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POLISCRITTURE Rivista di ricerca e cultura critica Numero prova ...

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<strong>POLISCRITTURE</strong><br />

<strong>Rivista</strong> <strong>di</strong> <strong>ricerca</strong><br />

e <strong>cultura</strong> <strong>critica</strong><br />

<strong>Numero</strong> <strong>prova</strong><br />

Aprile 2005


In<strong>di</strong>ce<br />

- L’e<strong>di</strong>toriale: Cos’è <strong>POLISCRITTURE</strong>?...................................................................................................... pag. 4<br />

1 Samizdat<br />

- Piero Del Giu<strong>di</strong>ce: Lettera <strong>di</strong> fine anno (2004) + Poliscritture <strong>di</strong>scute ......................................................pag. 6<br />

- Giulio Stocchi: Due sorelle: Giuliana e Mithal..........................................................................................pag. 8<br />

2 Luoghi/non luoghi<br />

- Marina Massenz: Luoghi e non luoghi .....................................................................................................pag. 11<br />

- Donato Salzarulo: Noi del Forum citta<strong>di</strong>no e quelli del collettivo<br />

del Quartiere Stella a Cologno Monzese.....................................................................pag. 12<br />

- Giulio Stocchi: La strada verso casa.........................................................................................................pag. 14<br />

- FrancoTagliafierro: Veloci impressioni da una visita a Berlino nel 2005 ...............................................pag. 20<br />

- Pier Paride Vidari: Memorie berlinesi......................................................................................................pag. 23<br />

3 Eso<strong>di</strong><br />

- Ennio Abate: Intervista a Michele Ranchetti su «Non c’è più religione» + Nota ...................................pag. 25<br />

- Luca Ferrieri: La politica è sempre una poetica. Un <strong>di</strong>a-tria-logo su guerra e pace ..............................pag. 32<br />

4 Storia adesso<br />

- Daniele Santoro: Dalla silloge «Diario del <strong>di</strong>sertore alla battaglia delle Termopili» .............................pag. 38<br />

5 Zibaldone<br />

- Luciano De Feo: Scritto nelle stelle ..........................................................................................................pag. 40<br />

- Ornella Garbin : Pace come dolce miele; Fiore bianco; Vento freddo + Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 1...pag. 43<br />

- Mario Mastrangelo: Na stella..................................................................................................................pag. 44<br />

6 Letture d’autore<br />

- Ennio Abate: Due conversazioni con Giampiero Neri + Nota..................................................................pag. 45<br />

- Andrea Boeri: Secolarizzazione e legittimità dell’età moderna. Considerazioni sulla <strong>critica</strong> <strong>di</strong> Blumenberg<br />

alla filosofia della storia <strong>di</strong> Löwith ..............................................................................................................pag. 53<br />

- Mariella De Santis: Un io crudele e molteplice. In<strong>di</strong>vidualità e soggetto in Janet Winterson, Ingeborg Bachmann<br />

e Agota Kkristof + Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 2 .............................................................................pag. 55<br />

-Marco Gaetani: Sartre fuori moda............................................................................................................pag. 58<br />

-Loredana Magazzeni: Alda Merini e l’erotismo polimorfo del materno + Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 3 pag. 63<br />

-Mario Mastrangelo: Sentimento dolente ed aura <strong>di</strong> magia nella poesia <strong>di</strong>alettale <strong>di</strong> Lilia Slomp ..........pag. 66<br />

-Fabrizio Podda: Porte, cesure e il dolore della mente. Una lettura <strong>di</strong> «Donna <strong>di</strong> dolori» <strong>di</strong> Patrizia Valduga<br />

Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 4..........................................................................................................................pag. 69<br />

-Sergio Rotino: Lo spettacolo deve andare avanti. Intervista a Nicola Lagioia..........................................pag. 74<br />

7 Sulla giostra delle riviste<br />

DeriveAppro<strong>di</strong> n. 23 giugno 2003 a cura <strong>di</strong> Spartacus .................................................................................pag. 79<br />

Poliscritture 1


L’e<strong>di</strong>toriale <br />

Questa è una rivista che:<br />

Cos’è <strong>POLISCRITTURE</strong>?<br />

1. pur memore della sconfitta delle esperienze <strong>di</strong> emancipazione o rivoluzione del Novecento<br />

e del fallimento delle <strong>di</strong>ssidenze nei paesi del fu «socialismo reale», non rinuncia a costruire<br />

samizdat <strong>di</strong> <strong>critica</strong> elementare contro le menzogne dei potenti, anche quelle travestite da<br />

«senso comune»;<br />

2. sarà attenta al mutare non neutro delle relazioni tra tempi e spazi globali e tempi e<br />

spazi locali e ai mo<strong>di</strong> soggettivi con cui ne percepiamo i segni nei tanti luoghi/non luoghi dove ci<br />

ritroviamo ad abitare o a viaggiare;<br />

3. incoraggerà gli eso<strong>di</strong> sia come fughe e evasioni fisiche alla <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> libertà e sopravvivenza<br />

(quelli, ad esempio, dei migranti) sia come <strong>di</strong>serzioni mentali da valori comunitari con<strong>di</strong>visi<br />

per conformismo e non più verificati sui bisogni reali dei viventi;<br />

4. si misurerà con la storia adesso, ripensando cioè anche contro il presente, mai <strong>di</strong> per<br />

sé migliore del passato, gli eventi, massimi o minimi, sovente rimossi dagli stessi dominati o accomodati<br />

dagli storici <strong>di</strong> professione per compiacere la vanità dei dominatori <strong>di</strong> turno;<br />

5. nel suo zibaldone accoglierà una molteplicità <strong>di</strong> scritture “creative” (poesie, <strong>di</strong>ari, appunti,<br />

racconti, ecc.), oggi in crescita tumultuosa, le farà <strong>di</strong>alogare <strong>critica</strong>mente tra loro e con<br />

quelle saggistiche e scientifiche, in modo che possano sottrarsi sia all’ipnosi dei modelli commerciali<br />

o accademico-specialistici sia al solipsismo, poiché - come ha scritto Augé - «la scrittura porta<br />

sempre con sé un <strong>di</strong>stanziamento dalla solitu<strong>di</strong>ne in funzione <strong>di</strong> nuovi legami e nessuno scrive<br />

senza pensare a chi lo leggerà».<br />

6. con le sue letture d’autore proporrà esempi <strong>di</strong> come dei lettori attenti e curiosi interrogano<br />

alla luce delle proprie suggestioni, emozioni e convinzioni opere <strong>di</strong> ogni tipo (dal romanzo al<br />

saggio, dal film al brano musicale, al trattato scientifico) in vista <strong>di</strong> un sentire e un agire in comune;<br />

7. Per sondare vicinanze e <strong>di</strong>stanze e confrontarsi con altri problemi e idee, salirà e scenderà<br />

sulla giostra delle riviste (cartacee o on line, specialistiche o <strong>di</strong>vulgative), che sono in genere<br />

ancora laboratori <strong>di</strong> <strong>ricerca</strong> immuni dalla comunicazione-spettacolo;<br />

Questa è, dunque, una rivista <strong>di</strong> scritture plurali, come <strong>di</strong>ce il titolo stesso. Ma in esso<br />

abbiamo inserito una ‘S’ in rosso, che evoca in sottofondo la polis, la città, fonte antica e più o<br />

meno mitica della politica e della democrazia. Vogliamo così segnalare ai lettori non una patetica<br />

nostalgia dell’antico ma l’intenzione <strong>di</strong> ristabilire in nuovi mo<strong>di</strong> tra scritture e politica una tensione<br />

costruttiva che oggi si è perduta.<br />

E inten<strong>di</strong>amo farlo innanzitutto promuovendo il <strong>di</strong>alogo critico tra una parte almeno dei<br />

molti scriventi <strong>di</strong> massa, che oggi, <strong>di</strong>giuni o quasi <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> umanistici o vagamente ac<strong>cultura</strong>ti su<br />

quelli scientifici, producono testi <strong>di</strong> ogni genere, e quanti, ancora critici e memori della lezione<br />

universalizzante dei “classici” (compresi quelli del Novecento), scrivono <strong>di</strong> filosofia, letteratura,<br />

arte, scienze e storia.<br />

<strong>POLISCRITTURE</strong> comincia a uscire nel 2005, in una situazione – antropologica e non solo<br />

<strong>cultura</strong>le - molto mutata anche rispetto a un passato recente; e ha alle spalle un pezzo <strong>di</strong> storia -<br />

<strong>di</strong>ciamo il Novecento – che appare concluso nelle sue speranze <strong>di</strong> rivoluzione o <strong>di</strong> progresso e orrendamente<br />

inconcluso nella realtà della «guerra permanente».<br />

La consapevolezza <strong>di</strong> tale drammatico trapasso d’epoca ci induce, in fatto <strong>di</strong> scritture<br />

plurali, a non aggregarci, ingenui e plaudenti, allo sciame imponente della produzione corrente;<br />

e, in fatto <strong>di</strong> politica, a non chiudere gli occhi, malgrado troviamo repellente la politica o<strong>di</strong>erna<br />

ridotta a spettacolo.<br />

In entrambi i campi - nelle scritture e nella politica - sentiamo il bisogno <strong>di</strong> misurare i<br />

concetti - per loro natura astratti e oggi più evanescenti e problematici che in passato ma comunque<br />

necessari - con le pratiche concrete; e <strong>di</strong> confrontare queste - spesso limitate, rituali e<br />

<strong>di</strong> sopravvivenza - con nuovi concetti che possano riscattarle e farle respirare verso il futuro.<br />

Poliscritture/E<strong>di</strong>toriale 2


E perciò inten<strong>di</strong>amo non trascurare, nel primo caso, le <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> fare nuova <strong>cultura</strong><br />

quando si è immersi in esperienze <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> lavoro che mal si conciliano non solo con la biblioteca<br />

o il laboratorio ma con la semplice lettura, la <strong>di</strong>scussione seria e lo scambio fecondo; e, nel<br />

secondo, i limiti del <strong>di</strong>battito non entusiasmante sulle due sinistre, la rifondazione e gli eso<strong>di</strong><br />

svoltosi negli ultimi decenni.<br />

Vogliamo cioè verificare con rigore se e dove le scritture plurali <strong>di</strong>ventino costruttive; e se<br />

e dove il riformismo, la rifondazione e gli eso<strong>di</strong> – per ora figure pallide, equivoche e troppo simboliche<br />

della politica postmoderna – mordano la realtà e si fanno più concrete e corporee.<br />

Fondare una rivista significa aggiungere a quelli esistenti un altro luogo <strong>di</strong> riflessione e <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>battito - speriamo ventilato – e al contempo rifiutare <strong>di</strong> confluire in qualcuna delle tante iniziative<br />

già esistenti e meglio attrezzate in denaro, strutture e saperi. Non lo facciamo per in<strong>di</strong>vidualismo<br />

o provincialismo, ma per un profondo e ragionato rifiuto delle pose elitarie, iperspecialistiche<br />

o avanguar<strong>di</strong>stiche - eticamente e spesso politicamente accomodanti verso i Poteri forti - che<br />

purtroppo ancora prevalgono in molte riviste, centri stu<strong>di</strong>, fondazioni, circoli <strong>cultura</strong>li.<br />

Preferiamo partire - pur in tempi <strong>di</strong>fficili <strong>di</strong> guerre, <strong>di</strong> transnazionali, <strong>di</strong> oligopoli, <strong>di</strong> torture<br />

e <strong>di</strong> menzogna <strong>di</strong>gitalizzata - da una precaria rete amicale <strong>di</strong> intellettuali senza notorietà accademica<br />

o massme<strong>di</strong>ale, come se ne incontrano nelle scuole, nelle università, nelle case e<strong>di</strong>trici,<br />

nelle biblioteche civiche, negli uffici, nei laboratori <strong>di</strong> <strong>ricerca</strong>.<br />

Noi che <strong>di</strong> questi lavoratori della mente facciamo parte, sappiamo sia i “vizi” (un certo<br />

snobismo <strong>di</strong> massa, il <strong>di</strong>sincanto, il noma<strong>di</strong>smo: atteggiamenti spesso ideologizzati che decorano<br />

le nuove esche gettate dalle università, dai gran<strong>di</strong> giornali, dalla TV, dall’e<strong>di</strong>toria e dalla stessa<br />

Internet e fanno sopportare con<strong>di</strong>zioni contrattuali capestro) sia quanta ribellione e insod<strong>di</strong>fazione<br />

striscia sotto la crosta del consenso o del rifiuto a parole della «società dello spettacolo». E<br />

sappiamo pure che la conoscenza dei problemi reali potrebbe contribuire a costruire un modello<br />

positivo, più <strong>di</strong>namico e antielitario, evitando a questa nuova intellettualità i rischi sia <strong>di</strong> epigonismo<br />

che <strong>di</strong> avanguar<strong>di</strong>smo politico e artistico.<br />

Vogliamo perciò che <strong>POLISCRITTURE</strong> sia una rivista <strong>di</strong> riflessione proprio per quei lavoratori<br />

della mente che - stufi <strong>di</strong> modelli esibizionistici e <strong>di</strong>vaganti o <strong>di</strong> fare solo sol<strong>di</strong> - vogliano operare<br />

al <strong>di</strong> sotto (se al <strong>di</strong> fuori non è più possibile...) dell’universo simbolico postmodernizzato e<br />

collaborare producendo atti scritti, in<strong>di</strong>viduali e collettivi, <strong>di</strong> resistenza, <strong>di</strong> comprensione del reale,<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo politico sui problemi dei molti, quelli che come noi lavorano o semplicemente vivono<br />

o sopravvivono in un mondo, che ha cancellato un secolo e mezzo <strong>di</strong> lotte emancipative e rivoluzionarie<br />

e si ritrova sconvolto dalle nuove guerre, dai <strong>di</strong>sastri ecologici e da nuove forme <strong>di</strong><br />

servitù.<br />

È il nostro un progetto troppo ambizioso, perché vuole raccogliere esigenze molteplici e<br />

muoversi in tanti campi, rischiando l’eclettismo, il vociare <strong>di</strong>ssonante <strong>di</strong> Babele? A salvaguardarci<br />

da questi pericoli sarà la nostra capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogare, correggerci e cooperare nel nuovo spazio<br />

che qui apriamo. È una scommessa. Ma basta per partire.<br />

In questo numero <strong>prova</strong> gli intenti qui sopra <strong>di</strong>chiarati iniziamo a praticarli. I temi (guerra<br />

e pace, politica e politica italiana, percezione <strong>di</strong> luoghi e loro legami con la memoria in<strong>di</strong>viduale o<br />

collettiva, scritture d’autori noti meno noti o sconosciuti o “al femminile”o <strong>di</strong>alettali,ecc.)<br />

s’intrecciano e inseguono nelle varie rubriche. La pluralità dei punti <strong>di</strong> vista, degli accenti e degli<br />

stili è evidente. E invece <strong>di</strong> censurarla o mascherarla abbiamo cominciato i primi esperimenti <strong>di</strong><br />

una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante che potrebbe rimettere in contatto vari livelli <strong>di</strong> <strong>ricerca</strong> separati e spesso<br />

stagnanti nell’ iperspecialismo o nell’imme<strong>di</strong>atezza. Note e commenti non sono punzecchiature o<br />

provocazioni per esibire più sapere o bravura, ma inizi (a volte faticosi) <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo, che speriamo<br />

<strong>di</strong> consolidare nelle pagine e sul sito della rivista.<br />

Samizdat voce russa, “autoe<strong>di</strong>zione”, opuscoli o riviste <strong>di</strong> controinformazione nell’ex-URSS.<br />

Poliscritture/E<strong>di</strong>toriale 3


1<br />

Samizdat<br />

- Piero Del Giu<strong>di</strong>ce: Lettera <strong>di</strong> fine anno<br />

(2004)<br />

Care amiche, cari amici<br />

Per l’inizio dell’anno nuovo, voglio scriverVi una<br />

lettera, sapendo e sperando <strong>di</strong> non abusare <strong>di</strong> Voi.<br />

a) il <strong>di</strong>rettore dell’Unità Furio Colombo ha aperto<br />

un <strong>di</strong>battito: gli italiani sono o meno sottoposti a un<br />

regime?<br />

La mia risposta è “sì”. Per queste ragioni:<br />

1) la violazione sistematica della legge fondante la<br />

Repubblica, la Costituzione. Nella guerra <strong>di</strong>spiegata<br />

all’Iraq, nelle violazioni dei <strong>di</strong>ritti umani consumate<br />

in questa guerra, nelle pratiche <strong>di</strong> riduzione<br />

della autonomia della magistratura, nella legiferazione<br />

ad personam, nell’attacco al <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> sciopero<br />

(prima <strong>di</strong> tutto nei servizi pubblici), nella violazione<br />

dei <strong>di</strong>ritti della persona e dei <strong>di</strong>ritti umani<br />

verso la popolazione immigrata, nelle pratiche e<br />

nelle manifestazioni <strong>di</strong> razzismo<br />

2) il monopolio della informazione, la manipolazione<br />

ra<strong>di</strong>cale della informazione e dei dati della<br />

realtà<br />

3) il conflitto <strong>di</strong> interessi, dal premier al ministro<br />

Lunar<strong>di</strong>, dall’avvocato Pecorella ai 94 tra deputati e<br />

senatori definitivamente condannati per reati vari<br />

4) la violenza <strong>di</strong> piazza del governo – dal luglio <strong>di</strong><br />

Genova in poi<br />

5) la sovrapposizione del ministero degli interni alla<br />

magistratura: nella espulsione <strong>di</strong> lavoratori immigrati,<br />

<strong>di</strong> pre<strong>di</strong>catori islamici, <strong>di</strong> islamici sospetti<br />

etc.<br />

L’elenco può continuare, ma la manifestazione più<br />

chiara della con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> regime in cui viviamo è<br />

la scomparsa <strong>di</strong> una opposizione.<br />

E’ questo – la fine <strong>di</strong> una opposizione – il segno <strong>di</strong><br />

un regime in atto.<br />

Nell’estate delle contrad<strong>di</strong>zioni all’interno della destra,<br />

Berlusconi ha sfidato il segretario Udc Follini<br />

a lasciare la compagine affermando che “metà partito<br />

è nelle mie mani”. Detto a nuora perché suocera<br />

intenda il <strong>di</strong>scorso vale per tutti. Quanta parte del<br />

centro-sinistra è nelle mani <strong>di</strong> Berlusconi? Dai singoli<br />

sul libro paga del signore delle televisioni, a<br />

gruppi, a correnti, a formazioni.<br />

Dell’inerzia della opposizione o della identificazione<br />

della opposizione con gli interessi <strong>di</strong> Berlusconi<br />

e della destra sociale, non si può dare una spiega-<br />

zione solo in termini <strong>di</strong> corruzione e <strong>di</strong> trasformismo<br />

parlamentare.<br />

Sono certo questioni esistenti, palpabili, ricche <strong>di</strong><br />

episo<strong>di</strong> saporiti e venali, ma ciò che tiene salde e<br />

in<strong>di</strong>stinte maggioranza e opposizione è una analoga<br />

visione del mondo.<br />

(consigliere DS <strong>di</strong> circoscrizione a Milano,<br />

brava persona e anche giovane: “Siamo moderatamente<br />

liberisti in economia, ma <strong>di</strong>visi – rispetto<br />

alla maggioranza - in politica internazionale”).<br />

Tutto chiaro.<br />

Ma, mentre il centro-sinistra manca <strong>di</strong> una base sociale<br />

coerente, la destra ha raccolto attorno a sé un<br />

blocco sociale consapevole e coerente, nonchè un<br />

elettorato sedotto e incoerente rispetto ai propri interessi<br />

– in libera uscita dalla sinistra.<br />

Il voto operaio e del lavoro in<strong>di</strong>pendente è in libera<br />

uscita dalla sinistra da qualche lustro, sedotto sia<br />

dalle chimere localistiche, sia dalla demagogia della<br />

destra. Sedotto o meno, questo voto ha anche repulsione<br />

per una sinistra o un centro-sinistra o sindacati<br />

<strong>di</strong> riferimento che – senza progetto e senza<br />

annunci <strong>di</strong> futuro - guadagnano ruolo e funzioni,<br />

qui ed ora, dalla me<strong>di</strong>azione tra potere e società civile,<br />

tra operai e padroni. Vale per tutti la riforma<br />

della scuola iniziata dalla sinistra e finita dalla destra,<br />

il <strong>di</strong>lagare del lavoro precario impostato dalle<br />

leggi della sinistra e da larghissime quote dei sindacati<br />

confederali, sostanzialmente de<strong>di</strong>te a servizi<br />

appaltati dallo stato e a cogestire ristrutturazioni e<br />

atomizzazioni.<br />

(a Como, per <strong>di</strong>re una città, la Cisl ha istituto<br />

una cooperativa che fornisce autisti pro tempore<br />

alla azienda municipale. Durata dei contratti:<br />

quattro mesi)<br />

Il movimento operaio e del lavoro <strong>di</strong>pendente hanno<br />

<strong>di</strong>mostrato - storia passata e recente - che è la<br />

loro presenza, il loro materiale e ideale fondamento,<br />

che producono la nascita della democrazia e la<br />

vita della democrazia, innovandola <strong>di</strong> continuo con<br />

le loro lotte – dato che essa è mutante come tutte le<br />

cose vive.<br />

Chi ha fondato la democrazia è il movimento operaio<br />

che, con la Resistenza armata, ha imposto il<br />

patto transitorio/fondante della Costituzione repubblicana.<br />

Chi ha innovato la nostra democrazia è -<br />

nel ‘68-70 - il movimento operaio – quello delle<br />

assemblee, dei delegati. Naturalmente con alleati e<br />

nuovi proletari, con nuove culture e nuove ricchezze.<br />

Un blocco sociale, appunto.<br />

Oggi solo con un movimento <strong>di</strong>ffuso democratico<br />

che segue e si innova sugli itinerari complessi e<br />

frattali del lavoro precario si può avere un allarga-<br />

Poliscritture/Samizdat 4


mento vitale della democrazia. Oggi solo con un<br />

movimento che si basa sul lavoro <strong>di</strong>ffuso, sullo<br />

sfruttamento globale del proletariato mon<strong>di</strong>ale, sulle<br />

nuove culture del movimento no-global e del<br />

movimento interno degli immigrati si può rifondare<br />

e innovare sviluppo e democrazia.<br />

Questa esigenza <strong>di</strong> rifondazione e innovazione dei<br />

rapporti, della politica e della democrazia si riflette<br />

su ognuno <strong>di</strong> noi, nella nostra quoti<strong>di</strong>anità: si pensa,<br />

si scrive, ci si relaziona, si presta la propria professionalità.<br />

Non c’è iato tra consapevolezza della<br />

<strong>di</strong>mensione globale dello scontro e della multi<strong>cultura</strong>lità<br />

delle presenze, con la nostra quoti<strong>di</strong>anità.<br />

E’ una fase <strong>di</strong> “responsabilità” esaltante che ci investe.<br />

Ed è dunque un problema <strong>di</strong> coscienza, coscienza<br />

<strong>di</strong> classe, storica, e dato il momento epocale<br />

che viviamo, coscienza <strong>di</strong> “specie”.<br />

E’ questa complessiva coscienza che si mette <strong>di</strong><br />

fronte al “terrorismo”, evocazione in<strong>di</strong>stinta della<br />

destra e della sinistra unite. Di fronte alla <strong>di</strong>sperazione-e-lotta<br />

- degli uomini e delle donne che in Palestina<br />

o in Iraq scelgono <strong>di</strong> uccidersi uccidendo.<br />

Di fronte ai corpi e alle menti incatenate nelle sentine<br />

<strong>di</strong> Abu Ghraib, <strong>di</strong> Guantanamo e affossate negli<br />

altri lupanari sparsi, delegati alla tortura per la<br />

maggior potenza.<br />

Di fronte al fatto che <strong>di</strong>struggono intere città e la<br />

chiamano “pace”, sterminano centinaia <strong>di</strong> migliaia<br />

<strong>di</strong> persone e la chiamano “democrazia”, affermano<br />

che “Dio è con noi” occupando con le armi interi<br />

paesi per organizzare sul luogo la rapina delle materie<br />

prime.<br />

Se non possiamo stare dalla “parte degli infedeli” –<br />

e non possiamo – dobbiamo da qui pensare e praticare<br />

una via <strong>di</strong> uscita.<br />

La trage<strong>di</strong>a immane che colpisce il sud-est asiatico<br />

è tragico effetto <strong>di</strong> dominio, è il genoci<strong>di</strong>o <strong>di</strong> una<br />

classe, <strong>di</strong> classi, su altre, <strong>di</strong> un quota sociale <strong>di</strong> abitanti<br />

della Terra “messa al sicuro” e <strong>di</strong> una stragrande<br />

parte del mondo tenuta sotto sfruttamento e<br />

soggezione.<br />

(Con un banale investimento in allarmi costieri<br />

gli abitanti dei para<strong>di</strong>si pro tempore del turismo<br />

internazionale si sarebbero salvati. Ma il capitale<br />

e le multinazionali del turismo che investono<br />

nei para<strong>di</strong>si dell’oceano in<strong>di</strong>ano non vedono<br />

e fanno profitti proprio sulla mancanza <strong>di</strong><br />

sicurezza delle popolazioni che lo stesso capitale<br />

chiama sulle coste.<br />

Sarebbe bastato un vantaggio <strong>di</strong> pochi minuti,<br />

quanti nel occorrono qui da dove scrivo a Monterosso<br />

per salire dal mare al convento dei<br />

Cappuccini.<br />

Il peggio deve ancora venire, le periferie delle<br />

nostre città, le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> salute e <strong>di</strong> servizi<br />

nelle periferie delle gran<strong>di</strong> metropoli occidenta-<br />

li, non sono che una pallida metafora <strong>di</strong> quello<br />

che è accaduto e accadrà nel sud-est asiatico.)<br />

La democrazia ha un fondamento <strong>di</strong> classe e dentro<br />

lo scontro <strong>di</strong> classe. Il blocco sociale della destra ha<br />

un’idea del potere, delle gerarchie, del dominio sociale<br />

e della gestione verticale della società.<br />

Recente e a suo modo clamoroso il <strong>di</strong>spiegamento,<br />

la <strong>prova</strong>, <strong>di</strong> questa conduzione <strong>di</strong> potere. Una sorta<br />

<strong>di</strong> luglio <strong>di</strong> Genova senza morti e scontri <strong>di</strong> piazza.<br />

Una plateale affermazione <strong>di</strong> dominio.<br />

Il 7 <strong>di</strong>cembre si è inaugurato a Milano il nuovo teatro<br />

alla Scala. Demolito l’antico manufatto artigianale<br />

senza alcuna ragione e <strong>di</strong>strutti gli antichi equilibri<br />

(acustica etc.). Spesa: 180 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> vecchie<br />

lire. Si sarebbe potuta aggiornare gran parte<br />

della rete ferroviaria lombarda che affligge e stor<strong>di</strong>sce<br />

con <strong>di</strong>sfunzioni continue, ritar<strong>di</strong> e incidenti i<br />

fiumi <strong>di</strong> lavoratori <strong>di</strong>pendenti pendolari. Ma quella<br />

delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> lavoro non è una priorità nella<br />

città del lavoro precario e del lavoro nero. Il 70%<br />

dei cantieri e<strong>di</strong>li è clandestino. I mazzieri della Lega<br />

e <strong>di</strong> An reclutano e vigilano, dei iure e de facto,<br />

sul proletariato immigrato. En cas de malheur, i resti<br />

vengono gettati fuori dai cantieri sulla strada,<br />

poco lontano<br />

Si è fatta la nuova Scala. Una “eccellenza” senza<br />

senso. Si è <strong>di</strong>stribuita la grandezza della “festa” attraverso<br />

giganteschi schermi in tre punti della città:<br />

l’ottagono della galleria, il teatro Dal Verme solo<br />

per i vecchi e le vecchie, il carcere <strong>di</strong> San Vittore.<br />

Già affrontare l’Europa riconosciuta <strong>di</strong> Salieri in<br />

con<strong>di</strong>zioni normali è una impresa, per i detenuti (la<br />

cui gran parte è costituita da stranieri e che vivono<br />

quattro/sei per cella) un afflizione ulteriore, per gli<br />

anziani – separati anche in questa occasione dal resto<br />

della popolazione – un polpettone soporifero.<br />

Un <strong>di</strong>spiegato populismo degenerato e sapore <strong>di</strong><br />

Brazil. Troppo parlare <strong>di</strong> Brazil? Il fuoco millenario<br />

ed eversivo del Natale (coppia instabile con una<br />

maternità extraconiugale, profughi erano, sovversivi,<br />

perseguitati e in fuga e sulla scia della fuga il<br />

sangue della strage dei bambini,), sopra le folle<br />

sbandate, vaganti, dei consumi natalizi, non è Annuncio,<br />

non è Brazil?<br />

Qui ed ora nella città delle “eccellenze”, dello spettacolare,<br />

il ghigno irrisorio del potere. Negli spazi<br />

preposti hanno potuto manifestare rappresentanze<br />

dell’Alfa Romeo e dei precari.<br />

Metropolis è nella mani dei gangsters, le loro riunioni<br />

dei convegni <strong>di</strong> mafia.<br />

Su tutto – dalla peste della guerra alla peste del lavoro<br />

precario, dalla riforma della scuola alle libertà<br />

in<strong>di</strong>viduali e <strong>di</strong> coppia, dalla con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong><br />

lavoro del lavoro <strong>di</strong>pendente italiano e immigrato,<br />

dalla responsabilità in<strong>di</strong>viduale alla responsabilità<br />

storica, alla coscienza “<strong>di</strong> specie” – la sinistra riflette<br />

pallidamente e da vertiginose <strong>di</strong>stanze le con<strong>di</strong>-<br />

Poliscritture/Samizdat 5


zioni del presente. Chiacchiere <strong>di</strong> me<strong>di</strong>atori senza<br />

ruolo.<br />

Penso a un fenomeno come la Caritas – apprezzabile<br />

in alcune città - cui i sindacati e la sinistra hanno<br />

delegato la tutela dei “poveri”, – dunque – irre<strong>di</strong>mibili;<br />

a tutte le pappe delle assistenze apprezzabili<br />

ma inerti (alle Sant’Egi<strong>di</strong>o e altri santi) senza sviluppo<br />

politico, <strong>di</strong> organizzazione e <strong>di</strong> lotta, alle decine<br />

<strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> associazioni – la stragrande parte<br />

inutili e caselle <strong>di</strong> “tempo libero” e clientele, ma<br />

anche utilissime -, alle nuove organizzazioni <strong>di</strong> base<br />

sul lavoro (i Cub, i Cobas etc.), alle organizzazioni<br />

che stanno nascendo nei quartieri popolari (<strong>di</strong><br />

palazzo), alla spinta crescente <strong>di</strong> relazionarci, incontrarci,<br />

a partire dai posti <strong>di</strong> lavoro e dalle contrad<strong>di</strong>zioni<br />

sul lavoro, rimetterci a pensare a come<br />

mo<strong>di</strong>ficare la realtà e il mondo, al desiderio crescente<br />

<strong>di</strong> lotta e liberazione.<br />

Dobbiamo tornare a organizzarci e lottare.<br />

Per un nuovo anno, Vostro<br />

Piero Del Giu<strong>di</strong>ce<br />

Monterosso 31.12.04<br />

- Giulio Stocchi: Due sorelle: Giuliana e<br />

Mithal<br />

Quanto vi apprestate a leggere è composto <strong>di</strong> parole<br />

scritte tutte da Giuliana Sgrena, tratte dal suo appello<br />

e da un articolo dell’1 luglio 2004, su Mithal,<br />

una detenuta <strong>di</strong> Abu Graib.<br />

Si tratta dunque della storia <strong>di</strong> due prigioniere, vittime,<br />

se non della stessa mano, certo della stessa<br />

ingiustizia.<br />

la storia è lunga<br />

i particolari dolorosi<br />

giorni <strong>di</strong> inferno<br />

Dalla fine <strong>di</strong> gennaio ero qui per testimoniare<br />

La situazione <strong>di</strong> questo popolo<br />

Che muore ogni giorno<br />

alla fine mi hanno portato<br />

in una cella un metro per un metro e mezzo<br />

con una bottiglia d'acqua<br />

e mi hanno lasciata lì per sei notti<br />

Bambini vecchi le donne<br />

Sono violentate<br />

E la gente muore ovunque<br />

Per strada<br />

l'abbiamo rincorsa per mezza giornata<br />

e poi un nuovo appuntamento a casa sua<br />

Non ha più niente Poliscritture da mangiare <strong>di</strong>scute<br />

Non ha più elettricità<br />

Non ha acqua<br />

Vi prego<br />

LA LETTERA DI PIERO DEL GIUDICE<br />

Subito dopo aver ricevuto la Lettera <strong>di</strong> fine d’anno <strong>di</strong> Piero<br />

interviene nella mailing list della rivista Luciano De Feo. “È<br />

stato come ricevere una scu<strong>di</strong>sciata in pieno viso! Finalmente<br />

a volte facevano mettere un centinaio<br />

una persona che ha il coraggio <strong>di</strong> <strong>di</strong>re a chiare lettere una<br />

verità <strong>di</strong> prigionieri scomoda”. per De Feo terra ricorda e poi “le bombe della pace”, la<br />

politica vi passavano imbelle della sopra opposizione, le “mene consociative”<br />

che a Salerno hanno partorito il “mostro a più teste delle società<br />

Vi prego miste”, il comportamento della Caritas che “sottrae i<br />

generi più appetibili” e riserva ai <strong>di</strong>seredati i pacchi <strong>di</strong> pasta<br />

Mettete fine all’occupazione<br />

scaduti. L’invito <strong>di</strong> Luciano è a tener desta, come fa Del<br />

Giu<strong>di</strong>ce, la capacità <strong>critica</strong> e anche quella <strong>di</strong> in<strong>di</strong>gnazione,<br />

entrambe eravamo in<strong>di</strong>spensabili spesso costrette nei tempi a che bere verranno.<br />

Non l'acqua d’accordo, del cesso invece, con parte delle argomentazioni <strong>di</strong><br />

Del Giu<strong>di</strong>ce, si <strong>di</strong>chiara Luca Ferrieri, innanzitutto perché<br />

“non si può <strong>di</strong>mostrare l’esistenza del regime con<br />

Lo chiedo al governo italiano<br />

l’inesistenza dell’opposizione”. Poi perché è anche frettolosa<br />

la Lo liquidazione chiedo al dell’opposizione popolo italiano politico-sociale, che è forse<br />

entrata Perché in una faccia delle pressione sue ricorrenti sul fasi governo <strong>di</strong> latenza ma non è in<br />

uno sta<strong>di</strong>o terminale. Anche Ferrieri con<strong>di</strong>vide comunque la<br />

necessità mithal si <strong>di</strong> massaggia un aggiornamento le mani del <strong>di</strong>battito sul “regime”,<br />

perché sicuramente si è <strong>di</strong> fronte a una forte riduzione degli<br />

spazi ricordando <strong>di</strong> libertà, che a un per peggioramento il laccio troppo delle con<strong>di</strong>zioni stretto <strong>di</strong> vita e<br />

<strong>di</strong> le lavoro, erano a <strong>di</strong>ventate un aumento tutte della nere censura, del razzismo, della<br />

violenza. non riusciva Con<strong>di</strong>visibili più a muoverle le affermazioni <strong>di</strong> Piero<br />

sull’inefficienza dolosa della macchina dei soccorsi in Asia,<br />

molto meno quelle sulla Caritas e sull’associazionismo, rite-<br />

Pier ti prego aiutami<br />

nute da Ferrieri “ingenerose e non documentate”.<br />

Per piacere fai mettere le foto dei bambini<br />

Per Pier Paride Vidari viviamo in un regime se pensiamo<br />

allo Colpiti strapotere dalle manipolatorio cluster bomb <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a e tv, ma certamente no<br />

se inten<strong>di</strong>amo assimilare il berlusconismo a una <strong>di</strong>ttatura e al<br />

fascismo. l'ombra Mussolini nera <strong>di</strong> kajal prese il potere con la violenza, uccidendo<br />

fa e risaltare confinando, il color Berlusconi grigio-verde compra tutti e tutto e pensa ad<br />

arricchirsi con qualsiasi metodo. Berlusconi è il prototipo dei<br />

“furbi” dei suoi e anche gran<strong>di</strong> per occhi questo è ammirato e votato da molti italiani.<br />

Ciò che ci <strong>di</strong>fetta <strong>di</strong> più è il “senso etico collettivo”. In<br />

questo Chiedo senso alla i tempi mia sono famiglia e saranno sempre più brutti.<br />

Ennio Di aiutarmi Abate propende per la tesi del regime, soprattutto<br />

quando pensa al quadro mon<strong>di</strong>ale, ma, precisa, per<br />

un’inclinazione “emotiva”. Non lo convince, invece, ciò che<br />

una soldatessa<br />

Piero fa <strong>di</strong>scendere dalla sua “certezza del regime”. Intanto<br />

le gliele molte aveva connivenze slegate tra Destra per permetterle e Sinistra non hanno ancora<br />

“aperto <strong>di</strong> andare gli occhi in bagno alla gente”, che permane in stato <strong>di</strong> grande<br />

confusione. C’è ancora iato, quin<strong>di</strong>, tra “consapevolezza della<br />

E <strong>di</strong>mensione a tutti voi globale dello scontro” e quoti<strong>di</strong>anità. Non si<br />

può, inoltre, parlare <strong>di</strong> “regime” sulla base <strong>di</strong> un’analogia col<br />

fascismo, Che avete senza lottato cogliere con le caratteristiche me <strong>di</strong> novità <strong>di</strong> questo<br />

nuovo regime che conserva invece “l’involucro democratico”<br />

e allora ottiene io probabilmente le ho dato i gli miei stessi orecchini risultati con altri mezzi.<br />

Diversamente da Luca, Ennio però ritiene che lo stato delle<br />

sinistre e dell’opposizione sia ormai devastato, e pensa che<br />

Contro la guerra<br />

mai più coscienza <strong>di</strong> classe e coscienza <strong>di</strong> specie, destra e<br />

sinistra torneranno ad avere “il ruolo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> spartiacque”<br />

del io passato. non ho fatto nulla <strong>di</strong> male<br />

Donato perché Salzarulo dovrei avere ritiene paura? che il processo <strong>di</strong> formazione <strong>di</strong> un<br />

regime sia “abbondantemente in corso” e il regime è quello<br />

“democratico<br />

Contro l’occupazione<br />

maggioritario”. La “<strong>di</strong>ttatura della maggioranza”<br />

ha fatto ormai a pezzi la democrazia rappresentativa. Il<br />

berlusconismo è un aspetto (non il motore) <strong>di</strong> questa crisi. E<br />

se e è poi vero dalle che celle è scomparsa accanto l’opposizione arrivavano istituzionale, le urla ciò<br />

non degli si può uomini <strong>di</strong>re <strong>di</strong> torturati quella sociale: pianti negli e grida ultimi anni le piazze si<br />

sono che riempite venivano più registrate volte e su e un ritrasmesse programma <strong>di</strong> resistenza e<br />

<strong>di</strong>fesa dello stato sociale. Il problema è che tra le due oppo-<br />

tutta la notte ad alto volume<br />

szioni, quella politica e quella sociale non c’è più saldatura:<br />

queso è l’aspetto più pericoloso e questa la china da rimontare.<br />

Poliscritture/Samizdat 6


Aiutatemi<br />

insieme ad altri suoni <strong>di</strong> passi sulla ghiaia<br />

che si avvicinavano<br />

ma lì c'era solo sabbia<br />

Questo popolo<br />

Non deve più soffrire<br />

Così<br />

ho riconosciuto alcuni detenuti,<br />

come Abdul Mudud<br />

al quale erano state rotte le mascelle<br />

e tolto un occhio<br />

Ritirate le truppe dall’Irak<br />

Nessuno deve più venire in Irak<br />

la destinazione era Abu Ghraib.<br />

un'irachena venuta da fuori,<br />

mi dava qualche banana<br />

Perché tutti gli stranieri<br />

Tutti gli italiani<br />

Sono considerati nemici<br />

in una stanza grande<br />

c'era un dottore<br />

che voleva che mi spogliassi<br />

minacciava <strong>di</strong> tagliarmi i vestiti<br />

addosso<br />

Per favore<br />

Fate qualcosa per me<br />

alla fine gli ho chiesto <strong>di</strong> poter almeno<br />

tenere la biancheria intima<br />

e lui ha accettato<br />

Pier<br />

Aiutami tu<br />

Sei sempre stato con me<br />

In tutte le mie battaglie<br />

gli Stati Uniti hanno occupato il nostro paese<br />

abbiamo il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fenderci<br />

Ti prego aiutami<br />

mi hanno portata<br />

in uno stanzone gelato,<br />

io battevo i denti<br />

in bella mostra c'erano tutti<br />

gli strumenti della tortura<br />

Fai vedere tutte le foto<br />

Che ho fatto sugli irakeni<br />

Sui bambini colpiti dalle cluster bomb<br />

Sulle donne<br />

una delle prigioniere<br />

costretta a camminare a quattro zampe<br />

aveva ginocchia e gomiti<br />

completamente rovinati<br />

Ti prego aiutami<br />

a un'altra hanno fatto separare<br />

la merda dall'urina con le mani<br />

Aiutami a chiedere<br />

Il ritiro delle truppe<br />

così è arrivata la soldatessa nera<br />

che mi urlava in continuazione<br />

Aiutami<br />

ma visto che non mi spaventava alla fine<br />

si è scusata sei coraggiosa mi ha detto<br />

Lo chiedo a mio marito<br />

Lo chiedo a Pier<br />

Aiutami aiutami tu<br />

una donna <strong>di</strong> sessant'anni<br />

che aveva detto <strong>di</strong> essere vergine<br />

veniva sempre minacciata <strong>di</strong> stupro<br />

Tu solo<br />

Mi puoi aiutare fino in fondo<br />

un'altra aveva il corpo rovinato<br />

perché veniva sbattuta contro il muro<br />

A chiedere il ritiro<br />

Delle truppe<br />

un'altra è stata rinchiusa in una piccola<br />

gabbia per sei giorni non poteva nemmeno<br />

muoversi<br />

Io conto su <strong>di</strong> te<br />

La mia speranza<br />

È solo in te<br />

a volte alzavano il riscaldamento al massimo<br />

e per dormire dovevo buttarmi addosso<br />

Tu devi aiutarmi a chiedere<br />

Il ritiro delle truppe<br />

quella poca acqua che mi davano<br />

a volte non mi davano né acqua né cibo<br />

Poliscritture/Samizdat 7


Tutto il popolo italiano<br />

Deve aiutarmi<br />

i bambini li sentivamo urlare<br />

anche loro venivano torturati<br />

Tutti quelli che sono stati con me<br />

In queste lotte<br />

soprattutto venivano fatti assalire dai cani<br />

Mi devono aiutare<br />

un giorno mi hanno fatta appoggiare al muro<br />

con le mani alzate ma io<br />

non ce la facevo a restare così<br />

La mia vita<br />

Dipende da voi<br />

alla fine ho chiesto <strong>di</strong> poter scrivere qualcosa<br />

ai miei figli perché mi sarei suicidata<br />

Fate pressione sul governo<br />

Aiutatemi<br />

sono stata rilasciata dopo<br />

ottanta giorni<br />

e mi hanno anche restituito<br />

gli orecchini<br />

Questo popolo<br />

Non vuole occupazione<br />

gli Stati Uniti hanno occupato<br />

il nostro paese<br />

abbiamo il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fenderci<br />

Non vuole le truppe<br />

abbiamo il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fenderci<br />

Non vuole stranieri<br />

io non ho fatto nulla <strong>di</strong> male<br />

perché dovrei avere paura?<br />

Aiutatemi<br />

io non ho fatto nulla <strong>di</strong> male<br />

Ho sempre lottato con voi<br />

Poliscritture/Samizdat 8


2<br />

Luoghi /non luoghi<br />

- Marina Massenz: Luoghi non luoghi<br />

e Luoghi delle ombre<br />

LUOGHI NON LUOGHI<br />

Venivo a fare la spesa con mia madre al<br />

“MERCATO RIONALE”. L’e<strong>di</strong>ficio in muratura<br />

racchiudeva piccoli negozi rannicchiati, ognuno<br />

con la sua specialità. Il mio preferito<br />

era la “drogheria”, perché sinonimo <strong>di</strong> biscotti,<br />

cioccolato e altre delizie. All’esterno invece<br />

stavano le bancarelle della frutta e della verdura.<br />

Si faceva la coda ai due lati, corrispondenti<br />

a due commessi e a due bilance. Era un<br />

quartiere come un altro, allora semiperiferico,<br />

della mia città.<br />

Perché adesso sopra c’è scritto BINGO in rosa,<br />

hanno rifatto la costruzione, che rimane<br />

sempre tarchiatella e un po’ sformata. Entrano<br />

ed escono persone, non si sa bene cosa<br />

facciano lì. Io non entro, e quin<strong>di</strong> non <strong>di</strong>spongo<br />

il mio corpo in alcun modo; ci passo davanti<br />

in automobile, mi fisso sul semaforo,<br />

impongo al mio collo <strong>di</strong> non girarsi a destra.<br />

Non voglio vedere la scritta in rosa, con i suoi<br />

caratteri grassocci.<br />

Me la immagino simile ad un elefante addestrato,<br />

ricoperto <strong>di</strong> drappi molto colorati, con<br />

nastri e campanellini penzolanti, <strong>di</strong> quelli che<br />

con la proboscide chiedono l’obolo.<br />

I non luoghi si <strong>di</strong>stinguono dagli altri perché<br />

tutto ciò che è lì potrebbe anche non esserci.<br />

Non si tratta però <strong>di</strong> precarietà o naturale incertezza<br />

della vita, ma <strong>di</strong> pura bruttezza e <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne<br />

casuale. Non quin<strong>di</strong> della versione<br />

colorata e creativa <strong>di</strong> un artista arruffato e un<br />

po’ eccentrico, ma <strong>di</strong> quella trasandata, un<br />

po’ sciatta e maleodorante <strong>di</strong> colui che lascia<br />

i suoi oggetti, e con questi i suoi rifiuti, un po’<br />

dove capita. Senza pensarci. Questa sventatezza<br />

li <strong>di</strong>segna; così i luoghi trasudano questa<br />

<strong>di</strong>menticanza, questa stoltezza del passo,<br />

che non vede e non guarda.<br />

Il luogo <strong>di</strong>venta non luogo, perché inabitabile<br />

dall’uomo, ostile alla fantasia, senza orizzonte.<br />

Semicupo. Distogliere lo sguardo permette<br />

<strong>di</strong> scivolare oltre, illudendosi <strong>di</strong> non aver visto.<br />

Non c’è SGUARDO, perché non c’è CORNI-<br />

CE.<br />

LUOGHI DELLE OMBRE<br />

Le ombre scendono da massi enormi allineati,<br />

giganti con forme <strong>di</strong>verse, e strisce più scure<br />

le tagliano trasversalmente. In mezzo, il<br />

laghetto mostra una superficie color verde<br />

chiaro, un colore d’erba. Uno strato compattissimo,<br />

un panno <strong>di</strong> stratificazioni <strong>di</strong> minuscole<br />

alghe, così denso e omogeneo che, per<br />

convincersi della sottostante presenza<br />

d’acqua, si deve gettare un sasso. Affonda,<br />

c’é.<br />

La zona, bisogna salire un po’ per trovarla, è<br />

nascosta tra cespugli folti <strong>di</strong> lentisco, rocce<br />

laviche scarnificate (uteri…fauci…occhi…) e<br />

perfette palme nane, dai tronchi larghi e pelosi,<br />

cariche <strong>di</strong> grappoli <strong>di</strong> bacche arancioni,<br />

sferiche, che paiono <strong>di</strong> cera, per quanto sono<br />

lisce, scivolose al tatto.<br />

Qui, nell’ora del tramonto, le ombre si allungano<br />

sul lago; e sono ombre fisse, come sulla<br />

terra… ci si potrebbe camminare sopra senza<br />

incertezze, se si scorporasse questa piccola<br />

zona dal resto del paesaggio intorno (gli in<strong>di</strong>zi<br />

delle rive, un po’ fangose, che scendono, darebbero<br />

in<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong>verse, e sicuramente ci<br />

si chiederebbe, esitando, terra o acqua?).<br />

Sotto c’è l’acqua, ma l’ombra non vibra, non<br />

palpita al passaggio del vento, non si preoccupa<br />

e non dà segni, come solitamente fa,<br />

quando poggia sul liquido anziché sul solido.<br />

I luoghi delle ombre sono pericolosi, perché si<br />

incontrano paesaggi che contorcono i confini<br />

della realtà, mo<strong>di</strong>ficando senza preavviso i<br />

noti rapporti tra l’ombra e la terra, l’ombra e<br />

l’acqua. Consentono sconfinamenti. Calpestare<br />

la propria ombra potrebbe indurre a<br />

confondersi con lei.<br />

Lo SGUARDO perde <strong>di</strong> vista la CORNICE, si<br />

fissa su un punto metamorfico e lì si incanta.<br />

Come ipnotizzato, visione focalizzata, penetra<br />

nella densità della materia, perché questa<br />

si trova in quel luogo camuffata. È cosa <strong>di</strong>versa<br />

da ciò che pare. Per questo ci inganna,<br />

e insieme ci seduce. Ci porta con sé, ad esplorare<br />

questo punto misterioso, per mille<br />

<strong>di</strong>vaganti sentieri. Il ritorno non è garantito.<br />

Infatti lo sguardo, privo <strong>di</strong> cornice, da solo<br />

non conosce le strade dell’andare e del venire.<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 9


- Donato Salzarulo: Noi del Forum citta<strong>di</strong>no<br />

e quelli del collettivo del Quartiere<br />

Stella a Cologno Monzese<br />

A Milano, alla fine <strong>di</strong> Via Palmanova, a Nord-<br />

Est, si trova Cologno Monzese, oggi città <strong>di</strong><br />

48.262 abitanti. Ci si arriva comodamente anche<br />

in metropolitana (linea verde). E dalla periferia<br />

<strong>di</strong> Milano, come per tanti altri ex-paesi<br />

della cintura (tutti in aperta campagna fino agli<br />

anni Cinquanta), quasi non si <strong>di</strong>stingue più:<br />

un ammasso <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici e un intrico <strong>di</strong> strade e<br />

stra<strong>di</strong>ne solo qua e là punteggiati da piccoli<br />

parchi. La trasformazione <strong>di</strong> Cologno Monzese<br />

- da paese a città in quegli anni e poi da<br />

territorio industrializzato con piccole e me<strong>di</strong>e<br />

fabbriche (metalmeccaniche, della plastica,<br />

della carta) fino agli anni Settanta a nodo del<br />

terziario (sul suo territorio ci sono gli stu<strong>di</strong> televisivi<br />

Me<strong>di</strong>aset) - è avvenuta tutta nel solco<br />

della storia dell’immigrazione meri<strong>di</strong>onale e<br />

veneta dell’Italia del “boom”. Con le sue lotte<br />

operaie prima e con le sue resistenze quoti<strong>di</strong>ane,<br />

che continuano ancora oggi sotterranee,<br />

senza riflettori, <strong>di</strong>menticate dai solerti<br />

piazzisti <strong>di</strong> menzogne postmoderne. Il Forum<br />

citta<strong>di</strong>no e il Quartiere Stella <strong>di</strong> cui qui <strong>di</strong> seguito<br />

si parla sono oggi due fucine <strong>di</strong> <strong>cultura</strong> e<br />

<strong>di</strong> resistenza politica in<strong>di</strong>pendente. Hanno a<br />

che fare con la postmodernità o con il postfor<strong>di</strong>smo?<br />

Nascono da un bisogno collettivo<br />

<strong>di</strong> fare luogo anche dove lo squallore della vita<br />

<strong>di</strong> periferia sembra immane? Contrastano<br />

con efficacia l’avi<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> chi i luoghi li vuole<br />

azzerare e sostituire con i nonluoghi o semplici<br />

ghetti dove ficcare gli scarti del nuovo lavoro<br />

flessibile? Non abbiamo risposte sicure.<br />

Ma la realtà in trasformazione e queste nuove<br />

forme <strong>di</strong> resistenza inten<strong>di</strong>amo guardarle da<br />

vicino e con attenzione. Occhio perciò al<br />

Quartiere Stella, e<strong>di</strong>ficato nei primi anni Sessanta<br />

e che ai tempi della Grande Immigrazione<br />

fu già centro <strong>di</strong> lotta sicuramente proletaria<br />

attorno al ’68-’69. Oggi vi risiedono 1650<br />

abitanti, <strong>di</strong> cui circa il 20% schegge della<br />

Nuova Grande Immigrazione Planetaria e –<br />

fuori dalle mode – sembra che continui a tessere<br />

il suo filo rosso in un tessuto sociale trasformato.<br />

Vado all’incontro col Collettivo del Quartiere<br />

Stella.<br />

Parla Gilberto, vecchio amico.<br />

In un quarto <strong>di</strong> secolo ne hanno fatte <strong>di</strong> cose:<br />

un bel Centro spazioso e accogliente, ove<br />

danno lezioni <strong>di</strong> scuola popolare ai figli dei<br />

proletari.<br />

Gilberto fa una pausa. Usa con vago imbarazzo<br />

la parola proletari, scomparsa dagli<br />

scenari <strong>di</strong>scorsivi. Come si chiamavano nei<br />

primi anni Settanta, precisa.<br />

Ora hanno per alunni i figli degli immigrati “extracomunitari”.<br />

Nel Quartiere, infatti, si sono inse<strong>di</strong>ati molti<br />

peruviani e filippini. E non soltanto.<br />

Sono stati bravi gli amici del Collettivo: per<br />

conservare autonomia hanno investito parte<br />

dei loro risparmi in locali in<strong>di</strong>spensabili per<br />

incontrarsi, comunicare, rifornirsi <strong>di</strong> socialità e<br />

identità.<br />

Noi siamo coloro che oggettivamente siamo,<br />

ma siamo anche come ci raccontiamo.<br />

Gilberto ha letto Aristotele e Wittgenstein.<br />

Siamo un organismo <strong>di</strong> avanguar<strong>di</strong>a…che fa<br />

lavoro <strong>di</strong> massa…un intervento <strong>cultura</strong>le nel<br />

movimento operaio nel quartiere.<br />

La lingua indugia ancora su parole e concetti<br />

come avanguar<strong>di</strong>a, massa, movimento operaio.<br />

Suppone che appaiano spettrali alle orecchie<br />

degli interlocutori.<br />

Quando il primo giovane del Quartiere si laureò,<br />

gli organizzarono una bella festa. Obiettivo<br />

raggiunto: <strong>di</strong> appartenenza, <strong>di</strong> orgoglio<br />

sociale.<br />

Al Collettivo continuano, non a torto, a pensare<br />

che vi siano correlazioni tra con<strong>di</strong>zione sociale<br />

e livello d’istruzione: gli operai, anche se<br />

sono scomparsi dai <strong>di</strong>scorsi, aggiunge, ci sono<br />

ancora e hanno un minor numero <strong>di</strong> figli<br />

laureati.<br />

E correlazioni vi sono pure tra con<strong>di</strong>zione sociale<br />

e salute: se gli ospedali e le visite me<strong>di</strong>che<br />

si continueranno a privatizzare e, prima<br />

<strong>di</strong> ricoverarti, dovrai tirar fuori il cartellino<br />

dell’Assicurazione, a pagar più <strong>di</strong> tutti saranno<br />

i poveri. Cristianamente, gli ultimi.<br />

La <strong>cultura</strong> del Collettivo è un composto stabilizzatosi<br />

<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni: c’è Don Milani e la storia<br />

socialista e comunista del Movimento Operaio.<br />

Sempre tremolante la voce <strong>di</strong> Gilberto. Pure<br />

non si tratta <strong>di</strong> seduta spiritica. È un incontro<br />

civile, sereno; un colloquio solidale fra persone<br />

che si ascoltano volentieri e reciprocamente.<br />

Noi abbiamo chiesto <strong>di</strong> vederli, noi, voglio <strong>di</strong>re,<br />

quelli del Forum perché inten<strong>di</strong>amo riorganizzare<br />

la nostra esperienza.<br />

Vogliamo che non muoia quell’embrione <strong>di</strong><br />

democrazia partecipativa vissuta in piazza,<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 10


durante la campagna elettorale del Duemilaquattro<br />

In quell’occasione abbiamo sostenuto il can<strong>di</strong>dato<br />

sindaco Vittorio Beretta, un lavoratore<br />

sindacalizzato cattocomunista, lettore <strong>di</strong> Raniero<br />

La Valle e <strong>di</strong> Don Tonino Bello, che oggi<br />

si augura l’elezione a Papa del Car<strong>di</strong>nale<br />

Martini.<br />

Spero nel soffio dello Spirito Santo.<br />

L’abbiamo sostenuto perché stanchi e insofferenti<br />

<strong>di</strong> questa sinistra televisiva ufficiale,<br />

specialmente <strong>di</strong>essina <strong>di</strong>sposta a <strong>di</strong>menticare<br />

tutto: il lavoro, il comunismo democratico, i<br />

<strong>di</strong>ritti e lo stato sociale…. fino a Fassino che,<br />

all’ultimo congresso, mandando in soffitta la<br />

berlingueriana questione morale, sdogana<br />

come riformista e modernizzatore Craxi.<br />

Riformista, parola pessima. Oggi più <strong>di</strong> ieri. E<br />

modernizzatore? E Centro?<br />

Le parole della politica massme<strong>di</strong>ale sono olio<br />

<strong>di</strong> ricino. Impossibile assumerle.<br />

Il Collettivo giustamente riven<strong>di</strong>ca autonomia<br />

anche dalle istituzioni. Confronto sì. Se necessario<br />

anche coprogettazione, com’è successo<br />

per la realizzazione del Centro, ma<br />

niente trappole. Chi siamo lo <strong>di</strong>ciamo quoti<strong>di</strong>anamente<br />

coi nostri bisogni e le nostre azioni.<br />

Sappiamo chi può davvero rappresentarci<br />

nelle istituzioni. Sicuramente non quelli<br />

che, fin dall’inizio, si mettono contro i nostri<br />

bisogni.<br />

Qui, dove s’erge la Torre <strong>di</strong> Me<strong>di</strong>aset che ognuno<br />

potrà vedere dalla Tangenziale Est,<br />

qui c’è stata una campagna elettorale davvero<br />

entusiasmante. Comunisti italiani, Rifondazione,<br />

militanti politici <strong>di</strong>essini che mai avrebbero<br />

‘tra<strong>di</strong>to’ il loro partito, partecipanti ad associazioni<br />

<strong>cultura</strong>li, <strong>di</strong> volontariato, religiosi,<br />

insegnanti, intere famiglie, persone solitamente<br />

in<strong>di</strong>fferenti o apatiche, una moltitu<strong>di</strong>ne<br />

si è incontrata e attivata per affermare il <strong>di</strong>ritto<br />

ad una democrazia partecipata e realizzata,<br />

per quanto possibile, da subito. E questo<br />

contro chi, per accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> vertice, vuole imporre<br />

alla città, ad ogni città, questo o quel can<strong>di</strong>dato,<br />

questa o quella formuletta programmatica.<br />

Fu un momento <strong>di</strong> gioia. Cortocircuiti, scintille,<br />

illuminazioni.<br />

Per Cologno soffiò il vento collettivo<br />

dell’autonomia, dell’altra libertà non quella<br />

promessa dai proprietari liberisti,<br />

dell’autentica solidarietà. Fare società, farne<br />

un’altra.<br />

Persino il premio Nobel Dario Fo trovò il tempo<br />

per venire a sostenere l’esperienza.<br />

Non passammo il primo turno per poco.<br />

Ci riversammo, a questo punto, sul secondo<br />

can<strong>di</strong>dato del Centrosinistra: Mario Soldano,<br />

uno degli architetti del Piano Regolatore Generale,<br />

un <strong>di</strong>essino tutto partito, cresciuto tra<br />

frazioni e, guai a a chi rompe gli equilibri <strong>di</strong><br />

potere. Persona onesta.<br />

Come Sindaco e come tecnico che ha progettato<br />

il territorio e lo conosce, quin<strong>di</strong>, palmo<br />

a palmo, vedremo quali risultati d’interesse<br />

generale riuscirà a portare nell’impalpabile<br />

Casa Comune dei colognesi attraverso gli<br />

interventi strategici <strong>di</strong> riqualificazione. Previsti<br />

su un territorio denso, già abbondantemente<br />

regalato al cemento.<br />

Ma qui c’è chi sogna sopraelevate, cunicoli e<br />

mon<strong>di</strong> sotterranei con negozi e centri commerciali<br />

frequentati da abitanti pieni <strong>di</strong> visioni.<br />

C’è chi sogna Ipercoop, cilindri multipiani, <strong>di</strong>sneyland,<br />

non-luoghi, meraviglie tecnologiche.<br />

Gli amici del Collettivo vorrebbero, invece,<br />

l’interramento della Tangenziale Est nel tratto<br />

che, da Cologno Centro a Cologno Nord, <strong>di</strong>vide<br />

in due la città. Un scempio d’altri tempi<br />

che ha regalato agli abitanti del Quartiere<br />

Stella, e non soltanto a loro, altissime soglie<br />

d’inquinamento.<br />

Noi siamo qui, infatti, per organizzare la prossima<br />

serata del Forum. Quella che darà avvio<br />

ai “contratti <strong>di</strong> quartiere”, un punto previsto<br />

nel nostro programma elettorale e che vogliamo<br />

costringere l’Amministrazione, comunque,<br />

a realizzare..<br />

Venite, <strong>di</strong>ciamo, venite e raccontate la vostra<br />

esperienza. Dite quel che <strong>di</strong> buono avete fatto<br />

e come, così che anche altri possano farlo.<br />

E poi in<strong>di</strong>cate quali sono i problemi aperti,<br />

quelli su cui vi impegnerete nei prossimi mesi.<br />

Gilberto, è sempre lui a tirare le fila, legge il<br />

Foglio <strong>di</strong> sintesi dei contenuti e delle scadenze.<br />

Ah, quelli del Collettivo sono precisi! Preparano<br />

a puntino ogni incontro.<br />

Quando arrivi da loro, ti salutano, si presentano<br />

e ti danno il Foglio intestato col logo del<br />

Quartiere e la sintesi:<br />

A) Di quanto ci siamo detti la volta scorsa;<br />

B) Di quel che ci stiamo <strong>di</strong>cendo oggi pomeriggio;<br />

C) Degli accor<strong>di</strong> che prenderemo…<br />

Una perfetta macchina organizzativa. Noi del<br />

Forum siamo più flui<strong>di</strong>. Loro lavorano e rispettano<br />

una metrica, noi seguiamo un ritmo.<br />

Loro hanno trovato un luogo, una nicchia dal-<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 11


la quale osservano Cologno e il mondo. Noi<br />

vorremmo afferrare i ritmi della città e scaraventare<br />

i suoi bisogni e le sue esigenze contro<br />

la burocrazia politica locale e non. Vorremmo,<br />

perlomeno, un po’ più <strong>di</strong> ascolto in<br />

una democrazia che si limita a perforarci e<br />

sondarci. E ,<strong>di</strong> cinque anni in cinque anni, ci<br />

abbandona alla solitu<strong>di</strong>ne del tubo cato<strong>di</strong>co.<br />

Parliamo per quasi due ore. Tranquillamente<br />

e rispettando i turni. Non siamo in un salotto<br />

televisivo. Non pensiamo che sbaragli<br />

l’avversario chi parla <strong>di</strong> più o chi più alza la<br />

voce.<br />

Ci accor<strong>di</strong>amo sulla gestione della prossima<br />

serata.<br />

Ci ripeteranno chi sono, cosa fanno e su quali<br />

problemi si impegneranno: da quello del degrado<br />

interno del Quartiere a quello della gestione<br />

del vicino parco, dall’uso degli spazi<br />

sociali del Centro alla questione del traffico e<br />

all’interramento del mostro Tangenziale.<br />

A questo punto, una visita al loro gioiello, al<br />

Centro sociale è d’obbligo. E’ una costruzione<br />

<strong>di</strong> circa 200 metri quadri col tetto spiovente,<br />

e<strong>di</strong>ficata <strong>di</strong> fronte al Quartiere, nel piccolo<br />

parco (un tempo <strong>di</strong>scarica).<br />

Sulla porta la targhetta della Cooperativa Don<br />

Milani con l’elenco <strong>di</strong> alcuni sottoscrittori. Entrando,<br />

si è immessi sul corridoio; subito a<br />

destra il piccolo ufficio, poi la prima grande<br />

aula e poi la seconda; in fondo i servizi igienici.<br />

Soffitto alto e arioso con le travi <strong>di</strong> legno come<br />

in certe chiesette <strong>di</strong> montagna. Arredo<br />

adatto all’attività educativa e sociale che vi si<br />

svolge.<br />

Sulla grande lavagna le parole e le date <strong>di</strong><br />

prossime riunioni.<br />

- Giulio Stocchi: La strada verso casa<br />

Poi, finalmente, esco.<br />

La bocca impastata <strong>di</strong> fumo, gli occhi che<br />

bruciano, e nella testa il ritornello - Due sorelle:<br />

Giuliana e Mithal… Two sisters… Dos<br />

hermanas… Zwei scwestern - che da ormai<br />

più <strong>di</strong> due settimane mi inchioda al computer,<br />

da quando ho deciso <strong>di</strong> far risuonare in tutto il<br />

mondo, tramite la rete internazionale Indyme<strong>di</strong>a<br />

e innumerevoli altri siti Internet,<br />

l’implorazione <strong>di</strong> Giuliana Sgrena e la denuncia<br />

<strong>di</strong> Mithal al Hassan, due voci che finisco-<br />

no col confondersi per trasformarsi nel grido<br />

corale degli oppressi <strong>di</strong> ogni dove.<br />

“Volgiti a me ed abbi pietà <strong>di</strong> me…”, <strong>di</strong>ceva<br />

già più <strong>di</strong> tremila ani fa il Salmista. Già, e<br />

qualcuno dovrebbe avere pietà <strong>di</strong> me –<br />

sospiro mentre mi infilo in ascensore- o quanto<br />

meno <strong>di</strong>rmi grazie. E invece un silenzio<br />

sconcertante…<br />

Forse ha proprio ragione Ennio Abate, che un<br />

giorno mi ha scritto: “Finirai col <strong>di</strong>ventare<br />

matto, da solo, nell’in<strong>di</strong>fferenza e nella sor<strong>di</strong>tà<br />

della sinistra”. E poi il suo dubbio maiuscolo<br />

sull’efficacia della poesia e sull’atteggiamento<br />

intimamente tenero da cui la poesia nasce.<br />

Strano, lui che è un poeta, e un poeta tanto<br />

tenero –“Na file e piccirille/votte pe terre/cerase<br />

e nucellle.//Na file e guagliuncelle/se<br />

mange e cerase/e ammacche e nucelle.”-<br />

nel <strong>di</strong>aletto sonoro della Salerno della<br />

sua infanzia. E’ proprio vero: “gli uomini lo<br />

fanno, e non lo sanno”, come <strong>di</strong>ceva il vecchio<br />

Marx. E tuttavia Ennio, un mio critico così<br />

severo, così puntiglioso e a volte persino<br />

esasperante, ha accettato imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong><br />

pubblicare la poesia su Poliscritture, l’ultima<br />

delle innumerevoli riviste su cui conduce la<br />

sua assidua, attenta e intransigente battaglia<br />

<strong>cultura</strong>le. Forse persino lui la ritiene utile…<br />

Io, comunque, sono convinto, e per questo mi<br />

sono messo al computer, che quella poesia<br />

su Giuliana, composta con le sue parole, potrebbe<br />

avere una sua efficacia, soprattutto se<br />

raggiungesse l’opinione pubblica araba. Già,<br />

ma debbo trovare qualcuno che, oltre a <strong>di</strong>rmi<br />

grazie, si prendesse la briga <strong>di</strong> tradurre in arabo<br />

la poesia e <strong>di</strong> inoltrarla ai me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> laggiù.<br />

E invece, nonostante tutti i miei appelli, il<br />

silenzio, e non <strong>di</strong>co un grazie, ma neanche<br />

un crepa….<br />

Chi mi ringrazia, cantando dal ramo<br />

dell’albero in cortile, è Mister, che è già venuto<br />

due o tre volte a mangiare in cucina. Mister<br />

è l’ultimo <strong>di</strong> una generazione <strong>di</strong> merli -<br />

Rambo, Smart, Drin Drin, Caruso e le loro<br />

compagne, Cina, Natalina, Chellallà, Chellallì<br />

- che da tre<strong>di</strong>ci anni mi onorano della loro fiducia<br />

e della loro amicizia.<br />

Chissà come fanno i merli a sopravvivere - mi<br />

<strong>di</strong>co guardando il cielo avvelenato <strong>di</strong> questa<br />

città. Eppure tanti anni fa, quand’ero ragazzo<br />

e uscivo da questo stesso portone, l’aria mi<br />

pareva così tersa, così profumata…Sto proprio<br />

cominciando ad invecchiare, se ho <strong>di</strong><br />

questi rimpianti, mi rimprovero avviandomi<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 12


verso le Grazie, nel consueto giro attorno<br />

all’isolato, per scaricare tensione e stanchezza<br />

e che ho battezzato “il giro dei <strong>di</strong>sperati”.<br />

E l’occhio mi cade sulla facciata sontuosa<br />

dell’84 che, per una bizzarria della toponomastica<br />

citta<strong>di</strong>na segue, in Corso Magenta,<br />

l’88 <strong>di</strong> casa mia. Mattoni rossi, portone rinascimentale<br />

e un ricamo <strong>di</strong> bifore e trifore che<br />

impreziosiscono l’e<strong>di</strong>ficio: il palazzo dei Cabassi,<br />

i padroni del vapore <strong>di</strong> una volta, e oggi<br />

sede <strong>di</strong> non so quale finanziaria o multinazionale<br />

del gioiello. Davanti ragazze<br />

dall’avvenenza rapace, tutte in tailleurs rigorosamente<br />

gessati, e giovani dai capelli impomatati<br />

e dall’abito altrettanto rigorosamente<br />

blu, fanno crocchio, parlando e ridendo in attesa<br />

<strong>di</strong> entrare.<br />

Una delle ragazze mi guarda, forse per via<br />

del vistoso orecchino navajo che porto e che<br />

uso, insieme a medaglioni, braccialetti e anelli<br />

vari, per marcare la mia <strong>di</strong>fferenza da quegli<br />

elegantissimi greggi in regimental e vuitton. E<br />

qualcosa nel suo sguardo, o forse l’onda dei<br />

capelli biondoramati che segue il movimento<br />

del suo capo verso il mio pendente, mi fa ripiombare<br />

lontano negli anni quando, sugli inizi<br />

degli Ottanta, dal portone dei Cabassi,<br />

compariva, come da una quinta incantata,<br />

una splen<strong>di</strong>da creatura, giovane, delicata e<br />

spaurita, tenuta per le spalle, in un gesto più<br />

<strong>di</strong> possesso che <strong>di</strong> affetto, da un bellimbusto,<br />

camicia aperta, petto villoso, catena d’oro,<br />

che l’esibiva come un trofeo. Era Terry Broom,<br />

la reginetta <strong>di</strong> bellezza dello Iowa, la ragazzina<br />

picchiata e violentata dal padre, sergente<br />

dei marines che cercava nella bottiglia<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>menticare il Vietnam, la poco più che adolescente<br />

che per fuggire quella violenza e<br />

inseguire il sogno che gioventù e grazia le<br />

promettevano, era approdata alle sponde della<br />

Milano da bere, nel giro delle <strong>di</strong>scoteche e<br />

delle modelle. Ambienti fumosi, mani sudate,<br />

girandola <strong>di</strong> coca, fiumi <strong>di</strong> banconote e “vieni<br />

qui, Terry”, “fai vedere le tette, Terry”, “muovi<br />

il culo, Terry”, “dai ciuccialo al mio amico,<br />

Terry”… Così che una sera, nel palazzo dei<br />

Cabassi, Terry aveva preso una pistola e<br />

sparato in testa a D’Alessio, l’ultimo dei bulli<br />

che ne avevano tracannato sogni, <strong>di</strong>gnità e<br />

giovinezza.<br />

Mi auguro abbiano destino migliore le fanciulle<br />

indossatrici che entrano ed escono nella<br />

giostra della loro bellezza dal portone del 78<br />

che permette l’accesso al cortile dove è ubi-<br />

cata nientemeno che “L’antica locanda Leonardo”,<br />

l’“hotel de charme”, come recita un<br />

altro cartello, e dove ero entrato accompagnando<br />

due ragazzoni del Texas che mi avevano<br />

chiesto informazioni e che, sotto lo<br />

sguardo <strong>di</strong>vertito della bella thailandese, la<br />

moglie del bettoliere, faccia scanzonata da<br />

avventuriero, mi avevano offerto una mancia<br />

per le mie premure. Mi avevano scambiato<br />

evidentemente per un in<strong>di</strong>geno, anzi per un<br />

“local” molto servizievole.<br />

L’inguaribile anglofilia del nostro paese - non<br />

parla forse il torvo nano che ci governa <strong>di</strong> “Election<br />

day”, <strong>di</strong> “No tax day”, mentre noi atten<strong>di</strong>amo<br />

fiduciosi il “Fuck-off day”?- ha ribattezzato<br />

con un pomposo “Hair stylist” il bugigattolo<br />

<strong>di</strong> parrucchiere dove un tempo mostrava<br />

i suoi tesori <strong>di</strong> passamaneria una merciaia<br />

quasi centenaria che magnificava in <strong>di</strong>aletto<br />

meneghino i suoi articoli e dalle cui vetrine<br />

oggi, per tacita consuetu<strong>di</strong>ne e complicità,<br />

la graziosa lavorante sorride al mio passaggio.<br />

Risputata da chissà quale guerra, seduta sui<br />

gra<strong>di</strong>ni del “Max Market” - ma è proprio una<br />

mania, questa dell’inglese - mi aspetta la mia<br />

vecchietta. Vecchietta? In realtà, dovrebbe<br />

essere molto più giovane <strong>di</strong> me a stare alla<br />

scritta sul pezzo <strong>di</strong> cartone che fa da insegna<br />

all’improvvisato appello del suo commercio -<br />

sono povera e ho tre bambini piccoli - e le<br />

monetine che le sono ogni giorno destinate<br />

scivolano tintinnando nella sua mano tesa<br />

mentre un sorriso stento e un ciao biascicato<br />

a mezza voce si perdono <strong>di</strong>etro i miei passi<br />

che si allontanano.<br />

“Con questo il mondo non cambia/le relazioni<br />

fra gli uomini non migliorano/l’epoca dello<br />

sfruttamento non è per questo più vicina alla<br />

fine”, mi ammoniscono i versi <strong>di</strong> Brecht che<br />

imparavo a recitare a <strong>di</strong>ciott’anni - e ne sono<br />

passati quarantatre! - sotto gli occhi <strong>di</strong> cristalllo<br />

<strong>di</strong> Dora Setti, la mia insegnante <strong>di</strong> <strong>di</strong>zione,<br />

una gran signora <strong>di</strong> quella borghesia colta e<br />

intelligente, oggi scomparsa <strong>di</strong> fronte ai piazzisti<br />

che ci affliggono.<br />

E svoltando l’angolo per entrare nella piazza<br />

delle Grazie, me la rivedo per un attimo nera<br />

<strong>di</strong> folla, e le chiazze colorate delle ban<strong>di</strong>ere, e<br />

i pennacchi dei carabinieri in alta uniforme e<br />

le <strong>di</strong>vise bianche e blu delle crocerossine, e<br />

la testa bionda <strong>di</strong> Paolo Setti, - il nipote <strong>di</strong> Dora,<br />

che ai tempi dell’Accademia dei Filodrammatici<br />

non conoscevo e che poi è <strong>di</strong>ventato<br />

mio grande amico -, china singhiozzante<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 13


in quel settembre sulla piccola bara della sorella,<br />

Emanuela, massacrata insieme al marito,<br />

il generale Dalla Chiesa, da mani che altri<br />

avevano armato nelle segrete stanze del potere.<br />

Sotto la facciata a capanno <strong>di</strong> quel gioiello<br />

architettonico che ha sempre il potere <strong>di</strong> rasserenarmi<br />

man mano che ne percorro la superficie<br />

fino al trionfo della cupola del Bramante,<br />

è tutta una raffica <strong>di</strong> flash delle macchine<br />

fotografiche dei giapponesi che come<br />

tante formichine sciamano <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là, prima<br />

<strong>di</strong> mettersi or<strong>di</strong>natamente in fila<br />

all’ingresso del Cenacolo.<br />

Ed ecco, immancabile come ogni giorno,<br />

all’appuntamento, un vecchio in bicicletta, vigoroso,<br />

un berretto <strong>di</strong> lana a incorniciarne il<br />

viso su cui spiccano occhi vivi e ridenti, il<br />

quale, legato con cura il suo velocipede al<br />

palo del cartello giallo che dà cenni storici<br />

sull’e<strong>di</strong>ficio, si avvicina a una giapponesina e,<br />

come l’ho visto fare da anni, comincia a parlare<br />

nell’i<strong>di</strong>oma del sol levante, suscitando<br />

prima la sorpresa, poi tutto un portarsi la mano<br />

alla bocca per nascondere i risolini <strong>di</strong><br />

compiacimento dell’esotica fanciulla. Così,<br />

ogni giorno. Tanto che un mattino mi ero risolto<br />

a chiedergli dove mai avesse imparato il<br />

giapponese. E lui, molto gentile, e con la fierezza<br />

del vecchio soldato, mi aveva detto che<br />

durante la guerra aveva fatto il marinaio sui<br />

sommergibili che spesso attraccavano a Tokyo,<br />

dove sostavano in rada anche parecchi<br />

mesi prima <strong>di</strong> riprendere il mare, e lì aveva<br />

imparato la lingua. Oggi il vecchio deve essere<br />

in gran forma, perché attacca <strong>di</strong>scorso non<br />

con una, ma con un’intera frotta <strong>di</strong> leggiadre<br />

butterfly, e me lo vedo sparire nel bar <strong>di</strong> fronte<br />

alla chiesa, seguito dagli arigatò squillanti<br />

<strong>di</strong> quelle nipposirenette sulla scia dell’antico<br />

navigatore.<br />

Con meno perizia del vecchio, ma con altrettanta<br />

determinazione nel conquistare quel<br />

pubblico dagli occhi a mandorla, il ven<strong>di</strong>tore<br />

<strong>di</strong> cartoline sul portone del Cenacolo comincia<br />

a lanciare delle urla, che suonano al mio<br />

orecchio incomprensibili e gutturali, esaltando<br />

in giapponese, da perfetto imbonitore, la sua<br />

merce. Altrettanto gutturale e incomprensibile<br />

dovette suonare l’i<strong>di</strong>oma <strong>di</strong> quegli esseri fieri<br />

e variopinti che comparvero fra gli alberi sotto<br />

gli occhi sbalor<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> Colombo e dei suoi marinai<br />

il mattino <strong>di</strong> quel do<strong>di</strong>ci ottobre 1492<br />

nell’isola Guanahani che il genovese, forse<br />

ricordando chiese come questa, si affrettò a<br />

ribattezzare San Salvador. E del resto, come<br />

proclama il cartello sotto cui riposa la bicicletta<br />

del vecchio, la prima pietra dell’ambone <strong>di</strong><br />

Santa Maria delle Grazie venne posata proprio<br />

nel 1492. E mentre qui, pietra dopo pietra,<br />

andava e<strong>di</strong>ficandosi questa perfezione <strong>di</strong><br />

architettura, in quelle terre all’altro capo del<br />

mondo cominciava una lunga storia <strong>di</strong> sangue,<br />

<strong>di</strong> incen<strong>di</strong>, <strong>di</strong> rovine. Intere civiltà sbriciolate,<br />

uomini, donne, bambini a giacere sventrati<br />

e a braccia larghe sulla terra, e i prigionieri<br />

incatenati, legati alla ruota dei supplizi,<br />

<strong>di</strong>leggiati, sputati, frustati, generazioni <strong>di</strong> popoli<br />

considerati bestie da soma e nient’altro.<br />

E chissà se avrà avuto la faccia cor<strong>di</strong>ale come<br />

quella del frate domenicano che esce dalle<br />

Grazie e che quando incontro saluto sempre,<br />

lui che l’anno della cometa che splendeva<br />

in Via Ruffini aveva fatto schermo ridendo<br />

con la sua tonaca agli occhi miei e <strong>di</strong> Deborah,<br />

la mia compagna, perché la vedessimo<br />

meglio, chissà se aveva quel sorriso,<br />

quell’altro domenicano, frate Bartolomeo de<br />

Las Casas, il <strong>di</strong>fensore <strong>di</strong> quegli ultimi fra gli<br />

ultimi che erano gli in<strong>di</strong>os.<br />

“Tu eri realtà in mezzo ai fantasmi/inferociti tu<br />

eri/l’eternità della tenerezza/sopra la raffica<br />

del castigo”, come scrive Neruda <strong>di</strong> quel buon<br />

frate.<br />

Una lunga storia che non si è mai interrotta –<br />

“uno pensa a questo risorgere camuffato/astuto,<br />

umiliato/del carceriere, della catena”,<br />

come <strong>di</strong>ce sempre Neruda, con parole<br />

che potrebbero essere le nostre quando assistiamo<br />

ogni giorno in televisione alla lucida<br />

barbarie che, nutrendosi <strong>di</strong> petrolio, sta <strong>di</strong>struggendo<br />

in Irak un popolo e che ha messo<br />

in pericolo la vita <strong>di</strong> Giuliana Sgrena.<br />

Con Giuliana venivamo spesso a passeggiare<br />

davanti alla chiesa nei tempi in cui più ci<br />

frequentavamo, sarà stato il 1975. Giuliana<br />

era allora la ragazza <strong>di</strong> un poeta spagnolo,<br />

un giovane che si faceva chiamare Juan e<br />

che interveniva con un passamontagna alle<br />

assemblee del Movimento studentesco per<br />

non farsi riconoscere: apparteneva infatti al<br />

FRAP, il Fronte Rivoluzionario Armato Popolare,<br />

o qualcosa del genere e i servizi <strong>di</strong><br />

Franco gli stavano alle costole. Del FRAP<br />

raccontava Giuliana sul giornale per cui allora<br />

lavorava, Fronte Popolare, <strong>di</strong>retto in quegli<br />

anni da Michele Cucuzza. E mentre Giuliana<br />

ha continuato a fare la giornalista, con la<br />

passione, l’onestà e la partecipazione che tut-<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 14


ti abbiamo conosciuto, Michele Cucuzza si è<br />

trasformato nell’azzimato coglione che presenta<br />

tutti i giorni nientepopo’<strong>di</strong>menoche La<br />

vita in <strong>di</strong>retta, la trasmissione televisiva dove i<br />

nipotini <strong>di</strong> D’Alessio e <strong>di</strong> Terry Broom hanno<br />

modo <strong>di</strong> sfoggiare tutta la loro miseria e vacuità.<br />

Ecco, Michele e Giuliana sono i due<br />

volti che incarnano da una parte il <strong>di</strong>sastro e<br />

dall’altra l’onore della mia generazione.<br />

“Non solo <strong>di</strong> te stesso/ma <strong>di</strong> tutta una generazione/ridente<br />

e <strong>di</strong>sperata…”, scrivevo nelle<br />

notti piene <strong>di</strong> fumo sui fogli <strong>di</strong> un poema che<br />

negli anni avrebbero fatto mucchio, proprio<br />

nel <strong>di</strong>cembre <strong>di</strong> quel 1969 in cui, a pochi<br />

giorni dalla strage <strong>di</strong> Piazza Fontana, il 15 <strong>di</strong>cembre,<br />

mentre Pinelli precipitava dalle finestre<br />

della nostra democratica questura, ero<br />

venuto ad abitare in Corso Magenta 88.<br />

Quel riso e quella <strong>di</strong>sperazione sul volto invecchiato<br />

dei ragazzi <strong>di</strong> allora si sono trasformati<br />

nella piega dura e nel lampo freddo<br />

del calcolo e della convenienza. Così, uno <strong>di</strong><br />

quegli incappucciati spagnoli <strong>di</strong> cui parlavo,<br />

oggi professore universitario <strong>di</strong> estetica, critico<br />

d’arte <strong>di</strong> fama, quando gli ho chiesto se mi<br />

poteva tradurre Due sorelle, mi ha risposto,<br />

“mah, sai, non ho tempo, debbo andare in<br />

Uruguay per un congresso…comunque Giuliana<br />

è una mia grande amica, un abbraccio”<br />

e via… Lui che, ai tempi, <strong>di</strong> Giuliana era stato<br />

ospite. E pensare che Josephine Piccolo, la<br />

dolce poetessa italoamericana, e Hans Jessen,<br />

il giornalista satirico dello Zeit, me<br />

l’avevano tradotta in inglese e in tedesco<br />

senza che neppure avessi bisogno <strong>di</strong> chieder<br />

nulla. E così mi sono rivolto a Magda Castel,<br />

la pittrice catalana per la quale la parola amicizia<br />

vuol <strong>di</strong>re ancora qualcosa, e che ha<br />

spesso collaborato con me, facendomi, ad<br />

esempio, dono della bellissima copertina del<br />

<strong>di</strong>sco della mia Cantata rossa per Tall el Zaatar.<br />

Chissà che fine avrà fatto Abu Ali, il feddayn<br />

che dormiva a casa mia, quando erano venuti<br />

in una trentina per lo spettacolo <strong>di</strong> Fo, nebbia<br />

del ‘73, e che avevo conosciuto due anni prima<br />

nella luce accecante del sud libanese,<br />

con una kefiah sul viso e il mitra in mano. “I<br />

palestinesi? Il loro torto è <strong>di</strong> non aver vinto”,<br />

m’ha detto una volta Clau<strong>di</strong>o, un altro <strong>di</strong> quelli<br />

che volevano cambiare il mondo, un ex <strong>di</strong><br />

Lotta continua…<br />

“Que sont mes amis devenus/que je les avais<br />

de si près tenus/et tant aimés?”, mi sorprendo<br />

a canticchiare i versi <strong>di</strong> Ruteboeuf sull’aria<br />

<strong>di</strong> Léo Ferré, mentre, per concedere tregua<br />

all’amarezza mi avvio verso la chiesa.<br />

Quello che invariabilmente ha il potere <strong>di</strong> riconfortarmi<br />

ogni volta che entro alle Grazie è<br />

quel raggio <strong>di</strong> sole che, penetrando dalla lanterna<br />

del tiburio, danza sul pavimento al centro<br />

della navata e che induce ad alzare gli occhi<br />

che così si perdono nella vertigine geometrica<br />

<strong>di</strong> quella straor<strong>di</strong>naria cupola, seguendone<br />

le cinconvoluzioni, più su, più su,<br />

“oltre la spera che più alta gira”, fino a rimanere<br />

abbagliati da quel punto luminoso dove<br />

pare concentrarsi l’intero fuoco del firmamento.<br />

È la traduzione visiva, così imme<strong>di</strong>ata da<br />

togliere il respiro, <strong>di</strong> quello che noi poeti<br />

chiamiamo l’ispirazione, quando un pensiero,<br />

un rumore, un odore, un volto possono catturare<br />

tutta la luce dell’universo per restituirla in<br />

quel punto splendente da cui irra<strong>di</strong>erà il futuro<br />

poema, parole cioè che, come le volute<br />

della cupola, iniziano a ruotare, a danzare,<br />

nella perfezione matematica del ritmo che le<br />

incatena.<br />

Il profumo dell’incenso ha su <strong>di</strong> me l’effetto<br />

che aveva su Proust la fragranza delle madeleines<br />

e convoca al mio fianco Pippo, il signor<br />

Nador, la Lea, la Nonnona, la Vido, il signor<br />

Sussich, lo zio Trojsi, la mamma e il papà,<br />

quando da Corso Genova, dove allora abitavamo,<br />

ci muovevamo verso le Grazie per incontrare<br />

alla messa <strong>di</strong> Natale, Pippo, l’amico<br />

dei miei quin<strong>di</strong>ci anni e la sua famiglia. Il chilometro<br />

o poco più che percorrevamo, mia<br />

madre e mio padre davanti, io e lo zio Trojsi<br />

<strong>di</strong>etro, segnava il passaggio da un mondo<br />

all’altro. Uscivamo dall’intrico <strong>di</strong> viuzze <strong>di</strong>etro<br />

Corso Genova, - la “casbah” <strong>di</strong> Milano, quando<br />

in Via Marco d’Oggiono c’era ancora<br />

l’Albergo dei poveri, ed era tutto un brulichio<br />

<strong>di</strong> traffici, come quando andavo a comprare le<br />

mie prime Turmac rosse dalla contrabban<strong>di</strong>era,<br />

una profuga giuliana dagli occhi <strong>di</strong> maiolica<br />

e dalla scollatura che mi prometteva para<strong>di</strong>si<br />

ignoti - e attraverso Via De Amicis e Via<br />

San Vittore varcavamo l’invisibile frontiera<br />

che <strong>di</strong>vide gli esseri umani in classi.<br />

I Nador abitavano in Corso <strong>di</strong> Porta Vercellina,<br />

in una casa straor<strong>di</strong>nariamente simile a<br />

quella dove abito adesso e che, in un certo<br />

senso, mi era predestinata, date le mie frequentazioni<br />

adolescenziali e i desideri che<br />

quei palazzi avevano suscitato in mia madre.<br />

Così che, quando nel 69 mia madre - che<br />

stava per risposarsi - e io - che avevo quin<strong>di</strong><br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 15


isogno <strong>di</strong> una casa - avevamo scoperto che<br />

quel cartello “vendesi”, che avevamo guardato<br />

col sospiro <strong>di</strong> chi non potrà mai permetterselo,<br />

richiedeva una somma che i pochi sol<strong>di</strong><br />

lasciati da mio padre bastavano a coprire, io<br />

mi ritrovavo, almeno toponomasticamente, al<br />

<strong>di</strong> là <strong>di</strong> quella frontiera che, del resto, con gli<br />

anni si era quasi <strong>di</strong>ssolta, e mia madre realizzava<br />

un sogno.<br />

Casa <strong>di</strong> Pippo, dopo la messa <strong>di</strong> Natale, era il<br />

teatro <strong>di</strong> ben più laiche cerimonie: al tavolo<br />

verde un bel campionario <strong>di</strong> umanità seguiva<br />

con occhi attenti la chiamata dei punti allo<br />

scopone o le alterne fortune del poker: il signor<br />

Nador, un piccolo ebreo, commerciante<br />

in preziosi, dagli occhi furbi e dalle mani frenetiche,<br />

che aveva passato la guerra nascosto<br />

nell’intercape<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> un muro; mio padre,<br />

che conservava ancora la tessera del fascio e<br />

una foto che lo ritraeva in orbace e stivaloni<br />

quando lavorava da ragioniere all’Opera Balilla<br />

e con quell’ombra <strong>di</strong> tristezzza che ne appannava<br />

lo sguardo; Vidosava Sussich, la<br />

mamma <strong>di</strong> Pippo, una donna sontuosa, dagli<br />

zigomi alti, che sembrava una delle maliarde<br />

uscita da un film <strong>di</strong> Lubitsch; il signor Sussich,<br />

suo fratello e zio <strong>di</strong> Pippo, per consenso<br />

generale e considerate le sue misteriose e<br />

prolungate assenze, agente segreto, <strong>di</strong>ceria<br />

che la piega amara del labbro in qualche modo<br />

giustificava; la Nonnona, lungo bocchino,<br />

novant’anni <strong>di</strong> vitalità e la voce roca addolcita<br />

dalla cadenza triestina; lo zio Trojsi, amico <strong>di</strong><br />

famiglia e forse qualcosa <strong>di</strong> più per via della<br />

mamma, il Conte Alfredo Trojsi <strong>di</strong> Caterbi<br />

Ratti, anello con stemma, monocolo a causa<br />

dell’iprite respirata in trincea, che aveva <strong>di</strong>ssipato<br />

una fortuna, eroe <strong>di</strong> guerra, la prima, e<br />

che mi incantava da bambino raccontandomi<br />

<strong>di</strong> quando era rimasto tre giorni a tenere a<br />

bada con una mitragliatrice gli austriaci e la<br />

cavalleria bulgara; mia madre, la mia dolce,<br />

la mia complice, la mia amica.<br />

Io e Pippo ci chiudevamo in camera sua ad<br />

ascoltare il sassofono <strong>di</strong> Jerry Mulligan e confidandoci<br />

i nostri segreti, i nostri sogni, i nostri<br />

primi, timi<strong>di</strong> amori, e cercando <strong>di</strong> indovinare<br />

le carte del nostro destino che ancora non ci<br />

erano state <strong>di</strong>stribuite. Io mi alzavo spesso<br />

per andare in bagno e approfittavo del tragitto<br />

per sbirciare, passando davanti a camera<br />

sua, Lea che si stava cambiando. Lea… pelle<br />

d’ambra, piccoli seni so<strong>di</strong>, occhi <strong>di</strong> gazzella,<br />

una sulamita nello splendore dei suoi <strong>di</strong>ciott’anni…<br />

“Sei bella, amica mia, come sei bella!/Le tue<br />

trecce si spargono sul petto/come greggi <strong>di</strong><br />

capre/I tuoi denti balenano/come agnelle che<br />

salgono dal bagno/Le tue labbra son porpora<br />

che scocca/l’in<strong>di</strong>cibile fiore del sorriso”….<br />

E così, seguendo sull’orma del Cantico dei<br />

cantici il passo della bella Lea che si allontana<br />

negli anni, mi ritrovo, senza quasi accorgermene,<br />

nel chiostro della chiesa. Un posto<br />

incantato, dove da secoli si specchiano le<br />

quattro rane <strong>di</strong> bronzo nel lago della fontana<br />

che esse stesse contribuiscono ad alimentare<br />

con il chioccolìo dell’acqua che sgorga dalla<br />

loro bocca; dove quattro piccoli mandorli segnano<br />

i quattro punti car<strong>di</strong>nali del minuscolo<br />

giar<strong>di</strong>no all’italiana che circonda la fonte canterina;<br />

e dove, quest’estate, nelle dolci sere <strong>di</strong><br />

settembre, mi sedevo per ascoltare la voce<br />

che giungeva attutita dalla piazza <strong>di</strong> Vittorio<br />

Sermonti che recitava il Para<strong>di</strong>so <strong>di</strong> Dante.<br />

Una <strong>di</strong>zione, quella <strong>di</strong> Sermonti, così precisa<br />

nella sua esattezza filologica e tanto <strong>di</strong>versa<br />

dalla voce straziante e straziata <strong>di</strong> Carmelo<br />

Bene dalle torri <strong>di</strong> Piazza Maggiore, una voce<br />

straziata come straziata era Bologna nel primo<br />

anniversario della strage che l’aveva ferita<br />

a morte.<br />

Lo sguardo segue il ritmo delle sottili colonnine<br />

tanto simili a quelle dei chiostri del Filarete,<br />

all’Università, dove spesso incontravo Giuliana,<br />

mentre entrambi correvamo trafelati a<br />

Fronte Popolare, io per portare una mia poesia<br />

e lei per consegnare un articolo su qualche<br />

guerra <strong>di</strong>menticata.<br />

Già, Giuliana, mi <strong>di</strong>co, guardando l’orologio.<br />

E’ ora <strong>di</strong> tornare.<br />

Ma prima, uscendo dal chiostro in Via Caradosso,<br />

mi concedo una sosta in quello che,<br />

secondo me, è l’angolo più bello delle Grazie,<br />

dove la chiesa si rivela in tutta la sua eleganza<br />

e la sua grazia che, per essere più nascoste<br />

ed appartate, risaltano allo sguardo come<br />

tanti anni fa la curva dolce del seno della Lea<br />

che carpivo passando in corridoio. E anche<br />

qui è un gioco <strong>di</strong> curve, <strong>di</strong> proporzioni, <strong>di</strong> forme<br />

e <strong>di</strong> colori: il rettangolo bianco del chiostro<br />

con la cornice <strong>di</strong> cotto delle finestre che vanno<br />

a perdersi nei mattoni rossi della prima<br />

cinta muraria del corpo poligonale della cupola<br />

che svetta trionfante in una sinfonia <strong>di</strong> neve<br />

e <strong>di</strong> autunno e che, scan<strong>di</strong>ta dal rincorrersi<br />

sapientemente alternato <strong>di</strong> finestre, ogive,<br />

aggetti, gallerie e balconate, trova pace e<br />

culmine nel <strong>di</strong>apason del cristallo dell’ultima<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 16


torre e si slancia, quasi trascinata dalla banderuola<br />

segnavento che la sovrasta, a baciare<br />

il cielo.<br />

E quasi che la natura avesse voluto ricambiare<br />

il dono che la mano dell’uomo le aveva<br />

porto e<strong>di</strong>ficando sui suoi prati quella magia <strong>di</strong><br />

pietra, ai pie<strong>di</strong> della chiesa, e come accarezzandola<br />

coi suoi rami, un immenso acero<br />

rosso, che da trentasei anni mi ha visto passare<br />

e cambiare, solo o accompagnato: cingendo<br />

Carole, il sorriso dei miei giorni <strong>di</strong> gioventù,<br />

e con una catena in tasca per <strong>di</strong>fenderci<br />

dai fascisti; o quando passavo correndo<br />

coi miei fogli verso il metro <strong>di</strong> Cadorna che mi<br />

avrebbe ributtato in Duomo per recitare ai<br />

miei compagni; con Donato in tuta<br />

dell’Innocenti verso la fabbrica - “la cosa è<br />

lunga”, mi pare <strong>di</strong> risentirlo, “ci vuole pazienza”<br />

-; o cantando Lo cuatros generales con<br />

Giuliana e con Juan quasi che quella canzone<br />

potesse giungere all’orecchio del tiranno<br />

cui era destinata; o quando <strong>di</strong>scutevo le sorti<br />

del mondo con Enzo, Ettore, Umbertino; e<br />

quella volta che accompagnavo Veronica<br />

spaurita all’ospedale perché il crollo degli anticorpi<br />

della sua malattia rischiava <strong>di</strong> ucciderla;<br />

o la sera <strong>di</strong> quel <strong>di</strong>cembre - “me ne vado!”,<br />

“te ne pentirai” - che <strong>di</strong>venne l’acero pietra <strong>di</strong><br />

confine perché quelli che s’erano amati si allontanavano<br />

uno da una parte e l’Ornella<br />

scomparendo nella nebbia; e oggi che il passo<br />

è più lento, ma più sicuro, con Deborah a<br />

spiare se troviamo i nostri merli fra le foglie….<br />

Rimango un po’ incerto se proseguire il “giro<br />

dei <strong>di</strong>sperati” per Piazza Virgilio e Vincenzo<br />

Monti, ma poi decido <strong>di</strong> rientrare tornando sui<br />

miei passi. E dall’altra parte del marciapiede,<br />

incastonata fra la facciata settecentesca delle<br />

Stellline e i loggiati del palazzo accanto, piccola,<br />

elegante, con la facciata in cotto ricamata<br />

da due trifore rotonde, la casa <strong>di</strong> Leonardo.<br />

Di lì usciva il pittore per recarsi al cenacolo<br />

dei frati. Chissà com’era Milano allora? Certo<br />

casa mia era già campagna e alle spalle verso<br />

Sant’Ambrogio forse passava lento qualche<br />

barcone sui Navigli <strong>di</strong> cui Leonardo<br />

l’ingegnere aveva progettato il sistema <strong>di</strong><br />

chiuse che ne permettono ancor oggi la navigazione.<br />

Senz’altro una città incantata, sospesa<br />

fra acque e brume, come mi racconta<br />

mia madre la quale a un<strong>di</strong>ci anni già lavorava<br />

consegnando pacchi <strong>di</strong> lavanderia e stireria.<br />

E il padre, mio nonno, un toscano gran cuoco<br />

che non ho conosciuto, forse per compensar-<br />

la delle umiliazioni del suo lavoro <strong>di</strong> “piccinina”<br />

- come quella volta che il principale era<br />

entrato in un caffè lasciandola sola al freddo<br />

coi suoi pacchi e senza neppure offrirle una<br />

caramella - la portava la domenica a fare il<br />

giro <strong>di</strong> Milano in barca sui canali <strong>di</strong><br />

quell’antico ingegnere.<br />

Un altro ingegnere ha abitato qui fino al 1972,<br />

anno in cui è morto a 101 anni. E ho avuto<br />

modo <strong>di</strong> vederlo per Corso Magenta, <strong>di</strong>ritto,<br />

elegantissimo col panama e la canna <strong>di</strong> bambù:<br />

era Ettore Conti, il fondatore dell’industria<br />

elettrica italiana che i padellai al potere stanno<br />

smantellando, un altro, come Dora Setti, <strong>di</strong><br />

quei borghesi colti e illuminati <strong>di</strong> cui si sta<br />

perdendo traccia nella volgarità arraffa-arraffa<br />

che ci circonda con quei fuoristrada da contractors<br />

che sfrecciano per il Corso e sono il<br />

simbolo della villania e dello spreco.<br />

E forse proprio per evitare il traffico ammorbante,<br />

o più probabilmente per concedere<br />

una <strong>di</strong>lazione a ciò che mi attende a casa,<br />

svolto per via Ruffini. In fondo, i pullmann<br />

vomitano a ritmo industriale i giapponesi che<br />

vanno al Cenacolo. Buona giornata per il<br />

vecchio. Mentre, davanti alle scuole elementari,<br />

un gruppo <strong>di</strong> scatenati bambinetti, con<br />

casco, ginocchiera e qualche altro milione<br />

addosso, sfrecciano su quegli infernali aggeggi<br />

che sono quei monopattini <strong>di</strong> acciaio<br />

che possono essere allungati o accorciati secondo<br />

la statura <strong>di</strong> quei <strong>di</strong>avoletti che rischiano<br />

a ogni momento <strong>di</strong> travolgermi. Noi, i “figli<br />

della guerra”, i monopattini da bambini ce li<br />

costruivamo con due assi e quattro cuscinetti<br />

a sfera. Ma i nostri giochi si svolgevano allora<br />

in “buca”, come chiamavamo l’enorme cratere<br />

scavato fra Via San Vincenzo e Via San<br />

Calocero dalle bombe dell’agosto quarantatre,<br />

quando mia madre incinta <strong>di</strong> me a pie<strong>di</strong><br />

era scappata verso Viale Certosa che bruciava<br />

in cerca <strong>di</strong> un fortunoso veicolo che la portasse<br />

sfollata in Veneto, dove qualche mese<br />

dopo sono nato, prematuro, io, un chilo e<br />

mezzo, “un pollo”, <strong>di</strong>ceva il dottore che non<br />

avrebbe scommesso un soldo sulla mia sopravvivenza.<br />

Ebbene, fra le macerie della guerra noi giocavamo<br />

alla guerra <strong>di</strong> ogni epoca e latitu<strong>di</strong>ne:<br />

con spade <strong>di</strong> legno, coperchi <strong>di</strong> padella per<br />

scudo e pentolini in testa come elmo, con gli<br />

archi e le frecce dei pellerossa, con le cerbottane<br />

in<strong>di</strong>e dei bussolotti, con le pistole ad acqua<br />

dei gangsters, con quelle a tamburo e<br />

assordanti <strong>di</strong> spari dei cow-boys, con le cara-<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 17


ine coi gommini e con i piombini dei rangers,<br />

e infine con le fionde sotto i cui colpi cadevano<br />

i gatti e le lucertole martiri del nostro Eldorado<br />

senza che ci fosse neppure un Frate<br />

Bartolomeo a rimproverarci.<br />

“Buon giorno, signor Stocchi”, “Buongiorno,<br />

contessa”, rispondo sul portone alla nobildonna<br />

del terzo piano che oggi mi saluta e<br />

viene persino alle presentazioni dei miei libri,<br />

ma che allora, trentasei anni fa e per molto<br />

tempo, quando mi incontrava inarcava aristocraticamente<br />

le sopracciglia e girava la testa<br />

dall’altra parte. “Un sessantottino, pensi!”, sibilava<br />

alla portinaia, paventando chissà quali<br />

pericoli, avendo forse saputo che un paio <strong>di</strong><br />

anni prima avevo tirato un uovo niente meno<br />

che al vicepresidente degli Stati Uniti, Humphrey.<br />

Del resto non erano molti gli inquilini <strong>di</strong> Magenta<br />

88 che mi salutavano. Uno faceva eccezione,<br />

che chissà perché incontravo sempre<br />

nella bussola della portineria. E lì era tutto<br />

un minuetto, “Prego, si accomo<strong>di</strong>”, “No,<br />

passi lei”, “Ma si figuri”, “Ma le pare” e certo<br />

sarebbe apparso ben strano e bizzarro<br />

l’incontro, a chi l’avesse osservato, fra quel<br />

ragazzo in eskimo, capelli lunghi, barbetta incolta<br />

e occhiali <strong>di</strong> metallo, e quel giovane,<br />

poco più anziano <strong>di</strong> me, alto, col suo blazer<br />

blu con lo stemma del Rotary sul taschino.<br />

Era un avvocato che aveva lo stu<strong>di</strong>o sull’altra<br />

scala, la “Parte nuova” come la chiamano i<br />

condomini perché era stata ricostruita dopo i<br />

bombardamenti degli aerei che insieme al<br />

Cenacolo quasi sbriciolato dovevano averla<br />

ritenuta un obiettivo, un target, strategicamente<br />

essenziale. Solo quando i sicari <strong>di</strong><br />

Sindona l’hanno ammazzato sul portone <strong>di</strong><br />

casa sua a cento metri da qui, ho scoperto<br />

che quel giovane cortese era l’avvocato Ambrosoli,<br />

“l’eroe borghese”, come l’avrebbe<br />

chiamato nel suo bel libro Corrado Stajano, il<br />

maieuta sapiente del mio Compagno poeta.<br />

Ecco, la vita è un po’ così: ci si incontra, ci si<br />

sfiora, senza spesso neppure sospettare chi<br />

sia quello che ci sta <strong>di</strong> fronte. Un cenno <strong>di</strong> saluto.<br />

E passiamo.<br />

Fuori, la chiesa e l’albero restano. Continuano<br />

a conversare:<br />

<strong>di</strong>etro la chiesa<br />

delle grazie<br />

a milano<br />

stagione<br />

dopo stagione<br />

<strong>di</strong>aloga<br />

il miracolo<br />

con la perfezione<br />

Il miracolo che dovrebbe essere la vita <strong>di</strong> ognuno,<br />

in un mondo compiutamente umano,<br />

che non sia il mattatoio che è oggi e che in<br />

fondo è sempre stato, ma che sia la casa che<br />

ci siamo costruiti e dove tutti possano abitare<br />

in pace. Noi passiamo, e l’albero e la chiesa<br />

rimangono lì. Restano. A in<strong>di</strong>care la strada<br />

verso casa a quelli che passeranno dopo <strong>di</strong><br />

noi. Forse questo intendeva il folle rinchiuso<br />

nella torre sulla Neckar, lo sventurato mio<br />

compagno Hölderlin, quando parlava <strong>di</strong> “abitare<br />

poeticamente il mondo”: realizzare<br />

quell’armonia che l’albero e la chiesa non si<br />

stancano <strong>di</strong> ad<strong>di</strong>tare. Ricordare, e far ricordare<br />

questo, sono la funzione, il valore e l’onore<br />

della poesia.<br />

“M’arricorde, m’arricorde”, sussurra maliziosa<br />

e un po’ scettica la voce <strong>di</strong> Ennio Abate…<br />

Ma è tar<strong>di</strong>, bisogna rimettersi al lavoro. Fuori,<br />

Mister, beato lui, se la canta e se la suona.<br />

Certo, penso sedendomi alla scrivania, meglio<br />

Majakovskij alla Bovisa - come aveva intitolato<br />

con benevola ironia Nico Orengo un<br />

suo articolo che raccontava <strong>di</strong> quando andavo<br />

in carne ed ossa nelle piazze vere a recitare<br />

fra i miei compagni - che Majakovskij al<br />

Web… Ma tant’è… Ricominciamo la giaculatoria:<br />

Dos hermanas… Zwei scwestern… Two sisters…<br />

chissà come suonerà in arabo… Due<br />

sorelle: Giuliana e Mithal…<br />

- Franco Tagliafierro: Veloci impressioni<br />

da una visita a Berlino nel 2005<br />

Nei quartieri periferici della zona Est i muri<br />

delle case sono imbrattati più densamente <strong>di</strong><br />

quelli dei quartieri periferici della zona Ovest.<br />

Ciò significa che la gioventù berlinese ex prigioniera<br />

del Muro è affetta da nevrosi più devastanti<br />

(dovute alla mancanza <strong>di</strong> identità, <strong>di</strong><br />

ideali, <strong>di</strong> futuro ecc., come in Italia) <strong>di</strong> quella<br />

nata e cresciuta al riparo del Muro. Nell’Est lo<br />

sfogo imbrattatorio a base <strong>di</strong> scarabocchi<br />

chiamati tag, ossia firme, cominciò - ovvia-<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 18


mente - subito dopo il passaggio dalla intransigente<br />

vigilanza civica <strong>di</strong> ispirazione marxista-leninista<br />

alla sparizione dei Vopos.<br />

Nell’Ovest era cominciato verso la fine degli<br />

anni Ottanta, come in Italia Francia Gran Bretagna<br />

ecc, quando i giovani si accorsero che<br />

non c’era più niente da cavare dai vecchi depositi<br />

ideologici del Sessantotto. Entrambe le<br />

zone risultano indenni da vandalismi spray là<br />

dove erano i rispettivi centri, cioè le aree protette<br />

dalla me<strong>di</strong>o-alta borghesia o dalla ex<br />

nomenklatura.<br />

Non si sa se siano stati in prevalenza i ragazzi<br />

dell’Est o quelli dell’Ovest a graffiare i vetri<br />

<strong>di</strong> tram, autobus e metropolitane, visto che<br />

ormai da anni alcuni mezzi pubblici hanno<br />

percorsi da Est a Ovest e viceversa. Evidentemente<br />

i ragazzi non escono <strong>di</strong> casa se non<br />

hanno in tasca un punteruolo. I graffi consistono<br />

in scarabocchi simili a quelli sui muri, o<br />

in grafismi cubitali in cui sono leggibili nomi <strong>di</strong><br />

persona o le sole iniziali. I mezzi pubblici sono<br />

così nuovi, così puliti e puntuali che fa male<br />

al cuore vedere i loro vetri rovinati. Nei tram<br />

e negli autobus, i graffi quasi ti impe<strong>di</strong>scono<br />

<strong>di</strong> guardare fuori.<br />

Nei vagoni della metropolitana non risuona<br />

mai la voce querula dei men<strong>di</strong>canti, e neppure<br />

accade che si venga deliziati o infasti<strong>di</strong>ti<br />

dai suonatori ambulanti. Rimane la curiosità<br />

<strong>di</strong> sapere se l’astenersi dal lavoro in metropolitana<br />

sia una loro scelta <strong>di</strong> vita o venga loro<br />

vietato l’accesso. Davanti a qualcuno dei palazzi<br />

monumentali a volte si piazza qualche<br />

violinista <strong>di</strong>plomato dell’Europa dell’Est. In<br />

nessuna delle due zone si ha occasione <strong>di</strong><br />

vedere men<strong>di</strong>canti seduti o inginocchiati sul<br />

marciapiede. Solo davanti ai gran<strong>di</strong> magazzini<br />

(mai davanti a negozi o supermercati) se ne<br />

può trovare qualcuno. In genere sta in pie<strong>di</strong><br />

ed è una persona anziana.<br />

Le periferie delle due zone sono molto simili,<br />

checché ne <strong>di</strong>cano i rintracciatori delle <strong>di</strong>fferenze<br />

fra le ideologie urbanistiche e architettoniche<br />

dei due regimi vigenti in città fino al<br />

1989. Non resta quin<strong>di</strong> che confrontare le<br />

qualità strutturali e il grado <strong>di</strong> conservazione<br />

degli e<strong>di</strong>fici delle due zone. Ormai le <strong>di</strong>fferenze<br />

non sono molto appariscenti, perché nella<br />

zona Est si è provveduto a imbiancare le facciate<br />

<strong>di</strong> molti palazzi che rivelavano povertà <strong>di</strong><br />

materiali o decenni <strong>di</strong> incuria, in qualche caso<br />

sono state coperte con pannelli <strong>di</strong> plastica<br />

che non <strong>di</strong>fferiscono molto da un normale intonaco.<br />

Anche le aree burocratico-commerciali delle<br />

due zone sono molto simili, dato il razionalismo,<br />

o meglio, la sobrietà e la fretta della ricostruzione<br />

postbellica, alle quali non si può<br />

non riferirsi allorché si vede quanto strida, in<br />

un contesto <strong>di</strong> palazzi privi <strong>di</strong> qualunque grazia<br />

architettonica, l’innesto <strong>di</strong> uno <strong>di</strong> quegli e<strong>di</strong>fici-monumento<br />

costruiti negli ultimi <strong>di</strong>eci<br />

anni allo scopo <strong>di</strong> dotare la città <strong>di</strong> bellezza e<br />

arte. Alcune vie della Berlino degli anni Venti-<br />

Trenta, così come appaiono nelle foto esposte<br />

nei musei o in qualche negozio, danno<br />

l’idea <strong>di</strong> una bella città. Nessuna via <strong>di</strong> oggi la<br />

dà.<br />

L’illuminazione pubblica è scarsa ovunque.<br />

Nella zona Est, il responsabile della scarsità,<br />

logicamente, è il comunismo. Nella zona Ovest,<br />

i ra<strong>di</strong> e fiochi lampioni sono la <strong>di</strong>mostrazione<br />

<strong>di</strong> una politica <strong>di</strong> risparmio energetico.<br />

Di notte <strong>di</strong>ventano visibilissimi i gabbiotti dei<br />

City toilet, che rimangono aperti quando nessuno<br />

li usa. Sono illuminatissimi (oltre che<br />

bianchissimi, pulitissimi, <strong>di</strong>sinfettatissimi) tanto<br />

che lo spazio antistante se ne giova. Ma<br />

sono rari e collocati in punti più o meno turisticamente<br />

strategici, per cui solo in minima<br />

parte contribuiscono a <strong>di</strong>radare l’oscurità notturna<br />

della città.<br />

Le vie non sono <strong>di</strong>sseminate <strong>di</strong> escrementi <strong>di</strong><br />

cane o <strong>di</strong> rifiuti vari né in zona Est né in zona<br />

Ovest. Chi proviene da Milano riflette sulla <strong>di</strong>fferenza<br />

fra il senso civico dei berlinesi e quello<br />

dei milanesi.<br />

Il periodo della mia visita è quello prenatalizio<br />

(dal tre all’otto <strong>di</strong>cembre), quin<strong>di</strong> suppongo<br />

che <strong>di</strong>penda dalla vicinanza del Natale il notevole<br />

affollamento delle chiese. Sono gremite<br />

soprattutto il pomeriggio e la sera. Dovunque<br />

musiche, letture dei vangeli e pre<strong>di</strong>che.<br />

Si ha l’impressione che la gente usi la chiesa<br />

come una specie <strong>di</strong> dopolavoro, che ci si rilassi.<br />

Nei tempi morti, tra la pre<strong>di</strong>ca e la musica,<br />

oppure tra due brani musicali, nessuno ha<br />

niente da <strong>di</strong>re al proprio coniuge, ai propri figli,<br />

alla zia o allo zio, non si riesce a captare<br />

nemmeno un bisbiglio. Non si notano bimbi<br />

irrequieti, quelli che non dormono si annoiano,<br />

ma con espressioni da adulti mai viste da<br />

nessun’altra parte.<br />

La profusione <strong>di</strong> luminarie natalizie nelle vie<br />

dove ci sono molti negozi è più accentuata<br />

nella zona Ovest. Non ci sono, invece, sostanziali<br />

<strong>di</strong>fferenze fra i mercatini <strong>di</strong>slocati in<br />

vari punti delle due ex zone centro, mercatini<br />

che ogni anno vengono montati appositamente<br />

per anticipare e prolungare la festa del Na-<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 19


tale. Sono costituiti da una fila <strong>di</strong> casette <strong>di</strong><br />

legno tutte uguali, se l’area assegnata è una<br />

via, oppure da varie file <strong>di</strong> casette se l’area è<br />

una piazza. Esteriormente le casette somigliano<br />

agli chalet svizzeri <strong>di</strong> alta collina, con<br />

pareti e tetto foderati con liste <strong>di</strong> legno laccato.<br />

Ogni casetta consiste in un unico vano, la<br />

cui superficie calpestabile può variare dai do<strong>di</strong>ci<br />

ai venti metri quadrati. Nelle casette più<br />

piccole, la facciata è a scomparsa, quin<strong>di</strong> ci si<br />

trova imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong> fronte al bancone.<br />

Nelle più gran<strong>di</strong> (che si trovano nel Gendarmernmarkt,<br />

un mercatino recintato, per entrare<br />

nel recinto si paga un euro) la facciata è<br />

dotata <strong>di</strong> una porta a vetri, quin<strong>di</strong> si può accedere<br />

all’interno, la merce è <strong>di</strong>sposta sugli<br />

scaffali lungo le pareti.<br />

Salvo poche eccezioni, la merce esposta nelle<br />

casette è assolutamente natalizia. Ossia è<br />

costituita da palle <strong>di</strong> plastica o vetro o carta o<br />

alluminio <strong>di</strong> varia grandezza (fino a trenta<br />

centimetri <strong>di</strong> <strong>di</strong>ametro) e <strong>di</strong> tutti i colori compreso<br />

il nero; da candele <strong>di</strong> tutti i colori salvo il<br />

nero, che hanno forme cilindriche sia sottili<br />

che tozze, oppure variamente poliedriche con<br />

prevalenza del cubo e del parallelepipedo; da<br />

oggettini in legno o in plastica che non significano<br />

niente ma funzionano come ornamenti<br />

se appesi a un albero <strong>di</strong> Natale; da oggetti in<br />

legno o in plastica o in metallo che possono<br />

fungere da soprammobili o da giocattoli (quelli<br />

dotati <strong>di</strong> un meccanismo) e che significano<br />

qualcosa solo se collocati nei pressi <strong>di</strong> un albero<br />

<strong>di</strong> Natale… insomma, per farla corta, la<br />

merce consiste in tutte quelle cianfrusaglie<br />

variopinte che nel periodo natalizio si trovano<br />

in ven<strong>di</strong>ta anche nelle nostre cartolerie, nei<br />

nostri supermercati, nei nostri gran<strong>di</strong> magazzini<br />

e nei nostri centri commerciali.<br />

A Berlino quelle cianfrusaglie provocano in<br />

chi le guarda un effetto <strong>di</strong>verso. O meglio,<br />

non lo provocano le cianfrusaglie in sé e per<br />

sé, bensì la loro ripetitività, il fatto che ogni<br />

casetta sia piena delle stesse palle, delle<br />

stesse candele, degli stessi ornamenti. Ciò<br />

che <strong>di</strong>fferisce è la <strong>di</strong>sposizione degli oggetti:<br />

qui le candele stanno davanti e le palle <strong>di</strong>etro,<br />

là è il contrario; qui i soprammobilini stanno<br />

sul bancone, là sui ripiani <strong>di</strong> uno scaffale ecc.<br />

Che tipo <strong>di</strong> effetto provocano queste merci<br />

che sono le stesse in ogni casetta? Un effetto<br />

<strong>di</strong> saturazione? Di asfissia? Sì, anche. Ma<br />

soprattutto un effetto <strong>di</strong> inappartenenza all’hic<br />

et nunc, ossia <strong>di</strong> collocazione in uno <strong>di</strong> quei<br />

non-luoghi denunciati da Marc Augé.<br />

Ohibò! Ma questo è un paradosso! Ebbene sì,<br />

non c’è scampo. Il mercatino dovrebbe essere<br />

l’antidoto ai veleni della estraniazione inoculati<br />

nella nostra psiche da non-luoghi come<br />

gli aeroporti, i centri commerciali, le stazioni <strong>di</strong><br />

servizio ecc. - tutti strutturati nello stesso modo,<br />

operanti allo stesso modo, con lo stesso<br />

comfort tecnologico, calcolati per ospitare<br />

l’uomo generico, impersonale - e invece ecco<br />

che il mercatino <strong>di</strong>venta anche esso un luogo<br />

estraniante come gli altri, ecco che psicologicamente<br />

nuoce più degli altri perché è un elemento<br />

della tra<strong>di</strong>zione che si è assimilato<br />

agli stereotipi della modernità, e soprattutto<br />

perché è una delusione.<br />

Da che mondo è mondo nessun mercatino ha<br />

mai deluso le aspettative, eppure quelli natalizi<br />

<strong>di</strong> Berlino le deludono. Non perché sprovvisti<br />

della merce che ci si aspettava <strong>di</strong> trovare,<br />

ma perché tutte le casette, una appiccicata<br />

all’altra, mettono in mostra la stessa merce, le<br />

stesse identiche cose.<br />

Deludono le aspettative. Le aspettative <strong>di</strong> chi?<br />

Ma le mie, naturalmente, un uomo già abbondantemente<br />

vissuto nel secolo scorso, un<br />

passatista.<br />

Domanda: forse che gli utenti si dolgono che<br />

gli aeroporti siano strutturati tutti più o meno<br />

allo stesso modo, con check-in, duty free,<br />

spazi <strong>di</strong> attesa ecc.? Risposta: no, anzi apprezzano<br />

che l’uno sia uguale all’altro, tanti<br />

problemi <strong>di</strong> percorso risparmiati. Si preoccupano<br />

forse che i centri commerciali siano tutti<br />

simili fra loro? Tutt’altro. Infatti apprezzano la<br />

como<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> sapere in anticipo quali prodotti e<br />

quali servizi verranno loro offerti, e così via. E<br />

allora, forse che <strong>di</strong>spiace ai berlinesi che tutte<br />

le casette del mercatino natalizio offrano in<br />

ven<strong>di</strong>ta gli stessi prodotti? No, niente affatto.<br />

È così rassicurante sapere che ogni casetta è<br />

provvista della stessa merce, che ogni mercatino<br />

è uguale all’altro, che è un non-luogo<br />

come ogni altro.<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 20


- Pier Paride Vidari: Memorie berlinesi<br />

Non riesco a sconnettere la mia mente dalla<br />

tragicità <strong>di</strong> Berlino.<br />

Forse perché ricordo ancora perfettamente<br />

quei giorni quando il cielo si copriva d’aerei,<br />

con quel vasto, cupo e pauroso rombo che lo<br />

avvolgeva interamente per un tempo che pareva<br />

eterno. Il cielo - e noi con lui - era un<br />

cumulo d’angoscia. Tutti a guardare in alto.<br />

Ricordo anche le frasi dei gran<strong>di</strong>. Bombardano<br />

ormai la Germania, <strong>di</strong>cevano. Ricordo,<br />

meno lucidamente, le paure delle battaglie o<br />

dei tanti nemici, fra i quali ci furono anche i<br />

tedeschi, e parevano fossero come attesi,<br />

specialmente dai vecchi. Io ero molto piccolo,<br />

ed anche meravigliato da quelle vastità che<br />

sapevano <strong>di</strong> paure polverose.<br />

La prima volta, perciò, che mi recai a Berlino,<br />

pur preso dal lavoro che dovevo compiere,<br />

non staccavo la mente da quei frammenti.<br />

Non era certamente la mia prima visita in<br />

Germania, anzi: vi ero stato ancora piuttosto<br />

giovane, e via via avevo visitato molte città<br />

tedesche, come Monaco ancora <strong>di</strong>strutta,<br />

Francoforte americanizzata (soprannominata,<br />

infatti, Frankfurt-am-Manhattan), Hannover,<br />

Solingen, Amburgo. A volte vi avevo lavorato,<br />

o v’ero solo transitato e così via. Sempre<br />

v’avevo cercato inconsciamente ciò che quegli<br />

aerei avevano compiuto.<br />

Nel 1965 circa, forse per liberarmi da quelle<br />

paure, avevo scritto una sorta <strong>di</strong> poemetto,<br />

quasi un testo adatto ad un canto corale, che<br />

non a caso parlava <strong>di</strong> Berlin Brandenburg<br />

(nome inventato ed allusivo) e <strong>di</strong> certi soldati,<br />

poveretti, a nome Karl e Jean-Baptiste. Nella<br />

mia ingenuità li vedevo come vittime dei loro<br />

generali e del potere che li mandò a morire.<br />

Berlino però, più d’ogni altra città, aveva subito<br />

una doppia guerra fra le sue vie e le sue<br />

case: quella mon<strong>di</strong>ale e quella fredda. Il muro<br />

correva con spietata durezza fra le vie e le<br />

abitazioni. Ero a Berlino quando la parte Ovest<br />

era ormai stata riunita - da tripartita che<br />

era - ma non ancora unita all’Est. Pensavo<br />

anche a mio padre, che era fuggito da Vienna<br />

poco prima dell’annessione, e che aveva voluto<br />

rivisitarla con la famiglia poco dopo che<br />

si era definitivamente riunificata (fu l’anno seguente,<br />

mi pare, dell’uscita dell’ultimo carro<br />

armato russo, e l’anno prima del tentativo,<br />

anche da parte degli Ungheresi, <strong>di</strong> ribellarsi<br />

ugualmente al pesante dominio).<br />

Alla sera passavo spesso da Europa Center,<br />

percorrendo, a volte con fasti<strong>di</strong>o, la<br />

Ku’damm, con le luci deludenti <strong>di</strong> quella che<br />

era detta la Montenapoleone <strong>di</strong> Berlino, o anche<br />

la vetrina dell’Ovest. Nuovamente sentivo<br />

i sottili filamenti della trage<strong>di</strong>a, richiamata, ostentata,<br />

dallo spezzone della Kaiser-<br />

Wilhelm-Gedächtniskirche, che fu sbriciolata<br />

il 22 novembre 1943 e tenuta a ricordo del<br />

bombardamento. Pareva un monumento eretto<br />

alla <strong>di</strong>struzione, come del resto Gerdarmenmarkt<br />

o la Franzosisch e la Deutscherkirke.<br />

Accanto, s’aggrega gelidamente e domina<br />

la piazza la chiesa-torre eretta fra il 1959 e il<br />

1961 su progetto d’Egon Eiermann, uno degli<br />

ultimi architetti legati alla vecchia Bauhaus.<br />

Ero ancora a Berlino durante un inverno, molto<br />

freddo, quando mia moglie, che m’aveva<br />

accompagnato e anche aiutato con il suo<br />

splen<strong>di</strong>do tedesco, esclamò, piano: “Hanno la<br />

mia età”. Guardai nella stessa <strong>di</strong>rezione e vi<strong>di</strong><br />

gli alberi che ricrescevano a decorare<br />

l’ottocentesca Platz der Republik <strong>di</strong> fronte al<br />

Reichstag. Allora esso era ancora privo della<br />

cupola trasparente <strong>di</strong> Foster, anzi era come<br />

scar<strong>di</strong>nato dalla presenza del muro, che tagliava<br />

l’ingresso (ovest) dal corpo principale<br />

dell’e<strong>di</strong>ficio (est). Tutti quegli alberi erano stati<br />

ripiantati appunto nel 1945. Quell’anno un<br />

settimo degli e<strong>di</strong>fici della Germania erano <strong>di</strong>strutti,<br />

e un’accumulo terribile <strong>di</strong> macerie dominava<br />

il paesaggio berlinese.<br />

Era la conseguenze <strong>di</strong> quel rombo vissuto da<br />

bambino.<br />

Quello stesso inverno del 1985, andammo a<br />

visitare le desolate torri <strong>di</strong> legno, nere e spoglie,<br />

che stavano <strong>di</strong> fronte alla porta <strong>di</strong> Brandeburgo.<br />

Permettevano ai parenti <strong>di</strong> parlarsi<br />

sopra il muro, che in quel punto scendeva per<br />

permettere al monumento d’emergere: quale<br />

sensibilità! In mezzo alla parte più bassa del<br />

muro, la Brandenburger Tor era stata coronata<br />

ai lati da ni<strong>di</strong> <strong>di</strong> mitragliatrici dei Vopos, che<br />

s’intravedevano nell’incipiente oscurità<br />

dell’inverno berlinese.<br />

A causa <strong>di</strong> ciò, mi chiedevo del tributo da pagare<br />

per le colpe, in questo caso certamente<br />

pesanti della Germania hitleriana, che furono<br />

pagate ancora una volta, e in modo speciale,<br />

dalla popolazione. Il popolo che non aveva<br />

deciso, non aveva capito o non aveva voluto<br />

capire. Insomma: il <strong>di</strong>lemma era se la sinistra,<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 21


per definizione anti-nazista, potesse con<strong>di</strong>videre<br />

i roghi ven<strong>di</strong>cativi, per esempio <strong>di</strong> Berlino,<br />

d’Amburgo, <strong>di</strong> Colonia, d’Ulm e soprattutto<br />

<strong>di</strong> Dresda. Mi chiedevo anche se la gente<br />

<strong>di</strong> sinistra con<strong>di</strong>videsse la ripartizione delle<br />

città. Non trovai mai una risposta convincente.<br />

Tornato a Milano, scrissi quasi per caso un<br />

paginone su Sole 24 Ore contro quella <strong>di</strong>visione.<br />

Fu anzi l’ultimo mio scritto su quel<br />

giornale, perché in qualche modo ciò che<br />

scrissi mi precluse ogni altra attività con la<br />

redazione. Allora ciò mi rattristò e oggi, invece,<br />

considero quell’avvenimento ovvio e naturale.<br />

L’inizio dell’articolo <strong>di</strong>ceva: nessuna città<br />

è una semplice sommatoria <strong>di</strong> case o <strong>di</strong> strade.<br />

Intanto Berlino rifaceva la storia: guten Morgen,<br />

Deutschland! Il 9 novembre 1989 cadde<br />

il muro. Nel 1991, poco tempo dopo, ebbi da<br />

realizzare un lavoro presso il Martin-Gropius<br />

Bau, a Kreuzberg. L’e<strong>di</strong>ficio era appena stato<br />

liberato dal muro che lo serrava. Nella Kochstrasse<br />

si potevano scorgere ancora le<br />

piastre <strong>di</strong> cemento, ormai spezzate e <strong>di</strong>stese<br />

a terra, fra i calcinacci che sono sempre<br />

l’epilogo dei crolli. Il lavoro mi occupò molto,<br />

ma avvertii tensioni piuttosto esplicite anche<br />

con i colleghi. Il muro era caduto: ed ora?<br />

Negli ultimi anni sono tornato a Berlino. Fra<br />

l’altro per andare a trovare mio figlio, e fu<br />

emozionante. Federico, infatti, mi ricevette a<br />

casa sua, e per la prima volta, io e mia moglie,<br />

fummo ospiti. Non era dunque più un ragazzo,<br />

era un uomo, ed eravamo a Berlino!<br />

Egli m’obbligò a trascurare i miei amati musei<br />

(ancora dubito che abbia visitate tutte le meravigliose<br />

collezioni <strong>di</strong> Berlino). Pensando però<br />

<strong>di</strong> sorprendermi, mi portò a visitare gli e<strong>di</strong>fici<br />

restaurati. Vi<strong>di</strong> la vecchia fabbrica della<br />

AEG, progettata da Beherens nel 1909 e ripulita,<br />

rifatta, ad<strong>di</strong>rittura con l’alberello esattamente<br />

uguale com’è annotato in nei <strong>di</strong>segni<br />

che tutti gli architetti della mia generazione<br />

conoscono, e tanto altro. Rivi<strong>di</strong> le strade della<br />

città “comunista” e Alexander Platz. Nuovamente<br />

pensai alla trage<strong>di</strong>a del popolo tedesco.<br />

Non valse a nulla visitare l’Unité<br />

d’habitation <strong>di</strong> Le Corbusier (quella berlinese:<br />

non amata dall’architetto franco-svizzero),<br />

oppure la Neu Nationalgalerie <strong>di</strong> Mies, o<br />

l’e<strong>di</strong>ficio residenziale sulla Kochstrasse del<br />

mio maestro Aldo Rossi, o la Filarmonica <strong>di</strong><br />

Scharoun. Perché proprio lì, nel vedere il<br />

grande cantiere d’Europa <strong>di</strong> Postdamer Platz<br />

(con quella sua grandezza estranea), sentii<br />

che le novità non facevano altro che ricordare<br />

il passato. Perciò non mi stupii della presenza<br />

lacerante del Jü<strong>di</strong>sche Abteilung, capolavoro<br />

<strong>di</strong> Liebeskind.<br />

Per quanto si faccia, e si operi a volte con coraggio,<br />

io credo che queste memorie non si<br />

scoloreranno mai. Sento sempre, infatti, e<br />

non solo a Berlino, quel rombo, lassù, tragico,<br />

vasto ed implacabile.<br />

Poliscritture/Luoghi non luoghi 22


3<br />

Eso<strong>di</strong><br />

- Ennio Abate: Intervista a Michele Ranchetti<br />

su «Non c’è più religione»<br />

Il tuo libro ripercorre «storicamente» gli elementi<br />

della dottrina cattolica e contesta in modo<br />

rigoroso il magistero della Chiesa cattolica.<br />

Resta – mi pare - nella <strong>di</strong>mensione religiosa e<br />

ripropone però con attenuazioni e problematicamente<br />

il recupero <strong>di</strong> «un senso religioso della<br />

vita», lasciando in sospeso la questione della<br />

necessità o meno <strong>di</strong> un tale recupero. Come<br />

mai questa sospensione? Cosa t’impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong><br />

affermarne decisamente la necessità?<br />

Sono nato, cresciuto e vissuto a lungo - ho ormai<br />

80 anni - in questa <strong>di</strong>mensione religiosa, che per<br />

me è stata <strong>di</strong> carattere naturale. Adesso mi pare <strong>di</strong><br />

vivere una certa crisi, nel senso che, assistendo ad<br />

una forma <strong>di</strong> presenza dell’istituzione cattolica<br />

così mastodontica, così <strong>di</strong>chiarata e accettata e ritenendola<br />

così aberrante rispetto al corso degli eventi<br />

e alle ragioni o non ragioni per cui si svolgono,<br />

contrapponendo ad essi una struttura assolutamente<br />

non significativa e che non corrisponde a<br />

nessun bisogno e a nessuna vera motivazione religiosa,<br />

mi chiedo se proprio l’istituzione cattolica<br />

prima <strong>di</strong> tutto, e anche la professione <strong>di</strong> fede religiosa<br />

non siano ormai da buttare a mare.<br />

Ho sentito formulare solo da Ivan Illich,<br />

un amico morto recentemente, in un suo testo che<br />

sto per rileggere e pubblicare questa domanda: c’è<br />

all’interno della professione <strong>di</strong> fede cattolica, cioè<br />

nella vita e nella dottrina del cristianesimo, qualcosa<br />

che imponga il suo pervertimento? Sono <strong>di</strong><br />

fronte a questa interrogazione. Non so se avrà mai<br />

risposta, ma è quella che adesso io mi pongo. Ossia,<br />

mi chiedo se quello che fino a qualche tempo<br />

fa costituiva per me una perversione da parte<br />

dell’istituzione del messaggio cristiano non sia invece<br />

da intendere come l’unica forma possibile,<br />

per cui il messaggio cristiano non può essere che<br />

pervertito. E l’istituzione cattolica è una delle<br />

forme, non la più visibile forse, non la meno rilevante<br />

<strong>di</strong> tale pervertimento.<br />

Come virtù per un eventuale recupero del senso<br />

religioso della vita in<strong>di</strong>chi paradossalmente<br />

la <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza «cieca e assoluta» perinde ac<br />

cadaver, <strong>critica</strong>ndo così le figure degli «ultimi<br />

preti», che – <strong>di</strong>ci - «non erano dei <strong>di</strong>ssidenti,<br />

tanto meno degli eretici», ma appunto «obbe<strong>di</strong>enti».<br />

Mi chiedo: tale <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza non rischia<br />

<strong>di</strong> essere “irrazionale”, “luciferina”, valore<br />

in sé e non strumento per raggiungere<br />

“qualcos’altro” che la ragione, il cui uso riven<strong>di</strong>chi<br />

con passione, abbia davvero afferrato (e<br />

questo sia che ci si ponga su un piano religioso<br />

sia che ci si attesti su quello civile e storico)?<br />

Nella prospettiva <strong>di</strong> una corruzione da parte<br />

dell’istituzione religiosa del messaggio cristiano,<br />

la <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza ha un senso, perché corrisponde<br />

a un progetto religioso o a un’appartenenza religiosa<br />

non rappresentata.<br />

Di fronte alla presenza <strong>di</strong> un magistero<br />

così aberrante e <strong>di</strong> fronte a manifestazioni <strong>di</strong> idolatria<br />

nei confronti <strong>di</strong> un pontefice idolatrato che<br />

ha contribuito largamente alla struttura <strong>di</strong> potere<br />

della chiesa, la cosa che si poteva fare o si poteva<br />

auspicare è che i credenti, coloro che si ritenevano<br />

ancora all’interno dell’espressione <strong>di</strong> fede cristiana,<br />

si ribellassero.<br />

Se però io mi domando se l’istituzione<br />

che si sostituisce alla pre<strong>di</strong>cazione, che si è <strong>di</strong>spersa<br />

nel mondo sia la unica forma possibile, allora<br />

la <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza ha meno rilievo. Ripropongo<br />

perciò la stessa domanda <strong>di</strong> prima: per contrapporsi<br />

occorre pensare che dalla professione <strong>di</strong><br />

fede cristiana e in particolare dalla lettura o rilettura<br />

del Vangelo emerga una possibilità <strong>di</strong> comportamento<br />

anche civile? Questa interrogazione<br />

per me rimane in sospeso. Allora, si può sempre<br />

<strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>re, perché il comportamento<br />

dell’istituzione è certamente aberrante anche rispetto<br />

alla pace, alla guerra e alla giustizia. Questo<br />

però non so se debba essere o se possa iscriversi<br />

in una professione <strong>di</strong> fede.<br />

Ma anche se nel momento in cui si <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>sce<br />

manca una proposta positiva? Insisto: la <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza<br />

non dovrebbe accompagnarsi alla<br />

proposta <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso, altrimenti...<br />

Altrimenti, no! Io non so cosa succede. Però, se in<br />

nome <strong>di</strong> una professione <strong>di</strong> fede religiosa uno agisce<br />

da criminale questo si può e si deve fare, auspicare<br />

che questa persona venga incriminata. Si<br />

può incriminare come pervertimento del messaggio<br />

cristiano nella sua elementarità, che è<br />

l’amore, il volersi bene, la giustizia, la verità. Si<br />

può incriminare per una <strong>di</strong>versa intelligenza del<br />

Vangelo, che io non ho.<br />

Pensi che l’abbiano altri? Insisto nel porti il<br />

problema della <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza in termini che<br />

considero politici e non solo etici: quasi sempre<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 23


a rifiutare la dottrina della chiesa cattolica sono<br />

in<strong>di</strong>vidui arrivati alla consapevolezza della<br />

inconsistenza religiosa dell’istituzione e/o della<br />

sua connivenza con poteri oppressivi, ma tale<br />

consapevolezza manca agli altri. Si può costruire<br />

un movimento - io <strong>di</strong>co <strong>di</strong> lotta - soltanto<br />

sulla <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza in<strong>di</strong>viduale o <strong>di</strong> pochi?<br />

Mi ripeto: la <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza non dovrebbe essere<br />

“costruttiva”, accompagnarsi ad altro, al<br />

”sogno” almeno <strong>di</strong> qualcos’altro?<br />

Certo. Forse <strong>di</strong>ciamo la stessa cosa. L’istituzione<br />

cattolica che si riferisce al Vangelo è evidentemente<br />

una perversione del Vangelo. Si può, quin<strong>di</strong>,<br />

e si deve <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>re ad essa, perché ti <strong>di</strong>ce <strong>di</strong><br />

votare per Berlusconi in quanto uomo <strong>di</strong> fede, e<br />

non è vero. Fin qui è tutto legittimo, è tutto giusto;<br />

e non hai da fare un riferimento a qualcosa d’altro.<br />

Se ad un certo punto l’istituzione viene riconosciuta<br />

per quello che è, e cioè una struttura <strong>di</strong> potere,<br />

hai già fatto un passo avanti.<br />

Sì, ma quanti la riconoscono per quella che è?<br />

Lo so, molto pochi.<br />

E, se quei pochi, che pur hanno afferrato questa<br />

verità, non la riescono a trasmettere agli<br />

altri, ai tanti, e finiscono isolati? Certo, è preferibile<br />

questa con<strong>di</strong>zione all’appartenenza a<br />

una comunità falsa.<br />

Sì, finiamo così. Ma non ho nulla da eccepire al<br />

finire <strong>di</strong>seredati dalla tra<strong>di</strong>zione, respinti da un<br />

vivere civile o da un vivere cosiddetto comunitariamente<br />

religioso, però abbiamo fatto un passo<br />

avanti verso la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> una falsa verità.<br />

Cominciamo a fare questo.<br />

Ci sono quelli che all’interno della chiesa,<br />

anche con responsabilità molto maggiori <strong>di</strong> quelle<br />

che abbia io (io ce l’ho, perché sono un uomo vivo<br />

e basta; non ho nessuna struttura <strong>di</strong> riferimento<br />

che mi autorizzi a parlare in modo <strong>di</strong>verso dagli<br />

altri), più obbe<strong>di</strong>enti <strong>di</strong> me in un primo tempo o<br />

più <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enti <strong>di</strong> me in un secondo tempo, che<br />

hanno riconosciuto questo pervertimento e si sono<br />

posti in una <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong>versa? Non li conosco!<br />

Quei preti a cui faccio riferimento - gli ultimi<br />

preti: Turoldo, Balducci ed altri – hanno fatto<br />

un passo in avanti? No, non mi sembra. Sono rimasti<br />

nella delusione <strong>di</strong> una struttura che non corrisponde<br />

al loro ideale. Hanno cercato <strong>di</strong> migliorarla<br />

dov’era possibile. Hanno cercato <strong>di</strong> avere<br />

delle forme <strong>di</strong> convivenza religiosa con i loro confratelli,<br />

<strong>di</strong> pre<strong>di</strong>care in modo <strong>di</strong>verso, <strong>di</strong> non fare<br />

riferimento a falsi valori o a false verità. L’hanno<br />

fatto e sono benemeriti.<br />

Si sono posti al <strong>di</strong> fuori? No! Si sono posti<br />

contro? No! Sono rimasti, come ho detto tante<br />

volte, gli ultimi preti. C’è bisogno <strong>di</strong> ultimi preti?<br />

Sì, più che <strong>di</strong> preti consenzienti, certo. Bastano?<br />

No!<br />

A pag. 67 del tuo libro scrivi: «si poteva cercare<br />

nuovi maestri «atei», ma dove trovarli?».<br />

Capisco la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> tale <strong>ricerca</strong> per un giovane<br />

profondamente cattolico e in un tempo <strong>di</strong><br />

alleanza piena fra chiesa e fascismo. Ma furono<br />

da te cercati davvero questi nuovi maestri atei?<br />

Ho l’impressione che tu non abbia mai voluto<br />

spingerti con decisione fuori dalla problematica<br />

cattolica e riconvertire la tua <strong>ricerca</strong> religiosa<br />

in <strong>di</strong>rezioni più “rischiose”, che so verso la<br />

<strong>critica</strong> illuminista o del materialismo marxiano<br />

(mentre so che hai avuto un’attenzione partecipe<br />

al pensiero <strong>di</strong> Freud e alla psicoanalisi).<br />

Vorrei che approfon<strong>di</strong>ssi questa che a me è<br />

parsa una tua ritrosia a misurarti con determinate<br />

tendenze del pensiero moderno.<br />

Hai ragione. Descrivi molto bene il mio itinerario,<br />

sia che l’abbia esposto io sia che l’abbia riconosciuto<br />

tu nei miei scritti. In realtà, ci sono due<br />

maestri che io ho cercato al <strong>di</strong> fuori della professione<br />

<strong>di</strong> fede e <strong>di</strong> appartenenza religiosa: il primo<br />

è Wittgenstein, il secondo Freud. Perché? Perché<br />

Wittgenstein ha posto se stesso e il mondo in<br />

un’interrogazione senza presupposti, cercando <strong>di</strong><br />

sapere come stanno le cose, non facendole <strong>di</strong>pendere<br />

da un precedente già detto, già pensato. Questa<br />

totale <strong>di</strong>sponibilità verso un’interrogazione assoluta<br />

l’ho trovata solo in lui. Per questo sono rimasto<br />

affascinato dal suo pensiero e ho cercato <strong>di</strong><br />

farne tesoro, per così <strong>di</strong>re.<br />

La seconda possibilità mi fu offerta dalla<br />

psicanalisi. Perché? Perché, secondo me (e non<br />

siamo molti a pensare così), la <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> Freud è<br />

il tentativo più ra<strong>di</strong>calmente antireligioso che io<br />

abbia incontrato nella mia vita. È<br />

un’interrogazione precisa <strong>di</strong> tutti i presupposti religiosi<br />

nella ipotesi <strong>di</strong> ricondurli ad altre fonti, che<br />

non sono la presenza <strong>di</strong> una <strong>di</strong>vinità religiosa incarnata<br />

in Gesù Cristo o incarnata in qualche altra<br />

cosa. E quin<strong>di</strong> una riduzione dell’interrogazione a<br />

interrogazione che riguarda il singolo così com’è<br />

nel momento in cui egli vive. Ogni struttura causale,<br />

che è stata introdotta nella giustificazione<br />

dell’esistenza, viene sottoposta a<br />

un’interrogazione ra<strong>di</strong>cale. Nell’ipotesi (che è<br />

riuscita solo in parte) <strong>di</strong> sostituire ad essa i veri<br />

nessi, che sono <strong>di</strong>versi da quelli accettati nella<br />

tra<strong>di</strong>zione filosofica o religiosa o in altre tra<strong>di</strong>zioni,<br />

compresa quella scientifica. Quin<strong>di</strong> una interrogazione<br />

sui vari statuti <strong>di</strong>sciplinari, per sostituire<br />

ad essi altri statuti, che sono quelli che la psicanalisi<br />

ha cercato <strong>di</strong> costruire. Non ce l’ha fatta.<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 24


Però la domanda ra<strong>di</strong>cale che lui si è posta è analoga<br />

a quella <strong>di</strong> Wittgenstein.<br />

Questi due ra<strong>di</strong>calismi sono quelli che ho<br />

trovato nella mia strada. Non li ho percorsi e non<br />

ho seguito il loro esempio fino in fondo, ma è<br />

quello che, finché vivo, cercherò <strong>di</strong> fare.<br />

Quelli che io ritengo altri ra<strong>di</strong>calismi – quello<br />

degli illuministi, quello <strong>di</strong> Marx - tu non li consideri?<br />

Non li considero non perché non li ritenga tali.<br />

Non li considero perché non li ho incontrati sulla<br />

mia strada.<br />

Scusami, ma perché avresti dovuto incontrarli<br />

proprio ed esclusivamente sulla tua strada?<br />

Certe strade non s’incrociano necessariamente<br />

con quella che abbiamo imboccato.<br />

Io sono arrivato alla lettura <strong>di</strong> Freud e <strong>di</strong> Wittgenstein<br />

per caso, nel senso concreto del termine,<br />

perché una persona (un ebreo), che ha voluto convertirsi<br />

alla fede cattolica e ha scelto me come padrino,<br />

mi ha portato il libro <strong>di</strong> Wittgenstein <strong>di</strong> cui<br />

era stato allievo. Allora l’ho preso e l’ho letto.<br />

Secondo esempio: Freud. Non avendo<br />

nessuna fonte <strong>di</strong> lavoro, mi sono rivolto a Boringhieri,<br />

che stava iniziando la pubblicazione delle<br />

sue opere, e mi sono offerto come traduttore dal<br />

tedesco. E così ho cominciato a leggere Freud.<br />

Queste due occasioni concrete mi hanno<br />

posto <strong>di</strong> fronte a un libro, alla persona che l’ha<br />

scritto e all’universo che ha cercato <strong>di</strong> produrre ed<br />

io le ho colte.<br />

Non è avvenuta la stessa cosa per Marx.<br />

Queste due letture – <strong>di</strong> Wittgenstein e <strong>di</strong> Freud –<br />

sono state in un certo senso imposte a me per esigenze<br />

concrete: una <strong>di</strong> lavoro e l’altra dall’offerta<br />

<strong>di</strong> una persona che mi è apparsa subito “nuova”<br />

rispetto alla mia <strong>cultura</strong>. Non mi è capitato invece<br />

che qualcuno, con la stessa necessità <strong>di</strong> proposta,<br />

mi offrisse la lettura <strong>di</strong> Marx.<br />

Neppure nel confronto che avesti con esponenti<br />

della Resistenza <strong>di</strong> cui parli in quel tuo scritto<br />

intitolato Sopra una qualsiasi rivoluzione [in<br />

Scritti <strong>di</strong>versi II, p. 215]?<br />

La persona che mi ha introdotto a questa <strong>di</strong>namica,<br />

a questi incontri, e cioè Delfino Insolera, aveva<br />

già proceduto ad interrogare Marx e a lasciarlo<br />

da parte.<br />

Ma in quegli anni il PCI <strong>di</strong> Togliatti un certo<br />

<strong>di</strong>scorso su Marx lo sventolava a destra e a<br />

manca. Non ti ha per lo meno incuriosito?<br />

Io ho sempre proceduto nella mia vita per fatti<br />

concreti. Ho avuto sempre delle occasioni molto<br />

precise per cui sono andato da una situazione a<br />

un’altra. Nel caso <strong>di</strong> Marx, e quin<strong>di</strong> della filosofia<br />

marxista, e quin<strong>di</strong> del Partito Comunista, alcuni<br />

acca<strong>di</strong>menti sono stati per me determinanti.<br />

All’università avevo come insegnante<br />

Banfi, che allora era sia insegnante <strong>di</strong> filosofia sia<br />

anche membro attivo e eminente della struttura <strong>di</strong><br />

potere marxista del PCI. Io ho avuto uno scontro<br />

molto violento con Banfi. Facevo l’università e ho<br />

sempre saputo <strong>di</strong> non essere per nulla una testa<br />

filosofica, caso mai una testa artistica. Andavo alle<br />

sue lezioni e Banfi le faceva nel modo in cui le<br />

ha sempre fatte negli ultimi tempi, quin<strong>di</strong> passeggiando,<br />

in modo salottiero, in modo molto intelligente,<br />

ma pochissimo marxista; e quin<strong>di</strong> mi dava<br />

molto fasti<strong>di</strong>o. Era venerato da tutti ma io non<br />

pensavo <strong>di</strong> doverlo venerare.<br />

È capitato poi che una mia zia, dopo varie<br />

crisi e traversie anche religiose, è <strong>di</strong>ventata me<strong>di</strong>co.<br />

Durante la guerra, molto più <strong>di</strong> mia madre, si<br />

è impegnata politicamente e ha tenuto rapporti<br />

piuttosto stretti con gli ebrei. Ne ha fatti scappare<br />

ed è stata per questo incarcerata a San Vittore. Poi<br />

ne è uscita e ha continuato la sua vita fino ad ottantacinque<br />

anni.<br />

In quegli anni, data la sua appartenenza a<br />

questi ambienti politici <strong>di</strong> carcerati, lei era venuta<br />

in contatto con alcuni esponenti sia della Resistenza<br />

sia dei fascisti incarcerati subito dopo il<br />

’45.<br />

Uno <strong>di</strong> questi fascisti era stato imputato<br />

della uccisione <strong>di</strong> Curiel. Lei l’ha conosciuto in<br />

carcere. E mi ha detto: - Senti, tu conosci Banfi?<br />

Siccome lui è un pezzo grosso...Tizio non è colpevole<br />

<strong>di</strong> questo crimine. Sarà fucilato. Se tu ve<strong>di</strong><br />

Banfi, <strong>prova</strong> a <strong>di</strong>rglielo.<br />

Banfi era molto connesso con Curiel e<br />

quin<strong>di</strong> per mia zia doveva essere interessato a fare<br />

giustizia. Allora io sono andato da Banfi. Fortunatamente<br />

allora, come anche adesso, non ho<br />

nessun rispetto umano, come si <strong>di</strong>ce. Ho chiesto <strong>di</strong><br />

parlargli. Era in biblioteca e gli ho detto questo.<br />

Ha cominciato a gridare in modo tremendo, in un<br />

modo drammatico e teatrale: quello è un porco fascista!<br />

Adesso si mettono a salvare anche i fascisti!<br />

E questo mi ha fatto piangere. Ho pianto per<br />

l’assur<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> reazione <strong>di</strong> allora (ma<br />

lo penso anche adesso).<br />

Secondo fatto traumatico: io durante la<br />

guerra non ho fatto nulla. Ero sul lago <strong>di</strong> Como in<br />

una situazione molto privilegiata. Ero abbastanza<br />

giovane. Mi sono fatto esentare dal servizio militare,<br />

mentre mio fratello era in guerra. Facevo solo<br />

il lavoro materiale <strong>di</strong> traversare il lago con gli<br />

ebrei che dovevano scappare <strong>di</strong> là. Quin<strong>di</strong> la guerra<br />

non l’ho vissuta in nessun modo. Non ho fatto<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 25


il partigiano. Non ho fatto il basista e così via.<br />

Ma nei giorni della Liberazione io ero presente a<br />

Milano. E - anche questo fu un fatto relativamente<br />

drammatico per una mentalità niente affatto politica<br />

come la mia - ho assistito al farsi dei partigiani:<br />

il giorno prima seduti tranquilli, a bere, a<br />

fumare e a fare l’amore, si sono travestiti da partigiani<br />

e hanno partecipato alla vita politica in<br />

quanto partigiani, che non era vero.<br />

Altro elemento: partecipavano tutti attivamente<br />

al Fronte della Gioventù <strong>di</strong>retto da Banfi;<br />

ed erano quasi tutti fascisti e si comportavano come<br />

fascisti. Io mi sono iscritto nelle liste degli in<strong>di</strong>pendenti<br />

<strong>di</strong> sinistra per le prime elezioni<br />

all’Università. Ho avuto il massimo dei voti. Ho<br />

partecipato alle riunioni. Ho fatto qualche proposta.<br />

Passiamo al tema del rapporto cattolicesimocomunismo.<br />

Giu<strong>di</strong>casti positivamente, se non<br />

sbaglio, l’ipotesi <strong>di</strong> Rodano <strong>di</strong> «un’alleanza<br />

storicamente e religiosamente necessaria fra<br />

cattolicesimo e comunismo». Essa rappresentò<br />

<strong>di</strong> fatto la base teorica del «compromesso storico».<br />

E questo mi pare, allo stesso tempo, il punto<br />

in cui massima è stata la vicinanza tra te e il<br />

comunismo e il punto maggiore <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza fra<br />

te e la mia generazione, che secondo Rodano<br />

si sarebbe abbandonata agli «estremismi» del<br />

’68» o si sarebbe lasciata attrarre - anche tramite<br />

Fortini o la Masi - dalle chimere del «terzo<br />

mondo». Puoi precisarmi la tua collocazione<br />

rispetto a quelle che una volta si chiamavano<br />

«sinistra storica» e «nuova sinistra»?<br />

Tutto vero. Con alcuni elementi in più, anche questi<br />

<strong>di</strong> carattere geografico. La mia vicinanza al<br />

partito della sinistra cristiana deriva anche dal fatto<br />

che ho conosciuto e amato Felice Balbo. Felice<br />

Balbo non lo conosce più nessuno. Era un uomo<br />

straor<strong>di</strong>nario, amico <strong>di</strong> Pavese e Giaime Pintor e<br />

collaboratore della Einau<strong>di</strong>. Egli è poi uscito dalla<br />

cerchia degli intellettuali organici al PCI e<br />

all’istituzione einau<strong>di</strong>ana ed è entrato all’IRI. Poi<br />

si è un po’ stancato ed è rientrato nei ranghi universitari.<br />

Insegnava Filosofia morale all’università<br />

<strong>di</strong> Roma. È morto giovanissimo.<br />

In quei tempi lui era il filosofo <strong>di</strong> un<br />

gruppo composto anche da Rodano e Napoleoni.<br />

Questi erano i tre che avrebbero voluto e forse sarebbero<br />

anche riusciti a comporre economia, politica<br />

e filosofia. La testa maggiore era Balbo. Costituivano<br />

una «scuola», termine inventato dallo<br />

stesso Balbo, il cui obiettivo era la formazione <strong>di</strong><br />

quadri per un futuro civile.<br />

Quando Balbo è morto, al suo posto hanno<br />

preso me. E quin<strong>di</strong> c’è stata la «scuola <strong>di</strong> Ro-<br />

ma», in cui insegnavamo: io filosofia, Rodano politica<br />

e Napoleoni economia. È durata pochissimo<br />

e poi è stata interrotta dal ’68, che ha determinato<br />

prese <strong>di</strong> posizione piuttosto precise da parte <strong>di</strong> noi<br />

tre: Rodano <strong>di</strong> rifiuto ra<strong>di</strong>cale, Napoleoni <strong>di</strong> attenzione<br />

relativa e partecipazione modesta, io <strong>di</strong> partecipazione<br />

assoluta. Quin<strong>di</strong> la scuola si è interrotta.<br />

Anche perché, mentre gli altri due avevano<br />

una struttura <strong>di</strong>sciplinare precisa, io non sono riuscito<br />

a immettervi, ma dopo parecchio tempo, negli<br />

ultimi anni Settanta, né Wittgenstein né Freud,<br />

<strong>di</strong>ciamo così, né un’alternativa a questi due. Come<br />

ho detto la partecipazione al marxismo da parte<br />

mia era modestissima e non ero in grado <strong>di</strong> elaborare<br />

le idee che Balbo aveva già tracciato coi suoi<br />

scritti sul marxismo. Ero l’”aspirante filosofo”<br />

all’interno <strong>di</strong> questo gruppo. L’esperienza si è interrotta,<br />

però l’ipotesi che Rodano sempre sosteneva<br />

<strong>di</strong> recuperare il senso religioso del cristianesimo<br />

al marxismo nella convivenza istituzionale<br />

tra il cattolicesimo e il Partito comunista, un po’<br />

l’ho con<strong>di</strong>visa.<br />

Qui mi pare <strong>di</strong> cogliere una sorta <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione.<br />

Che legame ci può essere tra la tua rigorosa<br />

<strong>critica</strong> al magistero cattolico per avere<br />

sempre <strong>di</strong>feso inesorabilmente la <strong>di</strong>visione gerarchica<br />

fra ceto sacerdotale e laici e la tua adesione<br />

o simpatia per le posizioni <strong>di</strong> Rodano e<br />

per il ruolo del PCI, la cui burocrazia, secondo<br />

me, ha seguito proprio quel modello <strong>di</strong> pratica<br />

del potere della chiesa? La dannosa <strong>di</strong>fferenza<br />

tra laicato e chiesa per me c’era anche tra intellettuali-burocrati<br />

del PCI e militanti <strong>di</strong> base<br />

della classe operaia.<br />

Sì, certo. Probabilmente hai ragione. Non ho nulla<br />

da obbiettare. La mia però tu l’hai giustamente definita<br />

una «simpatia». Questa era molto motivata<br />

dall’ipotesi che dall’iniziativa <strong>di</strong> Balbo si riuscisse<br />

a fondere Rodano con Napoleoni e lo stesso Balbo,<br />

ossia la politica <strong>di</strong> Rodano con l’economia <strong>di</strong><br />

Napoleoni e la filosofia in largo senso “religiosa”.<br />

Ma essa si è interrotta. Io non l’ho più seguita,<br />

non ero in grado <strong>di</strong> sviluppare quella prospettiva.<br />

Io ho avuto simpatia, ma questa simpatia l’ho interrotta<br />

al momento in cui Rodano è andato per la<br />

sua strada e Napoleoni è andato per una strada <strong>di</strong><br />

economia che io non potevo seguire, anche se ho<br />

mantenuto un grande affetto e una grande stima<br />

per lui.<br />

Il pensiero <strong>di</strong> Balbo è rimasto interrotto<br />

per la sua morte e anche perché io non me ne sono<br />

più occupato, anche perché – questo è un fatto<br />

contingente – le sue carte sono state tenute segrete<br />

dalla sua vedova. Quasi nessuno poteva leggerle<br />

e solo adesso sono riaffiorate alla luce. Però era<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 26


una simpatia. Anzi negli anni successivi è cresciuta<br />

la mia ostilità a questa ipotesi che tu giustamente<br />

rilevi come un’alleanza tra burocrazie.<br />

In effetti,nella tua <strong>critica</strong> alle scelte del magistero<br />

della chiesa dall’Ottocento ad oggi ho<br />

colto una profonda analogia (non so quanto legittima<br />

e fondata storicamente) con la polemica<br />

contro la burocratizzazione del comunismo ad<br />

opera delle <strong>di</strong>rigenze <strong>di</strong> partito. E perciò ritengo<br />

perciò prezioso il tuo libro non solo per i<br />

credenti, ma anche per quanti non si sono pentiti<br />

<strong>di</strong> aver lottato per il comunismo. Cosa ne<br />

pensi?<br />

Il problerma, che poi è stato affrontato da molti,<br />

per me è sempre questo: esiste la pre<strong>di</strong>cazione ed<br />

esiste l’istituzione che si costruisce sulla pre<strong>di</strong>cazione.<br />

Evidentemente il nesso che si istituisce è<br />

sempre sbagliato. Quando la pre<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong>venta<br />

istituzione, <strong>di</strong>venta partito, <strong>di</strong>venta chiesa, la pre<strong>di</strong>cazione<br />

scompare e prevalgono motivazioni interne<br />

alla struttura. Esse impe<strong>di</strong>scono che la pre<strong>di</strong>cazione<br />

rimanga quella che è, rimanga “pura”,<br />

<strong>di</strong>ciamo così.<br />

Questo è un fenomeno che si verifica<br />

sempre. Nell’ambito dei partiti lo ve<strong>di</strong>amo.<br />

Nell’ambito della chiesa non si è visto abbastanza.<br />

Però l’ipotesi del ritorno alle origini, che è stata<br />

spesso affacciata, per contrastarlo è assurda, perché<br />

al momento delle origini trovi la pre<strong>di</strong>cazione<br />

e pensi che tutto quello che si è costruito sopra sia<br />

un errore, mentre esiste una necessità; e non può<br />

che esistere una necessità del passaggio dalla pre<strong>di</strong>cazione<br />

all’istituzione. Dovrebbe avvenire in un<br />

modo <strong>di</strong>verso da quello in cui è avvenuto.<br />

In termini politici è il cosiddetto problema del<br />

passaggio dalla spontaneità all’organizzazione.<br />

E quello non è stato risolto mai. È irrisolubile?<br />

Non lo so.<br />

Un nodo grosso. Si ripresenta <strong>di</strong> fronte ad ogni<br />

movimento, anche adesso coi no global.<br />

Sì, finché i no global passeggiano per Roma, per<br />

Firenze e <strong>di</strong>cono delle cose giuste, va benissimo.<br />

Al momento in cui <strong>di</strong>cono facciamo qualcosa <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>verso, è finita. È quel momento lì... È possibile<br />

che non possa essere che così?<br />

Concludo chiedendoti una precisazione. Nel<br />

punto in cui parli della chiesa che riconosce le<br />

colpe <strong>di</strong> ieri, chiede perdono a non si sa chi e in<br />

fin dei conti si assolve, affermi che essa non ha<br />

solo «caratteri umani» e appartiene «per sua<br />

precisa <strong>di</strong>chiarazione...a qualcosa d’altro, e che<br />

non è, semplicemente, il campo e il dominio<br />

della fede». Allu<strong>di</strong> forse alla <strong>di</strong>stanza insuperata<br />

fra senso religioso e senso mondano, politico<br />

del comunismo? Sarebbe come <strong>di</strong>re che il comunismo<br />

rimane una cosa ancora ”troppo umana”?<br />

La cosa che non si ricorda e che fa parte dei principi<br />

elementari della dottrina cristiana, <strong>di</strong> cui tutti<br />

fan finta <strong>di</strong> sapere (parlo del magistero), è la definizione<br />

<strong>di</strong> chiesa. Cambiano i secoli, ma non è<br />

stata mai riconosciuta una definizione unica. Definendo<br />

una cosa devi <strong>di</strong>re anche ciò che non è.<br />

Però tra le definizioni correnti, che non sono definitive,<br />

non autenticate da nulla, c’è quella della<br />

chiesa docente e della chiesa <strong>di</strong>scente, c’è quella<br />

della chiesa come società perfetta e quella della<br />

chiesa come popolo <strong>di</strong> Dio. E poi c’è la chiesa<br />

non visibile, che è l’appartenenza <strong>di</strong> tutti a un<br />

mondo che è qui sulla terra ma che ha anche la<br />

sua prosecuzione nel cielo. Non c’è nulla <strong>di</strong> morto<br />

nella chiesa. I morti non esistono, sono risorti.<br />

Quin<strong>di</strong> c’è una presenza <strong>di</strong> cose non visibili che<br />

costituisce l’essere della chiesa anche nella visibilità.<br />

Questo fa sì che la sfera della chiesa non è<br />

fissabile entro il traguardo terreno, ma va anche<br />

oltre. E il potere della chiesa deriva dalla <strong>di</strong>sponibilità<br />

<strong>di</strong> questo oltre sul qui. La sfera politica ha<br />

sempre una prosecuzione non visibile che è <strong>di</strong><br />

competenza della chiesa.<br />

L’al<strong>di</strong>là ha sempre la meglio sull’al <strong>di</strong> qua...<br />

Ha la meglio perché lo contiene. Perché contiene<br />

l’al <strong>di</strong> qua <strong>di</strong>ventato eterno.<br />

Per Bloch l’al<strong>di</strong>là deve <strong>di</strong>ventare al <strong>di</strong> qua,<br />

perché è l’altra faccia (sublimata) <strong>di</strong> quella che<br />

<strong>di</strong>ciamo “realtà”.<br />

Sì questo come progetto. Ma la chiesa non ha mai<br />

detto che questo è un progetto. Ha detto che è la<br />

sua essenza.<br />

4 gen 2005<br />

Nota <strong>di</strong> E.A. L’intervista appena letta ha una<br />

lunga gestazione e alcune motivazioni personali<br />

e politiche che è giusto esplicitare.<br />

Non c’è più religione è uscito da Garzanti<br />

nel 2003 e il filo conduttore del colloquio<br />

con Ranchetti parte da una mia istintiva reazione<br />

alla lettura del libro. Potrei riassumerla<br />

così: bisognerebbe scrivere, a completamento,<br />

un Non c’è più comunismo altrettanto rigoroso<br />

e appassionato. Ovviamente un libro del genere<br />

oggi per me non c’è. Oltre il Novecento <strong>di</strong> Revelli<br />

si limita - credo - a esorcizzare la parte<br />

sanguinolenta <strong>di</strong> quel fantasma storico e Impero<br />

o Moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Hardt e Negri anticipano fin<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 27


troppo, teleologicamente, un miraggio gioioso e<br />

moltitu<strong>di</strong>nario <strong>di</strong> neocomunismo, sottovalutando<br />

la morsa presente <strong>di</strong> guerre, precariati permanenti,<br />

tsunami e altri <strong>di</strong>sastri umani e ambientali.<br />

Ho voluto perciò confrontarmi a fondo<br />

con questo libro e poi porre <strong>di</strong>rettamente al suo<br />

autore delle domande legate ad esperienze che<br />

credo siano state comuni alla generazione cresciuta<br />

nell’imme<strong>di</strong>ato dopoguerra.<br />

Sono, infatti, uno dei tanti - suppongo -<br />

che, segnato nella sua infanzia e prima adolescenza<br />

dal cattolicesimo (certo con <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong><br />

età, <strong>di</strong> ceto e <strong>di</strong> formazione rilevanti rispetto a<br />

Ranchetti, ma non tali da impe<strong>di</strong>rmi <strong>di</strong> cogliere<br />

la sostanziale continuità dell’ideologia e della<br />

pratica dell’Azione Cattolica dei suoi tempi con<br />

quelle a me riproposte tra anni Quaranta e<br />

Cinquanta, in parrocchia, a Salerno), se ne è<br />

poi staccato; e ha preso parte a esperienze <strong>di</strong><br />

vita e <strong>di</strong> lotta sociale e politica non solo in contrasto<br />

con l’insegnamento cattolico, ma decisamente<br />

spostate in partibus infidelium e nutrite<br />

<strong>di</strong> idee illuministe e marxiane, circolate ampiamente<br />

da noi attorno al ’68 e per buona parte<br />

degli anni Settanta e tendenti ad oltrepassare<br />

il terreno religioso o a “materializzarlo” in senso<br />

più o meno blochiano.<br />

La lettura <strong>di</strong> questo e <strong>di</strong> altri libri <strong>di</strong><br />

Ranchetti mi ha dato, a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tanti anni,<br />

la percezione dell’esistenza <strong>di</strong> una possibilità<br />

nella mia giovinezza del tutto insospettata:<br />

quella <strong>di</strong> una <strong>critica</strong> ra<strong>di</strong>cale al cattolicesimo<br />

restando cristiani. Nel mio ambiente e in quel<br />

periodo, infatti, ogni ipotesi “protestante” o <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ssidenza fu per me inesistente. Adesso la ritrovo<br />

nell’esperienza <strong>di</strong> Ranchetti, che ha fatto<br />

<strong>di</strong>ventare la sua insofferenza per l’istituzione<br />

cattolica rigorosa <strong>critica</strong> intellettuale. In me invece<br />

ha portato a una rottura soprattutto fisica<br />

con quel mondo e a deviare o a trasformare<br />

quel «senso religioso della vita» in <strong>di</strong>rezioni<br />

non so se più “estremiste” delle sue ma comunque<br />

non coincidenti.<br />

Questo mi permette <strong>di</strong> guardare oggi il<br />

suo percorso e il mio con uno sguardo che <strong>di</strong>rei<br />

strabico. Da qui la mia tendenza ad incalzarlo<br />

su aspetti che a me paiono “limiti” o sono forse<br />

solo problemi che sento con più forza; e<br />

l’insistenza <strong>di</strong> alcune domande, che - come mi<br />

ha fatto notare Ranchetti stesso - non corrispondono<br />

alle sue domande e forse non trovano<br />

del tutto risposta da parte sua.<br />

L’ipotesi, ad esempio, della relazione<br />

fra crisi del comunismo e crisi del cristianesimo<br />

non so quanto sia interessante dal punto <strong>di</strong> vi-<br />

sta della sua vasta e lunga <strong>ricerca</strong> o alla luce<br />

dell’interrogativo <strong>di</strong> Illich che oggi l’assilla.<br />

Non so neppure quanto possa suscitare interesse<br />

in altri. Tuttavia mi è piaciuto sondare il suo<br />

pensiero su questioni “mie” o fino a tempi recenti<br />

anche “nostre”, e cioè <strong>di</strong> una certa area<br />

<strong>cultura</strong>le e politica <strong>di</strong> “sinistra”, che ha parlato<br />

o in qualche sua residua componente ancora<br />

parla <strong>di</strong> comunismo.<br />

Nella fase <strong>di</strong> preparazione<br />

dell’intervista mi sono chiesto anche se non sia<br />

un paradosso pretendere che un libro lucido e<br />

spietato su «istituzione e verità nel cattolicesimo<br />

italiano del Novecento», argomenti che<br />

parrebbero rivolti esclusivamente a cattolici o a<br />

credenti nell’al<strong>di</strong>là, interessi “a sinistra”.<br />

Eppure, al <strong>di</strong> là delle intenzioni o opinioni<br />

<strong>di</strong> Ranchetti e contro altre obiezioni che<br />

ho messo in preventivo, credo che valga la pena<br />

tentare <strong>di</strong> riportare l’attenzione almeno <strong>di</strong> una<br />

certa intelligenza “<strong>di</strong> sinistra” su questo libro,<br />

sollecitando prese <strong>di</strong> posizione. Affaccio a sostegno<br />

alcune mie convinzioni:<br />

1) il tentativo <strong>di</strong> Ranchetti <strong>di</strong> «ripristinare<br />

un’interrogazione religiosa nel senso più<br />

ampio del termine», offrendo alla <strong>di</strong>scussione<br />

una serie <strong>di</strong> tesi fin dal primo numero de<br />

L’ospite ingrato del 1998, mi pare andare incontro<br />

a quelli compiuti per tutto il Novecento<br />

da minoranze comuniste e socialiste <strong>di</strong>ssidenti<br />

dai partiti, che hanno anch’esse cercato <strong>di</strong> ripristinare<br />

un’interrogazione – politica certo -<br />

nel senso più ampio del termine;<br />

2) il libro, pur restando dentro la <strong>di</strong>mensione<br />

religiosa cristiana, contesta coraggiosamente<br />

e con soli<strong>di</strong>ssime argomentazioni teologiche<br />

e storiche l’autorità della chiesa cattolica,<br />

la cui secolare struttura gerarchica è matrice<br />

della pur laica «forma partito»; e la separazione<br />

fra sacerdozio e laicato, su cui Ranchetti<br />

tanto insiste, è il modello profondo <strong>di</strong> ogni separazione<br />

fra Stato e società civile, fra intellettuali<br />

e classe, fra politici (e rivoluzionari) <strong>di</strong><br />

professione e movimenti;<br />

3) se non è peregrina l’analogia tra cristianesimo<br />

e comunismo (e poi tra tentativi <strong>di</strong><br />

riforma religiosa e tentativi “antirevisionisti”<br />

<strong>di</strong> Marx), va considerato anche il parallelismo<br />

tra crisi del cristianesimo, <strong>di</strong>venuto<br />

nell’Ottocento come Ranchetti documenta istituzione<br />

“totalitaria”, e crisi del comunismo,<br />

tradottosi nel Novecento prima in stalinismo e<br />

poi imploso;<br />

4) per contrastare lo sfacelo teorico e<br />

ideologico nell’ultimo trentennio che ha colpito<br />

tutte le aree della sinistra (“storica” o “nuova”<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 28


si <strong>di</strong>ceva una volta) può essere utile affrontare<br />

la centralità in<strong>di</strong>scussa del modello-chiesa, così<br />

accanitamente e lucidamente al centro degli<br />

stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Ranchetti, specie in questo momento in<br />

cui gran parte della sinistra - come ha ricordato<br />

Massimo Cappitti in una delle pochissime<br />

recensioni che Non c’è più religione abbia ricevuto<br />

(in L’ospite ingrato 2 2003) - sembra allinearsi<br />

ossequiosamente alla chiesa, fino ritenerla<br />

l’«unica istanza etica universale capace <strong>di</strong><br />

parlare autorevolmente al mondo “globalizzato”»;<br />

5) chi viene dalla storia della sinistra<br />

comunista più ra<strong>di</strong>cale si potrebbe però chiedere<br />

se abbia senso partire dalla <strong>critica</strong> della<br />

chiesa fatta da Ranchetti invece che dalle tante<br />

critiche anarchiche fatte fin dall’inizio del movimento<br />

operaio alla forma-partito (da Bakunin<br />

a Rosa Luxemburg alla rivoluzione <strong>cultura</strong>le<br />

cinese). Mi sono risposto: a queste critiche,<br />

sovente troppo fiduciosamente illuministiche, è<br />

sfuggito quasi sempre la presa dell’aspetto sacrale<br />

del potere sull’immaginario sociale. Ed è<br />

stata, invece, proprio la chiesa – come fa notare<br />

Ranchetti nella coda dell’intervista - che per<br />

lunghi secoli, sottraendo il suo e l’altrui potere<br />

ad ogni interrogazione o intromissione dei suoi<br />

laici e dei cosiddetti “eretici”, ha monopolizzato<br />

le risposte a dubbi fondamentali<br />

dell’esistenza nostra, riverberando sugli altri<br />

poteri con cui mano mano si è alleata - dagli<br />

imperatori ai fascismi – l’aura della sua sacralità;<br />

6) se forse c’interrogassimo seriamente<br />

sul perché la “chiesa comunista” sia crollata e<br />

quella cattolica invece mantenga una sua presenza<br />

pervasiva (sia pur pervertita), sa perdonarsi<br />

e assolversi dei propri “errori” o esibire<br />

in mo<strong>di</strong> spettacolari fascinosi le <strong>di</strong>chiarazioni e<br />

le imprese dei suoi capi carismatici e può presentarsi<br />

oggi come «l’unico soggetto monopolista<br />

della storia e della verità» (Cappitti), dovremmo<br />

rispondere che l’amministrazione oculata<br />

del suo Sacro le ha permesso <strong>di</strong> avere rapporti<br />

privilegiati <strong>di</strong> connivenza e <strong>di</strong> adattamento<br />

con altri gestori <strong>di</strong> un sacro degradato (fascismo<br />

e nazismo); e oggi anche col Capitale finanziario<br />

trionfante, dalla chiesa <strong>critica</strong>to per<br />

i suoi “eccessi materialistici”, ma mai <strong>di</strong>sconosciuto<br />

e tantomeno scomunicato, come capitò al<br />

comunismo da parte <strong>di</strong> Pio XII. Mentre il comunismo<br />

staliniano non seppe andare oltre un<br />

certo rozzo culto della personalità.<br />

Aggiungo infine almeno altre tre domande<br />

che la lettura <strong>di</strong> Non c’è più religione mi<br />

ha suscitato:<br />

1) perché è stata possibile una connivenza<br />

quasi logica, come <strong>di</strong>mostra Ranchetti,<br />

fra Chiesa cattolica e fascismo o, altrimenti, è<br />

stata sempre più facile l’«alleanza tra trono ed<br />

altare» e così ardua quella fra cristianesimo e<br />

comunismo?<br />

2) la <strong>critica</strong> al cattolicesimo <strong>di</strong> Ranchetti<br />

verrebbe rafforzata o indebolita da quella<br />

al Capitale, il grande innominato del suo libro?<br />

(Marx, se non sbaglio, è citato una sola<br />

volta, a pag. 79, parlando del tentativo <strong>di</strong> interpretazione<br />

fatto da parte dei cattolici <strong>di</strong> sinistra<br />

e nell’intervista Ranchetti chiarisce bene<br />

anche alcune ragioni biografiche dell’assenza<br />

nella sua riflessione <strong>di</strong> questo autore);<br />

3) da chi e come si potrà spezzare questo monopolio<br />

totalitario della Chiesa, se tutta la<br />

memoria del tentativo del comunismo novecentesco<br />

è <strong>di</strong>ventata oggi tabù? (Ricordo en passant<br />

che Giovanni Paolo II, oltre che «incarnazione<br />

<strong>di</strong> un “primato che non riconosce errore”»<br />

è stato presentato anche come il “vincitore<br />

del comunismo”, e cioè <strong>di</strong> un’esperienza storica<br />

nella quale si era affacciata l’ipotesi che forse<br />

un senso religioso alla vita poteva anche non<br />

essere più necessario).<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 29


Luca Ferrieri: La politica è sempre una poetica. Un <strong>di</strong>a-tria-logo su guerra e pace<br />

Il tema… Note ai fianchi… Ripresa e contrappunto…<br />

<strong>di</strong> LUCA FERRIERI <strong>di</strong> ENNIO ABATE e MARCO GAETANI <strong>di</strong> LUCA FERRIERI e ALTRI<br />

Lavorare ai fianchi<br />

Lavorare ai fianchi ovverosia sfiancare il senso comune, le certezze nostre e altrui. Lavorare ai fianchi,<br />

ossia affiancare, praticare la nobile e <strong>di</strong>smessa scelta <strong>di</strong> schierarsi, <strong>di</strong> stare al fianco, <strong>di</strong> prendere parte e<br />

partito. Lavorare ai fianchi, ossia colpire nella parti non vitali, ma anche nei punti deboli, cercando<br />

l’anello che permette <strong>di</strong> smontare e rimontare la catena. Lavorare ai fianchi: marginali che non hanno<br />

smarrito l’intero e che si propongono <strong>di</strong> accerchiarlo per via periferica. Lavorare ai fianchi, dunque sapere<br />

e sperare che gutta cavat lapidem, che il battito <strong>di</strong> una farfalla a Cologno Monzese può produrre una<br />

tempesta in Florida. Scavando nella pietra ma anche circuendola, preferendo la mossa del cavallo<br />

all’attacco frontale della torre. Lavorare ai fianchi, cioè <strong>di</strong> scarti, <strong>di</strong> scartamenti, <strong>di</strong> balzi. Lavorare nella<br />

prossimità, nella vicinanza, partendo da ciò che ci tocca, da ciò che si tocca. E poiché lavorare stanca,<br />

portare la nostra stanchezza con noi, fianco a fianco, così che stringendo lo sguardo possa mettere a fuoco<br />

i dettagli e chiudendo gli occhi, invece, possa far posto al campolungo dei sogni.<br />

O<strong>di</strong>are il nemico<br />

In un suo acuto (ancorché e perché non<br />

sempre con<strong>di</strong>visibile) intervento 1 , Sergio<br />

Benvenuto osserva che mentre gli uomini<br />

<strong>di</strong> destra non o<strong>di</strong>ano il nemico, in quanto<br />

nella mitologia guerriera simile a loro e<br />

quin<strong>di</strong> segretamente ammirato, gli uomini<br />

<strong>di</strong> sinistra lo o<strong>di</strong>ano perché li trascina alla<br />

guerra, li rende simili a lui. La <strong>di</strong>cotomia<br />

mi pare contraddetta innanzitutto dalla storia.<br />

Falangi, ustascia, ss e altre truppe scelte<br />

della destra si sono macchiate <strong>di</strong> tali e<br />

tante crudeltà che questo co<strong>di</strong>ce d’onore<br />

pare esistere solo, forse, in qualche storia<br />

<strong>di</strong> samurai. Non che le corrispettive milizie<br />

“sinistre” siano state da meno, ma proprio<br />

la ra<strong>di</strong>ce rousseauiana che Benvenuto<br />

pone alla base <strong>di</strong> ogni visione “<strong>di</strong> sinistra”<br />

(anche se così non è: esistono sinistre hobbesiane,<br />

mandevilliane, sa<strong>di</strong>ane, smithiane,<br />

nietzschiane…) dovrebbe mettere in<br />

guar<strong>di</strong>a da questo esito. A meno <strong>di</strong> sposare<br />

le posizioni oltranziste della nuova destra<br />

secondo cui è proprio Rousseau a portare<br />

dritto nel gulag. In realtà a me pare che,<br />

almeno su questo terreno, sinistra e destra<br />

siano categorie quasi ininfluenti (salvo<br />

sperare che il pacifismo abbia in realtà operato<br />

recenti e non effimere mo<strong>di</strong>ficazioni<br />

positive). Ci sono uomini che o<strong>di</strong>ano e<br />

uomini che non o<strong>di</strong>ano. Tra i primi e i tra i<br />

secon<strong>di</strong> ci sono uomini che si rassegnano e<br />

uomini che combattono. Molti <strong>di</strong> questi<br />

combattono anche contro l’o<strong>di</strong>o e hanno<br />

imparato, dopo aver attraversato tutti gli<br />

[mg] Credo che nessuno che<br />

abbia mai giocato a scacchi<br />

rinuncerebbe ad una torre neppure<br />

per due cavalli.<br />

[ea] Ma l’o<strong>di</strong>o innanzitutto esiste:<br />

è un sentimento <strong>di</strong> base assieme<br />

all’amore. Non voglio improvvisare<br />

sulla definizione e la<br />

spiegazione <strong>di</strong> entrambi. Ne constato<br />

prima l’esistenza e poi un<br />

altro dato che mi pare incontrovertibile:<br />

la rielaborazione che<br />

ciascuno fa dei sentimenti <strong>di</strong> base<br />

che si ritrova (rielaborazione che<br />

mai prescinde dalle spinte della<br />

collettività d’appartenenza e accentua<br />

ora l’uno ora l’altro) solo<br />

in alcuni (spiriti religiosi? o più<br />

spinti al dovere...tu ne dai un esempio<br />

quando affermi: «non si<br />

può o<strong>di</strong>are neppure il nemico proprio<br />

perché non si deve mai assomigliargli»)<br />

raggiunge il rifiuto<br />

dell’o<strong>di</strong>o stesso. Rifiuto che a me<br />

pare, comunque, <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong><br />

astratto, poco rinvenibile soprattutto<br />

in politica. L’impossibilità <strong>di</strong><br />

1 SERGIO BENVENUTO, Paradosso del pacifismo, “Aut aut”, (1999), 293-4, p. 81-107.<br />

[lf] Ma su un’altra<br />

scacchiera?<br />

Con le torri (anche d’avorio)<br />

mi ci arrocco, mi ci chiudo, vado dritto, vado addosso, picchio<br />

contro. Col cavallo salto, zigzagheggio, scavalco gli<br />

ostacoli, volo sopra il nemico.<br />

Sul passo del cavallo cfr.: V.<br />

FOA, Il cavallo e la torre, Ei-<br />

nau<strong>di</strong>, 1991.<br />

[lf] Certo che l’o<strong>di</strong>o esiste. Certo<br />

che bisogna farci i conti. Non propongo<br />

<strong>di</strong> negarne l’esistenza (sarebbe<br />

irenico) ma <strong>di</strong> combatterla.<br />

Se l’alternativa fosse: accettazione<br />

dell’esistente / riscossa a prezzo<br />

dell’o<strong>di</strong>o, potremmo a lungo<br />

dubitare ed oscillare, come è stato<br />

tante volte in passato, e poi quasi<br />

sempre finire prigionieri <strong>di</strong> una<br />

sorta <strong>di</strong> alternanza tra le due vie<br />

(non si vive <strong>di</strong> solo o<strong>di</strong>o, mai).<br />

Ma forse oggi non è più questa<br />

l’unica possibilità: ci può essere<br />

una via <strong>di</strong> riscossa che non passa<br />

attraverso l’o<strong>di</strong>o del nemico, così<br />

come c’è una rassegnazione<br />

all’esistente che si nutre d’o<strong>di</strong>o<br />

(anche verso l’amico).<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 30


Il tema… Note ai fianchi… Ripresa e contrappunto…<br />

<strong>di</strong> LUCA FERRIERI <strong>di</strong> ENNIO ABATE e MARCO GAETANI <strong>di</strong> LUCA FERRIERI<br />

orrori del Novecento, che non si può o<strong>di</strong>are<br />

se il nemico è l’o<strong>di</strong>o, non si può o<strong>di</strong>are<br />

neppure il nemico proprio perché non si<br />

deve mai assomigliargli.<br />

[mg] Sarei comunque prudente nel considerare<br />

l’o<strong>di</strong>o "un sentimento <strong>di</strong> base".<br />

Intanto – un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> psicologia, anche<br />

collettiva, andrebbe fatto: non mi ci avventuro<br />

– ritengo necessario <strong>di</strong>stinguere tra<br />

l’o<strong>di</strong>o come sentimento in<strong>di</strong>viduale e<br />

l’o<strong>di</strong>o come sentimento dei gruppi. Siamo<br />

sicuri che quando parliamo <strong>di</strong> Tizio che<br />

o<strong>di</strong>a Caio (perché, mettiamo, Caio gli ha<br />

fatto del male) e <strong>di</strong> – banalizzo! – un certo<br />

Islam che o<strong>di</strong>a l’Occidente (e sia pure un<br />

certo Occidente) si stia parlando della stesso<br />

fenomeno, <strong>di</strong> un medesimo sentire, solo<br />

considerato su <strong>di</strong>versa scala? Quanto siamo<br />

<strong>di</strong>stanti – in un caso o nell’altro - da un uso<br />

metaforico del termine "o<strong>di</strong>o"? Forse poi<br />

l’o<strong>di</strong>o non è propriamente un sentimento,<br />

ma una categoria storico-esistenziale. Ritengo<br />

inoltre che si possa, durante la vita<br />

in<strong>di</strong>viduale, anche non conoscere o<strong>di</strong>o, mai<br />

(senza essere un santo, o simili!); personalmente<br />

ad esempio – per quel che può<br />

valere il caso personale, l’osservazione interna…<br />

– credo proprio <strong>di</strong> non avere mai<br />

sperimentato in me stesso alcun o<strong>di</strong>o verso<br />

chicchessia. Ho per contro conosciuto persone<br />

– unanimemente riconosciute "normali",<br />

col metro corrente – che non erano così<br />

sicure <strong>di</strong> avere mai amato qualcuno/qualcosa.<br />

Non conosco l’o<strong>di</strong>o: il "negativo"<br />

lo incanalo in quel certo "non so che"<br />

che in realtà però so benissimo che sia,<br />

perché lo riconosco in me quando mi si dà,<br />

e che dovendo descrivere collocherei<br />

all’incirca tra il <strong>di</strong>sprezzo e il <strong>di</strong>sgusto.<br />

L’o<strong>di</strong>o come lo vedo dall’esterno è furiacieca-orientata,<br />

non paia contrad<strong>di</strong>ttorio:<br />

questa ambivalenza è esattamente ciò che<br />

può renderlo cortese. Non è casuale che<br />

l’o<strong>di</strong>o abbia sempre a che fare, secondo<br />

me, con qualche forma <strong>di</strong> fanatismo, sia<br />

pure latu sensu. Se l’o<strong>di</strong>o è storico, è fatalmente<br />

politico: alligna sempre dove c’è<br />

fazione.<br />

Inoltre: a rigore, un nemico che non sia o<strong>di</strong>ato<br />

è piuttosto un avversario (rischi: parlamentarismo,<br />

concezione sportiva della<br />

lotta <strong>di</strong> classe). E: si può non o<strong>di</strong>are senza<br />

in qualche misura anche rispettare?<br />

far <strong>di</strong>ventare endemico, in un tempo<br />

circoscritto e nei luoghi dove il conflitto<br />

è più acceso, il «combattimento<br />

contro l’o<strong>di</strong>o» (l’o<strong>di</strong>o dell’o<strong>di</strong>o, si<br />

dovrebbe <strong>di</strong>re, perché cos’è il combattimento<br />

se non una mobilitazione<br />

anche dell’o<strong>di</strong>o a fin <strong>di</strong> bene?), rende<br />

debole questa prospettiva. Ardua<br />

alternativa: invece <strong>di</strong> neutralizzare<br />

l’o<strong>di</strong>o in sé e abbandonarne la gestione<br />

agli avversari o ai nemici,<br />

perché non “sporcarsi <strong>di</strong> o<strong>di</strong>o” ma<br />

convogliarlo a fini benefici. Sì, so<br />

che non è una novità. Siamo a Machiavelli.<br />

Ma mi pare prospettiva<br />

più realistica.<br />

[ea] Piccolo approfon<strong>di</strong>mento: Prendo<br />

in mano Ruwen Ogien, Ritratto<br />

logico e morale dell’o<strong>di</strong>o, manifesto<br />

libri 1994. Cerco appoggio al mio<br />

tentantivo <strong>di</strong> non rimuovere l’o<strong>di</strong>o,<br />

<strong>di</strong> salvarne quella che mi pare la<br />

spinta propulsiva. Le prime pagine<br />

sembrano smentirmi. Ogien mi ricorda<br />

Spinoza: «L’o<strong>di</strong>o non può<br />

mai essere buono». (8). Beh, io non<br />

<strong>di</strong>co che l’o<strong>di</strong>o sia buono. L’o<strong>di</strong>o<br />

sarà anche «costitutivamente cattivo»<br />

(14). Ma io azzardo, <strong>di</strong>co che<br />

bisogna rischiare: l’o<strong>di</strong>o va cavalcato<br />

come una tigre. È vero che è in<strong>di</strong>fen<strong>di</strong>bile,<br />

ripugnante, scandaloso<br />

(9). Ma resta qualcosa <strong>di</strong> irrisolto.<br />

Lo stesso Ogien riconosce che sul<br />

tema c’è tensione: quella ad esempio<br />

presente nelle posizioni <strong>di</strong> Descartes<br />

e dello stesso Spinoza. Essi oscillano<br />

fra attribuire all’o<strong>di</strong>o una funzione<br />

positiva (inclinazione a separarsi<br />

da cose dannose) e una negativa<br />

(«L’o<strong>di</strong>o non può mai essere buo-<br />

[lf] L’o<strong>di</strong>o dell’o<strong>di</strong>o mi sembra<br />

come la guerra alla guerra:<br />

un’illusione tragica, nel<br />

migliore dei casi, come quella<br />

della violenza levatrice (e<br />

lavatrice?) della storia.<br />

[lf] L’utilizzo dell’o<strong>di</strong>o a fini<br />

benefici è ampiamente praticato<br />

e utilizzato. La psicanalisi<br />

stessa è un tentativo <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>rizzamento <strong>di</strong> certe pulsioni<br />

verso altri oggetti. Può<br />

essere una via percorribile,<br />

come strategia <strong>di</strong> riduzione<br />

del danno, ma a con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

dominare e incanalare l’o<strong>di</strong>o,<br />

non <strong>di</strong> finirne schiavi, come<br />

molto spesso invece è accaduto. <br />

no», Spinoza). (53) Ogien rianalizza varie posizioni sull’o<strong>di</strong>o e confuta<br />

tutta una serie <strong>di</strong> «<strong>di</strong>fese dell’o<strong>di</strong>o» più o meno provocatorie: da chi<br />

lo ap<strong>prova</strong> per il piacere che comunque procura a chi lo vede socialmente<br />

utile come «pungolo delle condotte <strong>di</strong> legittima rivolta davanti<br />

a certe forme <strong>di</strong> oppressione, a chi lo rivolge a cose categoricamente<br />

cattive (menzogna, ingiustizia), a chi lo vede come principio dei meccanismi<br />

d’in<strong>di</strong>viduazione (senza o<strong>di</strong>o non vi sarebbe né l’io né<br />

l’altro... senza o<strong>di</strong>o non ci sarebbe l’amore, ecc.), a chi lo usa per <strong>di</strong>struggere<br />

le illusioni buoniste farisaiche. (18-19) La confutazione è<br />

tutta filosofica, acuta ma senza sguardo alla storia. Da logico si <strong>di</strong>sperde<br />

in sottili argomentazioni filosofiche che non mi attraggono.<br />

Non mira a considerazioni storico-politiche, ma soprattutto a <strong>di</strong>mostrare<br />

che o<strong>di</strong>are «possiede le stesse caratteristiche intenzionali <strong>di</strong><br />

‘credere’ o <strong>di</strong> ‘desiderare’» (8), che o<strong>di</strong>are non può essere considerato<br />

irrazionale, incoerente, cieco. Forse è poco, ma è uno spiraglio:<br />

c’infilo subito un pezzo <strong>di</strong> Fortini sul luglio 1960: L’o<strong>di</strong>o tra noi e loro<br />

faceva tremare le foglie dei platani!, in Disobbe<strong>di</strong>enze II, p.110.<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 31


Il tema… Note ai fianchi… Ripresa e contrappunto…<br />

<strong>di</strong> LUCA FERRIERI <strong>di</strong> ENNIO ABATE e MARCO GAETANI <strong>di</strong> LUCA FERRIERI e ALTRI<br />

Disastri della guerra<br />

Durante una guerra le bombe piovono dritte<br />

dritte nel cervello della gente; ed è una<br />

delle devastazioni più tragiche. Lo si vede<br />

subito quando si apre il sipario sulla vecchia<br />

comme<strong>di</strong>a dell’interventismo: chi si<br />

oppone è codardo, <strong>di</strong>sfattista, eccetera.<br />

Così i favorevoli alla guerra <strong>di</strong>cono ai pacifisti:<br />

se avete del fegato andate da Saddam<br />

(o chi per lui) a fare le vostre manifestazioni<br />

non violente. Ri<strong>di</strong>colo e tragico<br />

(proprio per il suo infimo profilo) argomento;<br />

che però rischia <strong>di</strong> trascinare sul<br />

suo terreno anche taluni pacifisti, quando<br />

li sento ritorcere: i nostri guerrafondai<br />

pantofolai sono buoni a tuonare per la<br />

guerra qua, perché non sono in prima linea<br />

là. Il primo sintomo dell’intossicazione<br />

bellicista è questo mito dei muscoli, del<br />

coraggio acefalo. Ha ragione Adriana Zarri:<br />

la paura è in certi casi molto più sana e<br />

salutare del suo opposto.<br />

[mg] Bombe: esigenza <strong>di</strong> non<br />

cadere nella facile analogia, nella<br />

coloritura <strong>di</strong> tipo (pur nobilmente)<br />

giornalistico: non è un caso che un<br />

simile "stile" <strong>di</strong>scorsivo proliferi nel-<br />

l’alienazione della chiacchiera massme<strong>di</strong>ale<br />

(gli "appigli" sul significante sono le centine<br />

<strong>di</strong> ogni castello sabbiolino). Il fatto che tra noi poi<br />

ci si intenda non autorizza ad allentare la vigilanza:<br />

"come saremo letti"? Uso solo poetico-espressivo<br />

della metafora, <strong>di</strong>rei. Quando è necessaria, quando è<br />

catacresi nel senso originario (quando insomma<br />

mancherebbe altro termine per far da sponda al senso<br />

costituente la situazione).<br />

[ea] Prima sui corpi <strong>di</strong> alcuni, <strong>di</strong> certa<br />

gente... Non è secondario! Nel<br />

cervello della gente (noi), quella non<br />

colpita dalle bombe ma che assiste o<br />

ha notizia più o meno atten<strong>di</strong>bili<br />

dell’effetto avuto dalle bombe sui<br />

corpi altrui, piove altro. Direi gli effetti<br />

della guerra psicologica che tu<br />

qui sotto esemplifichi: menzogna,<br />

propaganda, paura, incertezza, magari<br />

persino sod<strong>di</strong>sfazione: ben gli<br />

sta a quei bastar<strong>di</strong>!<br />

[ea] Ah, io starei attento ad insistere<br />

sempre o soprattutto sull’«infimo<br />

profilo» intellettuale o morale <strong>di</strong><br />

Hitler, Saddam, Bush ecc! Il massimo<br />

pericolo viene proprio da questi<br />

bassi profili! Tragico sì, perché non<br />

c’è contrapposizione reale ma solo<br />

simbolica ai loro fatti. Ri<strong>di</strong>colo no.<br />

[ea] … sana, salutare, ma inefficace<br />

politicamente. La paura spinge a ritrarsi<br />

dal conflitto non ad operarvi.<br />

Può essere anche buona consigliera<br />

<strong>di</strong> fronte ad un nemico strapotente,<br />

ma in sé non è risposta adeguata.<br />

Può preservare le forze per combattere.<br />

Ma al combattimento non si<br />

arriva solo per paura.<br />

[mg] Paura: mi pare sia sempre e<br />

comunque pericolosa. Non confonderla<br />

con la prudenza, che è bensì una<br />

virtù. Nei fatti umani la paura è un<br />

sintomo <strong>di</strong> qualcosa che è andata fuori<br />

controllo e non doveva. Rimane ben<br />

poco, se ci si deve aggrappare alla<br />

paura.<br />

"Se tu potessi u<strong>di</strong>re, a ogni sussulto, il sangue<br />

gargarizzare dai polmoni corrotti dalla bava,<br />

Osceni come il cancro, amari come il bolo<br />

Di vili piaghe incurabili sulle lingue degli innocenti,–<br />

Amico mio, tu non <strong>di</strong>resti con tale acceso zelo<br />

Ai figli anelanti qualche gloria <strong>di</strong>sperata<br />

La vecchia menzogna: Dulce et decorum est<br />

Pro patri mori."<br />

WILFRED OWEN, Poesie <strong>di</strong> guerra, Einau<strong>di</strong>, 1985<br />

[sr]<br />

[lf] Vero. Differenza da non<br />

<strong>di</strong>menticare mai. Pure, a parlare<br />

della guerra sono molto<br />

più spesso quelli che le bombe<br />

le vedono a <strong>di</strong>stanza. Agli<br />

altri è stata tolta definitivamente<br />

la parola. Io non cerco<br />

<strong>di</strong> parlare al posto loro. Mi<br />

sarebbe impossibile e non<br />

sarebbe neanche giusto. Parlo<br />

<strong>di</strong> (con) quelli che la guerra<br />

la vedono sui (tele)giornali.<br />

Ma penso che<br />

non si debba mai sottovalutare<br />

il fronte “interno”, anticamera<br />

e incubatrice <strong>di</strong> tutte<br />

le guerre.<br />

[lf] Gli infimi profili sono pericolosissimi<br />

anche e soprattutto<br />

perché infimi.<br />

[lf] Inefficace politicamente?<br />

Sempre con i metri della politica<br />

come volontà <strong>di</strong> potenza.<br />

Ma anche con questi, qualche<br />

dubbio dovrebbe sorgerci.<br />

Forse non abbiamo ancora<br />

<strong>prova</strong>to a tradurre politicamente<br />

il desiderio e la paura.<br />

Forse non abbiamo mai pensato<br />

alle conseguenze politiche<br />

<strong>di</strong> una grande paura, ad<br />

esempio la paura che i nostri<br />

figli o nipoti non abbiano più<br />

un pianeta. Non abbiamo<br />

pensato alle immani conseguenze<br />

politiche dell’atto <strong>di</strong><br />

rendere tabù la guerra, come<br />

<strong>di</strong>ceva Fornari. La guerra è<br />

anche un prodotto della mancanza<br />

<strong>di</strong> immaginazione.<br />

[lf] Il più bel<br />

film <strong>di</strong> guerra?<br />

Me<strong>di</strong>terraneo<br />

<strong>di</strong> Gabriele Salvatores:<br />

“de<strong>di</strong>cato a tutti<br />

quelli che stanno<br />

scappando”.<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 32


Il tema Note ai fianchi Ripresa e contrappunto<br />

<strong>di</strong> LUCA FERRIERI <strong>di</strong> ENNIO ABATE e MARCO GAETANI <strong>di</strong> LUCA FERRIERI e ALTRI<br />

Guerra e pace<br />

Si può convenire con Clausewitz che la<br />

guerra è la prosecuzione della politica senza<br />

per questo con<strong>di</strong>viderne l’atteggiamento<br />

bellicistico. La guerra infatti, è proprio<br />

la prosecuzione della miseria della politica:<br />

una politica fondata sulla costruzione<br />

<strong>di</strong> nemici/mostri, sull’esibizione <strong>di</strong> potenza,<br />

sul <strong>di</strong>sprezzo della vita, della natura e<br />

dei sentimenti; non c’è che <strong>di</strong>re, questa è<br />

la politica che ci circonda. Si vuol <strong>di</strong>re con<br />

ciò che la scelta della pace è una scelta irenistica,<br />

<strong>di</strong> espunzione del conflitto? No,<br />

assolutamente; la pace per cui si combatte<br />

non è il nirvana - anche se non criminalizzo<br />

chi nutre desiderio della sua vertiginosa<br />

in<strong>di</strong>fferenza. La pace per cui si combatte -<br />

uso non a caso questa parola - è una presa<br />

<strong>di</strong> posizione conflittuale. Solo che: a) non<br />

rinuncia mai ad in<strong>di</strong>care e a incarnare<br />

l’utopia della fraternità; b) non fa sua la<br />

politica schmittiana dell’amico/nemico.<br />

In<strong>di</strong>care l’avversario, schierarsi, scegliere<br />

(Fortini), essere “partigiani”, questo sì; ma<br />

l’avversario non è il nemico da <strong>di</strong>struggere;<br />

non è il male assoluto; la sua rimozione<br />

è un obiettivo parziale, provvisorio, quello<br />

vero e finale essendo l’assunzione del <strong>di</strong>verso,<br />

l’esperienza dell’altro, la pace ricca<br />

<strong>di</strong> fantasia e gioco.<br />

Tutte le guerre sono nere<br />

[ea] Più allarmante, ma non facilmente<br />

aggirabile è l’aggiornamento della formula<br />

<strong>di</strong> Clausewitz fatta da Foucault in Bisogna<br />

<strong>di</strong>fendere la società e ripresa da Negri e<br />

Hardt nel loro ultimo libro Moltitu<strong>di</strong>ne:<br />

«Quando lo stato <strong>di</strong> eccezione <strong>di</strong>viene la<br />

regola e lo stato <strong>di</strong> guerra si trasforma in<br />

una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> durata interminabile, la<br />

<strong>di</strong>stinzione tra<strong>di</strong>zionale tra guerra e politica<br />

si fa sempre più incerta. La tra<strong>di</strong>zione<br />

drammaturgica occidentale, da Eschilo a<br />

Shakesperare, ha sempre sottolineato la<br />

natura interminabile e proliferante della<br />

guerra. Oggi però la guerra tende ad ampliarsi<br />

ancora <strong>di</strong> più, trasformandosi in una<br />

relazione sociale permanente. Alcuni autori<br />

contemporanei [Foucault citato più sotto]<br />

hanno espresso questa innovazione rovesciando<br />

la formula <strong>di</strong> Clausewitz: può darsi<br />

che la guerra sia la continuazione della politica<br />

con altri mezzi, ma è certo che la politica<br />

sta <strong>di</strong>ventando sempre <strong>di</strong> più una<br />

guerra condotta con altri mezzi. In altri<br />

termini, la guerra sta <strong>di</strong>ventando il principio<br />

organizzativo fondamentale della società,<br />

e la politica costituisce semplicemente<br />

uno dei suoi strumenti, dei mo<strong>di</strong> in cui si<br />

attua. La pace civile è solo apparente dal<br />

momento che, in realtà, mentre decreta la<br />

fine <strong>di</strong> una forma <strong>di</strong> guerra ne inizia<br />

un’altra», pag, 29. Esagerati? Discutiamone...<br />

[ea] Concordo. Ma il desiderio <strong>di</strong> pace deve<br />

affrontare questo contesto. Non possiamo<br />

rimanere solo con una fede (o desiderio)<br />

incrollabile <strong>di</strong> pace. Fortini: bisogna<br />

“uscire dalla morale verso la politica”, sostituire<br />

alla morale dell’intenzione una morale<br />

del risultato, scegliere <strong>di</strong> “combattere<br />

politicamente l’impero del mondo”.<br />

[lf] Che il rapporto tra<br />

guerra e politica si sia<br />

in qualche modo invertito<br />

è verissimo. La politica<br />

è <strong>di</strong>ventata la<br />

prosecuzione della<br />

guerra. Ciò deve condurci<br />

a denunciare<br />

quanto poco sia fatta<br />

<strong>di</strong> pace vera la pace<br />

che è semplice assenza<br />

<strong>di</strong> guerre conclamate,<br />

così come un tempo si<br />

denunciava la pace<br />

sociale lastricata <strong>di</strong><br />

morti sul lavoro, <strong>di</strong><br />

sfruttamento, <strong>di</strong> violenza.<br />

Ma non implica<br />

un abbassamento della<br />

guar<strong>di</strong>a verso l’infiltrazione<br />

della guerra<br />

in ogni piega quoti<strong>di</strong>ana,<br />

e la proposta<br />

della pace come prospettiva<br />

e bene irrinunciabile,<br />

dentro cui<br />

vanno ricollocati e ricompresi<br />

i conflitti <strong>di</strong><br />

ogni natura e specie.<br />

[lf] Concordo. Ma il<br />

combattimento politico<br />

deve saper esprimere il<br />

desiderio <strong>di</strong> pace…<br />

Quasi una <strong>prova</strong> del nove, se non fosse<br />

che poi i conti non tornano mai. I giornali<br />

<strong>di</strong> oggi danno notizia che nella<br />

Kraina serba sottoposta a massicci attacchi<br />

<strong>di</strong> croati si stanno concentrando<br />

gli estremisti serbi, fascisti. Fascisti,<br />

dunque, come i loro avversari, gli estremisti croati ustascia.<br />

Sembrerebbe una <strong>di</strong>mostrazione che la guerra, una guerra così bestialmente priva <strong>di</strong> ragioni e piena <strong>di</strong> violenza,<br />

può essere invocata, da ambo le parti, solo dai settori più fascisti dello schieramento politico. I conti<br />

non tornano però, perché la storia non si ripete che in farsa, ovvero in <strong>di</strong>verse, immani trage<strong>di</strong>e. E i fascisti<br />

sono ora gli utili i<strong>di</strong>oti <strong>di</strong> una classe politica ed economica che li manovra. Intorno al riattizzarsi <strong>di</strong> nazionalismi<br />

e <strong>di</strong> spinte alla guerra, ci sono interessi e calcoli ben più raffinati delle volgari truculenze revanscistiche<br />

dei nostalgici. I fascisti sono solo gli addetti alla macelleria.<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 33


Il tema… Note ai fianchi… Ripresa e contrappunto…<br />

<strong>di</strong> LUCA FERRIERI <strong>di</strong> ENNIO ABATE <strong>di</strong> LUCA FERRIERI<br />

[ea] complicità sotterranea fra professionisti <strong>di</strong> un medesimo sistema, forse...<br />

Figli del Novecento<br />

Sono figlio del Novecento, <strong>di</strong> questo secolo bello e tremendo che non vuole (che non sa) morire. E come<br />

potrebbe morire: come potrebbero morire le mani appese a un reticolato, le <strong>di</strong>ta spezzate <strong>di</strong> Victor Jara, il<br />

titanic inclinato su un fianco, le grida degli operai che giungono al cielo, i mille fuochi delle parole impronunciabili<br />

che ancora covano sotto la cenere. Quando leggo Sefarad <strong>di</strong> Muñoz Molina 2 , e vi leggo che<br />

l’orrore stava da tutte e due le parti (il che non vuol <strong>di</strong>re che le parti fossero equivalenti), che Osip Mandel’stam<br />

in un gulag fece la stessa fine <strong>di</strong> Milena Jesenska in un lager, non mi sale l’adrenalina patriottica <strong>di</strong> quelli<br />

che hanno gridato allo scandalo, che hanno accusato Muñoz Molina <strong>di</strong> fare del revisionismo storico, <strong>di</strong> mettere<br />

sullo stesso piano Hitler e Stalin, lui, che è un cantore della libertà e della fuga e denuncia dalla prima riga<br />

all’ultima l’intollerabilità dell’orrore nazista e antisemita. Perché il Novecento non ha seminato solo l’orrore ma<br />

ha anche partorito il gesto <strong>di</strong> chi lo ha combattuto, anche quando lo ha riconosciuto nelle proprie fila.<br />

Arrendersi alla TV<br />

Tra le cose più stomachevoli della (prima) guerra del Golfo c’è la risata, amplificata dai me<strong>di</strong>a e riecheggiante<br />

in ogni bar dell’isolato, <strong>di</strong> fronte alla notizia che un battaglione iracheno si era arreso davanti ai microfoni<br />

della TV. Prescin<strong>di</strong>amo dal fatto che questi sono, e si sono rivelati tali anche in questo conflitto,<br />

degli or<strong>di</strong>gni mici<strong>di</strong>ali: chiunque li abbia puntati addosso fa bene ad arrendersi. Ma ciò che la nostra cronaca<br />

cortigiana stracciona non sa neanche rilevare è la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> <strong>di</strong>sperazione, follia, terrore e insieme <strong>di</strong><br />

gioia e speranza per la fine <strong>di</strong> un incubo, che stava <strong>di</strong>etro quel gesto. L’obiettivo militare americano, scientificamente<br />

perseguito con lo stu<strong>di</strong>o dei ritmi <strong>di</strong> bombardamento, <strong>di</strong> progressione della loro intensità, ecc.,<br />

era proprio quello <strong>di</strong> far uscire pazzi i soldati e i civili iracheni. L’episo<strong>di</strong>o della resa alla troupe della TV<br />

italiana non fa che confermare il “successo” <strong>di</strong> tale strategia. Quando cominciò l’offensiva <strong>di</strong> terra, i cannoni<br />

dei carri armati irakeni, puntati verso il mare, non sono stati neanche girati verso terra: non c’era più<br />

nessuno che lo potesse fare.<br />

Fucilarli alle spalle<br />

La guerra esercita da sempre il suo povero<br />

fascino sui poveri <strong>di</strong> spirito agitando<br />

l’alone dello straor<strong>di</strong>nario, dell’irripetibile,<br />

del rischio assoluto. Quasi che altro modo<br />

l’uomo non conosca <strong>di</strong> immaginare il gioco,<br />

l’azzardo, il bilico tra vita e morte, la<br />

vertigine del vuoto (non hanno mai sentito<br />

parlare <strong>di</strong> amore, i signori della guerra?).<br />

Provate ad andare in un pronto soccorso,<br />

alla sera. Questi qui (infermieri, me<strong>di</strong>ci,<br />

portantini) che dovrebbero sentirsi in guerra,<br />

contro la morte, contro il tempo, contro<br />

la burocrazia (ed eccola qui, quella che<br />

non esiste: la guerra giusta), che dovrebbero<br />

sentirsi in gioco fino all’ultima terminazione<br />

nervosa contro il nemico, impreve<strong>di</strong>bile,<br />

tra<strong>di</strong>tore, furbissimo, questi<br />

qui timbrano il cartellino, scavalcano le<br />

barelle senza uno sguardo e tirano mattina.<br />

Poi magari plaudono alla guerra del Golfo.<br />

Se dovessimo applicare il co<strong>di</strong>ce militare<br />

sarebbero da fucilare alle spalle.<br />

2 ANTONIO MUÑOZ MOLINA, Sefarad, Milano, Mondadori, 2002.<br />

[lf] Ma se noi abbiamo perso ogni speranza che il generale<br />

Schwarkopf possa un giorno fermarsi prima <strong>di</strong> dare<br />

quell’or<strong>di</strong>ne, insomma possa un giorno rompere la maledetta<br />

catena del comando, e <strong>di</strong>re: Signorno, mi <strong>di</strong>metto<br />

dall’or<strong>di</strong>ne, forse abbiamo già perso la (guerra per la) pace.<br />

Eppure <strong>di</strong> storie così ce ne sono tante. Di uomini che<br />

erano stati ben selezionati<br />

[ea] Direi che ne hanno solo sentito parlare<br />

. Di più: magari l’hanno anche <strong>prova</strong>to,<br />

ma ora è seppellito da “cose più importanti”.<br />

Di più ancora: magari mentre fanno la<br />

guerra trovano anche qualche occasione<br />

per amare qualcuno/a o qualcosa. Ricorda<br />

gli aguzzini <strong>di</strong> Auschwitz buoni padri <strong>di</strong><br />

famiglia, ecc? Ma scavare nel profondo<br />

dell’anima <strong>di</strong> un guerriero o <strong>di</strong> un potente,<br />

che ha bloccato consapevolmente o inconsapevolmente,<br />

le pulsioni d’amore con la<br />

per dare l’or<strong>di</strong>ne e non<br />

l’hanno dato. Che erano<br />

stati messi al posto giusto,<br />

e nel momento giusto hanno<br />

evitato <strong>di</strong> schiacciare il<br />

bottone. Lo <strong>di</strong>ceva anche<br />

Brecht: il carrista ha un<br />

<strong>di</strong>fetto, può pensare.<br />

Quando faremo la storia <strong>di</strong><br />

questi eroi che hanno avuto<br />

il coraggio <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>re?<br />

professionalità rendendole inoperanti, non serve a noi che dovremmo<br />

trovare la via per fermarli. Un lampo da Fortini: «Quando il generale<br />

Schwarkopf or<strong>di</strong>na <strong>di</strong> sventrare <strong>di</strong>ecimila irakeni non lo fa perché da<br />

piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava <strong>di</strong> busse;<br />

tanto più che egli è probabilmente un uomo <strong>di</strong> buon cuore, pronto magari<br />

ad adottare un orfano <strong>di</strong> quegli irakeni e amante della musica popolare,<br />

dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei criceti.<br />

Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai<br />

suoi compiti da un sistema complesso <strong>di</strong> cui fanno parte industriali, economisti,<br />

storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma tutta una<br />

<strong>cultura</strong>» ( p.168, Disobbe<strong>di</strong>enze II).<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 34


Il tema… Note ai fianchi… Ripresa e contrappunto…<br />

<strong>di</strong> LUCA FERRIERI <strong>di</strong> ENNIO ABATE <strong>di</strong> LUCA FERRIERI<br />

Ho perso la guerra<br />

C’è nella guerra, qualunque guerra, qualcosa<br />

che mi <strong>di</strong>sgusta fino al rifiuto della<br />

vita, al deperimento organico. Quando i<br />

rapporti tra le persone - ora parliamo <strong>di</strong><br />

questi - si tendono fino a sprizzare scintille,<br />

io sento le mie forze scemare al minimo<br />

vitale. Altri si gettano nella mischia come<br />

pacieri o come parte in causa: la guerra li<br />

eccita, e questo vale anche per certi pacifisti,<br />

con tutto il rispetto. Io sono fatto <strong>di</strong>versamente,<br />

e non credo sia una virtù.<br />

Quando si incrociano le spade, riesco al<br />

massimo ad articolare una strategia <strong>di</strong>fensiva;<br />

ma internamente non cesso <strong>di</strong> interrogarmi:<br />

come è possibile? Perché si è arrivati<br />

a questo? Qual è l’errore? e perdo<br />

veemenza. Non si può combattere senza<br />

qualche certezza; a me succede che le certezze,<br />

solide in pace, vacillino al momento<br />

della guerra. Il contrario <strong>di</strong> ciò che accade<br />

nella quasi generalità dei casi. Forse io sono<br />

un tra<strong>di</strong>tore congenito; eppure sono anche<br />

capace <strong>di</strong> lunghe fedeltà. Forse sono<br />

un pauroso; eppure potrei anche, in con<strong>di</strong>zioni<br />

<strong>di</strong>sperate, compiere qualche atto <strong>di</strong><br />

modesto coraggio (ma non garantisco). In<br />

proposito penso che siano più coraggiosi<br />

quelli che convivono con la paura <strong>di</strong> quelli<br />

che ne sono privi.<br />

Probabilmente la necessità <strong>di</strong> agire con rapi<strong>di</strong>tà<br />

e approssimazione, tipica della guerra,<br />

mi mette a <strong>di</strong>sagio; contiene una dose<br />

<strong>di</strong> ingiustizia e <strong>di</strong> semplificazione che mi è<br />

inaccettabile. Nella guerra ciò che mi scoraggia<br />

è la possibilità <strong>di</strong> vincere, che non è<br />

mai esclusa del tutto; io faccio in modo <strong>di</strong><br />

perdere preventivamente tutte le mie guerre.<br />

[ea] Ipotesi: questa reazione che tu consideri<br />

personale (e probabilmente lo è, ma<br />

non credo che tu sia il solo...) si spiega<br />

(magari in parte) col fatto che noi tutti<br />

non abbiamo avuto, come generazione,<br />

esperienza <strong>di</strong>retta, fisica <strong>di</strong> uno stato <strong>di</strong><br />

guerra. Siamo testimoni, più o meno informati,<br />

delle guerre avvenute fuori dal<br />

nostro habitat vitale, esistenziale. Siamo<br />

costretti a fare supposizioni su cosa faremmo<br />

se, come ci comporteremmo se.<br />

Costretti all’immaginario, credo.<br />

sarò ideologico: ma che pace c’è stata nel<br />

periodo che abbiamo vissuto?<br />

[ea] O tipica dei poveretti che si vedono precipitare<br />

addosso una guerra? Questi le guerre<br />

le programmano! Hanno tutto il tempo per<br />

programmarle nei minimi particolari, tranne<br />

poi fallire sempre in qualche cosa nelle loro<br />

operazioni lampo, intelligenti, ecc.<br />

Ma non si tratta <strong>di</strong> accettare ingiustizia o<br />

semplificazione, si tratta <strong>di</strong> riconoscere<br />

questa realtà per <strong>prova</strong>re a contrastarla...<br />

Chi è abituato a perdere non si accontenta <strong>di</strong> vincere<br />

[lf] Mettendo insieme<br />

queste due ipotesi ne avanzo<br />

una terza: forse<br />

abbiamo vissuto in uno<br />

stato <strong>di</strong> guerra lontana o<br />

<strong>di</strong> conflitto a bassa intensità,<br />

qualcosa che ci<br />

toccava solo ideologicamente.<br />

In questo senso oggi<br />

qualcosa è davvero cambiato,<br />

sarà un effetto,<br />

uno dei tanti, della globalizzazione:<br />

la guerra<br />

lontana la sentiamo vicina,<br />

perché sappiamo che<br />

può scoppiare qui e ora,<br />

gli scenari sono intercambiabili,<br />

nessuno è<br />

mai davvero al sicuro.<br />

[lf] Sì, tipica dei poveretti<br />

che che la guerra<br />

la subiscono, e tipica<br />

anche della ideologia<br />

<strong>di</strong> quelli che la fanno.<br />

In entrambi i casi<br />

l’esitazione è esiziale.<br />

“Sparagli Piero, sparagli<br />

ora…”, prima<br />

che il nemico faccia lo<br />

stesso.<br />

Succede proprio così: chi ha combattuto le sue battaglie <strong>di</strong> minoranza (facendosi magari un puntiglio dell’etsi<br />

omnes, non ego), si è trovato spesso da solo, ha pagato <strong>di</strong> persona, improvvisamente vede il nemico in rotta, si<br />

rovescia la fortuna, si aprono le porte, piccoli drappelli <strong>di</strong> cortigiani si fanno incontro solleciti. La crisi in cui<br />

precipitano a questo punto i combattenti delle cause perdute è terribile. Non possono abiurare, né passare dalla<br />

parte del vecchio nemico, perché hanno forgiato nella lotta una coerenza cui non sanno più rinunciare. Ma sono<br />

sopraffatti dal fasti<strong>di</strong>o e dalla rabbia contro le banalizzazioni, le semplificazioni, gli effetti farseschi dovuti<br />

all’amplificazione e alla ripetizione delle idee in cui hanno creduto, dalla pietà verso chi ora è sconfitto.<br />

Allora dovrebbero capire che non possono accontentarsi <strong>di</strong> vincere, perché vincere non era nei loro programmi.<br />

Quel che vogliono è <strong>di</strong> più, molto <strong>di</strong> più, è qualcosa che non è misurabile in vittorie e sconfitte. Molto<br />

presto torneranno a combattere da soli contro i nuovi nemici che si annidano tra gli amici, ossia contro i vecchi<br />

nemici che hanno cambiato pelle. Di nuovo conosceranno l’incomprensione, la vendetta, l’emarginazione.<br />

L’agonismo che sfibra tutti i donchisciotte del mondo è l’altra faccia della loro inaffidabilità militare, della<br />

loro vocazione <strong>di</strong> perdenti. E tuttavia essi, che tanto hanno agognato la pace, si condannano a perderla quando<br />

sta per scoppiare nel mondo intero, per <strong>di</strong>sgusto della folla e per amore dei propri sogni.<br />

Poliscritture/Eso<strong>di</strong> 35


4<br />

Storia adesso<br />

- Daniele Santoro Dalla silloge «Diario del<br />

<strong>di</strong>sertore alla battaglia delle Termopili»<br />

[...] Leonida, re <strong>di</strong> Sparta che ha lasciato<br />

<strong>di</strong> virtù grande ornamento e gloria!<br />

(Simonide <strong>di</strong> Ceo)<br />

I<br />

eccoli i popoli del terzo mondo, i barbari,<br />

quelli che ignorano le nostre leggi,<br />

accampano <strong>di</strong> là del valico che siamo qui<br />

venuti (anzi ci hanno mandati) a presi<strong>di</strong>are.<br />

sono a migliaia quelli del re serse<br />

noi appena quattro gatti che aspettiamo<br />

in massa rinforzi <strong>di</strong> alleati.<br />

II<br />

con oggi sono già però tre giorni<br />

e non un segno dalle retrovie:<br />

qualcosa che si muova, una vedetta<br />

che a squarciagola annunci il loro arrivo.<br />

qui al fronte tutto è immobile. nessuno<br />

osa lasciare le sue postazioni:<br />

non attacca il nemico (per fortuna)<br />

noi non suoniamo (che sarebbe meglio)<br />

la ritirata. ci si sta in cagnesco, ci si fa<br />

la guar<strong>di</strong>a, ci si stu<strong>di</strong>a: non sono poi<br />

così da noi <strong>di</strong>versi questi barbari,<br />

come in città filosofi del cazzo<br />

hanno voluto farci credere,<br />

ma li sentiamo spesso nella notte<br />

mormorare un canto, anche la loro<br />

preghiera è simile alla nostra<br />

“proteggi, <strong>di</strong>o, i tuoi figli che i Padroni<br />

mandano a morte dacché il mondo è mondo”<br />

III<br />

è da poco spuntato il quarto giorno.<br />

nessuna novità, ci fronteggiamo, quelli<br />

dall’altra parte credono che l’intenzione<br />

nostra è <strong>di</strong> sfidarli o che stiamo tramando<br />

qualcosa che gli sfugge. mandano spie,<br />

sono circospetti, è reticente serse:<br />

onde evitare inutile ecatombe, spera,<br />

che prima o poi dalla paura lasceremo il muro<br />

romperemo in <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne le linee<br />

IV<br />

improvviso un clangore ci sveglia,<br />

rompe ogni remora il persiano intenzionato<br />

a chiudere nel sangue la faccenda:<br />

lancia all’assalto un primo contingente<br />

con l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> catturarci vivi (ma<br />

niente da fare, li bastoniamo come cani),<br />

e dunque tocca a idarne e ai suoi immortali<br />

(peggio <strong>di</strong> andar <strong>di</strong> notte - non c’è storia),<br />

manteniamo serrate le file dello schieramento<br />

fingendo <strong>di</strong> arretrare <strong>di</strong>amo loro il culo:<br />

insomma li invitiamo addentro il valico<br />

dove le nostre lance hanno la meglio,<br />

arretrano gli invasori, non guadagnano<br />

<strong>di</strong> un solo metro il passo che ci onora,<br />

che <strong>di</strong>fen<strong>di</strong>amo a denti stretti<br />

- e vorrei tanto <strong>di</strong>rlo a quel magnaccia<br />

che si fa bello del nostro sacrificio: qui<br />

caro mio non c’entra l’eroismo<br />

che non sia solo un Disperato istinto a<br />

vivere<br />

V<br />

benché equivalga ad una strepitosa vittoria<br />

questo averli respinti per due giorni,<br />

c’è poco da far festa al campo:<br />

ci si sta in silenzio - il morale a pezzi<br />

piangiamo pure noi qualche compagno.<br />

qualcuno sottovoce impreca, altri contempla<br />

l’Olimpo che ci sta <strong>di</strong> fronte ove banchetta il <strong>di</strong>o,<br />

altri non fa mistero della sua baldanza<br />

sguaina la spada, è in preda alla follia, parla<br />

da solo e<br />

ride<br />

VI<br />

leonida è pensieroso, si consulta<br />

con gli altri duci sul da farsi. attende<br />

lui pure che improvviso sbuchi dal sentiero<br />

un nunzio che preceda nuove truppe:<br />

con loro sì potremo dare filo<br />

da torcere al persiano<br />

cacciarlo al mare ove la flotta,<br />

stanziata all’artemisio, farà il resto.<br />

VII<br />

sono mille gli opliti messi a guar<strong>di</strong>a<br />

della montagna, controllano la scesa<br />

il vico stretto <strong>di</strong> anopàia il cui segreto<br />

un tale della zona - <strong>di</strong>cono - la notte scorsa<br />

abbia venduto a serse<br />

(che l’abbiano inventato apposta un tra<strong>di</strong>tore<br />

per riparare all’onta dell’aggiramento?)<br />

Intanto vero o falso poco importa:<br />

passa il nemico e chi è <strong>di</strong> vigilanza dorme o<br />

Poliscritture/Storia adesso 36


non s’accorge che qualche foglia<br />

scricchiola sotto il felpato passo, che frana<br />

qualche ciottolo per la scarpata.<br />

spunta l’aurora, sono quasi in cima<br />

ma quando se ne accorgono i focesi,<br />

<strong>di</strong> stanza sul pen<strong>di</strong>o, è già ormai tar<strong>di</strong>:<br />

sono in balia del panico, <strong>di</strong>sorientati<br />

confusamente imbracciano le lance<br />

- fortuna che i persiani non si curano<br />

<strong>di</strong> quelli che già tengono nel pugno -<br />

e quin<strong>di</strong> ri<strong>di</strong>scendono la valle,<br />

marciano avverso noi lungo la costa<br />

… che siamo i più temuti.<br />

IX<br />

leonida ha sessant’anni. se ne fotte<br />

<strong>di</strong> quanti manda a morte, vuole farsi onore.<br />

ligio più alla sua gloria che alla polis,<br />

pur compierla dovrà un’impresa degna<br />

<strong>di</strong> Eracle da cui <strong>di</strong>scende che resti negli annali:<br />

d’altronde, lo sa bene che rammenteranno i posteri<br />

il suo nome e ad uno ad uno quello dei Vigliacchi<br />

non certo il nostro (i poveracci)<br />

X<br />

ma leonida è buono, è generoso<br />

e nel precipitare degli eventi (ha decretato)<br />

manderà a casa quelli che non vogliono<br />

(pur se da usarli in prima fila tratterrà i tebani,<br />

che non si fida affatto) e poi<br />

la gloria va spartita in pochi<br />

d’altronde chi ritorna morirà lo stesso<br />

perché dei tra<strong>di</strong>tori il popolo non ha pietà<br />

XI<br />

oggi avverrà lo scontro<br />

leonida con altri appronta l’armi,<br />

la spada sguaina ripetutamente,<br />

la lancia lucida che abbaglia il sole<br />

dà le sue estreme in<strong>di</strong>cazioni:<br />

ad un suo rispettabile comando<br />

usciranno <strong>di</strong> corsa dal valico e<br />

attenderanno il nemico al centro<br />

della piana - poi sarà la fine<br />

XII<br />

è una follia, combatterli, è una follia vi<br />

<strong>di</strong>co, amici, ritornate - ma loro non<br />

si importano imbevuti che sono già<br />

<strong>di</strong> gloria forsennati esultano<br />

viva la libertà viva la grecia<br />

XIII<br />

chiamatemi codardo vile e vigliacco<br />

premieranno i posteri la mia viltà<br />

d’amare più la Vita che l’onore e guerra<br />

XV<br />

<strong>di</strong>fendono accaniti il corpo <strong>di</strong> leonida,<br />

conteso quattro volte all’ira del persiano,<br />

lo abbracciano, ne fanno scudo (la reliquia)<br />

ma in guerra la pietà non si conosce<br />

con gli archi li finiscono i nemici<br />

e li sotterra lento un piovere <strong>di</strong> frecce<br />

XVII Finale<br />

giunge voce che serse ha perso due fratelli e<br />

circa ventimila dei suoi uomini<br />

(trovo che il numero sia esagerato - ciò non toglie che<br />

Duro è stato il colpo infertogli dalla battaglia.<br />

sta il fatto invece che precipita verso la grecia interna<br />

(la minaccia), reca come un vessillo<br />

affisso a un palo la glorïosa<br />

testa del Re straziata ché tutti la vedano e<br />

sciolgano con noi alleanze per timore<br />

Poliscritture/Storia adesso 37


5<br />

Zibaldone<br />

- Luciano De Feo: Scritto nelle stelle<br />

Ghirigori <strong>di</strong> china, corvi spauriti che svolazzano<br />

sul fondotinta anemico <strong>di</strong> un volto <strong>di</strong> donna. E<br />

io che mordevo già, a piccoli sorsi, l’ultimo bicchierino<br />

e una pillola rossa, occhio <strong>di</strong> tigre incastonato<br />

nel durissimo granito della notte.<br />

Il mare del Nord, che il vento rimbocca come<br />

una coperta damascata <strong>di</strong> stelle spumeggianti sugli<br />

aspri fianchi frastagliati della costa scan<strong>di</strong>nava,<br />

scava abissi <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne tra l’orrore che si cela<br />

<strong>di</strong>etro il sipario tenebroso chiazzato <strong>di</strong> pallide nuvole<br />

gonfie <strong>di</strong> tempesta e le povere marionette che<br />

si agitano a scatti, rispondendo al muto comando<br />

del più perfido dei burattinai.<br />

E già, perché non è che un mangiafuoco in età<br />

pensionabile, questo Destino che ci ha fatti ritrovare<br />

in questo posto <strong>di</strong>menticato da tutti, Dio in testa<br />

– e non potrebbe essere altrimenti, <strong>di</strong> questi tempi.<br />

Il destino non conosce soste, ha scarsa <strong>di</strong>mestichezza<br />

con la pietà e quando va in ferie è perché<br />

è la morte a chiedergli strada, per <strong>prova</strong>re il filo<br />

del suo arnese ricurvo. Che strano! L’allegoria della<br />

morte mette subito all’erta i miei sensi. Penso<br />

alle scimitarre e mi viene in mente Dubai, con le<br />

sue strade polverose <strong>di</strong> giorno e silenziose <strong>di</strong> antichi<br />

misteri <strong>di</strong> notte. Quelle notti, io non le ho ancora<br />

<strong>di</strong>menticate: notti <strong>di</strong> agguati e <strong>di</strong> peccato, <strong>di</strong><br />

dolore e <strong>di</strong> dolcissima rassegnazione.<br />

A Teheran si è fermato il mio tempo, prima<br />

che le bombe benedette, incartate <strong>di</strong> stelle e <strong>di</strong><br />

sangue, piovessero sull’innocenza come tragiche<br />

uova pasquali!<br />

Shadrak im Shakì, il vecchio usuraio poliglotta,<br />

che io sappia giace ancora abbandonato in un<br />

su<strong>di</strong>cio campo alla periferia <strong>di</strong> Ramallah, la testa<br />

da una parte e ciò che resta del corpo sparso tra i<br />

ciuffi d’erba bruciati, come spiccioli <strong>di</strong><br />

un’esistenza gettata sul banco dove un tempo uomini<br />

dalle armature d’argento tirarono la sorte sulle<br />

Santissime Spoglie.<br />

Ben misero crociato, sono, se ripenso a quelle<br />

notti persiane che nulla hanno delle antiche fiabe.<br />

Ma sto <strong>di</strong>vagando, come al solito mi sembra <strong>di</strong><br />

sentirti <strong>di</strong>re. A Beirut fu la tua voce a deviare la<br />

pallottola in<strong>di</strong>rizzata al mio cuore, e adesso mi<br />

chiedo se sia stato un bene … Voglio <strong>di</strong>re, quello<br />

della pallottola finita nella vetrina illuminata <strong>di</strong> un<br />

bar, saltato in aria l’indomani perché situato in un<br />

punto definito strategico dagli analisti. Per quanto<br />

mi riguarda quel bar è uno dei tanti posti sbagliati<br />

al momento sbagliato, l’incrociarsi <strong>di</strong> forze ostili<br />

nel grande labirinto del fuoco e dell’orrore.<br />

Un sacrificio! Come se non se ne celebrassero<br />

anche troppi in nome <strong>di</strong> questa Causa <strong>di</strong> merda,<br />

quella con l’iniziale maiuscola. L’eterna schermaglia<br />

che solo gli sciocchi vestono <strong>di</strong> leggenda sta<br />

tingendosi troppo <strong>di</strong> catastrofe, perché si possa<br />

continuare a far finta <strong>di</strong> niente. Io non so più <strong>di</strong>stinguere<br />

i colori della vita, sarà per via <strong>di</strong> questo<br />

rosso fuoco che accende la bestia che è in me.<br />

Quale causa può mai definirsi giusta, se a rimetterci<br />

sono tanti innocenti: bambini sventrati dalle<br />

mine, donne violate, vecchi sgozzati, povere case<br />

rase al suolo dal più infame degli angeli ven<strong>di</strong>catori?<br />

E’ forse lo stesso oscuro movente che ha fatto<br />

<strong>di</strong> me un assassino a raccogliere, come un ceppo,<br />

l’ultima goccia <strong>di</strong> sangue che scherza con l’orlo<br />

del tuo fazzoletto, quello che raccolsi presso un<br />

bazar <strong>di</strong> Istambul, or sono tre anni.<br />

E’ vero, non ho perso l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> esprimermi<br />

come uno <strong>di</strong> quei personaggi che sembrano evasi<br />

da un feuilleton ottocentesco, che a te fanno<br />

venire i brivi<strong>di</strong>, e che a me hanno invece insegnato<br />

più cose sulla vita che non i tuoi Manuali Cato<strong>di</strong>ci,<br />

infarciti <strong>di</strong> uomini <strong>di</strong> pezza, <strong>di</strong> punti luminosi gettati<br />

a casaccio in mezzo a grappoli <strong>di</strong> merci pronte<br />

per il consumo e quesiti venuti a galla nel bel<br />

mezzo <strong>di</strong> un quiz a premi.<br />

Mi fa un male pazzesco, questa dannata ferita<br />

che scava tra le mie costole come nel Mar Rosso la<br />

Gloria del Signore, al passaggio del popolo eletto.<br />

Adesso sono seduto su <strong>di</strong> una bitta <strong>di</strong>vorata dalla<br />

ruggine. Non faccio che fissare da ore lo stesso<br />

cabinato scuro che rulla, beccheggia, quasi volteggia<br />

sulle acque grigie <strong>di</strong> questo fazzoletto <strong>di</strong> mare<br />

gettato a mo’ <strong>di</strong> rete in mezzo a peste scogliere incre<strong>di</strong>bilmente<br />

cristalline alla pallida, eppure per<br />

me così abbagliante, luce della remota luna<br />

d’inverno, in un posto qualunque tra Solna e il tuo<br />

esilio.<br />

Ti sogno ogni notte, dacché ho ricevuto quel<br />

semplice foglio a quadretti su cui, un giorno<br />

rubato a caso nel mazzo <strong>di</strong>cembrino del più<br />

tragico dei miei anni, hai scritto: “Ti penso<br />

sempre. Appena arrivo ti faccio uno squillo”.<br />

Ecco, proprio così c’era scritto, non si è trattato<br />

<strong>di</strong> uno scherzo della mia immaginazione. Ero al<br />

bar “dei reduci”, come chiamano il Lazarus Inn<br />

questi sciocchi marcantoni dagli occhi <strong>di</strong> ghiaccio,<br />

unico scampolo <strong>di</strong> umanità in quest’anfratto sperduto.<br />

Poliscritture/Storia adesso 38


E’ il posto frequentato anche dai marinai<br />

yankee <strong>di</strong> stanza da queste parti, oltre che dal personale<br />

della vicina base Nato. Sai, un vecchio,<br />

Yarnik mi pare che si chiami, mi ha confidato <strong>di</strong><br />

averli visti coi suoi occhi, i famigerati missili a<br />

lunga gittata, quelli che i governi dell’Asse vorrebbero<br />

farci passare per l’ultima invenzione della<br />

propaganda neo-bolscevica. Pensa che per un attimo<br />

ci ho creduto anch’io, alla favola del complotto<br />

arabo! Ogni volta che occorre coprire le nostre<br />

vergogne, ecco che gli specialisti in abito scuro<br />

rispolverano dalle mille e una notte la favoletta<br />

del terrorismo islamico. Mi fanno ridere, questi<br />

fanfaroni mal vestiti con i loro cappelloni stile Bonanza<br />

schiacciato sullo scopettone scolpito in punta<br />

<strong>di</strong> forbice del cranio da nazista in incognito.<br />

Shadrak in Shakì era arabo, un usuraio della<br />

peggiore specie, ma certamente non c’entrava un<br />

cazzo con le autobombe e gli aerei kamikaze. Lui,<br />

che era abilissimo a tramutare lo sterco in denaro<br />

sonante, era altresì incapace <strong>di</strong> far del male e, ti<br />

assicuro, non ho mai conosciuto persona più devota,<br />

e sì che ne ho girati, <strong>di</strong> luoghi “santi”.<br />

Tu sai com’è morto, quel povero cristo! Lo<br />

hanno assalito in cinque – io ero là! In due gli tenevano<br />

immobilizzate le gracili braccia <strong>di</strong> vecchio,<br />

mentre gli altri lo massacravano, colpendolo con<br />

spranghe <strong>di</strong> ferro, bastoni, oltre che col calcio dei<br />

fucili. Quei vigliacchi non potevano certo immaginare<br />

che c’era qualcuno, nello stambugio in fondo<br />

al giar<strong>di</strong>no che fungeva da latrina. Non ho perduto<br />

un fotogramma <strong>di</strong> quell’atrocità, eppure non<br />

ho mosso un <strong>di</strong>to per salvarlo.<br />

Ero andato a trovarlo per chiedergli<br />

dell’oscuro messaggio inciso sulle tavolette che<br />

qualcuno aveva nascosto fra le saponette profumate<br />

nel cesto del mio albergo.<br />

Io li ho visti bene in faccia: erano americani.<br />

Gente addestrata al combattimento, esperta in torture,<br />

pronta ad uccidere, e tu sai che me ne intendo.<br />

Ed io, là, testimone della più vile e spaventosa<br />

esecuzione, eppure impossibilitato ad intervenire,<br />

per non tra<strong>di</strong>rmi. E tutto questo in nome della<br />

Causa!<br />

Quando se ne sono andati, scomparendo letteralmente<br />

nel buio oltre il giar<strong>di</strong>no, mi sono avvicinato<br />

a quel povero ammasso <strong>di</strong> carni maciullate<br />

che mani abiette avevano trasformato in concime<br />

per la zizzania. La testa <strong>di</strong> Shadrak era là, a un<br />

niente dalla punta del mio stivaletto e, giuro che<br />

non ti sto raccontando stronzate, ad un certo punto<br />

gli occhi del vecchio si sono veramente mossi, e<br />

dalla bocca impastata <strong>di</strong> sangue e <strong>di</strong> terriccio, è<br />

uscito un solo, misero suono gorgogliante, che mi<br />

ha fatto fuggire come impazzito.<br />

E’ stato terribile, cre<strong>di</strong>mi, ma adesso finalmente<br />

so chi ha “lanciato” quegli aerei contro i<br />

simboli fallocratici della grande prostituta<br />

d’oltreoceano. Su uno <strong>di</strong> essi viaggiava la mia famiglia,<br />

e pensa che si trattava del loro primo volo.<br />

Al momento della partenza, mio padre mi ha abbracciato<br />

forte, ringraziandomi per l’occasione che<br />

gli si presentava <strong>di</strong> vedere un po’ il mondo, prima<br />

<strong>di</strong> andare in pensione. Non potrò mai <strong>di</strong>menticare<br />

gli occhi <strong>di</strong> mia madre, quel giorno all’aeroporto, e<br />

l’espressione felice <strong>di</strong> Angela, la mia povera sorella<br />

… Sai, doveva sposarsi in primavera, nei suoi<br />

piani per l’avvenire esplosi su quel maledetto aereo<br />

trasformato in missile, un viaggio in Canada<br />

con il futuro vedovo, e i preparativi per il Natale<br />

che avremmo dovuto trascorrere tutti insieme<br />

sull’altopiano.<br />

Lo Sceicco della Tenebra non ha niente a che<br />

vedere con quest’olocausto deliberato a tavolino<br />

dai “nostri” Gran<strong>di</strong> riuniti attorno allo stesso tavolo.<br />

Ora ne ho le prove. Ti amo, Antoinette, come<br />

non ho mai amato nessuno, prima <strong>di</strong> incontrarti.<br />

Là dove il tempo continuerà a sgranare rosai <strong>di</strong><br />

greve lentezza, lascio il mio ricordo più bello, quel<br />

bacio più leggero <strong>di</strong> un soffio, tocco d’ala <strong>di</strong> un<br />

insetto tintosi del tuo rossetto alla mela.<br />

Ringrazio il Signore per averti messa sul mio<br />

cammino, regalandomi i momenti più belli della<br />

mia ignobile esistenza. Soprattutto ti adoro perché<br />

hai aperto, col mio cuore, anche la mia mente ottenebrata<br />

da anni <strong>di</strong> propaganda consumistica.<br />

Quando ti seguii fino a Gerusalemme, per quel<br />

servizio sull’Intifada, pensai <strong>di</strong> aver fatto una cazzata,<br />

la più grande da che ero al mondo. Poi accadde<br />

il miracolo. Fu il sasso scagliato da una<br />

fionda senza identità a salvarci la vita, visto che gli<br />

Israeliani sono infallibili con le armi da fuoco: ne<br />

sa qualcosa il povero Benoit, della BBC.<br />

Facemmo l’amore per la prima volta quella<br />

stessa notte, all’aperto, sotto una fredda trapunta<br />

da favola, mentre una nenia dalla cadenza ossessivamente<br />

ipnotica mi faceva da guida nelle più segrete<br />

profon<strong>di</strong>tà del tuo mistero <strong>di</strong> giovane donna.<br />

Non ho più avuto una vita mia, da che te ne sei<br />

andata per aiutare i Combattenti della Fede ovunque,<br />

a tuo <strong>di</strong>re, ci fosse un torto da raddrizzare. Il<br />

mio cuore impazzito mi tradì proprio all’ombra del<br />

campanile che, come una grossa meri<strong>di</strong>ana, domina<br />

la piazza principale <strong>di</strong> questo piccolo borgo nascosto<br />

in mezzo ai fior<strong>di</strong>. Era la vigilia <strong>di</strong> Pasqua,<br />

l’Angelo del Signore si manifestò in tutto il suo<br />

splendore tra i tubicini e gli aghi che mi tenevano<br />

sospeso sull’abisso d’argento, fragile ponte sospeso<br />

tra il mio sembiante anagrafico e l’anima inviolata<br />

pronta a magnificare l’Eterno sulle spiagge<br />

assolate dell’empireo.<br />

Poliscritture/Storia adesso 39


***<br />

Ed ora eccomi qua, giusto un anno più tar<strong>di</strong>,<br />

mentre sto uscendo dal ritrovo degli yankee, confuso<br />

tra marines ubriachi e fatalone che mi riportano<br />

per un istante al para<strong>di</strong>so artificiale dei bordelli<br />

<strong>di</strong> Bangkok – solo che queste qui sono bionde<br />

e alte due metri, con un’espressione negli occhi<br />

glauchi che ti fa sentire una nullità.<br />

Col passo lieve, retaggio <strong>di</strong> anni <strong>di</strong> duro addestramento,<br />

scivolo ombra tra le ombre rispondendo<br />

a qualche <strong>di</strong>stratto saluto. Eccomi oltre l’abitato<br />

fatiscente che fa da corona <strong>di</strong> spine al quartiere dei<br />

maggiorenti. La casa a due piani dove <strong>di</strong>mora il<br />

potere si trova sulla mia destra, e quello laggiù è il<br />

mio campanile. Da qualche parte, tempo fa, ho ad<strong>di</strong>rittura<br />

inciso uno <strong>di</strong> quegli sciocchi messaggi<br />

sentimentali che gli adolescenti affidano al legno<br />

dei banchi scolastici, ad un muro screpolato o ad<br />

una corteccia grondante <strong>di</strong> umori. Come mi fa sorridere,<br />

adesso, quest’urgenza <strong>di</strong> eternità <strong>di</strong> cui<br />

l’oblio si fa beffa, come la più assurda delle memorie.<br />

Mi faccio il segno della croce, e penso a Bernard<br />

de Clairvaux, il Consacrato. Un brivido prolungato,<br />

acutissimo, mi fa capire che non è il freddo<br />

a scuotermi. Ma io ti amo, come è scritto persino<br />

su questa pietra coperta <strong>di</strong> licheni, sembrano<br />

smeral<strong>di</strong>, tanto brillano in questa notte silenziosa.<br />

Tace il vento. Ogni rumore sembra affievolirsi<br />

al mio passaggio, ad<strong>di</strong>rittura ammutoliscono i mostri<br />

in agguato <strong>di</strong>etro i cortinaggi scuri che danno<br />

ricetto agli assassini. Mentre l’umido della notte si<br />

insinua fin dentro gli anfibi risalendo lungo le cosce,<br />

ripenso alla tua lingua rovente e ai nostri giochi<br />

al chiaro <strong>di</strong> luna o davanti al fuoco, mentre<br />

fuori impazzava la tempesta. Fu a Glasgow, se non<br />

ricordo male, che per la prima e unica volta venimmo<br />

in simultanea, e tu mi chiamasti: - Tesoro!<br />

Ecco, finalmente sono arrivato … No, stavolta<br />

il sesso non c’entra! Avverto una stretta in petto<br />

che mi affretto a reprimere. Thorbjorn ed Arne mi<br />

hanno tatuato sull’avambraccio lo schema cui dovrò<br />

attenermi, semplice semplice come la tabellina<br />

dell’uno.<br />

Vorrei solo che tu sapessi che non ti ho mai<br />

<strong>di</strong>menticata, durante questi tre interminabili anni,<br />

prima che un misero pezzettino <strong>di</strong> carta a quadretti<br />

venisse a sconvolgere per sempre la nostra vita.<br />

Ascoltami, io … Ma, già, tu non sei qui con me!<br />

Eppure lascia che mi illuda, per l’ultima volta, che<br />

sia sufficiente lo spettro della persona amata,<br />

quest’esile golem <strong>di</strong> nebbia ricamata dalla nuda<br />

fantasia, perché un soliloquio si trasformi<br />

d’incanto nella più felice delle sceneggiature a lieto<br />

fine.<br />

E vorrei sottolinearlo questo concetto: lieto fine.<br />

Perché anche il più efferato dei crimini abbia un<br />

senso, e l’intera umanità torni a respirare aria pulita,<br />

e un bel giorno i nostri figli possano uscire in<br />

strada a giocare, salire su un autobus, o passeggiare<br />

mano nella mano senza saltare in aria, perché<br />

così vogliono nei salotti del potere, è necessario<br />

elevarlo, questo sacrificio al cielo.<br />

Però voglio che tu sappia, Antoinette, che sei stata<br />

la mia sola ragione <strong>di</strong> vita, ed è per questo che sono<br />

qui, stanotte. Quanto scan<strong>di</strong>sce il mio respiro,<br />

mentre saluto l’uomo in uniforme che mi viene incontro,<br />

sta tutto scritto sui fogliettini <strong>di</strong> carta <strong>di</strong> cui<br />

è riempito il cuscino che riceverai, insieme ai fiori<br />

secchi e al ritratto nella vecchia cornice d’argento.<br />

Quando tornerai nella torre <strong>di</strong> cristallo fremente<br />

d’attività come un alveare, ricordati anche <strong>di</strong> lei,<br />

della mia povera mamma, che sognava per noi due<br />

un grande avvenire.<br />

Eccoli, i missili. Mi sembra <strong>di</strong> scorgerne altri due<br />

alla mia sinistra, coperti da spessi teloni, mentre in<br />

compagnia degli altri ufficiali varco la zona rossa<br />

e mi inoltro al <strong>di</strong> là dei fabbricati segnati con<br />

l’enorme X.<br />

Rammentalo, Antoinette, è l’uomo che ti ama a<br />

fungere da estremo officiante, perciò non ascoltarli,<br />

i bastar<strong>di</strong>, quando cercheranno <strong>di</strong> farti credere<br />

che ero un terrorista. Quegli aerei <strong>di</strong> linea scagliati<br />

come proiettili contro i ciclopi <strong>di</strong> vetro ed acciaio,<br />

e i tanti morti <strong>di</strong> quel lontano settembre più nero<br />

della notte che sta per porgermi il suo ultimo saluto,<br />

non sono soltanto uno dei tanti capitoli mandati<br />

a memoria durante questi anni <strong>di</strong> follia <strong>di</strong> massa.<br />

Ancora pochi metri. Guarda un po’, c’è anche il<br />

Vecchio, l’Asso dalle cento stelle che propiziò il<br />

mio reclutamento. E’ anche grazie a canaglie del<br />

suo stampo, se finalmente posso sentirmi libero<br />

per la prima volta. Riassaporo per un istante il gusto<br />

dolce amaro <strong>di</strong> un sì pronunciato a fior <strong>di</strong> labbra,<br />

su una piattaforma petrolifera abbandonata.<br />

Là m’incontrai con i Confratelli, ad essi votai il<br />

mio cuore, ecco perché sono qui, tra quella che un<br />

tempo fu la mia gente.<br />

Quando leggerai <strong>di</strong> questa notte, amore mio, ricordati<br />

delle mie mani, <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>ta piccole e agili<br />

che sapevano sfiorarti, strappandoti gemiti <strong>di</strong> piacere<br />

e che, da qualche minuto, indugiano sul minuscolo<br />

detonatore che farà <strong>di</strong> me, del tuo uomo,<br />

non un Kamikaze da gettare in pasto all’opinione<br />

pubblica, ma il martire del mare del nord.<br />

Poliscritture/Storia adesso 40


- Ornella Garbin : Tre poesie<br />

Pace come dolce miele<br />

E sia la pace<br />

almeno nel nostro intimo<br />

alveare<br />

in modo che ne possiamo suggere<br />

in ogni momento<br />

il dolce nettare.<br />

E se pace non abbiamo,<br />

come piccola ape<br />

ronzare bisogna<br />

intorno a ogni cosa<br />

buona e bella<br />

assorbendo<br />

portando<br />

trasformando tutto<br />

in alimento prezioso<br />

per farne scorta<br />

nel freddo inverno.<br />

Fiore bianco<br />

Come un grande<br />

profumato<br />

fiore bianco,<br />

coltiviamo la pace<br />

nel nostro intimo<br />

giar<strong>di</strong>no,<br />

se l’aria intorno<br />

è tersa e tranquilla<br />

immobile<br />

nemmeno un granello <strong>di</strong> polvere<br />

sporcherà questo fiore.<br />

Vento freddo<br />

Freddo vento autunnale<br />

la pioggia batte<br />

contro i vetri della mia finestra.<br />

Presto partiranno i soldati<br />

anche dal mio Paese….<br />

La parola “Paese” deriva<br />

dalla stessa ra<strong>di</strong>ce<br />

della parola “Pace”.<br />

Perché un paese<br />

si costruisce solo<br />

in tempo <strong>di</strong> pace.<br />

Ma loro, i soldati<br />

sulle loro macchine <strong>di</strong> guerra<br />

si sentono portatori <strong>di</strong> pace<br />

e vanno<br />

senza sapere bene dove.<br />

Troveranno molto, molto più freddo<br />

in quel paese che ha perso la propria ra<strong>di</strong>ce .<br />

Uccideranno<br />

senza sapere bene chi.<br />

Ma questo, come sempre<br />

i soldati.<br />

Dal Dizionario etimologico <strong>di</strong> Giacomo Devoto<br />

PAESE lat.volg. pagensis, deriv. <strong>di</strong> pagus, villaggio,<br />

con leniz. Totale <strong>di</strong> –g- dav. A voc. palat.: dalla ra<strong>di</strong>ce<br />

PAG, variante <strong>di</strong> PAK, v. PACE<br />

PACE lat. pax pacis, nome d’azione dalla ra<strong>di</strong>ce PAK<br />

“l’atto <strong>di</strong> pattuire”. Forme alternanti con la cons. sonora<br />

del tipo PAG consentono confronti fra i lat. E le<br />

aree greca e germanica.<br />

Poliscritture/Storia adesso 41


Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 1<br />

Quale poesia in Poliscritture? Il problema si è posto fin da<br />

questo numero <strong>prova</strong> in modo concreto a partire da queste<br />

tre poesie <strong>di</strong> Ornella Garbin, accolte con imbarazzo o<br />

riserve (non saranno versi deboli, semplicistici, naif, adolescenziali?)<br />

da alcuni <strong>di</strong> noi. Ne è nata una piccola e<br />

nervosa <strong>di</strong>scussione, dove si è oscillato fra adesione, rifiuto<br />

o in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un’emozione o <strong>di</strong> un senso con<br />

dubbi sotterranei forse sul valore della poesia in generale.<br />

Essa ha anche evocato due continenti forse da riesplorare<br />

con calma, se vogliamo rispondere in mo<strong>di</strong> non<br />

improvvisati alla domanda posta all’inizio: quello delle<br />

poetiche e quello delle enciclope<strong>di</strong>e <strong>di</strong> pensiero - implicite<br />

o esplicite, tra<strong>di</strong>zionali o in costruzione – a cui ciascuno<br />

<strong>di</strong> noi pur ricorre quando si trova <strong>di</strong> fronte a testi che si<br />

vogliono poetici. «Poetica zen», «bisogno <strong>di</strong> una parola<br />

“pesante”», necessità <strong>di</strong> una nuova estetica «esodante o<br />

moltitu<strong>di</strong>naria», lode della «leggerezza» e della poesia<br />

come «arte del levare», in<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> «metodo» calvinian-fortiniano:<br />

queste le formule che si sono affacciate a<br />

sprazzi e ingorgato l’inizio <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione. Essa dovrà<br />

proseguire e approfon<strong>di</strong>rsi. Per ora ci pare <strong>di</strong> poter concordare<br />

provvisoriamente su questi tre punti: 1) nessuna<br />

censura, ma «<strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante». La <strong>critica</strong>ta ha risposto<br />

e motivato. Altri sono intervenuti <strong>di</strong>cendo la loro, suggerendo,<br />

puntualizzando, ecc. Ornella ne trarrà in<strong>di</strong>cazioni<br />

per proseguire la sua <strong>ricerca</strong>. Come rivista pensiamo che<br />

oggi sia una buona cosa, in assenza <strong>di</strong> canoni certi, far<br />

interagire varie pratiche e vari giu<strong>di</strong>zi e visioni della poesia;<br />

2) lo Zibaldone non sarà un posticino in cui far accomodare<br />

i testi poetici (o “creativi”) e tenerli buoni lì. Questi<br />

testi (prima o poi) dovranno interloquire con gli altri testi<br />

(saggistici, <strong>di</strong> storia, ecc.) presenti nelle altre rubriche. La<br />

«<strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante» vale come in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> massima<br />

anche per loro; 3) ancora più bisogna che tornino a interagire<br />

e magari a entrare in conflitto le enciclope<strong>di</strong>e <strong>di</strong><br />

pensiero - revisionate o meno – che comunque consultiamo<br />

<strong>di</strong> fronte alle sfide della realtà e alla sfida dei testi<br />

che la simboleggiano o a volte pretendono <strong>di</strong> sostituirla.<br />

- Mario Mastrangelo: Na stella<br />

Rint’ â fuschia-trasparenza r’ ‘a sera<br />

na stella ca se vere e nun se vere,<br />

e ‘o penziero ca saglie e quase avvista<br />

ncielo nu Dio ch’esiste e nun esiste.<br />

Nu bisbiglio ca se <strong>di</strong>stingue a stiento,<br />

ca forse è voce o forse è sulo viento,<br />

‘o spireto culpisce e l’addummanna<br />

si mesto se raccoglie o ra<strong>di</strong>oso se spanne.<br />

L’ombra ca vene l’ànema custerna<br />

cu na prumessa ‘e fine,<br />

cu nu senzo r’eterno,<br />

mentre n’urdema luce ‘e quiete avvampa<br />

nu munno addó se campa e nun se campa.<br />

E se va appriesso a na felicità<br />

ca ce sta e nun ce sta.<br />

Una stella – Nella foschia-trasparenza della sera / una<br />

stella che si vede e non si vede, / e il pensiero che sale<br />

e quasi avvista / in cielo un Dio ch’esiste e non esiste.<br />

// Un bisbiglio che si <strong>di</strong>stingue a stento / che forse è<br />

voce o forse è solo vento, / lo spirito colpisce e gli domanda<br />

/ se mesto si raccoglie o ra<strong>di</strong>oso si spande. //<br />

L’ombra che viene l’anima costerna / con una promessa<br />

<strong>di</strong> fine, / con un senso <strong>di</strong> eterno, / mentre un’ultima<br />

luce <strong>di</strong> quiete avvampa / un mondo dove si vive e non<br />

si vive. // E si insegue una felicità / che ci sta e non ci<br />

sta.<br />

Poliscritture/Storia adesso 42


6<br />

Letture d’autore<br />

- Ennio Abate: Due conversazioni con<br />

Giampiero Neri + Nota<br />

25 ag. 2004<br />

Un’indole contemplativa<br />

Da quando ti ho conosciuto – saranno un quattro<br />

anni – ti ho sempre pensato come un uomo<br />

<strong>di</strong> indole contemplativa.<br />

Sì, sono sempre stato un contemplativo, un uomo<br />

poco portato all’azione e molto <strong>di</strong> più alla me<strong>di</strong>tazione.<br />

Riassuntivamente potrei <strong>di</strong>re un pigro.<br />

E come s’è costruita questa tua indole?<br />

Sulla scorta <strong>di</strong> letture me<strong>di</strong>tative. Per esempio, <strong>di</strong><br />

pensatori orientali come Lao Tse e Milarepa. Ma<br />

le letture hanno solo consolidato l’indole preesistente<br />

poco portata al <strong>di</strong>namismo, piuttosto casalinga<br />

e introspettiva.<br />

E nella tua infanzia ? Suppongo che ci siano<br />

state anche lì delle spinte in questa <strong>di</strong>rezione.<br />

Prima <strong>di</strong> amare i libri ho amato soprattutto gli animali.<br />

Ne ho avuti anche in regalo. Una volta mi<br />

è stata regalata una tartaruga. Sono stati regali importanti<br />

nella mia vita d’allora e successiva. Sì, <strong>di</strong><br />

questa mia indole c’è una ra<strong>di</strong>ce nell’infanzia:<br />

l’osservazione degli animali non prevede <strong>di</strong> correre<br />

ma piuttosto <strong>di</strong> riflettere.<br />

E poi il bambino possiede grande forza<br />

d’immedesimazione e vivacità <strong>di</strong> sensazioni.<br />

Certo. Mio padre aveva dei conigli. E anche dei<br />

piccioni viaggiatori, che non ho mai amato, per la<br />

verità. I gatti sì. Purtroppo non ho avuto la possibilità<br />

<strong>di</strong> tenere un gatto in casa che mi sarebbe<br />

piaciuto enormemente. Avrei voluto, ma mia madre<br />

era contraria e non ha favorito questa mia passione.<br />

Una poesia “<strong>di</strong> poche parole”<br />

Nella tua poesia in genere e anche nel tuo ultimo<br />

libro, Armi e mestieri, mi ha sempre colpito<br />

la resa concisa del processo che precede la<br />

scrittura e che suppongo complesso. Pochi versi,<br />

a volte ridotti ad un titolo. Pren<strong>di</strong>amo Natura<br />

a pag. 11: Da un camminamento / sotto la<br />

volta degli alberi / si arrivava a un recinto. / Si<br />

erano rialzati due vitelli / dal loro letto <strong>di</strong> paglia /<br />

una strana luce / passava tra le foglie. Di solito<br />

concentri un tema che potrebbe occupare capitoli<br />

e capitoli, occultando il suo complesso spessore<br />

emotivo, esistenziale e storico.<br />

Posso <strong>di</strong>re questo: intanto parlo <strong>di</strong> cose che mi<br />

hanno molto colpito. Nella poesia che citi, per<br />

quanto possa sembrare poca cosa vedere due vitelli<br />

che si erano alzati dalla loro posizione <strong>di</strong> riposo,<br />

per me è stata un’emozione. L’emozione era<br />

data dal fatto che dal colore del mantello <strong>di</strong> questi<br />

vitelli, che era <strong>di</strong> un bel marrone caldo e da una<br />

luce strana, dorata, che filtrava attraverso gli alberi<br />

in quel momento, ho avuto l’idea <strong>di</strong><br />

un’apparizione, come <strong>di</strong> una vita che sorgesse in<br />

mezzo agli alberi. Insomma, io questi vitelli li ho<br />

ammirati nella loro bellezza. Sono anche animali<br />

belli. Noi siamo abituati a vederli e li consideriamo<br />

forse poco dal punto <strong>di</strong> vista estetico, però un<br />

vitello è un bell’animale. Sicché in questa piccola<br />

radura nel bosco, dove questo tale teneva i vitelli<br />

per farli crescere, io ho avuto un’emozione estetica.<br />

Certo nel renderla in poesia sono sempre attirato<br />

dalla sintesi.<br />

Frammento e catena d’eventi<br />

Questo fatto e questa emozione, che tu esprimi<br />

in poesia con poche parole, fanno parte però <strong>di</strong><br />

una catena <strong>di</strong> eventi, che precedono e seguono.<br />

Tu, magari a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo, ritorni su<br />

quest’insieme o solo sull’emozione? T’interessa<br />

tutta la catena oppure solo il frammento?<br />

M’interessa la catena, ma la mia non è<br />

un’osservazione fine a se stessa. S’innesta in<br />

quella più generale dei rapporti conflittuali che ci<br />

sono nella vita. Noi siamo immersi in una conflittualità<br />

permanente. È una conflittualità tra le specie<br />

ed è una conflittualità nella stessa specie, tra i<br />

soggetti della stessa specie. Quella tra le <strong>di</strong>verse<br />

specie è più evidente nei contesti naturali. In effetti,<br />

in città è <strong>di</strong>fficile essere sbranati da un leone.<br />

Ma l’uomo tende a nascondere questa verità. La<br />

rimuove, come se non ci fosse. In realtà questo<br />

buonismo è assolutamente falso. Non c’è una pace<br />

universale, ma c’è una guerra universale.<br />

Mi sembra <strong>di</strong> capire che la catena tu la riconduca<br />

esclusivamente alla natura, alla legge della<br />

natura che presiede agli eventi che tu osservi.<br />

Ma non vorrei spostare il <strong>di</strong>scorso sul piano<br />

filosofico e allora preciso la mia domanda: a te<br />

Poliscritture/Letture d’autore 43


interessa la catena degli eventi in quanto possibile<br />

base <strong>di</strong> una narrazione? Non mi pare. Tu<br />

non ten<strong>di</strong> a fare “romanzo” anche se nelle 5<br />

sezioni <strong>di</strong> Armi e mestieri s’intravvede una storia<br />

per frammenti e che - se tu volessi - potrebbe<br />

essere <strong>di</strong>stesa anche in ampi capitoli. E allora,<br />

secondo me, si vedrebbe dell’altro. Ma non<br />

mi pare che ti sia mai venuto in mente <strong>di</strong> fare<br />

un poema o <strong>di</strong> narrare una “storia”.<br />

No, <strong>di</strong> fare il narratore proprio no. Anzi, per quanto<br />

mi abbiano dato l’etichetta <strong>di</strong> «poeta architettonico»<br />

(è la tesi <strong>di</strong> Raffaeli), mi manca la capacità<br />

<strong>di</strong> strutturare una storia vera e propria. Io sono<br />

colpito dall’attimo, dal momento, dal gesto. Il gesto<br />

è uno, è un momento. La mia storia si concentra<br />

su quel momento. Anche in pittura mi è sempre<br />

piaciuto un ritratto non finito. Ad esempio,<br />

quei ritratti che magari comiciano a penna e finiscono<br />

a matita e che lasciano parti inconcluse. Ne<br />

sono sempre stato incantato.<br />

I romanzi, le storie t’attirano <strong>di</strong> meno.<br />

Mi attirano per frammenti. Non tanto l’opera<br />

complessiva.<br />

Allora, rispetto a tuo fratello, che è stato invece<br />

un narratore, hai avuto anche una <strong>di</strong>fferente<br />

sensibilità artistica?<br />

Certamente. Mio fratello m’ha detto una volta: -<br />

Sai qual è la <strong>di</strong>fferenza fra noi due? Tu<br />

t’entusiasmi per quello che non capisci. Sottintendendo<br />

che lui s’entusiasmava per quello che capiva.<br />

Effettivamente è così, non ho niente da obiettare.<br />

Io sono portato per la zona misterica, più enigmatica,<br />

in cui la ragione non ce la fa, non basta<br />

e ci vuole chissà.<br />

Armi e mestieri: una parafrasi <strong>di</strong> Guerra e pace<br />

In questa tua ultima raccolta poetica il titolo <strong>di</strong><br />

una sezione è <strong>di</strong>ventato quello complessivo?<br />

Perché?<br />

Armi e mestieri è un titolo importante per me,<br />

perché si rifà al motivo per cui io scrivo; e cioè<br />

alla presenza <strong>di</strong> questa conflittualità vitale. Anche<br />

perché io sono segnato dalla violenza, che da una<br />

parte mi attrae e dall’altra mi fa vedere il suo aspetto<br />

orrido. Su <strong>di</strong> me agiscono entrambe queste<br />

cose. Da una parte due persone che litigano mi<br />

attraggono...In fin dei conti penso che questa violenza<br />

riproduca in estrema sintesi il principio del<br />

mondo della vita, che è <strong>di</strong> violenza. Niente succede<br />

senza violenza. Neanche l’insalata riccia cresce<br />

senza violenza. Deve farsi largo tra altri tipi <strong>di</strong><br />

insalata che vorrebbero sostituirsi ad essa. Il polemos<br />

è la legge più importante della vita. Quin<strong>di</strong><br />

Armi e mestieri è per me importante per questo.<br />

In fondo può essere una parafrasi <strong>di</strong> Guerra e pace<br />

<strong>di</strong> Tolstoj. Ma a me è venuto in mente semplicemente<br />

per una deformazione del titolo ‘Arti e<br />

mestieri’. I mestieri sono le attività che si fanno in<br />

tempi <strong>di</strong> pace, per vivere. Anche se pure la guerra<br />

si fa per vivere.<br />

Distruggendo una parte della vita, quella <strong>di</strong> altri.<br />

E anche la nostra. Se no che guerra sarebbe?<br />

Purtroppo...Pensando ai mestieri o alle attività<br />

economiche in generale, bisognerebbe poi capire<br />

quanta “guerra” vi sia già implicita. ‘Mestieri’<br />

è però un termine <strong>di</strong> epoca preindustriale.<br />

Ma sono anch’io preindustriale. Il secolo in cui<br />

mi riconosco non è certo il 2000. È il Novecento e<br />

anche più in<strong>di</strong>etro. A parte il fatto che sono nato<br />

nel primo quarto del Novecento, come esperienze<br />

lavorative ho in mente proprio il mestiere del maniscalco,<br />

del calzolaio, del sarto, del barbiere. Erano<br />

tutti lavori in<strong>di</strong>viduali, mestieri appunto.<br />

Quelli io conoscevo davvero. Quando ero ragazzo,<br />

c’era il maniscalco, che sollevava nuvole <strong>di</strong> vapore,<br />

<strong>di</strong> acqua bollente, perché, per raffreddare il ferro<br />

<strong>di</strong> cavallo che, appena uscito dalla forgia, era<br />

ardente, lo immergeva nell’acqua. E ho ancora in<br />

mente l’odore dello zoccolo bruciato del cavallo,<br />

che tra l’altro a me piaceva.<br />

Enigma e Dio<br />

Hai detto prima che sei portato per la parte più<br />

misteriosa della vita. Pren<strong>di</strong>amo allora Intermezzo<br />

a pag.9 <strong>di</strong> Armi e mestieri: Quello stormo<br />

<strong>di</strong> uccelli / si abbatteva vociante / sui rami <strong>di</strong> un<br />

albero / come a un traguardo. / Ma era un’altra<br />

la posta in gioco, / a <strong>di</strong>rigere il volo impetuoso.<br />

Quale l’altra «posta in gioco» che il dettato<br />

imme<strong>di</strong>ato della poesia sottace?<br />

È la vita. Me lo sono chiesto io stesso, vedendo<br />

questo stormo <strong>di</strong> uccelli. Si precipitava sugli alberi<br />

con grande strepito. Pi, pi, pi!... Mi sono chiesto:<br />

ma perché devono correre come <strong>di</strong>sperati?<br />

Ebbene, correndo così tanto, loro riducono al minimo<br />

la possibilità <strong>di</strong> essere presi da cacciatori <strong>di</strong><br />

qualunque tipo. Quin<strong>di</strong> la posta in gioco è la vita.<br />

Loro corrono come correvano i soldati <strong>di</strong> Cesare,<br />

come i legionari <strong>di</strong> Alessandor Magno. Devono<br />

correre per vincere. E così gli animali. Gli animali<br />

hanno la velocità che hanno i bambini, che agiscono<br />

con gran<strong>di</strong>ssima rapi<strong>di</strong>tà. Tant’è che vanno<br />

nei pericoli anche per quello. Perché lo fanno gli<br />

animali? Perché la velocità li sottrae al cacciatore.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 44


Tanto è dunque netta, per semplicità <strong>di</strong> linguaggio<br />

e d’immagini, la tua poesia, tanto rimanda<br />

a una concezione della Natura coi suoi<br />

misteri e le sue vastità inesplorate e metafisiche.<br />

Un tuo critico, Pusterla, ha parlato nel tuio<br />

caso <strong>di</strong> «poesia in forma <strong>di</strong> voragine <strong>di</strong>ssimulata».<br />

E molti altri insistono su mistero e enigmaticità.<br />

Diffido <strong>di</strong> quanti ti tirano fin troppo in<br />

questa <strong>di</strong>rezione, ma devo riconoscere che tu -<br />

e l’hai detto prima - non ti sottrai.<br />

Sì, concordo con queste interpretazioni. In effetti<br />

nel mio lavoro ci sono molte immagini che le confermano.<br />

È vero. La tua mente contemplativa seleziona<br />

immagini ora aurorali (...ha luogo una mutazione/<br />

come <strong>di</strong> vita nascosta che venga alla luce,<br />

p.13) ora segni – comunque incerti - della <strong>di</strong>vinità<br />

nella natura (Ad es. in Mimesi p. 14 : Delle<br />

figure e dei fregi / si osservano sulle ali delle farfalle<br />

/.../ sono una varietà <strong>di</strong> mimetismo /<br />

l’immaginario occhio <strong>di</strong> Dio che guarda.).<br />

Sì, in questi passi c’è un <strong>di</strong>stacco<br />

dall’osservazione naturalistica. Parlo appunto<br />

dell’immaginario occhio <strong>di</strong> Dio che guarda ma<br />

non interviene e lascia che le cose vadano così.<br />

Purtroppo abbiamo un Dio che si <strong>di</strong>sinteressa delle<br />

cose umane, come pensavano i Greci. E come<br />

li rappresentò il «maestro <strong>di</strong> Olimpia» nel frontone<br />

dove Apollo guarda impassibile mentre sotto <strong>di</strong><br />

lui si svolge una battaglia <strong>di</strong> centauri. È un esempio<br />

della grande arte dei Greci conservato al museo<br />

<strong>di</strong> Olimpia.<br />

Ma quest’impassibilità della <strong>di</strong>vinità non ti<br />

turba?<br />

Certo, però devo accettarla. Non mi piace. Non<br />

mi convince, però l’idea <strong>di</strong> una <strong>di</strong>vinità che intervenga<br />

per salvare me e non un altro. Mi va ancora<br />

<strong>di</strong> meno. Quando ero un bambino, mia madre mi<br />

<strong>di</strong>ceva: - Ringrazia Dio che tu non sei così. Ed io<br />

pensavo: - E quell’altro, chi deve ringraziare? Allora<br />

Dio sarebbe ingiusto. Abbiamo un Dio che<br />

non interviene nelle cose umane. Quin<strong>di</strong>, sì, noi<br />

possiamo pregarlo perché ciò può dar sollievo a<br />

noi. Ma i miracoli, quelle cose lì, non mi appartengono.<br />

Non appartengono all’idea che io ho <strong>di</strong><br />

Dio. Io professo un vago teismo. Non penso che il<br />

mondo si sia fatto da solo. Penso che ci sia questo<br />

Mistero abissale della creazione, perché d’altra<br />

parte c’è un sistema <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne. Anche la violenza,<br />

anche il male ha una sua ragion d’essere, una sua<br />

necessità. Per esempio, per <strong>di</strong>rne una, sono stati<br />

fatti degli esperimenti: in un‘isola hanno tirato via<br />

i lupi, per cui la popolazione erbivora, i cervi che<br />

erano lì, si sono moltiplicati. E poi cos’è successo?<br />

Che morivano <strong>di</strong> fame, perché ce n’erano così<br />

tanti che mangiavano tutto; e dopo non c’era più<br />

niente da mangiare. Anche una legge del più forte<br />

ha una sua ragion d’essere, è vitale.<br />

Ma solo all’interno <strong>di</strong> un’economia naturale,<br />

sulla quale il lavoro dell’uomo stenta ancora a<br />

intervenire.<br />

Certo, all’interno <strong>di</strong> un’economia in cui l’uomo<br />

non interviene o interviene poco, perché l’uomo è<br />

capace <strong>di</strong> scompaginare la natura.<br />

La storia in Armi e mestieri<br />

Passiamo dal tema della Natura a quello della<br />

Storia. Quale possibile storia è contenuta in<br />

Armi e mestieri?<br />

È la storia del mio paese, che prende i personaggi<br />

del mio paese.<br />

Di tutta la storia del paese scegli alcuni personaggi<br />

e alcune vicende?<br />

Dei frammenti, appunto. L’anziano assicuratore è<br />

solo uno dei personaggi. Un altro personaggio è<br />

la casa, che era passata indenne / dalla guerra e<br />

dopoguerra /come la salamandra nel fuoco (p.32).<br />

Un altro era l’amico del padre. Un altro la donna<br />

che esce come figura danzante fra gli sparuti autocarri<br />

dei Tedeschi in ritirata (p. 60). È un episo<strong>di</strong>o<br />

che ricordo benissimo. Lei era uscita pensando<br />

che fossero arrivati gli Americani. Aveva in mano<br />

un fiore, un gambo lungo, una rosa. Ha fatto<br />

così: è uscita come una furia, ha roteato un po’ il<br />

fiore e poi l’ha lanciato sul camion. Questa è stata<br />

la scena che io ho visto dalla mia finestra, perché<br />

lei aveva il negozio proprio <strong>di</strong> fianco alla mia casa.<br />

Era un camion <strong>di</strong> tedeschi impolverati. Uno<br />

<strong>di</strong> loro ha preso il fiore e l’ha lasciato cadere fuori<br />

dal camion. Senza cambiare faccia. È stata una<br />

cosa molto drammatica. Non ha detto niente. Lei,<br />

mentre ha lanciato il fiore, ha capito. È un episo<strong>di</strong>o<br />

<strong>di</strong> fine aprile del 1945.<br />

Si tratta <strong>di</strong> microstorie più che <strong>di</strong> storia o no?<br />

Sì, sono quelle microstorie a cui guardo con attenzione.<br />

In fin dei conti, per fare un esempio, come<br />

ci viene raffigurato Confucio? Non mentre è lì<br />

sulla cattedra che spiega, ma nella vita quoti<strong>di</strong>ana.<br />

Confucio entra in un tempio e si rivolge al custode<br />

del tempio e vuole da lui spiegazioni. Quando escono,<br />

uno dei <strong>di</strong>scepoli gli <strong>di</strong>ce: - Ma, maestro, tu<br />

sei un esperto dei riti, come mai ti sei rivolto al<br />

custode per sapere qual è il rito <strong>di</strong> questo tempio?<br />

E lui risponde: – È questo il rito. Voglio <strong>di</strong>re che<br />

dalle cose minime vengono fuori quelle interes-<br />

Poliscritture/Letture d’autore 45


santi e anche gran<strong>di</strong>. Non certo dagli eventi più<br />

ufficiali. È molto più interessante il cavallo del<br />

Missori [la statua <strong>di</strong> bronzo al garibal<strong>di</strong>no Giuseppe<br />

Missori ora nella omonima piazza a Milano],<br />

quel ronzino con la testa abbassata, che il cavallo<br />

impettito <strong>di</strong> Vittorio Emanuele II [in piazza<br />

Cairoli sempre a Milano].<br />

Reticenza o saggezza?<br />

La poesia sulla donna «venuta fuori dal negozio»<br />

mi pare una <strong>critica</strong> sotterranea alla Liberazione<br />

e alle sue mitologie. La <strong>critica</strong> non è<br />

esplicita e mi pare inserita come un dettaglio<br />

minimo nell’ultimo verso: ma erano Tedeschi in<br />

ritirata. Tu dai in poesia il frammento e tieni<br />

per te nella memoria il “resto”: la trage<strong>di</strong>a<br />

storica che hai vissuto da giovane e sulla quale<br />

la tua memoria continua tuttora a lavorare. Solo<br />

forzandoti, aggiungi qualcosa <strong>di</strong> più a<br />

“commento”, come è avvenuto adesso nel nostro<br />

colloquio. Ma il lettore <strong>di</strong> oggi, specie giovane,<br />

non solo fatica ad entrare nel sostrato<br />

storico della tua poesia, ma rischia <strong>di</strong> ignorarlo.<br />

Posso permettermi <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che mi pare un<br />

modo <strong>di</strong> non andare fino in fondo, <strong>di</strong> essere reticente<br />

sulla storia? Forse c’è per te – credo -<br />

quasi un’impossibilità a narrarla in maniera<br />

<strong>di</strong>stesa. Perché?<br />

È vero, perché in fin dei conti sai...<br />

Preferisci mantenerla così, alludervi soltanto?<br />

Proprio alcuni giorni fa Rossanda su il manifesto<br />

scriveva che «non tutto quel che si è vissuto<br />

si può riprodurre». Lo <strong>di</strong>ceva a proposito <strong>di</strong><br />

Auschwitz, ma mi pare che potrebbe valere anche<br />

nel tuo caso.<br />

Sì, appunto. I motivi del mio silenzio sono molteplici.<br />

In ogni caso sono convinto che non si viene<br />

a capo <strong>di</strong> niente, che narrare in mo<strong>di</strong> più espliciti<br />

non serve. O si centra il fatto emotivo anche nel<br />

suo mistero...<br />

Ma così lo accentui questo mistero.<br />

Sì, lo assecondo.<br />

Descrivere senza giu<strong>di</strong>care?<br />

Non insisto. Ma allora che compito affi<strong>di</strong> alla<br />

scrittura?<br />

Il compito <strong>di</strong> oggettivare la mia esperienza, <strong>di</strong> descriverla<br />

senza giu<strong>di</strong>carla, <strong>di</strong> riportarla. Poi giu<strong>di</strong>cheranno<br />

gli altri. Avranno delle sensazioni. È<br />

importante che la poesia abbia come modello<br />

Omero, che non <strong>di</strong>ce se i Greci avevano ragione o<br />

meno. La poesia dev’essere il più possibile ogget-<br />

tiva. Deve essere tale, come <strong>di</strong>ce Dante, sì che<br />

dal fatto il <strong>di</strong>r non sia <strong>di</strong>verso [Inferno, 32, 12] o<br />

seguire il consiglio <strong>di</strong> Puškin: Descrivi e non fare<br />

il furbo. Giu<strong>di</strong>care sarebbe fare il furbo, perché o<br />

sei dentro nel momento oppure, se giu<strong>di</strong>chi col<br />

senno del poi, fai ridere. Col senno del poi sono<br />

piene le fosse. Cosa m’interessa che hanno avuto<br />

ragione i cesarici<strong>di</strong> o Cesare? Conta poco chi aveva<br />

ragione. Anzi importa niente. Importano i<br />

fatti. Poi giu<strong>di</strong>cherà Dio. Non certo gli storici. I<br />

gran<strong>di</strong> storici devono vedere i movimenti come se<br />

fossero un fiume, come se fosse un mare. Non<br />

giu<strong>di</strong>care. Giu<strong>di</strong>care lo fa il parroco. Io non riven<strong>di</strong>co<br />

niente. Anzi mi chiedo: «eravamo colpevoli?».<br />

Non rispondo: - No. E non per niente. Perché<br />

penso che eravamo colpevoli. Però sono colpevoli<br />

anche quelli che vincono. A me interessava <strong>di</strong>re<br />

questo.<br />

A <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> molti che a mio parere “coccolano”<br />

l’enigmaticità della tua poesia, penso che<br />

in essa gli eventi storici dell’Italia nel corso del<br />

Novecento abbiano una presenza fondante, anche<br />

se non li metti in primo piano. E mi meraviglia<br />

che i tuoi critici non scavino questo aspetto<br />

e i tuoi estimatori lo sorvolino come fosse<br />

secondario. Questa storia è tragica e dura ma<br />

bisognerebbe guardarla in faccia più <strong>di</strong> quanto<br />

si è fatto finora. E penso a quanto è avvenuto <strong>di</strong><br />

recente in Sudafrica, dopo la conclusione del<br />

regime <strong>di</strong> apartheid. Lì hanno tentato <strong>di</strong> far<br />

emergere l’esperienza <strong>di</strong> o<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> sopraffazione,<br />

la parte più oscura e violenta del conflitto<br />

che ha contrapposto bianchi colonialisti europei<br />

e neri. Hanno imboccato con coraggio la via<br />

dellla <strong>ricerca</strong> della verità, del <strong>di</strong>rsi le verità storiche<br />

possibili. Mi chiedo se il nostro passato –<br />

quello <strong>di</strong> un fascista o quello <strong>di</strong> un comunista -<br />

non debba essere scavato ancora con più rigore.<br />

Secondo me sì. E sono convinto che l’unico motivo<br />

per cui io scrivo è la storia. In me prende le<br />

forme della natura, ma è sempre la storia che<br />

m’interessa.<br />

Volevo osservare però due cose a proposito del<br />

rapporto fra storia e natura che mi pare presente<br />

nelle tue figure <strong>di</strong> animali emblematici.<br />

Quando parli dell’allocco che «si adatta naturalmente<br />

/ alle necessità», della civetta che riscatta<br />

il «suo <strong>di</strong>messo destino» <strong>di</strong> notte, del lavarello<br />

che «si adatta alla profon<strong>di</strong>tà», noto<br />

innanzitutto uno slittamento dal naturale<br />

all’umano (storico), perché tu <strong>di</strong>ci che l’allocco<br />

«nel suo lavoro paziente / si riconosce» o che la<br />

civetta «ha smesso la sua parte <strong>di</strong> zimbello» o<br />

Poliscritture/Letture d’autore 46


che il lavarello «ha la testa piccola come <strong>di</strong> chi<br />

deve pensare poco». E a me pare che tale slittamento<br />

riduca in primo luogo l’«oggettività»<br />

della descrizione (come accadeva agli autori<br />

dei bestiari del Me<strong>di</strong>oevo). Ma in secondo luogo<br />

poi mi chiedo cosa succederebbe se questi animali-emblemi<br />

invece <strong>di</strong> prendere - come tu <strong>di</strong>ci<br />

- «le forme della natura», prendessero (o riprendessero)<br />

le forme della storia?<br />

È vero che in queste figure l’oggettività si riduce.<br />

Esse sono infatti metafore del nostro vivere. Qualche<br />

critico ha pensato a degli autoritratti in maschera.<br />

Io concordo.<br />

Memoria e verbo imperfetto<br />

Per ultimo una curiosità filologica, che pure ha<br />

un suo significato profondo: l’uso del verbo<br />

all’imperfetto, che in questa raccolta ricorre<br />

tantissimo.<br />

Sì, è vero. Ma l’imperfetto è il tempo per eccellenza<br />

della parlata lombarda. Non ho mai sentito<br />

un mio familiare <strong>di</strong>re ‘cadde’ ma sempre ‘è caduto’.<br />

Uso il passato remoto solo in alcuni momenti.<br />

Ad es. a proposito <strong>di</strong> Corso Donati: e un altro<br />

colpo nel fianco e cadde in terra (Teatro naturale,<br />

p. 25). Però, subito dopo, torno all’imperfetto: e<br />

in immensum cadendo messer Corso / prese la<br />

forma <strong>di</strong> un nome / stavo pr <strong>di</strong>re un vuoto torricelliano<br />

/ mi aveva preso guardandolo / tra numerose<br />

iscrizioni.<br />

L’imperfetto è anche il tempo della durata.<br />

È un tempo malinconico, che non taglia, che trattiene,<br />

come un basso continuo.<br />

È il tempo fisso della memoria.<br />

Certo.<br />

Sull’infanzia<br />

31 gen 2005<br />

Ripartiamo dall’infanzia e dagli anni della tua<br />

formazione.<br />

Sono nato ad Erba nel 1927. Sono stato figlio unico<br />

per sette anni, fino a quando è nato mio fratello<br />

Giuseppe (Peppo). Poi c’è un altro fratello, che<br />

aveva un anno meno <strong>di</strong> me, ma è morto a un anno.<br />

Come tutti i figli unici mi sono sentito avvolto<br />

dall’affetto, dalle cure dei miei; e anche dalla<br />

pre<strong>di</strong>lezione <strong>di</strong> mia nonna, a cui penso spesso,<br />

perché è stata per me una presenza importante nella<br />

mia infanzia. Mio padre parlava poco, per cui<br />

non ho avuto un <strong>di</strong>alogo con lui. Parlavo <strong>di</strong> più<br />

con mia madre. Ho cominciato ad avere degli a-<br />

mici all’età <strong>di</strong> nove, <strong>di</strong>eci anni. Alle elementari ne<br />

avevo avuto pochi. Frequentavo una scuola privata<br />

<strong>di</strong> suore, che non era molto <strong>di</strong>stante da casa<br />

mia, per cui rientravo subito a casa. Avevamo una<br />

grande terrazza, <strong>di</strong> cui ho parlato anche nei miei<br />

scritti, un giar<strong>di</strong>no. Un mio cugino, Sandro Frigerio,<br />

è stato una presenza molto viva. I miei ricor<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> questi primi anni sono però piuttosto confusi e<br />

non significativi.<br />

Prime letture<br />

E le tue prime letture?<br />

Mio padre era un lettore e un collezionista <strong>di</strong> libri<br />

<strong>di</strong> storia e <strong>di</strong> letteratura. Questa sua passione l’ha<br />

ere<strong>di</strong>tata soprattutto mio fratello. Mia madre mi<br />

leggeva qualche giornaletto per ragazzi. Ho letto i<br />

fumetti: Gordon, Mandrake. Mi piacevano molto.<br />

Mi colpiva soprattutto Gordon. I <strong>di</strong>segni erano<br />

molto belli e le storie erano fantastiche. Appena<br />

ho potuto leggere autonomamente – questo è capitato<br />

nelle me<strong>di</strong>e, che allora erano le magistrali, <strong>di</strong>vise<br />

in quattro anni <strong>di</strong> «magistrali inferiori» e<br />

quattro <strong>di</strong> «magistrali superiori», quin<strong>di</strong> un ciclo<br />

<strong>di</strong> otto anni come credo ancora oggi - ho approfittato<br />

della libreria <strong>di</strong> mio padre. E proprio nella sua<br />

libreria ho trovato i Ricor<strong>di</strong> entomologici del Fabre.<br />

Potrà sembrare strano - avevo 12-13 anni –<br />

che un ragazzo li leggesse. Sta <strong>di</strong> fatto che Fabre è<br />

un grande narratore e non per niente Erasmo Darwin<br />

il vecchio, il padre <strong>di</strong> Carlo, l’aveva soprannominato<br />

l’Omero degli insetti. Era una lettura attraente,<br />

piacevole. Nel frattempo frequentavo la<br />

scuola.<br />

A scuola come ti andava?<br />

Ero uno studente piuttosto scarso. Con una buona<br />

memoria, ma con gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> carattere settoriale.<br />

Ad esempio, il <strong>di</strong>segno per me era una vera<br />

ossessione. Non riuscivo a tenere in mano la<br />

matita. Disegno geometrico: peggio che andar <strong>di</strong><br />

notte per me. La matematica: altra bestia nera dei<br />

miei primi anni <strong>di</strong> scuola.<br />

Un insegnante influente<br />

Tra gli insegnanti c’è stato qualcuno che ti ha<br />

influenzato più degli altri?<br />

In questo periodo ho avuto la fortuna <strong>di</strong> avere<br />

come professore d’italiano un intellettuale come<br />

Luigi Fumagalli, che abitava a pochi chilometri da<br />

Erba, a Arosio (Inverigo) e aveva propensione per<br />

l’arte. Scriveva anche, con poco successo purtroppo.<br />

In ogni caso era impegnato sul fronte della<br />

letteratura. E lui mi ha dato anche l’idea dello<br />

scrittore. L’ammiravo molto per la sua eloquenza,<br />

Poliscritture/Letture d’autore 47


e anche per le sue stranezze d’artista. Qualche<br />

volta ci faceva lezione all’aperto, nei giar<strong>di</strong>ni<br />

pubblici, cosa insolita allora. Non era certo un<br />

conformista, per cui mi ha fortemente influenzato.<br />

Era anche un uomo <strong>di</strong> grande apertura mentale,<br />

assolutamente non fazioso. Poi è arrivata la guerra.<br />

Durante la guerra, verso la fine del ’43, lui ha<br />

partecipato alla Resistenza nel Partito d’Azione,<br />

pur essendo stato prima fascista fino a quando la<br />

guerra non ha assunto le caratteristiche del <strong>di</strong>sastro.<br />

Mi ricordo una sua frase: Sono stato fascista<br />

finché il fascismo non è <strong>di</strong>ventato hitlerismo.<br />

Un’altra sua frase, ad es., era che rispetto alla<br />

guerra civile bisognasse essere o <strong>di</strong> qui o <strong>di</strong> là, o<br />

da una parte o dall’altra, ma non agnostici. Bisognava<br />

prendere posizione. Come membro del<br />

CLN era stato anche messo in prigione a Como.<br />

Cosa che allora era pericolosa, non tanto perché<br />

lui avesse delle responsabilità precise, ma perché<br />

potevano esserci attentati fatti da altri e possibilità<br />

<strong>di</strong> rappresaglie prendendo i detenuti dalle carceri.<br />

Ecco, questo è stato per me il personaggio più<br />

importante nella mia adolescenza. Il nostro rapporto<br />

si è poi trasformato in amicizia, quando ormai<br />

io ero impiegato in banca e mi ero sposato.<br />

Lui è morto nel 1980, a settant’anni. Era del ‘10.<br />

C’erano 17 anni <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza fra me e lui. Quando<br />

si è giovani sembrano tanti.<br />

In un ambiente “naturalmente” fascista<br />

Parlando del tuo insegnante <strong>di</strong> riferimento, hai<br />

già introdotto nel <strong>di</strong>scorso dei fatti storici. Tu<br />

sei nato e vissuto in modo per così <strong>di</strong>re “naturale”<br />

in un ambiente fascista. I tuoi amici e coetanei<br />

erano fascisti, no?<br />

Ma allora non si parlava <strong>di</strong> politica. E poi a me<br />

pare <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>re che il fascismo ha avuto parecchie<br />

anime, a seconda <strong>di</strong> dove si è ra<strong>di</strong>cato. Se<br />

nella campagna, a sud <strong>di</strong> Milano, ha avuto una<br />

connotazione <strong>di</strong> tipo agrario coi conta<strong>di</strong>ni che<br />

stanno sotto e gli agrari sopra, da noi, non essendoci<br />

latifondo, il fascismo era piuttosto borghese.<br />

Quin<strong>di</strong> non si verificarono quegli attriti, lotte <strong>di</strong><br />

classe...<br />

Dalle tue parti non accaddero mai episo<strong>di</strong> che<br />

fecero nascere qualche <strong>critica</strong> nei confronti del<br />

regime?<br />

No. La vita era tranquilla. C’erano gli aderenti al<br />

Fascio o i consenzienti. I <strong>di</strong>ssidenti si contavano<br />

sulla punta delle <strong>di</strong>ta e venivano considerati per lo<br />

più degli eccentrici. Per quanto possa ricordare<br />

io, non ci furono episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> violenza. E poi ero nato<br />

nel ’27. Ero giovane. Fino alla campagna<br />

d’Africa del ’35 c’era un vasto consenso. Mi ri-<br />

cordo vagamente la raccolta delle fe<strong>di</strong>, che è avvenuta<br />

in chiesa. Ed io, anche dopo la guerra, ho<br />

continuato nelle mie convinzioni. Semmai, la <strong>critica</strong><br />

che ho fatto è stata <strong>di</strong> carattere generale, sulla<br />

libertà <strong>di</strong> parola principalmente<br />

Ma da studente non raccoglievi notizie<br />

sull’andamento della guerra? A scuola non se<br />

ne parlava? Non c’erano voci contrarie?<br />

Facevo il liceo a Como. E ricordo che una volta<br />

sul tram c’era un mio amico, un certo Tomaso<br />

Grossi, che mi <strong>di</strong>ceva genericamente: – Eh ve<strong>di</strong>,<br />

gli uomini vogliono la libertà. Non capivo bene a<br />

cosa si riferisse, ma credo che mi abbia dato un<br />

primo segno <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> pensare <strong>di</strong>verso su<br />

certe questioni. Allora le mie idee coincidevano<br />

con quelle del governo. Non c’era nessun attrito.<br />

E poi io allora non avevo idee politiche precise.<br />

Mi limitavo ad una certa stima, un’ammirazione<br />

per Mussolini.<br />

L’uccisione del padre<br />

Allora il trauma dell’uccisione <strong>di</strong> tuo padre in<br />

un agguato <strong>di</strong> partigiani dev’essere stato per te<br />

ancora più traumatico?<br />

I due partigiani che hanno ferito mio padre - lui è<br />

morto dopo cinque giorni all’ospedale - non lo<br />

conoscevano. Non erano della zona. Non ricordo<br />

cosa ho <strong>prova</strong>to allora. Soprattutto dolore. Avevo<br />

se<strong>di</strong>ci anni. Sentivo mia madre che piangeva. Ricordo<br />

queste sue lamentazioni ad alta voce. Io non<br />

riuscivo a <strong>prova</strong>re o<strong>di</strong>o. Si o<strong>di</strong>a chi può essere in<strong>di</strong>viduato.<br />

Né loro, credo, o<strong>di</strong>assero particolarmente<br />

mio padre. Sì, o<strong>di</strong>avano l’emblema, quello<br />

che lui rappresentava politicamente.<br />

Si è poi capito perché avessero scelto come bersaglio<br />

tuo padre? C’erano dei motivi?<br />

Mio padre era un notabile della zona e in quel periodo<br />

era stato nominato commissario prefettizio a<br />

Bosisio Parini, per esempio, e in un altro posto vicino,<br />

a Monguzzo. Lui ci andava in bicicletta, finito<br />

il lavoro in banca (era procuratore <strong>di</strong> banca),<br />

quando doveva partecipare a qualche decisione<br />

riguardante il Comune.<br />

Tu non hai mai sentito il bisogno <strong>di</strong> indagare su<br />

questa vicenda?<br />

No. Personalmente non ho mai voluto. Nella mia<br />

<strong>di</strong>sgrazia sono stato preservato dal ridurre la<br />

guerra fra due campi opposti a una cosa personale,<br />

a un fatto privato. L’ho vista come uno scontro<br />

cruento fra due fazioni. Nella mia mente da una<br />

parte c’erano i partigiani e dall’altra i fascisti. Essi<br />

non si conoscevano.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 48


E quando si è profilata la sconfitta? Come hai<br />

reagito <strong>di</strong> fronte alla caduta del fascismo?<br />

Non so <strong>di</strong>re cosa ho <strong>prova</strong>to. Uno stor<strong>di</strong>mento.<br />

Una sorpresa. Credevamo alle famose armi segrete.<br />

E poi pensavamo ai Tedeschi come se avessero<br />

una forza quasi illimitata. In effetti li hanno<br />

fermati soltanto Tito e i russi a Stalingrado. Sì, allora<br />

ho <strong>prova</strong>to uno stor<strong>di</strong>mento. E poi c’era la<br />

paura <strong>di</strong> essere uccisi. Non avevo neanche il tempo<br />

<strong>di</strong> pensare a quello che succedeva. Mi ricordo<br />

che proprio il 26 aprile, uscendo <strong>di</strong> casa, ho visto<br />

una scritta che <strong>di</strong>ceva «Mancia competente a chi<br />

vede un fascista sorridere». Questo era il clima<br />

drammatico <strong>di</strong> quei momenti. Poteva succedere<br />

che ti uccidessero per strada. Comunque alla fine<br />

della guerra la mia famiglia si è trasferita a Varese.<br />

Lì ho fatto l’ultimo anno <strong>di</strong> liceo e a giugno<br />

sono stato promosso. Eravamo nel ’47.<br />

Un poeta estraneo ai cenacoli letterari<br />

E dopo il liceo?<br />

C’è stata una forte svalutazione della lira. Non si<br />

poteva vivere, per cui s’era imposta la necessità<br />

per me <strong>di</strong> lavorare. Il lavoro l’abbiamo trovato<br />

nella stessa banca <strong>di</strong> mio padre, che mi ha subito<br />

assunto. Sono entrato in banca nel ’47, a<br />

vent’anni, e sono uscito nel ’95.<br />

Hai lavorato sempre nella stessa banca?<br />

No. Ho cambiato quattro banche per motivi <strong>di</strong> carriera.<br />

Nei primi vent’anni come impiegato<br />

d’or<strong>di</strong>ne. Nei secon<strong>di</strong> vent’anni come addetto alle<br />

pubbliche relazioni.<br />

E quando hai cominciato a scrivere?<br />

Verso i trent’anni, dopo un periodo in cui mi sono<br />

interessato <strong>di</strong> musica (suonavo la chitarra, ho stu<strong>di</strong>ato<br />

anche alla Scuola musicale <strong>di</strong> Milano). Mio<br />

fratello aveva già cominciato a scrivere per suo<br />

conto e frequentava l’ambiente del Verri, in cui<br />

era <strong>di</strong>ventato segretario. Anch’io, che avevo avuto<br />

sempre passione letteraria, ho cominciato a scrivere.<br />

Per imitazione <strong>di</strong> tuo fratello?<br />

No. Certo c’era uno stimolo in più. Però lui scriveva<br />

prosa. Aveva cominciato anche con qualche<br />

poesia che m’aveva fatto leggere e che per la verità<br />

mi piaceva, ma non aveva quelle caratteristiche<br />

<strong>di</strong> novità, <strong>di</strong> forza e <strong>di</strong> originalità che sono importanti<br />

per scrivere poesia. Era perciò passato alla<br />

prosa, più consona alle sue possibilità. Io invece<br />

ho cominciato subito con la poesia.<br />

Ti eri posto il problema <strong>di</strong> pubblicare?<br />

All’inizio avevo dato a mio fratello alcune poesie<br />

che a lui piacevano. Le ha fatte vedere a Porta, il<br />

quale non era tanto convinto. Poi le ha date a Alfredo<br />

Giuliani che abitava a Roma. Lui ha detto: -<br />

No, le poesie <strong>di</strong> Pontiggia non mi piacciono. Ma<br />

quanti anni ha questo Pontiggia? Comunque lasciamolo<br />

lavorare. Queste ultime parole mi sono<br />

rimaste impresse. Pensavo a un successo rapido e,<br />

visto che a Peppo piacevano queste mie prime poesie,<br />

pensavo che avrebbe potuto pubblicarle sul<br />

Verri. Invece ero stato bocciato.<br />

Come hai reagito?<br />

Ero molto contristato, però ho pensato: ora mi<br />

concentro, lasciamo perdere la pubblicazione. Lavoro<br />

e basta. E infatti mi sono concentrato sulla<br />

scrittura. Per un certo periodo <strong>di</strong> tempo ho avuto<br />

come interlocutore sempre il Peppo, che d’altra<br />

parte si rivolgeva a me per verifiche, correzioni,<br />

ecc. Poi sono andato avanti da solo.<br />

E quando sei arrivato alla pubblicazione?<br />

Il primo libro, che è L’aspetto occidentale del vestito,<br />

l’ho pubblicato a 49 anni. Ma il mio primo<br />

e<strong>di</strong>tore è stato Giancarlo Majorino, che mi ha<br />

pubblicato sulla rivista Il corpo nel ’64. Avevo 37<br />

anni. Quin<strong>di</strong> dopo sette anni <strong>di</strong> lavoro, <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne.<br />

In quel periodo <strong>di</strong> lavoro solitario seguivi il <strong>di</strong>battito<br />

letterario?<br />

No. Ero completamente fuori dagli ambienti letterari<br />

milanesi e nazionali. Ad<strong>di</strong>rittura, quando è<br />

uscito il libro che ha avuto successo – intanto me<br />

l’aveva chiesto ad<strong>di</strong>rittura Raboni e io non pensavo<br />

<strong>di</strong> pubblicarlo perché non era ancora finito e<br />

ne ha parlato Giu<strong>di</strong>ci sul Corriere della sera e poi<br />

ho avuto molte altre recensioni - io ero in banca a<br />

lavorare. Non facevo nessuna vita <strong>di</strong> relazione.<br />

Degli scrittori conoscevo solo Majorino. Poi il<br />

Peppo aveva fatto vedere il mio lavoro a Sereni, il<br />

quale l’ha fatto uscire sul primo numero de<br />

L’Almanacco dello specchio. Però io Sereni non<br />

l’ho mai frequentato.<br />

E come mai non ti facevi vivo neppure con Sereni?<br />

Non avevo curiosità per il mondo dei letterati.<br />

E cosa t’incuriosiva invece? Da cosa eri occupato?<br />

Dalla vita in generale.<br />

Ma allora in cosa consisteva la vita per te?<br />

Poliscritture/Letture d’autore 49


Consisteva nel vivere con mia moglie, coi miei<br />

figli. Sono sempre stato fuori da questi ambienti<br />

<strong>di</strong> letterati. E anche le mie letture mi spingevano a<br />

rimanere fuori. Ho sempre avuto una <strong>di</strong>ffidenza<br />

delle riunioni. Poi, quando sono uscito dal lavoro<br />

in banca e ho comiciato a partecipare a qualche<br />

lettura e poi anche alla vita pubblica, mi sono reso<br />

conto che davvero sono più le spine che le rose.<br />

Invi<strong>di</strong>e e meschinerie non mancano. A partire da<br />

una certa epoca il primo che si è interessato molto<br />

al mio lavoro e nel ’72 sul Ragguaglio librario<br />

ha scritto una <strong>critica</strong> e poi è venuto a trovarmi ed<br />

è <strong>di</strong>ventato mio amico è stato Cucchi. Anceschi<br />

ne aveva parlato nel ’70, Raboni nel ’71.<br />

Ti hanno giovato queste critiche?<br />

Mi hanno aiutato psicologicamente.<br />

Nell’attrito tra due epoche<br />

Da quanto mi <strong>di</strong>ci devo pensare che mai, e soprattutto<br />

da quando hai cominciato a lavorare<br />

in banca, ti sei interessato <strong>di</strong> politica?<br />

In un certo senso <strong>di</strong> politica non mi sono mai interessato.<br />

Ma in un altro senso io <strong>di</strong> politica vivo,<br />

perché continuamente polemizzo contro le false<br />

informazioni e la faziosità.<br />

Ma questo più che vivere <strong>di</strong> politica a me pare<br />

vivere una contrad<strong>di</strong>zione interiore. È come se<br />

tu fossi ancora immerso emotivamente in quel<br />

periodo della tua giovinezza, nel suo mito e ti<br />

ritrovassi poi <strong>di</strong>sarmato in un’epoca che ti<br />

sembra la sua completa negazione. La tua esperienza<br />

<strong>di</strong> uomo maturo, sconfitto dalla storia<br />

(«soccombente» come <strong>di</strong>ci) è in attrito col<br />

tempo in cui vivi. Come ti gestisci questo attrito<br />

fra due epoche storiche che a me pare tremendo?<br />

Sì, sono stato per molto tempo in attrito con la<br />

storia successiva <strong>di</strong> questo Paese.<br />

Mi fai venire in mente una poesia <strong>di</strong> Fortini che<br />

ha colto questo dramma dello scontro tragico<br />

tra due epoche e due mo<strong>di</strong> contrapposti <strong>di</strong> sentirle,<br />

riconoscendo però la comune sostanza<br />

umana dei contendenti. Senti:<br />

Quel giovane tedesco<br />

Quel giovane tedesco<br />

ferito sul Lungosenna<br />

ai pie<strong>di</strong> d’una casa<br />

durante l’insurrezione<br />

che moriva solo<br />

mentre Parigi era urla<br />

intorno all’ Hôtel de Ville<br />

e moriva senza lamenti<br />

la fronte sul marciapiede.<br />

Quel fascista a Torino<br />

che sparò per due ore<br />

e poi scese per strada<br />

con la camicia can<strong>di</strong>da<br />

i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>stinti<br />

e <strong>di</strong>sse an<strong>di</strong>amo pure<br />

asciugando il sudore<br />

con un foulard <strong>di</strong> seta.<br />

.....<br />

[da F. Fortini, Una volta per sempre. Poesie<br />

1938-1973, Einau<strong>di</strong> 1978]<br />

Anche Fenoglio, uno scrittore che ammiro molto,<br />

ha saputo rendere omaggio ai combattenti delle<br />

opposte fazioni.<br />

Nota <strong>di</strong> E.A. Queste due conversazioni con<br />

Giampiero Neri sono tappe del mio avvicinamento<br />

critico a una figura umana affabile e<br />

ferma e alla sua poesia, limpida ma complessa<br />

e inquieta. Come si capisce dall’andamento del<br />

colloquio, entrambi concor<strong>di</strong>amo<br />

sull’importanza nella sua poesia della storia<br />

tragica (in particolare per l’Italia) del Novecento,<br />

che a me pare anzi la fonte reale decisiva.<br />

Ma ad essa guar<strong>di</strong>amo attraverso il filtro <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ssimili esperienze <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> concezioni del<br />

mondo. Neri - sulla scorta <strong>di</strong> Darwin, della saggezza<br />

antica e <strong>di</strong> quello che definisce un «vago<br />

teismo» - tende a mantenerla sullo sfondo, a<br />

sentirla come inenarrabile ferita, a pensarla<br />

come teatro naturale o fiume vorticoso d’eventi,<br />

che gli uomini possono vivere o da vincitori o<br />

da vinti ma non giu<strong>di</strong>care e tantomeno orientare<br />

in senso razionale. Io - sinteticamente - da<br />

un’ottica segnata soprattutto dalle lotte sociali<br />

del ’68-’69 e che non abbandona la lezione cristiana<br />

e quella marxiana. Da qui forse la postura<br />

rispettosamente “duellante” <strong>di</strong> entrambi.<br />

Che non scalfisce un’amicizia in apparenza insolita,<br />

ma paradossalmente fertile e che si va<br />

consolidando anche nella con<strong>di</strong>rezione assieme<br />

ad altri de Il Monte Analogo, una «rivista <strong>di</strong><br />

poesia e <strong>ricerca</strong>» da Neri ispirata. Spero che<br />

queste conversazioni possano continuare a lungo<br />

e confluire, assieme ad altri miei appunti sui<br />

suoi scritti, da me tar<strong>di</strong>vamente scoperti, in un<br />

saggio che ho in mente <strong>di</strong> scrivere.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 50


- Andrea Boeri: Secolarizzazione e legittimità<br />

dell’età moderna. Considerazioni sulla <strong>critica</strong><br />

<strong>di</strong> Blumenberg alla filosofia della storia <strong>di</strong><br />

Löwith<br />

In Significato e fine della storia, Karl Löwith, affrontando<br />

più esplicitamente presupposti peraltro<br />

già contenuti in una delle sue opere più conosciute,<br />

Da Hegel a Nietzsche, delinea quello che Blumenberg<br />

definisce il teorema della secolarizzazione:<br />

un tentativo <strong>di</strong> delegittimazione della modernità,<br />

attuato me<strong>di</strong>ante l’analisi dei motivi teologici<br />

peculiari della moderna filosofia della storia. Questo,<br />

nel tentativo <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare come le <strong>di</strong>fferenti<br />

formulazioni dottrinali da esse ricevute nel corso<br />

dello sviluppo del pensiero europeo sino a Hegel,<br />

Comte e Marx, siano riconducibili alla visione<br />

storica biblico-cristiana. Se infatti, da un lato,<br />

l’opera <strong>di</strong> Löwith intende evidenziare la sostanziale<br />

derivazione della filosofia della storia dalla teologia<br />

della salvezza, dall’altro, cerca anche <strong>di</strong><br />

mettere in luce l’inevitabile fallimento in cui essa<br />

sarebbe incorsa, in quanto, pur sostituendo alla<br />

fede nella provvidenza <strong>di</strong>vina la fede nel progresso<br />

umano, oppure quella nella realizzazione dello<br />

“spirito del mondo” o nell’avvento della società<br />

senza classi, rimanendo vincolata alla prospettiva<br />

teologica, avrebbe conservato un’impronta teologica.<br />

Per Löwith, “… sembra che le due concezioni<br />

dell’antichità e del cristianesimo – il movimento<br />

ciclico e l’orientamento escatologico – abbiano<br />

esaurito la possibilità della comprensione<br />

della storia “ (1), in modo tale che le interpretazioni<br />

più recenti non sarebbero altro che variazioni<br />

<strong>di</strong> questi due principi. Ciò in cui la concezione<br />

ciclica si <strong>di</strong>fferenzierebbe inequivocabilmente da<br />

quella giudaico-cristiana sarebbe l’ab<strong>di</strong>cazione<br />

rispetto allo sforzo <strong>di</strong> conoscere il senso ultimo<br />

della storia, poiché, in base alla concezione classica<br />

del mondo, tutto si muoverebbe in un eterno<br />

ricorso determinato dalla coincidenza <strong>di</strong> principio<br />

e fine. Non s’intende in questa sede affrontare la<br />

pur rilevante questione relativa alla legittimità <strong>di</strong><br />

una così ampia schematizzazione della concezione<br />

storica classica, sebbene essa costituisca uno dei<br />

fondamenti teorici essenziali del pensiero <strong>di</strong> Löwith<br />

che non a caso, in Nietzsche e l’eterno ritorno,<br />

presenta la cosmologia nietzscheana come la<br />

visione della storia più prossima a quella pagana e<br />

come l’autentica alternativa alla crisi filosofica<br />

seguita alla crisi dell’idealismo hegeliano. Quello<br />

che invece risulta importante evidenziare è come<br />

la considerazione del tra<strong>di</strong>mento che<br />

l’interpretazione teologica della storia avrebbe<br />

operato dell’autenticità originaria <strong>di</strong> quella pagana<br />

si rifletta, in un secondo momento, nella denuncia<br />

della illegittimità della concezione storica moderna,<br />

che, volendo “ … rappresentare la storia come<br />

un progresso significativo anche se indefinito,<br />

verso un compimento immanente “ ( 2), rimarrebbe<br />

vincolata all’attesa escatologica. La modernità,<br />

pur cercando <strong>di</strong> liberarsi dalla fede cristiana, concependo<br />

ancora il passato come preparazione ed il<br />

futuro come compimento, ne conserverebbe i presupposti,<br />

tanto che la storia della salvezza non <strong>di</strong>verrebbe<br />

altro che una teologia dello sviluppo<br />

progressivo: la filosofia della storia e la sua <strong>ricerca</strong><br />

del senso dello sviluppo storico “ … sono scaturite<br />

dalla fede escatologica in un fine ultimo della<br />

salvezza “ (3). Perciò, la scoperta da parte della<br />

modernità del significato che spieghi il <strong>di</strong>venire<br />

storico e ciò verso cui si orienta non sarebbe altro<br />

che la secolarizzazione della speranza teologica<br />

nell’avvento del regno dei cieli. In essa sarebbe da<br />

<strong>ricerca</strong>rsi la ragione del fallimento del progetto<br />

moderno <strong>di</strong> una fondazione scientifica della <strong>di</strong>mensione<br />

dell’attesa, dato che il senso del mondo<br />

e della storia si sottraggono alla conoscenza: “ Ricercare<br />

seriamente il senso ultimo della storia supera<br />

ogni possibilità conoscitiva “ (4). Questo è il<br />

motivo inoltre per cui Löwith si domanda: “ Chi<br />

non sarebbe <strong>di</strong>sposto a considerare saggia e oggettiva<br />

la concezione antica “ - per la quale il problema<br />

della conoscenza del significato ultimo della<br />

storia neppure si pone, poiché tutto si muove in<br />

un eterno ricorso che nega il principio del senso<br />

storico-universale <strong>di</strong> un singolo evento – “ …<br />

mentre la fede ebraica “ – quin<strong>di</strong> anche la sua secolarizzazione,<br />

- “ che eleva la speranza a virtù<br />

morale e a dovere religioso sembra essere tanto<br />

folle quanto esaltata ? “. La <strong>critica</strong> che Blumenberg,<br />

in Legittimità dell’età moderna, muove nei<br />

confronti del “ teorema della secolarizzazione “<br />

intende primariamente affermare il rifiuto della<br />

riduzione della moderna filosofia della storia alla<br />

teologia giudaico-cristiana. Se il teorema della secolarizzazione<br />

è il corollario dell’idea <strong>di</strong> una continuità<br />

che regolerebbe il <strong>di</strong>venire storico – nel caso<br />

<strong>di</strong> Löwith la regolarità della concezione ciclica<br />

classica della storia – egli, cercando <strong>di</strong> mostrare<br />

l’autentica novità che caratterizzerebbe l’età moderna,<br />

evidenzia come la storia non sia una totalità<br />

in cui è possibile riscontrare unicamente delle<br />

continuità, ma anche delle sostanziali <strong>di</strong>scontinuità.<br />

Pur riconoscendo l’intima connessione tra passato<br />

e presente, Blumenberg considera fortemente<br />

riduttiva la tesi secondo cui il mondo sarebbe una<br />

“ … costante la cui affidabilità permetterebbe <strong>di</strong><br />

attendersi che nel processo storico una situazione<br />

originaria debba ripresentarsi in modo palese “<br />

(6). Se si considera la secolarizzazione come il recupero<br />

mondanizzato <strong>di</strong> un’originarietà perduta<br />

Poliscritture/Letture d’autore 51


con il cristianesimo se ne compromette la comprensione<br />

storica. La questione non è da porsi nei<br />

termini <strong>di</strong> un dualismo interpretativo assoluto, per<br />

cui la secolarizzazione <strong>di</strong>verrebbe espressione <strong>di</strong><br />

uno smarrimento più apparente che reale <strong>di</strong> presupposti<br />

originariamente dati, oppure momento <strong>di</strong><br />

assoluta frattura emancipativa rispetto al mondo<br />

della trascendenza. Se nel primo caso viene postulato<br />

un sostanzialismo storico incapace <strong>di</strong> cogliere<br />

le <strong>di</strong>scontinuità della storia, nell’altro, si sottrae<br />

alla comprensione la possibilità d’in<strong>di</strong>viduare anche<br />

le identità in esse presenti: “ Non va dunque il<br />

concetto <strong>di</strong> secolarizzazione al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ciò che può<br />

essere ottenuto nella comprensione <strong>di</strong> strutture e<br />

processi storici, proprio perché implica non solo<br />

una <strong>di</strong>pendenza ma anche … una <strong>di</strong>scontinuità ra<strong>di</strong>cale<br />

delle appartenenze senza che al tempo stesso<br />

se ne muti l’identità ? “ (7) Affermare la presenza<br />

<strong>di</strong> una <strong>di</strong>scontinuità ra<strong>di</strong>cale nell’identità<br />

significa, in primo luogo, rilevare come nella sua<br />

funzione ermeneutica “ … il concetto <strong>di</strong> mondanizzazione<br />

non consente al risultato della secolarizzazione<br />

<strong>di</strong> separarsi dal proprio processo e <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ventare autonomo “ (8). Questo perché, in particolar<br />

modo nella sua accezione gadameriana, esso<br />

sarebbe, nell’ambito del <strong>di</strong>venuto, più la conseguenza<br />

<strong>di</strong> ciò che nei processi storici resta celato<br />

che non <strong>di</strong> ciò che si manifesta. In tal modo,<br />

l’applicabilità del concetto <strong>di</strong> secolarizzazione acquisterebbe<br />

un’estensione quasi illimitata: la questione<br />

della certezza teoretica nella gnoseologia<br />

moderna come secolarizzazione del problema cristiano<br />

fondamentale della certezza della salvezza,<br />

la moderna etica del lavoro come secolarizzazione<br />

della santità, le attese politiche del Manifesto del<br />

partito comunista come secolarizzazione del para<strong>di</strong>so<br />

biblico, l’idea <strong>di</strong> progresso come trasfigurazione<br />

<strong>di</strong> una concezione provvidenzialistica della<br />

storia. Viceversa, ammettere la correlazione tra<br />

<strong>di</strong>scontinuità ed identità comporta, per Blumenberg,<br />

il riconoscimento <strong>di</strong> come i processi <strong>di</strong> trasformazione<br />

e <strong>di</strong>ssolvimento siano da intendersi<br />

non come il riproporsi della medesima sostanza<br />

originaria <strong>di</strong>ssimulata, ma come “… il trasferimento<br />

in nuove funzioni, permanendo identica<br />

una sostanza costante “. (9) Tale permanenza, tuttavia,<br />

non ha nulla a che vedere con il sostanzialismo<br />

storico, nella misura in cui il concetto <strong>di</strong> “<br />

rioccupazione” costituisce il perno sul quale si e<strong>di</strong>fica<br />

un modello storico funzionale: “ Ciò che è<br />

accaduto, finora con poche eccezioni specifiche,<br />

nel processo interpretato come secolarizzazione<br />

può essere descritto non come trasposizione <strong>di</strong><br />

contenuti assolutamente teologici nella loro autoalienazione<br />

secolare, ma come nuova occupazione<br />

<strong>di</strong> posizioni <strong>di</strong>venute vacanti, da parte <strong>di</strong> risposte<br />

le cui relative domande non poterono essere eliminate”<br />

(10) . Quella che Blumenberg propone<br />

non è dunque un’identità <strong>di</strong> contenuti, come nel<br />

caso <strong>di</strong> Löwith, ma <strong>di</strong> funzioni: “ In determinati<br />

luoghi del sistema <strong>di</strong> interpretazione del mondo e<br />

<strong>di</strong> sé da parte dell’uomo, contenuti del tutto eterogenei<br />

possono assumere funzioni identiche. Nella<br />

nostra storia questo sistema è stato determinato in<br />

modo decisivo dalla teologia cristiana “ (11). Ciò<br />

significa che nel caso in cui all’interno <strong>di</strong> una determinata<br />

concezione della realtà emergono delle<br />

infondatezze, essa lascia in ere<strong>di</strong>tà le questioni irrisolte<br />

perché, inserite all’interno <strong>di</strong> un nuovo<br />

contesto, possano trovare <strong>di</strong>fferenti risposte. Sulla<br />

base <strong>di</strong> tale presupposto emergerebbe, a parere <strong>di</strong><br />

Blumenberg, un nuovo assestamento concettuale<br />

che, considerando le certezze del passato come<br />

puro dogmatismo, rappresenterebbe una svolta<br />

epocale e, quin<strong>di</strong>, la legittimità dell’età moderna,<br />

la cui singolarità troverebbe espressione nel fatto<br />

che essa “ … non ricorre tanto a ciò che le preesiste,<br />

anzi vi si oppone e ne raccoglie la sfida “ (12).<br />

Al contrario, nel teorema della secolarizzazione si<br />

deve riscontrare un’utilizzo in<strong>di</strong>rettamente teologico<br />

<strong>di</strong> quelle <strong>di</strong>fficoltà che sono sorte storicamente<br />

nel tentativo filosofico dell’inizio dell’età<br />

moderna. Nel capitolo dell’opera citata, Il progresso<br />

nel suo <strong>di</strong>svelamento quale destino, Blumenberg<br />

polemizza esplicitamente con le tesi <strong>di</strong><br />

Significato e fine della storia <strong>di</strong> Löwith, per il<br />

quale “ … la mondanizzazione del cristianesimo e<br />

il suo passaggio alla modernità <strong>di</strong>viene una <strong>di</strong>fferenziazione<br />

quasi insignificante, non appena egli<br />

abbia colto l’unica frattura epocale che avesse<br />

prodotto in un solo atto la decisione per il Me<strong>di</strong>oevo<br />

e l’età moderna: l’allontanamento dal “cosmos”<br />

pagano e dalla sua concezione ciclica e<br />

l’adesione all’azione temporale unica <strong>di</strong> tipo biblico-cristiana<br />

“ (13). Di conseguenza, come rilevato<br />

precedentemente, Löwith perveniva alla conclusione<br />

della sostanziale impossibilità <strong>di</strong> una filosofia<br />

della storia autonoma, dopo aver mostrato<br />

la derivazione <strong>di</strong> essa dalla teologia della salvezza.<br />

In tal modo, anche l’idea <strong>di</strong> progresso su cui è<br />

imperniata la moderna concezione della storia non<br />

assumerebbe altra funzione che quella della provvidenza:<br />

“ Le interpretazioni della storia in termini<br />

<strong>di</strong> progresso e <strong>di</strong> decadenza, da Voltaire e<br />

Rousseau fino a Marx e Sorel, sono il tardo ma<br />

ancora valido prodotto della teoria biblica della<br />

salvezza e della per<strong>di</strong>zione. “. (14)<br />

L’idea <strong>di</strong> progresso <strong>di</strong>viene il motivo determinante<br />

della comprensione storica moderna solo entro<br />

“ … l’orizzonte del futuro quale fu determinato<br />

dalla fede ebraica e cristiana contro la visione ciclica,<br />

e quin<strong>di</strong> priva <strong>di</strong> speranza, del paganesimo<br />

Poliscritture/Letture d’autore 52


classico”. Nonostante lo sforzo <strong>di</strong> emancipazione<br />

dalla teologia, “ l’irreligione del progresso rimane<br />

una sorta <strong>di</strong> religione “ derivata dalla fede cristiana<br />

in un fine ultimo. Blumenberg, pur non negando<br />

l’influenza del Cristianesimo sulla modernità,<br />

ritiene tuttavia che vi sia una <strong>di</strong>fferenza formale<br />

per cui sarebbe ingiustificata una netta trasposizione<br />

dell’idea <strong>di</strong> progresso nell’escatologia cristiana:<br />

“ … un’escatologia parla <strong>di</strong> un evento che<br />

fa irruzione nella storia ma che le è eterogeneo e<br />

la trascende, mentre l’idea <strong>di</strong> progresso estrapola<br />

da una struttura esistente in ogni presente un futuro<br />

immanente nella storia “. Questo sganciamento<br />

dalla prospettiva <strong>di</strong> una trascendenza che orienta<br />

teleologicamente il <strong>di</strong>venire storico costituisce,<br />

per Blumenberg, la premessa<br />

dell’autoaffermazione umana nella storia<br />

all’interno del cui sviluppo l’idea <strong>di</strong> progresso “…<br />

è l’autogiustificazione permanente del presente<br />

attraverso il futuro “. (17) Questo presuppone che<br />

l’uomo cominci ad essere “ colui che fa la storia “<br />

e non colui che in essa agisce solo conformemente<br />

ad un or<strong>di</strong>ne temporale predeterminato ed estraneo<br />

alla sua volontà. Per Löwith, ciò che accomuna<br />

cristianesimo e paganesimo, nonostante essi<br />

fon<strong>di</strong>no la loro comprensione della storia su due<br />

opposte concezioni del tempo, è la negazione della<br />

possibilità umana <strong>di</strong> autogiustificare il senso<br />

storico del mondo: “ … se destino significa un potere<br />

superiore <strong>di</strong> cui non possiamo <strong>di</strong>sporre, ma<br />

che <strong>di</strong>rige la nostra storia, allora il fato è paragonabile<br />

alla provvidenza <strong>di</strong>vina “. Ovviamente, rispetto<br />

a tale “ profonda venerazione del destino<br />

ovvero della provvidenza, la moderna fede secolare<br />

nella progressiva possibilità <strong>di</strong> dominare il<br />

mondo sarebbe apparsa una bestemmia ad entrambi<br />

“ (18). Quest’ultima affermazione potrebbe<br />

apparire un implicito riconoscimento del carattere<br />

emancipativo ed innovativo della modernità. In<br />

realtà, se l’autentica concezione della storia è da<br />

far risalire alla visione fatalistica classica, e se la<br />

temporalità escatologica biblico-cristiana rappresenta<br />

il tra<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> essa, allora l’illegittimità <strong>di</strong><br />

quest’ultima non può che riflettersi anche<br />

sull’idea moderna <strong>di</strong> progresso, secolarizzazione<br />

della fede nella salvezza. Perciò l’autofondazione<br />

umana del senso della storia non può che essere<br />

un’illusione creata dalla mistificazione della verità<br />

destinale che governa il mondo. Se, heideggerianamente,<br />

la verità è velamento e <strong>di</strong>svelamento,<br />

allora l’idea <strong>di</strong> progresso non è altro che una manifestazione<br />

del destino <strong>di</strong> cui l’uomo si ritiene<br />

illusoriamente artefice. In questo modo, Löwith,<br />

sottrae alla volontà umana proprio ciò in cui essa<br />

aveva creduto <strong>di</strong> poter confidare per determinare<br />

laicamente il proprio futuro, poiché, sostiene<br />

Blumenberg, “ … una tale visione della storia si<br />

priva della possibilità <strong>di</strong> ammettere e rappresentare<br />

l’autocoscienza dell’età moderna come epoca<br />

estrema e singolare “. (19)<br />

E’ necessario partire dal fatto che l’uomo fa la<br />

storia “, anche se questo “ … non significa affatto<br />

che ciò che è fatto sia <strong>di</strong>pendente soltanto dalle<br />

intenzioni e dalle regole a partire dalle quali esso<br />

è sorto “. (20) Questo, in quanto ogni singola azione<br />

si situa all’interno <strong>di</strong> un più vasto orizzonte<br />

delle possibilità storiche in cui sussiste “<br />

un’interazione dell’inter<strong>di</strong>pendenza integrante e<br />

<strong>di</strong>sgregante “: ciò implica che “ l’affermazione<br />

per cui la storia si fa vale nel senso <strong>di</strong> una facoltà<br />

non univoca <strong>di</strong> correlare azioni e risultati “.(21)<br />

NOTE<br />

1) K. Löwith, Significato e fine della storia, trad. it. <strong>di</strong><br />

F.T. Negri, Il Saggiatore, Milano, 1989, p.40<br />

2) Ibidem, p. 39<br />

3) Ibidem, p 25<br />

4) Ibidem, p24<br />

5) Ibidem p.234<br />

6) Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna,<br />

trad. it <strong>di</strong> C. Marelli, Marietti, Genova, 1992, p. 73<br />

7) Ibidem, p16<br />

8) Ibidem p.22<br />

9) Ibidem, p. 502<br />

10) Ibidem p.71<br />

11) Ibidem, p.70<br />

12) Ibidem, p. 201<br />

13) Ibidem, p. 34<br />

14) K.Löwith, op cit. p. 83<br />

15) Ibidem, p. 106<br />

16) H. Blumenberg, op. cit. p. 37<br />

17) Ibidem, p. 39<br />

- Mariella De Santis: Un io crudele e molteplice.<br />

In<strong>di</strong>vidualità e soggetto in Janet Winterson,<br />

Ingeborg Bachmann e Agota Kkristof.<br />

Non so se ho titolo per esprimermi genericamente<br />

sulla questione della scrittura femminile. Se esista,<br />

se sia un genere, se sia espressione <strong>di</strong> una scrittura<br />

<strong>di</strong> genere. E non so soprattutto quanto quello che<br />

io possa <strong>di</strong>re sia utile a volgere sguar<strong>di</strong> obliqui rispetto<br />

alla <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> nuove prospettive. È infatti <strong>di</strong><br />

ostacoli, <strong>di</strong> pensieri traversi che abbiamo bisogno<br />

per poter avanzare in spazi altrimenti ignoti.<br />

Quello che mi pare <strong>di</strong> sapere è che soggettività e<br />

storicità del soggetto in comunità, sono elementi<br />

inalienabili dell’esistenza, anche quando, accidentalmente,<br />

esse esercitano una presenza attraverso<br />

la scrittura.<br />

Da qui mi viene una riflessione sul concetto de ”il<br />

silenzio e la presenza”.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 53


In un recente volume antologico sulla poesia francese<br />

dal me<strong>di</strong>oevo ai nostri giorni, pubblicato,<br />

all’interno <strong>di</strong> un progetto e<strong>di</strong>toriale sulla poesia<br />

straniera, dal quoti<strong>di</strong>ano italiano La Repubblica ,<br />

trovo solo una presenza femminile, quella <strong>di</strong> Marie<br />

de France (seconda metà del secolo XII) e mi<br />

piacerebbe essere stata solo una lettrice <strong>di</strong>stratta<br />

dell’in<strong>di</strong>ce. Non offendo la <strong>cultura</strong> e l’amore per<br />

la poesia <strong>di</strong> nessuno facendo nomi che avrebbero<br />

potuto/dovuto trovare presenza nel volume e mi<br />

chiedo quali i motivi <strong>di</strong> questa scelta.<br />

Eppure sono questi per ora ignoti motivi che convincono<br />

sulla opportunità del porre in questione<br />

un tema quale quello della scrittura delle donne<br />

(accezione, sicuramente, da me pre<strong>di</strong>letta).<br />

Silenzio e presenza, <strong>di</strong>cevo. In un suo scritto<br />

sull’arte, Susan Sontang scrive che “Il silenzio<br />

mantiene le cose aperte”. E se al lavoro letterario<br />

e poetico delle donne guar<strong>di</strong>amo dall’angolo in<br />

cui più netto si percepisce il silenzio, non si può<br />

non giungere all’intuizione <strong>di</strong> un esercizio <strong>di</strong> presenza<br />

prima, apertura poi, che attraverso la scrittura<br />

le donne hanno tentato.<br />

Apertura alla visibile presenza? Sì anche, ma non<br />

solo. Apertura anche all’emersione <strong>di</strong> una lingua,<br />

<strong>di</strong> un linguaggio, <strong>di</strong> un molteplice che attraversa<br />

l’uni<strong>di</strong>mensionalità con cui si tende a ridurre la<br />

visione del mondo, sotto la pretesa <strong>di</strong> una esemplificazione<br />

paritetica.<br />

Il soggetto che in maniera spudorata si assume un<br />

compito <strong>di</strong> ostentazione, è l’Io. Ma se nella letteratura<br />

prodotta dalle donne, sino alla modernità (la<br />

poesia, in questo scritto, sia <strong>di</strong>a - con tutti le <strong>di</strong>stinzioni<br />

nobili che potrebbero essere avanzate –<br />

compresa nel letterario) questo Io rivelativo assumeva<br />

su <strong>di</strong> sé un valore <strong>di</strong> testimoniale indagine o<br />

presenza, nella letteratura contemporanea assistiamo<br />

all’emersione <strong>di</strong> un Io <strong>di</strong>latato, crudele e in<br />

sé molteplice. Ci viene <strong>di</strong>chiarata l’insorgenza <strong>di</strong><br />

un soggetto scrivente che ha assorbito il tempo<br />

senza lasciarsene assorbire.<br />

In questa nota breve, che ha il valore <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>zio,<br />

<strong>di</strong> una traccia ancora incerta, propongo con la rapinosità<br />

della sintesi un accostamento a tre autrici<br />

in cui l’Io crudele e molteplice si definisce tra in<strong>di</strong>vidualità<br />

e soggettività.<br />

Esse sono Janet Winterson, Ingeborg Bachmann e<br />

Agota Kristof. Per ognuna scelgo quale portolano<br />

uno dei loro libri, nell’or<strong>di</strong>ne: Arte e menzogne,<br />

Malina e Trilogia della città <strong>di</strong> K.. Romanzi dalle<br />

complesse e azzardate strutture narrative e inesorabili<br />

nella loro spietatezza, ovvero nella mancan-<br />

za <strong>di</strong> qualsivoglia compiacenza verso le vicende<br />

narrate.<br />

Di Arte e menzogne sono protagonisti Handel, un<br />

prete e chirurgo con un nascostissimo segreto, Picasso,<br />

pittrice in fuga dall’orrido domestico e familiare<br />

e Saffo, poetessa girovaga del tempo.<br />

Omici<strong>di</strong> o suici<strong>di</strong> tentati, sono incontri non inusuali<br />

della vicenda, accanto a padri reali o putativi<br />

castranti.<br />

Malina è il compagno/doppio della protagonista –<br />

chiamata semplicemente Io – che ha una parallela<br />

relazione sentimentale con Ivan, l’uomo che può<br />

rifondare Vocali e Consonanti. Sullo sfondo<br />

l’assassinio <strong>di</strong> Io, la presenza ossessiva <strong>di</strong> un padre,<br />

l’incapacità <strong>di</strong> ogni relazione <strong>di</strong> essere capiente<br />

per la forte densità <strong>di</strong> Io.<br />

Trilogia della città <strong>di</strong> K. narra <strong>di</strong> due gemelli affidati<br />

dalla madre alla terribile nonna. Senza più un<br />

padre, i due legano se stessi agli altri attraverso<br />

una catena <strong>di</strong> crudeltà <strong>di</strong> cui ci si rende conto lentamente<br />

e angosciosamente. Parlano al plurale e<br />

all’unisono come fossero un’unica coscienza.<br />

In nessuno <strong>di</strong> questi libri però la narrazione è affidata<br />

sempre allo stesso soggetto. La prima persona<br />

singolare <strong>di</strong> Handel, Picasso, Saffo, <strong>di</strong>viene<br />

terza o la prima plurale dei gemelli della Trilogia<br />

assume la prima singolare inaspettatamente quanto<br />

la terza; e solo apparentemente l’Io <strong>di</strong> Malina<br />

mantiene una stabilità poiché essendo egli un<br />

doppio, continuamente la responsabilità del <strong>di</strong>chiarato<br />

oscilla tra i tre soggetti del romanzo.<br />

Cosa sta a <strong>di</strong>re quest’avventura pronominale?<br />

Molto che possa qui esaurirsi o anche sod<strong>di</strong>sfacentemente<br />

approssimarsi.<br />

Ma senz’altro sta a rivelare una violenta appropriazione<br />

della soggettività storica ed umana delle<br />

scriventi. Tutte le narrazioni sono designate dentro<br />

spazi <strong>di</strong> conflitto a ridosso della Storia (la<br />

guerra, il nazismo, il potere temporale della Chiesa)<br />

ed è come se questi sdoppiamenti dell’Io stiano<br />

ad attestare quanto non possa più essere riconducibile<br />

all’uni<strong>di</strong>mensionalità la presenza dello<br />

scrittore donna.<br />

Non casualmente, peraltro, in questi tre libri incontriamo<br />

sempre il padre quale figura deprecabilmente<br />

insufficiente – se non avvilitoria - alla<br />

costruzione dell’or<strong>di</strong>ne o ad un suo mantenimento.<br />

Laddove l’or<strong>di</strong>ne del padre generando <strong>di</strong>sperazione<br />

e invisibilità, costringeva all’in<strong>di</strong>viduazione<br />

<strong>di</strong> postazioni strategicamente sopravvivenziali<br />

quali il ritiro nell’ombra protettiva <strong>di</strong> un convento<br />

Poliscritture/Letture d’autore 54


(Juana Ines de la Cruz), la sofferta e letale perseveranza<br />

(Isabella Morra), o del matrimonio talora<br />

funesto,talaltra intelligentemente beffardo, come<br />

quello in cui riuscivano le poetesse cortigiane del<br />

Cinquecento, si assiste nella contemporaneità alla<br />

messa in stato d’accusa <strong>di</strong> quel potere maschile<br />

che ha tentato sia la riduzione sepolcrale del femminile,<br />

quanto la guerra, la <strong>di</strong>struzione entro cui le<br />

donne hanno dovuto e potuto trovare motivi <strong>di</strong><br />

emersione.<br />

Una ribellione al padre che talvolta può parere<br />

senza mèta e che comporta paurosi salti nel vuoto.<br />

Il vuoto è la <strong>di</strong>mensione angosciosa che attraversa<br />

i tre romanzi <strong>di</strong> cui parliamo. Il vuoto volo suicida<br />

<strong>di</strong> Picasso (Winterson),delle stanze della casa <strong>di</strong><br />

Io (Bachmann), dei confini vigilati dai militari<br />

(Kristof) in cui questi Io devono continuamente<br />

moltiplicarsi per non esserne assorbiti, occupare<br />

spazi <strong>di</strong> vuoto e addensarli. Di angoscia, <strong>di</strong> paura<br />

ma essendoci.<br />

Il vuoto sta anche a rappresentare quella <strong>di</strong>mensione<br />

sottrattiva che pare precedere la scrittura.<br />

Infatti, narrativamente spazio dell’azione <strong>di</strong>viene<br />

la scrittura non solo come atto dell’autore, ma<br />

quale elemento che a vario titolo è presente nelle<br />

vicende dei protagonisti qui presentati. In questi<br />

tre romanzi c’è sempre qualcuno che scrive. Scrivere<br />

è azione del pensiero. E ogni azione segna<br />

l’impossibilità <strong>di</strong> tornare in<strong>di</strong>etro. Per quanto possa<br />

essere incerto e incostante il <strong>di</strong>venire, non si<br />

rinuncia più ad esserne parti consapevoli.<br />

Non interessa più tentare varchi <strong>di</strong> presenza dalla<br />

periferia, ma arrogarsi attraverso la crudeltà <strong>di</strong><br />

questa in<strong>di</strong>vidualità moltiplicata, la riduzione al<br />

silenzio attraverso cui mantenere aperte le cose.<br />

Il silenzio però qui non è più quello della marginalità<br />

subalterna ma quello dello shock che segue<br />

sempre una irrime<strong>di</strong>abile rivelazione.<br />

L’umano appartiene alla storia e questa appartiene<br />

al soggetto femminile nel rischio dell’or<strong>di</strong>ne<br />

quanto del <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne. Del rumore e dell’afonia.<br />

Il linguaggio, in questi romanzi, è preciso sino al<br />

dolore, ma non definitivo se non nel momento<br />

della manifestazione. Esso, piuttosto, è perentorio.<br />

Nulla può più essere definitivo poiché queste tre<br />

autrici si collocano nello spazio del conflitto, un<br />

conflitto che non è antagonismo <strong>di</strong> genere ma esuberanza<br />

<strong>di</strong> vigore. La crudeltà inferta, subita,<br />

rappresentata dall’Io moltiplicato appartiene alla<br />

Storia quanto il loro essere donne scrittrici.<br />

L’autobiografia è arte e menzogna, scrive la Winterson<br />

con paradossale intelligenza, <strong>di</strong>chiarando<br />

così il primato dell’invenzione a partire proprio<br />

dal soggetto.<br />

Era assassinio, sono le parole che chiudono Malina.<br />

L’imperfetto denuncia continuità nel tempo <strong>di</strong><br />

un’azione che per la sua natura, l’assassinio, dovrebbe<br />

essere impossibilmente <strong>di</strong>chiarata dall ’Io<br />

che la subisce. Ma qui l’Io è attore e spettatore (<br />

moltiplicazione, ancora) della storia da cui non<br />

permette più estromissioni, neanche tramite la<br />

morte.<br />

Ahimè, la vita calma e tranquilla che mi ero immaginato<br />

si è molto rapidamente trasformata in<br />

un inferno, <strong>di</strong>ce uno degli enigmatici protagonisti<br />

della Kristof. Alienato lui come chiunque altro<br />

dall’illusione ideologica, esistenziale a cui si sopravvive<br />

solo moltiplicando gli orizzonti visivi,<br />

osando azioni spregiu<strong>di</strong>cate.<br />

Scritture esemplari, dunque <strong>di</strong> un’emersione <strong>di</strong><br />

soggettività consapevole, cosciente e storica. Crudeli<br />

tanto quanto il tempo da cui hanno preteso<br />

ascolto, benevole tanto quanto l’immenso movimento<br />

d’intelligenza ed emozione che procurano.<br />

Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 2<br />

Cara Mariella,<br />

meno <strong>di</strong> te, in teoria, avrei titolo <strong>di</strong> esprimermi sulla questione<br />

della scrittura al femminile, ma, visto che dal femminismo<br />

siamo stati attraversati, <strong>di</strong>co qualcosa sul tuo saggio, premettendo<br />

che non ho letto le opere che tu commenti e che quin<strong>di</strong><br />

le mie osservazioni- obiezioni scaturiscono unicamente da<br />

quanto tu <strong>di</strong>ci in esso e dal modo in cui lo <strong>di</strong>ci.<br />

“Il silenzio mantiene le cose aperte”(Sontag). Tanti i<br />

dubbi. Decenni fa, una scrittrice (francese mi pare, non ricordo<br />

se si chiamasse Marie Car<strong>di</strong>nal...) aveva scritto Le<br />

parole per <strong>di</strong>rlo. Cosa, invece, induce oggi a tornare a privilegiare<br />

il silenzio? E quale silenzio (Ve<strong>di</strong> dopo)? E poi il silenzio<br />

è, forse, solo delle donne? Esiste o no un’ambiguità<br />

del silenzio, per cui non è detto che esso mantenga con certezza<br />

«le cose aperte»?<br />

Nel silenzio presente nel lavoro letterario e poetico<br />

delle donne - mi pare <strong>di</strong> capire - tu ve<strong>di</strong> «un esercizio <strong>di</strong> presenza»,<br />

e cioè – sempre azzardando – la possibilità per le<br />

donne <strong>di</strong> far emergere «una lingua, [...] un linguaggio, [...] un<br />

molteplice che attraversa l’uni<strong>di</strong>mensionalità con cui si tende<br />

a ridurre la visione del mondo, sotto la pretesa <strong>di</strong> una esemplificazione<br />

paritetica».<br />

La cosa avverrebbe oggi attraverso «un Io <strong>di</strong>latato,<br />

crudele e in sé molteplice», che esemplifichi nei testi prescelti<br />

delle tre autrici esaminate. In nessuno <strong>di</strong> questi libri -<br />

affermi - la narrazione è affidata sempre allo stesso soggetto;<br />

e in questa «avventura pronominale» scorgi «una violenta<br />

appropriazione della soggettività storica ed umana delle scriventi».<br />

Le quali si muoverebbero «a ridosso [attenzione: «a<br />

ridosso» non equivale a «dentro», nota mia] della Storia (la<br />

guerra, il nazismo, il potere temporale della Chiesa)» e contro<br />

«il padre quale figura deprecabilmente insufficiente - se<br />

non avvilitoria - alla costruzione dell’or<strong>di</strong>ne o ad un suo man-<br />

Poliscritture/Letture d’autore 55


tenimento»; e, per estensione, contro «quel potere maschile<br />

che ha tentato sia la riduzione sepolcrale del femminile,<br />

quanto la guerra, la <strong>di</strong>struzione entro cui le donne hanno dovuto<br />

e potuto trovare motivi <strong>di</strong> emersione».<br />

Siamo alla classica <strong>critica</strong> femminista - e devo aggiungere<br />

- astorica (antropologica, se vogliamo) al patriarcato.<br />

Ora vada per la «ribellione al padre» (dal ’68 in poi non si<br />

è parlato d’altro, in termini spesso approssimativi...), ma il<br />

fatto che essa «può parere senza meta e che comporta paurosi<br />

salti nel vuoto» è un fatto su cui non si dovrebbe sorvolare<br />

o fermarsi alle impressioni.<br />

Sono state in<strong>di</strong>viduate delle mete (da queste scrittrici<br />

o da altre)? Sono stati limitati i «salti nel vuoto»? Se «il<br />

vuoto è la <strong>di</strong>mensione angosciosa che attraversa i tre romanzi»,<br />

se questi Io femminili - come <strong>di</strong>ci - «devono continuamente<br />

moltiplicarsi per non esserne assorbiti» (in sostanza<br />

non trovano pace, non maturano <strong>di</strong>rei con qualche malizia...)<br />

o devono - heideggerianamente - «esserci», ma solo<br />

nell’angoscia e nella paura, o trovano spazio (o azione) solo<br />

nella scrittura, a me pare che qualcosa non funzioni.<br />

«Scrivere è azione del pensiero»? Ma perché un<br />

pensiero deve/dovrebbe vedere solo nella scrittura le sue<br />

possibilità <strong>di</strong> azione? E perché ogni azione (=scrittura) dovrebbe<br />

comportare «l’impossibilità <strong>di</strong> tornare in<strong>di</strong>etro»? Questi<br />

io mi appaiono condannati ad un universo claustrofobico,<br />

all’incertezza del <strong>di</strong>venire, ad una consapevolezza irrinunciabile<br />

sì - come scrivi - ma impotente rispetto alla realtà, che<br />

non può ridursi alla scrittura.<br />

E che conquista umana o femminile sarebbe<br />

quest’«arrogarsi attraverso la crudeltà <strong>di</strong> questa in<strong>di</strong>vidualità<br />

moltiplicata, la riduzione al silenzio attraverso cui mantenere<br />

aperte le cose»? Moltiplicarsi non è necessariamente liberarsi.<br />

Altrettanto non lo è <strong>di</strong>ventare crudeli.<br />

Questa enfasi sul silenzio - ripeto -, che «però qui<br />

non è più quello della marginalità subalterna ma quello dello<br />

shock che segue sempre una irrime<strong>di</strong>abile rivelazione», finisce<br />

per presentarsi come puro dogma o spostare appunto il<br />

<strong>di</strong>scorso sul piano inverificabile della «rivelazione», che posso<br />

anche rispettare ma, come sai, <strong>di</strong>fficilmente è comunicabile<br />

o moltiplicabile.<br />

E poi come si fa a <strong>di</strong>re che la storia «appartiene al<br />

soggetto femminile nel rischio dell’or<strong>di</strong>ne quanto del <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne»<br />

oggi che si parla <strong>di</strong> «fine della storia» ed è tutto un pullulare<br />

osceno <strong>di</strong> revisionismi storici? Cos’è qui, per te, «la<br />

storia» o la «Storia»?<br />

E cos’è questo «conflitto che non è antagonismo <strong>di</strong> genere<br />

ma esuberanza <strong>di</strong> vigore», se esso (il conflitto) ha questo<br />

seguito <strong>di</strong> angosce, indefinitezze, ecc..? Cioè è senza meta<br />

identificabile. E cos’è - aggiungerei - quel «padre», <strong>di</strong> cui parlavi<br />

prima, se non l’assente Storia (o «storia») che resta - mi<br />

pare <strong>di</strong> capire da tutto quello che <strong>di</strong>ci sulle tre scrittrici - comunque<br />

sullo sfondo? Sei davvero convinta che questi io<br />

crudeli vogliano guardare in faccia la Storia (o la «storia»)?<br />

Se lo facessero o l’avessero fatto, mi metterei volentieri ad<br />

ascoltare la loro lezione.<br />

Scusa le rigi<strong>di</strong>tà che ti potranno parere parapatriarcali<br />

delle mie obiezioni<br />

Un caro saluto<br />

Ennio<br />

- Marco Gaetani: Sartre fuori moda<br />

Il 2005 è anno sartriano: l’uomo che scelse <strong>di</strong> essere<br />

Jean-Paul Sartre nacque infatti a Parigi il 21<br />

giugno del 1905. Il sistema delle ineluttabili recursività<br />

su cui si fonda ormai l’industria me<strong>di</strong>atico-istituzionale<br />

dell’”evento <strong>cultura</strong>le”, quel meccanismo<br />

combinatorio brillantemente descritto<br />

qualche anno fa da Maurizio Bettini, può forse offrire<br />

– la ricorrenza scattando “oggettivamente” –<br />

se non altro un’occasione per tornare a riflettere in<br />

maniera non solitaria (ed evitando,<br />

nell’unanimismo dominante, ogni accusa <strong>di</strong> estemporanea<br />

gratuità) sulla figura del “celebrando<br />

secondo il turno calendariale” (Contini). Certo<br />

non è facile in questi casi sottrarsi alla chiacchiera,<br />

sfuggire al turbinio effimero <strong>di</strong> cui<br />

s’ingrossano le pagine degli inserti <strong>cultura</strong>li. Si<br />

tratta tuttavia, per quanto possibile, <strong>di</strong> volgere a<br />

profitto l’incremento <strong>di</strong> pubblicazioni a stampa, la<br />

temporaneamente benevola <strong>di</strong>sposizione<br />

dell’u<strong>di</strong>enza, ed ogni altra circostanza virtualmente<br />

favorevole; <strong>di</strong> cogliere infine il pretesto<br />

dell’anniversario per qualche considerazione meno<br />

genericamente apologetica, oziosa, vacua o<br />

scandalistica.<br />

Al clima delle celebrazioni sartriane deve<br />

probabilmente qualcosa anche un recente volume,<br />

uscito negli ultimi mesi dell’anno scorso (e dunque<br />

in tempestivo anticipo sulla scadenza centenaria)<br />

per le cure <strong>di</strong> un valente stu<strong>di</strong>oso italiano <strong>di</strong><br />

Sartre, Giovanni Invitto 3 . Il libro costituisce la<br />

“trasposizione integrale della colonna sonora” <strong>di</strong><br />

un film biografico realizzato nei primi anni settanta<br />

e uscito in Francia nel 1976; la struttura <strong>di</strong>alogata<br />

conferisce al testo un andamento fluido e <strong>di</strong>vagante,<br />

da conversazione: la “voce” <strong>di</strong> Sartre si<br />

alterna con quelle dei suoi interlocutori (Simone<br />

De Beauvoir, Michel Contat, Alexandre Astruc,<br />

André Gorz, Jacques-Laurent Bost, Jacques Pouillon)<br />

e con quella “recitante” che inframmezza al<br />

<strong>di</strong>battito passi tratti dalle opere del filosofo;<br />

l’interazione <strong>di</strong>alogica riportata mantiene così<br />

qualcosa della oralità originaria, attrae il lettore<br />

riuscendo varia eppure sostenuta, nel toccare tanto<br />

problematiche <strong>di</strong> carattere schiettamente filosofico<br />

quanto argomenti tratti dall’attualità politica<br />

dell’epoca (Cuba, la tensione tra U. S. A. e U. R.<br />

S. S., l’Algeria, il Vietnam), con le note del curatore<br />

italiano che soccorrono puntualmente a precisare,<br />

informare, fornire dettagli su quei personaggi<br />

3 J.-P. Sartre, La mia autobiografia in un film. Una confessione,<br />

Christian Marinotti e<strong>di</strong>zioni, Milano 2004. Si tratta<br />

della prima traduzione italiana del volume e<strong>di</strong>to da Gallimard<br />

nel 1977 e intitolato semplicemente Sartre.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 56


e quelle situazioni al lettore o<strong>di</strong>erno non più trasparenti;<br />

<strong>di</strong>dascalie a margine del testo riferiscono<br />

infine delle immagini e dei suoni che nella pellicola<br />

costituiscono o integrano la testura au<strong>di</strong>ovisiva.<br />

Non mancano, nel corso della conversazione,<br />

la rievocazione autobiografica (con alcuni aneddoti<br />

sapi<strong>di</strong> ma ad una lettura non superficiale<br />

provvisti <strong>di</strong> una loro più significativa valenza: si<br />

veda per tutti il ricordo dell’incontro con Lukács)<br />

e alcune estemporanee boutades del protagonista,<br />

degne <strong>di</strong> essere ricordate a testimonianza della vitalità<br />

<strong>di</strong> un esprit che a <strong>di</strong>spetto delle interpretazioni<br />

virate al nero dell’Esistenzialismo non si<br />

sottrae al buonumore ed alla franca risata (così<br />

càpita <strong>di</strong> raccogliere una perla <strong>di</strong> misoginia dalle<br />

labbra del niente affatto misogino Sartre: “amo<br />

molto essere con una donna perché non amo la<br />

conversazione <strong>di</strong> idee”). Il testo - collocandosi<br />

all’incrocio tra narrativa, saggio, <strong>di</strong>alogato teatrale<br />

- offre insomma un esempio <strong>di</strong> assai alta <strong>di</strong>vulgazione,<br />

con l’opportunità <strong>di</strong> ripercorrere<br />

l’esperienza umana e intellettuale del pensatore<br />

parigino senza immergersi in testi<br />

dall’argomentazione teoricamente più impegnativa.<br />

Anche sulla scorta <strong>di</strong> questo salutare promemoria<br />

è così possibile procedere ad una rapida<br />

ricognizione dell’attualità del pensiero sartriano.<br />

Cercando <strong>di</strong> evitare i due opposti rischi: non si<br />

tratta <strong>di</strong> stabilire – tribunale dei posteri - ciò che<br />

vivo e ciò che è morto della filosofia <strong>di</strong> Sartre, e<br />

neppure <strong>di</strong> aderire ad una prospettiva invece frettolosamente<br />

totalizzante, del genere “tutto o niente”.<br />

Sartre è del resto, sicuramente, pensatore problematico<br />

e controverso per definizione, propenso<br />

ai continui rimaneggiamenti delle proprie posizioni<br />

(espressioni del tipo “oggi ritengo che…”, a lui<br />

consuete, sono molto più che una <strong>di</strong>visa <strong>di</strong> prudente<br />

saggezza, e nient’affatto riconducibili a<br />

qualsivoglia forma <strong>di</strong> scetticismo relativistico);<br />

resta tuttavia vero ciò che anche la <strong>critica</strong> a lui<br />

maggiormente avversa non manca <strong>di</strong> riconoscergli,<br />

vale a <strong>di</strong>re che alcuni nuclei <strong>di</strong> fondo della sua<br />

concezione sostanzialmente non mutarono mai<br />

(prima tra tutte le costanti, quella verità – davvero<br />

“incon<strong>di</strong>zionata” - per cui vale sempre il “contatto<br />

della coscienza con se stessa” 4 ). Ragione per la<br />

quale non risulta possibile isolare nel pensiero <strong>di</strong><br />

Sartre singoli aspetti ancora vitali e fecon<strong>di</strong> e prescindere<br />

da altri invece ritenuti “invecchiati”, trascegliendo<br />

in<strong>di</strong>scriminatamente e a piacimento<br />

entro le coor<strong>di</strong>nate <strong>di</strong> una teorizzazione che ha<br />

una sua forma <strong>di</strong> sistematicità 5 .<br />

4 Ivi, pp. 104-5.<br />

5 Sull’”unità” del pensiero sartriano cfr. ivi, p. 94.<br />

Non è meno vero, d’altra parte, che<br />

l’oggetto-Sartre non si può probabilmente assumere<br />

all’or<strong>di</strong>ne del giorno nella sua interezza senza<br />

un complessivo ripensamento critico che valga<br />

se non altro a riacclimatarlo rispetto ad una situazione<br />

storica, quella contemporanea, tanto <strong>di</strong>fferente<br />

da quella in cui esso venne a originarsi e maturò.<br />

Egualmente, non va taciuto che la <strong>cultura</strong><br />

occidentale – non si pensa qui soltanto alle aristocrazie<br />

intellettuali della più <strong>di</strong>versa estrazione ideologica<br />

- sembra aver risolto il <strong>di</strong>lemma volentieri<br />

rimuovendo in blocco un pensatore oggi sovente<br />

considerato inattuale, e comunque ingombrante.<br />

Sartre è davvero più che mai fuori moda, e<br />

come per l’Adorno <strong>di</strong> Fortini 6 ci si può però chiedere<br />

se almeno in Italia la voga sartriana sia stata<br />

mai davvero tale, al <strong>di</strong> là delle pose <strong>di</strong> alcuni e<br />

dell’impegno ermeneutico <strong>di</strong> un ristrettissimo<br />

numero <strong>di</strong> frequentatori in servizio effettivo e<br />

permanente. E comunque oggi, inequivocabilmente,<br />

il continente-Sartre non stimola viaggi<br />

d’esplorazione che non siano solitari; lo stesso<br />

Sartre-personaggio risulta facilmente antipatico, le<br />

sue scelte private, pubbliche, intellettuali sovente<br />

respingono; il pensiero sartriano (indubbiamente,<br />

malinconicamente “forte”) appare per sovrappiù<br />

inutilmente ostico, non concede all’interprete facili<br />

gratificazioni.<br />

Il volume curato da Invitto (del quale si<br />

raccomanda anche la bella “Nota in premessa”,<br />

che assume come titolo un lapsus “cartesiano” –<br />

“Sono dunque penso” - proferito in conversazione<br />

dal filosofo, e giustamente considerato dal curatore<br />

come altamente significativo della personalità e<br />

della concezione filosofica sartriane) permette <strong>di</strong><br />

ricapitolare i tanti Sartre che si sono succeduti dagli<br />

anni trenta ai settanta: dal punto <strong>di</strong> vista filosofico,<br />

ecco allora il passaggio dal fenomenologo<br />

dell’immaginario e dall’indagatore della trascendenza<br />

dell’Ego all’autore del libro capitale non<br />

solo del sartrismo ma <strong>di</strong> tutto l’orientamento esistenzialistico<br />

novecentesco: con L’Etre et le<br />

Néant, in effetti, l’Esistenzialismo <strong>di</strong>mostra <strong>di</strong> potersi<br />

sottrarre nettamente ad ogni tentazione <strong>di</strong> carattere<br />

mistico-religioso, che si tratti <strong>di</strong> una prospettiva<br />

à la Jaspers o <strong>di</strong> soluzioni <strong>di</strong> matrice heideggeriana.<br />

E poi la tappa successiva al lavoro<br />

sulla ontologia fenomenologica, quella Critique<br />

de la raison <strong>di</strong>alectique che ci consegna un Sartre<br />

definitivamente affrancato dal solipsismo, e un<br />

in<strong>di</strong>viduo “in situazione”; senza che l’itinerario si<br />

6 Il riferimento è ovviamente all’articolo pubblicato su “il<br />

manifesto” del 24 settembre 1989, ora nel secondo volume <strong>di</strong><br />

Disobbe<strong>di</strong>enze (Gli anni della sconfitta, scritti sul Manifesto<br />

1985-1994), Roma 1996 pp. 51-5.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 57


esaurisca: il lavoro speculativo successivo alla<br />

Critique presenta un autore ancora capace <strong>di</strong> imprimere<br />

al proprio pensiero correzioni originali e<br />

sostanziali 7 .<br />

Il mutamento ideologico <strong>di</strong> Sartre viaggia<br />

ovviamente <strong>di</strong> conserva rispetto alla sua evoluzione<br />

filosofica: basterebbe la menzione dei suoi<br />

rapporti con il marxismo, proverbialmente problematici<br />

e controversi, a restituirci l’immagine <strong>di</strong><br />

un intellettuale che “non ha mai accettato niente<br />

senza contestare” e che “ha sempre voluto <strong>ricerca</strong>re<br />

le cose per conto suo” 8 . E molto lunghi <strong>di</strong>scorsi<br />

meriterebbe certo anche la produzione romanzesca<br />

e teatrale, dal celeberrimo La Nausée fino<br />

all’adattamento <strong>di</strong> Le Troiane euripidee: una produzione<br />

vasta, sicuramente <strong>di</strong>seguale ma per molti<br />

aspetti anch’essa coerente, e sulla quale il tempo<br />

(i gusti del pubblico non meno che le valutazioni<br />

dei critici) sembra avere in effetti depositato una<br />

patina <strong>di</strong>fficilmente rimovibile; produzione tuttavia<br />

cui non si potrà negare il potere, oggimai raro,<br />

<strong>di</strong> restituire in profon<strong>di</strong>tà il clima <strong>di</strong> un’intera epoca,<br />

<strong>di</strong> rappresentarne le questioni vitali, <strong>di</strong> dare<br />

espressione ai problemi nevralgici (materiali e spirituali)<br />

per essa fronteggiati dalle coscienze in<strong>di</strong>viduali<br />

e politiche.<br />

Dire in breve dell’attualità <strong>di</strong> Sartre, senza<br />

aver modo <strong>di</strong> problematizzare, non è impresa possibile.<br />

Si cercherà qui <strong>di</strong> focalizzare soltanto tre<br />

aspetti rispetto ai quali il lascito sartriano può essere<br />

considerato ancor oggi prezioso. Va da sé che<br />

si tratta <strong>di</strong> tre questioni fortemente interrelate.<br />

Tornare all’esperienza, alla parola, al pensiero<br />

<strong>di</strong> Sartre tentando <strong>di</strong> farli reagire col tempo<br />

presente significa per prima cosa e soprattutto imbattersi<br />

in una figura <strong>di</strong> intellettuale che fa il suo<br />

mestiere con una estrema luci<strong>di</strong>tà e coerenza. Sartre<br />

è senz’altro, lo si usa <strong>di</strong>re, una delle ultime incarnazioni<br />

dell’intellettuale classico. Ma egli <strong>di</strong>mostra<br />

<strong>di</strong> essere continuamente ben consapevole<br />

della circostanza, e delle sue conseguenze.<br />

L’intellettuale, nella interpretazione sartriana, è<br />

per definizione nodo <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zioni che si riconosce<br />

come tale, (auto)coscienza infelice perpe-<br />

7 Se ne cerchi la testimonianza nei saggi raccolti in<br />

L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la<br />

“Critique”, a c. <strong>di</strong> F. Fergnani e P. A. Rovatti, Il Saggiatore,<br />

Milano 1980.<br />

8 La mia autobiografia…, cit., pp. 60 e 104. Non andrebbe<br />

neppure <strong>di</strong>menticato il rapporto – anch’esso abbastanza problematico<br />

- del sartrismo con le scienze umane, e con lo<br />

Strutturalismo in particolare (memorabile a questo proposito<br />

– e nel secondo Novecento forse accostabile soltanto, per la<br />

qualità degli ingegni contrapposti e la valenza nevralgica delle<br />

problematiche affrontate, alla ben nota controversia tra<br />

Popper e Adorno - la polemica con Lévi-Strauss su pensiero<br />

analitico e <strong>di</strong>alettico).<br />

tuamente in guerra con se stessa. Comunque la si<br />

pensi in proposito, fa ancora impressione constatare<br />

come il borghese Sartre resti a tutt’oggi<br />

l’unico scrittore ad essersi rifiutato <strong>di</strong> indossare la<br />

marsina per ricevere dalle mani <strong>di</strong> un re scan<strong>di</strong>navo<br />

il riconoscimento borghese per eccellenza 9 .<br />

Giova rammentare che almeno un paio <strong>di</strong> se<strong>di</strong>centi<br />

comunisti, nell’ultimo decennio, si son guardati<br />

bene dal compiere un gesto analogo: gesto forse<br />

inutile, ma sicuramente para<strong>di</strong>gmatico <strong>di</strong> un modo<br />

tra<strong>di</strong>zionale nel senso alto <strong>di</strong> interpretare la funzione<br />

storica dell’intellettuale. Gesto esemplare.<br />

Sartre ci si presenta così - con il carico<br />

delle sue contrad<strong>di</strong>zioni ma soprattutto per il buon<br />

uso che seppe farne - come probabilmente<br />

l’ultimo dei maîtres à penser occidentali, testimonianza<br />

in<strong>di</strong>viduale della perdurante possibilità <strong>di</strong><br />

esercitare la funzione <strong>critica</strong> pur entro gli scenari<br />

storicamente più asfittici – incarnazione della libertà<br />

umana così come ebbe egli stesso a teorizzarla,<br />

<strong>prova</strong> vivente <strong>di</strong> quella inelu<strong>di</strong>bile apertura<br />

per cui l’in<strong>di</strong>viduo può sempre proiettarsi oltre la<br />

situazione che lo stringe e con<strong>di</strong>ziona frustrandone<br />

lo slancio teleologico.<br />

Se Sartre vivente lo si vede soprattutto,<br />

com’è fatale, in un atteggiamento militante che<br />

non ha paura, negli anni, <strong>di</strong> fiancheggiare tutte le<br />

esperienze ra<strong>di</strong>cali ponendosi sempre al fianco<br />

delle istanze storiche più avanzate, nel filosofo<br />

che ormai celebre non depone la convinzione per<br />

cui “ribellarsi è giusto” (e che trova pertanto “notevole”,<br />

ad esempio, una rivoluzione, quella cubana,<br />

che è anche una festa); se ciò è certamente vero,<br />

non meno vero è che la passione civile e<br />

l’engagement sartriani si compongono coerentemente<br />

rispetto alla valenza <strong>di</strong> un ben preciso dettato<br />

speculativo. Perché avere paura <strong>di</strong> entrare nel<br />

merito <strong>di</strong> un pensiero che ha suscitato – in<strong>di</strong>zio<br />

importante – le ire dei comunisti come dei reazionari?<br />

Il gusto per la verità è infatti alla base <strong>di</strong> entrambe,<br />

militanza e speculazione. Proprio nella<br />

peculiarità del suo pensiero - o forse meglio <strong>di</strong><br />

uno stile <strong>di</strong> pensiero - risiede dunque il secondo<br />

dei lasciti <strong>di</strong> Sartre <strong>di</strong> cui riaffermare l’attualità,<br />

pur anche soltanto virtuale, “seminale”. Perché, ci<br />

si può chiedere, questo idealista che seppe riconoscere<br />

l’importanza determinante dei con<strong>di</strong>zionamenti<br />

storico-materiali batte in breccia i più rigorosi<br />

adepti dello scientismo marxista, e si <strong>di</strong>mostra<br />

alla lunga migliore dei tanti dogmatici che si condannano,<br />

prima o poi, a una crucciata esistenza<br />

fuori dal presente – quando non si votano inconsapevoli,<br />

fin dal principio, al destino <strong>di</strong> transfughi?<br />

Perché accade che l’“incoerenza” del borghe-<br />

9 Sull’episo<strong>di</strong>o, ivi p. 135.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 58


se Sartre finisca per essere la forma più costante<br />

<strong>di</strong> fedeltà alla causa degli oppressi <strong>di</strong> tutto il mondo?<br />

Si può rispondere: perché, soprattutto, il<br />

suo pensiero respinge ogni forma <strong>di</strong> coscienza che<br />

sia astratta dalle forme <strong>di</strong> esistenza in<strong>di</strong>viduali.<br />

Esso riafferma, in un’epoca in cui i <strong>di</strong>versi orientamenti<br />

<strong>di</strong> pensiero sembrarono accordarsi soltanto<br />

sulla avvenuta eclissi del soggetto, la costitutiva<br />

irriducibilità della esperienza della singola coscienza,<br />

la centralità dell’esistenza in quanto ineliminabile<br />

fondamento della conoscenza come<br />

della prassi. La verità, in Sartre, è sempre in rima<br />

profonda con la più concreta realtà: “non si comprende<br />

che quando si mette la cosa in rapporto al<br />

mondo” 10 . Riaffermare l’importanza del vissuto e<br />

del soggetto, la intransitività paradossale <strong>di</strong> un<br />

Ego che pure fonda il proprio orizzonte esperienziale<br />

aprendosi al mondo, rapportandosi storicamente<br />

agli oggetti ed agli altri, costituisce <strong>di</strong> per<br />

sé - nell’epoca della me<strong>di</strong>azione universale, dei<br />

simulacri, dello spettacolare <strong>di</strong>lagante - una specie<br />

<strong>di</strong> scandalosa provocazione. Il pensiero <strong>di</strong> Sartre<br />

invita oggi più <strong>di</strong> ieri a far propria questa prospettiva<br />

“fuori moda”, e ritrovare negli interstizi <strong>di</strong><br />

una realtà integralmente alienata i residui margini<br />

per un pensiero e per una prassi liberi <strong>di</strong> autodeterminarsi,<br />

<strong>di</strong> scegliere senza timore il senso del<br />

mondo.<br />

L’ultima considerazione riguarda il ruolo<br />

centrale che nella concezione del pensatore francese<br />

riveste la letteratura, letteratura cui Sartre de<strong>di</strong>ca<br />

notoriamente una serie <strong>di</strong> riflessioni che certo<br />

resteranno, per profon<strong>di</strong>tà e finezza: da Qu’est-ce<br />

que la littérature?, al Saint-Genet, al monumentale<br />

stu<strong>di</strong>o su Flaubert (senza trascurare il pro<strong>di</strong>gioso<br />

Baudelaire), Sartre <strong>di</strong>mostra in una innumerevole<br />

sequenza <strong>di</strong> scritti una capacità <strong>di</strong> comprendere<br />

la parola letteraria che prescinde dalla pur<br />

importante teorizzazione del metodo regressivoprogressivo<br />

(e che chiama forse maggiormente in<br />

causa l’altra <strong>di</strong>cotomia egualmente celebre, quella<br />

tra intellezione e comprensione) 11 . Una capacità<br />

che gli deriva forse dalla infantile “nevrosi <strong>di</strong> letteratura”,<br />

da quell’equivoco tra le parole e le cose<br />

che per il fatto <strong>di</strong> essere stato <strong>di</strong>ssipato con<br />

l’adolescenza (“quando ho conosciuto la contingenza,<br />

la violenza, le cose come sono” 12 ) non pare<br />

10 Ivi, p. 120.<br />

11 Sulla riflessione sartriana intorno alla letteratura e alle arti<br />

figurative cfr. S. Briosi, Sartre critico, Zanichelli, Bologna<br />

1981. Il volume <strong>di</strong> Briosi si segnala, oltre che per l’acutezza<br />

dell’analisi e dell’interpretazione, per la presenza <strong>di</strong> una perspicua<br />

scelta <strong>di</strong> brani d’autore.<br />

12 La mia autobiografia…, cit., p. 46.<br />

tuttavia immune dall’essere molto fecondamente<br />

attivato a volontà, per essere nuovamente <strong>di</strong>stanziato.<br />

La parola letteraria ha una specificità che<br />

oggi si tende facilmente a perdere <strong>di</strong> vista – quando<br />

anche i suoi più luci<strong>di</strong> assertori tendono ad appiattirne<br />

i tratti peculiari su quelli della parola<br />

scritta/letta tout court, su questioni <strong>di</strong> mero alfabetismo<br />

percettivo-cognitivo: attestandosi su <strong>di</strong> un<br />

fronte, quello della contrapposizione tra civiltà tipografica<br />

e civiltà au<strong>di</strong>ovisiva, che non è probabilmente<br />

il fronte storico principale. La parola letteraria<br />

ha infatti una valenza storico-antropologica<br />

non surrogabile, è probabilmente invenzione senza<br />

ritorno; concerne la sempre più precisa coscienza<br />

della capacità umana <strong>di</strong> conferire senso<br />

alla realtà, e <strong>di</strong> assumersi pienamente la responsabilità<br />

<strong>di</strong> tale senso: è “appello alla libertà”. Per<br />

questo “la funzione dello scrittore è <strong>di</strong> far sì che<br />

nessuno possa ignorare il mondo o possa <strong>di</strong>rsene<br />

innocente”. Lungi da ogni istanza <strong>di</strong> risarcimento,<br />

senza nostalgie per la perduta aureola, si tratta, per<br />

lo scrittore, <strong>di</strong> assumere il ruolo <strong>di</strong> portavoce <strong>di</strong> un<br />

“pubblico” <strong>di</strong> cui occorre interpretare ed esprimere<br />

pensieri ed istanze che in esso sono già presenti<br />

13 . E del resto: “Noi consideriamo da lungo tempo<br />

che la letteratura è un fenomeno doppio, duale<br />

come si <strong>di</strong>ce, cioè autore (che ora si chiama scriittore)<br />

e poi lettore. I due, messi insieme, fanno<br />

l’opera, ma occorre che il lettore faccia la sua parte”<br />

14 . Luogo privilegiato del senso, dell’universale<br />

singolare, dell’”universale concreto”, la letterarietà<br />

assume così una rilevanza cruciale per un autore<br />

che “pensa che non ci sia nulla che non possa<br />

essere detto” 15 e che il silenzio (pare lecito aggiungere:<br />

anche quello derivante dall’eccesso <strong>di</strong><br />

rumorosità) sia <strong>di</strong> per sé “reazionario”, in quanto<br />

degradazione e reificazione del “per sé” 16 .<br />

Ci sono autori la cui opera si lega tanto fortemente<br />

alla realtà profonda della propria epoca da correre<br />

il rischio che essa vada fuori corso non appena i<br />

caratteri <strong>di</strong> quell’epoca paiano tramontare o sbia<strong>di</strong>re:<br />

è il rischio <strong>di</strong> chi non esita a compremettersi<br />

con un presente che ha per definizione il destino<br />

della transitorietà. Sartre paga oggi con<br />

l’impopolarità anche la scelta <strong>di</strong> “prendere sulle<br />

spalle” la situazione propria e dei suoi contemporanei,<br />

nel momento in cui essa probabilmente<br />

giungeva ad un grado <strong>di</strong> incandescenza prelu<strong>di</strong>o<br />

13<br />

Ivi, p. 99.<br />

14<br />

Ivi, p. 79.<br />

15<br />

Lo scrittore e la sua lingua, in L’universale singolare, cit.,<br />

pp. 102 e 108.<br />

16<br />

La mia autobiografia…, cit., p. 78.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 59


<strong>di</strong> uno sprofondamento. E in effetti sono molti gli<br />

aspetti della esperienza e del pensiero <strong>di</strong> Sartre<br />

che sembrano rimandare ad una temperie para<strong>di</strong>gmaticamente<br />

moderna: il suo lavoro si incunea<br />

nel pieno del Novecento, ne recepisce le tendenze<br />

più tipiche, si rispecchia in (ed alimenta <strong>di</strong>) un<br />

tempo in cui la Modernità ci si presenta nelle sue<br />

forme già mature per il tramonto.<br />

C’è però un ulteriore aspetto, oltre ai tre<br />

già ricordati, che autorizza a far valere la lezione<br />

sartriana al <strong>di</strong> fuori della cappa plumbea della tarda<br />

modernità, e a farla reagire dentro l’attuale caleidoscopica<br />

epoca postmoderna. Si tratta precisamente<br />

della classicità <strong>di</strong> questo pensatore, <strong>di</strong><br />

quella <strong>di</strong>mensione per cui Sartre si affianca ad autori<br />

“eterni” la cui riflessione non teme il tempo<br />

che la sopravanza, ma sempre vi s’attaglia. La tra<strong>di</strong>zione<br />

francese ritrova in lui l’intellettuale <strong>di</strong> battaglia,<br />

dalla vocazione voltairiana; ma nella sua<br />

riflessione riaffiora anche quell’attitu<strong>di</strong>ne analitico-introspettiva<br />

che ne fa un erede nobile dei<br />

Montaigne e dei Pascal, dei Proust. Senza che i<br />

due tratti – l’engagement e l’introversione – vadano<br />

peraltro a detrimento <strong>di</strong> un rigore filosofico che<br />

pone il non accademico Sartre (il quale raccoglie<br />

così pure l’ere<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> Descartes) nella tra<strong>di</strong>zione<br />

più alta del pensiero speculativo europeo: suoi eterni<br />

interlocutori restano Hegel, Marx, Husserl,<br />

Bergson, Kierkegaard...<br />

Non si tratta, tuttavia, <strong>di</strong> sostenere in tal<br />

modo il valore metastorico del contributo <strong>di</strong> Sartre,<br />

magari all’insegna <strong>di</strong> un equivoco umanesimo<br />

<strong>di</strong> recupero (c’è effettivamente, come noto, anche<br />

un umanesimo sartriano, esistenzialistico: che<br />

quando non sia malinteso è forse l’unica forma<br />

ancora percorribile <strong>di</strong> umanesimo, nell’epoca del<br />

nichilismo); Sartre è un “classico” allo stesso modo<br />

in cui può esserlo un Brecht: egli attraversa il<br />

tempo viaggiando sulla cresta d’onda del (proprio)<br />

tempo. E ci raggiunge.<br />

- Loredana Magazzeni: Alda Merini e<br />

l’erotismo polimorfo del materno<br />

Testimone vivente dell’inespresso<br />

Ad Alda Merini è toccato inaspettatamente in sorte<br />

<strong>di</strong> essere una delle voci femminili più intense<br />

del Novecento e <strong>di</strong> vedersi riconosciuta in vita<br />

questa grandezza. Ciò accade raramente ai poeti e<br />

ancora più raramente alle donne poete, specie se<br />

anticonformiste e <strong>di</strong>rompenti come Alda.<br />

Oggi molti forse sorridono riferendosi a lei, ne<br />

parlano ormai come <strong>di</strong> una <strong>di</strong>va della poesia, madrina<br />

e protagonista <strong>di</strong> innumerevoli manifesta-<br />

zioni e ammiccano alla sua vecchiaia <strong>di</strong> poeta povera,<br />

insonne, circondata <strong>di</strong> gatti e <strong>di</strong> <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne<br />

nella sua modesta casa sul Naviglio.<br />

Ma pochi oggi sanno ancora pienamente cos’è e<br />

cos’è stata la poesia <strong>di</strong> Alda Merini, quale cammino<br />

<strong>di</strong> autocoscienza, come si <strong>di</strong>ceva negli anni<br />

’70, le ha fatto attraversare la follia senza tra<strong>di</strong>re,<br />

anzi potenziando l’alta poesia che la contrad<strong>di</strong>stingue.<br />

Alda Merini non è stata una stu<strong>di</strong>osa, una accademica<br />

in senso stretto. Ha compiuto pochi stu<strong>di</strong><br />

regolari, si è <strong>di</strong>plomata come stenodattilografa, in<br />

compenso ha avuto alle spalle una famiglia che<br />

l’ha sempre incoraggiata a leggere, ad amare la<br />

letteratura e la poesia, come lei stessa ricorda in<br />

Reato <strong>di</strong> vita 1 , libro para<strong>di</strong>gmatico che assembla<br />

scritti autobiografici e interviste amorevolmente<br />

raccolte da Luisella Veroli, stu<strong>di</strong>osa <strong>di</strong> matristica,<br />

archeologa e autrice <strong>di</strong> prima <strong>di</strong> eva, viaggio alle<br />

origini dell’eros, pubblicato dall’Associazione<br />

Melusine <strong>di</strong> Milano.<br />

A se<strong>di</strong>ci anni viene scoperta da Giacinto Spagnoletti<br />

che riconosce la grandezza dei suoi versi. La<br />

prima raccolta, La presenza <strong>di</strong> Orfeo, è del 1953.<br />

Salvatore Quasimodo e Maria Corti, oltre allo<br />

stesso Spagnoletti, la includono in tre importanti<br />

antologie <strong>di</strong> poesia degli anni ‘50 e ‘80: Poesia<br />

italiana contemporanea, Poesia italiana del dopoguerra<br />

e Viaggio nel ‘900.<br />

Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta si aprono per<br />

Alda Merini i cosiddetti “anni dell’inferno psichiatrico”,<br />

che ripercorrerà in tutte le opere successive<br />

e che conferiscono un’impronta definitiva<br />

alla sua poetica, anni che rievoca in libri come<br />

Vuoto d’amore, La terra santa, Testamento e in<br />

scritti autobiografici come il già citato Reato <strong>di</strong><br />

vita o ne L’altra verità. Diario <strong>di</strong> una <strong>di</strong>versa.<br />

Cammino pulsionale spirituale<br />

Per i critici è molto <strong>di</strong>fficile tentare una catalogazione<br />

esauriente dell’intera opera poetica <strong>di</strong> Alda<br />

Merini che è enorme e annovera ancora moltissimi<br />

ine<strong>di</strong>ti, raccolti in parte nel Fondo Manoscritti<br />

<strong>di</strong> Pavia ad opera <strong>di</strong> Maria Corti, oltre a una miriade<br />

<strong>di</strong> testi sparsi e varianti d’autore regalate ad<br />

amici e conoscenti.<br />

Per quanto riguarda più espressamente le tematiche,<br />

si è tentati <strong>di</strong> avvicinare la scrittura profondamente<br />

autobiografica e passionale, quasi pulsionale<br />

<strong>di</strong> Alda Merini, alla poesia confessional <strong>di</strong><br />

matrice anglosassone, riconoscervi una parentela<br />

con scrittrici come Sylvia Plath o Anne Sexton, a<br />

loro volta ere<strong>di</strong> <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> universi <strong>di</strong> poesia emozionale<br />

e dell’esperienza <strong>di</strong>segnati a cavallo fra<br />

‘800 e ‘900 da Emily Dickinson, Emily Bronte o<br />

Elisabeth Barret Browning.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 60


In particolare Sylvia Plath e Anne Sexton hanno<br />

avuto in comune con Merini l’esperienza della<br />

sofferenza mentale e del rapporto con il manicomio.<br />

Ma, a <strong>di</strong>fferenza da loro, Alda Merini non è<br />

stata toccata dal tema del suici<strong>di</strong>o. La sua resurrezione,<br />

<strong>di</strong> cui parla più volte, passa per la Gerico<br />

manicomiale, attraversa la terra santa del ricovero,<br />

ma riesce a superarli per <strong>di</strong>rsi, per <strong>di</strong>venire racconto,<br />

mentre le due americane vi precipitano<br />

dentro, portandosi <strong>di</strong>etro un universo allucinatorio<br />

<strong>di</strong> bellezza infinita ma senza salvezza.<br />

Forse il cammino cosiddetto confessional <strong>di</strong> Alda<br />

Merini ha ra<strong>di</strong>ci intuitive, ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> sapienza interiore<br />

che avvicinano la sua <strong>ricerca</strong> a una matrice<br />

evangelica, forse dovuta a un’influenza familiare,<br />

che le ha permesso <strong>di</strong> trovare sostegno e linfa nel<br />

<strong>di</strong>venire racconto, confessione, sulla traccia delle<br />

Confessioni <strong>di</strong> Sant’Agostino o delle invocazioni<br />

<strong>di</strong> Giovanni della Croce.<br />

Oppure, è più giusto <strong>di</strong>re che c’è, nella poetica<br />

confessional <strong>di</strong> molte donne poete, qualcosa che le<br />

accomuna alla mistica, quella traccia erotica <strong>di</strong> un<br />

dolore <strong>di</strong> partenza, <strong>di</strong> fondo, che permea tutta la<br />

vita e la scrittura come la traccia <strong>di</strong> una assenza<br />

mai colmata e che attraversa sia la scrittura <strong>di</strong> Alda<br />

Merini sia quella delle due poetesse americane.<br />

La con<strong>di</strong>zione tragica del ‘900<br />

Scrive la filosofa spagnola Marìa Zambrano in La<br />

confessione come genere letterario, che esiste una<br />

con<strong>di</strong>zione tragica, che è poi quella del Novecento,<br />

in cui agiscono “ uomini che hanno più contatto<br />

profondo con la realtà hanno perso il centro<br />

interiore”. “La Confessione sembra essere un metodo”<br />

per non annichilire e <strong>di</strong>sperdersi, ma conseguire<br />

uno “stato quasi <strong>di</strong> invulnerabilità”, uno<br />

stato che, scrive la filosofa, “ha a che vedere con<br />

l’unità pura, con il centro interiore”. Tutta la poesia<br />

<strong>di</strong> Alda Merini è alla <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> questa unità interiore<br />

invulnerabile, con<strong>di</strong>zione sentita come postuma,<br />

la quoti<strong>di</strong>ana essendo frantumazione, dualismo<br />

e <strong>di</strong>spersione <strong>di</strong> sé. E’ l’amore, per Alda, a<br />

realizzare questa conciliazione degli opposti, proprio<br />

come postula la Zambrano quando afferma<br />

essere l’amore “l’interme<strong>di</strong>ario tra vita sensibile e<br />

contemplazione del vero”, mentre la natura della<br />

nostra vita è “<strong>di</strong>spersività, passività e passionalità”<br />

e la verità non può avere la meglio sulla vita<br />

se non “innamorandola”, rendendola “resa senza<br />

rancore”.<br />

Solo nell’amore “le viscere dolenti e rancorose<br />

finiscono per <strong>di</strong>ventare <strong>di</strong> qualcuno”. Nella con<strong>di</strong>zione<br />

dell’amore e nella mistica “Essa (l’anima)<br />

desidera riunirsi ad un qualcosa che ha la sua<br />

stessa natura; è come se non fosse nata intera,<br />

come se cercasse quel che le manca e che, non ri-<br />

trovato, le nega ogni analogia nel mondo stesso in<br />

cui cerca”. E ancora: “La con<strong>di</strong>zione del mistico è<br />

una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne che anima “il suo<br />

smisurato amore per il tutto”. Il mistico fa il vuoto<br />

dentro <strong>di</strong> sé “affinché in questo deserto, in questo<br />

vuoto, venga ad abitare un altro”. In lui “vive<br />

una voracità”, voracità che, trasposta sul piano<br />

umano, è amore, fame irresistibile <strong>di</strong> esistere, <strong>di</strong><br />

avere “presenza e figura”.<br />

Chi ha consuetu<strong>di</strong>ne con il lessico <strong>di</strong> Alda Merini<br />

sa quante volte vi ricorrano termini come fuoco,<br />

viscere, voracità, amore, corpo, anima, <strong>di</strong>smisura,<br />

frattura.<br />

Come Giobbe, citato dalla Zambrano, “è un viscere<br />

che grida dal suo deserto”, così per Alda Merini<br />

“Gli inguini sono la forza dell’anima” e i paralleli<br />

che lei <strong>di</strong>segna fra cammino <strong>di</strong> salvezza attraverso<br />

il manicomio e cammino <strong>di</strong> salvezza attraverso<br />

l’amore vedono nei riferimenti alla passione<br />

e alla terra santa la metafora principe della sua<br />

scrittura.<br />

L’attraversamento della follia va nella <strong>di</strong>rezione<br />

del riconoscimento del sacro nel corpo addolorato,<br />

colpito, ferito, corpo santificato perché unico suggello<br />

al ricongiungimento fra le parti frantumate e<br />

<strong>di</strong>vise attraverso la me<strong>di</strong>azione del linguaggio.<br />

Anche la nuzialità, le nozze reiterate e ripercorse,<br />

i congiungimenti dolorosi o irraggiungibili con gli<br />

amanti sono per Alda Merini metafora del ricongiungimento<br />

mistico con l’Assente, con l’altro da<br />

sé e dentro sé. E infatti scrive: “basta un sorriso o<br />

un’assenza e/ la mia mente concepisce un amore”.<br />

E mentre il manicomio è il monte Sinai, la terra<br />

promessa da attraversare, la sua religione è la follia,<br />

un cammino mariano e misterico, un mistero<br />

doloroso, verso il ricongiungimento con la parte <strong>di</strong><br />

sé che si è persa. La madre, in molte poesie e<br />

nell’autobiografia Reato <strong>di</strong> vita è il luogo originario<br />

della gioia, l’alba <strong>di</strong> un destino <strong>di</strong> viandanza. Il<br />

destino della poeta Merini è <strong>di</strong> incontrare, toccare<br />

e riconoscere con le parole i simili, i mèntori e infine<br />

la propria madre. La sua poesia è per questo<br />

popolata <strong>di</strong> nomi e presenze vive.<br />

L’attraversamento del buio si fa così comunione e<br />

pietà verso gli inermi, coloro che con<strong>di</strong>vidono il<br />

suo destino <strong>di</strong> dolore e dentro i quali alberga la<br />

vera sapienza.<br />

Che il cammino verso la sapienza sia tortuoso e<br />

ambivalente è testimoniato da una figura ricorrente<br />

che è quella del gobbo, un essere rozzo e deforme<br />

che è minaccioso ma anche facilitatore <strong>di</strong><br />

“metamorfosi e passaggi”: “Ma viene a volte un<br />

gobbo sfaccendato/ un simbolo presago <strong>di</strong> allegrezza/<br />

che ha il dono <strong>di</strong> una strana profezia/ e<br />

perché vada incontro a una promessa/ lui mi tra-<br />

Poliscritture/Letture d’autore 61


ghetta sulle proprie spalle”(Testamento, Crocetti,<br />

pag.16).<br />

Il <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>o fra corpo e anima<br />

Il <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>o fra corpo e anima, che pure è il tema<br />

conduttore <strong>di</strong> molti suoi testi poetici, vede lo<br />

scontro tra il corpo come prigione, “lu<strong>di</strong>brio grigio/<br />

con le tue scarlatte voglie” e l’anima “circonflessa,<br />

circonfusa e incapace”. La psichiatria è la<br />

madre-matrigna, quella che fa funzionare la<br />

“macchina del binomio anima-corpo”, mentre la<br />

parola, la poesia è l’unica madre vera, il porto<br />

verso cui tornare. E mentre Alda Merini vede rotolare,<br />

con una delle sue forti immagini metaforiche,<br />

le teste degli psichiatri come palline da bigliardo,<br />

la mente le appare un passero libero ma<br />

tremante e il poeta un insetto che la poesia può<br />

schiacciare da un momento all’altro con la sua<br />

possanza.<br />

In questo dualismo, e nel potere taumaturgico assegnato<br />

alla parola, è stato visto l’orfismo <strong>di</strong> Alda<br />

Merini, la sua capacità tragica alla Dostoevskij e<br />

alla Baudelaire <strong>di</strong> affermare un “sentire-sapere<br />

della soglia”, <strong>di</strong> possedere quello sguardo per cui<br />

ardono “Gli occhi del mio amato che porto <strong>di</strong>segnati<br />

nelle mie viscere”, come scrive San Giovanni<br />

della Croce.<br />

Il mito <strong>di</strong> Orfeo rispecchia la metafora dell’anima<br />

che va a cercare il corpo. Alda Merini stessa parla<br />

<strong>di</strong> una schizofrenìa: “L’anima è andata da una<br />

parte, il corpo dall’altra. Allora l’amore è il processo<br />

simbolico che va a riunire il dualismo corpo-anima<br />

e il sogno d’amore crea così una seconda<br />

realtà, una realtà vera a livello <strong>di</strong> linguaggio:”<br />

Il sogno bisogna renderlo parola e allora nasce la<br />

poesia”. L’ossessione d’amore, come la chiama<br />

spesso Alda Merini, <strong>di</strong>venta “nutrimento terrestre”,<br />

<strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> fede nella bellezza, energia che è,<br />

secondo le sue stesse parole un fuoco, uno zolfo<br />

per cui “tutte le parole buttate per aria si riuniscono<br />

e <strong>di</strong>ventano un verbo unico, un’unica spiegazione<br />

letteraria possibile”. E ancora “Ecco perché<br />

la passione incen<strong>di</strong>a. Il fuoco che brucia le<br />

scorie porta alla purezza e ne fa in un attimo il<br />

risultato <strong>di</strong> una grande folgorazione <strong>di</strong> conoscenza.<br />

Di qui i profeti e, in tono minore, gli scrittori.”<br />

Orfeo è Alda stessa: “io sono la vera cetra/ che ti<br />

colpisce nel petto/ e ti dà larga resa”. La follia è<br />

stata il lievito che ha fatto gonfiare il linguaggio<br />

fino a un livello due, un livello che supera il linguaggio<br />

della <strong>cultura</strong>, quel linguaggio che è pura<br />

“masticazione <strong>cultura</strong>le”, mentre il linguaggio<br />

della poesia è “pane, nutrimento celeste”.<br />

Ma all’opposto della visione crociana della poesia,<br />

essa non è, per Alda Merini, nutrimento in<strong>di</strong>viduale<br />

ma qualcosa che assomiglia al “Duomo <strong>di</strong><br />

Milano”, cioè una costruzione complessa dovuta<br />

al lavoro silenzioso e nascosto <strong>di</strong> mille mani, mille<br />

destini in<strong>di</strong>viduali: “la Poesia è fatta pietra su<br />

pietra, è un e<strong>di</strong>ficio vero e proprio”.<br />

La follia e l’esperienza del manicomio sono state<br />

il percorso <strong>di</strong> conoscenza che hanno nutrito la poesia.<br />

Il manicomio in particolare è stato, scrive<br />

Alda Merini, come la sabbia che, se entra nelle<br />

valve <strong>di</strong> un’ostrica, genera perle. E’ stato anche un<br />

“formidabile e privilegiato punto <strong>di</strong> osservazione”,<br />

un evento che ha conferito alla vita una specie<br />

<strong>di</strong> santificazione e <strong>di</strong> profon<strong>di</strong>tà abissale, punto<br />

<strong>di</strong> vista sul mondo e dentro <strong>di</strong> sé che l’ha salvata<br />

dall’annichilimento “con la capacità dello stupore”.<br />

D’altra parte il dolore è quasi sempre alla<br />

base del suo fare poesia e lei stessa scrive .”Non<br />

c’è nessun poeta che possa scegliere, <strong>di</strong> per sé, <strong>di</strong><br />

stare bene”.<br />

L’interpretazione psicanalitica<br />

Alda Merini ha spesso utilizzato le chiavi interpretative<br />

della psichiatria e in particolare<br />

dell’analisi junghiana per spiegare la genesi e gli<br />

esiti del suo fare arte. In particolare fa suoi termini<br />

come scissione, schizofrenia, ossessione, erotismo,<br />

anima. E’ profondamente convinta<br />

dell’importanza dei primi anni della vita nella costruzione<br />

dell’identità e, quando parla della sua<br />

infanzia, si riferisce ad un periodo mitico e portentoso.<br />

E’ molto interessante notare quello che<br />

scrive a proposito: “La nascita è l’evento migliore<br />

della nostra vita. Nel corpo naturale dell’essere<br />

c’è tutto lo svolgimento <strong>di</strong> ciò che egli sarà domani,<br />

degli amori che incontrerà, dei sudori, dei<br />

suoi personali cinismi, fino alla sua morte.[...]<br />

L’infanzia è il periodo più gioioso della vita, un<br />

periodo siderale.. Certamente il bambino non è<br />

responsabile dei suoi “ragionamenti d’amore”,<br />

ma è senz’altro un portentoso concentrato<br />

d’amore, un amore che accolto, educato, articolato<br />

dalla madre, <strong>di</strong>venta appetito <strong>di</strong> conoscenza”.<br />

Questa affermazione <strong>di</strong> Alda Merini è <strong>di</strong> grande<br />

attualità perché proprio gli stu<strong>di</strong> più recenti <strong>di</strong> una<br />

nuova branca della psichiatria, chiamata metapsichiatria,<br />

concentrano la loro attenzione nella sessualità<br />

infantile polimorfa, sessualità che viene<br />

conservata dall’in<strong>di</strong>viduo per tutta la vita e che lo<br />

aiuta a strutturarsi in in<strong>di</strong>viduo intero e sessuato.<br />

Questa sessualità “<strong>di</strong> tutto l’essere” è appunto, <strong>di</strong>ce<br />

la metapsichiatria, alla base della conoscenza.<br />

Forse è proprio questa sessualità infantile polimorfa<br />

e totalizzante quella che spinge Alda Merini<br />

e molte donne-poete a cercare nel linguaggio<br />

quel ricongiungimento con un corpo inizialmente<br />

materno che mira a superare la frammentazione e<br />

il dolore e a ritrovare l’interezza perduta.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 62


Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 3<br />

Ennio Abate, Alcune osservazioni sul testo <strong>di</strong><br />

Loredana Magazzeni<br />

Il testo <strong>di</strong> Loredana Magazzeni mi spinge alle obiezioni qui<br />

rapidamente sintetizzate:<br />

a) Anche se può parere atto inopportuno, astioso o<br />

dettato da incomprensione verso lettori e lettrici che stabiliscono<br />

con dei testi poetici un rapporto emotivo, mi pare giusto<br />

sollevare la questione tra successo letterario <strong>di</strong> un autore<br />

o <strong>di</strong> un’autrice (nel caso quello tar<strong>di</strong>vo <strong>di</strong> Alda Merini) e con<strong>di</strong>zioni<br />

<strong>cultura</strong>li e politiche che l’hanno agevolato: e valutarne<br />

anche l’effetto <strong>di</strong>storcente sulla comprensione della sua opera.<br />

Non si può sorvolare, infatti, che, in misura ridotta rispetto<br />

a calciatori, attori del cinema, firme giornalistiche, esiste in<br />

piccolo un <strong>di</strong>vismo anche dei poeti e delle poetesse, un culto<br />

che è prodotto <strong>di</strong> corporazione e poco ha a che vedere con<br />

una seria conoscenza delle loro opere. Non vorrei che le<br />

femministe serie sorvolassero sugli aspetti negativi del fenomeno<br />

solo perché Alda Merini è stata accolta nel simbolico<br />

massme<strong>di</strong>ale e da cenerentola è <strong>di</strong>ventata principessa, risarcendo<br />

il dannoso silenzio su tante poetesse viventi o defunte;<br />

b) «Resurrezione», «Gerico manicomiale», «terra<br />

santa del ricovero» sono metafore <strong>di</strong> matrice biblica con cui<br />

la Merini esprime la sua esperienza del manicomio. E capisco<br />

che una poetessa, cresciuta nell’immaginario cattolico,<br />

possa ricorrervi spontaneamente. Ma l’uso <strong>di</strong> richiami religiosi<br />

e biblici, nobilitati da una secolare tra<strong>di</strong>zione, non rischia <strong>di</strong><br />

infiorare le catene della sofferenza psichica e quel luogo orribile<br />

che è stato ed è il manicomio? Posso anche riconoscere<br />

che, attingendo al serbatoio della sua educazione cattolica,<br />

la Merini abbia trovato un aiuto per non soccombere al<br />

dolore mentale e alla violenza manicomiale. Ma solo parziale.<br />

Insomma la poesia e la religione sono solo in minima parte<br />

terapeutiche. Accentuare questo aspetto porta autori e<br />

lettori fuori strada nel tentativo ricorrente (forse vano, ma utile)<br />

<strong>di</strong> chiedersi: cos’è la poesia? da dove nasce? Loredana<br />

scrive in un punto Come Giobbe, citato dalla Zambrano, “è<br />

un viscere che grida dal suo deserto”, così per Alda Merini<br />

“Gli inguini sono la forza dell’anima” e i paralleli che lei <strong>di</strong>segna<br />

fra cammino <strong>di</strong> salvezza attraverso il manicomio e cammino<br />

<strong>di</strong> salvezza attraverso l’amore vedono nei riferimenti<br />

alla passione e alla terra santa la metafora principe della sua<br />

scrittura». Non posso fare a meno <strong>di</strong> notare l’ambiguità <strong>di</strong><br />

queste affermazioni (quella della Merini in particolare) che<br />

sono paradossali per il senso comune cattolico, ma che sostituiscono<br />

per me con un cortocircuito verbale l’oscillazione<br />

cattolica fra materialismo e idealismo (sotterranea e irrisolta,<br />

anche perché mantenuta dalla dottrina della chiesa<br />

nell’oscurità del piano interiore (dei desideri inconsci) e continua<br />

a creare – senza che mai si capisca bene come e perché<br />

– vite <strong>di</strong> “santi” e vite <strong>di</strong> “demoni”. Che la «salvezza»<br />

possa avvenire sia attraverso il manicomio che attraverso<br />

l’amore (più in generale sia attraverso il Male che il Bene)<br />

sposta il <strong>di</strong>scorso umano sul piano del Mistero. Diffido <strong>di</strong> que-<br />

sto spostamento. Non per orgoglio luciferino, non perché affermi<br />

che <strong>di</strong> misteri non abbon<strong>di</strong> la vita umana, ma semplicemente<br />

perché i gestori istituzionali e secolari del Mistero<br />

(chiesa cattolica innanzitutto) se ne servono per dar copertura<br />

alle varie forme <strong>di</strong> «manicomio» proliferanti nel pianeta.<br />

Essi con un <strong>di</strong>scorso pseudoreligioso sul Mistero (Cfr. anche<br />

intervista a Michele Ranchetti), altri con un <strong>di</strong>scorso pseudoscientifico<br />

sull’Oggettività non fanno che confermare il dominio<br />

<strong>di</strong> parti dell’umanità “sane”, “normali” sulle altre “matte”,<br />

“anormali”, “devianti”. In un altro passo insiste ancora:<br />

«L’attraversamento della follia va nella <strong>di</strong>rezione del riconoscimento<br />

del sacro nel corpo addolorato, colpito, ferito, corpo<br />

santificato perché unico suggello al ricongiungimento fra le<br />

parti frantumate e <strong>di</strong>vise attraverso la me<strong>di</strong>azione del linguaggio».<br />

Ma perché il sacro dovrebbe coincidere in particolare<br />

col dolore del corpo e non con la gioia o il piacere? E<br />

cosa comporta una santificazione del corpo «colpito, ferito»?<br />

E in un altro ancora: «Il manicomio in particolare è stato,<br />

scrive Alda Merini, come la sabbia che, se entra nelle valve<br />

<strong>di</strong> un’ostrica, genera perle. E’ stato anche un “formidabile e<br />

privilegiato punto <strong>di</strong> osservazione”, un evento che ha conferito<br />

alla vita una specie <strong>di</strong> santificazione e <strong>di</strong> profon<strong>di</strong>tà abissale,<br />

punto <strong>di</strong> vista sul mondo e dentro <strong>di</strong> sé che l’ha salvata<br />

dall’annichilimento “con la capacità dello stupore”. D’altra<br />

parte il dolore è quasi sempre alla base del suo fare poesia e<br />

lei stessa scrive .”Non c’è nessun poeta che possa scegliere,<br />

<strong>di</strong> per sé, <strong>di</strong> stare bene”». Mi chiedo: è il manicomio che crea<br />

la perla Merini? che è un punto <strong>di</strong> osservazione privilegiato?<br />

che santifica e permette <strong>di</strong> guardare gli Abissi? è il dolore la<br />

base della poesia? E non posso che ricordarmi <strong>di</strong> Adorno,<br />

che contro l’equiparazione romantica <strong>di</strong> genio e follia <strong>di</strong>ceva<br />

che la poesia non è mai frutto della follia ma della resistenza<br />

del poeta alla follia. Si è tanto spesso <strong>di</strong>scusso se la forza<br />

poetica <strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong> derivasse dalla sua gobba o dalla sua<br />

infelice esperienza personale <strong>di</strong> malaticcio, solitario e senza<br />

donne. Lui lo escludeva contro il cattolico Tommaseo. I critici<br />

più seri hanno <strong>di</strong>mostrato a sufficienza che quel determinismo<br />

non c’è. E io penso che la Merini si sbagli <strong>di</strong> grosso<br />

nell’in<strong>di</strong>care la causa della sua poesia nella sua esperienza<br />

manicomiale.<br />

c) Nel suo testo Loredana collega le considerazioni<br />

mistiche della Zambrano alla «con<strong>di</strong>zione tragica» del Novecento.<br />

Conosco ben poco la Zambrano. Mi pare però <strong>di</strong> poter<br />

obiettare che in lei la storia del Novecento perda le sue<br />

particolarità e si confonda con un Male oggetto secolare <strong>di</strong><br />

me<strong>di</strong>tazione da parte <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione filosofica che può risalire<br />

fino a Platone e che prescinde dagli eventi <strong>di</strong> questo o<br />

quel secolo, <strong>di</strong> questa o quella civiltà, fondandosi su un contrasto<br />

assoluto e originario <strong>di</strong> Male/Bene, anima/corpo, Cielo/Terra.<br />

Da riconciliare secondo alcuni. Inconciliabile per<br />

altri. E la poesia della Merini, in particolare, mi pare iscriversi<br />

in pieno in questa tra<strong>di</strong>zione.<br />

d) «La follia è stata il lievito che ha fatto gonfiare il linguaggio<br />

fino a un livello due, un livello che supera il linguaggio<br />

della <strong>cultura</strong>, quel linguaggio che è pura “masticazione<br />

<strong>cultura</strong>le”, mentre il linguaggio della poesia è “pane, nutrimento<br />

celeste”»? Ovvia per Merini questa riduzione del linguaggio<br />

della <strong>cultura</strong> a ruminazione. Ma quanta sottovalutazione<br />

del linguaggio come comunicazione sociale!<br />

e) Sul rapporto letteratura e psicoanalisi. Non mi convince<br />

il modo come Merini utilizza «le chiavi interpretative della<br />

psichiatria e in particolare dell’analisi junghiana per spiegare<br />

Poliscritture/Letture d’autore 63


la genesi e gli esiti del suo fare arte». Anche uno psicanalista<br />

a lungo junghiano come Vincenzo Loriga, che ho conosciuto,<br />

<strong>di</strong>stingueva nettamente la <strong>ricerca</strong> psicanalitica dalla <strong>ricerca</strong><br />

letteraria. Pur attigendo entrambe all’inconscio, portano -<br />

potrei <strong>di</strong>re - quell’acqua a mulini <strong>di</strong>versi e vengono fuori cose<br />

<strong>di</strong>verse. La letteratura, la poesia si servono <strong>di</strong> quell’acqua<br />

per impastare in mo<strong>di</strong> tutti propri la farina del linguaggio, che<br />

ha una sua storia, dei suoi co<strong>di</strong>ci, delle sue regole da rispettare<br />

e trasgre<strong>di</strong>re, ecc. L’acqua della psicanalisi (magari i<br />

sogni fatti in analisi) può anche mescolarsi con l’altra attinta<br />

dal letterato, dal poeta (e perché no dallo scienziato, dal politico,<br />

ecc.), ma poi finisce pur essa nella farina del linguaggio.<br />

È insomma una delle tante materie prime ( con la storia, le<br />

scienze, magari la musica, ecc.) che entrano nell’impasto.<br />

Quando un poeta espone idee psicanalitiche, come fa qui<br />

sopra la Merini, o ci parla del fanciullino che è in noi tutti,<br />

come faceva Pascoli, tace su tante altre cose. Ad es. non si<br />

capisce perché quel fanciullino dovette aspettare che il suo<br />

padrone che lo portava in sé <strong>di</strong>ventasse un letterato esperto<br />

prima <strong>di</strong> farlo scorazzare nei suoi versi. Oppure, come nel<br />

caso della Merini, che peso ebbero i contatti o gli incoraggiamenti<br />

<strong>di</strong> Spagnoletti. E forse tante altre cose che, se fossi<br />

un suo biografo, andrei attentamente a spulciare (collegandoli<br />

ai suoi testi). Comunque, il <strong>di</strong>scorso dei rapporti tra psicanalisi<br />

e letteratura è stato macinato da un secolo ed è interessantissimo.<br />

Di recente in un numero del 5 febbraio 2005<br />

<strong>di</strong> Alias (supplemento de il manifesto) è uscita una interessante<br />

intervista a Mario Lavagetto, uno degli stu<strong>di</strong>osi più attenti<br />

alla questione e che ha curato una monumentale e<strong>di</strong>zione<br />

<strong>critica</strong> <strong>di</strong> Italo Svevo. Mi pare che <strong>di</strong>ca cose utilissime<br />

(anche alla Merini, se lo leggesse).<br />

- Mario Mastrangelo: Sentimento dolente ed<br />

aura <strong>di</strong> magia nella poesia <strong>di</strong>alettale <strong>di</strong> Lilia<br />

Slomp<br />

Nel quadro del <strong>di</strong>ffuso rinnovamento della poesia<br />

<strong>di</strong>alettale italiana compiutosi nell’ultimo trentennio<br />

1, che ha portato ad esiti letterari del tutto equi-<br />

valenti a quelli della più accre<strong>di</strong>tata poesia in lingua,<br />

viva e qualificata è stata la presenza <strong>di</strong> poeti<br />

che hanno scritto e scrivono in <strong>di</strong>aletto trentino.<br />

Se qualche antologia è stata poco generosa verso i<br />

poeti che si esprimono nelle parlate delle <strong>di</strong>verse<br />

valli della provincia trentina 2 , gli stu<strong>di</strong>osi più documentati<br />

e sensibili hanno incluso in anni recenti<br />

<strong>di</strong>versi poeti <strong>di</strong>alettali trentini nelle loro scelte antologiche<br />

3 .<br />

Fra questi c’è una poetessa la cui scrittura ha un<br />

particolare smalto linguistico ed un suo stile <strong>di</strong> inconfon<strong>di</strong>bile<br />

fascino, nel quale esprime, con esiti<br />

poetici <strong>di</strong> suadente bellezza tutto il lavoro <strong>di</strong> scavo<br />

della sua interiorità, assieme ad un’accorata me<strong>di</strong>tazione<br />

esistenziale: Lilia Slomp.<br />

Nata nel 1945, la Slomp si è imposta<br />

all’attenzione dei critici con la sua prima raccolta<br />

e<strong>di</strong>ta in <strong>di</strong>aletto che risale al 1987, En zerca de<br />

aquiloni (In cerca <strong>di</strong> aquiloni) Rever<strong>di</strong>to E<strong>di</strong>tore,<br />

Trento, con presentazione <strong>di</strong> Elio Fox. Ad essa è<br />

seguito, nel 1990, il volume Schiramèle (Capriole),<br />

E<strong>di</strong>trice La Grafica, Mori (TN), sempre con la<br />

presentazione <strong>di</strong> Elio Fox e poi altri due più mature<br />

raccolte, Amor porét (Amore men<strong>di</strong>cante),<br />

1995, E<strong>di</strong>trice La Grafica, con prefazione <strong>di</strong> Renzo<br />

Francescotti e Stiarìa (Malia), 2002, E<strong>di</strong>trice<br />

La Grafica, con Prefazione <strong>di</strong> Tavo Burat. Intervallate<br />

a queste opere <strong>di</strong>alettali, tre raccolte – pregevoli<br />

– <strong>di</strong> poesie in lingua 4 .<br />

Già nella presentazione del suo secondo libro,<br />

Schiramèle, l’illustre critico e storico della letteratura<br />

<strong>di</strong>alettale trentina, Elio Fox, scriveva <strong>di</strong>…<br />

Un libro che va letto attentamente, perché offre<br />

aspetti della poesia <strong>di</strong>alettale che non sono consueti<br />

nel panorama della poesia contemporanea.<br />

E <strong>di</strong> consueto c’è veramente poco nei versi <strong>di</strong> Lilia<br />

Slomp .<br />

Essi sono infatti contrad<strong>di</strong>stinti da un linguaggio<br />

ricco <strong>di</strong> seducenti metafore che spesso attingono<br />

al mondo della natura e del paesaggio. Sono invenzioni<br />

linguistiche che affollano lo scorrere armonico<br />

dei versi <strong>di</strong> una serie fitta <strong>di</strong> immagini pittoriche<br />

e vivificanti, che trasportano il lettore in<br />

colorite realtà parallele, in ovattate visioni oniriche,<br />

in squarci <strong>di</strong> panorami dell’anima, dove riverberano<br />

tutte le gamme e le antinomie del sentimento:<br />

il dolore e la gioiosità sensuale, la me<strong>di</strong>tazione<br />

e la nostalgia, la rabbia e la speranza,<br />

l’abbandono nel grembo della natura e<br />

l’in<strong>di</strong>gnazione per le ingiustizie del mondo. Si<br />

legga ad esempio Striarìa (Malìa), dalla raccolta<br />

omonima del 2002:<br />

Poliscritture/Letture d’autore 64


L’è na sera de mus’cio questa,<br />

umida come i to làori<br />

a la tompesta che ne sgrifa.<br />

No gh’è paze per le fade<br />

inozènti. Le strìe le gà òci de foch,<br />

cavéi che fila ‘n encantesim stròf.<br />

La me vesta enrapolata la bina<br />

la rosada per cavarte la sé.<br />

E ti pèrs en la striarìa<br />

te sassìni penséri fiordaliso<br />

brusàndoli ai falò.<br />

L’è ‘n sgrisolón el mus’cio<br />

a svoltolón enté le scavezzàie<br />

del ziél. E mi me desgàrtio i cavéi<br />

en pèteni de tramontana<br />

quando el lóv el zerca la so tana<br />

per l’ultima schiramèla de vita.<br />

Zita, zita, ‘mbastìsso i fiori,<br />

i colori, la me storia lontana.<br />

* [È una sera <strong>di</strong> muschio questa,<br />

umida come le tue labbra<br />

alla tempesta che ci graffia.<br />

Non c’è pace per le fate<br />

innocenti. Le streghe hanno occhi <strong>di</strong> fuoco,<br />

capelli che filano un incantesimo buio.<br />

La mia veste stropicciata raccoglie<br />

la rugiada per <strong>di</strong>ssetarti.<br />

E tu, perso nella malìa,<br />

assassini pensieri fiordaliso<br />

bruciandoli ai falò.<br />

È un brivido il muschio<br />

a rotoloni nelle capezzagne<br />

del cielo. E io mi <strong>di</strong>pano i capelli<br />

in pettini <strong>di</strong> tramontana<br />

quando il lupo cerca la sua tana<br />

per l’ultima capriola <strong>di</strong> vita.<br />

Zitta, zitta, imbastisco i fiori,<br />

i colori, la mia storia lontana].<br />

Appare evidente la felicità espressiva con la quale<br />

viene rappresentata, o meglio evocata, una sorta <strong>di</strong><br />

simbiosi magica col mondo della natura. La raccolta<br />

infatti intende celebrare la striarìa, la malia,<br />

la fascinazione del bosco, con la sua fata Vivana,<br />

coi suoi folletti, i suoi muschi e le sue betulle, i<br />

suoi prati alti e le sue rugiade.<br />

Ma una lettura più profonda ci fa intendere che il<br />

bosco è anche emblema del nostro vivere 5 , della<br />

nostra con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> fate innocenti e <strong>di</strong> streghe<br />

dagli occhi <strong>di</strong> fuoco, dove c’è spazio per le tenerezze<br />

(la mia veste stropicciata raccoglie / la rugiada<br />

per <strong>di</strong>ssetarti…), per la sofferenza (e mi <strong>di</strong>pano<br />

i capelli / in pettini <strong>di</strong> tramontana / quando<br />

il lupo cerca la sua tana / per l’ultima capriola <strong>di</strong><br />

vita), ma anche per la speranza rasserenante (Zitta,<br />

zitta, imbastisco i fiori, / i colori, la mia storia<br />

lontana.).<br />

Evidenti sono pure, dall’esempio fatto, le caratteristiche<br />

formali delle composizioni della Slomp. I<br />

suoi testi poetici sono in genere brevi, esili, con<br />

versi anch’essi brevi (spesso settenari). Vi è presente<br />

quasi sempre un sapiente gioco <strong>di</strong> rime. La<br />

poetessa, che talvolta si cimenta anche con le forme<br />

classiche del sonetto (bello il Sonetto 3 <strong>di</strong> Amor<br />

porét), o con le quartine <strong>di</strong> endecasillabi a rima alterna<br />

(Per ti mama, Per te mamma, sempre da Amor<br />

porét)), il più delle volte pre<strong>di</strong>lige versi più<br />

liberi e <strong>di</strong> vario metro, con rime più rade e irregolari,<br />

che però si infittiscono nel finale <strong>di</strong> ogni composizione,<br />

rendendo più musicale ed incisiva, talvolta<br />

<strong>di</strong> lapidaria bellezza, la conclusione della lirica. (...<br />

el spègio da la cornis d’argent / e deventar de preda<br />

e mus’cio / senza un lament…lo specchio dalla<br />

cornice d’argento / e <strong>di</strong>ventare <strong>di</strong> pietra e muschio /<br />

senza un lamento. ).<br />

Qualche volta, come nella poesia su riportata il<br />

gioco delle rime è più complesso. C’è una rima<br />

ripetuta ( tramontana, tana, lontana), qualche rima<br />

interna (colori che riprende fiori, enrapoladarosada,<br />

vita-zita), nonché l’assonanza foch-strof.<br />

E in pochi versi la poetessa (pur restando fedele<br />

ad una sostanziale semplicità <strong>di</strong> linguaggio)<br />

riesce a creare tante immagini, cariche <strong>di</strong> altrettante<br />

risonanze emotive, che si fa quasi fatica a<br />

‘star <strong>di</strong>etro’ al fluire dei suoi versi.<br />

Facciamo un gioco.<br />

Lasciamo per un momento gli strumenti<br />

dell’analisi letteraria, chiu<strong>di</strong>amo gli occhi: comincia<br />

la visione-sogno-film-videoclip della<br />

poesia. Appare una sera umida e il muschio,<br />

emergono labbra umide (desiderio? effetto <strong>di</strong><br />

un bacio?). Entrano ora in scena le fate innocenti<br />

e le streghe dagli occhi <strong>di</strong> fuoco. I loro<br />

capelli filano un incantesimo che è scuro come<br />

la notte che avvolge tutto. Ecco una veste (<strong>di</strong><br />

donna, <strong>di</strong> fata?) che raccoglie rugiada per togliere<br />

la sete. A chi? Non c’è tempo per rispondere,<br />

incalza un’altra scena: i pensieri<br />

fiordaliso sono assassinati, bruciati in un falò.<br />

L’avete visto? Rischiara la notte, illumina la<br />

scena. Ritorna il muschio, ritorna l’autricedonna-fata,<br />

che scioglie i capelli in pettini <strong>di</strong><br />

Poliscritture/Letture d’autore 65


tramontana (bella e originale questa immagine!).<br />

La tramontana vi fa sentire il suo ululato<br />

(siamo in un bosco, tra le montagne) ed ecco<br />

che appare il lupo che cerca la sua tana per<br />

l’ultima schiramèla <strong>di</strong> vita. E non è finita. La<br />

donna-fata ritorna per un’ultima pennellata <strong>di</strong><br />

luce e <strong>di</strong> memoria, imbastisce i colori e la sua<br />

storia lontana e quel lontana riverbera con tana<br />

(e col suo senso <strong>di</strong> morte: l’ultima capriola <strong>di</strong><br />

vita), fa eco alla tramontana e con essa viene<br />

riportata nel buio, nel silenzio.<br />

E tutto questo affresco, <strong>di</strong> senso e <strong>di</strong> colore, in<br />

soli <strong>di</strong>ciannove versi, in trenta secon<strong>di</strong>, per chi<br />

ascolta la lettura. Non è magia?<br />

Ora che abbiamo imparato a giocare con i versi<br />

della Slomp, ecco quest’altra poesia, Ombrìe,<br />

Ombre, da Amor porét:<br />

Ombrìe, ombrìe, quante<br />

ombrìe su la me strada.<br />

Ghe coro drìo descólza,<br />

sgólo per no pestolàrle.<br />

L’è m’à gargà le spale<br />

de tute le so zèrle piene<br />

de ‘nsògni, stramberìe,<br />

peca<strong>di</strong>, cros. Ombrìe.<br />

Ombrìe da le face segnade.<br />

Figure de silenzi ziga<strong>di</strong><br />

a testa bassa, quando<br />

anca la rabia la se sfanta<br />

al sgrisolón de na vita<br />

che vòl la so canzon.<br />

(Ombre – Ombre, ombre, quante / ombre sulla<br />

mia strada. / Le rincorro scalza, / volo per non<br />

calpestarle. / Mi hanno caricato le spalle / <strong>di</strong> tutte<br />

le loro gerle piene / <strong>di</strong> sogni, stranezze, / peccati,<br />

croci. Ombre. / Ombre dalle facce segnate. / Figure<br />

<strong>di</strong> silenzi urlati / a testa bassa, quando / anche la<br />

rabbia svanisce / al brivido <strong>di</strong> una vita / che vuole<br />

la sua canzone.).<br />

Poesia indubbiamente più dolente. Le ombre sulla<br />

strada sono cariche <strong>di</strong> pene, ci danno sgomento<br />

perché sono tante, perché vuotano sulle nostre spalle<br />

sogni, stranezze, peccati e (soprattutto) croci. Un<br />

quadro questo, che esemplifica mirabilmente un<br />

sentimento doloroso, presente in tutta l’opera della<br />

poetessa trentina. Ad esso fa da controcanto, però,<br />

una gioiosa vitalità, una femminile, sottile sensualità<br />

<strong>di</strong> cui questa rarefatta poesia <strong>di</strong>alettale è imbevuta.<br />

( Ò slargà la gàida / per ciapar l’ultim ragio /<br />

de sol, el più sfrizènt, Ho allargato il grembo per<br />

afferrare l’ultimo raggio / <strong>di</strong> sole, il più frizzante…senza<br />

gnanca na sbrìndola / de seda su la pèl:<br />

brasa / per i to de<strong>di</strong> che sgòla. ..senza nemmeno un<br />

brandello / <strong>di</strong> seta sulla pelle: brace / per le tue <strong>di</strong>ta<br />

che volano…).<br />

Sarebbe però riduttivo confinare nelle due polarità<br />

del dolore e della gioia <strong>di</strong> vivere il ricco mondo<br />

poetico della Slomp.<br />

Se parecchie sue poesie si soffermano<br />

sull’evocazione del peso del vivere, che – come si<br />

è detto - sovente si <strong>di</strong>scioglie nella forza vitale del<br />

suo essere donna, non mancano i testi poetici che<br />

celebrano la sua sete d’affetto, una sorta <strong>di</strong> bramosia<br />

<strong>di</strong> sentimento ( non a caso uno dei suoi libri<br />

più densi si intitola Amor porét, Amore men<strong>di</strong>cante:<br />

L’è la me pèl che brusa / entrà le ombrìe / per<br />

el me amor porét / che ‘l gira nut… È la mia pelle<br />

che brucia / tra le ombre / per il mio amore men<strong>di</strong>cante<br />

/ che gira nudo.. ).<br />

Talvolta le sue poesie si colorano dello strugimento<br />

della nostalgia, della tristezza per le cose perdute:<br />

O’ smigolà el me pan / sui scòrtoi scondù<strong>di</strong> /<br />

de la me zoventù…Ho sbriciolato il mio pane / sui<br />

sentieri nascosti / della mia gioventù…e ancora…<br />

Nissun pù m’à piturada / soto l’arbol de la mél /<br />

con de<strong>di</strong> de poesia…Nessuno più mi ha pitturata /<br />

sotto l’albero del miele / con <strong>di</strong>ta <strong>di</strong> poesia.<br />

Varie composizioni, poi, contengono una trasfigurazione<br />

del quoti<strong>di</strong>ano operato dalle effusioni <strong>di</strong><br />

una fantasia levitante.<br />

E non mancano i testi che esprimono una partecipazione<br />

dell’autrice ai problemi della nostra società<br />

contemporanea (Emigranti, E i sbara, i sbara,<br />

E sparano sparano: …entél vert dei pra<strong>di</strong> / pòpe<br />

dai òci fiordaliso / per campi <strong>di</strong> formént / enmacia<strong>di</strong><br />

de ross…nel verde dei prati, / bimbe dagli<br />

occhi fiordaliso / per campi <strong>di</strong> frumento / macchiati<br />

<strong>di</strong> rosso…)<br />

Se a questi temi e motivi aggiungiamo la costante<br />

presenza <strong>di</strong> una tensione verso l’assoluto ( Elio<br />

Fox parla <strong>di</strong> un suo bisogno <strong>di</strong> eccelso, <strong>di</strong> vocazione<br />

al sublime ) capiamo che la Slomp è una poetessa<br />

<strong>di</strong> valore, che la sua poesia in <strong>di</strong>aletto (tra<br />

le più intense nel panorama dei poeti <strong>di</strong>alettali italiani<br />

contemporanei) è da conoscere e da stu<strong>di</strong>are,<br />

per il suo spessore letterario, e per la magia <strong>di</strong><br />

emozioni che dà il fluire dei suoi versi.<br />

Facciamo un gioco. Chiu<strong>di</strong>amo gli occhi…<br />

Poliscritture/Letture d’autore 66<br />

Note<br />

1 Franco Brevini, uno dei più autorevoli stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong> poesia<br />

<strong>di</strong>alettale italiana, fa risalire ai primi anni settanta la data <strong>di</strong><br />

nascita della stagione neo<strong>di</strong>alettale (F.Brevini, Le parole perdute,<br />

Einau<strong>di</strong>, 1990, pag. 40).


2 L’antologia Il pensiero dominante, poesia Italiana 1970-<br />

2000, Garzanti 2000, <strong>di</strong> Franco Loi e Davide Rondoni, include<br />

solo due poeti trentini, Renzo Francescotti e Fabrizio Da<br />

Trieste.<br />

3 Vittoriano Esposito, stu<strong>di</strong>oso della poesia <strong>di</strong>alettale, con<br />

specifici interessi per quella trentina, nella sua antologia,<br />

L’altro Novecento, vol VI (Panorama della poesia <strong>di</strong>alettale),<br />

Bastogi, Foggia, 2001, include cinque poeti trentini su settanta.<br />

Luigi Bonaffini e Achille Serrao nella loro Dialct Poetry<br />

of Northern & Central Italy, AGMV, Legas New York, 2001,<br />

ne antologizzano sei. In entrambe le opere è presente Lilia<br />

Slomp.<br />

4 Nonostante tutto, E<strong>di</strong>zioni U.C.T. Trento, 1991; Controcanto,<br />

E<strong>di</strong>zioni U.C.T. Trento, 1993; Leggenda, E<strong>di</strong>zioni<br />

U.C.T. Trento, 1998. Di imminente pubblicazione un’altra<br />

raccolta <strong>di</strong> poesie in lingua.<br />

Per la sua poesia in italiano la Slomp è inclusa nell’antologia<br />

<strong>di</strong> V.Esposito L’altro Novecento, vol II (La poesia femminile<br />

in Italia) e vol. III (La poesia etico-civile in Italia) Bastogi<br />

E<strong>di</strong>trice Foggia, 1997.<br />

5 Ermellino Mazzoleni, analizzando la raccolta Striarìa della<br />

Slomp, parla <strong>di</strong> un libro che va letto a due livelli, realistico ed<br />

allegorico ed afferma che un filo sottilissimo, e tuttavia visibile,<br />

attraversa l’intero volume poetico, si tratta <strong>di</strong> una presenza<br />

importante che amalgama e dà senso alle liriche, quello<br />

dell’esistenza. (E. Mazzoleni, La magia dell’esistenza in<br />

Striarìa <strong>di</strong> Lilia Slomp Ferrari, Ciàcere en trentin, n° 65, sett.<br />

2002,p. 20).<br />

- Fabrizio Podda: Porte, cesure e il dolore<br />

della mente. Una lettura <strong>di</strong> «Donna <strong>di</strong><br />

dolori» <strong>di</strong> Patrizia Valduga<br />

Nelle pagine che seguono ricorrerà spesso<br />

l’espressione “struttura iconica” in riferimento alle<br />

modalità che il testo, non solo quello poetico,<br />

mette in atto al fine <strong>di</strong> integrare tra loro le sue <strong>di</strong>verse<br />

componenti e rafforzare il proprio significato,<br />

la propria semantica profonda, consegnandosi<br />

in immagini esemplari (più o meno allegoriche).<br />

L’iconicità va intesa non solo nei termini del rapporto<br />

<strong>di</strong> similarità, motivatezza o arbitrarietà tra i<br />

segni e le cose del mondo (si pensi al Ceci n'est<br />

pas une pipe <strong>di</strong> Magritte), ma anche come insieme<br />

<strong>di</strong> strategie <strong>di</strong>scorsive volte alla strutturazione del<br />

senso e all’appren<strong>di</strong>mento del reale. 17 Tali strate-<br />

17 Da questo punto <strong>di</strong> vista, gli approcci al problema vengono<br />

da ambiti <strong>di</strong>sciplinari molto <strong>di</strong>fferenti: dal cognitivismo<br />

alla semiotica alla filosofia del linguaggio (ben riassunti<br />

in U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani,<br />

1997), dalla <strong>critica</strong> letteraria (A. Asor Rosa, I fondamenti<br />

epistemologici della letteratura italiana del novecento, in<br />

ID. (a cura <strong>di</strong>), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio<br />

<strong>di</strong> un secolo, Torino, Einau<strong>di</strong>, 2000 e C. Segre, La<br />

pelle <strong>di</strong> San Bartolomeo, Torino, Einau<strong>di</strong>, 2003) alla linguistica<br />

(R. Solarino, Fra iconicità e paraipotassi: il gerun<strong>di</strong>o<br />

nell’italiano contemporaneo, in SLI, Linee <strong>di</strong> tendenza<br />

dell’italiano contemporaneo, Roma, Bulzoni,<br />

1992).<br />

gie sono più evidenti in quei testi nei quali<br />

l’aspetto figurativo è privilegiato, quei testi appartenenti<br />

ad un genere <strong>di</strong> scrittura, la lirica, che per<br />

statuto formale implica e mette in gioco tutta una<br />

serie <strong>di</strong> fattori inseparabili dalle modalità percettive,<br />

dalle immagini del mondo e dal soggetto responsabile<br />

della loro presa e ricostruzione<br />

(dall’hic et nunc, si potrebbe <strong>di</strong>re).<br />

Da questo punto <strong>di</strong> vista, il caso della poesia <strong>di</strong><br />

Patrizia Valduga, almeno all’altezza dei testi su<br />

cui mi soffermo, è singolare ed utile in sede <strong>critica</strong><br />

anche per la ridefinizione del problematico posizionamento<br />

dell’interprete verso il testo e verso il<br />

metodo della lettura/interpretazione. Per quanto<br />

quella poesia, infatti, si caratterizzi per un lavoro<br />

ed un controllo molto attenti a tutti livelli delle<br />

strutture significanti della sintassi e della semantica,<br />

per quanto essa sia imme<strong>di</strong>atamente comunicativa,<br />

c’è un livello del testo, quello metricoritmico,<br />

che conduce al <strong>di</strong> là, e al <strong>di</strong> sotto, della<br />

lettera dei versi. C’è un luogo del testo in cui, per<br />

altro, l’interprete può avvertire un mancato effetto<br />

<strong>di</strong> iconicità, a partire dal quale si definisce una<br />

chiave <strong>di</strong> lettura che illumina sulle modalità <strong>di</strong><br />

funzionamento <strong>di</strong> questa poesia e, allo stesso tempo,<br />

sul doveroso rischio che ogni pratica <strong>di</strong> lettura<br />

implica in quanto azione nel mondo.<br />

***<br />

Farò riferimento, in particolare, alla seconda raccolta<br />

della poetessa, Donna <strong>di</strong> dolori. 18 Le chiavi<br />

<strong>di</strong> lettura che interagiscono sono due, una più appariscente<br />

ed una più nascosta: si tratta, rispettivamente,<br />

della figura della morte 19 - inscritta sin<br />

dall’epigrafe 20 e dal cartello inaugurale (in senso<br />

brechtiano, teatrale) “Monologo” 21 - e del rapporto<br />

spaziale tra narratore e testo, un rapporto corporale<br />

con la scrittura tale che al movimento ortografico<br />

della parola verso est equivale figuralmente il<br />

<strong>di</strong>scioglimento del corpo e il progressivo assopi-<br />

18 P. Valduga, Donna <strong>di</strong> dolori, Milano, Mondadori, 1991. In<br />

precedenza era uscita La tentazione (Crocetti, Firenze, 1985).<br />

19 La semantica della morte è ricorrente nella poesia della<br />

Valduga, si pensi solo ai titoli <strong>di</strong> altre sue raccolte: Requiem,<br />

Bologna, Marsilio, 1994; Corsia degli incurabili, Milano,<br />

Garzanti, 1996 ma lo stesso Me<strong>di</strong>camenta ed altri me<strong>di</strong>camenta,<br />

Torino, Einau<strong>di</strong>, 1989 ruota in quella medesima area<br />

semantica.<br />

20 L’epigrafe è tratta da G. M. Hopkins: “But man – we, scaffold<br />

of score brittle bones; | Who breathe from groundlong<br />

babyhood to hoary |Age gasp; whose breath is our memento<br />

mori - | What bass is our viol for tragic tones” [La poesia citata<br />

è The sheperd’s brow, fronting forked lighted, owns].<br />

21 Il cartello del monologo recita: “La donna è una morta sotterrata<br />

allo stato colliquativo. | È stesa su un invisibile catafalco<br />

a destra. | A sinistra uno schermo proietta lei viva a<br />

grandezza naturale. | Nient’altro. Nessuna Musica. | La faccia<br />

della donna non si deve mai vedere completamente”.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 67


mento della vis intellettiva, come mostrano emblematicamente<br />

questi versi:<br />

Migrazioni <strong>di</strong> vermi…verso est…<br />

migrano in linea retta…Nihil est<br />

in intellectu…quod prius! non pria…<br />

Il mio latino che se ne va via<br />

insieme con la testa…verso est…<br />

Ma se finis et bonum idem est<br />

questa volta sarà la volta buona. 22<br />

La scrittura è come il corpo allo stato “colliquativo”:<br />

ormai <strong>di</strong>sciolti carne e parole migrano “verso<br />

est”. L’est (che assomma, con l’anafora in rima<br />

baciata, la contrad<strong>di</strong>ttoria simultaneità <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssoluzione<br />

ed essenza) è il procedere verso destra della<br />

scrittura, è la frontiera che delimita la pagina. 23<br />

Quanto traspare è evidentemente il fatto che alla<br />

<strong>di</strong>ssoluzione del corpo, al suo ritorno ad una <strong>di</strong>namis<br />

biologica eppure legata ad un centro<br />

(all’“intellectu”), 24 corrisponde a tutti gli effetti il<br />

<strong>di</strong>ssolversi del linguaggio, un <strong>di</strong>ssolversi or<strong>di</strong>nato,<br />

ritmato, che della <strong>di</strong>ssoluzione del corpo è cifra.<br />

Bene ha notato uno dei primi e più attenti lettori<br />

della Valduga, Luigi Baldacci: «Problema retorico<br />

e problema esistenziale si fondono perfettamente:<br />

anzi il piano della retorica è la metafora <strong>di</strong> quello<br />

dell’esistenza. La poesia non può estorcere al poeta<br />

la sua confessione; bensì gli sigilla la bocca;<br />

così il poeta parla per bocca altrui, e proprio allora<br />

si confessa». 25 Il testo è infatti il me<strong>di</strong>um, l’io testuale<br />

è l’interposta persona (per <strong>di</strong>rla con<br />

un’espressione <strong>di</strong> Enrico Testa) che veicola<br />

l’istanza <strong>di</strong> significanza che muove il poeta. Ma<br />

può accadere che quest’ultimo trovi altri luoghi<br />

per “confessarsi”, per depistare, avvelenare i pozzi,<br />

o ancora per dare in<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> lettura. 26 Così<br />

22 P. Valduga, Prima antologia, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1998, p. 26<br />

(raccoglie Donna <strong>di</strong> dolori, Requiem e l’ine<strong>di</strong>to Carteggio.<br />

Citerò sempre da questa e<strong>di</strong>zione).<br />

23 Poco dopo, nella stessa poesia, si <strong>di</strong>ce: “da ovest verso est<br />

…dentro la fossa…| sì…guarirò da te…cura omeopatica…|dai<br />

vermi verso est… ”. Certo sarebbe interessare mettere<br />

a confronto questo sentimento del testo con quanto sosteneva<br />

Amelia Rosselli in Spazi metrici.<br />

24 Alla ripetizione <strong>di</strong> quel verso “Nihil est in intellectu…” è<br />

legata a mio avviso una conferma delle precedenti notazioni<br />

circa l’abbandono della logica temporale. In una precedente<br />

poesia <strong>di</strong> Donna <strong>di</strong> dolori (p.17) leggiamo: “Nihil est in intellectu<br />

quod pria | quod pria…e dopo?”. La risposta è molte<br />

pagine dopo, nei versi citati: “Nihil est | in intellectu…quod<br />

prius! non pria…”. Alla logica temporale se ne sostituisce<br />

una quantitativa.<br />

25 L. Baldacci, La parola imme<strong>di</strong>cata, Introduzione a P. Valduga,<br />

Me<strong>di</strong>camenta e altri me<strong>di</strong>camenta, cit. p. VI.<br />

26 Resta memorabile, ad esempio, la pratica zanzottiana<br />

e fortiniana <strong>di</strong> corredare <strong>di</strong> Note i propri volumi <strong>di</strong> versi.<br />

Si pensi a Fortini e alla Poesia delle rose, o a Zanzotto<br />

e la collaborazione con Stefano Dal Bianco nella<br />

ecco una vera e propria in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> poetica della<br />

stessa Valduga, in parole tratte dal terzo atto<br />

(intitolato sintomaticamente Le parole, il desiderio,<br />

la morte) della sua ultima raccolta, Lezione<br />

d’amore:<br />

Alle parole, le stesse che mi hanno fatto compagnia<br />

per proteggermi dalla morte e darmi un<br />

senso salvaguardando la mia identità, chiedo <strong>di</strong><br />

liberarmi da questa identità irrigi<strong>di</strong>ta e immobile<br />

dopo lo scacco del desiderio. Ho scritto una volta<br />

che scrivere è “esposizione rituale alla morte”<br />

per vincere, per un istante, la paura della morte.<br />

No. “La paura della morte non è che la sensazione<br />

precisa <strong>di</strong> essere morti, perché il mio io si<br />

è strutturato, perché ho conseguito un’identità”<br />

(P. Cantalupo). Scrivere è tutt’al più un esercizio<br />

<strong>di</strong> resurrezione. O meglio, un’autopsia… 27<br />

Torna qui il parallelo tra corpo del testo, scrittura<br />

e corpo del poeta (e dell’io monologante 28 ): tutti<br />

tendono al <strong>di</strong>scioglimento e alla ricomposizione,<br />

al senso. C’è una valenza apotropaica della scrittura,<br />

c’è una sensibilità fisica per il testo e la parola,<br />

sospesa tra “desiderio” e “morte”. 29<br />

Nella raccolta Donna <strong>di</strong> dolori c’è un punto<br />

esatto in cui tutto ciò si manifesta, in cui morte e<br />

corpi (della donna e della scrittura) si toccano e<br />

producono l’entrata in scena <strong>di</strong> una sensorialità<br />

<strong>di</strong>fferente - nella fattispecie quella u<strong>di</strong>tiva rispetto<br />

a quella visiva. 30 Questo clinamen cade sul finire<br />

della prima poesia:<br />

Io qui come una bestia da macello<br />

scuoiata, squartata appesa a scolare,<br />

come potrei ancora camminare<br />

se la porta è inchiodata? Ah per pietà,<br />

compilazione del Commento al Meri<strong>di</strong>ano Mondadori<br />

(ma cfr. a proposito A. Cortellessa, Je est un autre. Autobiografia<br />

e autocommento per interposta persona, in<br />

“L’immaginazione”, 175, Febbraio-Marzo 2001). Per<br />

uno stu<strong>di</strong>o più ampio sull’autocommento, cfr. G. Peron<br />

(a cura <strong>di</strong>), L’autocommento (Atti del XVIII Convegno<br />

Interuniversitario, Bressanone, 1990), Padova, Esedra<br />

E<strong>di</strong>trice, 1994.<br />

27 P. Valduga, Lezione d’amore, Torino, Einau<strong>di</strong>, 2004, p. 53.<br />

28 Quello <strong>di</strong> Donna <strong>di</strong> dolori è un monologo molto particolare,<br />

infarcito <strong>di</strong> citazioni e <strong>di</strong> riuso linguistico. Sarebbe più<br />

corretto parlare evidentemente <strong>di</strong> plurivocità messa in monologo.<br />

E si vedano le considerazioni <strong>di</strong> Luigi Baldacci<br />

nell’Introduzione a Me<strong>di</strong>camenta e altri me<strong>di</strong>camenta, cit.<br />

29 Si pensi a questi versi, incipit <strong>di</strong> Me<strong>di</strong>camenta e altri me<strong>di</strong>camenta:<br />

“Sa sedurre la carne la parola, | prepara il gesto,<br />

produce destini.”<br />

30 Non sarà cosa vana citare questi versi: “Io voglio che mi<br />

avvolga la tua voce. | Ora lo sai, ho bisogno <strong>di</strong> parole, | devi<br />

imparare a amarmi a modo mio. | È la mente malata che lo<br />

vuole. | Ho fantasie au<strong>di</strong>tive, non visive.| Vero, non voglio<br />

più chi non mi vuole. | Né chi mi vuole troppo: è un oppressore.<br />

| Voglio semplicemente le parole. | Sono loro il mio solo<br />

grande amore”.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 68


perché non mi si veda, che chissà,<br />

può venire un collasso a chi mi guarda.<br />

Non ne so niente, non mi riguarda,<br />

ma i miei occhi, oh i miei occhi, le cose<br />

che hanno visto i miei occhi, o se paurose!<br />

Poi il buio, e la porta si interpose.<br />

Quest’ultimo verso sancisce l’abbandono<br />

dell’or<strong>di</strong>ne logico-razionale retto dall’intelletto<br />

che posiziona gli eventi nel tempo. Quell’or<strong>di</strong>ne<br />

risulta palesemente invertito: è la porta che chiudendosi<br />

delimita il buio, entità del tutto simbolica<br />

che sta in figura della morte. La temporalità viene,<br />

da questo momento in poi, abolita: nel tempo <strong>di</strong>latato<br />

dell’osmosi <strong>di</strong> vita e morte (una “piccola eternità”,<br />

come si <strong>di</strong>rà, conclusa dai limiti tipografici<br />

della scrittura), nel tempo non-misurabile del<br />

passaggio la sola <strong>di</strong>mensione possibile è la spazialità<br />

del buio.<br />

Le possibilità iconiche del testo sono utilizzate qui<br />

all’ennesima potenza: l’elemento gerarchicamente<br />

più importante ai fini del senso e della “narrazione”<br />

è anteposto sintatticamente all’evento che lo<br />

produce: “Poi il buio, e la porta si interpose”. Il<br />

passaggio, oltre che dalla vita alla morte, è da una<br />

logica temporale-lineare ad una spaziale cogentemente<br />

materiale: dal basso verso l’alto incontriamo<br />

il corpo <strong>di</strong> “io”, il buio, la porta che si interpone<br />

come un vero e proprio operatore sintattico,<br />

un attivatore (shifter) della percettività, 31 infine<br />

l’oltreporta mondano: ma cosa è questo oltre, la<br />

vita che rimane, quella vissuta, l’esterno, la realtà,<br />

la luce? È la <strong>di</strong>mensione temporale per intero?, il<br />

nostro tempo <strong>di</strong> lettori?<br />

La porta sancisce l’entrata in un’altra <strong>di</strong>mensione<br />

sensoriale (dalla vista all’u<strong>di</strong>to), e qui troviamo il<br />

clinamen <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>cevo poc’anzi. Si noti, oltretutto,<br />

che la porta “si interpose”: la marca temporale<br />

del perfetto (tempo concluso per eccellenza, ma<br />

anche tempo lontanissimo, “fuori del tempo”; è<br />

l’unico perfetto dell’intera raccolta, mentre è frequente<br />

il passato prossimo), inverte simmetricamente<br />

interno (presente) ed esterno (passato prossimo).<br />

32 Quello che segue è una storia dal buio, 33<br />

31 Relativamente alla valenza simbolica della porta rimando a<br />

G. P. Caprettini, La porta: valenze mitiche e funzioni narrative.<br />

Saggio <strong>di</strong> analisi semiologica, Torino, Giappichelli,<br />

197a5 poi ripreso nel più recente G. P. Caprettini, Simboli al<br />

bivio, Palermo, Sellerio, 1992.<br />

32 Altrove, nella poesia della Valduga, questa inversione ha<br />

come operatore sintattico, come fulcro, il corpo senziente, il<br />

corpo del desiderio: “Via da me…no, verso me: mi entro dentro…|«Che<br />

cosa hai detto?» Non ho detto niente…| come<br />

verso il rovescio del mio centro, | come uno svenimento della<br />

mente” (quartina 37 <strong>di</strong> P. Valduga, Cento quartine e altre<br />

storie d’amore, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1997, p. 41).<br />

ma una storia in corso. La porta conchiude il tempo<br />

finito, tenendolo fuori e segnando allo stesso<br />

tempo la spazialità pronta per una nuova percettività.<br />

Lo fa con vigore, con una cesura: è una porta<br />

inchiodata, ce lo <strong>di</strong>ce il testo, è la porta del feretro.<br />

***<br />

Chiuso dentro il buio del feretro, il corpo in <strong>di</strong>scioglimento<br />

emette solo una frequenza vitale,<br />

prodotto della ragione in assopimento, eppure resistente:<br />

Poi goccia a goccia misuro le ore.<br />

Nel tutto buio, sotto il mio dolore,<br />

più giù del buio della notte affondo.<br />

Scena muta <strong>di</strong> sogno, ombra <strong>di</strong> mondo,<br />

5 un niente <strong>di</strong> due tutti e <strong>di</strong> due vite,<br />

piccola eternità, e ore infinite,<br />

pienissima <strong>di</strong> me, viva <strong>di</strong> un cuore<br />

che mi sgocciola via senza rumore,<br />

in me ringorgo sotto il mio dolore.<br />

10 Dolore della mente è il mio dolore…<br />

per il mio mondo…e per l’altro maggiore… 34<br />

Si tratta <strong>di</strong> un<strong>di</strong>ci endecasillabi a rima baciata, con<br />

la sola ultima rima iterata ulteriormente nel verso<br />

finale (così tutta la raccolta), a mo’ <strong>di</strong> chiusa.<br />

La struttura binaria è presente a tutti i livelli in<br />

questa poesia, in questa raccolta e probabilmente<br />

in tutta l’opera della Valduga 35 e si ripercuote dalla<br />

verticalità della scansione dei versi<br />

all’orizzontalità (“verso est”) del singolo verso. Si<br />

noti che i versi sono per lo più monolitici, mancano<br />

le inarcature ed anzi la tendenza è a far coincidere<br />

fine <strong>di</strong> verso e punteggiatura (con la sola eccezione<br />

del v. 7). Ma il legame tra verticalità e orizzontalità<br />

si ripercuote anche ad altri livelli, ed<br />

innanzitutto a quello semantico e sintattico.<br />

La verticalità è il luogo deputato ad accogliere la<br />

semantica profonda: gli avverbi “sotto” (v. 2),<br />

“più giù del buio”(v. 3) e ancora “sotto” (v. 9); i<br />

verbi “affondo”(v. 3), “sgocciola” (v. 8), rafforzano<br />

l’isotopia del “<strong>di</strong>scendere” che è componente<br />

dell’isotopia “morte”. Dal punto <strong>di</strong> vista della semantica,<br />

la verticalità appare come il correlativo<br />

33 Non è un caso che Donna <strong>di</strong> dolori termini con questi versi:<br />

“Do all’aria due manciate del mio sangue | per il suo chiaro…E<br />

sarà il nero ancora. | Oh notte solo mia! Niente più aurora<br />

| adesso, triste da me fino ai cani, | e niente sangue e<br />

niente più domani, | come se il sogno fosse cosa vera, | e come<br />

se l’aurora fosse sera, | e come se una nera notte. Nera”<br />

(P. Valduga, Prima antologia, cit. p. 29).<br />

34 P. Valduga, Prima antologia, cit. p. 10.<br />

35 Rifacendosi a Ignacio Matte Blanco, la Valduga chiama<br />

“bilogica” questa struttura binaria (Cfr. Le parole, il desiderio,<br />

la morte, in P. Valduga Lezione d’amore, cit. p. 150<br />

sgg.).<br />

Poliscritture/Letture d’autore 69


iconico del progressivo decomporsi del corpo, o,<br />

circostanziando, come il progressivo separarsi <strong>di</strong><br />

corpo ed intelletto, fino ai versi finali “Dolore della<br />

mente è il mio dolore | per il mio mondo… e<br />

per l’altro maggiore…” che sanciscono quella separazione<br />

e la natura totalmente mentale della pena<br />

(mentre il corpo, che è la scrittura, è forse luogo<br />

della salvazione).<br />

L’orizzontalità è, invece, innanzitutto il luogo della<br />

sintassi: sintassi della parola e del corpo nel<br />

nuovo stato (“colliquativo”). L’endecasillabo non<br />

è solo il metro <strong>di</strong> scansione della parola e della<br />

musicalità del verso, ma anche il ritmo della <strong>di</strong>ssoluzione<br />

del corpo, del suo affondare. Sarebbe<br />

interessante stu<strong>di</strong>are le modalità <strong>di</strong> posizionamento<br />

delle cesure all’interno dell’endecasillabo, 36 la<br />

sua funzione in questa poesia. Certo è che la cesura<br />

è una pausa secondaria rispetto a quella <strong>di</strong> fine<br />

verso, e che l’endecasillabo non ha cesura fissa<br />

ma mobile. In questo testo si può vedere molto<br />

chiaramente: i vv. 1, 5, 6, 7, 8, 10 hanno accento<br />

in sesta (e talvolta ottava) sillaba e per lo più un<br />

settenario iniziale (ci sono <strong>di</strong>versi endecasillabi a<br />

maiore), dopo il quale la cesura è piuttosto blanda<br />

(tranne ai vv. 6-7, dove è marcata dalla punteggiatura).<br />

I vv. 2, 3, 4, 9 e 11 hanno accenti in quarta e<br />

sesta, e in questo senso sono piuttosto classici.<br />

Non fosse che hanno delle cesure molto forti tra le<br />

due sillabe accentate (tranne il v. 3. piuttosto fluido),<br />

ed in specie cesure sintattiche affidate alla<br />

virgola che a tutti gli effetti scinde i versi in due<br />

emistichi autonomi ed impe<strong>di</strong>sce in due casi la sinalefe<br />

(vv. 4 e 11). Il v. 9 non ha la virgola ma la<br />

cesura rispetta la stessa scansione del v. 2, del<br />

quale è isomorfo: questo isomorfismo può essere<br />

una spia importante. Se <strong>di</strong>fatti al v. 2 “sotto il mio<br />

dolore” c’è un tutto buio e in<strong>di</strong>stinto, in questo caso<br />

a sopportare il peso del dolore è un io presente<br />

a se stesso, ancora mentalmente resistente, come<br />

<strong>di</strong>cono i due versi successivi. Il <strong>di</strong>scendere della<br />

morte ha come controparte, nell’orizzontalità, una<br />

progressiva acquisizione <strong>di</strong> presenza a sé dell’io<br />

monologante, una resistenza della vita mentale alla<br />

morte del corpo: letteralmente, allo sgocciolio<br />

(v. 8) <strong>di</strong> quello si oppone il ringorgo della mente<br />

(v. 9).<br />

36 Quella della presenza o meno della cesura<br />

nell’endecasillabo è a <strong>di</strong>re il vero questione molto controversa<br />

e <strong>di</strong>battuta dai metricisti. Cfr. I. Baldelli, Endecasillabo, in<br />

Enciclope<strong>di</strong>a Dantesca,I, pp. 672-676, 1970; Elwert, Versificazione<br />

italiana dalle origini ai giorni nostri (1968), Firenze,<br />

Le Monnier, 1973; G. L. Beccaria, L’autonomia del significante.<br />

Figure del ritmo e della sintassi, Torino, Einau<strong>di</strong>,<br />

1975; C. Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione,<br />

Bologna, Il Mulino, 1976 e Dal verso metrico al verso libero,<br />

in A. Pietropaoli, Materiali per lo stu<strong>di</strong>o del verso libero in<br />

Italia, Napoli, E<strong>di</strong>zioni Scientifiche italiane, 1994.<br />

Se dovessimo trovare un corrispettivo sintattico<br />

al “ringorgare” della mente in questo testo,<br />

esso starebbe certo nelle cesure. Le cesure infatti<br />

marcano il rallentamento del flatus voci in maniera<br />

mobile, non stabile (non <strong>di</strong>mentichiamo<br />

l’attenzione della Valduga per la pratica performativa<br />

dell’oralità); marcano l’alternanza <strong>di</strong> flui<strong>di</strong>tà<br />

(in particolare i vv.1, 3, 5, 8 ), progressiva <strong>di</strong>ssoluzione<br />

verso est da una parte, e resistenza, anche<br />

se oramai solo mentale, “in intellectu”, dall’altra.<br />

In modo non <strong>di</strong>ssimile, il sistema <strong>di</strong> rime baciate è<br />

sia un modo <strong>di</strong> far scivolare compattamente (a<br />

blocchi, come a gra<strong>di</strong>ni) il testo verso la chiusa,<br />

sia un modo <strong>di</strong> opporre, per via della medesima<br />

compattezza, una sorta <strong>di</strong> resistenza allo scivolamento.<br />

In questo senso, esse, più che avere una<br />

funzione eufonica, hanno una funzione strutturale<br />

“strofica” ed insieme strutturale “versale” giacché<br />

stabiliscono un limite alla nostra percezione dello<br />

spazio orizzontale (versale) del testo, ed insieme il<br />

senso del passaggio verso il basso, del <strong>di</strong>scendere<br />

(strofico).<br />

Non è forse azzardato sostenere che cesure e rime<br />

siano il corrispettivo sintattico della porta che “si<br />

interpose” marcando uno spazio sempre più ristretto<br />

(il testo), che solo se simmetricamente riversato<br />

dal mondo nel buio dolore della mente<br />

può accogliere il tempo della storia (come se, capovolgendo<br />

la clessidra, cambiasse la materia del<br />

tempo). In un certo senso cesure e rime <strong>di</strong>segnano<br />

spazialmente il luogo della clausura e del <strong>di</strong>battimento<br />

del corpo e della mente dell’io monologante:<br />

solo al lettore è offerta, e meglio consegnata, la<br />

possibilità <strong>di</strong> fare <strong>di</strong> quelle clausure, dolori e <strong>di</strong>battimenti<br />

il momento <strong>di</strong> ri-inizio dell’azione nella<br />

Storia.<br />

***<br />

C’è, <strong>di</strong>cevo, un punto del testo che solo ad una ripetuta<br />

lettura, una lettura mirata, fa problema. Lo<br />

faccio presente nella forma <strong>di</strong> un’esperienza personale<br />

<strong>di</strong> lettura, per mettere in evidenza come la<br />

percezione <strong>di</strong> un testo - in quanto iconicamente<br />

strutturato - chiama in causa per certi versi una<br />

competenza <strong>di</strong> tipo strutturale, per altro la proiezione<br />

sul testo <strong>di</strong> attese latamente estetiche a partire<br />

dalle quali la ricostruzione del senso operata dal<br />

lettore interprete – nell’iterazione degli approcci,<br />

delle letture, nella verifica degli strumenti – può<br />

incorrere nell’auto-inganno. Ciò non significa affatto,<br />

però, che non stia proprio in questo il nodo<br />

dei no<strong>di</strong>: può trattarsi, paradossalmente, <strong>di</strong> un lauto<br />

inganno.<br />

Il punto in questione è relativo al primo verso:<br />

“Poi goccia a goccia misuro le ore”. In particolare,<br />

nella mia memoria <strong>di</strong> quel verso il sintagma avverbiale<br />

“goccia a goccia” rimuginava al punto<br />

Poliscritture/Letture d’autore 70


che mi sembrava rivestisse un’importanza decisiva<br />

(inizialmente avevo avuto l’impressione che<br />

insinuasse la misura temporale del senso: lo sgocciolio).<br />

E pensando ad una temporalità protratta,<br />

<strong>di</strong>latata dall’intensità del dolore, mi è occorso fortuitamente<br />

ed erroneamente <strong>di</strong> scindere i due<br />

membri del sintagma e allontanarli<br />

nell’orizzontalità del verso (memore del celebre<br />

esempio <strong>di</strong> Quinto Ennio: “cere comminuit<br />

brum”). Nella memoria risuonava qualcosa come<br />

“Poi goccia misuro a goccia le ore” o ad<strong>di</strong>rittura<br />

un più estremo “Poi goccia misuro le ore a goccia”<br />

(che però non avrebbe rispettato il sistema<br />

delle rime). Era certo un caso <strong>di</strong> interferenza della<br />

soggettività percipiente rispetto alla temporalità<br />

del testo, era certo il segno <strong>di</strong> una proiezione<br />

sull’asse del <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> una tra le componenti<br />

dell’isotopia testuale profonda (la “morte”): la<br />

componente della separazione, della <strong>di</strong>visione dei<br />

tempi, dello spazio mi sembrava potessero invadere<br />

il testo. Ad operare quella scissione era – in<br />

quella prima e ripetuta lettura forzata -<br />

l’orizzontalità del corpo riverso del cadaverenarratore.<br />

D’altra parte, quella della scissione era<br />

un’isotopia inaugurata poco prima nel testo dalla<br />

cesura della porta, che “si interpose” decretando il<br />

buio, la prevalenza dell’u<strong>di</strong>to sulla vista e, con la<br />

clausura dello spazio, la forclusione invasiva della<br />

temporalità interiore - come se si girasse una clessidra.<br />

Ma, evidentemente, il testo parla <strong>di</strong>versamente,<br />

ed è col testo, e non con la propria memoria,<br />

che bisogna fare i conti. Il sintagma “goccia a<br />

goccia” rimanda allora, innanzitutto, all’altra <strong>di</strong>mensione<br />

fondamentale, quella sensoriale<br />

dell’u<strong>di</strong>to, e solo in seconda istanza alla <strong>di</strong>mensione<br />

temporale: il goccia a goccia è pur sempre<br />

misura delle ore, seppur misura riparametrata su<br />

scale sinestetiche e isocronie mentali. Il gocciolio<br />

è gocciolio dall’esterno, un gocciolio rapido (il<br />

testo, invertendo l’impressione iniziale, rimanda a<br />

questa inesorabile rapi<strong>di</strong>tà): è infiltrazione del<br />

mondo e non ancora gocciolio del corpo in <strong>di</strong>ssoluzione.<br />

È il tempo del fuori, dell’oltre-porta, che<br />

si insinua poco a poco in forma <strong>di</strong> suono nello<br />

spazio buio. Il corpo, immerso nel buio, non è più<br />

misura delle cose del mondo reale né <strong>di</strong> quello<br />

della memoria, la mente sì. Ed è proprio nella<br />

mente, e non più nel corpo, che la nostalgia <strong>di</strong><br />

quel doppio mondo produce infine dolore. Dolore<br />

che è anche e soprattutto resistenza, ingorgo: resistenza<br />

alla storia, al mondo, e non al biologico. Il<br />

solo corpo che porta i segni della clausura e<br />

dell’incapacità, ormai, <strong>di</strong> avvertire il mondo è, infine,<br />

il corpo del testo.<br />

***<br />

Il corpo del testo è il punto <strong>di</strong> partenza, potenzialmente<br />

iterabile, <strong>di</strong> ogni pratica <strong>di</strong> lettura e <strong>di</strong><br />

interpretazione. Ripercorso, ricostruito, abbandonato<br />

o amato, sterilizzato o adempiuto, il senso<br />

che avanza dopo l’attraversamento del testo, dopo<br />

il corpo a corpo con esso, ci informa che è in noi,<br />

ineluttabilmente, che resiste la possibilità <strong>di</strong> incidere<br />

la storia: meglio, è a partire da noi che quella<br />

possibilità può e deve insistere.<br />

Per una <strong>critica</strong> <strong>di</strong>alogante 4<br />

Caro Fabrizio,<br />

il tuo scritto si mantiene ad un livello <strong>di</strong> astrazione<br />

e specialismo abbastanza alto. Non ne metto in<br />

<strong>di</strong>scussione il valore. Né mi viene in mente <strong>di</strong> porre<br />

qualsiasi ostacolo alla sua pubblicazione così<br />

com’è. Pongo però un problema a tutti per il<br />

prossimo futuro: a quale linguaggio deve tendere<br />

il redattore o il collaboratore <strong>di</strong> POLISCRITTU-<br />

RE? Io <strong>di</strong>rei a un linguaggio non gergale né specialistico.<br />

Oppure, nel caso la presenza <strong>di</strong> gerghi o<br />

specialismi fosse necessaria o inevitabile, questi<br />

lessici dovrebbero essere in qualche modo accompagnati<br />

da una traduzione (‘cioè’ esplicativi, magari<br />

con rapi<strong>di</strong> richiami da glossario). Lo stile <strong>di</strong>scorsivo,<br />

poi, dovrebbe essere in altro grado colloquiale<br />

e <strong>di</strong>alogante (con qualcuno: un lettore ideale<br />

o concreto va tenuto presente se non al<br />

momento dell’ideazione del testo almeno in quello<br />

della sua stesura). Non voglio fare <strong>di</strong>scorsi generali<br />

sulla comunicazione. Mi limito a <strong>di</strong>re che, finché<br />

filosofi, meccanici, chirurghi o manager si rivolgono<br />

a filosofi, meccanici, chirurghi o<br />

manager, il lessico speciale della loro professione<br />

o le formule, i fraseggi tipici già circolanti<br />

mell’ambiente, i moduli sintattici in uso nella loro<br />

comunità professionale vanno benissimo. Ma<br />

quando - come ricordava Fortini - il proverbiale<br />

filosofo o metricista o scienziato deve/vuole comunicare<br />

con il proverbiale uomo della strada<br />

(che speriamo apra anche <strong>POLISCRITTURE</strong> o<br />

visiterà il nostro sito) si pongono tanti altri problemi.<br />

Certo non si tratta solo <strong>di</strong> una questione<br />

<strong>di</strong> lessico o <strong>di</strong> stile <strong>di</strong>scorsivo. Non puoi dare per<br />

scontato, ad esempio, che i lettori <strong>di</strong> POLI-<br />

SCRITTURE sappiano chi sia la Valduga o siano<br />

in partenza interessati alla questione <strong>di</strong> ridefinire<br />

«la problematica del posizionamento<br />

dell’interprete verso il testo». Devi <strong>di</strong>mostrargli<br />

che tale questione è importante anche per loro.<br />

Passando alle mie reazioni <strong>di</strong> lettore pur volente-<br />

Poliscritture/Letture d’autore 71


oso, tengo a sottolinearti solo due punti:<br />

1) benissimo soffermarsi su un’in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong><br />

poetica della Valduga, ma quella poetica (parallelo<br />

tra corpo del testo e corpo del poeta, valenza<br />

apotropaica della scrittura, sensibilità fisica per il<br />

testo e la parola) tu la con<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>, che opinione ne<br />

hai? Io lettore sarei curioso <strong>di</strong> saperlo, perché un<br />

testo critico non è la semplice parafrasi dei testi<br />

della poetessa esaminata; 2) ho seguito quasi con<br />

invi<strong>di</strong>a la tua performance da metricista; ma la tua<br />

tesi («che cesure e rime siano il corrispettivo sintattico<br />

della porta che si interpone, marcando uno<br />

spazio sempre più ristretto che solo simmetricamente<br />

riversato nel buio dolore della mente può<br />

<strong>di</strong>latarsi ed accogliere il tempo. In un certo senso<br />

cesure e rime <strong>di</strong>segnano spazialmente il luogo della<br />

clausura e del <strong>di</strong>battimento del corpo e della<br />

mente dell’io monologante ») mi pare non si colleghi<br />

ad altri piani <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso che permettano <strong>di</strong><br />

capire quanto questi problemi siano centrali nella<br />

poesia della Valduga, e cosa pensare del significato<br />

<strong>di</strong> questa sua poesia oggi.<br />

Un caro saluto<br />

Ennio<br />

- Sergio Rotino: Lo spettacolo deve andare<br />

avanti. Intervista a Nicola Lagioia<br />

Ti abbiamo conosciuto nel 2001 con Tre sistemi<br />

per sbarazzarsi <strong>di</strong> Tolstoj, pura esplosione della<br />

forma romanzo. Nel 2004 esce Occidente per<br />

principianti, che mi piacerebbe definire “implosione”<br />

del romanzo, se non fosse per la sua<br />

compostezza nel <strong>di</strong>spiegarsi della storia. È bastato<br />

un lasso <strong>di</strong> tempo così breve per operare<br />

un salto che scollega il tuo esor<strong>di</strong>o dall’essere il<br />

narratore <strong>di</strong> oggi?<br />

Ma guarda che in questi tre anni mi sono successe<br />

un mucchio <strong>di</strong> cose: ho fatto tre traslochi, letto<br />

qualche libro, scritto un romanzo che poi ho buttato,<br />

chiuso un paio <strong>di</strong> storie d’amore, ho iniziato a<br />

curare “nichel” per minimum fax e me ne sono<br />

andato (quando potevo, o quando venivo temporanemente<br />

scaraventato fuori dal grande ventre <strong>di</strong><br />

Roma) un po’ alla deriva per le citta europee. Insomma,<br />

Occidente per principianti è venuto fuori<br />

da un’incubatrice che ha contenuto un po’ <strong>di</strong> tutto,<br />

un manicomio interessante al quale mi sono poi<br />

sforzato <strong>di</strong> dare una <strong>di</strong>gnità letteraria. Per Tre sistemi<br />

per sbarazzarsi <strong>di</strong> Tolstoj volevi <strong>di</strong>re “esplosione”<br />

della forma-romanzo, vero?<br />

Sì, per me rappresenta la frantumazione della<br />

forma-romanzo, la sua estrema atomizzazione.<br />

Ve<strong>di</strong>, per come la vedo io, Tre sistemi per sbarazzarsi<br />

<strong>di</strong> Tolstoj era un romanzo imploso, quasi aforismatico,<br />

più vicino a un haiku che a un quarto<br />

<strong>di</strong> bue. Occidente per principianti è un quarto <strong>di</strong><br />

bue a cui spero che gli strumenti dello stile non<br />

abbiano tolto un po’ <strong>di</strong> bella sanguinolenza.<br />

A parte questo, è possibile ascrivere un simile<br />

salto nella scrittura al tuo lavoro in casa e<strong>di</strong>trice,<br />

quin<strong>di</strong> al tuo contatto con l’establishment<br />

<strong>cultura</strong>le (autori, e<strong>di</strong>tori, critici)? Oppure è<br />

dettato da un ripensamento?<br />

Non il contatto con l’establishment <strong>cultura</strong>le (frequento<br />

<strong>di</strong> solito personaggi abbastanza scassati<br />

che solo accidentalmente, e solo in certi casi, hanno<br />

la sventura supplementare <strong>di</strong> essere uno scrittore<br />

o un critico), e nemmeno il frutto <strong>di</strong> un serio e<br />

me<strong>di</strong>tato ripensamento. Piuttosto una cosa spontanea<br />

nel suo sorgere, un movimento liberatorio che<br />

nasce dall’intestino e poi, quando la frittata è fatta,<br />

viene raccolto e messo in pie<strong>di</strong> con la tecnica narrativa,<br />

il mestiere e tutto quanto il resto.<br />

Era comunque una trasformazione annunciata.<br />

A Reggio Emilia, nel 2001, durante “Ricercare”<br />

avevi letto l’inizio <strong>di</strong> quel romanzo poi abbandonato,<br />

e già la tua scrittura si spostava su<br />

Poliscritture/Letture d’autore 72


altri fronti. La stessa cosa si percepiva dai racconti<br />

che hai pubblicato su giornali e antologie,<br />

dal “Corriere del Mezzogiorno” a Patrie impure<br />

a La qualità dell’aria, curata da te e da Christian<br />

Raimo. Eppure, in tutto questo non è ancora<br />

chiaro il perché <strong>di</strong> una simile conversione<br />

a “U” stilistica, a parte la naturale evoluzione<br />

<strong>di</strong> ogni scrittore ecc.<br />

Francamente non è chiara nemmeno a me. Ma<br />

all’epoca del mio primo romanzo non avevo probabilmente<br />

ancora gli strumenti per mettermi a<br />

scrivere una cosa come Occidente per principianti.<br />

Ed è importante che io non li abbia acquisiti del<br />

tutto neanche oggi. Il fatto è questo: ogni volta<br />

che provo a scrivere un romanzo, non devo sapere<br />

<strong>di</strong> essere in grado <strong>di</strong> portarlo a termine. Devo <strong>prova</strong>re<br />

a spingermi per territori mai frequentati prima,<br />

con la possibilità del fallimento che mi alita<br />

sul collo promettendomi, a capitolo chiuso, che<br />

con il prossimo capitolo tutto crollerà, la lingua<br />

non terrà, la struttura salterà, tutto il romanzo se<br />

ne andrà a puttane. Ci deve stare questo continuo<br />

conto aperto, tra me e il Fallimento. Un’apertura<br />

<strong>di</strong> cre<strong>di</strong>to reciproca. Scrivere Tre sistemi per sbarazzarsi<br />

<strong>di</strong> Tolstoj parte II, insomma, mi avrebbe<br />

annoiato parecchio.<br />

Il 2001 è stato per te, in quanto persona e in<br />

quanto autore, un “anno mirabile”: ti ha portato<br />

all’abbandono del lavoro sommerso, alla<br />

pubblicazione del primo romanzo, alla cura <strong>di</strong><br />

“nichel”, la collana <strong>di</strong> minimum fax rivolta agli<br />

autori italiani. Sei partito da questi elementi<br />

autobiografici per organizzare il materiale che<br />

sta alla base <strong>di</strong> Occidente per principianti?<br />

Guarda che nonostante il “Supercorallo” e la cura<br />

<strong>di</strong> una collana letteraria, la mia continua a essere<br />

la vita <strong>di</strong> un precario. È solo finito (grazie a Dio)<br />

il lavoro sommerso. Ma per il resto continuo a<br />

coltivare, <strong>di</strong> tanto in tanto, la nobile arte <strong>di</strong> farmi<br />

invitare a cena a spese altrui. Comunque, sì, una<br />

parte degli elementi utilizzati per Occidente per<br />

principianti è stato preso dalla mia esperienza <strong>di</strong><br />

precario intellettuale e dalla frequentazione <strong>di</strong><br />

precari che stavano peggio <strong>di</strong> me: registi itineranti<br />

senza sol<strong>di</strong> per comprarsi la pellicola, reduci <strong>di</strong><br />

Castelporziano con le transaminasi alle stelle, grafici<br />

col vizio dello spaccio, intellettuali per scelta<br />

che però erano anche truffatori per necessità. Il<br />

libro è de<strong>di</strong>cato a loro.<br />

Quando hai iniziato a scrivere Occidente per<br />

principianti e quanto ci hai messo per completare<br />

la prima stesura? La leggibilità delle pagine<br />

– logico sia un fattore personale – farebbe<br />

pensare a qualcosa <strong>di</strong> vicino a un “buona la<br />

prima”. Ma non è così, vero?<br />

Diciamo “buona la cento<strong>di</strong>ciottesima”. La cartella<br />

Occidente per principianti presente ancora sul<br />

desktop del mio pc contiene cento<strong>di</strong>ciotto file, tra<br />

appunti, scritture, riscritture, capitoli tagliati, aborti<br />

<strong>di</strong> ogni genere. Tra l’altro il buon Fenoglio<br />

<strong>di</strong>ceva: «la più limpida e semplice delle mie pagine<br />

è il frutto <strong>di</strong> penosi e lunghissimi tentativi <strong>di</strong><br />

riscrittura». Ecco.<br />

Siamo quin<strong>di</strong> davanti a un romanzo<br />

dall’elaborazione, per così <strong>di</strong>re, lenta…<br />

Sono stati due anni <strong>di</strong> lavoro molto duro. Quattro<br />

o cinque ore al giorno, inchiodato alla se<strong>di</strong>a davanti<br />

al monitor, saltando pochissimi giorni, e rifugiandomi<br />

<strong>di</strong> tanto in tanto da amici che squattavano<br />

in posti molto strani <strong>di</strong> Siviglia e <strong>di</strong> Parigi.<br />

E dopo due anni lo hai consegnato a Einau<strong>di</strong>?<br />

Paola Gallo, l’e<strong>di</strong>tor <strong>di</strong> Einau<strong>di</strong> che ha lavorato<br />

con me, aveva letto le prime cento pagine del romanzo.<br />

Sulla base <strong>di</strong> quelle <strong>di</strong> mi hanno preparato<br />

un contratto. E abbiamo trovato una bella sintonia<br />

soprattutto quando da Torino mi hanno detto:<br />

“Questo ci sembra un romanzo importante. Non<br />

fissiamo una data <strong>di</strong> consegna. Pren<strong>di</strong>ti tutto il<br />

tempo che ti serve. Sarà finito quando sarà finito”.<br />

Ma lo hai consegnato? Ti faccio questa domanda<br />

balzana, perché l’ottica dell’industria <strong>cultura</strong>le<br />

non dà più la possibilità (pensa invece<br />

all’Arbasino <strong>di</strong> Fratelli d’Italia) <strong>di</strong> riscrivere un<br />

proprio testo, <strong>di</strong> apportarvi mo<strong>di</strong>fiche successive<br />

e aggiunte. In altre parole, <strong>di</strong> ripubblicarlo.<br />

Non lo so. Per adesso ho solo voglia <strong>di</strong> buttarmi<br />

su storie e avventure completamente <strong>di</strong>verse. Spero<br />

che l’ideale prosecuzione o l’aggiornamento <strong>di</strong><br />

Occidente per principianti, se mai ci sarà, vedrà la<br />

luce fra molti anni e avrà un titolo <strong>di</strong>verso. Insomma,<br />

un romanzo nuovo.<br />

Fermandosi sulla prima soglia del romanzo, al<br />

titolo, vengono in mente i manuali della Apogeo,<br />

quelli “for dummies”: manuali <strong>di</strong> consultazione<br />

per principianti che vogliono apprendere<br />

i ru<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> una data materia. È come se per<br />

te l’Occidente, soprattutto il nostro Occidente<br />

italiano, andasse spiegato per step successivi,<br />

perché troppo complesso, impossibile da gestire<br />

in un blocco unico…<br />

L’Occidente è un eye wide shut. Nel gioco <strong>di</strong> parole,<br />

“un occhio chiuso completamente spalancato”.<br />

Una <strong>di</strong>latazione dello sguardo talmente abnorme<br />

e mostruosa da non permetterci <strong>di</strong> vedere<br />

Poliscritture/Letture d’autore 73


più un bel niente. Il nostro approccio al problema,<br />

non può non essere quello <strong>di</strong> una matricola.<br />

Nella prima parte del romanzo sembra <strong>di</strong> rileggere<br />

alcune pagine, per me attualissime, del<br />

Diario Notturno <strong>di</strong> Flaiano o della Vita agra e<br />

del Lavoro e<strong>di</strong>toriale <strong>di</strong> Bianciar<strong>di</strong>. Ma come<br />

stile e come finalità mi sembra che questi due<br />

autori ti siano lontanissimi…<br />

La vita agra l’ho amata moltissimo. Luciano<br />

Bianciar<strong>di</strong> l’ho amato moltissimo. Se qualche cosa<br />

è passata, ne sono felice. In fondo, col suo romanzo<br />

più importante, Bianciar<strong>di</strong> faceva vedere il<br />

“dark side” della Dolce Vita, il risvolto della medaglia.<br />

Io ho cercato <strong>di</strong> fare la stessa cosa in<br />

un’epoca che non è più quella della via Veneto<br />

sfavillante e delle cantine dei teatri off, ma qualche<br />

cosa – nelle apparenze – <strong>di</strong> molto più mostruoso,<br />

più grottesco, più <strong>di</strong>sperato. La <strong>di</strong>versità<br />

<strong>di</strong> stile, credo, nasce anche da questo.<br />

Proprio ne “Il contesto”, la prima parte <strong>di</strong> Occidente<br />

per principianti, si ritrovano molte delle<br />

in<strong>di</strong>cazioni politiche, e anche sociali e antropoligiche,<br />

<strong>di</strong> questi due scrittori sulla e contro la<br />

fauna “artistica” che popolava Roma ai loro<br />

tempi e che ancora la popola…<br />

Sì, è vero. Come <strong>di</strong>cevo prima, Roma è un grande<br />

ventre pronto a inghiottire <strong>di</strong> tutto. Una città meravigliosamente<br />

appesantita dall’abbacchio, dal<br />

traffico e dal Bernini, il vero simbolo <strong>di</strong> questo<br />

luogo che nei secoli ha macinato e metabolizzato<br />

e confuso e conservato (!) <strong>di</strong> tutto: imperatori e<br />

flagellanti, sante e mignotte, miracolati e scalognati,<br />

yin e yang. È un maschile che non avrebbe<br />

scrupoli a giustiziare il proprio avversario se solo<br />

non fosse fiaccato da un femminile ninfomane.<br />

Ma la <strong>critica</strong> alla spettacolarizzazione della<br />

Storia e dell’informazione, che è alla base del<br />

tuo romanzo, l’hai tratta dalle tesi <strong>di</strong> Debord<br />

sulla società dello spettacolo, da un loro scavalcamento?<br />

Più che le tesi (confesso <strong>di</strong> non aver mai letto neanche<br />

una pagina della Società dello spettacolo)<br />

mi ha influenzato l’inveramento delle tesi stesse:<br />

il mondo che abitiamo.<br />

Nel libro <strong>di</strong> Alain Joxe, L’impero del caos, si citano<br />

le parole del generale Peters sulla Storia<br />

che non è più <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> informazioni, ma gestione<br />

dell’informazione. Il protagonista del tuo<br />

romanzo sembra ancora poggiarsi sulla <strong>ricerca</strong>,<br />

anche se involontariamente, mentre Michela<br />

Renzi della Lucilla, sua “datrice <strong>di</strong> lavoro”, è<br />

platealmente tutta spostata sulla gestione…<br />

Al protagonista rimane ancora qualche traccia <strong>di</strong><br />

umanità, che <strong>prova</strong> a <strong>di</strong>fendere attraverso una <strong>ricerca</strong><br />

che, purtroppo per lui, non sfocia né su epifanie<br />

né su crescite interiori à la Renzo Tramaglino<br />

e nemmeno su vere occasioni <strong>di</strong> fuga. Ma è ancora<br />

vivo, e vivo resterà fino alla fine del libro. È<br />

già qualcosa, perché Michela Renzi della Lucilla<br />

invece, “tutta spostata sulla gestione” come <strong>di</strong>ci<br />

tu, non è quasi più un essere umano: è una macchina<br />

celibe.<br />

Perciò il personaggio senza nome del giornalista<br />

ghost writer racchiude, ancora più <strong>di</strong> Zelda,<br />

l’aspetto romantico e “positivo” del romanzo,<br />

la possibilità <strong>di</strong> un riscatto e <strong>di</strong> un ravve<strong>di</strong>mento?<br />

Sì. La mancanza del nome del protagonista testimonia<br />

la sua attuale impotenza, ma apre anche<br />

spiragli per un riscatto futuro. Riscatto che esiste a<br />

livello potenziale (è nello spirito più intimo del<br />

protagonista, secondo me) ma nel romanzo non<br />

c’è. Esiste nelle pagine non scritte. Forse esiste<br />

nelle pagine <strong>di</strong> un romanzo futuro.<br />

Però nel “Contesto”, quando descrive la società<br />

<strong>cultura</strong>le romana e quel che ne deriva, il ghost<br />

writer non sembra particolarmente arrabbiato,<br />

piuttosto ironicamente schifato. Ancora meglio:<br />

catatonicamente adagiato sull’orrore <strong>di</strong><br />

quella società. Che poi è, compiacentemente,<br />

non solo la società della comunicazione, ma anche<br />

e soprattutto la società nel suo complesso.<br />

Non è una forte in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> complicità e <strong>di</strong><br />

accettazione da parte sua? Passi l’eroe non<br />

proprio positivo, ma qui sembra una aperta <strong>di</strong>chiarazione<br />

<strong>di</strong> fiancheggiamento.<br />

Volevo un personaggio quasi completamente<br />

schiacciato dal mondo in cui aveva avuto la ventura<br />

<strong>di</strong> nascere e crescere: il mondo in cui esistiamo<br />

ci schiaccia e ci comprime con guanti <strong>di</strong> velluto<br />

che però sempre appartengono alle mani dei carcerieri.<br />

L’eroe del romanzo non è il protagonista,<br />

ma quella piccola sacca <strong>di</strong> umanità che nel protagonista<br />

riesce a salvarsi. Il mio giu<strong>di</strong>zio su <strong>di</strong> lui è<br />

più che altro, come <strong>di</strong>cevo, un giu<strong>di</strong>zio sospeso<br />

perché è la nostra generazione – a cui il ghost writer<br />

appartiene – a non essersi ancora riscattata.<br />

Voglio verificare, su <strong>di</strong> me e su chi mi circonda,<br />

se abbiamo veramente i numeri (e le occasioni)<br />

per farlo.<br />

Curioso il passaggio in cui descrivi la riunione<br />

<strong>di</strong> responsabili ufficio stampa, capaci <strong>di</strong> farsi<br />

venire degli scrupoli sulla veri<strong>di</strong>cità <strong>di</strong> alcuni<br />

documenti. Curioso perché l’ufficio stampa <strong>di</strong><br />

solito non ha queste remore. In Occidente per<br />

Poliscritture/Letture d’autore 74


principianti, invece, è la macchina informativa<br />

a non farsi scrupoli, a pompare con tutti i mezzi,<br />

a montare l’albume dello scoop. Hai scelto<br />

un ribaltamento come questo per spingere sul<br />

grottesco la <strong>critica</strong> all’informazione?<br />

Sì, credo ci sia molto <strong>di</strong> grottesco: una versione<br />

allucinata del futuro prossimo, forse. Gli uffici<br />

stampa <strong>di</strong> Occidente per principianti sono<br />

l’upgra<strong>di</strong>ng dell’ufficio stampa come lo conosciamo<br />

noi. Hanno capito, definitivamente, che si<br />

può veicolare qualunque cazzata, la verità, il suo<br />

contrario, quello che si vuole. L’importante è come<br />

lo si fa. L’importante è veicolare una notizia<br />

(qualunque essa sia), vederla gonfiarsi e poi esplodere<br />

nel firmamento me<strong>di</strong>atico. È un amore<br />

(perverso) che investe la <strong>di</strong>namica più che la notizia<br />

in sé. Insomma, è un po’ la degenerazione estrema<br />

della vecchia faccenda del mezzo che è il<br />

messaggio.<br />

All’interno <strong>di</strong> Occidente per principianti, la Storia<br />

riprende a correre, e a ritorcere la spettacolarizzazione<br />

dell’informazione contro chi l’ha<br />

assunta come valore assoluto. Ecco allora scorrere<br />

i fatti dell’estate 2001 (che sembrano descrivere<br />

anche la parte per te patita come orribile<br />

<strong>di</strong> quell’anno): da Genova-G8 all’11/09 <strong>di</strong><br />

NY DC. Sono però acca<strong>di</strong>menti marginali per i<br />

protagonisti, come se le loro percezioni del reale<br />

fossero oramai talmente <strong>di</strong>storte, con pochissime<br />

possibilità <strong>di</strong> recupero…<br />

Questa cosa degli eventi storici importanti (il G8,<br />

le Torri Gemelle) sepolti in un mare <strong>di</strong> frivolezza<br />

nasce però anche da un’esigenza poetica. La frivolezza<br />

sull’orlo del collasso, insomma, mi ha sempre<br />

affascinato (le serate danzanti sul Titanic; i pigionanti<br />

della Montagna incantata che continuano<br />

a mangiare torte Sacher a quattromila metri <strong>di</strong> altitu<strong>di</strong>ne<br />

mentre ai loro pie<strong>di</strong> si sta per scatenare la<br />

Prima Guerra Mon<strong>di</strong>ale; Liza Minelli che balla<br />

nei locali <strong>di</strong> Cabaret mentre il nazismo si sta per<br />

impadronire <strong>di</strong> mezza Europa).<br />

Vanno letti in questa <strong>di</strong>rezione i riferimenti <strong>di</strong>retti<br />

e in<strong>di</strong>retti (comprese le citazioni da Noi<br />

non ci saremo e da Cronache marziane), ma<br />

sempre pessimistici, alla bomba sganciata su<br />

Hiroshima?<br />

Hiroshima è la male<strong>di</strong>zione che il mondo libero si<br />

è portato <strong>di</strong>etro per cinquant’anni <strong>di</strong> relativa pace<br />

e resta il mito fondante della nostra epoca. I miti<br />

fondanti sono quasi sempre eventi traumatici, cataclismi<br />

che arrivano a stabilire un or<strong>di</strong>ne o a creare<br />

una civiltà. Spesso sono anche azioni infami,<br />

vergognose (come nel caso <strong>di</strong> Hiroshima) che però<br />

proprio per questo vengono a <strong>di</strong>rci che il nuovo<br />

or<strong>di</strong>ne non sarà retto da creature angeliche ma da<br />

uomini, esseri fallaci, armati contemporaneamente<br />

<strong>di</strong> infamia e <strong>di</strong> begli ideali. I paesi anglosassoni<br />

hanno come mito fondante l’assassinio/tra<strong>di</strong>mento<br />

del re, l’uccisione del Padre (pensa a Shakespeare).<br />

Il nostro mito fondante (e questo viene a <strong>di</strong>rci<br />

molto sul carattere degli italiani) è imperniato invece<br />

sulla lotta fratricida tra Romolo e Remo.<br />

L’Occidente novecentesco si fonda sul cataclisma<br />

atomico, una situazione in cui i “buoni” sono costretti<br />

a macchiarsi <strong>di</strong> un crimine orrendo. Questo<br />

perché, evidentemente, anche i “buoni” covano in<br />

sé un qualche tipo <strong>di</strong> male, <strong>di</strong> malattia. Pensa alle<br />

ultime, splen<strong>di</strong>de pagine della Coscienza <strong>di</strong> Zeno.<br />

Questa risorgenza della Storia non più come<br />

branca dello showbiz, ma come vero collante <strong>di</strong><br />

quanto avviene nelle nostre vite, è la tua controtesi?<br />

È questo identificarla come possibile<br />

àncora <strong>di</strong> salvezza la chiave <strong>di</strong> volta <strong>di</strong> tutto il<br />

romanzo?<br />

Sì, credo <strong>di</strong> sì. La Storia, per quanto traumatica, ci<br />

rimette <strong>di</strong> fronte a noi stessi, alle nostre debolezze,<br />

alle nostre responsabilità.<br />

I personaggi che hai tratteggiato in Occidente<br />

per principianti sembrano le versioni inconcludenti<br />

(viste oggi) <strong>di</strong> quelle già proposte da<br />

Bianciar<strong>di</strong>, e scusa se ricito questo autore. Lo<br />

spaccato che dai della precariarizzazione a vita<br />

<strong>di</strong> una fascia <strong>di</strong> popolazione “intellettuale” (ma<br />

è giusta questa definizione? non ti sembra<br />

troppo restrittiva?) che si posiziona anagraficamente<br />

fra i trenta e i quarant’anni è più o<br />

meno la stessa. Quin<strong>di</strong> i personaggi, se trasportati<br />

nella realtà, sono anche figure sclerotizzate<br />

all’interno <strong>di</strong> una macchina perfettamente collaudata,<br />

e che gattopardescamente cambia per<br />

non cambiare mai? Voglio <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> questo stato<br />

nessuno ha colpe: i figli ripercorrono le orme<br />

dei padri, e così i figli dei figli… Una cancrena<br />

inarrestabile…<br />

Purtroppo c’è una <strong>di</strong>fferenza, e non va a lustro dei<br />

miei personaggi. Il protagonista della Vitta agra<br />

va a Milano perlomeno con l’idea <strong>di</strong> fare la rivoluzione<br />

anche se poi rimane invischiato – e poi<br />

sconfitto – dalla macchina del “lavoro <strong>cultura</strong>le” e<br />

del conformismo, dai rigurgiti del boom economico<br />

insomma. I protagonisti <strong>di</strong> Occidente per principianti<br />

nascono già in un mondo apparentemente<br />

immo<strong>di</strong>ficabile. Ma, dal punto <strong>di</strong> vista squisitamente<br />

letterario, la catena inarrestabile <strong>di</strong> cui tu<br />

parli scorre in parallelo con l’esigenza dei romanzi<br />

scritti negli ultimi due secoli che più ho amato.<br />

Questi romanzi si domandano: come reagisce<br />

l’uomo calato in un determinato contesto storico e<br />

Poliscritture/Letture d’autore 75


sociale? Come <strong>di</strong>fende la propria umanità e la<br />

propria <strong>di</strong>gnità? Che chances ha un curato dal<br />

cuore pavido nella Milano del XVII secolo? E la<br />

moglie velleitaria <strong>di</strong> un me<strong>di</strong>co nella provincia<br />

francese dell’Ottocento? Abbiamo la rara capacità,<br />

decennio dopo decennio, <strong>di</strong> costruirci intorno<br />

un modo che <strong>di</strong> per sé è repressivo e castrante.<br />

Questa cosa (questa catena inarrestabile) deve essere<br />

indagata dalla letteratura. Il vero epicentro <strong>di</strong><br />

una simile situazione, a mio parere resta però il<br />

dottor Bardamu. Il protagonista del Viaggio al<br />

termine della notte, sballottato da una parte<br />

all’altra del mondo senza capire perché, da una<br />

guerra a una catena <strong>di</strong> montaggio ai sobborghi <strong>di</strong><br />

Parigi, preso in qualche cosa <strong>di</strong> mostruoso molto<br />

più grande <strong>di</strong> lui.<br />

Passando alla struttura, Occidente per principianti<br />

sembra ripercorrere la Leggenda del<br />

Graal: una preparazione al mistero e poi una<br />

cerca “epica” del sangue <strong>di</strong> Cristo, rivisitate in<br />

chiave contemporanea. Ovvero mettendo una<br />

delle icone moderne per eccellenza, Rodolfo<br />

Valentino, al posto dell’icona religiosa, e la sua<br />

presunta prima amante al posto della coppa<br />

contenente il sangue <strong>di</strong> Cristo…<br />

Sì, una versione un po’ eretica della Leggenda del<br />

Graal, se si vuole, ma probabilmente adatta ai nostri<br />

tempi. Siamo passati negli ultimi secoli attraverso<br />

varie forme <strong>di</strong> trascendenza: l’ordo ad unum<br />

me<strong>di</strong>oevale, la gnosi, lo spirito mercantile settecentesco,<br />

le ideologie del XX secolo. Adesso<br />

sembra arrivato il turno della “Teocrazia au<strong>di</strong>ovisiva”.<br />

La seconda parte del romanzo, “Il viaggio”, più<br />

che ai vari “viaggi in Italia”, sembra il necessario<br />

sviluppo della tesi proposta nel “Contesto”:<br />

non è più solo Roma a essere allo sfascio morale<br />

e <strong>cultura</strong>le, ma tutto il Paese. E chi vi abita<br />

non se ne accorge, oppure ne va fiero…<br />

Torniamo alla faccenda dell’eye wide shut. Se sei<br />

al centro del ciclone è <strong>di</strong>fficile riuscire a capire<br />

anche <strong>di</strong> che sostanza sei fatto.<br />

An<strong>di</strong>amo marzullescamente sul personale. Perché<br />

da Bari, dopo vari giri per il Nord<br />

dell’Italia, decidere <strong>di</strong> stabilirsi a Roma? Cosa<br />

ti ha fatto propendere per la capitale (immorale)<br />

d’Italia e cosa ti ha portato a lavorare come<br />

ghost writer, a parte il semplice guadagnarsi la<br />

quoti<strong>di</strong>ana sussistenza? In altre parole, scrivevi<br />

prima <strong>di</strong> laurearti in giurisprudenza, quin<strong>di</strong><br />

hai soltanto scelto <strong>di</strong> appendere la laurea al<br />

chiodo e una città valeva un’altra?<br />

Boh, questioni <strong>di</strong> semplice sussistenza per quanto<br />

riguarda il ghost writing. E sempre questioni <strong>di</strong><br />

lavoro per ciò che riguarda Roma: a una fiera del<br />

libro <strong>di</strong> Torino <strong>di</strong> otto anni fa, incontrai l’e<strong>di</strong>tore<br />

Castelvecchi che mi <strong>di</strong>sse: “abbiamo bisogno <strong>di</strong><br />

un redattore. Perché non ti trasferisci a Roma?”<br />

Fatto. Entrato nel gran bordello. Ma un bordello<br />

offre parecchi spunti e suggestioni, no? Ho iniziato<br />

a scrivere mentre facevo l’università, e non ho<br />

mai pensato <strong>di</strong> intraprendere la carriera forense.<br />

Anche se stu<strong>di</strong>are le materie giuri<strong>di</strong>che mi piaceva<br />

molto. Tutte quelle ore passate sui manuali. Un<br />

po’ mi mancano. Era quasi una con<strong>di</strong>zione monastica.<br />

Marzullo bis. Vedendo la linea e<strong>di</strong>toriale <strong>di</strong><br />

minimum fax e della collana che <strong>di</strong>rigi, non si<br />

capisce perché Occidente per principianti sia<br />

stato pubblicato altrove. È un fatto <strong>di</strong> correttezza<br />

morale? Di “non si può fare, perché scorretto”?<br />

No, no, nessuna correttezza morale. In queste cose<br />

la concepisco poco, la correttezza morale. Tanto è<br />

vero che il prossimo romanzo uscirà per minimum<br />

fax, e il prossimo ancora magari per Einau<strong>di</strong>, chi<br />

lo sa? All’Einau<strong>di</strong> ho trovato una e<strong>di</strong>tor meravigliosa<br />

(Paola Gallo, appunto) che credeva moltissimo<br />

in questo progetto, e con minimum fax la<br />

storia d’amore continua. Il fatto è che, da scrittore,<br />

mi sento libero <strong>di</strong> fare un po’ come mi pare, tenendo<br />

conto delle proposte che volta per volta mi<br />

vengono fatte. Sono tutti fidanzamenti, però. Sono<br />

tresche. Amour fou. Nessun matrimonio. In un<br />

matrimonio <strong>di</strong> questo tipo, l’e<strong>di</strong>tore dovrebbe fare<br />

la parte del maschio (offrirti una vera sistemazione)<br />

e lo scrittore portare in dote le sue opere<br />

d’ingegno. Ve<strong>di</strong>, quello tra D’Arrigo e la Mondadori<br />

fu un matrimonio serio (ti passiamo un mensile<br />

finché morte non ci separi, e tu nel frattempo<br />

scrivi quello che ti pare). A me, una proposta del<br />

genere non me l’ha fatta mai nessuno né probabilmente<br />

accadrà mai. Quin<strong>di</strong>, da questo punto <strong>di</strong><br />

vista resto una simpatica cocotte perennemente<br />

sulla piazza, molto tollerante nei confronti <strong>di</strong> chi<br />

saltuariamente mi mantiere a patto però che la tolleranza<br />

sia reciproca. Speriamo solo <strong>di</strong> non trasformarci<br />

in vecchie zitelle acide.<br />

Poliscritture/Letture d’autore 76


7<br />

Sulla giostra delle riviste<br />

DeriveAppro<strong>di</strong> n. 23 giugno 2003<br />

a cura <strong>di</strong> Spartacus<br />

Fino agli anni Settanta del Novecento ci sono<br />

state gran<strong>di</strong> lotte <strong>di</strong> liberazione dei popoli del cosiddetto<br />

Terzo Mondo. Esse hanno mutato la situazione che,<br />

alla conclusione della Prima guerra mon<strong>di</strong>ale, vedeva<br />

Europa e Stati Uniti possessori dell’85 per cento del<br />

mondo intero sotto forma <strong>di</strong> colonie, <strong>di</strong>pendenze, mandati<br />

e domini <strong>di</strong>retti. Questa verità storica è oggi appannata<br />

a causa dei risultati ambigui e spesso deludenti<br />

della decolonizzazione e dell’attuale impetuosa mon<strong>di</strong>alizzazione<br />

del Capitale, che ha reso obsoleto il termine<br />

stesso <strong>di</strong> Terzo Mondo.<br />

Se, sostengono dunque alcuni, ogni in<strong>di</strong>pendenza<br />

dei paesi del Terzo Mondo si è sciolta come neve<br />

al sole, persiste il «sottosviluppo» e la matrice coloniale<br />

è ben visibile in tanti conflitti o<strong>di</strong>erni (da quello<br />

israelo-palestinese alle cosiddette guerre «etniche» in<br />

Ruanda, Timor Est, Sri Lanka, Sierra Leone), non è<br />

opportuno parlare <strong>di</strong> un «neocolonialismo», incar<strong>di</strong>nato<br />

oggi sulla politica degli Stati Uniti e in continuità col<br />

vecchio modello imperialistico?<br />

Non la pensa così un filone <strong>di</strong> ricerche, in espansione<br />

soprattutto nel mondo <strong>cultura</strong>le anglosassone,<br />

che va sotto il nome <strong>di</strong> «stu<strong>di</strong> postcoloniali» o Subaltern<br />

Stu<strong>di</strong>es. Alla lettura «neocolonialista» del presente,<br />

cui abbiamo appena accennato, viene contrapposta<br />

una lettura che usa i concetti <strong>di</strong> «postcolonialismo»<br />

o <strong>di</strong> «con<strong>di</strong>zione postcoloniale», in<strong>di</strong>canti alla lettera<br />

l’epoca che viene «dopo» il colonialismo (in analogia<br />

con altre denominazioni “post”: «postmodernismo,<br />

«postfor<strong>di</strong>smo», «postcomunismo», ecc.).<br />

Gli stu<strong>di</strong>osi «postocoloniali» affermano che il<br />

tempo e la realtà geopolitica d’oggi rappresentano una<br />

cesura epocale rispetto a quattro secoli <strong>di</strong> colonialismo.<br />

Tuttavia la loro schiera è variegata: in essa troviamo<br />

sia i sostenitori <strong>di</strong> un presente «postcoloniale»<br />

inteso come «fine della storia» (Fukujama) e<br />

dell’attuale mon<strong>di</strong>alizzazione come processo che supera<br />

ogni triste ere<strong>di</strong>tà del colonialismo sia quanti ritengono<br />

invece che, sotto la sua superficie omogeneizzante<br />

(o «americanizzazione» o «occidentalizzazione»), la<br />

mon<strong>di</strong>alizzazione lasci affiorare in forme carsiche (ad<br />

es. attraverso le migrazioni o in molte cosiddette guerre<br />

«etniche») la spinta all’eguaglianza delle antiche lotte<br />

anticoloniali.<br />

Per i primi, cioè, la <strong>di</strong>scontinuità tra colonialismo<br />

e «postcolonialismo» è assoluta: i <strong>di</strong>scendenti dei<br />

colonizzati vivono ormai dappertutto in una sorta <strong>di</strong><br />

«ibri<strong>di</strong>tà» o «meticciato» con gli ex colonizzatori, senza<br />

<strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> potere o <strong>di</strong> <strong>cultura</strong>. I secon<strong>di</strong>, invece,<br />

ricordano sia l’ambiguità della decolonizzazione sia le<br />

<strong>di</strong>seguaglianze e i plateali squilibri, che la mon<strong>di</strong>alizzazione<br />

va <strong>di</strong>stribuendo ovunque: nelle gran<strong>di</strong> «città<br />

globali» come nei villaggi agricoli, in un mondo ormai<br />

irrime<strong>di</strong>abilmente uno e non più a scomparti netti<br />

(Nord e Sud del Mondo, metropoli e periferie),<br />

com’era ai tempi del «terzomon<strong>di</strong>smo» e della Conferenza<br />

<strong>di</strong> Bandung (1957).<br />

Diverse e spesso contrapposte, dunque, sono<br />

le risposte che vengono date alle questioni tipiche degli<br />

stu<strong>di</strong> postcoloniali e che potremmo così riassumere: i<br />

mutamenti <strong>cultura</strong>li nati dall’incontro fra colonialisti<br />

europei o occidentali e popoli colonizzati sono stati <strong>di</strong><br />

dominio, strumentali o <strong>di</strong> emancipazione? la storia dei<br />

colonizzati ha il giusto rilievo nella storiografia moderna<br />

<strong>di</strong> origine europea? il colonialismo ha liberato le<br />

donne <strong>di</strong> colore contrastando i poteri patriarcali incontrati<br />

sul suo cammino? «ibri<strong>di</strong>tà» o «meticciato» - termini<br />

oggi <strong>di</strong> moda - hanno un significato univoco e positivo<br />

o velano nuovi e vecchi antagonismi?<br />

Se volessimo in<strong>di</strong>care poi dei nomi (molti non<br />

sempre noti in Italia e che spesso si fa ancora fatica a<br />

pronunciare) dei protagonisti <strong>di</strong> questo filone <strong>di</strong> <strong>ricerca</strong>,<br />

potremmo fare quelli <strong>di</strong> romanzieri, come Salman<br />

Rush<strong>di</strong>e, Garcia Marquez, George Lamming, Sergio<br />

Ramirez, Ngugi Wa Thiongo, <strong>di</strong> poeti come Faiz Ahmad<br />

Faiz, Mahmud Darwish, Aimé Césaire, <strong>di</strong> teorici<br />

e filosofi della politica come Fanon, Cabral, Syed Hussein<br />

Alatas, C.L.R. James, Ali Shariati, Eqbal Ahmad,<br />

Abdullah Laroui, Omar Cabezas; e un gran numero <strong>di</strong><br />

altre figure.<br />

Tra i più noti a livello internazionale abbiamo<br />

Edward Said, <strong>di</strong> recente scomparso. Palestinese <strong>di</strong> origini,<br />

in una sua importante opera, Orientalismo, pubblicata<br />

nel 1978, Said ha documentato come la conoscenza<br />

coloniale dell’Oriente (il Me<strong>di</strong>o oriente attuale),<br />

alimentata da varie <strong>di</strong>scipline (filologia, storia, antropologia,<br />

filosofia, archeologia e letteratura) e circolata<br />

in Europa per secoli, non sia stata neutra o oggettiva<br />

come pretendeva, ma un’ideologia che ha fatto da supporto<br />

ideale alla violenza materiale del colonialismo<br />

moderno. Ma vanno ricordati anche gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Valentine<br />

Mu<strong>di</strong>mbe sull’impronta lasciata dal colonialismo<br />

nei concetti <strong>di</strong> «Oriente» e «Africa»; <strong>di</strong> Jean Loup Amselle<br />

e Elikia M’Bokolo, che sempre all’esperienza colonialista<br />

e non alla naturalità, come <strong>di</strong> solito si crede,<br />

fanno risalire la categoria <strong>di</strong> «etnia»; <strong>di</strong> Arjun Appadurai,<br />

che ha stu<strong>di</strong>ato il legame tra procedure <strong>di</strong> classificazione<br />

e <strong>di</strong>spositivi <strong>di</strong> sfruttamento risalenti al partage<br />

coloniale [spartizione territoriale] e la loro influenza<br />

sul calendario e l’organizzazione sociale del tempo; e<br />

delle femministe Chandra Talpade Mohanti, Ania Loomba<br />

e altre che analizzano le interazioni tra <strong>di</strong>fferenze<br />

«razziali», <strong>cultura</strong>li e <strong>di</strong> genere.<br />

Si tratta <strong>di</strong> ricerche eterogenee: «un attraversamento<br />

dei confini, una sorta <strong>di</strong> contrabbando incontrollato<br />

<strong>di</strong> idee» tra le specializzazioni accademiche,<br />

l’ha definite lo stesso Said. Nate dalla confluenza <strong>di</strong><br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste 77


correnti <strong>di</strong> pensiero fino ad anni recenti separate o in<br />

contrasto tra loro (marxismo, femminismo, decostruzionismo<br />

filosofico, antropologia <strong>cultura</strong>le), spaziano<br />

dalla letteratura alla storia, alla psicanalisi,<br />

all’economia. Ad esse collaborano reti <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi europei<br />

e occidentali, ma anche asiatici, caraibici, latino<br />

americani o africani. Tutti influenzati in vari mo<strong>di</strong> da<br />

Marx, da Gramsci, dallo strutturalismo e dal poststrutturalismo<br />

dei francesi Derrida, Foucault, Barthes,<br />

Althusser; ma anche da Martin Bernal, autore <strong>di</strong> Atena<br />

nera, un libro importante del 1991 sulla centralità della<br />

storia dell’Egitto nero per la civiltà della Grecia antica,<br />

che gli stu<strong>di</strong> accademici nell’Ottocento avevano cancellato<br />

per dare all’Europa un’ere<strong>di</strong>tà bianca ellenistica<br />

e – per il progetto dei Subaltern Stu<strong>di</strong>es - dagli storici<br />

britannici come E. P. Thompson e E. Hobsbawm.<br />

Sulla scia <strong>di</strong> questi autori, gli stu<strong>di</strong>osi postcoloniali<br />

hanno <strong>critica</strong>to gli aspetti eurocentrici<br />

dell’Illuminismo; e insistito sul fatto che il soggetto<br />

conoscente dei popoli “altri” è stato colonialista, bianco<br />

e maschio, ha incorporato idee in<strong>di</strong>gene per rafforzare<br />

il proprio dominio (gli ingegneri britannici in In<strong>di</strong>a<br />

poterono realizzare ponti e <strong>di</strong>ghe consultando gli<br />

esperti locali), elaborato immagini <strong>di</strong> africani, turchi,<br />

musulmani o «abitanti dell’In<strong>di</strong>a» in modo da rafforzare<br />

il cliché <strong>di</strong> un’Europa e <strong>di</strong> un Occidente <strong>di</strong>fferenti e<br />

più civili del “resto del mondo”. Hanno anche documentato<br />

che, intrecciando fatti e finzioni, la vasta letteratura<br />

<strong>di</strong> viaggio prodotta dagli scrittori “imperiali” e<br />

la stessa scienza moderna hanno e<strong>di</strong>ficato una visione<br />

razzista dell’umanità <strong>di</strong> stampo eurocentrico fin dal<br />

Settecento; e che la stessa teoria dell’evoluzione <strong>di</strong><br />

Darwin ha fatto da base a varie ideologie <strong>di</strong> supremazia<br />

razziale dalla fine dell’Ottocento ad oggi.<br />

Questa in<strong>di</strong>spensabile e ampia premessa sul<br />

«postcolonialismo» dovrebbe invogliare alla lettura<br />

del n. 23 della rivista DeriveAppro<strong>di</strong>, uscito nell’ormai<br />

lontano giugno 2003. Il numero contiene articoli<br />

d’inchiesta a carattere regionale e <strong>di</strong> taglio militante<br />

(dalla Kabylia alla Nigeria, al Sudafrica post-apartheid,<br />

all’Argentina delle «fabbriche sociali», ecc.) proprio<br />

sugli attuali «movimenti postocolinali». Ma per un preliminare<br />

inquadramento teorico dell’argomento appaiono<br />

utili soprattutto sette saggi e un’intervista. Li<br />

elenco in<strong>di</strong>cando la pagina: Sandro Mezzadra, Federico<br />

Rahola, La con<strong>di</strong>zione postcoloniale, p. 7; Nirman Puwar,<br />

Parole situate e politica globale, p.13 ; François<br />

Cusset, Il dominio è <strong>di</strong> ogni colore, intervista a Gayatry<br />

Chakravorty Spivak, p. 20; 25, Dipesh Chakrabarty,<br />

Dopo i Subaltern Stu<strong>di</strong>es: globalizzazione, democrazia<br />

e futuri anteriori, p. 25; Marcello Tarì, Gli Stu<strong>di</strong> Subalterni<br />

(e postcoloniali) ci riguardano?, p. 32; 37, Robert<br />

J.C. Young, Germinazioni postcoloniali: da Bandung<br />

a L’Avana, p. 37; Yann Moulier Boutang, Ragione<br />

meticcia, p. 50; Miguel Mellino, L’ora delle <strong>di</strong>aspore.<br />

Genealogia <strong>di</strong> un soggetto postcoloniale, p. 54.<br />

Due unici appunti critici: 1) la rivista per ciascuno<br />

degli autori si limita a in<strong>di</strong>care solo l’università<br />

in cui opera e una lista non ragionata <strong>di</strong> riferimenti bibliografici,<br />

senza andare incontro alle <strong>di</strong>fficoltà o alla<br />

curiosità <strong>di</strong> lettori non specialisti, che per un tema in<br />

Italia trascurato avrebbero bisogno <strong>di</strong> un apparato <strong>di</strong><br />

note necessariamente puntiglioso e non essere immessi<br />

quasi <strong>di</strong> botto nel <strong>di</strong>battito dei piani alti della <strong>cultura</strong><br />

transnazionale; 2) la grafica, che privilegia la fotografia,<br />

risulta alquanto <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nata, priva <strong>di</strong> <strong>di</strong>dascalie e<br />

sembra riempire dei vuoti o in alcuni casi poco coerente<br />

con il contenuto dei testi.<br />

Il mio “giro <strong>di</strong> giostra” è stato necessariamente<br />

selettivo e, nel renderne qui conto, mi soffermo su<br />

due questioni: 1) la <strong>ricerca</strong> storica dei Subaltern Stu<strong>di</strong>es<br />

e 2) la problematica legata al concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza,<br />

in particolare quella <strong>di</strong> genere, per concludere con<br />

3) un sunto critico del saggio introduttivo <strong>di</strong> Mezzadra<br />

e Rahola:<br />

1) I Subaltern Stu<strong>di</strong>es prendono <strong>di</strong> petto il carattere<br />

astrattamente universale della storiografia moderna,<br />

europea e occidentale. Questi <strong>ricerca</strong>tori, rileggendo<br />

al <strong>di</strong> fuori dell’ideologia del «terzomon<strong>di</strong>smo»<br />

degli anni ’50-’60 i classici dell’anticolonialismo (Fanon,<br />

Césaire, Senghor, ecc.), vogliono riportare in superficie<br />

la «molteplicità <strong>di</strong> storie» che il colonialismo<br />

ha travolto o <strong>di</strong>sposto in una successione per «sta<strong>di</strong>»<br />

(popoli primitivi-popoli civilizzati; paesi sottosviluppati-paesi<br />

sviluppati) allo scopo <strong>di</strong> ricondurle a un’unica<br />

Storia, quella regolata dall’idea astratta <strong>di</strong> Progresso.<br />

Fondatore dei Subaltern Stu<strong>di</strong>es è stato Ranajit<br />

Guha, storico ed economista in<strong>di</strong>ano. Egli ha analizzato<br />

le insurrezioni e le forme <strong>di</strong> resistenza delle masse<br />

conta<strong>di</strong>ne e dei poveri nell’In<strong>di</strong>a coloniale dal Settecento<br />

al Novecento. E ha contrapposto le altre storie<br />

dei gruppi ritenuti marginali (donne, minoranze, rifugiati,<br />

esiliati, ecc.) non solo a quella scritta dal punto <strong>di</strong><br />

vista dei colonizzatori inglesi, ma anche a quella<br />

dell’élite in<strong>di</strong>ana che ad essi si contrappose (Gandhi,<br />

Nehru, Jinnah).<br />

Mosso da grande passione politica e convinto<br />

– come scrive Said - che «riscrivere la storia in<strong>di</strong>ana<br />

oggi sia una prosecuzione con altri mezzi della lotta tra<br />

le masse in<strong>di</strong>ane e il Raj [sovrano, sovranità, dominio<br />

coloniale] britannico», per riportare alla luce tali storie<br />

alternative, ignorate o soppresse dalla storiografia ufficiale,<br />

Guha è ricorso a fonti <strong>di</strong>verse, come la raccolta<br />

<strong>di</strong> memorie popolari (storia orale), o ha reinterpretato i<br />

documenti dell’amministrazione coloniale, le testimonianze<br />

pubbliche e private, le lettere, i documenti<br />

commerciali.<br />

È sorprendente, come fa presente Marcello<br />

Tarì nel suo articolo, l’inconsapevole parentela tra questo<br />

metodo d’indagine storica e le ricerche sviluppatesi<br />

dopo il 1945, soprattutto nel Meri<strong>di</strong>one d’Italia e a partire<br />

dai lavori <strong>di</strong> Ernesto De Martino e poi <strong>di</strong> Cirese, Di<br />

Nola e Bosio. Né si deve trascurare che lo stesso termine<br />

‘subalterni’ emblema <strong>di</strong> questi stu<strong>di</strong>, oggi quasi<br />

scomparso dal nostro lessico politico, sia stato ripreso<br />

da Gramsci, che l’aveva coniato al posto <strong>di</strong> ‘proletario’<br />

per sfuggire alla censura dei suoi carcerieri fascisti. Ed<br />

è anche da notare che il termine era un ampliamento<br />

del più ristretto concetto marxiano <strong>di</strong> ‘classe’, <strong>di</strong> solito<br />

riferito esclusivamente alla classe operaia industriale e<br />

quin<strong>di</strong> metropolitana, cioè dei paesi colonizzatori e che<br />

era implicitamente opposto al termine ‘dominante’ (o<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste 78


‘élite’), riferibile ai gruppi <strong>di</strong> potere in genere (nazionali<br />

o internazionali o oggi transnazionali). Ranajit Guha,<br />

da parte sua, l’ha ridefinito e attualizzato, intendendo<br />

per ‘subalterno’ un gruppo che si trova escluso dai<br />

<strong>di</strong>versi flussi <strong>di</strong> mobilità sociale e che per questo non<br />

risponde più <strong>di</strong> niente.<br />

Un altro stu<strong>di</strong>oso importante è Dipesh Chakrabarty,<br />

che nel suo Provincializing Europe (La provincializzazione<br />

dell’Europa), ha <strong>critica</strong>to lo «storicismo»<br />

<strong>di</strong> origine europea e la sua pretesa <strong>di</strong> or<strong>di</strong>nare<br />

cronologicamente per sta<strong>di</strong> il tempo storico. Per lui<br />

l’esperienza del capitalismo europeo e occidentale non<br />

è riuscita a <strong>di</strong>ventare sistema-mondo (Wallerstein) e<br />

non ha cancellato le «forme <strong>di</strong>fformi» del lavoro riducendole<br />

tutte al lavoro salariato. (Su tale questione - tra<br />

l’altro - fondamentale è la <strong>ricerca</strong> <strong>di</strong> Yann Moulier<br />

Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, pubblicato<br />

da manifestolibri nel 2002).<br />

Chakrabarty sostiene che, proprio nel momento<br />

in cui Europa e Occidente continuano a pensarsi<br />

come «centro» del mondo e pare realizzarsi la sua «occidentalizzazione»,<br />

il loro destinao sarà quello <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare<br />

definitivamente una «provincia». La crisi del<br />

loro dubbio e ambiguo universalismo è <strong>di</strong> fatto riscontrabile<br />

nel fatto che i loro confini <strong>di</strong>ventino sempre più<br />

«porosi» e non fermano più i co<strong>di</strong>ci «coloniali» che<br />

filtrano all’interno dei loro territori una volta «metropolitani».<br />

Sono dunque proprio i tempi storici, che il<br />

moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada e ha<br />

creduto <strong>di</strong> poter relegare al passato, a riemergere oggi<br />

<strong>di</strong>sor<strong>di</strong>natamente in una specie <strong>di</strong> «esposizione universale»,<br />

ibridandosi e coesistendo. E al posto del mitico<br />

Progresso, fondato su presunte leggi storiche necessarie,<br />

Chakrabarty vede la possibilità <strong>di</strong> costruire un<br />

nuovo linguaggio dell’universale, ibrido e meticcio<br />

stavolta, e sgravato dalle ipoteche del dominio coloniale<br />

o postcoloniale solo in una prassi <strong>di</strong> uomini e donne<br />

che abitano il pianeta con la loro irriducibile molteplicità.<br />

2) Il secondo fondamentale filone degli «stu<strong>di</strong><br />

postocoloniali» utilizza il concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza (materiale,<br />

politica, <strong>cultura</strong>le) per sottolineare tutte quelle<br />

<strong>di</strong>fferenze occultate, appannate o deviate, forse in mo<strong>di</strong><br />

irrecuperabili, dal colonialismo.<br />

Richiamandosi al metodo «genealogico» <strong>di</strong><br />

Foucault in rotta col progressismo storicista, gli stu<strong>di</strong><br />

postcoloniali ritengono la modernità impensabile «senza<br />

riferirsi alla violenza costitutiva, originaria delle colonie».<br />

Era una tesi sostenuta negli anni Sessanta da<br />

Fanon e Malcom X, che oggi viene ripresa accentuando<br />

l’imme<strong>di</strong>ato carattere politico che le <strong>di</strong>fferenze assumono<br />

sulla scena globale contemporanea e mettendo<br />

in <strong>di</strong>scussione «ogni logica binaria e ogni <strong>di</strong>scorso potenzialmente<br />

assoluto o assolutizzante».<br />

Su questa base si muovono le stu<strong>di</strong>ose femministe<br />

postcoloniali come Spivak, Chandra Talpade Mohanti,<br />

Ania Loomba e altre. Esse hanno messo in luce<br />

come il colonialismo, ora in competizione ora in complicità<br />

con il patriarcato presente nei paesi conquistati,<br />

ha occultato le <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> genere, <strong>di</strong> cui riaffermano<br />

con forza il valore, arrivando a <strong>critica</strong>re persino alcuni<br />

canoni del femminismo occidentale, accusato <strong>di</strong> presentare<br />

la «donna del Terzo mondo» o in mo<strong>di</strong> mitici o<br />

secondo il para<strong>di</strong>gma statico della donna vittima.<br />

In particolare Gayatri Chakravorty Spivak, in<strong>di</strong>ana<br />

<strong>di</strong> nascita ma trasferitasi negli Usa, analizzando<br />

la figura della vedova in<strong>di</strong>ana che s’immolava sulla pira<br />

del marito morto nel rito del sati [*], mostra come il<br />

colonialismo, che ha prima stigmatizzato <strong>cultura</strong>lmente<br />

quella pratica e poi l’ha abolita per legge, ha solo<br />

ottenuto che uomini bianchi si potessero presentare<br />

come salvatori <strong>di</strong> «donne scure da uomini scuri». E afferma<br />

che la «donna <strong>di</strong> colore» è stata oppressa sia dal<br />

colonialismo che dall’anticolonialismo entrambi patriarcali.<br />

A ri<strong>prova</strong> del fervido <strong>di</strong>battito presente<br />

all’interno stesso degli stu<strong>di</strong>osi postcoloniali possiamo<br />

considerare un saggio della stessa Spivak, Can the Subaltern<br />

speak? [Può il subalterno parlare?] del 1985.<br />

Esso sottolinea alcuni limiti delle ricerche <strong>di</strong> Said e<br />

Guha. Per Spivak, infatti, è vano interrogare i testi<br />

scritti <strong>di</strong> narratori “imperiali” (come, ad esempio, Conrad)<br />

o i documenti delle amministrazioni coloniali per<br />

trovarvi in<strong>di</strong>zi della resistenza dei subalterni. Per lei<br />

non è più possibile ascoltare la voce dei subalterni, irrime<strong>di</strong>abilmente<br />

alterata o occultata dal dominio coloniale.<br />

E, pur non svalutando l’impegno politico <strong>di</strong><br />

quanti rendono visibile la posizione dei marginalizzati,<br />

la stu<strong>di</strong>osa si mostra ostile a quanti tendono a «romanticizzare<br />

le culture in<strong>di</strong>gene» e <strong>critica</strong> la nostalgia delle<br />

origini perdute, che alimenta tanti risorgenti nazionalismi.<br />

Per Spivak sono le donne proletarizzate del Sud<br />

del mondo la figura emblematica del «nuovo sulbaterno»<br />

nel mondo globalizzato. Per lei e le altre femministe,<br />

dunque, nel «postcolonialismo» le <strong>di</strong>fferenze razziali,<br />

<strong>cultura</strong>li e <strong>di</strong> genere producono «forme nuove e<br />

incomparabili <strong>di</strong> segregazione e assoggettamento» rispetto<br />

ai paesi occidentali, ma anche ine<strong>di</strong>te «pratiche<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza e <strong>di</strong> resistenza al patriarcato, al razzismo e<br />

allo sfruttamento».<br />

Da questa prospettiva, esse <strong>critica</strong>no duramente<br />

anche le forme o<strong>di</strong>erne <strong>di</strong> «imperialismo benevolo»,<br />

come quello delle occidentali che cercano <strong>di</strong> attenuare<br />

le sofferenze dei bambini e delle donne povere o <strong>di</strong><br />

raccogliere storie <strong>di</strong> sofferenze dei bambini, dei sex<br />

workers [lavoratori del sesso a <strong>di</strong>sposizione dei turisti]<br />

o delle donne che lavorano nelle zone <strong>di</strong> libero scambio.<br />

E citano come esempio <strong>di</strong> eurocentrismo duro a<br />

morire l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> quel gruppo <strong>di</strong> ministre del governo<br />

laburista inglese che, dopo la guerra in Afghanistan<br />

seguita all’attentato alla Torri gemelle, hanno sollevato<br />

la questione del burkha [velo delle donne afghane], in<br />

nome della «solidarietà con le loro sorelle afgane», ma<br />

senza mai aver consultato le donne musulmane.<br />

3) Per ultimo, il saggio introduttivo <strong>di</strong> Mezzadra<br />

e Rahola offre utili chiavi interpretative per <strong>di</strong>stricarsi<br />

nel calderone confuso degli «stu<strong>di</strong> postcoloniali».<br />

Essi definiscono il nostro come «tempo postcoloniale»,<br />

caratterizzato soprattutto dalla trasformazione<br />

del rapporto una volta univoco tra metropoli e<br />

colonie. E danno merito ai classici<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste 79


dell’anticolonialismo <strong>di</strong> aver evidenziato la cesura irreversibile<br />

che le lotte anticoloniali, con la loro <strong>di</strong>mensione<br />

imme<strong>di</strong>atamente globale e nonostante lo scacco<br />

subito da tutti i regimi politici a cui hanno dato vita,<br />

hanno portato nella storia contemporanea, mettendo in<br />

crisi per sempre l’idea che il tempo e lo spazio delle<br />

colonie fossero altri da quelli della metropoli.<br />

Mezzadra e Rahola valorizzano l’intuizione <strong>di</strong><br />

Aimé Césaire, che nel 1955 «invitava a cogliere nel<br />

fascismo una forma <strong>di</strong> colonialismo abbattutati<br />

sull’Europa nel momento in cui sembravano esauriti i<br />

territori oltremare da conquistare». I due stu<strong>di</strong>osi portano<br />

anche altri esempi che <strong>di</strong>mostrano la compenetrazione<br />

crescente fra periferie coloniali e metropoli: le<br />

origini bengalesi delle impronte <strong>di</strong>gitali stu<strong>di</strong>ate da<br />

Carlo Ginzburg in un suo saggio del 1979; la mitragliatrice,<br />

usata la prima volta nella guerra civile americana,<br />

ban<strong>di</strong>ta poi dalle guerre che si svolsero in Occidente e<br />

che ebbe un ruolo decisivo nella conquista dell’Africa,<br />

nelle ultime campagne contro gli in<strong>di</strong>ani d’America o<br />

contro gli scioperi operai <strong>di</strong> fine Ottocento, prima <strong>di</strong><br />

essere utilizzata nei campi <strong>di</strong> battaglia della Grande<br />

guerra. E lo stesso, aggiungono, «vale per un altro <strong>di</strong>spositivo<br />

<strong>di</strong> dominio tipicamente coloniale, il campo <strong>di</strong><br />

concentramento».<br />

Le simpatie <strong>di</strong> Mezzadra e Rahola vanno a<br />

Lumumba, alla tra<strong>di</strong>zione del black marxism e a quel<br />

Fanon, che nel 1961 nei Dannati della terra parlava<br />

della «scoperta dell’uguaglianza» come <strong>di</strong> un motore<br />

dell’insurrezione anticoloniale che poteva scar<strong>di</strong>nare il<br />

«mondo a scomparti» tipico dell’epoca del colonialismo<br />

e che considerava l’Europa «letteralmente una<br />

creazione del Terzo Mondo», nel senso che la ricchezza<br />

materiale e la forza lavoro delle colonie, «il sudore e<br />

i cadaveri dei neri, degli arabi, degli in<strong>di</strong>ani e delle razze<br />

gialle» avevano sostenuto per secoli la sua «opulenza».<br />

Essi contestano perciò la tesi «neocolonialista»<br />

a cui abbiamo sopra fatto cenno. A loro avviso essa<br />

riaffermerebbe la «soggettività imperiale» come unica<br />

e assoluta protagonista della storia del Novecento<br />

e ridurre le fondamentali lotte anticoloniali a qualcosa<br />

<strong>di</strong> inconsistente che non ha scalfito la «trama lineare <strong>di</strong><br />

una storia <strong>di</strong> dominio e <strong>di</strong> sfruttamento ininterrotti»,<br />

come se i «subalterni» siano inevitabilmente un soggetto<br />

fuori della storia e - come pensavano i teorici della<br />

Socialdemocrazia tedesca <strong>di</strong> fine Ottocento - ogni atto<br />

rivoluzionario non possa che nascere dall’Occidente.<br />

Restando nella <strong>di</strong>mensione del «neocolonialismo»<br />

e dei suoi concetti <strong>di</strong> «sviluppo», «sottosviluppo»,<br />

«<strong>di</strong>pendenza», si rischia per loro <strong>di</strong> accettare le<br />

devastanti politiche «neoliberiste», come fanno certi<br />

governi, compreso quello del Sudafrica post-apartheid,<br />

che puntano sulla ineluttabilità e positività dello «sviluppo»,<br />

o <strong>di</strong> ritenere «reazionarie» le nuove lotte politiche,<br />

come quelle narrate ad esempio da Aswin Desai in<br />

We are poors.<br />

Il <strong>di</strong>scorso sul «postcolonialismo» si <strong>di</strong>stanzia<br />

perciò da quella che essi definiscono «la lamentosa retorica<br />

della occidentalizzazione o della cocacolonizzazione»<br />

ed è da essi inteso come un «sintomo<br />

che insiste» nel presente (Santner), impedendo <strong>di</strong> ricu-<br />

cire la <strong>di</strong>scontinuità introdotta dalle lotte anticoloniali<br />

nella storia del Novecento.<br />

Mezzadra e Rahola si soffermano anche sulle<br />

critiche che hanno suscitato gli stu<strong>di</strong> postcoloniali e<br />

danno particolare rilievo a quelle <strong>di</strong> Zizek, Fardt e Negri,<br />

i quali hanno parlato appunto <strong>di</strong> romanticismo<br />

nell’insistenza dei Subaltern Stu<strong>di</strong>es su storie multiple<br />

e frammentate e del rischio che la comprensione della<br />

mon<strong>di</strong>alizzazione come fatto unitario e con una sua<br />

strategia globale verrebbe in<strong>di</strong>ebolita<br />

Tuttavia per i due autori «l’insistenza postcoloniale<br />

su categorie come meticciato, sincretismo e<br />

ibri<strong>di</strong>tà costituisce una salutare boccata d’aria fresca» e<br />

si può concordare con loro che le critiche mosse ai postcolonialisti<br />

anche quando non immotivate, spesso<br />

ripropongono in mo<strong>di</strong> mascherati i vecchi pregiu<strong>di</strong>zi<br />

eurocentrici che questi stu<strong>di</strong>osi hanno giustamente contestato.<br />

In conclusione, tranne per i due limiti sopra<br />

in<strong>di</strong>cati, il lavoro <strong>di</strong> questo numero <strong>di</strong> DeriveAppro<strong>di</strong> è<br />

pionieristico e degno <strong>di</strong> grande attenzione.<br />

*sati È l’usanza in<strong>di</strong>ana del sacrificio rituale delle<br />

vedove. Esse venivano arse o si facevano ardere<br />

vive sulla pira funebre del marito alla morte<br />

<strong>di</strong> lui. Il termine in<strong>di</strong>ca sia l’uso in<strong>di</strong>ano del sacrificio<br />

delle vedove sia il loro corpo sulla pira<br />

Redazione:<br />

Ennio Abate, Luca Ferrieri,<br />

Ornella Garbin, Donato Salzarulo,<br />

Antonio Tagliaferri, Pier Paride<br />

Vidari<br />

Hanno collaborato al numero<br />

<strong>prova</strong>:<br />

Andrea Boeri, Luciano De Feo,<br />

Mariella De Santis, Marco<br />

Gaetani, Marcello Guerra,<br />

Loredana Magazzini, Marina<br />

Massenz, Mario Mastrangelo,<br />

Fabrizio Podda, Daniele Santoro,<br />

Sergio Rotino, Giulio Stocchi,<br />

Franco Tagliafierro<br />

Impaginazione grafica:<br />

Ornella Garbin, Luca Ferrieri<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste 80<br />

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