KATANA ed altre poesie di Anna Ciufo

KATANA ed altre poesie
di Anna Ciufo
(per gentile concessione della Spring edizioni)
KATANA
Tu analizzi la grammatica atipica
di telegrafici scambi verbali,
io forgio e affilo Katana
da sospendere sulle nostre rovine.
1 Mani
che nelle mani poi si attardano
compiendo il prodigio di un contatto disgiunto,
colmando l’immaginaria foiba che, divisi, ci uccide.
Cosa scioglie l’insipido grumo che soffoca il flusso,
l’insolenza di lingue e palpebre immobili, mute?
Sciolto già è l’incontro che nel piatto
ci serve il pasto freddo della noia.
2 Occhiuti affondano e sfatti esalano i tuoi desideri
nel corpo immobile che ti si arrende.
Che vendetta ti tenta
se chiusa rimango come ostrica morta,
antica?
Che sventura ci prende se svogliati ci fondiamo,
incuranti dei gesti che definiscono
le nostre reciproche amarezze?
Abbiamo rimbalzato agli dei le povertà segrete
degli intenti e attendiamo compunti,
refrattari all’ istinto,
la forza che indichi la via.
3 I raggelati amori,
i cuori soffiati nelle bocche che, aperte,
accolgono avidi baci, salive salate,
i raggelati amori che attendono il disgelo
e le slavine che dirompono oscene, sfrontate,
coprono occhi che fendono certezze, lacerano ottusità.
Blocca le ore, sospendile,
fa che sia ieri!
4 Vendi al dettaglio i sogni. Ti ascolto.
Accuso l’imprevedibile rigetto,
la carezza azzardata di una precoce morte.
Senza ordine, senza storia la marcia ardita,

la rete troppo larga,
l’armonia polifonica dei perpetui silenzi.
5 Spinge, la voce, ma è l’urlo insano del folle,
il lamento impercettibile del ramo reciso.
Non sanno di parole i suoni
e non ci sarà silenzio tanto presto.
Urlerò ed urlerò ancora fin che il respiro,
anch’esso rauco,
fingerà di riprendere respiro
e il tempo mi si fermerà fra i denti.
E quando svanirà anche la voce
senza guardarti
ti guarderò oltre le ciglia,
sfiorerò la tua assenza toccando la pelle screpolata
del divano freddo, slavato,
macchia di foglie secche e di cemento.
FANDANGO
1 Acromatica, sfocata, sempre oltre la soglia,
sull’area laccata di un mondo sdrucciolevole.
Mammelle di terra, asfittici figli
che ne succhiano il veleno
ed io sempre lì, con piglio ossuto
ed occhi tattili,
ma è solo bava di campa* il mio passare.
Ebbene, è mia la granulosità
del tempo che spella i palmi
nello sciagurato tentativo di domarlo
(perché incolla le dita,
perché le divarica?).
E’ mia la raspa che ne attenua gli spuntoni
che hanno tarpato membra
accorte ma impotenti.
Procede degradando verso riva il volo claudicante
in geroglifici di piume sui sudori inespressi.
Insieme ad altri diversi anche me stessa ho assolto
nel panegirico dei perdoni alle intemperanze
di gesti adeguati ai desideri.
Perdoni acromatici, sfocati
e senza dio.
2 Voi non sapete, ho al collo un tempo scorsoio.
Si ignorano i miei morsi e le rese impreviste,
il sordo vagare dei pensieri fra fiordi e larghi
alla ricerca dell’onda più violenta.
Mani feline e gola d’uccello possiedo
e gambe-cravatte-di-corda,
mappe di vene,
polsi sottili più volte incisi con gli occhi
e sempre intatti.

Veglio, dipano matasse di propositi riposti;
nei brevi cedimenti al sonno
la vita s’attorce alla morte
e si assottiglia.
Estranea, sono estranea come un piede nudo
fuori dalle coltri,
libro coricato sottratto alla lunga serie di volumi
in bell’ordine verticale.
Ho labbra smollate,
la smorfia di un taglio,
un ventaglio aperto per sbaglio sul viso.
3 Non ho nulla da dire,
taccio per gioco o per inganno.
Taccio perché amo ascoltare le parole
scendere verso il cuore, monete tintinnanti;
taccio per avarizia,
accumulo tesori fra gangli e ormoni,
globuli e neuroni, fra legamenti e pori.
Taccio perché ne ho il diritto
contro il dovere di pochi,
per il vociare di molti,
per il gridare di troppi,
perché, salata, la parola procura arsura smisurata,
per l’enorme divario fra il dire e il fare,
per mettere a tacere l’impotenza.
Taccio come la gatta che si strofina
contro le mie gambe,
arcuata, docile, flessuosa
e dal basso mi guarda
progettando il salto.
4 Ho leccato il mio viso allo specchio,
tastato le ginocchia, i polsi,
con l’indice ho smosso la polvere dagli occhi.
Ho data di scadenza.
Bocca di sughero, lingua pomice,
arde nei polpastrelli un fuoco tenue,
spiedo la voce, le parole carne
ma non ha fame il mio nome
né il ventre richiede alimento che non sia respiro.
Ho data di scadenza.
La sabbia acceca, soffoca
se si solleva dal suo letto antico,
è talpa che si insinua sotto pelle,
ti allarga il corpo in un lamento urlato.
Ma soffoca e acceca l’ora che si somma al giorno,
l’anno che si sottrae alla vita,
e tutti si sollevano dal loro letto antico
a dirti - respira forte quest’aria ruvida,
ti serrerà la gola -.

Ho data di scadenza
e il tempo già mi umilia.
5 Hanno anelli le dita,
soprammobili le mensole
e quadri le pareti.
Oggi il giorno è andato come miele nel latte
e tutto è più immobile di sempre,
più radicato di una vecchia quercia.
Le ore imbrattate di segreti stupori
e dolce appare l’annullarsi nel letto
sotto lenzuola morbide che induriscono il sonno.
Lascerò che la carta scivoli vergine sotto le dita,
aumenteranno le foglie della mia umile primavera,
si sfalderà al passaggio
il profumo del nulla.
Cosa ho piantato, cosa ho raccolto
con avidi denti d’alba?
Cosa mi imbratta il cuore se il battito ricade sulla notte
come viandante ubriaco?
* Termine dialettale che indica la limaccia
FIUME
-Forte, più forte- gridava il fiume,
le mani piantate nei fianchi
dove l’acqua si gonfiava dimenandosi,
puntava al piccolo fosso fra le rocce bianche,
penetrava sfrontata in cerca di un’estasi salvifica.
E noi fummo gocce,
e terra,
e pietre,
sotto gli scrosci e il tremulo verde
delle piante specchiate.
Feriti, lavati, lacerati dalla piena che si levò
in gorgoglii di trine
verso dita di salice.
Fummo dolore, ebbrezza,
parole di colla e frammenti divini,
sciami di neve agli inguini
e poi fuoco.
SANGUIGNA
E’ qui che sgocciola il duemilacinque,
in questi giorni da calpestare ancora
con impeto consueto
e una maschera di dolcezza,
sotto un cielo che illividisce e pesa
e già s’inverna di bava bianca sulle cime-guglie

della nostra immensa cattedrale di terra.
Sfuma in respiri asmatici,
agonizza dietro un fianco di luna l’anno terminale,
con rapidi sussulti vitali
in attimi impregnati di uno sguardo che ravviva
e proietta nel futuro, in un mattino spezzato.
Le prove di cenere e carbone
hanno passi di sanguigna, a tratti.
Basta un colpo di spugna.
INCIPIT
Morbido il guscio che richiama alla terra
in macchie sfrangiate,
scotomi flosci e cangianti; ed ecco la lesione,
il primo odore vago d’erba umida,
il sospiro penetrante, avido d’ossigeno.
Poi tutto si spacca, si sfalda, il corpo esplode al mondo
e già rimpiange l’amniotico silenzio,
la pelle protettiva.
Gli specchi, l’acqua, la voce che avvolge e compensa,
la mano calda che imprime l’istante dell’inizio.
Si aprono le danze già vorticose, frenetiche,
al ritmo di una polca senza fiato.
D’AMORE E MORTE ESAUSTI
Taglia e raggela il caldo l’immane pelle
esposta al fumo serrato della sigaretta.
La concrezione scarna di calcina spegne la luce,
invade le segrete camere del mare,
sopra le macchie di verde asciutto
disegna lo scorrere di brina,
le rate della vita che si dilania.
Partorisce un ricordo,
dolore caldo e forte, acido.
Il palazzo ha buie finestre aperte alle scie dei motori.
Ascolta, ascolta.
Il sudore ti abbellisce, ti lucida, stella terrestre e terrea,
concime d’anima sciatto,
svolge le mani, le apre, le adunca, le affila,
unghie tenere della sera che si assottiglia sotto i piedi,
voci modulate,
ringhiate,
sputi, guizzi, nello spessore inesauribile
di un rimestìo di terra e d’impotenza.

SENZA FIATO
Adempio la formalità del vivere,
lo confermano i dati;
sopravvissuta alle mie stesse intenzioni,
al costante svalutarsi del progetto iniziale,
a questo consumarsi delle notti
nell’esame inconscio dei sogni,
alle briciole raccolte nella tovaglia
che ogni giorno rimuovo.
Testimonio una vita
fatta di gesti e parole radicati
nella traiettoria lineare dell’inutilità.
Ora per cortesia, solo per cortesia,
respirando bocca a bocca questa attesa,
qualcuno mi regali, senza risparmio,
il fiato che mi manca
e che mi annega.
LA META
Il camminare stento
avrà una meta, un giorno.
Raggiungerò il labile recinto
delle voci.
Mi stenderò prona, il viso accostato
alle spugnose zolle,
lavorerò le nostre solitudini
incrociate.
IMPRECISIONI
La mia natura rampicante
illiquidisce e cola
sul peso delle membra assenti.
*Morbida compostezza,
vergine attesa,
e sempre chiusa e aderente la buccia
a celare la carne che si nega alla luce
cercando simmetrie di buio da esibire.
Urla d’aquila e silenzi di medusa
salgono ad orazioni sfreddate;
mi consumo e rabbrumo nel caldo angusto
di queste devastanti imprecisioni.
**Mancano precisioni di compasso e regolo,
tutto è un fuorisquadra sbilenco
fra le carte da gioco impilate sul tavolo opaco

e i pacchi ordinati sotto l’albero,
i cuscini composti in sequenza sul divano
la gatta acciambellata sul rigoroso cerchio
della sedia.
Il giorno arriva quando non l’aspetti
e rompe gli squilibri, e tutto riconduce
all’ordine naturale delle cose.
Non resta che frugarsi nelle tasche:
qualcosa, infine, accadrà.
VARIAZIONI SUL TEMA
Poi è giunta l’età matura, l’involucro di lenti
pronte a riesumare immagini a ritroso,
l’età priva di insidie, se non nella carne.
Ho lasciato le grucce
in un angolo d’occhi,
ripercorso a fatica la strada
(l’odore della polvere scoraggia).
Le impronte sono lì, pietrificate,
il fondo di caffè intatto da mesi
che nessun’acqua scioglie.
A sovrapporre i passi
la misura non è più la stessa….
OMBRE
Fumo d’umido
e il passo azzardato sul porfido,
l’andatura ondulante, ma per disagio.
Oltre la piazza angusta fra le voci
si smorza l’enorme biancazzurro
e il buio si risveglia
incattivito.
Mi rimbalzano ombre fra le mani.
LA VOCE AL CIELO
La ninfèa galleggiava sul suo letto d’acqua,
separava i giorni dal dolore
e pietre mascheravano il viaggio ambìto,
la speranza raccolta nel pugno
stretto più della gola.
Lì sognava steli d’ombra
e schiaffi di pioggia,
la mano incurante che la recidesse.
Spinsi la voce al cielo a estorcere promesse
ma già pronto era il Golgota,
nitido, perentorio come un dono,
come il filo che cuce la sera.

LA MIA ECO
Ecco la linea
dove la mia eco si spezza
permeata di grigio
all’imbrunire…..
Sprofonda il nudo suono
e si dipana flebile, intermittente:
il volo di una mosca,
il procedere contorto d’un ubriaco,
lo scatto confuso di una rondine
nello schiaffo violento
della risalita.
Lo sguardo, alla radice,
segue il tragitto del suono,
ne attende il ritorno obbediente.
All’inatteso silenzio
si attarda la vita e si fa lenza.
IL PASSAGGIO
Entro, infine, (scontato, ineluttabile)
mi accingo a tingere di rosso questo cunicolo
dalle pareti ruvide
e con insolito gesto stringo i pugni,
tendo le braccia come archi da combattimento.
Lunga la stagione e lenta.
C’è da procedere con protervia
accatastando in un angolo le esitazioni,
i cedimenti,
le minacciose stanchezze.
Ciò che voglio, al dilà dell’angusto percorso,
è l’assenza.
LA CHIAVE DI LETTURA
L’universo ha voci concentriche, diseguali,
sporadiche voci a piè di pagina
a dare un senso all’inespresso:
così tutto rimane oscuro.
Camicie scolpite sul corpo i segreti si spalmano,
si incarnano, affondano le piccole radici aeree
nel candore di pelle inesplorata,
s’aggrinzano se disidratato è il corpo,
a un breve sorso si gonfiano.
Dove incenerisce il mare e la terra gorgoglia
ha origine quel fiato
che alle pupille ha offerto segni e tinte
e alla bocca il mistero.

Siamo proiettati nell’incubo
delle nostre scatole di legno sagomato
che ondeggiano su spalle pietose,
arresi ancor prima di scoprire la chiave di lettura
che ci sveli il segreto dell’albero che sale,
si arrampica al cielo
e vi si perde.
LE INESISTENTI VARIABILI
E’ probabile l’alba
se unendo i punti degli interrogativi
prende forma un viso,
occhi aperti, fronte sudata,
udito teso all’impercettibile,
labbra e lingua pronte ai suoni.
Lo troverai sullo specchio appannato del bagno,
ti guarderà come tu lo guardi,
ammiccherà alla tua aria smarrita,
ti inviterà a ricomporre le lenzuola sul tuo corpo,
tornare ad affondare il naso nel guanciale,
annullare i sensi.
Così fuori tutto inizierà a girare
anche senza il tuo fiato e poco importa
se non vedrai le altrui vertigini,
le corse smodate.
Lungo binari composti
viaggerà il progetto universale,
soste programmate,
panorami studiati,
invariabili le destinazioni.
IL DOPO
Quando l’inchiostro,
mio scuro sangue,
dalle vene evade
e invadente riempie
spazi bianchi
-pelle di carta decrepita
che crepita
nel pugno che la stringe-;
quando l’emorragia di versi
dilaga e sgocciola dal labbro,
riversa sulla schiena
ascolto la pace che subentra,
il silenzio atteso e odiato,
la mente, dopo il sisma,
che si assesta.

FRAMMENTO AUTUNNALE
La pace scontorna sul vicino andirivieni,
si smorza fra fruscio di stoffe e riflessi di vernici
in questo candido giorno settembrino
imbrattato, imbavagliato, reso invernale.
Chiamo semplicemente pioggia questo muro d’acqua,
mannaia sul collo,
garza sugli occhi,
riduttivamente pioggia.
CRONACHE
1 Non c’è rabbia nella città frolla, sfaldata,
né stizza o sciami di vendetta,
solo sguardi vuoti che minano ciò che è rimasto intatto
e danno vita a corpi che intatti non sono.
Sorpresa nel suo diurno, agitato sonno,
una strada qualunque
striata dalle auto,
forata dalle voci
(i gesti, le cose di sempre)
si sveglia bruscamente con palpebre di morte
e vesti rosse, slabbrate.
Lingue di cani lappano l’orrore rappreso.
In alte nuvole scure si sospende il tempo.
Neanche i vivi respirano.
2 Siamo un po’ qua e un po’ dove…..
(come si dice? -“Di passaggio”)
Ci sfugge il senso del tempo
e del luogo
il cielo è un acconto di Dio
Poi arriva
equivalente della fine
un monte roboante e liquido,
la carezza di un demone
Giacciono cadaveri nel fango,
sorpresi dall’intervallo
fra la causa e l’effetto.
(26 dicembre 2004)
3 Un minuscolo punto rosso
e una freccia: “Voi siete qui”.
Ma qui dove, e perché,
e piuttosto: siamo davvero?
I nostri piccoli cuori di topo balbettano, stonano,
noi li strizziamo per acquietarli
( il nostro anonimato )

e se ancora sussultano
con aspra dolcezza procediamo all’espianto.
Accadimenti estorti al caso, all’imprevisto
siamo, ma siamo?
4 Al diavolo gli anonimi della notte,
quelli che anneriscono il buio con la violenza,
gli ometti con le pose da grand’uomo,
gli oratori senza convinzioni,
i giornalisti che sterzano fra false notizie,
chi senza vanga dissoda terre
e le semina a pietre.
Al diavolo le false odissee,
quelle della gente senza storia,
le domande già complete di risposta,
le armi impugnate in nome della pace.
Isole disperse in oceani sconosciuti siamo,
noti all’ignoto,
lingotti di stagno,
dogmi portati in trionfo su supporti di ghiaccio.
Tutti uguali,
tutti diversi,
tutti contro tutti
nel catalogo perverso dell’umanità,
grappoli spargoli,
opercoli di zucchero,
arcate ardite fra mura fatiscenti,
pula esposta al vento dell’opportunismo.
Al diavolo le fiabe per adulti
senza lieto fine.
NON DOMANI
Non domani, adesso scoprire il viso,
il sorriso sghembo
che mi porto dietro come bagaglio inutile,
salpare se mi accompagna un fiore,
se a placare la plumbea ruvidezza delle sere
si accende una luce piccola, fioca,
a dirmi dei colori che non vedo
fra gli intrichi di rami
che ingrigiano di crepuscolo e appassiscono
sotto il suo logoro velo.
Non domani, ma adesso che il merlo gioca
con bacche d’abete
e la gatta grassa sonnecchia sulle chiare distanze,
addentare l’annurca che rosseggia nella fruttiera,
quell’unico segno dimesso
della via da seguire
nel chiaroscuro che disegnano le assenze.
Dormirò un sonno evocato
disertando guerre e versi

e sulle labbra stenderò gli inverni
che hanno fatto letargo del mio cuore.
CONCERTO PER UN GIORNO IN QUATTRO TEMPI
1 Un bianco vistoso
accompagna al rituale del mezzogiorno,
chiarore di scalmi e chiglie dove poggia e urta
l’etereo mugolio di nembi spinti.
Affoga piano nel livore del tempo
un dolore ridicolo, incompleto,
che viaggia oltre i confini dell’umano
sulla larga piana intonacata a cielo,
camera nuziale dove si accoppiano pollini
e le vite disertano il tempo.
Più giù, più giù, la nostra solida debolezza
frantuma ciò che resta del sonno,
si accanisce contro il fiume in secca delle ore,
aria saporita che dilania,
disegna veline intorno al muto parlare.
Si racchiude in un pugno la manciata di scaglie
che lasceremo piovere sulla lingua
in attesa che si estingua la luce e poi le brume
come aliti nello smisurato spazio di un secondo,
sul percorso sconnesso della sera.
2 Un diluito raggio
piove nel compimento della roccia
-ineffabile fusione-
mentre si irrigidisce l’estate nella cruna dell’ago,
sutura labbra,
svena gerani alle finestre.
Rosso d’azzurro il sole che si immerge
e annega il giorno,
lo rinnega.
3 Le colline dipingono profili camusi
sotto il petalo latteo della luna
e già si allenta sulla scena diurna
l’incantevole nera:
in essa una maestosa eleganza,
un silenzio da murice insabbiato.
E ci fa soli, inermi,
la voce che raspa alla radio
e annoda gli ultimi riverberi sonori
in parole di cardo e ortica
nel riordino logico dei gesti,
nel recupero di verità celate,
le ancestrali memorie
4 E’ facile per il buio penetrare in fretta,

amante violento e impaziente.
Lo sguardo annaspa,
vomita il chiaro raggio di scorta,
si attarda nella decisione.
Semplicemente si inanellano i respiri,
salgono dalle branchie,
nuoti nell’acquario arredato
dove le tende sono tese e i quadri allineati.
I tasti immobili,
non c’è suono che richiami alla terra.
Solo un sobbollire attutito, un sibilo vibrato,
il verso rauco di un narvalo.
Accanto al tuo corpo in ascolto,
astutamente si dimena un tentacolo.
UNA STORIA
1
Ecco: sfidarti,
estorcerti sguardi obliqui e sospiri,
alitarti negli occhi
appannando al ragione,
corromperti, infine.
Proposito larvato e bieco,
palindromo della sconfitta
di questi anni di ruggine e garza
che procedono senza controllo
verso la linea del traguardo.
Ma la conta dei dubbi è infinita
e ciclica è la scelta della resa.
Tu, intanto, mi sfiori,
io iberno le intenzioni
sotto un dito di galaverna.
2
Fammi entrare in te insolitamente,
spina nella presa, ago nella carne,
perché di te tutto mi inondi
e mi addolori,
fino a che non si sdoppia il cuore
nell’intima sorpresa
che spana l’anima e le iridi scolora.
Fammi entrare,
bussare al sigillo del tuo sterno
ora che ti conservo nella borsa
come un invito
da non dimenticare.
3
L’avverto nei tuoi palmi
la voglia di spogliarmi dei silenzi,
lasciarmi a cuore nudo, impudica,

nel crudo bagliore della resa,
nel terrore che evapori l’essenza
con i suoni che mi estorci.
Le parole che dico mi escoriano,
pelle di zigrino e rame
e a carne viva si rapprende il dolore
in silenzi più duri, più selvaggi.
I salvataggi non servono
se la vittima rifugge la vita e la bestemmia.
Colmami piuttosto di silenzi
chiudendomi la bocca,
tu sai come.
4
Sembra impossibile
che tu possa penetrarmi l’anima,
viaggiarmi il corpo
navigando sudori e salive,
raggiungere mete mai promesse, mai ambite.
Ti offro la geografia di ciò che davanti a te
si mostra come se fosse acerba e non conosci
e stenti a credere che gli occhi mi appartengano
come le mani, in egual misura,
con identico peso,
e plausibile è il dubbio se lo sguardo scivola
ma le mani si incollano, enormi ventose dentate.
La pelle si arruga, il sangue ti spennella
zigomi e collo e ti scomponi,
agiti banderillas sul vertice dell’abbandono.
I sussulti sono singhiozzi
e non mancano lacrime allo scontro sublime
e pungente dei contrari.
Avvolti nel bianco indugiamo evitando parole
e si sfuma nel silenzio l’assurdo incontro
come crepuscolo nella sera.
5
L’ultima luce, stasera, è un distillato ocra
che cala nella scollatura dei monti,
sbava su prati e tratturi, macera i muri.
Al suolo stridono lamine d’ombre,
si spalmano sul capo, cercini ad attutire
il peso della notte incombente,
il suo ricamo di cotone ritorto.
Ruches, nappe, macchie di chiacchierino
nel ventre della stanza
contaminato d’ocra a specchio:
molto è cambiato, nulla lo è davvero
nell’asola ristretta del raffronto
priva di compassione e di rimpianto.
Credo che piova.
Parli svuotando cornici,
succhiando il filtro, seno di carta,
poi un tuono come uno schianto

suona le arpe dei vetri
e in trecce di corallo scioglie i cammei
dei guanciali ancora caldi.
Amo chi parte senza voltarsi, dici volgendoti.
Lasci che le carezze si induriscano in graffi,
che tutto cristallizzi nel passato.
Di mio e di vivo
solamente il nome.
CODICI SEGRETI
C’è polvere fra le pieghe della gonna
(rughe tessili incollate ai ginocchi)
se tarda il vento fra capriole di gatti
e l’afa smuove i lombrichi
su prati inchiodati alla sera.
Anche le piume giacciono
sotto il grigio di cirri piombo-evanescente
che batte ai polsi e al collo. Così affondo.
Qualunque godimento si allontana,
premendo i passi sulle erbe malnate,
e lì si assesta e muta:
cartavetro che assottiglia la vita,
i frastagli del cuore.
Si ricompongono certezze e geometrie,
sagome di tangram che si assemblano
in figure senz’anima.
Nessun controllo.
Sarai più lontano ora che ricordo la tua esistenza
come i buchi neri dell’universo,
come le mani di vetro che sfiorano l’intoccabile,
i prodigi della fantasia che tutto plasma
e tutto teme.
Cede il tuo coraggio se mi slego,
se mostro le crepe devastanti dello sguardo.
Tremi, non reggi,
e allora è meglio che tu resti distante,
distante come dal principio
di questa storia informe.
E’ come attesa, carta molle ancora per poco a pelo d’acqua,
osmosi lenta, accanita, che ti annacqua i polmoni
e il grido straziante che ti esplode in gola.
Allora, come placare le parole
che vorrei dire e non dico
perché manca rigurgito ai conati,
perché pietrificato è il magma che mi sobbolle in corpo.
Ha codici segreti indecifrabili
questo vivere di china e carboncino sfumato,
questo misero mistero in bianco e nero.

SENZA AMPUTAZIONI
Permettetemi di essere presente senza amputazioni
nel parlarvi di quanto peso abbiano
i fallimenti voluti
largheggiando con le attenuanti
in un detestabile gioco di causa ed effetto.
Vi stancherò più delle abitudini
che uccidete nel whisky,
quelle noiose sere, notti destinate a restituire
le mancanze del giorno.
Mi subirete come un rimorchio.
Nessuno mi chiederà se temo di morire
senza aver definito
la pietra miliare del mio limite.
UN INDIZIO PER G.
1 Le foglie accartocciate del croton,
la marionetta floscia sul divano.
Intorno tutto un mondo in sospensione,
sintonizzato col passo in apnea alle porte;
da anni l’attesa che il corpo
passi dinanzi a se stesso per scrutarsi,
sistemare con rapido gesto gli affetti,
amarsi, infine,
di un amore poco esigente,
di quelli che conoscono la bellezza del limite.
Adesso vai- mi dici- vai e scrivi di me,
seziona in astrusi dettagli
la creta che si attarda nelle mani
rinunciando alla forma
e si accalda sospesa nel suo limbo,
corpo di gomma.
Galleggiano i fonemi, tu li leghi,
ne sciogli il senso, li plasmi al tuo sentire,
ti affanni nella compostezza regale
di chi offre e non chiede.
La verità è che non mi appartiene
la legge distorta del dialogo,
l’eccessivo andirivieni delle idee.
Ma nell’opaco silenzio
-grappolo di paure indecenti-
mi sollevo alla pietà
che apre, chiude sentieri sdruccioli,
accordo gli strumenti alla corazza,
attendo e invoco la mia piccola morte serale,
pannocchia nera che mi si sgrana fra le mani.

2 E ancora mi dici:
smetti di percorrere il perimetro
del tuo piccolo spazio,
lancia la mente oltre le colline,
scomponilo il tuo grappolo, chiama ogni acino
giacché ogni paura ha nome e volto.
3 C’è uno stagnante segreto che stucca i pori,
un minuscolo vinacciolo diverso dagli altri
che allappa e disgusta
e avvelena la mente, l’acceca.
Dietro le colline vive una donna dagli occhi larghi,
ed ha il mio nome,
ha visto, ascoltato, ferma sulla sua ombra
raccolta ai piedi come gonna slacciata,
e ha deciso per sé una sorte letta nei tarocchi
facendone condanna.
4 Hai grandi mani,
polsi che non ti appartengono
come le labbra che appena sfiorano
il mio palmo contratto depositando un segno
da riesumare all’occorrenza.
Hai occhi anche per me
che procedo con un bastone bianco
saggiando la terra con un piede.
L’ULTIMO CANTO
(a mia madre)
Voi l’avete vista camminare come in trappola,
misurare la lunghezza della propria inquietudine
navigando vie senza timone né rosa dei venti.
Aveva scarpe diseguali
e una giacca di lana sulla sottoveste,
cantava reclinata sul tempo contratto,
sospesa sull’inferno che le torceva il respiro
in lamenti privi di intenzioni,
cantava la sua storia confusa con lievità inattesa
fra le onde di un umido libeccio
che la schiantava.
Madre lontana,
madre sfuggita al mio pianto in un assaggio d’alba
che ha leccato il buio con violenza!
Biacca malleabile e perlacea
impastava fili di brina sulla terra,
e lì hai sostato,
sorpresa da inconsapevole stanchezza.
Ora manchi all’appello,
viaggiatrice segreta del mio sangue,

e non è il gioco del farsi rincorrere
o un negarsi per dispetto,
ma canto impigliato nel corso del destino.
E’ tempo di riconciliare il tuo corpo perduto
col lievito del fiato,
viatico che adesso ti consegno
come se fosse vita.
CAMERA PICTA
Danzi sul rogo del sangue,
euforico per chi sa quale logica
risparmiando sui gesti
(scialacquatore di parole,
abituale avventore del nonsenso).
Danzi con foga notturna per noi elevati
come ostie in chiese sconsacrate.
L’inesprimibile torce la lingua
e si avviticchia agli arti.
Sotto i piedi si snodano in ciottoli
viali di asfodeli e magnolie
dove tutto si adegua alle regole dell’ordine
che non può non essere
perché non sfugga il potere della mente sulle cose;
lo spazio s’apre all’affanno lieve della curiosità
che spinge i passi e li accelera.
E’ un longilineo novembre, triste e rossiccio
nel suo splendore guerriero
che si sporge a fendenti alterni
ora a bave di caldo, ora a geliccio,
un tempo coraggioso
chino sui brandelli di un calendario
dove ogni giorno è cerchiato di rosso
come un miracolo.
In tale cornice,
piccati a navigare dune a vele tesate,
e rocce,
e terre,
ci sorprende il vuoto, scolora le iridi
per crollarci dentro, implosi.
Manca una mattonella, una sola,
nella camera picta che affascina e addolora:
il mondo vi si inserisce perfetto
in tutta la sua oscena imperfezione.
L’ASSIOMA TARPATO
Dicono che parli di me
come metafora dell’irrisolto,
un piccolo nome bifronte
che costringe le labbra al distacco

e le dispone in tondo,
un corpo già sacrificato
che la commedia dei vivi isola e smembra
su scenari immobili
dove a nulla vale la sentenza del dio
che placa
e non rimargina la piaga filigrana
che imbelletta di rosso
il dorso che si snuda al vento.
Ma il vento morde, taglia
come il vizio di guardare
nel vuoto
sfiorando la vita in braille.
Cambiare, amore mio, è un problema logistico,
collocarsi nella vita che ci precede
recidendo pastoie;
la terra da cui partire
è l’assioma tarpato che ci culla da sempre,
carni tenere, odore di latte,
già avvolti nella coltre del mistero.