</strong> trarre indicazioni di soluzione dei<br />

problemi. Essa è <strong>una</strong> prospettiva culturale dalla quale interpretare l’intera economia,<br />

e dalla quale gettare le basi <strong>per</strong> <strong>una</strong> diversa teoria economica. (Zamagni, 2004, p.15)<br />

Questa prospettiva ha radici antiche e, precisamente, nell’umanesimo <strong>civile</strong> <strong>del</strong> 1400<br />

quando nasce, in Italia, l’economia di mercato, intesa come mo<strong>del</strong>lo di ordine<br />

sociale, cioè come modo di organizzare la società sotto il profilo sia economico che<br />

sociale. All’epoca <strong>del</strong>l’umanesimo <strong>civile</strong> questa corrente di pensiero, appunto<br />

<strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong>, vede le sue radici e si sviluppa fino alla metà circa <strong>del</strong> 1700,<br />

l’epoca <strong>del</strong>l’illuminismo italiano. Tralasciando alcuni aspetti storici <strong>del</strong>l’economia<br />

<strong>civile</strong> si può individuarne il padre in Antonio Genovesi che <strong>per</strong> primo al mondo<br />

tenne un corso di economia, cioè “lezioni di economia <strong>civile</strong>”, nel 1752 a Napoli.<br />

Il filosofo umanista Adam Smith può essere considerato l’ultimo degli economisti<br />

“civili” ed il primo degli economisti “politici”. Come si è visto nel primo capitolo,<br />

colui che viene considerato il padre <strong>del</strong>l’economia è <strong>per</strong>fettamente inserito nella<br />

cultura umanista e illuminista <strong>del</strong> suo tempo e considera l’impegno <strong>civile</strong> ed i<br />

fondamenti morali come fondamentali nell’agire economico.<br />

Dov’è la differenza, dunque, tra l’approccio <strong>del</strong>l’Economia Politica e l’approccio<br />

<strong>del</strong>l’Economia Civile? Direi che, <strong>per</strong> essere sintetici, la differenza sta in questo: che<br />

l’Economia Politica si è sviluppata sul fondamento <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo dicotomico di ordine<br />

sociale Stato-mercato. Cioè, nell’orizzonte tematico <strong>del</strong>l’Economia Politica, a<br />

prescindere dalle varie scuole di pensiero che stanno dentro la medesima, la linea di<br />

base è che oggetto di studio <strong>del</strong>l’economista è lo studio dei rapporti tra Stato e<br />

mercato. Questo accom<strong>una</strong> tutte le scuole di pensiero <strong>del</strong>l’Economia Politica. La<br />

differenza sta nel diverso peso specifico. Se noi prendiamo, infatti, la scuola<br />

neomonetarista di Friedman, fondatore <strong>del</strong>la scuola di Chicago, oppure la scuola<br />

austriaca di Von Hayek ed altre, dei due poli Stato- mercato, esse sottolineano il polo<br />

<strong>del</strong> mercato. E’ ormai noto che il pensiero neoliberale, o neoliberista che dir si<br />

voglia, assume che è al mercato che dobbiamo affidare le ragioni <strong>del</strong> successo, <strong>del</strong><br />

146


progresso economico e sociale di <strong>una</strong> comunità e di un Paese. Se rivolgiamo, invece,<br />

l’attenzione ad altre scuole di pensiero come quella keynesiana, quella neoricardiana<br />

oppure quella neoistituzionalista così come viene chiamata, notiamo che l’accento<br />

cade più sullo Stato. La parola Stato non significa solo lo Stato centrale ma l’ente<br />

pubblico in generale, cioè chi ha un potere che gli deriva dalla legittimazione di tipo<br />

democratico, attraverso procedure elettorali. Quindi noi diciamo Stato non <strong>per</strong><br />

significare uno Stato nazionale, ma <strong>per</strong> significare ogni ente (quindi Stato è anche il<br />

Comune o la Regione) che ha un potere che deriva da un processo di legittimazione<br />

democratica. Altre scuole di pensiero, <strong>per</strong>tanto, sottolineano di più la necessità<br />

<strong>del</strong>l’intervento <strong>del</strong>lo Stato inteso in questo senso, <strong>per</strong> correggere i cosiddetti<br />

fallimenti <strong>del</strong> mercato (market failures). Ma a prescindere da queste differenze, che<br />

sono notevoli, tutto l’impianto teorico <strong>del</strong>l’Economia Politica è esattamente basato<br />

sul mo<strong>del</strong>lo Stato-mercato. Perciò, la società <strong>per</strong> progredire, sotto il profilo<br />

economico, deve avvalersi di questi due pilastri. E quali sono i principi regolativi di<br />

questi due pilastri? Il principio regolativo <strong>del</strong> mercato è lo scambio di equivalenti di<br />

valore, cioè l’efficienza; <strong>per</strong> lo Stato il principio è l’equità.<br />

Il pensiero neoliberale dice che è più importante il mercato <strong>per</strong> creare ricchezza e<br />

reddito. Il mercato, che lavora secondo il principio <strong>del</strong>lo scambio di equivalenti,<br />

<strong>per</strong>mette di massimizzare il non spreco <strong>del</strong>le risorse, il risultato di efficienza e così<br />

via. Altre scuole dicono che è più importante lo Stato che redistribuisce e consente di<br />

ottenere un risultato di equità; diversamente, non si può andare molto lontano. Al di<br />

là di queste differenze, che non sono di poco conto, rimane il fatto che nella lunga<br />

storia <strong>del</strong> pensiero <strong>del</strong>l’Economia Politica, il binomio Stato- mercato è l’elemento<br />

che accom<strong>una</strong> le varie scuole. Ma, come scrive lo stesso Zamagni: “Un ordine<br />

sociale , quale esso sia, ha bisogno di tre principi regolativi, distinti ma non<br />

indipendenti, <strong>per</strong> potersi sviluppare in modo armonico”. I primi due sono efficienza<br />

ed equità, il terzo è il principio di reciprocità, che si basa sulla società <strong>civile</strong> ed è i<br />

principio cardine <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong>.(Zamagni, 2004, p.21).<br />

La società <strong>civile</strong> ha un ruolo attivo nell’economia, e non è solo, come pensano molti<br />

grandi economisti, un presupposto a Stato e mercato. Il principio di reciprocità si<br />

differenzia dal principio proprio <strong>del</strong> concetto di equità, cioè quello <strong>del</strong>lo scambio di<br />

equivalenti, poiché il primo è tripolare, transitivo, invece quello <strong>del</strong>lo scambio di<br />

147


equivalenti è biunivoco. Nello scambio di equivalenti la relazione <strong>del</strong>la controparte<br />

(ad esempio, il pagamento) non è libera ma necessitata. Nella relazione di reciprocità<br />

non è così. Innanzitutto, nella relazione di reciprocità il trasferimento <strong>del</strong>la cosa<br />

precede, non è vincolato alla determinazione <strong>del</strong> prezzo di equilibrio. In secondo<br />

luogo, colui che riceve non è affatto obbligato a contraccambiare. Il principio di<br />

reciprocità postula, all’origine, l’atto di gratuità, dove gratuità, <strong>per</strong>ò, non vuol dire<br />

non essere pagati, gratuità è un’ esplicitazione <strong>del</strong> principio <strong>del</strong> dono. Il principio e la<br />

cultura <strong>del</strong>la reciprocità è elemento fondamentale affinché sia il mercato che lo stato<br />

possano funzionare.<br />

L’idea <strong>del</strong>l’Economia Civile è esattamente questa: noi abbiamo bisogno sicuramente<br />

<strong>del</strong>lo scambio di equivalenti, <strong>per</strong>ché l’efficienza è cosa buona, sicuramente abbiamo<br />

bisogno <strong>del</strong>la redistribuzione, <strong>per</strong>ché l’equità è cosa buona, ma non basta. Abbiamo<br />

bisogno di far circolare a livello economico, non solo a livello di presupposto, anche<br />

il principio di reciprocità. Abbiamo bisogno che nella società, di cui stiamo parlando,<br />

le pratiche <strong>del</strong>la reciprocità non siano, come dire, un’eccezione, ma siano la regola.<br />

Perché soltanto la pratica <strong>del</strong>la reciprocità serve a tenere in piedi ed a far funzionare<br />

bene sia il mercato sia lo Stato. La cultura <strong>del</strong>la modernità, cioè degli ultimi due<br />

secoli, due secoli e mezzo, ha avuto questo difetto: averci fatto credere che bastasse<br />

l’efficienza e l’equità.<br />

L’economia <strong>civile</strong> è necessaria <strong>per</strong> ricucire quel gap che la scienza economica,<br />

attraverso la politica economica, ha scavato tra etica ed economia, tra ricerca <strong>del</strong>la<br />

felicità e ricerca <strong>del</strong>la ricchezza. La teoria economica mainstream, fondata su<br />

utilitarismo e sull’equilibrio, tende a mettere in contrapposizione efficienza ed equità<br />

(la famigerata metafora <strong>del</strong>la torta è indicativa) individuando l’economia come tutto<br />

ciò che non- tuismo, cioè tutto ciò che è anonimo e strumentale. (p.105) L’economia<br />

neoclassica ha espulso il principio di reciprocità dall’economia e con esso ogni tipo<br />

di collegamento tra etica e scienza economica.<br />

Il fine cui tende il principio di reciprocità è la fraternità, il principio di fraternità.<br />

La fraternità è <strong>una</strong> <strong>del</strong>le tre parole sulla base <strong>del</strong>le quali è stata combattuta la<br />

rivoluzione francese: liberté, egalitè, fraternitè, ma la parola fraternità è stata<br />

respinta di fatto negli ultimi due secoli. Ma la fraternità non è la stessa cosa <strong>del</strong>la<br />

solidarietà <strong>per</strong>ché quest’ultima, che è fondamentale, è il principio che tende a rendere<br />

148


eguali i diversi. Ma la fraternità è il principio che consente agli eguali di essere<br />

diversi, quindi è il complemento di solidarietà. Una società che è solo solidale non è<br />

capace di progresso, <strong>per</strong>ché non è capace di accumulare capitale <strong>civile</strong>. Per il capitale<br />

<strong>civile</strong> ci vuole fraternità, che vuol dire consentire agli eguali di essere diversi; cioè<br />

affermare, come dire, la propria visione <strong>del</strong> mondo, il proprio stile di vita, la propria<br />

concezione. Se noi non consentiamo questo, si nota il calo di creatività, <strong>per</strong>ché la<br />

solidarietà senza fraternità tende ad uniformare, a livellare tutti.<br />

L’idea di reciprocità si fonda sull’autorealizzazione <strong>del</strong>la <strong>per</strong>sone, cioè la sua<br />

fioritura, l’eudaimonia aristotelica: ho bisogno <strong>del</strong>l’altro <strong>per</strong> scoprire che vale la<br />

pena che io fiorisca. La realizzazione <strong>del</strong> sé è il risultato <strong>del</strong>l’interazione. Il<br />

riconoscimento <strong>del</strong>l’altro e il nostro riconoscimento da parte <strong>del</strong>l'altro è fondamento<br />

<strong>del</strong>la reciprocità, <strong>del</strong>la fraternità. (pag.173)<br />

Il principio di reciprocità si fonda sul dono, non come strumento, ma come l’inizio di<br />

<strong>una</strong> serie di atti reciproci, ciò che Latouche individuerebbe nella convivialità.<br />

Questo aspetto <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong> è fondamentale poiché ci <strong>per</strong>mette di legare un<br />

mo<strong>del</strong>lo di sviluppo basato sulla convivialità decrescente (capitolo quinto) a mo<strong>del</strong>li<br />

di sviluppo che si potrebbero definire di mercato.<br />

La sfida <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong> è quella di ricercare i modi di far coesistere, all’interno<br />

<strong>del</strong> medesimo sistema sociale, tutti e tre i principi regolativi: efficienza, equità e,<br />

soprattutto reciprocità. (p.23)<br />

Per concludere questa breve introduzione all’economia <strong>civile</strong> è necessario chiarire<br />

alcuni aspetti che saranno estremamente utili nell’elaborazione <strong>del</strong> concetto di<br />

sviluppo <strong>civile</strong>.<br />

Il primo aspetto è legato al modo in cui la società <strong>civile</strong> può diventare soggetto<br />

economico e cioè attraverso il non profit, o welfare <strong>civile</strong>. Ai fallimenti <strong>del</strong> mercato e<br />

ai fallimenti <strong>del</strong>lo stato 4 esiste <strong>una</strong> proposta alternativa di welfare quella <strong>civile</strong>.<br />

Secondo il mo<strong>del</strong>lo di welfare <strong>civile</strong> le organizzazioni <strong>del</strong>la società <strong>civile</strong> devono<br />

essere partner attivi nel processo di programmazione degli interventi. Essi non solo<br />

devono essere autonomi da mercato tradizionale e Stato ma devono avere capacità di<br />

essere indipendenti economicamente e finanziariamente: ciò prevede un vero e<br />

4 A questo proposito si segnalano i libri di Buchanan e Tullock sulla public choice<br />

149


proprio mercato sociale. Questo mo<strong>del</strong>lo prevede un “mercato” composto da imprese<br />

sociali e civili formate dai cittadini. (Zamagni, 2004, capitolo ottavo).<br />

Alla base di questo ragionamento c’è l’idea seniana <strong>del</strong>le capacitazioni (capitolo<br />

terzo) in cui l’attenzione non è posta sulla prestazione ma sulla capacità degli<br />

individui di poterne usufruire. Il rapporto tra Stato e cittadini non può né diventare un<br />

rapporto erogatore – utente né, come vorrebbero i liberisti, un rapporto venditore –<br />

utente ma bisogna favorire l’organizzazione di <strong>una</strong> vera e propria struttura<br />

istituzionale fondata sulle libertà civili e la società <strong>civile</strong>.(pp. 237-238). Un mo<strong>del</strong>lo<br />

di sviluppo basato sulle capacitazioni necessita un mo<strong>del</strong>lo di welfare <strong>civile</strong> e<br />

partecipato.<br />

In conclusione di questo paragrafo si possono già intuire i lineamenti di un<br />

<strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong>, ma è necessario chiarire due aspetti fondamentali: il<br />

capitale sociale e la felicità.<br />

Il capitale sociale, così come si è visto nel paragrafo precedente, è un elemento<br />

centrale <strong>per</strong> lo sviluppo poiché attraverso ad esso si favoriscono fiducia e<br />

coo<strong>per</strong>azione <strong>civile</strong>. (Radhuber 2008, p.8). Zamagni, precisamente, parla di capitale<br />

<strong>civile</strong>, concetto ancora più ampio che comprende il capitale sociale (cioè le relazioni,<br />

come inteso da Trigilia), l’assetto istituzionale democratico e la capacità di produrre<br />

beni relazionali.<br />

La felicità non è sinonimo di ricchezza così come sviluppo non è sinonimo di<br />

crescita ed in questo la posizione <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong> ricalca le critiche seniane a cui<br />

si è dato spazio nel terzo capitolo. Inoltre l’economia <strong>civile</strong> accoglie il contributo di<br />

quegli studi che legano la felicità <strong>del</strong>le <strong>per</strong>sone al loro grado di partecipazione alla<br />

vita <strong>civile</strong>, politica e democratica. L’economia <strong>civile</strong>, in conclusione, vorrebbe<br />

umanizzare il mercato rendendolo luoghi di incontri civili e civilizzanti, dove la<br />

felicità torni ad essere al centro <strong>del</strong> pensiero economico stesso.<br />

In questo senso è corretto introdurre ora il <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong>, inteso<br />

come miglioramento qualitativo e quantitativo <strong>del</strong> capitale <strong>civile</strong>, in un contesto di<br />

democrazia economica sostenibilità ambientale.<br />

150


Lo sviluppo <strong>civile</strong><br />

L’approccio istituzionalista <strong>del</strong>lo sviluppo locale, con le sue componenti critiche, e<br />

l’approccio <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong> sembrano ben integrarsi nel concetto di sviluppo<br />

<strong>civile</strong>.<br />

Una recente letteratura ha individuato nel concetto di “social economy”<br />

un’alternativa di sviluppo che rifiuta il <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>la sola competizione di mercato<br />

(Amin e Tomaney 1995, Amin, Cameron e Hudson 2002).<br />

La “social economy” si riferisce solitamente al Terzo Settore, tra il sistema privato di<br />

mercato ed il sistema pubblico di governo. A questo settore solitamente vengono<br />

associale le coo<strong>per</strong>ative, le ONG e le fondazioni (charities).<br />

Questa nuova “economia” alternativa può essere considerata il “terreno” di incontro<br />

tra lo sviluppo locale e l’economia <strong>civile</strong>. In questo senso il contributo di autori di<br />

scuola “istituzionalista” come Amin, è sicuramente fondamentale.<br />

Secondo Zamagni l’economia sociale si distingue dall’economia <strong>civile</strong> in quanto la<br />

prima interviene sul lato <strong>del</strong>l’offerta o<strong>per</strong>ando in modo da “umanizzare” i processi di<br />

produzione mentre l’economia <strong>civile</strong> interviene sul lato <strong>del</strong>la domanda <strong>per</strong>mettendo<br />

ai cittadini di organizzarsi e strutturarsi <strong>per</strong> poter interloquire in modo autonomo con<br />

i soggetti <strong>del</strong>l’offerta. (Zamagni, 2002).<br />

Il nuovo <strong>paradigma</strong> offerto dal binomio economia sociale – economia <strong>civile</strong> è quello<br />

di un mo<strong>del</strong>lo alternativo che non abbia <strong>per</strong>ò la pretesa di scardinare né il libero<br />

mercato o né il welfare state, fondato sull’azione statale.<br />

L’idea di fondo <strong>del</strong>l’approccio strutturalista di Amin è che le politiche neo-liberiste<br />

<strong>per</strong> lo sviluppo degli anni Ottanta sono fallite <strong>per</strong>ché oltre a aumentare la<br />

disoccupazione e a favorire le disparità sociali e regionali, hanno mancato anche il<br />

loro obiettivo principale cioè la crescita. L’economia sociale può invece creare la<br />

basi di quella “coesione” che è l’elemento centrale, <strong>per</strong> esempio, <strong>del</strong>la politica<br />

comunitaria europea. (Amin e Tomaney 1995).<br />

E’ facilmente intuibile la complementarità tra la coesione richiesta dalla comunità<br />

europea e la fraternità <strong>del</strong>l’economia <strong>civile</strong>.<br />

151


Fondamentale, <strong>per</strong>o, è che l’economia sociale non venga associata troppo al<br />

<strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>l’economia neo-liberista stravolgendo il senso stesso di quello che<br />

vuole essere un <strong>paradigma</strong> alternativo.<br />

L’approccio <strong>del</strong>lo sviluppo locale inteso come valorizzazione dei territori in un’ottica<br />

di economia sociale e <strong>civile</strong> deve rifiutare la logica <strong>del</strong>la competitività di mercato <strong>per</strong><br />

evitare che questo tipo di economia o le imprese sociali diventino solo un modo <strong>per</strong><br />

rendere più “appetibile” al mercato un territorio o un’impresa.<br />

Un elemento centrale <strong>del</strong>la <strong>critica</strong> radicale a questo tipo di economia sociale, e quindi<br />

di sviluppo, è proprio inerente all’idea di “capitale sociale” che non deve essere un<br />

concetto astratto, pronto ad essere “sbandierato” <strong>per</strong> migliorare la competitività di un<br />

territorio, ma deve essere elemento fondamentale di un’economia basata sulla fiducia<br />

e la coo<strong>per</strong>azione. La <strong>per</strong>icolosità <strong>del</strong>l’uso <strong>del</strong> concetto di “capitale sociale” come di<br />

“particelle elementari <strong>per</strong> descrivere il successo o il fallimento di intere comunità”<br />

(Hadjimichalis 2006) rischia di svuotarne il significato, caricando di eccessivo peso<br />

il suo valore<br />

L’idea “poetica” di un capitale sociale che unisce tutti e crea l’immaginario di <strong>una</strong><br />

società priva di conflitto rischia di <strong>del</strong>egittimare l’importanza stessa <strong>del</strong>le relazioni<br />

sociali che non sono fatte solo di fiducia e coo<strong>per</strong>azione ma anche di scontri e<br />

contrapposizioni. Il capitale sociale, inteso come centro di rapporti coo<strong>per</strong>ativi, non<br />

nasce dal nulla ma dovrebbe aiutare a rinsaldare i legami tra economia, cultura e<br />

società, che non risaltino lo scontro e la competizione, come il mondo neo-liberista<br />

ha imposto negli ultimi decenni, ma l’incontro.<br />

L’idea di sviluppo <strong>civile</strong> prescinde da questi aspetti e, quindi, la valorizzazione <strong>del</strong><br />

territorio e <strong>del</strong> suo capitale sociale dipende da un’idea di sviluppo che non può essere<br />

quella neo-liberista di mercato, focalizzata solo sulla crescita. I progetti di economia<br />

sociale e di economia <strong>civile</strong> (sia dal lato <strong>del</strong>la domanda che dal lato <strong>del</strong>l’offerta) non<br />

possono realizzarsi esclusivamente nel “Terzo settore” ma devono contribuire<br />

attivamente alla creazione di un <strong>paradigma</strong> alternativo di sviluppo. E’ importante<br />

avere presente il rischio <strong>del</strong>l’affermazione <strong>del</strong>l’idea che il “Terzo Settore”debba<br />

essere <strong>una</strong> via intermedia che insegue chi è “vincente”, dato che la distinzione tra<br />

vincitori e vinti viene effettuata in base al successo economico nel libero mercato.<br />

(Hadjimichalis e Hudson, 2007).<br />

152


I principi su cui si fonda lo sviluppo <strong>civile</strong> sono la coo<strong>per</strong>azione e la democrazia<br />

economica e non il successo di un mo<strong>del</strong>lo territoriale da esportare.<br />

Lo sviluppo <strong>civile</strong> in un’economia sociale, intesa come alternativa all’economia di<br />

mercato, contribuisce alla formazione di un’alternativa basata sulle pratiche di<br />

democrazia economica, sulle relazioni sociali e sul miglioramento <strong>del</strong>la “cittadinanza<br />

sociale” (Hadjimichalis e Hudson, 2007, p.103).<br />

Un ruolo importante <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> potrebbe essere quello di aumentare<br />

l’integrazione dei soggetti più discriminati (immigrati, poveri, donne..) diminuendo,<br />

oltre che le disuguaglianze economiche, l’esclusione sociale e favorendo coloro che<br />

rischiano di essere esclusi sia dall’economia di mercato sia da <strong>una</strong> politica statale<br />

sempre più corporativa, che tende ad escludere molti soggetti svantaggiati.<br />

Un esempio di intervento <strong>per</strong> favorire lo sviluppo <strong>civile</strong> è il bilancio partecipato che<br />

favorisce la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica ed economica <strong>del</strong>la<br />

propria città o comunità.<br />

La partecipazione attiva si realizza innanzitutto su base territoriale. Nel corso di<br />

riunioni pubbliche la popolazione di ciasc<strong>una</strong> circoscrizione è invitata a precisare i<br />

suoi bisogni e a stabilire <strong>del</strong>le priorità in vari campi o settori (ambiente, educazione,<br />

salute...). A questo si aggiunge <strong>una</strong> partecipazione complementare organizzata su<br />

base tematica attraverso il coinvolgimento di categorie professionali o lavorative<br />

(sindacati, imprenditori, studenti..). Ciò <strong>per</strong>mette di avere <strong>una</strong> visione più completa<br />

<strong>del</strong>la città, attraverso il coinvolgimento dei settori produttivi <strong>del</strong>la città. La<br />

municipalità o il comune è presente a tutte le riunioni circoscrizionali e a quelle<br />

tematiche, attraverso un proprio rappresentante, che ha il computo di fornire le<br />

informazioni tecniche, legali, finanziarie e <strong>per</strong> fare <strong>del</strong>le proposte, attento, <strong>per</strong>ò, a<br />

non influenzare le decisioni dei partecipanti alle riunioni.<br />

Alla fine ogni gruppo territoriale o tematico presenta le sue priorità all'Ufficio di<br />

pianificazione, che stila un progetto di bilancio, che tenga conto <strong>del</strong>le priorità<br />

indicate dai gruppi territoriali o tematici. Il bilancio viene alla fine approvato dal<br />

consiglio com<strong>una</strong>le. Nel corso <strong>del</strong>l'anno, attraverso apposite riunioni la cittadinanza,<br />

valuta la realizzazione dei lavori e dei servizi decisi nel bilancio partecipativo<br />

<strong>del</strong>l'anno precedente.<br />

153


Di solito le amministrazioni com<strong>una</strong>li, visti anche i vincoli di bilancio cui sono tenuti<br />

<strong>per</strong> legge, riconoscono alle proposte avanzate dai gruppi di cittadini la possibilità di<br />

incidere su <strong>una</strong> certa <strong>per</strong>centuale <strong>del</strong> bilancio com<strong>una</strong>le (dal 10 al 25%)<br />

Nonostante sia un intervento che rimane nel contesto <strong>del</strong>l’attività pubblica, il<br />

bilancio partecipato <strong>per</strong>mette <strong>una</strong> forma di democrazia diretta molto importante che<br />

favorisce la coesione dei cittadini di <strong>una</strong> stessa città o quartiere.<br />

Forme di democrazia diretta come questa e forme di coo<strong>per</strong>azione e associazionismo<br />

nate all’interno <strong>del</strong> capitale sociale di <strong>una</strong> comunità <strong>per</strong>mettono di contribuire al<br />

mo<strong>del</strong>lo di sviluppo <strong>civile</strong> che viene descritto in questo capitolo.<br />

La presenza di “imprese sociali” e di un relativo mercato sociale <strong>per</strong>mette ad<br />

iniziative di valorizzazione territoriale di uscire dalla logica <strong>del</strong>la competitività <strong>del</strong><br />

libero mercato creando domanda ed offerta (economia sociale e <strong>civile</strong>) di <strong>una</strong> forma<br />

nuova di “economia”. Il binomio “<strong>civile</strong>” e “sociale” ha l’obiettivo di colmare quel<br />

deficit di reciprocità che viene evidenziato dall’economia <strong>civile</strong> e di creare quella<br />

coesione fondamentale che è anche molto importante <strong>per</strong> alcune politiche europee<br />

(FSE) 5 .<br />

Ciò che risulta fondamentale <strong>per</strong>ò è che non dobbiamo chiederci in che modo<br />

possiamo aumentare la competitività di un territorio ma in che modo possiamo<br />

migliorare la salute e le condizioni di vita di tale territorio; non dobbiamo chiederci<br />

in che modo favorire le learning regions o le learning firms ma in che modo<br />

sviluppare un economia capace di supportare diverse forme di imprenditorialità<br />

locale ed un piano <strong>per</strong> le questioni legate all’immigrazione indotta dallo sviluppo;<br />

inoltre, invece di seguire l’idea che tutto sia sovrimposto dalle forze <strong>del</strong>la<br />

globalizzazione, dovremmo partecipare alla vita democratica locale <strong>per</strong> migliorare la<br />

qualità <strong>del</strong>la vita locale. (Hadjimichalis e Hudson, 2007, p.107)<br />

In sintesi tutte le politiche europee <strong>per</strong> lo sviluppo, la coesione e l’occupazione<br />

dovrebbero favorire un mo<strong>del</strong>lo alternativo che non sia succube <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo attuale<br />

5 Il Fondo Sociale Europeo è uno dei più importanti strumenti finanziari <strong>del</strong>l'Unione Europea,<br />

nell'ambito <strong>del</strong>le politiche comunitarie la sua azione si esplica nello sviluppo e nel finanziamento di<br />

<strong>una</strong> serie di progetti volti allo sviluppo e alla promozione <strong>del</strong>la coesione tra i diversi stati membri, nel<br />

quadro <strong>del</strong> Trattato di Roma siglato nel 1957, che sancì la nascita <strong>del</strong>la Comunità Economica Europea<br />

(www.fondosocialeeuropeo.it). Per un commento critico: Amin e Tomaney (1995)<br />

154


ma che ambisca a cambiarne la natura <strong>per</strong>, usando le parole di Zamagni, umanizzare<br />

l’economia di mercato.<br />

Lo sviluppo <strong>civile</strong> porta con sé necessariamente elementi di riformismo radicale <strong>del</strong><br />

sistema capitalistico che, <strong>per</strong>ò, non prevedono né il su<strong>per</strong>amento di tale sistema né la<br />

negazione <strong>del</strong>lo sviluppo capitalistico.<br />

Lo sviluppo di imprese sociali localizzate, di coo<strong>per</strong>ative il cui elemento centrale è la<br />

reciprocità, di forme di democrazia economica diretta sono esempi <strong>del</strong> tentativo di<br />

sviluppare un egemonia politica 5 sugli interventi di sviluppo locale e regionale,<br />

attraverso i principi di democrazia (Hadjimicalis e Hudson, 2007, p.107).<br />

Questi segnali si integrano <strong>per</strong>fettamente alla <strong>critica</strong> al <strong>paradigma</strong> mercato-centrico<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo, dove tutto è competizione.<br />

In conclusione di questo paragrafo, gli elementi caratterizzanti <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong><br />

possono essere riassunti in: la valorizzazione <strong>del</strong> capitale <strong>civile</strong> e sociale <strong>del</strong><br />

territorio, la democrazia economica, la coo<strong>per</strong>azione e la reciprocità.<br />

Il contributo <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> tende a favorire un “capitalismo migliore”<br />

fortificando l’economia sociale e l’incontro tra società <strong>civile</strong> ed istituzioni nel<br />

contribuire allo sviluppo <strong>del</strong>la società.<br />

5 Il riferimento è agli scritti sull’egemonia presenti nelle lettere dal carcere di Antonio Gramsci (2007)<br />

155


La fine <strong>del</strong>l’economia: l’inizio <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

Il titolo di questo paragrafo prende spunto dal famoso saggio di Sergio Ricossa: “La<br />

fine <strong>del</strong>l’economia”. Ricossa individua in Keynes e Marx due <strong>per</strong>fettisti il cui fine<br />

ultimo deve essere la fine <strong>del</strong>l’economia. Concordo con l’economista torinese<br />

nell’affermare che sia Keynes, che Marx aspirino a liberare l’uomo dallo<br />

sfruttamento e dal bisogno capitalistico e individuino nel sistema di mercato la fonte<br />

<strong>del</strong>la priorità di alcuni sentimenti negativi, come l’avarizia. La profezia di Keynes è<br />

particolarmente esplicativa: “il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il<br />

problema <strong>per</strong>manente <strong>del</strong>la razza umana.. Vedo quindi uomini liberi tornare ad<br />

alcuni dei principi più solidi ed autentici <strong>del</strong>la religione e <strong>del</strong>le virtù tradizionali: che<br />

l’avarizia è un vizio, l’esazione <strong>del</strong>l’usura <strong>una</strong> colpa, l’amore <strong>per</strong> il denaro è<br />

spregevole, e che chi meno si affanna <strong>per</strong> il domani cammina veramente sul sentiero<br />

<strong>del</strong>la virtù e <strong>del</strong>la profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e<br />

preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora<br />

e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle<br />

cose, i gigli <strong>del</strong> campo che non seminano e non filano” (J.M. Keynes, 1991,<br />

Esortazioni e profezie, p.63-64).<br />

Un altro elemento centrale <strong>per</strong> la fine <strong>del</strong>l’economia, secondo Ricossa, è il concetto<br />

di stazionarietà: “Il nirvana è <strong>una</strong> sorta di “stato stazionario”, che si oppone allo<br />

sviluppo senza fine <strong>del</strong>l’economia. […] i <strong>per</strong>fettisti finiscono col ritenere lo sviluppo<br />

economico illimitato un assurdo tanto inopportuno quanto impossibile. Cambia solo<br />

la spiegazione <strong>del</strong>l’impossibilità: talvolta è il difetto di domanda effettiva, talaltra è<br />

l’esaurimento <strong>del</strong>le risorse naturali, che blocca la crescita <strong>del</strong>l’offerta” (Ricossa,<br />

2004, p.77-78). Gli elementi principali emersi in questo lavoro ci sono tutti: scarsità<br />

<strong>del</strong>le risorse, stazionarietà e, riprendendo Keynes, l’aspetto valoriale.<br />

Lo sviluppo <strong>civile</strong>, che abbiamo introdotto nel paragrafo precedente, non ha la<br />

pretesa di voler la fine <strong>del</strong>l’economia, così come non avrebbe voluto la fine<br />

<strong>del</strong>l’economia J. M. Keynes. Lo sviluppo <strong>civile</strong> si inserisce in <strong>una</strong> filosofia che<br />

156


espinge la visione positivista e “apriorista” 6 che vede l’economia come la scienza<br />

<strong>del</strong>la sola azione umana e <strong>del</strong>lo scambio. Come è emerso nel primo capitolo, la<br />

scienza economica è vista come <strong>una</strong> scienza positiva, cioè libera da giudizi di valore.<br />

Anche secondo Ricossa l’economia e, con essa, la scienza economica non sono<br />

soggetti a valutazioni morali, ma è necessario studiare esclusivamente l’azione<br />

umana. La visione <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> non crede che la scienza economica possa<br />

allontanarsi dall’etica e ripropone <strong>per</strong> questo che l’economia torni ad essere <strong>una</strong><br />

scienza umana e “sociale”, allontanandosi sia dal positivismo neoclassico che dalla<br />

prasseologia “austriaca”.<br />

L’economia, come abbiamo visto è “immersa” nella società e la scienza economica è<br />

necessariamente influenzata da sociologia, psicologia e etica. Lo sviluppo <strong>civile</strong>,<br />

partendo da questa convinzione, tende a valorizzare gli aspetti di coo<strong>per</strong>azione tra gli<br />

individui <strong>per</strong> favorire un visione più olistica <strong>del</strong>lo sviluppo stesso.<br />

Si può affermare che questo nuovo <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo che si focalizza sulla<br />

reciprocità e la coo<strong>per</strong>azione si adatti maggiormente ad accogliere le critiche di<br />

coloro che sostengono uno sviluppo ecologicamente sostenibile e uno sviluppo<br />

umano omnicomprensivo. Queste critiche, che sono state tratteggiate nei primi<br />

capitoli, inerenti al deficit etico ed ecologico <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>lo sviluppo vengono<br />

assorbite dall’idea di un’ “evoluzione” <strong>del</strong>lo sviluppo che sia fondato sull’aumento<br />

ed il miglioramento <strong>del</strong> capitale <strong>civile</strong> e sociale <strong>del</strong>la società contemporanea. Un<br />

mo<strong>del</strong>lo basato su qualità <strong>del</strong>la vita, sostenibilità ambientale e coo<strong>per</strong>azione è<br />

intrinseco all’idea <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong>, che può diventare il binario alternativo al<br />

<strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo incontrato nella prefazione.<br />

Un nuovo mo<strong>del</strong>lo che sappia accogliere le critiche “ecologiche” di Daly e le critiche<br />

“etiche” di Sen può fondarsi sull’idea che gli elementi centrali <strong>del</strong>lo sviluppo stesso<br />

non possano essere solamente la crescita e la competitività ma debbano essere lo<br />

sviluppo umano, la sostenibilità ambientale e la libertà in un contesto di democrazia<br />

economica e partecipazione <strong>civile</strong> basata sulla reciprocità.<br />

6 In questo caso ci si riferisce al metodo “presseologico” e “apriorista” di Mises e <strong>del</strong>la Scuola<br />

Austriaca, <strong>del</strong>la quale Ricossa fa parte. Per approfondimenti: Barotta e Raffaelli (1998) e Motterlini<br />

(2000)<br />

157


Non si vuole negare un processo di sviluppo o bandire la parola stessa <strong>per</strong>ché usata<br />

troppo spesso come panacea <strong>per</strong> tutti i mali ma accogliere gli elementi di criticità<br />

esposti nei capitoli precedenti <strong>per</strong> favorire la riformulazione <strong>del</strong> <strong>paradigma</strong> stesso.<br />

Questo nuovo <strong>paradigma</strong> <strong>per</strong>mette la formulazione e l’implementazione di<br />

“politiche” a sostegno <strong>del</strong> miglioramento <strong>del</strong> capitale sociale e <strong>civile</strong> di un territorio.<br />

Si possono individuare tre categorie di interventi:<br />

1) Politiche <strong>per</strong> favorire la partecipazione <strong>civile</strong> e la democrazia economica.<br />

Queste “politiche”, che si possono definire “istituzionali” o strutturali favoriscono<br />

necessariamente la partecipazione dei cittadini, nell’ottica di <strong>una</strong> democrazia<br />

economica partecipata ed attiva. Strumenti come il bilancio partecipativo, o le<br />

politiche di economia sociale di inclusione <strong>del</strong>le fasce più deboli <strong>del</strong>la popolazione o<br />

di formazione <strong>del</strong>le stesse sono esempi <strong>per</strong>fetti di politiche adatte ad uno sviluppo<br />

<strong>civile</strong>. L’idea centrale di tutti questi interventi è quella di porre l’uomo al centro <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo e di favorire la libera partecipazione e la libera coo<strong>per</strong>azione dei cittadini<br />

nella attività economiche.<br />

Strumenti di programmazione territoriale focalizzati su un sistema partecipativo<br />

bottom-up sono sicuramente utili alla formazione di questo <strong>paradigma</strong>.<br />

2) Politiche <strong>per</strong> incrementare la coesione e la reciprocità.<br />

Si possono auspicare interventi di agevolazione fiscale e “infrastrutturale” che<br />

favoriscano l’emergere di economie non profit che sia fondino su <strong>una</strong> reale<br />

reciprocità e non su criteri di mercato; interventi volti a favorire la nascita di<br />

associazioni di consumo solidale e alternativo che influenzino la domanda stessa di<br />

beni. Si auspica un aumento <strong>del</strong>la coo<strong>per</strong>azione e <strong>del</strong>la coesione sociale a sostegno<br />

<strong>del</strong> capitale sociale con particolare attenzione alla valorizzazione dei territori,<br />

secondo <strong>una</strong> logica di miglioramento <strong>del</strong>la qualità <strong>del</strong>la vita e non di competitività. Il<br />

contributo di politiche volte a favorire “l’umanizzazione” <strong>del</strong>l’economia di mercato<br />

contribuendo a rendere “socialmente sostenibili” le imprese ed i mercati rientrano<br />

nell’ottica <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong>. L’aumento sempre più forte <strong>del</strong>l’importanza dei beni<br />

relazionali favorisce la formazioni di strutture coo<strong>per</strong>ative volte a soddisfare questi<br />

“bisogni”.<br />

158


3) Politiche a sostegno <strong>del</strong>la sostenibilità ambientale<br />

Questi interventi sono già stati esposti nel capitolo quinto quando si è discusso <strong>del</strong><br />

concetto di sostenibilità ambientale di Hermann Daly. Riassumendo si possono<br />

individuare nella contabilità ambientale e nel rispetto <strong>del</strong> concetto di sostenibilità<br />

forte alcuni elementi di proposta politica molto interessanti <strong>per</strong> lo sviluppo <strong>civile</strong>.<br />

Credo sia impossibile slegare lo sviluppo <strong>civile</strong> da <strong>una</strong> politica economica improntata<br />

sulla sostenibilità ambientale.<br />

Otre alle politiche pratiche, è fondamentale intervenire nell’ambito <strong>del</strong>l’informazione<br />

a sostegno di un mo<strong>del</strong>lo alternativo: il ruolo dei cosiddetti “media” i questo caso è<br />

fondamentale (De Biase 2007).<br />

Senza usare le metafore di Latouche sulla rivalutazione <strong>del</strong>l’immaginario, è corretto<br />

considerare l’intervento culturale come uno degli elementi fondamentali <strong>per</strong><br />

modificare l’assolutismo di un <strong>paradigma</strong> di sviluppo basato su consumo, spreco e<br />

crescita. Si può condividere in parte l’idea che lo sviluppo <strong>civile</strong>, umano e sostenibile<br />

abbia necessariamente bisogno di affrontare il “problema <strong>del</strong>l’egemonia culturale” di<br />

gramsciana memoria (Gramsci, 2007). Lo strumento dei nuovi media (internet) può<br />

sicuramente essere <strong>una</strong> strada <strong>per</strong> “sensibilizzare” le <strong>per</strong>sone sui limiti ecologici e<br />

sociali di un mo<strong>del</strong>lo che ha i difetti che si sono più volte evidenziati in questo lavoro<br />

(De Biase, 2007).<br />

In conclusione, lo sviluppo <strong>civile</strong> non aspira a diventare un mo<strong>del</strong>lo rivoluzionario<br />

<strong>del</strong> sistema capitalistico ma crede di poter dare un contributo al miglioramento di tale<br />

sistema <strong>per</strong> <strong>per</strong>mettere quella “deviazione <strong>del</strong> treno” invocata nella prefazione. I<br />

ragionamenti proposti in questo <strong>paradigma</strong> contengono elementi sia di riformismo<br />

(miglioramenti all’interno <strong>del</strong> sistema) sia utopici, con la s<strong>per</strong>anza di un futuro<br />

migliore.<br />

In questo senso, se usassimo la dicotomia ricossiana, lo sviluppo <strong>civile</strong> è certamente<br />

da iscrivere al filone “<strong>per</strong>fettista” <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong> pensiero.<br />

159


Conclusioni<br />

“I filosofi hanno soltanto<br />

diversamente interpretato<br />

il mondo; si tratta di<br />

trasformarlo”<br />

Karl Marx<br />

Questo lavoro ha ri<strong>per</strong>corso la storia <strong>del</strong>l’idea di sviluppo ed è giunto ad <strong>una</strong> <strong>critica</strong><br />

“<strong>simpatetica</strong>” ad un <strong>paradigma</strong> che, nei fatti, ha dominato <strong>per</strong> decenni. Lo sviluppo<br />

<strong>civile</strong>, così come lo sviluppo umano, lo sviluppo sociale e lo sviluppo sostenibile<br />

rappresenta <strong>una</strong> “via d’uscita” <strong>per</strong> il treno <strong>del</strong>la crescita.<br />

L’apporto sostanziale di grandi economisti ha modificato nel corso <strong>del</strong> tempo l’idea<br />

che crescita economica e sviluppo fossero sempre e comunque sinonimi. La <strong>critica</strong><br />

talvolta più e talvolta meno radicale di autori come Karl Polanyi, Albert Hirschman e<br />

Amartya Sen ha arricchito il <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo negando che esso possa<br />

dipendere esclusivamente da fattori economici. L’approccio “istituzionalista” <strong>del</strong>lo<br />

sviluppo locale e <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> accoglie molte di queste critiche e si pone in<br />

a<strong>per</strong>ta contrapposizione con l’idea, o meglio ancora, con il dogma che la crescita sia<br />

sempre e comunque auspicabile. Lo sviluppo <strong>civile</strong> si pone in un filone di studio<br />

<strong>del</strong>l’economia che tende a studiare il bene comune ed il modo attraverso il quale è<br />

possibile migliorarlo. In questo lavoro non c’è ness<strong>una</strong> intenzione di aderire in modo<br />

“ideologico” ad idee “anti-progressiste” che, troppo spesso, radicalizzano lo scontro,<br />

proponendosi come unica via di salvezza. Questo “nuovo” concetto rischia<br />

certamente di “peccare” <strong>del</strong>l’utopismo dei cultori <strong>del</strong>la decrescita, ai quali va<br />

riconosciuto il merito di proporre comunque <strong>una</strong> reale alternativa al baratro verso il<br />

quale corre il “treno” <strong>del</strong>lo sviluppo. Nonostante questi meriti, non si può certo<br />

condannare <strong>una</strong> parola - “sviluppo” – individuando in essa tutti i mali <strong>per</strong> proporre<br />

<strong>una</strong> vera e propria rivoluzione anti-mercantilista. Esistono, nonostante quel che possa<br />

credere Latouche, alternative sostanziali al baratro ed esse sono state esposte, forse in<br />

160


modo sommario, in questo lavoro. <strong>Sviluppo</strong> sociale, sviluppo umano, sviluppo<br />

sostenibile e sviluppo <strong>civile</strong>: queste sono le strade alternative che si uniscono in un<br />

unico “binario” di salvezza e che <strong>per</strong>mettono di proseguire su <strong>una</strong> linea ideale di<br />

sviluppo, senza obbligare gli uomini a buttarsi giù dal treno rinunciando a tutto ciò<br />

che hanno conquistato.<br />

Nell’esporre le caratteristiche <strong>del</strong> concetto di sviluppo <strong>civile</strong> si sono affrontati temi<br />

fondamentali come la “democrazia economica”, la coo<strong>per</strong>azione, la reciprocità e lo<br />

sviluppo locale, inteso come la valorizzazione <strong>del</strong> territorio.<br />

Il concetto di democrazia economica è fondamentale poiché introduce lo sviluppo<br />

<strong>civile</strong> in un <strong>paradigma</strong> alternativo di economia dove libertà, democrazia ed<br />

uguaglianza possono coesistere (Dahl, 1989).<br />

Questa democrazia economica si può realizzare non solo all’interno <strong>del</strong>l’imprese con<br />

forme di proprietà collettive e coo<strong>per</strong>azioni sostanziali, dove possono essere presenti<br />

forme di autogoverno democratico, ma anche attraverso la creazione di un mercato<br />

plurale dove possano o<strong>per</strong>are imprese capitalistiche, imprese sociali ed imprese<br />

civili.<br />

Alla democrazia economica, infatti, non basta il pluralismo nelle istituzioni; essa<br />

esige anche il pluralismo <strong>del</strong>le istituzioni economiche – un pluralismo dove le forme<br />

di impresa diverse da quella capitalistica – ad esempio le imprese coo<strong>per</strong>ative – non<br />

devono essere considerate forme “minori” di impresa. Se si vuole “umanizzare<br />

l’economia” è necessario che all’interno <strong>del</strong>lo spazio economico possano o<strong>per</strong>are –<br />

senza discriminazione alc<strong>una</strong> - soggetti il cui agire è ispirato al principio di<br />

reciprocità (coo<strong>per</strong>ative, imprese <strong>del</strong>l’economia di comunione, etc..). (Zamagni,<br />

2004).<br />

Democrazia economica significa quindi portare più democrazia all’interno degli<br />

o<strong>per</strong>atori economici e <strong>del</strong>le istituzioni economiche fornendo un’alternativa seria al<br />

mercato liberista, senza <strong>per</strong> questo negare il mercato stesso.<br />

Per migliorare il “grado di democrazia” all’interno di <strong>una</strong> società capitalista è<br />

certamente necessario avviare <strong>una</strong> vasta campagna culturale centrata sulla figura,<br />

affatto nuova, <strong>del</strong> consumatore socialmente responsabile. Anche il cittadino, in<br />

quanto consumatore, non può ritenersi esonerato dall’obbligo di utilizzare il proprio<br />

potere d’acquisto <strong>per</strong> contribuire a conseguire fini che egli giudica eticamente<br />

161


ilevanti. Nella realtà, il consumatore non è mai stato sovrano e non lo è neppure<br />

oggi. Potenzialmente <strong>per</strong>ò il consumatore ha oggi la capacità di inviare messaggi alla<br />

produzione <strong>per</strong>ché questa si adegui alle sue preferenze. Spendendo il suo potere<br />

d’acquisto in un modo piuttosto che nell’altro, il consumatore invia un segnale ben<br />

preciso a chi produce <strong>per</strong> indicargli non solo ciò che più gradisce che lui produca ma<br />

anche il modo in cui desidera che quel prodotto venga ottenuto. Tanto è vero che se il<br />

consumatore sa che certi beni sono prodotti in un modo che egli giudica eticamente<br />

contrario alla sua visione <strong>del</strong> mondo scatta la sanzione economica, ad esempio nella<br />

forma <strong>del</strong> boicottaggio o <strong>del</strong>la denuncia mediatica. Alla luce di quanto sopra, si può<br />

apprezzare l’importanza strategica, oltre che simbolica, di iniziative quali il consumo<br />

critico, gruppi di acquisto solidale, la finanza etica, le iniziative di asset building (di<br />

cui la microfinanza è l’esempio più noto).<br />

In definitiva, il punto da sottolineare è che non c’è solo il voto politico quale<br />

strumento di democrazia; c’è anche il voto economico, il cui senso è quello di portare<br />

dentro l’arena <strong>del</strong> mercato l’esercizio <strong>del</strong>l’opzione voice (nel senso di Hirschman 1 ).<br />

La democrazia economica postula che i consumatori possano indurre, con le loro<br />

decisioni di spesa, imprese e istituzioni ad o<strong>per</strong>are <strong>per</strong> il <strong>per</strong>seguimento di fini<br />

socialmente legittimati. E’ in ciò il senso profondo <strong>del</strong>la sussidiarietà fiscale e <strong>del</strong>le<br />

pratiche di “amministrazione condivisa”, tra cui “bilancio partecipato”, di cui<br />

abbiamo parlato nel capitolo precedente. (Zamagni, 2004)<br />

La democrazia economica non può non essere un elemento centrale <strong>del</strong> nuovo<br />

<strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>lo sviluppo, poiché alla base di questo <strong>paradigma</strong> ci sono<br />

partecipazione attiva, coo<strong>per</strong>azione e sviluppo <strong>civile</strong> (e civico). Senza democrazia<br />

non c’è sviluppo <strong>civile</strong> e viceversa.<br />

L’importanza <strong>del</strong>la dimensione locale <strong>del</strong>lo sviluppo emerge in diversi punti di<br />

questo lavoro poiché lo sviluppo <strong>civile</strong>, basandosi su concetti quali la partecipazione<br />

<strong>civile</strong>, la coo<strong>per</strong>azione e la democrazia economica, necessita certamente di <strong>una</strong><br />

valorizzazione <strong>del</strong> capitale sociale di un territorio. Non bisogna mai dimenticare che<br />

lo sviluppo è inteso sia in <strong>una</strong> dimensione locale, sia in <strong>una</strong> dimensione globale e che<br />

gli effetti globali sullo sviluppo locale rivestono un’importanza fondamentale; se ci si<br />

1 Cfr. ad Hirschman: capitolo terzo<br />

162


dimenticasse di ciò si rischierebbe di incappare i forme di localismo corporativo che<br />

sono assolutamente inconciliabili con lo sviluppo <strong>civile</strong>.<br />

A questo proposito è giusto chiarire che il vero nemico <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> non è il<br />

mercato in quanto tale ma la difesa corporativa di posizioni di rendita all’interno<br />

<strong>del</strong>l’economia. In questo senso, il mercato ha <strong>una</strong> funzione progressista 2 e anti-<br />

conservatrice che si coniuga anche con lo sviluppo <strong>civile</strong>. Per lo sviluppo è<br />

auspicabile un ritorno a quella versione “umanizzata” <strong>del</strong> mercato che è stata<br />

descritta nei capitoli precedenti.<br />

Lo sviluppo <strong>civile</strong> non è certamente “no-global” ma “new-global”: si crede, cioè, che<br />

la globalizzazione si possa fondare non solo sulla competitività economica ma anche<br />

su altri “metri di giudizio” come la sostenibilità ambientale e sociale. Non si possono<br />

certo condividere soluzioni semi-autarchiche di chiusura dei confini ed esas<strong>per</strong>azione<br />

di localismi identitari a difesa di corporazioni, sacrificando “il bene comune” e<br />

progetti fondamentali di coesione comunitaria tra paesi.<br />

Il problema etico ed il problema ecologico ci pongono di fronte ad <strong>una</strong> serie di<br />

scenari che sono stati ben schematizzati dal “The Stockholm Environment Institute”<br />

attraverso alcuni ipotesi di scenari creati nel Global Scenario Group 3 .<br />

Vengono individuati tre gerarchie che rappresentano fondamentalmente tre visioni<br />

sociali differenti: mondi convenzionali, barbarizzazione e grandi transizioni.<br />

All’interno di ogni gruppo vengono individuate due varianti che forniscono un totale<br />

di sei scenari possibili.<br />

Mondi convenzionali.<br />

Secondo questa visione l’evoluzione <strong>del</strong> sistema globale rimane pressoché costante<br />

senza grandi variazioni e cambiamenti. L’economia mondiale continuerà a crescere e<br />

favorire lo sviluppo degli altri paesi. Ciò può avvenire attraverso:<br />

a) Le forze di mercato: i problemi sociali ed ambientali saranno corretti<br />

dalla crescita <strong>del</strong> sistema economico attraverso la logica <strong>del</strong>la competitività<br />

dei mercati.<br />

2 Cfr a Smith, capitolo primo<br />

3 Il Global Scenario Group esamina le prospettive <strong>per</strong> lo sviluppo mondiale nel ventunesimo secolo:<br />

www.gsg.org<br />

163


) Riforme politiche: L’azione coordinata dei governi favorirà uno sviluppo<br />

sostenibile e garantirà condizioni di equità.<br />

Barbarizzazione.<br />

Questo scenario prevede che i legami sociali, economici e morali <strong>del</strong>la civilizzazione<br />

si deteriorino e che i problemi si impongano sui mercati e sulla capacità <strong>del</strong>le<br />

politiche economiche<br />

a) Crollo: si crea <strong>una</strong> situazione di conflitto <strong>per</strong>manente con il crollo <strong>del</strong>le<br />

istituzioni e la crisi economica<br />

b) Mondo fortezza: Risposta autoritaria alla paura <strong>del</strong> crollo con la creazione di<br />

fortezze di difesa corporativa e contemporanea miseria, distruzione<br />

ambientale e repressione all’esterno <strong>del</strong>le “fortezze”<br />

Grandi transizioni.<br />

Questa visione prevede <strong>una</strong> soluzione alla sfida <strong>del</strong>la sostenibilità attraverso<br />

fondamentali cambiamenti di valore e nuovi cambiamenti socio-economici.<br />

Si rappresenta <strong>una</strong> transizione ad <strong>una</strong> società che preserva i sistemi naturali,<br />

provvede ad alti livelli di welfare attraverso <strong>una</strong> distribuzione equa favorendo un<br />

forte senso di solidarietà sociale. Questa transizione è caratterizzata da un livello più<br />

basso di consumi ed un uso massiccio di tecnologie verdi.<br />

a) Eco- com<strong>una</strong>lismo: questa visione incorpora la visione “verde” <strong>del</strong> bio-<br />

regionalismo, il localismo, la democrazia diretta, le piccole tecnologie e<br />

l’autarchia economica<br />

b) Paradigma <strong>del</strong>la nuova sostenibilità: questa visione condivide molti obiettivi<br />

<strong>del</strong>l’eco –com<strong>una</strong>lismo ma vorrebbe cercare un cambiamento <strong>del</strong> carattere<br />

<strong>del</strong>la situazione urbana ed industriale piuttosto che sostituirlo. Vorrebbe<br />

costruire <strong>una</strong> civilizzazione globale più umana ed equa piuttosto che<br />

rifugiarsi nel localismo.<br />

Lo sviluppo <strong>civile</strong> si integra <strong>per</strong>fettamente nella logica <strong>del</strong>la grande transizione che<br />

sostiene il <strong>paradigma</strong> <strong>del</strong>la nuova sostenibilità. La grande transizione, anche<br />

attraverso lo “stato stazionario” di Daly, auspica uno sviluppo più coerente con i<br />

limiti ecologici di questo pianeta, non dimenticandosi la dimensione etica<br />

<strong>del</strong>l’economia.<br />

164


Il binario che <strong>per</strong>mette la salvezza <strong>del</strong> treno è proprio quello <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>civile</strong> e<br />

<strong>del</strong>la grande transizione <strong>per</strong>ché questa strada alternativa può <strong>per</strong>mettere di non<br />

fermare lo sviluppo evitando la dannazione autodistruttiva <strong>del</strong> Faust - capitalismo<br />

(Ruffolo, 2006).<br />

La politica ha il compito di guidare la transizione e <strong>per</strong> farlo deve tornare ad essere<br />

l’arte <strong>del</strong>la res pubblica, <strong>del</strong> bene comune, abbandonando schemi retorici <strong>del</strong> passato<br />

e visioni mercantilistiche <strong>del</strong> presente.<br />

Il ruolo <strong>del</strong>le varie istituzioni, politiche e non, è quello di fornire alla società la<br />

possibilità di dare vita a forme alternative di sviluppo combattendo il dogmatismo<br />

ideologico e competitivo <strong>del</strong> neo-liberismo, ma rinunciando a chiusure ideologiche<br />

che negano i contributi positivi <strong>del</strong> mercato stesso; chiusure che risultano essere<br />

altrettanto <strong>per</strong>icolose.<br />

Lo sviluppo <strong>civile</strong>, così impostato, rischia di apparire poco simpatetico, ma molto<br />

critici verso il predominio degli ultimi decenni <strong>del</strong>la visione puramente competitiva.<br />

In realtà, lo sviluppo <strong>civile</strong>, così come molti altri notevoli contributi in materia<br />

(sviluppo umano, sviluppo sociale, etc..) potrebbe risultare fondamentale alla<br />

sopravvivenza <strong>del</strong>lo sviluppo, evitando, a lui e noi tutti, il precipizio.<br />

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Ringraziamenti<br />

Ringrazio il relatore prof. Carlo Salone, il correlatore prof. Roberto Burlando, i<br />

professori Angelo Besana e Dario Padovan <strong>per</strong> le loro consulenze. Ringrazio la mia<br />

famiglia che mi ha <strong>per</strong>messo di arrivare fino a questo lavoro; tutti gli amici di questi<br />

anni d’università, gli amici <strong>del</strong> gruppo di studio Xenos e tutti gli altri con i quali ho<br />

scambiato idee preziose <strong>per</strong> questo lavoro.<br />

175


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