Racconti partecipanti al concorso di scrittura creativa - Liceo Imperia

Liceo Scientifico Vieusseux
Liceo Classico De Amicis
RACCONTI PARTECIPANTI AL CONCORSO
DI SCRITTURA CREATIVA
ELOGIO DELLE DIVERSITÀ
Provincia
di Imperia
Progetto finanziato dal Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri

SOMMARIO
Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 3
di Annamaria Fogliato, Dirigente Scolastico
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 5
di Eric Minetto, Docente della Scuola di Scrittura Creativa Holden - Torino
Racconti vincitori
Incidente diplomatico (Primo Classificato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 7
di Jacopo Gandolfo, Classe 3ª A, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
Semplicemente unico (Secondo Classificato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 10
di Marta Pirisinu, Classe 4ª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
L’uomo che voleva volare (Terzo Classificato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 14
di Federico Zaupa, Classe 1ª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
Menzione parimerito
La radio trasmittente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 17
di Virginia Ippolito, Classe 3ª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
Una diversa, strana e sincera amicizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 20
di Valentina Poggio, Classe IVª B, Liceo Classico “E. De Amicis”
Black . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 24
di Virgilia Ramella, Classe IVª A, Liceo Classico “E. De Amicis”
Gli altri racconti
La diversità veste Gucci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 27
di Alessia Anfossi, Classe IVª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
Il pianista ballerino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 29
di Nives Balestra, Classe IIIª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”

Uguale a chi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 32
di Mario Barbarino, Classe IIIª B, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
La cera e i biscotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 36
di Giacomo Berio, Classe IIIª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
A Giacomo, futuro cittadino del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 38
di Lorenzo Ciccione, Classe IVª B, Liceo Classico “E. De Amicis”
Diversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 40
di Ramona Farina, Classe IVª B, Liceo Classico “E. De Amicis”
Unicamente unico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 44
di Lydia-Alexia Ferraris, Classe IVª A, Liceo Classico “E. De Amicis”
Simone e Dimitri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 47
di Veronica Miraglia, Classe Iª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
City of blinding lights . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 50
di Karen Oscar, Classe IIIª D, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
Benny e i pesciolini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 52
di Anna Rosati, Classe IIIª A, Liceo Scientifico “G.P. Vieusseux”
Contatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 55
di Marianna Tacca, Classe IVª A, Liceo Classico “E. De Amicis”
La diversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 58
di Valentina Zaccaro, Classe IVª B, Liceo Classico “E. De Amicis”

RINGRAZIAMENTI
I racconti pubblicati appartengono agli studenti del Liceo Scientifico Vieusseux
e del Classico De Amicis che hanno frequentato il corso di scrittura creativa del
Prof. Eric Minetto, docente della Scuola Holden di Torino, per poi partecipare al concorso
indetto dal nostro istituto, avente come tema “La Diversità”.
Tale iniziativa appartiene alla nutrita serie delle attività che docenti e studenti hanno
prodotto nell’ambito del progetto “Per i diritti e le pari opportunità - Elogio delle diversità”,
vincitore del bando di Concorso Nazionale del Dipartimento Pari Opportunità
della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Per questa iniziativa ringraziamo in modo particolare l’Assessorato alle Pari Opportunità
della Regione Liguria, la Provincia e il Comune di Imperia, e in particolar modo:
il Presidente della Provincia, Avv. Gianni Giuliano; l’Assessore alla Pubblica Istruzione
Giacomo Raineri; la consigliera per le Pari Opportunità Dott.ssa Rosanna Menghetti,
la Dirigente dell’Ufficio Provinciale Competente, Dott.ssa Adele de Felice,
l’Ass. Sociale Cristina Liberati.
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il Dirigente Scolastico
Annamaria Fogliato

VITA UNA INDIVISIBILE
Due buffi extraterrestri atterrati sul (e atterriti dal) pianeta terra nella notte
di Halloween, un' ape nata con disdicevolissime righe verticali anziché orizzontali,
un sassolino suicida per amicizia e una radio trasmittente fucilata in guerra sono solo
alcuni tra i protagonisti delle storie raccolte in questa pubblicazione, nata da un laboratorio
di scrittura creativa tenuto nel liceo Vieusseux di Imperia. L'obiettivo del
laboratorio era duplice: fornire le tecniche di base per la scrittura di un racconto e affrontare
il tema della diversità nei suoi molteplici aspetti. Dopo una breve infarinatura
teorica e un'attenta analisi strutturale della scena di un film e di alcuni racconti
di scrittori contemporanei, i giovani autori hanno scelto liberamente una delle tante
maschere della Diversità - planetaria, razziale, culturale, sessuale, eccetera - e ne hanno
esplorato le pieghe nascoste narrandole in brevi racconti. Personalmente trovo sia sempre
meglio leggere i libri e farsene un'idea propria piuttosto che sentirli commentare
nelle prefazioni, ma in quanto insegnante di scrittura di questo laboratorio, una cosa
vorrei dirla: i ragazzi hanno affrontato il loro compito di esploratori con impegno e
coraggio. Alcuni tra loro poi, sostenuti da una buona tecnica e da un istintivo talento,
si sono spinti fino a riconoscere sotto i polpastrelli della propria sensibilità di narratori
la realtà che si cela tra le pieghe nascoste di ogni diversità: quella della Vita Una
Indivisibile.
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Eric Minetto
Docente di Scrittura Creativa
Scuola Holden di Torino

INCIDENTE DIPLOMATICO
di Jacopo Gandolfo
Primo Classificato
Motivazioni
Per la capacità di affrontare il difficile tema della diversità con ironia, leggerezza e
rara consapevolezza narrativa.
P.S.: Complimenti, nobile cucciolo di terrestre!
~
Era una notte buia, e orde di bambini travestiti da vampiri e lupi mannari si
aggiravano per le strade recitando a ogni porta la formula magica “Dolcetto o scherzetto?”
che rimpinguava le loro tasche di meraviglie zuccherose. Da ogni finestra zucche
dallo sguardo fiammeggiante li guardavano con aria malvagia, quasi sfidandoli
a bussare. In quel tranquillo quartiere di villette a schiera, con i loro prati verdeggianti
e le siepi perfettamente squadrate, la notte di Halloween non avrebbe potuto essere
più normale.
Non lontano, un’improbabile navicella spaziale arancione atterrò con uno schianto in
mezzo a un prato deserto. Con un lieve sbuffo il portellone si aprì e discesero due bizzarri
individui: entrambi erano vestiti con tute argentate che sembravano prese da un
costume di quarta categoria, ma il particolare più inquietante è che al posto della testa
avevano qualcosa di spaventosamente somigliante a zucche di Halloween. Nel
complesso il loro aspetto era poco rassicurante. Quasi sincronizzati fra di loro estrassero
dalle tute uno strano apparecchio e premettero dei bottoni: in pochi secondi furono
in grado di parlare un fluente inglese che avrebbe potuto competere con quello
di Shakespeare. Quindi il più alto, che a giudicare dai gradi sulla sua tuta doveva essere
il capo, tirò fuori una specie di registratore e fece il punto della situazione. –Qui
il Capitano Zirk- proclamò con voce stentorea – al comando della spedizione sul pianeta
denominato “Terra” e situato in X12-Y35-Z31. Atterraggio riuscito senza problemi.
Prossimo obiettivo: stabilire un contatto pacifico con gli abitanti del pianeta
sopra citato. Passo e chiudo-. Si diressero quindi verso la più vicina forma di vita intelligente
rilevata dal loro radar.
-Guarda, capitano, devono vivere lì- disse l’altro con entusiasmo vedendo in lontananza
il quartiere di ordinate villette –e quello è uno di loro-
-D’accordo, Zurk, ma adesso fai parlare me. L’ultima volta hai creato un gravissimo
incidente diplomatico con gli Orzoriani, e per poco non ci hanno dichiarato guerra-
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-Soltanto perché ho detto che gli abitanti di Tardor al confronto sono geni!-
-Ti avevo avvertito che sono molto suscettibili. Ma adesso concentriamoci su questiconcluse
il capitano.
I due si avvicinarono all’uomo che camminava in direzione dell’abitato.
-Salve, nobile terrestre- proferì solennemente Zirk. L’interessato si voltò spaventato
e li squadrò per un momento. Era piuttosto anziano, di media statura, con un’espressione
arcigna e una folta barba bianca.
-Che festa stupida!- esclamò seccato – E voi, non vi sembra di essere un po’cresciuti
per certi scherzi idioti? Se ci fosse il vecchio Geremia vi prenderebbe a bastonate, altro
che nobile terrestre!-
-Temo che ci sia un malinteso, illustre terrestre. Siamo Alti Emissari del pianeta Zukkon,
e il nostro intento è stabilire un contatto tra le nostre civiltà all’insegna dello scambio
culturale, del rispetto, del…-
-Accidenti a voi! Mi avete preso per uno di quegli smidollati che se ne stanno tutto
il tempo a scrutare il cielo aspettando gli alieni? E poi i vostri costumi, lasciatevelo
dire, fanno veramente schifo! Non ci cascherebbe nemmeno il mio nipotino di tre
anni!-
Sconcertati da tanta veemenza gli alieni decisero di cercare altri terrestri più ragionevoli,
con la netta sensazione che il vecchio fosse svitato. Avvicinandosi alle case
incontrarono un uomo sulla quarantina che li guardò perplesso. –Salve, nobile terrestre!
Siamo Alti Emissari del pianeta Zukkones e veniamo in pace per portarvi il nostro
messaggio di uguaglianza e collab…-
- Ho capito, state cercando la festa! Dovete proseguire lungo la strada e in giardino
vedrete le luci e le zucche. Divertitevi!-
-Visto, Zurk?- disse il capitano – Sapevo che il nostro messaggio sarebbe stato compreso
e apprezzato. I terrestri hanno addirittura preparato una festa in nostro onore!-
Rinfrancati dall’accoglienza gli improbabili ambasciatori proseguirono il loro cammino
finché incontrarono un bambino.
-Salve, cucciolo della nobile stirpe terrestre! Rallegrati, perché oggi i nostri popoli si
sono finalmente incontrati e il tuo futuro sarà migliore!-
-Bei costumi!- esclamò il bambino in tutta risposta –Anch’io ne volevo uno così, ma
la mamma ha detto che costava troppo e non me l’ha comprato… Voi come vi siete
vestiti l’anno scorso? Io ero indeciso se vestirmi da Frankenstein o da lupo mannaro
ma alla fine ho deciso Frankenstein. Trovate che sia una scelta poco originale? Io credo
che dal punto di vista psicologico il tema dell’uomo che vuole sostituirsi a Dio sia interessante,
ma anche la natura duplice del licantropo suggerisce forti spunti drammatici
alquanto suggestivi! Quest’anno ho optato per il vampiro a causa del suo fascino mefistofelico,
quasi diabolico, che nasconde sotto una maschera di nobiltà la vera natura
bestiale e demoniaca. Cambiamo argomento: voi quante caramelle avete preso? Io le
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ho contate, sono duecentocinquantasette. Sono soddisfatto perché il guadagno è cresciuto
del 13,56% rispetto all’anno scorso. Un bel risultato, no? Qui ho rappresentato
con un istogramma la divisione dei dolci in caramelle, cioccolatini, lecca-lecca e chewing-gum.
A proposito, sapete che nei chewing-gum sono presenti alcuni coloranti
potenzialmente nocivi? Credete che mi faranno male? Io credo di no, perché la quantità
presente è di molto inferiore alla soglia teorica di nocività. Trovo interessante osservare
come la fisica quantistica entri in palese conflitto con la realtà che osserviamo
quotidianamente. Mai sentito parlare del “paradosso del gatto”? No? Allora permettemi
di farvi un riassunto della fisica da Archimede a Einstein per poter affrontare il
discorso con basi scientifiche più solide…-
-Basta!- esclamò allibito il capitano –Fai come se non ti avessi mai parlato!!!-
Esasperati gli alieni si diressero verso la presunta festa in loro onore. A un tratto Zurk
sbiancò atterrito e iniziò a farfugliare in modo incomprensibile –Ca-ca-Capitano?-
-Sì, Zurk?-
L’altro si limitò a indicare con un gesto generico le finestre, i giardini, le siepi. Il temerario
capitano Zirk alzò lo sguardo e si trovò di fronte allo spettacolo più agghiacciante
della sua vita. Decine e decine di teste di Zukkoniani, tagliate, li guardavano
sadicamente. Il capitano lanciò un urlo e si mise a correre in direzione della
navicella, seguito a ruota da Zurk. Passarono davanti al bambino che nel frattempo
stava declamando un poemetto in onore di Cornelio Nepote e davanti al vecchio scontroso
che maledisse i pirati della strada. Poi salirono sulla navicella, decollarono, e da
quella strana notte nessuno Zukkoniano mise mai più piede sulla Terra.
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Jacopo Gandolfo

SEMPLICEMENTE UNICO
di Marta Pirisinu
Secondo Classificato
Motivazioni
Per aver saputo dar vita a un personaggio “semplicemente unico” nella sua diversità.
P.S.: se fosse possibile vorrei anch’io uno dei mitici maglioncini di Nonna ape!
~
“ Non mi va, ho mal di pancia” “ Alzati subito da quel letto signorino” “No” “Ti ho
detto di alzarti, subito!” “ No, ho mal di pancia e un filo di emicrania, poi la schiena
negli ultimi tempi non mi fa proprio dormire tranquillo la notte, davvero, non me la
sento” “ Ora basta, ti voglio in piedi in cinque minuti altrimenti vedi “.
Ecco la pantomima di ogni mattina ; urla, grida e discussioni ma alla fine la vittoria
è sempre la sua, inesorabilmente. Sconfitto già dalle sette del mattino, povero Laurence,”
Meno male che almeno se la cava nel football”, pensa subito. In casa c’è già
l’intenso profumo del miele; quanto odia quell’aroma che ti entra dentro così prepotentemente.
Si alza e passa velocemente davanti allo specchio, senza farsi distrarre dal fastidioso
riverbero che il sole crea con esso. Entra in bagno e si fa la solita doccia fulminea,
sfregandosi con la ruvida spugna come se volesse eliminare qualcosa che in realtà mai
se ne andrà. Poi scende di sotto, incrociando il gelido sguardo di suo padre e stordendosi
con l’acuto, ennesimo grido di sua madre, che ricordandogli il solito ritardo
gli pone davanti una tazza colma di cereali ricoperti di glassa mielata . Laurence li
schiva prontamente con una banale scusa, “ Perdo l’autobus” urla ironico mentre sua
madre scuote la testa come rassegnata, svuotando la ciotola nel bidone della spazzatura.
“ Non se le merita tutte queste attenzioni,” tuona il marito “ non diventerà mai
abbastanza forte con le tue quotidiane coccole”.
Evidentemente però a Laurence non bastano le coccole delle quali suo padre parla.
Appena uscito dalla porta di casa, scende giù in cantina attraverso la scala esterna, silenzioso.
Ormai la conosce bene e non c’è più bisogno di accendere la luce.
Apre l’anta dell’armadio a sinistra, e frugando in modo centrifugo estrae uno di quei
maglioncini tutti uguali, a righe orizzontali nere e gialle, che la nonna gli ha segretamente
cucito.
Lo indossa e finalmente trova il coraggio di uscire, sentendosi un po’ più normale.
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Il sole fuori è caldo, ustionante, e quel maledetto pullover lo fa sudare come non mai;
ecco perché voleva restare a casa, per evitare una fastidiosa e odiosa sudata inutile.
Ma lui resiste, fa il brillante con chi, vedendolo bagnato sulla piccola fronte, gli lancia
qualche battuta sarcastica sulla stagione sportiva e sul suo bizzarro abbigliamento.
Lui sa bene che quel maglioncino, quel travestimento così pesante e scomodo non lo
può proprio levare, sarebbe la fine; sì insomma neanche a pensarci, perderebbe gli
amici, la sua ragazza, il posto da capitano nella squadra di football, insomma tutto ciò
che si era conquistato con tanto impegno. Sarebbe stata una follia buttare tutto all’aria
per una cosa del genere, un atto masochista, soprattutto ora che il dottore sosteneva
di aver trovato una nuova e illuminante cura per sua rara, se non addirittura unica,
malattia. No no, molto meglio soffrire il caldo.
Questo era il ragionamento che si innescava ogni giorno nella testa di Laurence, che
cercava continuamente nuove argomentazioni per convincersi che quella era la cosa
giusta da fare.
Ovviamente di nascosto a sua madre. Povera donna, se avesse scoperto per errore quel
suo guardaroba segreto, sarebbe finita in terapia per non poco tempo, pensando di non
avergli dato le attenzioni e le cure necessarie.
Ma ora non ha tempo per tutte queste riflessioni.
Deve correre a scuola, fare finta di seguire la noiosissima lezione del Professor Tinker
sulla “ Storia dell’alveare” e poi correre in campo per l’allenamento pre- partita.
All’incontro del giorno dopo ci sarebbero infatti stati degli osservatori famosi, e Laurence
non aveva intenzione di perdere quell’unica occasione per farsi notare e forse
andarsene da quel piccolo posto di periferia per tentare la fortuna in qualche metropoli.
Ma quel giorno non va tutto bene com’ era solito andare.
Per una serie di inspiegabili coincidenze, quello che fino ad allora sembrava un piano
garantito per non farsi vedere in spogliatoio svestito, fallì miseramente. Era sempre
l’ultimo ad andarsene via dal campo, con la scusa di fare qualche tiro di preparazione,
mentre i compagni di squadra si cambiavano, ma il caldo torrido rese stranamente
misericordioso l’allenatore, che spedì tutti a casa prima del previsto.
Per la prima volta in dodici anni di sport Laurence si trovava con l’intera squadra nello
spogliatoio e non sapeva proprio come fare per evitare di cambiarsi e farsi un doccia
come tutti gli altri. “Forse è meglio apparire un puzzone” pensa. “Ma si perché no?
Infondo che male c’è? Sì è vero, sono in un bagno di sudore e mi devo vedere con
Casie tra mezz’ora ma dicono che quando c’è amore c’è tutto.”
Le ridicole argomentazioni di Laurence questa volta non reggono proprio .A costo di
sembrare uno snob decide di andarsi a cambiare nello sgabuzzino; almeno lì al sicuro,
così perlomeno crede. Il caso vuole che quello sbadato di Torry abbia dimenticato le
scarpe in quello stesso stanzino e che decida di recuperarle nel momento
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stesso in cui Laurence si sta levando la divisa. Stack; la porta si spalanca; come sottofondo
ci sono ancora le risa per una stupida battuta di Clark. Poi scemano lentamente,
e scende il silenzio. Laurence si copre istintivamente, ma è troppo tardi.
“Oh mamma” sussurra un compagno di squadra. “Non può essere!” esclama un altro.
I commenti si confondono l’un con l’altro, ma Laurence riesce a captarli tutti.
“ Tu hai le righe verticali!”. Quante volte nelle barzellette raccontate in campo o a
scuola la protagonista era un’ape con le righe verticali invece che orizzontali ; e quante
volte lui stesso aveva sghignazzato , nascondendosi dietro quella falsa risata.
Ora non può più nascondersi.
Si riveste con il suo maglione e se ne va, senza dire una parola, sperando che sia solo
un incubo.
Il giorno dopo capisce che è realtà. Tutta la scuola ride di lui; nei bagni ci sono già
antipatici disegni che lo ridicolizzano e fastidiosi soprannomi sono sussurrati per i corridoi.
Anche Casie gli rivolge un secco saluto. Evidentemente è facile passare dal più famoso
al più ripudiato.
Dopo la lezione va a casa, contrariamente alle sue abitudini, e confessa tutto a sua madre.
Che si chiude in un silenzio imbarazzante ; le previsioni di Laurence erano fondate.
Suo padre inaspettatamente decide di non aggredirlo “ Nessuno ha mai detto che
sarebbe stato facile” dice. “ Ora che finalmente tutti sanno come sei hai due scelte:
stare a casa, non uscire più, aspettare un occasione per andar via o la cura tanto osannata
dal dottore ; oppure muovere quelle ali e correre alla partita, e dimostrare che
il tuo è un valore aggiunto, e non una penalizzazione. A te la scelta.” Eccolo. Secco,
telegrafico, incisivo. Almeno quanto basta per convincere Laurence ad andare alla partita.
Senza travestimenti o maglioncini in lana, così com’è, con le sue righe verticali tanto
bizzarre per un’ape.
Decide di andare, provando a non sentirsi a disagio. Certo all’inizio è difficile.
Ma poi pian piano ci riesce. Lascia scorrere i commenti. Lui va oltre.
Entra in spogliatoio e si cambia; davanti a tutta la squadra, che, vedendolo pur sempre
come il capitano, evita spiacevoli commenti. Poi entra in campo, ovviamente alla
testa dei compagni, per primo, da vero leader quale infondo è realmente.
Gli spettatori si zittiscono, e gli avversari, come prevedibile, non perdono occasione
per far notare l’evidente diversità; ma lui non è diverso. Molto più semplicemente è
unico.
In quella partita Laurence segna un’infinità di punti, forse finalmente libero da un peso
troppo a lungo portato.
Un osservatore lo vede e a fine partita, tra gli assordanti applausi, gli da il suo biglietto
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da visita definendosi “ Molto interessato a discorrere con lui del suo futuro”. La folla
lo acclama, per la prima volta per ciò che realmente è. Una settimana dopo è su tutti
i cartelloni dell’alveare, merito del contratto a tempo indeterminato con la Nike, che
lo ha voluto come testimonial. Le sue righe così unicamente verticali sono su tutte le
riviste di moda, dicono che snelliscano e nei centri commerciali non si vendono altro
che i maglioni simili a quelli della nonna.
Ora Laurence è il giocatore di football più famoso ma soprattutto unico al mondo.
Hassan chiude il libro. Vede qualcosa di lui in quell’ape dalle righe verticali.
Prende la sacca e decide di andare alla partita. Per dimostrare a tutti quanto sappia
giocare bene. E quanto sia unico.
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Marta Pirisinu

L’UOMO CHE VOLEVA VOLARE
di Federico Zaupa
Terzo Classificato
Motivazioni
Per averci ricordato che, pur nella nostra diversità, la consapevolezza di vivere in una
gabbia e il desiderio di evaderne ci rendono tutti uguali.
P.S.: continua a usare le parole, sono le chiavi migliori per aprire le gabbie della vita!
~
Erano le sette di sera. Il sole era appena calato. Nella città si stava per avvicinare
la notte stellata. Gli ingorghi di macchine che apparivano come affrettate casalinghe
che facevano la coda al banco del pesce stavano diminuendo. La velocità delle
metropolitane cariche di pendolari stava aumentando sempre di più. Nelle vetrine i
capi d’abbigliamento dai brillanti colori sbiadirono allo spegnersi delle luci. In un negozio
di animali specializzato nella vendita di uccelli esotici, tutto era tacito. Non c’era
più nessuno. In un ampio corridoio del magazzino si sentiva uno stridio di ruote in
movimento. Ma ad un tratto questo suono si trasformò in un rumore sibilo. Una delle
ruote si era sgonfiata. Il vecchio era seduto su quella sedia e improvvisamente si sentì
il frastuono delle serrande che si stavano abbassando. Era l’orario di chiusura. Il poveretto
cercava di spingere quel marchingegno con tutte le sue forze, ma senza nessun
risultato. Ormai era troppo tardi. Le saracinesche vennero sbarrate. Gimmy si trovò
ad un tratto solo nell’ampio magazzino. Il luogo era triste e buio. Non si sentiva alcun
rumore. Ad un tratto si sentì un gracchiare che diceva: “ Mi sa che dovrai rimanere
qua tutta la notte, mio caro”. Il vecchio si girò e si accorse che era proprio un uccello
che gli stava parlando. Da una finestra la luce della luna lasciava intravedere
quella piccola gabbia nella quale vi era uno splendido pappagallo originario dell’Ecuador.
Le sue piume erano di uno splendido verde smeraldo e sulla testa aveva
una macchia arancione. Non sapeva cosa pensare, disse tra sé: “ Ma sono pazzo, come
può un pappagallo parlarmi?” e il pappagallo: “Ehi bello, sto parlando con te, dovresti
rispondere a chi ti parla!” e Gimmy: “Da quando i pappagalli parlano?” e il pappagallo:
“Ti sembro così scemo al punto da non poter parlare?” e il vecchio: “ Va bene
sto parlando con un uccello, meraviglioso! Ora mi sa che devo andare da uno psicologo!”.Dopo
qualche minuto di silenzio il rapace gli disse: “Certamente domani te ne
andrai da questo magazzino. Avrai davanti a te tutto il mondo e potrai fare nuove esperienze
vedendo un sacco di cose. Noi stiamo sempre rinchiusi in queste gabbie sudice
e quello che possiamo osservare è la luce del giorno e le stelle durante la notte, che
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soltanto io posso guardare da quella finestrella. Ogni tanto, quando piove, posso intravedere
le gocce d’acqua che scivolano sui vetri. Sai come sono finito in questa prigione
di ferro? Te lo voglio raccontare. Quando ero piccolo vivevo su un enorme albero
dove c’era tanta armonia e dove mia madre mi imboccava con amore il cibo. Mi
piaceva quando mi leccava le piume, adoravo quando mi metteva al caldo. Le volevo
tanto bene. Ma quando arrivarono quei terribili bracconieri ci divisero per sempre. Feci
un lungo viaggio rinchiuso in uno scatolone. Non riuscivo a respirare e stavo soffocando.
Arrivato qui fui rinchiuso in questa gabbia. Forse tu hai avuto una vita migliore
rispetto alla mia. Non è vero?”. Gimmy gli disse: “ La mia esistenza è stata più orribile
rispetto alla tua. Sai come sono finito su questa dannata sedia? Anch’io ho il desiderio
di raccontartelo. Trenta anni fa, stavamo tornando a casa da una splendida serata
insieme a mia moglie per trascorrere il compleanno di nostro figlio. Mio figlio
aveva sette anni. Era già abbastanza alto e gli piaceva stare seduto davanti in macchina.
Mia moglie stava guidando e io ero seduto dietro. Tutti e due avevano il sorriso sulla
bocca, ma non sapevo che quell’espressione felice non l’avrei vista mai più. Eravamo
su una strada piena di alberi. Si vedeva soltanto la luce dei nostri fari. Ma ad un tratto
sulla nostra corsia vedemmo due grosse luci abbaglianti. Mia moglie non riusciva a
vedere più nulla. Si vedeva soltanto la luce bianca che appariva come un laser che ipnotizzava
i suoi occhi. Nell’arco di un secondo la nostra macchina fu schiacciata dopo
uno scontro con un enorme camion. Il guidatore dell’autoveicolo proveniente dalla
parte opposta era un uomo che aveva bevuto. Mia moglie e mio figlio non davano più
segni di vita ed erano ricoperti di sangue. I soccorsi arrivarono dopo un’ora, ma non
c’erano più speranze. Ormai tutto quello che avevo era perduto. Da quell’incidente
rimasi paralizzato alle gambe. Per quasi tutta la mia vita sono rimasto su questa sedia.
Anche questo marchingegno di ferro è una gabbia per me. Adesso io non ho nessuno
con cui parlare. Non credere che io faccia tante esperienze al di fuori di qua.
Quando girovago per le strade è come se non mi vedesse nessuno, per la gente è come
se fossi invisibile, è come se non valessi nulla in questa società. Le persone non ti considerano
solo perché sei diverso rispetto a loro e le poche volte che ti vedono pensano:
“Poverino, quell’uomo ha un handicap”. Ma cosa me ne faccio di essere visto come
un povero stupido diversamente abile! Io vorrei essere considerato al pari degli altri.
Non cammino con le gambe, ma penso, rido, piango, scherzo, sorrido ed esprimo sentimenti
come le altre persone. Cosa ho di diverso? Tu mi risponderai niente, ma gli
altri non lo capiscono e per questa mia diversità vengo addirittura preso di mira dalle
persone maligne. Un giorno mentre tornavo da fare la spesa mi imbattei in un gruppo
di ragazzi teppisti. Questi mi assalirono d’un tratto e mi tirarono dalle mani i sacchetti.
Cercai di resistere, ma non potevo difendermi, erano più forti di me. Non potevo gridare
perché uno di loro mi aveva tappato la bocca. Mi guardai attorno ma non c’era
nessuno disposto ad aiutarmi. Alla fine loro ebbero la meglio. La cosa che mi ha fatto
tanta rabbia è che nessuno mi abbia aiutato nonostante vedevano quanto ero in diffi-
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coltà. Su questa sedia io non posso più difendermi e adesso che sono molto vecchio
non ho più la forza di andare avanti ogni giorno. Per questo molte volte mi chiudo in
me stesso e non parlo più con nessuno. Sai, sei uno dei pochi a cui racconto questi
fatti. Tu ancora puoi volare, le ali ce le hai, invece io non prenderò mai il volo perché
le ali che avevo non ce le ho più. Se qualcuno ti libererà non dovrai stare più in
questa prigione. Io al contrario vivrò per sempre su questa sedia e questa sarà la mia
gabbia per sempre. Inoltre io non volerò mai, ma tu hai la possibilità. Ora capisci perché
tu sei più fortunato di me?”.Il pappagallo disse: “Si, capisco. Ma chi sarebbe disposto
a liberarmi? Quanto vorrei spiccare il volo e tornare nel mio paese e rivedere
mia madre, forse è ancora viva.”. Per un attimo ci fu un silenzio di tomba, ma il vecchio
ad un tratto si ricordò che la finestrella era aperta. In quel preciso istante gli venne
l’idea di liberare quella creatura e di farla passare attraverso l’infissi. Gimmy allora,
con grande decisione aprì la porta della gabbia. L’uccello sorpreso disse: “Cosa stai
facendo?”, e Gimmy “Ti sto liberando, vola e ritorna nel tuo paese, tua madre ti sta
aspettando”, e il pappagallo: “Ma io non so arrivarci”, e il vecchio: “Non importa, la
strada la troverai tu. E’ giunto il momento che tu affronti la vita al di fuori di qua. Ora
va e ricordati di quello che ti ho detto”. L’uccello dalle piume color verde smeraldo
spiccò il volo dalla gabbietta e uscì dalla finestra. Nel cielo la luce della luna creava
un’ombra con il corpo del pappagallo in volo. Il vecchio cadde in un sonno profondo.
Giunta l’alba si sentì improvvisamente il frastuono delle serrande che si rialzavano.
All’istante si sentirono nel corridoio i passi inquieti di un uomo. Questo si presentò
davanti agli occhi di Gimmy. Era un tipo che aveva il viso ricoperto da una folta barba
e aveva un’espressione poco amichevole. L’uomo disse al vecchio: “Cosa ci fa lei
qua?”. Gimmy disse: “Ieri sera sono rimasto rinchiuso qui perché non sono riuscito
ad uscire. Vede, la ruota si è sgonfiata e non riesco a muovere la sedia”. Quell’uomo
si allontanò e dopo un attimo tornò con una pompa e si mise a gonfiare la ruota. Dopo
che ebbe finito disse: “Adesso se ne vada e stia attento la prossima volta!”.Il vecchio
uscì e decise di andare a guardare il sole che sorgeva. Si recò sulla passeggiata in riva
al mare. Tra il mare e il cielo si intravedeva una luce di un rosa denso che pian piano
diventava più scuro. Il sole appariva per un primo istante come una mezzaluna di color
giallo che lentamente si ingrossava e diventava una palla di fuoco. Gimmy pensò:
“Forse non dovrei stare in questo mondo, ma a cosa servirebbe? Non risolverei proprio
nulla e quei teppisti salterebbero dalla gioia ricevendo la notizia di una mia morte.
Il mio momento di morire non è ancora giunto. Fin quando non morirò voglio combattere
e scontrarmi con le difficoltà della vita. Devo cambiare la mia esistenza, anche
se è un po’ tardi per farlo. Non so come farò, ma voglio farcela. Non serve a niente
che io mi chiuda in me stesso. Quel pappagallo ha già cambiato la mia vita. Anch’io
posso spiccare il volo e trovare la strada che mi riporti alla felicità”. Con molta gioia
si incamminò verso casa sua mentre il sole che si era distaccato dalla linea d’orizzonte
segnava l’inizio di un nuovo giorno. Federico Zaupa
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LA RADIO TRASMITTENTE
di Virginia Ippolito
Menzione parimerito
Motivazioni
La guerra e l’amicizia sono temi complessi da affrontare anche per i più grandi scrittori.
Una menzione speciale a tre giovani narratori ricchi di cuore e talento che lo
hanno saputo fare da punti di vista originalissimi.
P.S.: porto nel mio cuore il vostro sassolino, la vostra gatta e la vostra radio trasmittente!
~
In memoria del nonno Bruno
La notte stava calando sulle case e l’aria fredda gelava i respiri dei soldati che
in quel momento si trovavano al fronte.
Il silenzio invadeva le strade e le chiese distrutte.
Sembrava che non ci fosse anima viva e invece giovani ragazzi da tempo erano stati
strappati alle loro famiglie per essere educati all’arte della guerra e all’eterna paura
di poter morire o finire in trappole nemiche.
Come Luigi, ad esempio.
Era un bellissimo ragazzo, alto e dagli occhi di ghiaccio.
Per molto tempo aveva fatto il giornalista, la sua vita stata spensierata fino alla salita
al potere di Mussolini.
Prima di essere obbligato a partire per la guerra Luigi aveva subito una grave perdita,
si era visto portar via Petruska, la sua cara moglie ebrea.
L’unica spiegazione che gli diedero fu che la giovane donna era di un’altra razza.Proprio
come il nemico che quella notte doveva affrontare e vincere.
Da tre giorni Luigi non dormiva.
I suoi nervi erano tesi e distrutti, le braccia reggevano a fatica il fucile.
Si sentiva stanco, voleva ritornare a casa.
Desiderava lavarsi, potersi mettere vestiti nuovi e scarpe comode, mangiare un pasto
completo.
Il duro compito di stare sveglio di notte lo affaticava ulteriormente poiché di giorno
doveva spostarsi da un rifugio all’altro.
“ Non mi devo assolutamente addormentare, sono responsabile della vita dei miei compagni”,
si ripeteva tutte le volte che iniziava il turno.
Quel giorno la sua squadra aveva ricevuto l’ordine di oltrepassare il confine francese
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e iniziare a prepararsi per un attacco a sorpresa.
“Per quale motivo devono esistere le guerre? Perchè devo combattere contro una persona
di nazionalità diversa, che non mi ha mai fatto nulla, che è, come dice il buon
dio, un mio fratello, un mio simile?” pensava Luigi mentre guardava da un buco del
muro le camionette dei soldati francesi.
Lui e la sua squadra se ne stavano nascosti dietro ad un angolo di una casa distrutta
dai bombardamenti che dava sulla piazza.
Luigi provava rabbia nel vedere che non c’era alcuna differenza tra lui e quei soldati
stranieri. Pensava che stava rischiando la vita per niente, se non per poter permettere
ad un tiranno la sicurezza del suo potere.
Disse tra sé:
“Basta non ce la faccio più!”.
“ Ehi Piè passami una sigaretta che il mio pacchetto vuoto” chiese a Piero.
Questo era un ragazzino ossuto, portava un elmo che gli cadeva in avanti ad ogni movimento,
impedendogli di vedere bene.
“Comandante le ho finite e l’ultima l’ho appena spenta”gli rispose avvicinandosi zoppicando.
E continuò parlare: “Signore, sono mesi che andiamo in giro per montagne
o per città a combattere i nemici e ad uccidere. Quand’è che arriva la pace? Quand’è
che potrò ritornare e starmene in campagna o a far pascolare il gregge. Quei francesi
fino a qualche mese fa erano semplicemente miei vicini di confine, persone gentili ed
educate.
Perché siamo qua?Da mesi questa maledetta radiolina ci dice cosa dobbiamo fare e
quando.
Io sono stufo, me ne voglio andare.Stasera lo farò”, continuò con voce tremante.
Aveva ragione, lui e gli altri ragazzi eseguivano ordini senza batter ciglio rischiando
la vita ogni istante.Luigi lo sapeva ma non poteva lasciarlo muovere, era troppo pericoloso.
Sarebbe morto subito.
“Torna a dormire, invece di raccontare tante fregnacce”gli ordinò .
Passarono le ore, s’iniziarono ad intravedere le prime luci del mattino, il sospiro del
vento riportava la vita nel mondo.
Al risveglio, i soldati sia francesi che italiani facevano rumore, creavano tensione.
Ci fu uno sparo.
Luigi che si era appisolato, si alzò di scatto per vedere bene quel che era successo.
Avevano ucciso Piero.
Nessuno si era accorto della sua fuga tranne il francese, che lo aveva colpito.
Erano stati scoperti.
Furono accerchiati da chi aveva visto scappare quel povero soldato.
Poi vennero condotti di fronte ad un muro.
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Dovevano essere giustiziati verso l’ora di pranzo.
“Signore, desiderate qualcosa prima di essere giustiziato?”
Gli chiese in perfetto italiano Eric un soldato francese.
“Si, una sigaretta per favore”
Il “nemico”, il “diverso”, gliela diede e se ne andò subito..
Era una bellissima giornata di sole. Quelli intorno ripresero le proprie attività camminando
sotto l’occhio scrutatore dei soldati.
Alle undici sul piazzale della chiesa quei poveri disgraziati furono messi in fila: di
fronte ad essi ce ne erano altri armati di fucili, pronti a spargere ancora una volta sangue
lungo i muri.
Luigi senza timore accese la sigaretta e si mise a guardare la croce della chiesa.
“La guerra…la più grande cazzata inventata dall’ uomo” pensava.
Ricordava la sua vita.
Era la sua ultima visione del mondo e delle sue differenze.
Scoccato mezzogiorno, l’ultimo colpo di campana diede inizio alla sparatoria.
Caddero uno dopo l’altro come delle mele marce.
Fu il soldato francese Eric,pieno di sconforto, a dare l’ordine di farli sparire.
Mentre ritornava nel suo accampamento vide per terra la radiolina di Luigi, era rimasta
accesa e qualcuno stava dichiarando: ” La guerra è finita. Tra l’Italia e la Francia
è stato stipulato un accordo di pace. Cessate il fuoco!Non sparate!Le due nazioni
non sono più nemiche.”
Allora Eric si voltò ed eslose un colpo che prese la radio in pieno e la frantumò.
Se quel comunicato fosse stato annunciato prima Luigi e quei soldati ingiustamente
uccisi sarebbero stati ancora vivi.
La guerra era il gioco della paura che constringe a vedere negli altri degli individui
diversi da sè.
Erano diversi perché parlavano un’ altra lingua, perché erano aldilà del confine, perché
avevano un’altra religione? O forse erano diversi solo perché lo avevano deciso
degli altri.
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Virginia Ippolito

UNA DIVERSA, STRANA E SINCERA AMICIZIA
di Valentina Poggio
Menzione parimerito
Motivazioni
La guerra e l’amicizia sono temi complessi da affrontare anche per i più grandi scrittori.
Una menzione speciale a tre giovani narratori ricchi di cuore e talento che lo
hanno saputo fare da punti di vista originalissimi.
P.S.: porto nel mio cuore il vostro sassolino, la vostra gatta e la vostra radio trasmittente!
~
Dopo tre giorni di bombardamenti su Lurroa nessuno poteva immaginare che
in quel luogo di morte e di distruzione potesse esserci ancora qualcosa di vivo e meno
che mai ci si sarebbe aspettati di trovare una grossa grassa gattona.
Era molto carina, di pelo nerissimo e lucido come il velluto, con enormi occhioni verde
smeraldo. Era lì seduta, davanti a quello che una volta era stato un porticato, appollaiata
sui resti di un vecchio tappeto. Si leccava le zampe tranquillamente, come se
quel luogo pieno di lugubri silenzi, fosse stato invece un tranquillo praticello. Lo stupore
degli uomini della IV Compagnia fu enorme, ma lei non se ne curò e continuò
a leccarsi. Ad un certo punto la gattona scorse il sergente Paolo Paoli, e per qualche
strana ragione, nota a lei sola, corse verso di lui come fosse stato il padrone da lungo
tempo perduto. Con un ronfare soddisfatto, cominciò a strofinarsi dentro e fuori le
gambe fangose. Quando Paolo la prese in braccio e schiacciò quella sua brutta faccia
nel pelo morbido e lucido della gattona, tutti scoppiarono in una risata fragorosa.
Era strano e divertente vedere un qualsiasi essere vivente mostrare interesse per il tenebroso
e solitario Paolo. Un secondo sergente propose di adottare la micia e promuoverla
a mascotte della compagnia, ma lei sembrò sorridere con fare sontuoso, guardandoli
dall’alto in basso e non si lasciò neanche per un attimo distogliere dalla propria
fedeltà.
Viveva con Paolo, mangiava solo ciò che lui le offriva e dormiva con lui. Quasi tutti
gli uomini della compagnia cercavano di sedurla con carezze o bocconcini di carne,
ma lei non si faceva corrompere e respingeva tutto con uno sbadiglio altezzoso. Per
Paolo invece quel nuovo strano e diverso affetto era pura beatitudine. L’accudiva con
la possessiva dolcezza di una madre. Le pettinava il morbido e lucido pelo, quasi moriva
di fame perché la micia potesse mantenere quel suo aspetto vigoroso. E continuamente
provava un insolito senso di meraviglia. Lui che era nato in una famiglia
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di contadini, era il più sgraziato e impacciato di tutti i suoi numerosi fratelli, e non
aveva mai suscitato il minimo sentimento in nessuno, uomo o donna che fossero. Nessuno
aveva mai rappresentato qualcosa per lui, fino a quella micia grassa.
In quello stato di felicità però Paolo vi rimase ben poco. Dopo alcuni giorni la sua compagnia
fu scelta per compiere una manovra allo scopo di cogliere di sorpresa il quartier
generale nemico. Secondo le informazioni ricevute avrebbero dovuto marciare per
una quarantina di chilometri sotto il tiro di impietosi cecchini. Sarebbe stata una marcia
durissima. Avrebbero dovuto portarsi dietro cibo e acqua, e per tutta la durata della
missione avrebbero anche dovuto dormire all’aperto, il più delle volte in buche scavate
sul momento.
Al comando furono inflessibili: a Paolo fu comunicato che la presenza di un gatto
avrebbe esposto a grave pericolo l’intera compagnia, pertanto se la povera gattona
fosse stata sorpresa a seguirlo, le avrebbero sparato. Qualche ora prima della partenza,
Paolo portò la sua nuova amica da un cuoco molto grasso di un’altra compagnia,
l’uomo l’accolse con grande entusiasmo. Paolo andandosene però non ebbe il coraggio
di voltarsi sapeva benissimo che gli occhi smeraldini della gatta impietosi lo avrebbero
fissato con un severo sguardo di rimprovero.
Per tutto quel giorno di pericolosa marcia il nostro sergente fu ossessionato dal pensiero
di quello sguardo, non riusciva ad accettare la separazione dalla sua unica grande
amica: con lei, si era lasciato alle spalle moglie, madre e figli.
Durante quella notte, Paolo dormì profondamente, essendo stremato dalla lunga marcia,
ma ad un certo punto nel sonno qualcosa di caldo e morbido gli si strofinò sul viso;
e la sua buca sembrò come pervasa dal ronzio di un frigorifero. No non poteva crederci,
allungò una mano, non era un sogno. La gatta era lì acciambellata ai suoi piedi
soddisfatta di aver ritrovato il suo amico. Al primo impeto di felicità seguì ben presto
una profonda tristezza nel rammentare le parole del comandante. Paolo non sapeva
cosa fare, se avessero scoperto la gatta, l’avrebbero ammazzata e se lui l’avesse riportata
al comando sarebbe stato considerato un disertore. Avrebbe potuto picchiarla
per mandarla via, ma questo gesto il suo animo semplice non poteva neanche pensarlo.
La gatta gli si strofinò nuovamente sulla guancia e miagolò, quasi in modo lamentoso.
Aveva fame, dopo un intero giorno di marcia alla disperata ricerca del suo padrone,
si poteva anche capire.
Improvvisamente Paolo ebbe chiara in testa la soluzione. Se fosse riuscito a resistere
e a non darle da mangiare, la gatta se ne sarebbe andata. Dopo un po’, infatti, con piacere
ma anche provando una grande delusione, Paolo vide la gatta saltare silenziosamente
fuori dalla buca. All’alba non c’era traccia di lei. Si misero nuovamente in marcia
e mentre i soldati procedevano, Paolo ebbe come la sensazione che la visita della
gatta quella sera fosse stato un sogno. Ma la terza notte tornò di nuovo. Gli si strofinò
contro il viso, e gli morsicò delicatamente un orecchio. Miagolava silenziosa-
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mente, ma ora quel suo miagolio era diventato quasi una pietosa supplica. La prima
notte Paolo non aveva visto la gatta, era buio pesto, ma stavolta prese la torcia elettrica
in mano e, prudentemente l’accese. Un gemito gli uscì dalla bocca, la gattona
grassa era diventata magrissima. La pelle le pendeva da tutte le parti; il pelo era arruffato
e sporco di fango; le zampe ferite e sanguinanti per la lunga marcia. Gli occhi
poi, lo guardavano con un’espressione supplicante e di enorme fiducia.
Paolo a quella dolorosa visione, non riuscì più a resistere, decise di prendere il suo
zaino e di tirare fuori una scatoletta di carne. Mentre stava per aprirla, però si rese conto
che così facendo avrebbe condannato a morte il povero animale. “Vattene” disse, ma
l’animale non si mosse e allora tutte quelle sue emozioni represse si trasformarono
in una rabbia irrazionale contro la gatta. “Ti ho detto vattene” e così dicendo le sferrò
un colpo con la torcia elettrica. Per un attimo lei rimase come stordita, poi con un debole
gemito saltò via dalla buca. Passarono altri due giorni e della gatta si erano perse
le tracce, ma Paolo non riuscì comunque a chiudere occhio. Il sesto giorno la compagnia
arrivò nella zona di vero pericolo dove vi erano due baracche, tutt’intorno un
profondo silenzio. Avanzarono guardinghi, si affacciarono per guardare all’interno di
una di queste costruzioni, pareva loro come se qualcuno avesse abbandonato improvvisamente
la postazione. Dentro ad una delle baracche un tavolo costruito in maniera
rozza troneggiava al centro dell’angusto locale. Paolo avanzò lentamente, si avvicinò
alla porta, ma vide qualcosa muoversi all’interno……si arrestò
improvvisamente, ed ecco che la gatta, una volta grassa, uscì fuori zoppicando vistosamente.
Anche se il pericolo sembrava essere imminente Paolo si sentì fiero di scoprire che
lei non lo avesse abbandonato. Con i nervi a fior di pelle per la tensione vide la micia
nuovamente sparire all’interno della baracca, il silenzio era totale, si sentiva solo
il fruscio che le zampette facevano calpestando l’erba ormai rinsecchita. Si rassicurò
che dentro non doveva esserci proprio nessuno e così entrò. Sul tavolo rozzo si trovava
ancora un cosciotto di agnello bello cotto. L’amico di Paolo, Enrico, tirò un urlo
di gioia, finalmente, dopo giorni di schifose scatolette, potevano mangiare qualcosa
di diverso. Enrico fece per avvicinarsi, ma la gatta con un balzo improvviso si mise
davanti al cosciotto soffiando come un mantice. Enrico si chinò per prendere un sasso
e scacciarla, ma Paolo si indignò. Nei giorni scorsi aveva mandato via brutalmente
la povera gatta, l’aveva fatta quasi morire di fame, eppure lei lo aveva seguito con fedeltà
cieca ed assoluta. Quel cosciotto avrebbe dovuto essere la ricompensa per la sua
micia. Lento di cervello e di animo semplice com’era sempre stato, gli sembrava che
la cosa più importante al mondo adesso fosse assicurare a quella povera creatura indifesa
la giusta parte di bottino.
Ma mentre Paolo stava facendo tutti questi ragionamenti, la gatta con la zampa fece
volare in aria il cosciotto, Paolo si lanciò nella radura. Un istante dopo, un’esplosione
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assordante lo costrinse a gettarsi a terra. Qualche secondo più tardi, quando si rialzò,
il tavolo e la baracca erano scomparsi, e al loro posto c’era un cumulo di rovine i
fiamme. Nel suo stordimento udì la voce di Enrico “Era una trappola, sotto quel cosciotto
c’era una bomba. Accidenti, se la gatta non lo avesse fatto volare in aria e noi
fossimo andati a prenderlo…adesso saremmo in paradiso”. La voce gli mancò di
colpo, trasformandosi in un mormorio. “La gatta! Penso sia saltata in aria…ma ci ha
salvato la vita”. Paolo non riusciva ad emettere alcun suono, un nodo gli stringeva la
gola. Si lasciò nuovamente cadere a terra, sentendosi più triste e solo di quanto non
si fosse mai sentito in vita sua.
Poi ad un tratto dietro le sue spalle udì un ronfare soddisfatto, si girò di scatto e sopra
una rozza stuoia, che l’esplosione aveva fatto volare fuori dalla baracca, là in
mezzo all’erba, tranquillamente seduta, la gatta gli sorrideva.
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Valentina Poggio

BLACK
di Virgilia Ramella
Menzione parimerito
Motivazioni
La guerra e l’amicizia sono temi complessi da affrontare anche per i più grandi scrittori.
Una menzione speciale a tre giovani narratori ricchi di cuore e talento che lo
hanno saputo fare da punti di vista originalissimi.
P.S.: porto nel mio cuore il vostro sassolino, la vostra gatta e la vostra radio trasmittente!
~
C'era una volta una pecora nera. Un brutto anatroccolo. Uno che era solo
in mezzo a tanti. Uno che voleva vivere in pace e che era umiliato da tutti. In
un luogo lontano ed abbandonato viveva un piccolo sassolino. La sua storia vi
può sembrare noiosa, una perdita di tempo, una fiaba per bambini, un altro insulso
modo per farvi capire che cosa è la diversità. Vi sbagliate. Perchè la vita di
questo piccolo frammento di pietra è così meravigliosa e sincera che vale la pena di
essere ascoltata. Lui non era come gli altri. Immaginate la scena. Cielo terso e accarezzato
da piccoli germogli di seta bianca della stessa consistenza dello zucchero
filato, aria fresca ed aromatizzata dalla salsedine e poi loro. Una distesa di ghiaia
bianca.- Che posto -meraviglioso- -luminoso- -bianco-.....La gente spesso dava alla
ghiaia il merito di ogni cosa. Gli abitanti dell'isola credevano che ogni singola pietruzza
fosse un dente di squalo, tante sacre benedizioni,dato che i pescecani erano la
loro unica fonte di sostentamento. Bhè Black era nero. Pareva basalto. Lucido e scuro
come una notte d'inverno. Nessuno si era ancora accorto di lui. Tranne la ghiaia naturalmente.
Black aveva tutto ciò che un sassolino potesse mai desiderare: era in cima
a tutti gli altri suoi coetanei a livello del mare limpido e turchese, era in un’ottima posizione
da dove poteva godersi una meravigliosa vista sulla distesa di acqua e un tiepido
sole luminoso riscaldava le sue viscere anche nei giorni più ombrosi. Un giorno
sull'isola arrivò una giovane famiglia, in vacanza probabilmente per esplorare il posto
e rilassarsi, non che quello fosse un paradiso turistico, intendiamoci. Sbarcò su
una piccola barca e calpestò la sabbia con occhi sognanti. C'era un uomo alto con
una camicia leggera, una donna che trascinava una piccola valigia e un bambino che
avrà avuto all'incirca otto anni. Si chiamava Alì, un nome misterioso che i suoi genitori
gli avevano dato dopo un lungo viaggio in Egitto. Il giovane avventuriero
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stava ammirando la fantastica vegetazione dell'isola quando vide un piccolo puntino
nero. Si avvicinò calpestando la candida ghiaia, si accucciò e guardò Black.
E Black guardò lui. -Alì forza vieni ad aiutarci!- urlò il padre. Lui alzò la testa, tese
la mano e prese il sassolino. Black era sorpreso di venir trascinato via dalla sua spiaggia,
ma tutto sommato non gli dispiaceva così tanto: non aveva amici. Quando Alì
andò via dall'isola divenne amico del sassolino. La mattina prima di andar a scuola
lo lasciava davanti alla finestra della sua camera in modo che potesse guardare fuori
ed esplorare il mondo. Quando il bambino tornava si avvicinava a Black con i suoi
grandi occhi blu e gli diceva -Sei il mio unico amico- Diventava tutto rosso e le sue
guance paffute venivano accarezzate da piccole lacrime. -Perchè i miei amici non mi
vogliono bene?..sai, loro mi prendono in giro. Ma la mamma mi dice sempre che non
conta il tuo aspetto,ma come sei dentro ...Secondo te sono cattivo?...-Black a quel
punto avrebbe voluto dirgli che non aveva mai conosciuto una persona buona come
lui, tendergli le braccia e stringerlo forte a sé, ma essendo solo un piccolo frammento
nero di ghiaia non poteva fare nulla. Alì la domenica se lo metteva in tasca ed andava
a comprare il giornale nell'edicola dietro casa, lo apriva per un attimo e poi lo richiudeva,
perchè non voleva leggere le brutte notizie sul bullismo che brulicavano
ovunque tra le pagine dei quotidiani. Aveva estremamente paura che gli potesse accadere
qualcosa di brutto prima o poi. E successe. Quel giorno era tutto tranquillo,
il vento era cessato gia' da qualche ora, la rugiada macchiava le strade e Alì camminava.
Si muoveva con tenera goffaggine sul vialetto poco distante da casa. Black
giaceva davanti alla finestra ancora addormentato. Il bambino arrivò davanti a scuola
stretto nel suo cappotto. Ma qualcosa urtò la sua spalla destra. Si voltò. Davanti a
lui c'era un ragazzo. Lo guardava. -Ho sentito quello che hai detto a mio fratello sai.
Non mettergli strane idee in testa-... -Ma la mamma mi dice che è così. - Alle 8.30
Black si svegliò di soprassalto. La mamma di Alì si avvicinò. Piangeva. -E' morto.bisbigliò.
-L'ennesima vittima della diversità. Solo perchè era buono e voleva far
capire a un suo compagno cos'è che conta veramente. Ricorderò per sempre i suoi occhi
meravigliosi. Mi dispiace piccolo Black. Mio figlio ti considerava come un
amico. Ti terrò con me. Non preoccuparti....- E fu così. L'estate stessa i genitori desolati
decisero di partire per una vacanza. Magari per ricordare il loro bambino e il
suo amore per i viaggi. La donna quando l'aereo fu alto nel cielo prese il sassolino e
lo posò sul sedile vuoto accanto a lei. E' incredibile con quanta cura lo teneva. Black
intanto tramava un piano. Aveva preso una decisione importante. Improvvisamente
incontrarono una perturbazione. Il ciottolo cadde vicino alla portiera di salvataggio,
incontrò un piccolo foro e cadde. Il suo piano era andato per il meglio. L'aria lo avvolgeva
durante la caduta lasciandolo senza fiato. Improvvisamente si adagiò su qualcosa
di morbido e caldo. Era piombato su una soffice ala di uccello. Era lì sotto le nuvole
avvolto da piume bianche. Ma sperava di continuare la sua discesa verso il basso.
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Voleva raggiungere il suo scopo. Come se il volatile avesse ascoltato i suoi pensieri
sbattè le ali con forza. E Black si ritrovò sospeso nel vuoto. E poi. -Plik.- Ce l'aveva
fatta. Era caduto nel mare. Secondo una leggenda della sua isola se uno di quei tanti
denti di squalo fosse caduto in mare avrebbe smesso di vivere. Sarebbe andato in Paradiso.
E Black voleva andarci. Voleva stare con Alì. Senza preoccuparsi di essere
bianco o nero, piccolo o grande, magro o grasso, ricco o povero, alto o basso, ma solo
se stesso. E quando sarete in Paradiso anche voi vedrete un bambino con due grandi
occhi azzurri, un po' grassottello, che tiene tra le mani un piccolo sassolino nero che
ridono insieme. Per sempre.
“ Un amico è un'ottima scusa per lasciare ogni altra cosa “ Charlotte Gray
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Virgilia Ramella

LA DIVERSITÀ VESTE GUCCI
di Alessia Anfossi
~
È lì sul letto. Di quel rosa che aveva colpito il suo cuore immediatamente. È
così innocuo che nessuno ci farebbe caso. Sta lì senza disturbare, avvolto da un profumo
dolce e seducente, l’ultimo di Bulgari, “rose essentielle”. Così, indossando le
ultime cose, Fabio lo prende e lo mette intorno al collo per coronare il suo abbigliamento
fashion, impeccabile come al solito. Ovviamente il suo foulard preferito non
poteva mancare. Un’ultima occhiata allo specchio: perfetto.
Scende le scale con la calma e la classe di un gatto, come se avesse il passo vellutato.
Forse sono le sue nuove Gucci laccate. O forse è proprio il suo modo di fare. Apre il
portone e si trova un mondo di fronte. L’aria fresca che gli scompiglia i capelli, il vigile
che si agita col suo fischietto in bocca in mezzo alla strada, una vecchietta con
il nipotino, lo spazzino che svuota i bidoni, una bella ragazza con tacco 12 che cammina
sul marciapiedi sicura come una modella. E tutto a pochi passi da lui. Questi particolari
Fabio li riesce a cogliere ogni volta che mette il naso fuori dal suo appartamento.
Quel giorno aveva deciso di fare ciò che voleva del suo pomeriggio, visto che
non doveva lavorare, quindi optò per un giro in centro, ad assaporare la vita. Pochi
passi e scorge già le occhiate strane della gente: la vecchietta di prima ammonisce il
nipotino al guardarsi bene dal diventare come Fabio, lo spazzino gli tira un’occhiataccia
preferendo i suoi rifiuti a lui, la “modella” nemmeno lo degna di uno sguardo
sapendo che tanto non ne varrebbe la pena…l’unico a non interessarsi di Fabio è solo
il vigile.
Nella sua vita è ormai abituato alle cattiverie delle persone nei suoi confronti e non
reagisce neanche più. All’inizio si sentiva ferito profondamente, ogni giorno piangeva,
solo con se stesso in un appartamento buio e lontano dal mondo, che lo escludeva da
farne parte. Ora, sebbene ancora molta gente non lo capisse, si sentiva parte di quel
mondo che in realtà era anche suo e gli aveva dato la vita. Appena saputa la notizia,
era stato difficile farsi accettare anche dai suoi genitori, ma dopo un po’ avevano capito
che un figlio è la cosa più bella che possa esistere e gli si deve sempre stare accanto,
nel bene e nel male. Così per dargli prova del loro amore gli avevano regalato
quel bellissimo foulard rosa.
Convinto dei suoi atteggiamenti e delle sue azioni cammina per strada a passo sicuro,
in mezzo ad una folla che spesso non lo discrimina con i fatti, ma con le parole, che
è peggio. Sente il vociferare cattivo delle persone che lo sentono “diverso”, che lo considerano
uno scherzo della natura, qualcosa che non deriva da Dio, ma una creatura
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a parte, appunto DIVERSA. E ogni volta Fabio si pone la domanda: “Ma diverso da
chi?”. Chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? E la sua risposta è sempre la stessa:
nessuno. Finché non sarà contraddetto da una risposta diversa egli continuerà ad essere
se stesso, a distanziarsi dall’ipocrisia di cui è piena il mondo. Ormai non si fa più
intimorire, sente di farcela e sa per certo che un Fabio è molto meglio di altre mille
uomini che stanno là fuori, in quel mondo popolato da esseri malvagi, violenti, cinici
ed indifferenti ai mali che esistono. Perché lui è buono, intelligente, comprensivo, altruista,
carismatico e nutre molto rispetto verso le donne, oltre a tutto ciò che lo circonda.
Tuttavia i commenti dei ragazzi dietro di lui, le risatine fastidiose di quelli che vede
arrivargli incontro lo rimandano al suo difficile passato di adolescente. Si dice che
l’adolescenza sia l’età più bella, carica di emozioni e nuove esperienze. Per lui non
era stato così. È stata l’età della presa di coscienza, in particolare del proprio corpo,
l’età delle discriminazioni a scuola (e si sa, i bambini e gli adolescenti sanno essere
molto cattivi a causa della loro ingenuità e immaturità), l’età dei litigi in famiglia. E
ogni volta si trovava a fare i conti sempre e solo con se stesso. Ricorda ancora quelle
stesse risatine che gli rimbombavano nella testa anche la sera, quando si trovava da
solo nel letto a navigare nei suoi pensieri, ad immaginare un futuro migliore, se non
una vita diversa dalla sua. Si sentiva un errore, quando provava piacere nel scegliere
i rossetti con le sue amiche, preferendo un pomeriggio tra femmine, rispetto ad una
partita a calcetto con i compagni. Provava vergogna nell’ammettere quello che realmente
era, sentendosi trattato al pari di un animale, privato della dignità e dei diritti
che spettano ad ogni uomo. Pensava sempre alla libertà di opinione, alla libertà di
espressione, presenti addirittura nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo americana
ed era convinto che quel pezzo di carta così prezioso nel suo caso non valesse niente
e che Jefferson avesse compiuto i suoi sforzi invano, o perlomeno solo per una cerchia
ristretta di “scelti”. Cercava di reprimere le farfalle allo stomaco quando era vicino
al “più bello della classe”, cercava di soffocare i suoi sentimenti e le sue emozioni.
Ma ovviamente la sua spiccata personalità era già venuta fuori da tempo, in tutta
la sua rara completezza.
Ora il profumo di Bulgari lo riporta al presente. Quando si accorge di aver viaggiato
con la mente nei suoi ricordi, ormai lontani, si forma una lieve piega sulla sua bocca.
Sa di poter affrontare tutto ciò e sa che un giorno queste ingiustizie finiranno. Quindi,
con la positività che lo fortifica da sempre, oltrepassa le cattiverie della gente e torna
a casa, contento di un nuovo giorno passato a vivere ed assaporare il mondo. Scioglie
dal collo il foulard, che sinuosamente si lascia cadere sul letto. E per tutta la casa
riecheggiano le fiere parole di Fabio, pronunciate senza paura né vergogna di fronte
allo specchio: io sono gay!
Alessia Anfossi
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IL PIANISTA BALLERINO
di Nives Balestra
~
Ecco, come al solito sono in ritardo! Sono già le cinque e dieci e mi mancano
ancora tre rampe di scale, salgo i gradini di corsa due alla volta con la borsa pesante
dei libri che mi sbatte contro il polpaccio; se non amassi così tanto suonare, non farei
mai nulla di tutto questo. Mi immagino già la faccia di Daniela, la mia insegnante
di pianoforte, andiamo molto d’accordo sulla musica, ma lei odia chi arriva in ritardo
e io odio arrivare in anticipo. “Scusami!” sbotto ansimando appena apro la porta dell’aula
“in ritardo di esattamente undici minuti e quaranta” risponde una voce seria e
pacata che non è affatto quella di Daniela; mi accorgo infatti che seduto dietro al pianoforte
a coda c’è un uomo, la testa biondissima china, mi avvicino
“dov’è Daniela?”
“Daniela non ci sarà per un bel po’” risponde senza guardarmi con lo stesso tono calmo
di prima “è stata chiamata con urgenza per organizzare un concorso a New York. Per
almeno due mesi sarò io il tuo insegnante”.
Resto indecisa sulla soglia ascoltando il mio respiro, lui alza la testa: i capelli lunghi
fino oltre le spalle e la pelle bianchissima “allora, vogliamo suonare?”.
E’ lui! Non lo conosco, l’ho visto solo di rado qui al conservatorio, ma ne ho sentito
parlare molto, so che ha già un diploma in pianoforte e uno in composizione e ha solo
venticinque anni; in un attimo ricordo la voce di Daniela: “E’ un pazzo! Non pensa
ad altro che alla sua musica”. Ecco cosa so davvero di lui: è un pazzo. Quasi me ne
andrei. Ma lui è lì, serio, che mi guarda con i suoi occhi di ghiaccio. Allora mi sblocco,
mi siedo al piano e inizio a suonare un valzer di Chopin, il mio preferito, ma sono agitata,
le mani mi tremano, glisso una nota, due, accidenti sto facendo uno schifo! Sono
troppo arrabbiata con Daniela per riuscire a concentrarmi, e mentre cerco di riprendere
il tempo, il matto mi blocca senza guardarmi con un gesto appena percettibile
della mano “abbiamo torturato Chopin abbastanza” si volta verso di me, i suoi occhi
son davvero chiarissimi, poi mi accorgo che anche le pupille sono bianche: è cieco.
“Dove avevi l’anima mentre suonavi, o meglio, schiacciavi dei tasti?”
Stavolta non riesco a trattenermi “Perché non provi tu e non mi insegni qualcosa, invece
di insultarmi?”.
Cade il silenzio, sento l’eco del violino calante dell’aula accanto. Ho quasi paura di
averlo offeso, la sua espressione è indecifrabile, ma ad un tratto si alza e io gli lascio
il posto sulla panca. Appena seduto le sue mani lunghe, secche e bianche cercano subito
la tastiera, poi inizia a suonare, e allora capisco cos’aveva voluto dire con “dove
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avevi l’anima?”. E’ come se Chopin avesse scritto quel pezzo apposta per lui. La musica
sembra uscirgli direttamente dai polpastrelli delle mani, che al contrario di lui ci
vedono benissimo. Ogni singola nota prende vita nell’attimo del suo tocco. Lui non
suona musica, ci vola dentro e balla con lei: un ballerino pazzo e cieco, ma perfetto.
Il pezzo è finito e io non ho più parole, so solo di essermi completamente dimenticata
del mio risentimento di prima, di Daniela, di tutto. Effettivamente ora tutto ciò
che provo è solo totale ammirazione verso quel pazzo ballerino, che ora in piedi cerca
incerto la sedia con la mano.
Ad un tratto si apre la porta: è la segretaria che come al solito non bussa mai. Senza
salutare va spedita verso il mio ballerino con quell’espressione insoddisfatta di sempre
sulla faccia da rospo. Lui si alza.
“Firma qua...” sbotta infastidita lei sbattendogli un foglio e una lettera sotto il naso.
Lui le si mette di fronte, insieme sembrano quasi una contraddizione: lei bassa e tarchiata,
lui alto e magrissimo.
“Cos’è?” chiede lui, lei sbuffa con quella bocca larga di rospo “qua c’è scritto un certo
John Suppleton” dice rigirando la lettera “arriva da Oxford”
“Da Oxford?”
“Sì... immagino sia un altro direttore d’orchestra che si rifiuta di dirigere qualche tuo
nuovo pezzo, vero Maestro?” dice accentuando quest’ultima parola con disprezzo “ora
non ho tempo da perdere, firma qua per favore” e così dicendo poggia seccata il foglio
sulla coda del piano. Lui prende una penna dalla scrivania accanto e titubante la
appoggia sul foglio “...dove?” chiede poi imbarazzato
“Ma come ‘dove’? Lì davanti a te!” Io le tiro un’occhiataccia
“Sì ma di preciso?” chiede ancora lui, il rospo allora gli prende la mano sbuffando e
la sposta malamente sul posto esatto della firma “credi di riuscire a firmarlo da
solo?” dice infastidita “E’cieco non scemo” mi intrometto io.
Il rospo lascia la busta sul pianoforte, gli strappa il foglio dalle mani non appena quello
ha firmato e biascica un misero saluto prima di sbattersi la porta alle spalle.
Mi volto verso di lui: è ancora più cupo di prima. Quel ballerino prima così sicuro di
sé mentre accarezzava i tasti bianchi e neri, era appena stato umiliato da quell’orribile
donna. Vorrei dire qualcosa di conforto, ma non trovo le parole.
“Forza” dice quello “fammi sentire qualcos’altro”
“Non vuoi aprire la busta?”
“La apriamo a fine lezione”.
Allora tiro fuori un improvviso di Shubert e inizio a suonare. Questa volta mi concentro
e cerco di dare il meglio di me, sono più rilassata e cerco di suonare con l’anima.
Quando finisco mi volto verso di lui: per la prima volta lo vedo sorridere “non c’è
male” mi dice poi soddisfatto, sorrido anch’io, che sollievo!
Le due ore della lezione passano in fretta, suoniamo, parliamo e scherziamo, ma io
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non riesco a trovare alcuna ‘pazzia’ in Tommaso (mi ha appena detto di chiamarsi così)
tranne forse il modo in cui parla della musica, come fosse assorto, e mi sorprende che
Daniela, musicista anche lei, non riesca a capire questo strano personaggio.
Usciamo dall’aula e per le scale lui si tiene alla ringhiera e al mio braccio.
“Ah, la lettera!” dice ad un tratto. Si ferma, prende la busta dalla tasca del cappotto
e me la tende con quelle sue mani sottili “potresti leggermela?”. Io allora la apro: dentro
c’è un foglio ripiegato scritto a mano in inglese, io provo a tradurre meglio che
posso
“Egregio sig. T.Belilacqua, ho apprezzato molto l’armonia del pezzo per orchestra che
mi ha spedito, credo quindi di inserirlo come suo primo esordio nel prossimo concerto
qui ad Oxford” la lettera continua con la data del concerto e le proposte per il pagamento,
ma io entusiasta mi fermo per guardare Tommaso: sta di nuovo sorridendo, le
pupille bianche perse nel vuoto, allora finisco di leggere per lui. Poi gli ridò la lettera
e continuiamo a scendere le scale, al piano terra incrociamo la maestra Luciana che
ci guarda con un misto di stupore e malizia, ma non le presto alcuna attenzione. Davanti
al portone lui si ferma
“Qua dietro l’angolo c’è un bar, ti offro qualcosa per festeggiare”
Io lo guardo: i capelli lunghi sembrano ancora più chiari alla luce del sole, sta ancora
sorridendo, non c’è più niente dell’espressione cupa di due ore fa.
“D’accordo” dico io contenta, e mentre ci incamminiamo vorrei solo che quel rospo
della segretaria fosse qui ad assistere alla vittoria del mio pianista ballerino.
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Nives Balestra

UGUALE A CHI?
di Mario Barbarino
~
- Brian! Brian! Che stai facendo? –
- Hey, a Sua Maestà serve la doccia: fate spazio; ti sto prendendo in giro. -
- Non ci posso credere che tu sia in queste condizioni! -
- Ero appena tornato da Serena e Marco e ho pensato di darmi una rinfrescata.
-
- Ok chiariamo una cosa, il bagno è in comune, ma non per questo puoi andartene
in giro nudo e bagnato gocciolando su tutta la moquette. Ora devo lavarmi
per forza: POTRESTI andare fuori? Sai che ti dico? Lascia perdere, sono già in ritardo
per la lezione di Biologia. - In realtà non sapevo neppure che ore fossero; dall’accecante
luce sulle piastrelle appannate potevano essere le 8,30. - Tieni! - Gli
lanciai un asciugamano in faccia, - almeno mettiti questo attorno! –
Feci un paio di passi frenetici; decisi di sbollire la rabbia restando in completo
relax sul letto ancora disfatto: lenzuola e coperte erano tutte aggrovigliate e incastrate
tra il muro e il materasso. Guardai l’orologio: erano solo le 7,30. Con meno preoccupazione
per l’ora posai lo sguardo su delle scritte arancioni stampate lungo le cuciture
diagonali della coperta. Mai viste, mi erano rimaste nascoste per più di un anno,
da quando avevo preso quell’appartamento. Iniziai allora a leggerne alcune: “…….”.
Cosa voleva dire?; a caso leggevo qua e là: “… ood moorning”, “… wake up”, “…
what’s wrong with me”. Mi stavo per alzare quando mi ripassarono davanti agli occhi
come le sagome delle luci che continui a vedere chiudendo e aprendo gli occhi come
bagliori, le parole “cosa c’è in me che non va”.
Era vero? C’era davvero qualcosa che non andava in me? Ero sbagliato/a o
semplicemente: diverso/a?
Sicuramente la mia vita non era come quella condotta da Brian. Se la sregolatezza e
la pazzia avessero cercato di prendere corpo, quello palestrato di Brian non si sarebbe
certamente opposto. Perché era giovane e irresponsabile, pensai. Perché aveva quel
tocco di follia che lo rendeva invidiabile. Sì, un po’ lo invidiavo per quelle piccole trasgressioni
che lo rendevano allo stesso tempo stravagante e affascinante, la combi
per cui i giovani venderebbero l’anima se non l’avessero già spesa per il vestito di
paillettes rosse da abbinare con la borsa di Gucci o l’i-phone invidiabile da tutti, nella
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vetrina all’angolo.
A proposito di vestiti, mi ricordai che dovevo passare a ritirare nella sartoria
della mamma di Serena il vestito per quella sera.
“Cazzo! È tardi! “ Guardai l’ora, fra venti minuti avevo lezione. In quel momento
provai il grande desiderio di conoscere l’inventore del quarto d’ora accademico
per stringergli la mano e complimentarmi come avrebbe fatto Brian di fronte ad Abramovich.
- Ciao Brian! Ci vediamo questa sera alla festa in facoltà? – Urlai mentre infilavo
gli ultimi libri nella borsa che da un paio di giorni erano rimasti sul davanzale
in attesa che li degnassi di uno sguardo. Brian non rispose: era un sì.
Corsi giù dalle scale. Ero in perfetto orario quando varcai la soglia dell’immensa
aula. Era mezza vuota, ma vidi una ragazza che si alzava e sventolava in aria
mani e fogli facendomi segno di andare da lei. Era Serena, mi aveva tenuto un posto.
– Allora è andata bene la serata con Brian e Marco? – Esordii con l’aria di
chi conosce già la risposta e lo chiede quasi per consolare l’altro. – Fantasticamente!
Sono stati due stelle. – Mi sentii rispondere. Era estasiata dalla serata passata con
Brian. Chi l’avrebbe detto che Brian avesse un cuore. Serena fece un sorriso da scema
e prese la penna e scrisse la data in cima alla pagina. Si sentiva desiderata e questo
le bastava.
Dopo cinque minuti di lezione su Darwin non sopportavo già più il professore
che parlava come se dovesse spiegare la lezione al “mozzicone” di gesso posato sulla
cattedra, il caldo soffocante e il libro diventato inopportuno fin dalle prime dieci righe
che avevano l’aria di essere lì solo per riempire uno spazio di fondo pagina rimasto
senza immagine.
- La seconda conclusione a cui arrivò Darwin é la variabilità intraspecifica.
Gli individui di una stessa specie sono diversi gli uni dagli altri. – Finalmente qualcosa
di interessante.
– Lei sostiene davvero che ognuno di noi sia diverso da chiunque altro? – Non
era possibile. Ero in piedi, avevo interrotto la lezione e avevo pronunciato di riflesso
quelle ardite parole. Stavo per dire “Scusi, continui la lezione”, ma quella testa dai capelli
sempre scompigliati che mai si era rivolta verso noi, si voltò osservandomi con
un’espressione ambigua sulle sottili labbra, che in quell’istante irreale non avrei saputo
definire sorriso piuttosto che ghigno, mentre io ero ancora in piedi, come pietra,
in preda ad un’improvvisa sfrontatezza del tutto nuova ed eccitante per me.
- I suoi problemi se li risolva da sé, magari senza rimanere qui a scaldare la
sedia. –
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Non ricevevo una lavata di capo del genere da quando al Liceo in gita scambiai
l’acqua della bottiglietta della professoressa di Scienze con quella del gabinetto.
- Grazie professore, è il consiglio più importante che abbia mai ricevuto. Grazie,
grazie! – Dissi. Sì, aveva ragione non potevo rimanere nell’eterna attesa che qualcosa
cambiasse. Fosse il mondo a dover cambiare oppure io.
Presi libri e borsa ed uscii correndo dall’aula. Mai avevo provato tanta felicità,
disorientamento e certezza in quello che stavo facendo.
“C’è qualcosa in me che non va…” Dovevo dar retta ad una coperta? Così sembrava.
Avevo ventun’anni e non mi conoscevo bene e due cose sole sul da farsi mi
erano chiare: una, dovevo andare a ritirare il vestito, due avevo terribilmente bisogno
di quella coperta, sentivo che aveva un ascendente magico su di me. Ma alla festa non
mi sarei presentato, sarebbe stata l’ennesima occasione per scappare dai miei problemi.
- Hey, vengo anch’io! – Era Serena. Due ore dopo mi trovavo in riva al mare:
io, Serena, il mio vestito elegantissimo indosso e una coperta gialla dalle scritte arancioni
sottobraccio.
Qualcuno passando avrà sicuramente pensato che avessi qualche problema. Sì,
forse qualche rotella l’avevo persa, ma avevo finalmente deciso di andarne alla ricerca.
Quando avevo cinque anni su quella stessa sabbia chiara e fine appena vicina
all’acqua cercavo le conchiglie, ma in quel momento, a ventun’anni vi cercavo quello
che nessuno mi poteva dare, quello che non avevo ancora trovato: la mia identità.
Stendemmo la coperta su quello scoglio, un angolo di paradiso, calmo, isolato,
racchiuso nella stessa pace in cui era stato immerso il mare quella sera d’estate passata
a bordo di un pedalò con il mio primo amore. Chiudemmo gli occhi senza dirci
niente. Questo mi piaceva in Serena, non mi faceva domande: sapeva che non ne possedevo
le risposte. Nulla si muoveva, vedevamo il sole basso, ormai all’orizzonte illuminarci
le palpebre di un caldo arancione ed io mi tuffai in una profonda riflessione,
un lungo sogno tappezzato da milioni di domande come stanze chiuse in sotterranei
o libri scritti in una lingua sconosciuta.
Non dovevo cercare le risposte rinchiudendomi, non era quella la soluzione,
non era quella la via per la mia felicità. Il vero punto era vivere ogni cosa. Vivere le
domande.
Aprii gli occhi. Capii: il destino mi aveva portato fin là e magari sarebbe arrivato il
giorno in cui mi sarebbe stata data, senza che me ne accorgessi, la chiave della risposta.
E capii che non dovevo aspettare oltre per vivere il mio sogno. Allora mi sentii
grato della mia diversità, o meglio della mia Unicità che mi era stata donata e
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nonostante non conoscessi le gioie e i dolori che la vita mi serbava, ringraziai il Signore
per la mia esistenza.
- Sono fiera di te – Serena aveva colto ogni più piccolo passo della mia mente
osservandomi gli occhi, specchio dell’anima. Sì, erano chiusi, ma Serena aveva poteri
speciali, così come lo erano le sue parole - Ti voglio bene. Chi ti vuole bene ti sarà
sempre vicino -
- Penso che passerò alla festa all’università, sai? C’è una persona con cui devo
parlare. –
Arrivai alla festa appena prima dell’apertura. Fuori dalla sala vi erano radunati
i miei compagni di studi. Non ci salutavamo tutti, ma ognuno era conosciuto, ognuno
etichettato, ognuno era quello che doveva essere.
“Non essere triste” mi dissi, “questa sera ti ha già mostrato il suo tramonto” ma
sentivo che non avrei dovuto aspettare tutta la notte per rivedere il sole.
Gli corsi incontro.
Nulla mi avrebbe più fermato.
Guardava me ed io lui.
Rividi la mia vita, come al rallentatore. Immagini e suoni si susseguivano: la
mattina che scoprii la mia diversità in una piazza affollata, la prima comunione, il mio
primo amore, le lacrime versate e quelle ingoiate, il primo giorno delle superiori, il
pomeriggio passato al mare a riflettere sotto al sole e una felicità immensa due bocche
che si univano a d uno splendido sorriso di gioia.
Brian mi baciò.
Non importa chi io sia;
se uomo o donna,
nero o bianco,
omosessuale o etero,
diversamente abile o no,
amore o errore,
angioletto o peste,
sono ciò che rende ognuno unico in un mare di uomini uguali.
Mi chiamano “Diverso”, ma preferisco: “Speciale”.
Mario Barbarino
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LA CERA E I BISCOTTI
di Giacomo Berio
~
Era uno dei soliti sabati pomeriggio: umido, cupo e piovoso. La pioggia;
quando la chiami non arriva mai e quando non la vorresti eccola puntuale e ti rovina
i programmi del fine settimana. -Ma allora lo fa apposta – disse Pietro tra sé e sé.
Aveva organizzato una bella gita in bicicletta con i suoi amici, niente di speciale. Ciò
che lo innervosiva era il fatto di non poter staccare la testa da quella maledetta routine
ma soprattutto sapeva benissimo cosa lo aspettava quel pomeriggio.
-Tesoro sei pronto?- Esclamò una voce femminile dall’altra stanza. – Si eccomi arrivo
subito-. Eccola tutta in tiro, truccata come se dovesse andare alla scala di Milano,
che palle- Pensò Pietro.-
Salirono in macchina, fecero un breve tragitto parlando delle loro giornate lavorative
che ovviamente era sempre uguali. -Sono contento che tu sia venuto, ci vuole la pioggia
perché tu trascorra un po’ di tempo con me!- Disse Anita ricevendo in risposta un
mugolio.
Arrivati a destinazione Pietro pensò a che bel pomeriggio lo aspettava: un pomeriggio
trascorso tra gli scaffali pieni di prodotti in offerta a scegliere quale tra le cere
avrebbe dato più luce ai pavimenti della loro casa o quale marca di biscotti aveva il
miglior rapporto qualità-prezzo.
Parcheggiarono, presero il carrello ed entrarono nel maestoso edificio davanti a loro:
il più bel centro commerciale della città.
Anita continuava a girare tra gli scaffali e metteva ininterrottamente roba nel carrello.
Pietro invece la seguiva rassegnato e ad ogni cosa che lei prendeva, lui le chiedeva a
cosa le sarebbe servita. Vedeva passare davanti ai suoi occhi montagne di roba: generi
alimentari, detersivi, cosmetici ed era convinto che tutto quello sarebbe loro bastato
per almeno un anno. Ma il brutto era quello perché questo sforzo l’avrebbe anche
fatto una volta all’anno ma in realtà Anita si recava lì circa una volta ogni 2 mesi,
considerato che chiamava la spesa “semestrale”e lei gli chiedeva: - Tesoro mi accompagni
al centro commerciale?- e lui le rispondeva sempre nello stesso modo:-
Amore questo fine settimana sono occupato mi dispiace. Ciononostante lei non si perdeva
d’animo e chiamava Elena oppure Valentina e così via. Ovviamente Pietro cercava
ogni scusa per evitare la spesa “semestrale” ma quando pioveva non aveva
scampo.
Passarono così circa 3 orette alla fine delle quali il carrello si era magicamente raddoppiato.
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-Tesoro cerca la cassa in cui c’è meno coda che io ti seguo- esclamò Anita. Pietro che
fremeva dalla voglia di andare via sapeva che il peggio non era ancora passato infatti
c’erano molte altre cose da fare: Aspettare che si liberasse una cassa(e questo richiedeva
già un quarto d’ora), Passare tutti i prodotti sul bancone, infilare il tutto nei sacchetti,
ricaricare il carrello, trasportarlo fino alla macchina, caricarla, arrivare a casa
e infine aiutare Anita a METTERE TUTTO A POSTO!.
Dopo che ebbero pagato e caricato la spesa salirono in macchina: si leggeva sul viso
di Pietro una sorta di sollievo interiore come se fosse ad un passo dalla meta ambita:
il divano di casa. Poco dopo il cellulare di Anita squillò, sul display compariva il nome
di Elena; la sua migliore amica. La telefonata cominciava ad essere troppo lunga e
l’espressione di Pietro sempre più preoccupata.- È per caso successo qualcosa? Non
credo che dopo la spesa sopporterei altro per oggi. Lei con fare di scuse gli annunciò
la notizia: Povera…come faccio a lasciarla sola? Ha appena litigato con Alberto e le
ho detto che saremmo subito andati a prenderla. Non ti dispiace vero?- Il tono della
voce di Anita era un misto di sarcasmo e di scuse. Pietro associò la sua giornata alla
classica scena di un film in cui tutto sembra andare storto.
Arrivati da Elena, ella salì in macchina e si diressero verso casa.
Erano a tavola e lei raccontò che il principale motivo della litigata con Alberto era il
fatto che non volesse condividere con i suoi problemi con lei. Elena con dolcezza cercava
di farlo parlare e lui si isolava sempre di più… alla fine lo scontro e l’assoluta
impossibilità di una comprensione reciproca sfociò in una frustrazione.
Anita provava a consolarla elencando magistralmente in un’unica frase tutti i possibili
clichè del conforto femminile.
Pietro dall’altro canto non capendo realmente quale fosse il problema contribuiva alla
conversazione con saltuarie parole solo per far piacere ad Anita.
La serata non portò alcun miglioramento ma in compenso si protrasse talmente a lungo
da suscitare in Pietro la voglia di cacciare Elena fuori di casa.
Dopo che Elena se ne fu andata, Anita e Pietro nonostante l’ingente numero di sacchetti
dominasse il pavimento della cucina, decisero che sarebbero andati a dormire.
Pietro che non puntava a nessun altro obiettivo se non quello di dormire in pace, si
sdraiò nel letto e al tentativo speranzoso da parte di Anita di eliminare con un bacio
questo desiderio le rispose:- Tesoro stasera ho tanto mal di testa!-.
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Giacomo Berio

A GIACOMO, FUTURO CITTADINO DEL MONDO
di Lorenzo Ciccione
~
Caro Giacomo,
avrei da dirti molte cose su ciò che ti aspetta: un mondo immenso, una moltitudine
di gente, esperienze incredibili.
Probabilmente vivrai con la convinzione che la felicità, la bellezza, il denaro saranno
le cose di cui avrai più bisogno; non voglio allontanare alcun tuo desiderio, alcuna
aspirazione cui tu possa anelare: hai il diritto di cercare e di desiderare di possedere
qualsiasi cosa.
E’ presto per dirtelo ma, quando crescerai, ti renderai conto di sentire sempre più necessità
di quelle cose che tu stesso – ma soprattutto gli altri – reputeranno indispensabili.
Verrà il giorno in cui ti renderai conto di avere tutto: arriverà il momento in
cui ti chiederai cosa ancora desiderare e capirai di non avere nulla …
Se tu potessi parlarmi, mi chiederesti “Come puoi dire che non avrò nulla? Se potrò
disporre di tutto ciò di cui avrò bisogno, come potrò essere scontento?”
Non lo sarai affatto, poiché crederai di essere felice per ciò che di materiale possiederai.
Ti interesseranno le moto, le ragazze, i soldi, i viaggi e la bella vita. Probabilmente
riuscirai anche ad ottenere tutto questo; penserai di essere felice ed appagato.
Crederai che tutti quelli diversi da te, dal tuo gruppo, possano vivere male, siano infelici
per le rinunce che devono affrontare.
Ma nella vita ti insegneranno a non discriminare nessuno, ad accettare le “diversità”.
I diversi, loro, così strani… dalla pelle scura, diversi nel fisico, negli odori, nel parlare,
nella fede, venuti da chissà quale lontano paese, persino capaci di scelte di vita
assurde… “Poverini” ti diranno “aiutiamoli, considerandoli come uguali a noi” E tu
li accetterai, perché te l’hanno quasi imposto.
Forse, un giorno, nella tua scuola arriverà un ragazzo straniero: verrà osservato, studiato,
guardato con diffidenza; poi sarà oggetto di ironie, stupidi scherzi ed infine sarà
maltrattato. In fondo è stato inutile tutto quello che ti hanno insegnato in modo superficiale:
perché dirti che il diverso va accettato significa affermare che non è
uguale a te, che è strano, lontano.
Tu allora ti domanderai se è utile fidarsi di quegli insegnamenti ed inizierai ad isolare
“lui”, il diverso, a discriminarlo e considerarlo inferiore a te.
Ecco quindi ciò che ti mancherà: la consapevolezza e la conoscenza di te stesso. Avrai
pur avuto tutto il desiderabile, tranne la certezza di esserti distinto dagli altri: moto,
ragazze, discoteca, denaro – stop! –
Ti sarai comportato come tutti, avrai vissuto la tua vita come chiunque, avrai scelto
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di non essere diverso, perché così è stato più facile: non avrai rischiato di essere anche
tu emarginato solo per cercare di non vedere diversità.
Se tu fossi qui cercherei di spiegarti, caro amico, che tu puoi e devi scegliere di comportarti
autonomamente e con la coscienza di un cittadino del mondo capace di
scelte personali.
Il dono più grande di cui potrai disporre fin dalla nascita sarà proprio la facoltà di scegliere.
Probabilmente tutto ciò che ti sto scrivendo si rivelerà inutile; il mondo ti abituerà ad
essere come la maggior parte della società impone. E ti reputerai felice, perché la tua
vita sarà omologata alle altre.
Sii te stesso, mio caro Giacomo, sii chi sceglierai di essere: non pensare alle opinioni
altrui, non indugiare sulle apparenze e non fermarti di fronte agli ostacoli che, altrimenti,
non supererai mai.
Non aver paura di essere diverso, preoccupati di non essere uguale agli altri, a coloro
che magari ti hanno influenzato in maniera negativa sui tuoi giudizi.
E’ strano averti scritto tutto questo; forse lo crederai stupido, magari potrai sorridere
e gettare questa mia lettera nel cestino; tornerai al tuo gruppo e continuerai a ridicolizzare
quello strano ragazzo straniero che non è consigliabile frequentare o cercare
di capire.
Ricordati però dell’enorme potere che hai: tu puoi scegliere di essere unico. Puoi scegliere
di essere diverso.
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Lorenzo Ciccione

DIVERSITÀ
di Ramona Farina
~
Seduto su questa panchina ad ascoltare le voci di bambini che ridono , parlano
, gridano.
Il sole lampeggia su questo telo blu sopra di me come se volesse deridermi , deridere
della mia vita, contrastare su ciò che sto provando.
La leggera brezza mi sfiora la pelle , ormai sbiadita dal tempo.dal tempo?ho solo 14
anni..o forse 20 o 67?..non sono cosciente della mia età..ma è come se la mia diversità
influisca sul tempo..non mi rendo conto di quanto passi lentamente ..mi sembra
di vivere dentro un mondo tutto mio, desertico, cupo, e io al centro..a fissare l’oscurità
che mi circonda..che mi avvolge come un telo, e io sotto a soffocare mentre sono
consapevole che al di fuori di questo mio piccolo, ma terribile mondo vivono esseri
in grado di ritenere la propria vita fantastica, meravigliosa e piena di spirito.
Io lo spirito non ce l’ho..forse solo coloro che non possiedono nessun difetto, sia fisico,sia
morale , possano avere un’anima .
Ogni qualvolta che passo attraverso una strada affollata tutti mi guardano con un ‘
espressione di scherno..o forse è semplicemente pena nei miei confronti.
Non voglio che tutto questo accada.
E mi arrabbio, mi irrito, a volte grido così forte che coloro che mi stanno accanto, costantemente
,
si agitano ,e io ,di conseguenza, urlo ancora di più.
Alla fine, escono, da dove non lo so, probabilmente dal mio minuscolo ed insignificante
pianeta, e io mi ritrovo di nuovo solo..con gli occhi umidi..a pensare..come faccio
spesso.
Penso , perché non ho altro da fare. E poi..cosa potrei fare?quali sono le azioni che
io sono in grado di svolgere?forse alzarmi da questo aggeggio e provare ad andare
avanti?ad attraversare vie..strade..marciapiedi..strisce pedonali senza mai cadere una
volta?è inutile.non sono in grado.
E ora mi ritrovo qui..su questa panchina..accanto al mio aggeggio purtroppo inseparabile..che
piano piano sta logorando la mia vita.
Vorrei esprimere tutto questo a parole, ma ogni qualvolta che provo a parlare, tutti mi
guardano esterefatti, quasi schifati.
Quando mi rivolgono un sorriso , io reagisco.
Non so se reagisco in modo cruento, oppure no, ma so che quelle stesse persone, artefici
della mia reazione, si allontanano verso un orizzonte, un puntino bianco e io ri-
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mango solo.
Il telo dentro cui vivo si inscurisce sempre più.
Non so definire se ne sono felice o meno..sento la mancanza di qualcuno..vorrei avere
un amico con cui parlare, ma quando una persona mi si avvicina..all’improvviso il mio
desiderio svanisce e,
di impulso, gli faccio del male.
Non sono io a volerlo.
L’intenzione è quello di accarezzarlo..invece..ogni qualvolta che compio questo gesto
, mi ritrovo davanti un viso..o forse cento..sdegnati, angosciati, sopraffatti dalla
paura.
Il motivo?non riesco a giungere ad esso, anche se rimugino circa le cause.
Una volta..l’anno scorso se non vado errato, no ieri! O forse due giorni fa?una persona
mi fissò a lungo.
I suoi occhi, iniettati di buone intenzioni nei miei confronti e le sue sopracciglia inarcate,
quasi ad assomigliare un cartone animato, proiettarono in me una sensazione di
calma, tranquillità e io agii, allungando la mano, sperando che me la toccasse e continuasse
a fissarmi e muovere la bocca.
In quel momento percepii una parola, che evase maggiormente rispetto alle altre, la
evidenziò particolarmente.
Sorrisi. O forse urlai?mi dimenai?ricordo che la mia reazione non fu gradita.Quella
stessa persona si rabbuiò ..il mio cartone animato svanì, forse arrivò la pubblicità, ma
quell’immagine non cambiava mai.
Diverso.
…
L’aria incomincia ad irritarmi, a darmi fastidio..
Mi sento circondato da migliaia di visi sfocati..e io, guardandoli, sento che devo agire,
devo fare in modo che la finiscano di squadrarmi..
Mi ritrovo seduto su un altro luogo, con le gambe a penzoloni e altre facce che mi analizzano
repellentemente..un viso paonazzo che apre la bocca verso di me, ma non capisco.
Non voglio capire.Così urlo, grido, mi dimeno..tanto ormai vengo trattato come
un essere invisibile..platonico..e allora aumento le mie grida e ne sono felice..son fiero
di me stesso.
Mi sento orgoglioso, importante.
Ma una mano mi si avvicina pesantemente..per darmi uno schiaffo?alla fine non mi
fa del male..ma io capisco e allora , anziché continuare con le urla mi dimeno e basta.
Di nuovo solo.
Questa volta però attraverso il mio telo, che varia da un nero pece ad un grigio cenere,
riesco a percepire maggiormente gli schiamazzi dei bambini.
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Stanno giocando e io resto qui, seduto a guardarli.
Un pallone blu ,che vortica in alto, che volteggia al di sopra delle teste di quei ragazzi..spesso
mi sento come quell’oggetto..diverso..come potrà mai unirsi un pallone
da calcio con degli umani?quello stesso oggetto mi si avvicina e prende a rotolare.
Me lo ritrovo sotto i miei piedi, e io lo fisso attentamente.
Non è interamente blu.Sono presenti striscioline di colore bianco e rosso e io provo
a toccarle.
Ma il mio gesto viene deviato da una mano, rosea e colorita.
Alzo gli occhi verso l’alto e quegli stessi bambini incominciano ad emettere grida
molto più intensamente.
Vogliono giocare con me.
Sicuro.
Provo ad alzarmi, ma sento un vortice sotto di me che mi risucchia..le mie gambe si
piegano e io mi ritrovo disteso in terra.
La sensazione che provo è strana: un velo di nervosismo mi sfiora, di rabbia, di irritazione.
Dolore.
Alle gambe?o forse dentro di me?coloro che mi stanno accanto emettono grida eccessive,
i loro visi esprimono sherno..derisione..prese in giro.
Non riesco a sostenermi.reagisco..esageratamente.Me ne rendo conto perché subito
dopo,davanti a me,delle persone mi squadrano dall’alto in basso con un’espressione
non più di sherno,ma di paura e timore.
Si paralizzano e successivamente mi afferrano i fianchi.
I miei fianchi.
Non riesco..ad..essere ..toccato.. dagli altri.
La mia mano,racchiusa in un pugno, si va a schiantare contro il viso stirato dell’uomo
che mi sta accanto.Due braccia mi sollevano e io non mi rendo più conto di niente.Le
immagini,offuscate e fioche, passano velocemente.
…
Intorno a me un’infinita distesa di cose gialle..rosse..o viola??ricoprono il mio panorama.
Una persona dietro di me,mi parla e io ne sono davvero lieto.
Mi sento calmo, armonioso, tranquillo.
I fiori.
Ecco cosa sono.
Gialli.
Non so realmente che colore sia il giallo..però penso che sia luminoso,straordinario
come la giornata di oggi.
Il mio sguardo è rivolto verso l’orizzonte, ma sotto le mie gambe a penzoloni noto
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un piccolo fiorellino di un colore strano.
Forse nero.
La mia felicità si trasforma in una tristezza paradossale.
Ecco realmente chi sono.
Un piccolo,minuscolo,insignificante,DIVERSO fiore immerso da altri incredibilmente
meravigliosi.
O forse sono essi a far sentire quel fiorellino diverso.
Io penso che se questo paesaggio fosse coperto interamente da fiori neri,non esisterrebbero
fiorellini infelici,e tutti potremmo vivere senza aver paura di essere diverso
in qualche cosa.
Ma di conseguenza ci sarebbe sempre,in ogni caso,un fiorellino giallo immerso da tutti
gli altri fiorellini neri.
Dunque la diversità non riguarda di che colore sei,di come sei fatto fisicamente,di che
aspetto caratterizza il tuo corpo, bensì da come ti vedono gli altri.
Se mi alzassi da questo aggeggio, diventerei come tutti.
Di conseguenza inizierei a schernire coloro che si trovano nel mio stato in questo momento..e
forse per tutta la vita.
Preferisco non umiliare i diversi, ma esserlo.
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Ramona Farina

UNICAMENTE UNICO
di Lydia-Alexia Ferraris
~
E' strano quel meccanismo che ogni mattina ti fa aprire gli occhi, ti fa svegliare
e ti devi alzare. Questo era ciò che stavo pensando solo cinque minuti fa, mentre
la prof di geografia stava spiegando. Ho questa mania, mi metto a riflettere su cose
apparentemente normali e, la cosa strana è che non ne so manco io il motivo. Fuori
il sole splende, sarà una bella giornata penso. Chissà le lucertole fuori come si divertono!
Guardo l'orologio. Cavoli son solo le otto e dieci! Uscirò tra solo cinque ore
e non ho già più voglia di starci qui dentro. Che novità vero?Chi ha voglia ormai la
mattina
di svegliarsi e chiudersi entro quattro mura con le solito persone?Ormai è tutto monotono,
entrare qui dentro, vedere le stesse identiche facce, non c'è più niente che si
possa imparare oltre alle frasi scritte sui libri. Mi guardo intorno; Daniel sta disegnando.
E' bellissimo poter vedere cosa la mente trasmetta attraverso poche linee su
un foglio di carta bianco, sono tante le idee e le forme che ne saltano fuori. A volte
mi chiedo come una persona così fantastica nel riuscire ad esprimersi con solo una
matita e un foglio, possa essere mia amica. Daniel ormai lo conosco da tanti anni e
per i nostri compagni di classe siamo degli estranei, ci definiscono "diversi". Vorrei
capire il perchè visto che io mi sento molto normale invece. Non seguo la moda, non
cerco di assomigliare a qualche star di Hollywood, ho una mia identità e mi va bene
così. Non capisco gli altri però. L'entrata della professoressa di matematica interrompe
il mio arco di pensieri. Adoro la matematica. Daniel mi paragona ad una calcolatrice.
Dice che si diverte ad osservare le mie espressioni quando tento di risolvere un'equazione.
Oggi è giovedì.
Tutti i giovedì io e Daniel andiamo al mare, in una spiaggetta a pochi chilometri da
qui. Camminiamo sulla spiaggia, ci sediamo sugli scogli e guardiamo le onde. Solo
questo. Dopo ciò di solito facciamo una passeggiata per le strade, ci prendiamo un gelato
spesso e, credetemi, è troppo divertente vedere la gente a gennaio che ti vede mentre
mangi un gelato crema e fragola, è stranita, non se lo aspetta, in fondo siamo ancora
in inverno.
Io e Daniel non parliamo tanto, siamo fatti così, la nostra non è un'amicizia che si basa
sul dialogo, ci trasmettiamo tutto con degli sguardi e dei gesti o sensazioni. Ricordo
ancora quando morì la madre di Daniel, solo quattro anni fa, Daniel aveva solamente
13 anni allora. Tre giorni prima del decesso venne a casa mia a dormire, suo padre era
in ospedale dalla moglie, malata da tempo di cancro; Daniel quella sera mi disse in
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un momento di totale silenzio: "Morirà vero?", non si aspettava una risposta. Gli strinsi
la mano con forza, mentre le lacrime scendevano dai suoi occhi. Non volevo che piangesse,
se doveva piangere preferivo lo facesse per la pressione delle mie dita e del mio
palmo sulla sua, non per tristezza. Ma non ci riuscì. Continuò a piangere in silenzio,
senza dire niente, senza emettere neanche un suono o un lamento. Quanto mi son sentita
inutile in quel momento!
Da allora ho cercato di evitare i momenti tristi con lui, anche se non son certa che dentro
di sè lui non continuasse a soffrire.
Strizzai gli occhi, quel pomeriggio il sole era particolamente potente e quando, dopo
aver chiuso gli occhi con forza, li riaprii vidi tante piccole macchie color verde e giallo.
E' uno strano fenomeno questo.
Mi volto e vedo Daniel: "Cos'è?"
-Non lo so neanche io- risponde Daniel
E lascio stare. So che qualsiasi cosa lui stia facendo con quel mozzicone di matita HB
in mano, sarà sempre qualcosa che mi lascerà a bocca aperta.
"Tuo padre torna stasera giusto?" gli domando
-Sì
"Salutamelo. E' da tanto tempo che non lo vedo"
-Certo
Ed è arrivata l'ora di andare. L'orologio digitale al mio polso segna le 17.04, abbiamo
ancora quaranta minuti prima di dover riprendere il treno per tornare a casa. Come al
solito ci separiamo alle 18.25. Mia madre non è ancora arrivata, dovrò preparare la
cena, penso.
Il tempo passa e son già le 22. Mi giro e rigiro nel letto. Non riesco a dormire. Chissà
Daniel come sta?!
Mi alzo, prendo l'mp3 e le cuffie, mi rimetto sotto le coperte.
Brrr, fa freddo. Mi raggomitolo sotto il piumone rosso. Mi sento come un bambino
dentro la pancia della mamma. Domani non voglio andare a scuola.
Non ho mai voglia di andarci, ma devo.
"Don't ya think that you need somebody?
Don't ya think that you need someone?
Everybody needs somebody
You're not the only one
You're not the only one "
Questa canzone rimbomba nella mia testa.
Mi sveglio di notte, all'1. Di nuovo quel sogno. E' un incubo, non ne posso più. E' da
un mese che mi capita di svegliarmi in piena notte con quest'immagine in testa, una
goccia d'acqua arancione ferma tra cielo e mare. Non capisco cosa voglia dire. Mi risveglio
con la nausea. Corro in bagno e poi torno a letto, come se non me ne fossi al-
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zata solo 15 minuti prima.
E' l'alba quando mi sveglio nuovamente. Mi alzo, colazione veloce, mi preparo, ed eccomi
pronta per un altro dannato giorno, uguale a tutti gli altri. Finirà mai?
Prima ora: italiano, Daniel non ha in mano la matita. E' molto strano ciò.
La mattinata passa lentamente, mi sento crollare durante l'ora di storia, Daniel mi sembra
assente, lo noto dal suo sguardo. Pare sussultare quando poggio l'indice destro sulla
sua mano, si volta verso di me. C'è tanta tristezza nei suoi occhi, me ne chiedo il perchè.
Dopo le lezioni camminiamo a fianco fianco, mi sembra distante sempre di più, ma
perchè? Arriviamo al semaforo, io devo andare avanti fino alla seconda svolta a destra,
Daniel deve attraversare. Lo saluto e lo vedo allontanarsi pian piano. Mah! Cosa
sta facendo? Si è fermato in mezzo alla strada. Tic tac. Due secondi e mi vedo il buio
davanti. Daniel investito da un camion guidato da un uomo distratto, Daniel per terra.
"Daniel!!!!"
I minuti passano veloci. La chiamata dell'ambulanza e della polizia, quella al padre
di Daniel, quella ai miei. L'arrivo in ospedale. Mi sento un'ameba. Nella mia testa gira
solo una domanda: "Perchè?" e non vi trova risposta.
Nel giro di due giorni, Daniel se ne va. Su questo pianeta è rimasto solo il suo corpo,
la sua anima non c'è più. Voglio andarmene da qui. Non c'è più nessun motivo che mi
tenga legata in questo posto.
Sento sempre di più staccarsi i fili di questa vita da quando è morto lui, i giorni si susseguono
interminabili e sempre uguali, come tante pietre grigie di una spiaggia rocciosa.
Non ho ancora pianto, non ci riesco. La mia faccia è rimasta la stessa per questi
quattro giorni.
E' quando rivedo una vecchia foto, mia e di Daniel, quella di noi due seduti su uno
scivolo del vecchio parco vicino alla stazione, che decido di andare al mare. Prendo
il treno di sabato pomeriggio; arrivo alla nostra spiaggia. Guardo le onde e le lacrime
iniziano a scendere, in silenzio. Si sente solo il rumore dell'acqua contro gli scogli ed
io intanto piango. Gocciola, gocciola, gocciola...Sembra non terminare mai il mio
pianto senza fine, continuo a rigarmi le guance. Cosa mi è rimasto? Perchè? Mi sento
sola, ora non c'è più nessuno come me. Mare.
Splash!
-Che strano- pensa un pescatore-mi sembra di aver sentito un tonfo come di qualcosa
gettato o buttato in acqua.
Si avvicina agli scogli e lì vede tutto. Dei vestiti e un diario verde. Lo apre e legge:
"Forse è il caso che ti dica addio mio caro amico. La tua Rose"
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Lydia-Alexia Ferraris

SIMONE E DIMITRI
di Veronica Miraglia
~
-No!-Un bambino si lamentò. Per sbaglio, mentre stava giocando tutto solo
in un campetto da basket, la palla era finita dietro ad un muretto. Era un mite pomeriggio
autunnale ed il sole stava tramontando. Tutt’intorno era silenzio. –Che sfortuna!disse
il ragazzino con aria imbronciata. Guardò il muro, che per lui era decisamente
troppo alto e si sentì sprofondare nella tristezza : quel pallone era il suo regalo di compleanno
ed era nuovo. Una lacrima gli scese lungo la guancia e strinse forte i pugni;
No, non poteva permettersi di perderlo! Si tirò su le maniche e cercò di scavalcare il
muro, cadde un paio di volte, ma si rialzò sempre più determinato di prima. Dopo vari
tentativi riuscì ad arrivare in cima e a calarsi dall’altra parte, atterrando sull’erba fresca.
Poco distante c’era l’amato giocattolo. Lo prese, molto felice, alzò lo sguardo e
vide delle luci in lontananza. Preso dalla curiosità, decise di andare a controllare; si
avvicinò di soppiatto, attento a non fare rumore. All’improvviso udì delle voci in una
lingua che non riuscì a comprendere. Spaventato, si rifugiò dietro ad un cespuglio, con
il cuore in gola. Ormai era diventato buio; il ragazzino aspettò che non vi fosse più
alcun suono e poi uscì dal suo nascondiglio.-Ciao– Disse una voce proveniente dall’oscurità.
Il bambino si girò con occhi dilatati dal terrore. Davanti a lui c’era un suo
coetaneo che lo fissava con interesse. –Ciao –Ripetè- Io sono Dimitri, tu come ti
chiami?- Aveva un forte accento straniero. Tenendo ancora in mano il suo pallone, l’altro
rispose, un po’ titubante –Sono Simone- Dimitri sorrise:
-Quanti anni hai?-
-Otto, e tu?-
-Anche io- Disse Dimitri. Simone si rilassò e chiese: -tu vivi qui?-
-Si, si. Non da tanto però- Silenzio. Poi Dimitri vide l’oggetto nelle
mani di Simone. –E’ tuo quello?- Disse, indicando il pallone. -Sì-
Dimitri aveva un’aria sbalordita ed esclamò: -Giochiamo insieme!- Simone era alquanto
contrariato: -Scusa, ma è tardi e mia mamma sarà molto preoccupata per me.
Devo proprio andare, ma se vuoi torno domani pomeriggio!-. –Ok!- Disse l’altro. I
due bambini si salutarono: Dimitri scomparve nella notte e Simone scavalcò di
nuovo il muretto, questa volta strappandosi i jeans, e corse verso casa. Una volta arrivato
i suoi genitori si arrabbiarono enormemente con lui, poiché a causa del suo ritardo
erano stati in pensiero. La madre vide i pantaloni lacerati e chiese, sospettosa:
-Che cosa hai fatto?- Simone rispose, fingendo indifferenza: -Io… sono inciampato-
Non la guardò negli occhi, perché se lo avesse fatto sicuramente si sarebbe accorta
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che le stava dicendo una bugia. Simone non capiva il motivo, ma una parte di lui non
voleva raccontare dell’incontro con Dimitri, allora decise di omettere l’avventura nel
resoconto della giornata che fece a suo padre.
Il giorno seguente, subito dopo la scuola, Simone si precipitò nel campo da Basket e,
ancora con il fiatone per la corsa, superò il muro, in preda ad una forte voglia di rivedere
il misterioso amico. Dimitri lo aspettava dall’altra parte con il sorriso sul volto.
Alla luce del Sole Simone ebbe modo di osservarlo meglio: aveva degli occhi molto
scuri, pelle bianca come il latte, capelli castani scompigliati e lineamenti spigolosi.
Poi lo sguardo di Simone, che si era soffermato un momento sul viso, passò al resto
del corpo. Notò che Dimitri era troppo magro e che i suoi vestiti erano logori e malconci:
la maglia aveva un vistoso strappo all’altezza del petto e i pantaloni erano macchiati
e bucati. Ma una cosa fece rimanere Simone a bocca aperta: il fatto che Dimitri
non indossasse le scarpe. –Ma tu non hai le
scarpe!- Escamò, sbigottito. Dimitri sembrò divertito: -Sì, mi
danno fastidio, secondo mè è meglio lasciare i piedi liberi di respirare e …. anche se
volessi- Si interruppe un attimo, un po’ imbarazzato –Io non ho le scarpe- Per qualche
secondo nessuno proferì parola. Simone era sconvolto; non aveva mai conosciuto
nessuno che fosse povero. Inoltre iniziava a nutrire una specie di affetto fraterno per
quel bambino quasi sconosciuto. Così interruppe il silenzio: -Sai, a mè non interessa
la tua condizione economica. La cosa più importante è come si è dentro- e si portò
una mano sul cuore. Dimitri lo guardò ammirato e gli disse –Senti, andiamo a giocare,
sono sicuro che ci divertiremo tantissimo! Però dobbiamo restare nascosti dalle case,
mia mamma non sarebbe contenta se mi vedesse giocare con te…- Simone non fece
domande e rimase zitto. Dimitri lo portò fra gli alberi in un luogo poco in vista. Mentre
camminavano, Simone si rese conto che quelle che la sera prima aveva creduto fossero
abitazioni in realtà erano baracche, povere, sporche e decadenti. Il bambino provò
un moto di compassione nei riguardi di Dimitri.
I due stettero insieme tutto il pomeriggio, ridendo e scherzando. A discapito delle apparenze,
Dimitri si rivelò un ragazzino veramente gentile e dai pensieri molto profondi.
Ad un certo punto Simone gli chiese. –Ma tu dove vai a scuola?- La risposta di Dimitri
lo stupì ancora una volta: -Io non vado a scuola, anche se vorrei-
-Come non vai a scuola?! E cosa fai durante la mattina?-
-Faccio dei lavori con i miei fratelli- Disse vago. L’altro insistette:-Che genere di lavori?-
- Vado a chiedere l’elemosina in centro città, dove c’è più gente- Dimitri aveva la voce
ridotta ad un sussurro e la testa china per
la vergogna. Simone gli sorrise dolcemente: -Non ti preoccupare,
qualsiasi cosa tu faccia, per me resti un amico spendido- Detto
ciò ricominciarono a giocare più spensierati di prima. Continuarono a vedersi di na-
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scosto per alcuni mesi. Si sentivano felicissimi di stare l’uno con l’altro e si divertivano
da morire. Simone fu sempre particolarmente discreto con l’altro e a volte gli
portò anche del cibo per farlo mangiare di più.
Ma tutto ciò era troppo bello per poter durare. Era una fredda giornata di inverno e
Simone, come al solito, andò dall’amico. Però si rese subito conto che qualcosa era
diverso: l’espressione di Dimitri era dura e triste allo stesso tempo ed una lacrima gli
colava lungo la guancia. Simone si preoccupò e divenne ansioso:-Che succede?- La
voce gli uscì strozzata e guardò Dimitri dritto negli occhi. Un brutto presentimento
si era insediato nella sua mente. Dimitri disse, cupo: -I miei genitori sono stati arrestati
ed io ….io….devo andare in un orfanotrofio!- Simone sbiancò: -Cosa significa?-
-Che non ci vedremo mai più! Domani non venire qui, perché non mi troverai- Un soffio
di aria gelida scompigliò i capelli ai due bambini. Il rumore del vento tra le fronde
degli alberi scandiva i battiti dei loro cuori. Simone si mise a piangere: -Per me sei il
migliore amico che si possa desiderare!-
-Anche tu per me!- e si abbracciarono. E così Dimitri sparì per sempre, come svanisce
l’alone del fiato sullo specchio.
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Veronica Miraglia

CITY OF BLINDING LIGHTS
di Karen Oscar
~
Ogni volta prima di entrare in metropolitana dovrei sottopormi a una seduta
di Yoga infinita. Oggi non fa eccezione, poichè anche oggi puntuale il solito ragazzino
mi urla dietro qualcosa che capisco solo a metà, nella quale sono sicura di aver
sentito un aggettivo spregevole riferito a mia madre. Mentre salgo spazientita le scale
mobili, un poster mi informa entusiasticamente di un musical sugli ABBA che sarà
messo in scena all’Empire per circa un decennio di fila, e mi consolo sentendo che il
ragazzino rifila lo stesso trattamento a tutti gli altri passanti. Dopo un’ attesa di alcuni
frammenti di secondo salgo sulla navetta e mi godo il mio giornaliero viaggio in compagnia
di signore oltremodo profumate e stanche, il simpatico ragazzino di prima, e
ovviamente alcuni influenti membri dell’AAPP (Associazione Ascella Perennemente
Pezzata). Al culmine della frustrazione, sentire il vocione metallico annunciare la fermata
di Earl’s Court, la mia fermata, sembra divino quanto un assolo di Noel Gallagher.
Uscita dalla metropolitana e tornata alla terraferma, le luci mi aggrediscono e ne sono
totalmente rapita. Spero di non abituarmi mai a queste cose. E’ come essere usciti dal
viaggio nell’Ade orfeico ed essere tornati alla vita.
Mi viene quasi voglia di camminare ad occhi chiusi, per non correre il rischio di esaurire
tutti gli infiniti dettagli, i chilometrici colori in un solo sguardo. Camminare verso
casa è come fare il giro del mondo in ottanta respiri.
Faccio le scale del mio palazzo a due a due, un po’ alla bambina-che-ha-appenaricevuto-una-cestinata-di-caramelle,
ma non abbastanza svampitamente da non notare,
ai piedi della mia porta, una busta.
E’ una lettera di mia sorella. Non so per quale motivo abbia preso l’abitudine di scrivere
lettere, invece delle mail, o del messaggio via Pet Society su Facebook, o della
moltitudine di possibilità portateci dal Santo Bill Gates. Comunque sia, dopo qualche
velata allusione a qualche suo problema che evidentemente vuole lasciare misterioso
perché io gliene ponga domande nella mia lettera di risposta, mi chiede dei
corsi, delle mostre, ma soprattutto dei concerti, e scrive qualche parola in inglese deliberatamente
sbagliata, con lo scopo dichiarato di farmi innervosire. Il solito insomma.
Rispondi presto, baci e abbracci da me e Bear.
Credo che anche lei adorerebbe questo mio fantastico vestito di sfumature. Io e lei andavamo,
saltellando, a bere dalle pozzanghere. Con un ombrello solo ci proteggevamo
dallo scrosciare delle piogge acide. Da piccole, dal naso ci colavano le sere, e da
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grandi, tentavamo di risucchiarle. Mi manca il suo rimboccarmi le palpebre ogni
notte (1) , e il sapere che anche a lei il grigio stava stretto. Ora non ne sono più cosi’ sicura.
Lei ora pretende ogni giorno di vestire il grigio con classe, e di andarci a letto
ogni notte. E non me ne ha mai nemmeno voluto spiegare il perché. Come dai miei
insegnamenti, lei sorvolava leggiadra sulle mie domande, e con innegabile maestria
cambiava argomento. Si è accontentata; questo è quanto. E non posso sopportarlo. E’
inaccettabile quanto una cintura marrone su un paio di pantaloni neri.
E vorrei raccontarle di come le prime conversazioni con le forme di vita anni luce più
avanzate di me che ora mi circondano procedano a passi talmente incerti che crollano
al primo silenzio. Di come le mie mura pitturate a nuovo puzzino di vuoto. Degli insulti
gratuiti dei ragazzini in metropolitana. Di come le code spuntino come funghi
per la città, per qualsiasi cosa. Di come i talent show inglesi siano ancora peggio di
quelli italiani, e dei terribili commessi con la puzza sotto il naso della Starbucks. Dei
pensieri che a volte, dopo aver abbassato le tapparelle sulla città che ancora vive senza
di me, assassinano la mia notte. E dirle di come tutto questo non mi faccia per niente
paura…
Le racconterei allora delle mie maratone attorno all’equatore corse a Piccadilly, del
take-away più veloce del mondo che ho provato la sera in cui sono arrivata, delle
enormi strade sconosciute in cui perdersi è come ritrovarsi, e di come il grigio sembri
un’idea semplicemente ridicola, adesso e per sempre. Le parlerei attraverso le nostre
amate fotografie, se necessario. Le farei vedere le luci, che non sono più degli impersonali
neon, o delle lampadine appese in modo pericolante dai balconi nel periodo
natalizio. Le vorrei far sentire i giganteschi rullanti dei tuoni, i fantastici assoli lunari
e le rapide e profonde sviolinature dei raggi solari, dato che sono sicura sia questo il
“Great Gig in the Sky” a cui si riferivano i Pink Floyd.
Perchè tutte queste cose non solo rendono sopportabili tutte le metropolitane i silenzi
e le mancanze e le pizze surgelate, ma fanno del mio essere straniera in terra straniera
la cosa più eccitante che mi sia mai capitata. Ma come faccio adesso a scriverle tutto
questo in una dannata lettera?!
Karen Oscar
(1) Io e lei…ogni notte: Citazioni tratte dal disco “Canzoni da Spiaggia Deturpata” di Le Luci Della Centrale
Elettrica (La Tempesta Dischi, 2008)
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BENNY E I PESCIOLINI
di Anna Rosati
~
Sfogliando il giornaletto che teneva sotto mano vide quel giochetto da piccoli
investigatori, quello in cui dovevi trovare le differenze tra le due figure all'apparenza
identiche, ma che, osservate con cura, presentavano realmente qualche diversità.
Si mise a pensare come tutto all'apparenza può essere visto come identico, ma
come in realtà tutto era diverso da tutto.
Si perse tra quelle piccole differenze: il fiore con cinque petali anziché quattro, la lumachina
in più e la goccia di rugiada in meno.
Intanto, sulla strada accanto a quel piccolo bar, molto carino e da un aspetto allegro,
passavano avanti ed indietro tante persone, tutte indaffarate nelle loro mille commissioni.
Nessuna si fermava ad osservare quella piccola e nuova fontana che avevano
appena finito di costruire. Nessuno tranne un piccolo bimbo che, sfuggito alla presa
della mamma, si era avvicinato ed aveva scoperto che in quella fontanella c'erano dei
pesci rossi.
Affascinato si era messo a chiamarli, ma loro spaventati cercavano di nascondersi dovunque
ci fosse posto. Il bambino triste si mise a piangere: voleva avere un pesce come
amico! Ma non c'era verso, i pesci non si decidevano ad uscire quando lui li chiamava.
Ormai era passato un po' di tempo e la mamma cercò di convincerlo ad andarsene, gli
disse che sarebbero tornati il giorno seguente a vedere se per caso i pesciolini avessero
deciso di essergli amico. Un po' contro voglia il bimbo accettò.
Lungo il tragitto verso casa iniziò a fantasticare su lui e i pesci, si immaginava mille
avventure con loro, non li avrebbe mai abbandonati.
Dal bar quella vecchia signora che svogliava il giornaletto aveva visto tutta la scena
e sorridendo pensò che un desiderio del genere poteva anche essere esaudito per regalare
una gioia ad una piccola stella scesa sul cielo.
Prese il giornale, andò a pagare il Tè e si incamminò lungo quella strada lastricata verso
la casa di quel bimbo.
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Era una tiepida giornata di fine primavera, il cielo era nitido e tutti si stavano preparando
per la festa del paese, per quattro giorni ci sarebbero feste, balli e tanta allegria,
ormai mancavano pochi giorni.
Con il suo vestitone da balia e la borsa, nella quale aveva infilato il giornaletto, si
giunse davanti al portone di casa di quella piccola famiglia. Era una famiglia abbastanza
benestante, lei aveva un piccolo negozietto di sartoria e lui lavorava in banca.
Pensò che probabilmente nessuno si prendeva cura di quel monello. Bussò. Venne ad
aprire la giovane signora che aveva visto prima. Si presentò, le disse che cercava lavoro
come balia e che aveva visto che lei aveva un bimbetto allegro. La signora considerò
l'idea e decise di accettare, quella signora le dava un senso di tranquillità e comunque
l'avrebbe messa qualche giorno alla prova.
Entrarono in casa e la giovane signora chiamò il piccolo Benny. Li presentò e tutti insieme
si accomodarono nella sala. A Benny quella signora paffutella andò subito a genio,
si mise a raccontarle di varie storie che aveva sentito, di sogni che aveva fatto e
di cosa avrebbe fatto da grande. Lui sarebbe stato un pilota di un treno. Avrebbe portato
a zonzo tanta gente sul suo treno arancione e tutti sarebbero stati felici.
Quella sera la vecchia balia, prima di andarsene, rimbocco le coperte al Benny e gli
raccontò una storia per farlo addormentare. Parlava di due pesciolini che si incontravano
nel grande oceano, uno era rosso e l'altro giallo. La prima volta che si videro si
trovarono uno di fronte all'altro. Il primo cercò di far passare il secondo e viceversa,
tanto che continuarono come a danzare per lasciare passare. E da lì nacquero le loro
grandi avventure.
Tra pesci, mare e giochi il piccolo Benny si addormentò ed iniziò a sognare. Era dalla
fontanella che aveva visto quel mattino. Stava chiamando i pesciolini e quella volta
non scappavano. Anzi sembrava lo chiamassero loro. Benny piano piano si avvicinò
all'acqua, sentiva come una calamita che lo tirava verso quella superficie liquida e..
due secondi dopo si trovò a nuotare insieme a quei pesciolini.
Era felicissimo di poter stare tra quei nuovi amici. Si divertirono nuotare, ma in tutto
quello che facevano Benny a poco a poco ci rimase sempre più male notando che nessuno
lo considerava uno di loro. Tutti erano più bravi di lui, in qualunque cosa, pure
il vecchio Monny che era rimasto ferito ad una pinna in seguito ad un litigio per un
pezzo di cibo. Cominciò a rimanere deluso, ma non disse niente, in fondo era quello
che aveva voluto lui e che aveva sperato. Il suo trenino arancione avrebbe aspettato.
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Provò a scherzare con gli altri e gli parlò di una volta che era andato a pescare col padre
e del fatto che un pescione l'aveva trascinato in acqua. Lui lo fece per farli ridere,
ma loro spaventati se ne andarono e lo guardarono male. Benny si sentì diverso, fuori
posto. Riprovò e riprovò ancora a fare amicizia con loro, ma più ci provava più si rendeva
conto che erano diversi. Lui aveva ricordi da umano e loro paure da pesce. Erano
lontani.
Ormai erano passati parecchi giorni da quando si era ritrovato pesce, almeno così gli
pareva, e aveva perso tutte le speranze di poter giocare con loro serenamente. Tuttavia
a poco a poco uno degli altri pesciolini gli si avvicinò e iniziò a chiedergli una marea
di cose. Benny ne fu sorpreso, finalmente almeno un pesciolino lo considerava suo
amico! Felicissimo iniziò a giocare con lui e si accorse che non erano poi così diversi
gli uni dagli altri se non volevano esserli loro.
Al mattino quando si svegliò era felicissimo e corse subito dalla mamma a raccontarle
il sogno. Lo raccontò anche alla vecchia balia che sorrise di gusto. Sembrava
quasi ne sapesse qualcosa.
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Nyenils

CONTATTO
di Marianna Tacca
~
Ruben era abituato a sognare ad occhi aperti e si sdoppiava in altre realtà
che non gli appartenevano. In verità i suoi non erano propriamente “sogni”…Quando
era piccolo e inconsapevole li chiamava sì perché non sapeva cos’altro potessero essere
le visioni che il suo cervello produceva, e le emozioni che il suo cuore sentiva
quando qualcuno lo toccava e il contatto si protraeva per un po’ di tempo. Negli anni
della sua prima infanzia aveva “sentito” molte persone: adulti che lo stringevano tra
le braccia e gli trasmettevano colori abbaglianti: verdi, blu, e poi freddo, brividi, oppure
rossi, gialli, e poi caldo, senso di afa e soffocamento…Si era abituato anche ai
contatti con gli altri bambini: a volte durante le lotte più animate arrivava a sentire
una scossa e doveva ritrarsi velocemente per non farla arrivare al cuore..All’ inizio Ruben
aveva pensato che tutti dovessero convivere con quelle sensazioni, ma ben presto
l’esperienza gli aveva insegnato che gli altri potevano toccarsi, accarezzarsi,
per fino malmenarsi, ma non succedeva nulla: tutto si esauriva in una sensazione cutanea,
il resto era una percezione sua, solo sua; inspiegabile,irrazionale, ma incredibilmente
reale. Fu così con la percezione della sua diversità, che Ruben decise di non
voler essere diverso. Sarebbe stato troppo difficile vivere con quella continua tensione
e c’era un unico modo per poter evitare spiacevoli inconvenienti: sarebbe stato attento
a non toccare più nessuno. D’inverno c’erano maglioni pesanti, pantaloni lunghi, cappelli
e guanti, che aiutavano in quella sua folle e disperata impresa; d’estate non aveva
mai caldo e tutti pensavano semplicemente che fosse un ragazzino dalla salute delicata
e dalla pelle troppo sensibile. Così era cresciuto Ruben con quei suoi grandi occhi
grigi spalancati sul mondo, con le orecchie tese e mani che aveva impegnato in
tante cose, ma che avevano smesso di toccare altri corpi. Non era stato facile sottrarsi
alla “fame di pelle” che avevano i suoi famigliari, ma Ruben con mille astuzie sgattaiolava,
si nascondeva, si negava, e suo malgrado conviveva con una fama di ragazzo
ombroso e scostante che gli era stata incollata addosso, Musica e film riempivano gran
parte del tempo che trascorreva da solo, amici virtuali stavano prendendo il posto di
persone reali che tendeva sempre più ad escludere dalla sua esistenza. Un meraviglioso
pianoforte a mezza coda che aveva ricevuto in regalo dal suo nonno materno gli faceva
compagnia, e nonostante gli adulti insistessero sulla musica classica, lui si divertiva
a comporre la sua musica in cui riservava tutte le sue emozioni. A parte le ore
mattutine impegnate a scuola e qualche partita di tennis, sport da lui scelto in modo
oculato, valutando il contatto fisico pressoché nullo, le sue uscite pomeridiane erano
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assolutamente sporadiche. Ciò che lo attirava maggiormente in quell’inverno dei suoi
sedici anni era la programmazione del cineforum locale: da sempre Ruben era appassionato
di cinema, affittava continuamente dvd nella sua videoteca preferita, alcuni
film vecchi e introvabili li scaricava da internet, però, vedere un film nel silenzio
della sua stanza in uno schermo relativamente piccolo e con un sonoro che
lasciava un po’ a desiderare, non era certo il massimo per un cinefilo come lui. Così
aveva deciso di acquistare la tessera del cineforum: ogni lunedì avrebbe avuto l’impegno
di trascorrere un paio di ore al cinema e di gustarsi pienamente un film sul
grande schermo. Il cinema centrale non era lontano da casa sua, poteva raggiungerlo
agevolmente a piedi, inoltre allo spettacolo delle 16:15, non ci sarebbe stata gran ressa
di gente…Quel giorno c’era in programmazione “Parigi”, un film con “Juliette Binoche”
e Ruben era arrivato in anticipo, aveva potuto scegliere un posto centrale da
cui la visione sarebbe stata perfetta. Brusio di gente. Luci spente. La magia aveva inizio.
Dopo 5 minuti, l’attenzione di Ruben era stata catturata da qualcuno che, in ritardo,
stava cercando a tentoni un posto decente. Una voce sottile nel silenzio si faceva
strada tra “permesso” e “mi scusi” verso di lui. Poi fu solo calore ed un sogno
ad occhi aperti che non c’entrava nulla col film in proiezione, ciò che vedeva Ruben
in quel momento era una bambina esile e felice tra le braccia di sua madre, poi la stessa
bambina cresciuta ad una gita scolastica divertita mentre urlava a squarcia gola canzoni
stonate con i suoi compagni di classe, infine sempre quella bambina o almeno
doveva essere lei perché gli occhi avevano la stessa espressione sognante, ma il volto
era cambiato: era quello di un’adolescente e con lei lui stava provando paura per un’interrogazione
di latino, poi meraviglia, per un regalo inaspettato, infine gioia per l’arrivo
imprevisto di suo padre da un lungo viaggio. Tutto questo quanto poteva essere
durato?; pochi secondi, ma a Ruben erano sembrati lo spazio di una breve vita..Lea
si era inciampata nel buio e gli era letteralmente precipitata in braccio –Scusa..scusa..-
Lea non la smetteva più talmente era stato l’imbarazzo di quella situazione, e Ruben,
ripresosi dalla sua personale visione, le aveva detto che non era nulla e che comunque
c’era un posto vicino al suo. Per lui invece non era stato nulla, era stato di qualcosa
di assolutamente unico e sconvolgente. Era così tanto tempo che nessuno più lo
toccava che era per lui una sensazione sepolta nel tempo, inoltre ad una prima analisi
si era reso conto che le sensazioni intense che aveva avuto nella sua infanzia erano
comunque sfocate rispetto a quei “flash” così nitidi che aveva appena percepito. Dolore?
Nessuno, piuttosto sorpresa, ma non sgradevole, qualcosa che partiva da dentro
e che gli dava a livello visivo le stesse sensazioni i quando ascoltava la musica ad
alto volume nel suo i-pod..Erano sensazioni che erano prodotte dal suo cervello..In
realtà come la musica era intrappolata nel suo i-pod così le visioni erano prodotte da
un’altra esistenza che non era la sua, era così strano eppure per la prima volta avrebbe
voluto “vedere” ancora…Tra il primo e il secondo tempo a luci accese Ruben e Lea
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si erano guardati per un attimo in silenzio, poi Lea gli aveva sorriso e Ruben, con le
mani conserte, per consuetudine, aveva accennato ad una specie di presentazione, ma
Lea, contemporaneamente aveva iniziato ad inondarlo di parole, così entrambi scoppiarono
a ridere. Poi solite domande di rito: quanti anni hai?, che scuola fai?, anche
tu appassionato di cinema infine: ci vediamo lunedì prossimo. A Lea era piaciuto quel
ragazzo timido e un po’ strano, ma così gentile; e in cuor suo non vedeva l’ora che
fosse già lunedì prossima. Ruben provava altre cose, ben più forti, era convinto che
sarebbero diventati amici, in quel breve ma intenso contatto con Lea aveva percepito
tutta la sua essenza:in quello stesso istante aveva realizzato che non avrebbe voluto
più separarsi ad lei e soprattutto che avrebbe voluto toccarla ancora…..ancora e ancora.
Questo pensava Ruben mentre per la prima volta volava leggero verso casa.
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Marianna Tacca

LA DIVERSITÀ
di Valentina Zaccaro
~
“Ehi sgualdrina”urla Max dal fondo del corridoio. Ogni giorno è la stessa storia:
entro a scuola e vengo presa di mira da insulti di ogni genere. Perchè? Non chiedetemelo,
non saprei rispondervi. So solo che da quando io e la mia famiglia ci siamo
trasferiti dalla Romania qui in Italia va tutto così: le persone si tengono alla larga, come
fossimo bestie feroci pronte a sbranare chi ci capita fra i piedi.”Cosa vuoi?”gli chiedo
con tono pacato,ma prossimo a un attacco d’ira.”Oh,niente,niente..” risponde Max avvicinandosi
insieme a un paio di amici.”Io e gli altri ci chiedevamo come riesci a mettere
piede in questa scuola tutti i santi giorni..non ti vergogni neanche un po’?”Guarda
i suoi amici e scoppiano a ridere. Resto immobile a fissarli, la loro stupidità è ripugnante.
”Sai,” continua Max fra le risate ”questa non è una scuola per immigrati,soprattutto
della tua razza:romeni sfigati.”Le loro risate sono insopportabili e non riesco
più a trattenere la mia ira:io,Viktoria Petruvska,sarò anche immigrata in questo
Paese,ma nessuno ha il diritto di insultarmi.Prendo la prima cosa che mi capita sottomano,il
libro di fisica,e lo scaglio con forza contro il mio aggressore verbale.Riesco
a centrarlo in pieno stomaco.Quello comincia a urlare:”..Pazza!Aiutatemi,la Petruvska
vuole farmi del male!”.è impressionante come alcune persone si rivelino capre
nei momenti di difficoltà.Ma ecco che arriva la preside:la signora Angelini,una donna
dall’aspetto tetro e al contempo elegante,non amante del”diverso”,come il resto della
scuola.Mi squadra con quel suo solito sguardo ironico,quasi di sfida.”Che sta succedendo
qui?”chiede con voce gelida.”Mi ha picchiato!”piagnucola Max indicandomi.”Ma
signora preside,non era mia intenz..” ”Silenzio!”tuona lei.”Mi hai stufata,Viktoria!Questa
settimana è già la terza volta che fai del male al tuo compagno
Max!Non tollero simili atti di violenza:ti sospendo per quattro giorni,partendo da
ora!”Pronunciate quelle parole,si dirige in presidenza a chiamare i miei genitori.”Ben
ti sta,romena del ca…”sussurra sghignazzando Max:per questa volta ha vinto lui.
“Viktoria..quando imparerai a comportarti come si deve?”mi chiede papà mentre richiude
la porta di casa.”A comportarmi come si deve?Oh papà,lo sai anche tu che in
quella scuola mi odiano tutti,non mentire..” “Figliola,”mi dice”ti credo e lo sai.Ti
chiedo solo di avere pazienza:la gente non ci vede di buon occhio,per tutti noi siamo
criminali..non sanno che esistono romeni diversi,venuti in Italia per costruirsi un futuro..”Gli
occhi di papà luccicano di una strana luce:non saprei dire se si tratta di tristezza
o commozione.Lo abbraccio forte:papà è l’unica persona che mi capisce,oltre
al mio ragazzo,è ovvio.Non vi ho ancora parlato di lui:si chiama Danny Rajivko-
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ski,anche lui romeno. Abita in Italia da più tempo;è alla disperata ricerca di un lavoro,ma
per ora non ha avuto fortuna. Il nostro punto di ritrovo è sempre stato il terrazzo
di camera mia:lui abita di fronte e la sera si arrampica per una ringhiera fino a
raggiungere la mia stanza. è bellissimo guardare le stelle in sua compagnia:insieme
a lui è più facile sopportare il peso di tanti dolori e discriminazioni. Anche questa sera
siamo quassù a contemplare l’immensità del cielo stellato. Gli ho raccontato di quel
che è successo a scuola.”Non lasciare che i pregiudizi delle persone distruggano la tua
felicità,Viky”sussurra Danny sorridendo.”Anch’io sono discriminato,sai...non sei la
sola.”Improvvisamente il suo viso ha cambiato espressione: un velo di disperazione
è sceso sui suoi occhi.”Danny,è successo qualcosa?”gli chiedo preoccupata.”No,tranquilla.Anzi,sii
felice:sto per trovare un lavoro.”risponde lui,ma i suoi occhi non
hanno cambiato quell’espressione.”Un.. lavoro?Davvero?Oh Danny! Sono così felice!”lo
abbraccio: non avrei mai immaginato che quella sarebbe stata l’ultima
volta…Alla fine,lui si separa da me e fissa per qualche momento il cielo.”La vedi
quella stella?”dice indicando un puntino luminoso nell’oscurità.”Ogni volta che la
guarderai,pensa a me e a quanto ti voglio bene..non dimenticarlo.”Non capisco perché
mi abbia parlato in questo modo,così mentre si allontana scendendo per la ringhiera
dichiaro:”Danny,noi staremo sempre insieme,nel bene e nel male:tu ricordati
di questo.”Si ferma e mi sorride:un sorriso triste e commuovente,ma pieno di amore
nei miei confronti.
È la mattina del secondo giorno di sospensione e delle urla disperate provenienti dalla
casa vicina mi svegliano. Quella voce mi sembra di conoscerla…mi vesto di corsa e
scendo in cucina:papà e mamma non ci sono,la porta di casa è semiaperta.Non perdo
tempo e mi tuffo all’esterno:le urla provengono dalla casa di Danny.Volo su per le
scale,ho capito che c’è qualcosa che non va.Giungo davanti all’ingresso:la porta è spalancata
e i genitori di Danny piangono e si stringono ai miei.”Signore,signora Rajivkoski!”grido
per farmi sentire”Ma..cosa è successo?Dov’è Danny?” Comincio a tremare:dev’essere
accaduto qualcosa di molto grave.”Oh Viky…vieni via con
me,tesoro..”è papà a parlarmi così:i suoi occhi sono pieni di lacrime.”No papà..lo leggo
dal tuo viso: Danny…..” “Danny è morto,Viktoria: si è suicidato.” conclude papà.La
notizia mi paralizza:il mondo intorno a me sembra essersi fermato.”Non è possibile..non
è possibile…”sto per sentirmi male: tremo e piango,la testa sta per scoppiarmi.Papà
e mamma mi abbracciano,ma io non sento niente,se non il vuoto che opprime
il mio cuore.Perché lo ha fatto? ”Vieni con me,Viky..andiamo ad avvisare la
polizia.”Papà mi trascina fuori, mamma resta a consolare i signori Rajivkoski. ”Danny
ha lasciato questa per te:era appoggiata sul comodino.”Papà tira fuori una lettera e me
la porge,dopodichè si allontana verso il commissariato. Corro verso casa con la lettera
stretta al cuore.Giungo in camera e mi chiudo a chiave. Con la manica della felpa
tento di asciugarmi le lacrime che continuano a sgorgare come acqua da una sor-
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gente.Non ho la forza di aprire adesso la lettera di Danny,mi stendo sul letto e rimango
così per il resto della giornata. Diverse volte i miei sono venuti a bussare dalla
porta,a chiedermi come stavo,ma io non voglio vedere nessuno.
Ora è l’una e ventitre di mattina,ma il mio dolore cresce a ogni ora che passa.Mi alzo
dal letto e accendo la luce:ho deciso di leggere la lettera di Danny. Apro la busta e le
mani mi tremano per l’emozione.Tiro fuori il foglio di carta.Comincio a leggere:
“Cara Viky,
Ti prego,leggi fino in fondo questa lettera. Il gesto estremo che ho compiuto l’ho fatto
per disperazione:ti ho mentito,non stavo per trovare un lavoro.In tutti questi anni passati
in Italia sono sempre andato alla ricerca di qualcosa che non ho mai trovato.Gli
unici soldi che avevo li ho spesi per venire qui,per costruirmi un futuro..ma inutilmente.Tutti
mi han sempre scambiato per un criminale,sono stato preso di mira da atti
di violenza per il semplice fatto che sono straniero.Ho sopportato tutto questo perché
speravo che un giorno gli uomini,poveri e ricchi,giovani e vecchi,uomini e donne potessero
vivere in pace…ma mi sbagliavo.Viky,non meritavi di avere al tuo fianco un
perdente:da questa vita non ho ricevuto niente di buono se non il tuo amore.Ti ho sempre
amata e ti amerò per sempre,in questa vita e nell’altra.
Danny”
La lettera mi scivola dalle mani:rimango impietrita ripensando alle motivazioni del
suo suicidio.”Tu non sei un perdente,Danny..”Invoco il suo nome,quasi aspettandomi
di ricevere una risposta:la mia mente non riesce ancora a realizzare il dramma accaduto.Ripenso
alla mia vita: le discriminazioni, le ingiustizie a scuola,gli sguardi diffidenti
delle persone..tutto questo per il fatto che sono”diversa”.Nella mia testa risuona
l’ultima frase che ho detto a Danny:”Noi staremo sempre insieme,nel bene e nel
male.”Sono uscita sul terrazzo e fisso quella stella lassù nel cielo oscuro. La mia vita
ha perso la sua unica ancora di salvezza e la sola luce che vedo è la stella di
Danny.Troppo lontana….voglio poterla raggiungere ora,subito,per non separarmi
mai più da lei…e dal mio ragazzo. Guardo verso la porta della mia stanza.”Addio,caro
papà…addio,cara mamma…finalmente mi libererò di tutte queste sofferenze.Vi voglio
bene.” Scavalco la ringhiera del mio balconcino.Una voce dentro me dice di non
darla vinta a chi mi ha fatto del male,ma non voglio tornare indietro.Non riuscirei a
vivere senza la presenza di colui che mi è sempre stato vicino. Mollo la presa e chiudo
gli occhi.Quando li riapro,tutto ciò che mi circonda splende e scaturisce gioia.Danny
è accanto a me e mi sorride radioso.Finalmente siamo di nuovo insieme,per sempre
felici,sulla nostra stella.
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Valentina Zaccaro