giuliano grittini - il nuovo sito di Images Art & Life

ACHILLE BONITO OLIVA
intervista tratta da:
OOMM
di
Marie-Claire Delamichelle
Fammi credere che esiste l’arte
d’amare e immagina di dirigere una
misteriosa orchestra con la bacchetta
magica che ti vorrei donare… Che
uso ne faresti?
Suonerei con la bacchetta le teste
degli orchestrali al ritmo di un samba prima,
e poi di un fado.
Quando fai l’amore, gridi ciò che sei o taci
ciò che hai paura di essere?
Faccio e dunque sono, senza di dar di voce:
non sono per un sesso stereofonico.
Se io fossi tua madre, cosa potrei fare per
te… cucirti, cucinarti o rincuorarti?
Cucinarmi due
uova fritte con il
pomodoro.
E se fossi tuo
padre? Indicarti
la strada, condurti
per mano o portarti
in braccio?
Indicarmi per
andare da solo
incontro agli altri.
Creare è una forma
di pane impastata
con la farina del
bene o del male?
La creazione è
il companatico della vita e non conosce
innocenza o peccato; è assolutamente
amorale.
Che sembianze daresti alla tua anima,
potendola descrivere in termini di
pura fantasia?
Figurabile, mobile e pronta ad
assumere felici metamorfosi con
autoironia.
Facciamo un gioco…
Lo scrittore Maurice Maeterlinck affermava
che: “Non c’è nulla di più bello di una
chiave, finché non si sa che cosa apre”.
Cosa potrebbe aprire per te questa chiave?
Dimmi il primo pensiero che ti viene in
mente… ma sii trasparente, per favore!
La chiave è una scultura inutilizzabile se è
bella e vuole trovare sbarramenti o chiusure,
la chiave è una
promessa.
Ritieni di non
essere possessivo
ma possidente…
Mio boxeur…
se tu fossi
completamente
padrone di
te stesso in
coefficienza di
quanto lo sei dei
tuoi boxer, da chi
avresti il piacere
sopra: Achille Bonito Oliva con Marie Claire Delamichelle a Milano.
a lato: un particolare di un’opera di Giuliano Grittini con ritratto A.B.O.
di farteli strappare
sul ring?
Non mi piacciono i pugni ma il balletto del
boxeur con o senza musica, con pubblico o
solo con l’avversario.
fine...
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PHILIPPE DAVERIO
intervista tratta da:
OOMM
di
Marie-Claire Delamichelle
Se per un gesto d’amore ti donassi
una bacchetta magica, che uso ne
faresti?
La regalerei a due tre persone che
non voglio nominare, in modo che
riescano finalmente a far suonare
decorosamente la loro orchestra. (Questa
non è una dichiarazione musicale ma si
può applicare
a qualunque
assemblea, di
condominio
o regionale).
Se io fossi tua
madre, cosa
potrei fare
per te… cucirti,
cucinarti
o rincuorarti?
Stimolarmi
al fare come
fece mia madre.
E se fossi tuo padre? Indicarti la strada,
condurti per mano o portarti in braccio?
Mio padre non mi ha mai portato in braccio,
però mi ha insegnato il senso dell’etica
ferrea calvinista, benché fosse di origine
cattolica.
Quando fai l’amore, gridi ciò che sei o taci
Marie Claire Delamichelle e Philippe Daverio
ciò che hai paura di essere?
E’ ovvio che grido ciò che sono,
anzi, grido ciò che vorrei essere.
Sono Opera Omnia Munda Mundis,
prete mariuolo nonché marinaio,
e mi piace confessarti così: tra i sette
peccati capitali, superbia, avarizia, lussuria,
invidia, gola,
ira e pigrizia,
quale condanni
di più,
e quale di
meno?
Condanno
l’accidia, la
non partecipazione
all’interesse
comune e
considero la
lussuria meno
grave della
ginnastica.
Lo scrittore e filosofo francese Michel
Eyquem de Montagne (1533-1592) affermava:
“Anche sul trono più alto del mondo,
si sta seduti sul proprio culo”. Che te
ne pare?
Non amo gli aforismi, amo i trattati filosofici.
Vado pazzo per la complessità.
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“Si sta come
d’autunno sugli
alberi le foglie”.
Emaciato sussurro
e grido di un’esistenza
scabra,
macchia indistinta
nel tempo, spazio
non trascorso,
trasparente e trasognato,
blocco
dell’anima che si
trasmette traverso
gli occhi di Alda
o la sua pelle “assoluto
naturale”.
Questa solitudine
viva e vibrante fa
della storia umana
un “unicum”
nella creazione: apparteniamo a un
gruppo per convenzione o difesa, per
necessità o all’ombra di quella perpetua
mancanza che chiamiamo amore,
ma siamo come nella poesia di Alda
scheletri sperduti su sfondi che ci confondono:
il nostro viaggio, ancorchè essere
incamminarci, vagare, predisporre
i ritorni è un percorso immobile intorno
a noi stessi; è una serie ininterrotta di
fotogrammi fermi in ognuno dei quali
ripetiamo e rimodelliano l’identico
cruccio esistenziale.
Così Giuliano nel ritrarre Alda, “fissa”
la sua poetica, perché non la carne o il
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GIULIANO
GRITTINI
di
Roberto Vecchioni
in alto: Giuliano Grittini con un suo ritratto di Alda Merini
sorriso noi ci sentiamoprotagonisti,
ma il di lei disperato
continuo
bisogno d’amore.
È quest’incontro
dunque un rendez-vous
di due
anime che fermano
la corsa, il rumore,
la dinamica
e usano i loro
distinti segni per
afferrare il silenzio
e il sussurro:
“fermare” il flusso
e rendere il fiume
lago, e quindi
specchio credibile
delle nostre
miserie, nonché rivolte.
Paradossalmente tutto è fotografia. L’anima
non conta le ore e i secondi; l’anima
scatta un’immagine e la secolarizza, la
fa infinita nel suo non accadere, restare
a mezzo tra l’attesa e l’arrivo di qualcosa.
Questo preciso attimo che noi tutti sappiamo
vivere, ci restituiscono Alda e
Giuliano come si trattasse di un piccolo
miracolo.
Ma di miracolo non si tratta.
L’arte, qualsiasi grande opera d’arte, è
la cosa più vicina a Dio che ci sia dato
conoscere.

Lei, Alda Merini:
lei, membro dell’eletta
schiera dei
privilegiati che tutto
o quasi sembrano
aver capito dell’anima
degli uomini e
delle cose: lei, che
ha elevato la verticalità
fragile o la
screpolata
vecchiezza degli
alberi alla dignità
del Simbolo; ebbene,
lei ogni tanto
ama riportare i suoi
caracollanti pensieri
nel chiuso orizzonte di una stanza, entro
le placide geometrie dei muri domestici. I
pioppi infiniti, i roveri nodosi galleggiano
sospesi di fuori, nel cielo delle guizzanti
epifanie; presto Alda riaprirà le finestre, darà
loro, ancora, asilo, ne sublimerà il verdeggiare
strepitoso e l’arcana melodia dello
stormire nella cornice perfetta dei suoi versi.
Presto, ma non adesso. Rimangano fuori,
per un poco. Non violino la quieta intimità
del nido.
La poetessa si culla nella propria domestica
penombra. Giuliano Grittini è lì con lei. È lì
per fotografarla.
I ritratti di Grittini ad Alda Merini sono celeberrimi.
Hanno stupito; hanno scandalizzato,
talora; hanno commosso, sempre.
“Mi sento l’ispiratrice di un grande artista”
ha dichiarato lei “perchè Giuliano non fotografa
manichini e stereotipi, ma solo le
dinamiche del cuore”.
Già. Come darle torto? Prendiamo le opere
in mostra. Ve n’è alcune dove l’effige della
Merini è filtrata da una cortina diafana ed
Un testo di
Enrico Giustacchini
in alto: un’altro ritratto di Alda Merini
algida, quasi si situasse
dietro i vetri
polverosi di una
stanca carrozza ferroviaria.
Al di là dello schermo,
quell’intensa
figura si esplicita
in un alone di caligine
lieve. Pare
materializzarsi per
un breve momento,
come uno spirito
buono, un’amica
fedele che credevamo
perduta, che
ritroviamo per un
prodigio inesplicabile, e che temiamo di
perdere ancora, di lì a qualche istante, e stavolta
per sempre. Il bianco e nero accresce
l’atmosfera di dolce struggente malinconia.
Cristallizza la visione nel fermo-immagine
di un sogno muto, fatto di movimenti impercettibili,
di increspature di labbra appena
accennate, di un aliare ovattoso e silente.
Alda Merini solleva la mano a mezz’aria, la
sigaretta tra le dita: e tu guardi quella donna,
e la diresti un’entità eterna, madre di
tutta la saggezza, di tutte le gioie e di tutti i
patimenti del mondo.
Madre. Mater dolorosa, mater amabilis.
L’obiettivo magico di Giuliano Grittini consente
la cattura, e l’immobilizzazione, delle
icone fugaci che balenano, talora, a rischiarare
il buio dei nostri sonni tormentosi, sotto
le evanescenti spoglie della memoria, nelle
forme solenni di una dispensatrice di verità -
santa, dea: madre, appunto -, al cui sussurro
cerchiamo forsennatamente di carpire brandelli
di rivelazione, prima che il risveglio
confonda e annichilisca ogni cosa.
segue:
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Alda Merini - mater amabilis, adesso - ci
racconsola.
Ci invita a placarci, a non guardare più alla
notte come ad una trappola ostile, ad una
sirena irraggiungibile, e inutilmente tentatrice.
un prato senza vita è la notte,
un prato che non dà sofferenza,
soffuso di canti e di stelle
e di intimi abbandoni.
La notte è quel piacere distante
che fa vibrare il sonno pacifico
delle alghe,
che addormenta il nostro
impulso vitale di morte.
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Le stars sono una prerogativa di Giuliano Grittini,
come questa “Marilynblu”
(dalla raccolta “La volpe e il sipario, 1997)
GIULIANO GRITTINI
Nasce e vive a Milano dove ha frequentato la scuola di Disegno
Grafico ed alcuni studi di importanti artisti, apprende
la tecnica della litografia, serigrafia ed acquaforte, nella
quale si specializza.
Realizza e stampa opere di artisti tra cui: Baj, Fiume, Sassu,
Guttuso, Scanavino, Tadini, Warhol, Vasarely, Rotella, Chia,
Cucchi, Nespolo ed altri.
Appassionato di fotografia, frequenta studi di artisti e li fotografa
in varie fasi del loro lavoro.
Alcuni dei suoi lavori:
- con il critico e scrittore Luciano Prada pubblica il volume
“44 facce d’Autore”, fotografie ed aforismi di artisti e personaggi
del mondo dell’arte.
Fotografie ed interpretazioni pittoriche sono state pubblicate
da: Rizzoli, Bompiani Frassinelli, “L’Espresso”, “Panorama”,
“Corriere della Sera”, “La Stampa”, “l’Unità”.
Ha realizzato con l’editore Pulcinoelefante numerose
plaquette dedicate, tra gli altri, a Umberto Eco, Arturo
Schwarz, Alda Merini, Roberto Benigni.
Ha tenuto numerose mostre personali e collettive ed ha
partecipato a fiere nazionali ed internazionali.
Tra le mostre e gli avvenimenti ricordiamo:
- Venezia 1977, Festival della Parola “VeneziaPoesia”, fotografando
Alda Merini ed Umberto Eco;
- Milano 1994, Arte oggi in EuropaArt; Venezia 2001 Biennale
di Venezia partecipa all’interno del “Bunker poetico”
fotografia;
- Bergamo, Concorso fotografico
- Cesano Boscone, Galleria Transit, opere “Eros”;
- “Artisti per l’Arte”; - Busto Arsizio, Galleria Aquifante -
giugno 2001 “Erotica-mente” ;
- Roma 2002, Tazebo spontaneo - “Post post scriptum” -
gruppo 12, ;
- Mostra fotografica Alda Merini, Milano, P.zza Duomo - Famiglia
Toscana; - Festival della Letteratura 2002, partecipa
alla mostra “Il lato oscuro della letteratura”, pittura e fotografia,
con prefazione di Alessandro Riva;
- Mantova 2002, Galleria Bonelli;
- “Amore vol mente”, Teatro Miela, Alda Merini e Licia Maglietta,
Trieste 2002;
- Torino 2005, Fotografie.
Ha collaborato a diverse mostre e performance:
- 2007, Innsbruck; Como Arte;
- 2008, Olgiate Comasco, “Marilyn e la Pop Art”, collettiva;
- Collabora con la Galleria Reartuno, Brescia:
www.reartuno.it.
Opere sono presenti nelle Gallerie:
- RipArte, Milano;
- Radium Artis, Reggio Emilia;
- Biale Cerruti Art Gallery, Siena...

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Come si diventa ciò che si è...
Conoscere Fabio Migliorati
poeta e critico d’arte.
intervista a cura di Nerina Sandri
N.S. Fabio Migliorati, qual è la sua origine
critica, il suo percorso accademico, i suoi
studiosi di riferimento (quelli che sono stati
i suoi docenti e quelli a cui si inspira, attuali
o passati)?
F.M. Io sono un allievo di Enrico Crispolti:
ho studiato all’Università di Siena, ho
studiato filosofia, con una predilezione per
l’estetica. La tesi è stata – se non ricordo
male – DALL’OPERA AL DOCUMENTO;
CONCEZIONE E PERCEZIONE DEL TESTO
ARTISTICO NELL’ESPERIENZA ESTETICA
POST-CONTEMPORANEA. Si è trattato di
riflettere sulla TEORIA E LA CRITICA DELL’ARTE,
PER UNA POETICA DELL’ESPRESSIVITA’,
anche in chiave semiotica – dato che il
correlatore di questo lavoro è stato Omar
Calabrese: eminente semiologo italiano,
nonché personalità pragmatica, forse quanto
Crispolti. Il mio fare critico è comunque molto
personale – diciamo così – proprio perché io
non so essere diversamente. Metto me stesso
nelle cose, anche perché la vita non mi regala
mai niente. Le cose sono sempre state così...
purtroppo!
N.S. Dunque, lei si considera un romantico!
F.M. Non è questione di essere o poter
essere “definito in qualche modo”... Se io mi
mettessi qui a raccontare la mia vita (seppure
relativamente breve e apparentemente
normale), si capirebbe anche il mio “metodo
critico”. Io vengo dalla poesia, nel senso che
è ciò che meglio mi rappresenta; descrive
il mio fare e soprattutto il mio essere, il
bagaglio che ognuno si porta dietro, reca
con sé in ogni cosa che fa. Per questo, nel
mio caso ha un senso che la critica si torni a
farla per iscritto e non oralmente; la poesia
deve emergere, senza tuttavia rimanere a
Baudelaire o a Majakovskij. Il mio spirito sta,
pigramente, nel dramma esistenzialista, ma si
esprima con forme nuove, anche se sempre
musicali. Io sono contro la traduzione della
poesia; ogni lingua ha la propria letteralità e
per me è fondamentale che la mia sia quella
dell’italiano.
N.S. Ma che c’entra la poesia e l’esistenzialismo
con la critica d’arte?
F.M. Vuole provocarmi? Ritengo d’averglielo
appena detto: la critica è la sostanza e la
poesia è la forma. E’ poi ovvio che non
sempre tale amalgama sì connotato emerga
manifestandosi in tutto il suo fulgore, ma
anche se uno scritto ne è pervaso di meno,
non significa che non lo contenga. Io ritengo
che un contenuto tanto intimi, come è
l’arte, si colga meglio (ciò nell’ interezza
del suo agire) attraverso strumenti simili o
quantomeno disuguali, per centrare il succo
di un evento e non solamente la buccia – per
capirci...
N.S. Al di là dell’irascibilità, spero che lei sia
consapevole che questo modo di fare critica
può arrecarle dei problemi – per non dire che
può rappresentare, per un critico, un difetto,
forse uno in più?
F.M. I miei difetti non sono un difetto! Nel
senso che non sono un ostacolo al mio
lavoro; quelli ne costituiscono le peculiarità,
ne fanno parte più dei miei pregi. Io sono una
persona complessa, profonda, anche nello
squilibrio. Per esempio, in certi scritti – come
il catalogo della mostra dell’estate 2008 a
Pietrasanta, dell’opera di Javier Marin (ora in

centro a Milano, con le sue
maestose teste, i possenti
cavalli, i frammenti di
corpi), che ho curato
con Antonio Paolucci
– c’è proprio il mio
carattere, ci sono le mie
predisposizioni al vivere,
perché quell’arte mi ha
permesso di identificarmi
con l‘opera. In altri casi
non succede, o accade
soltanto in parte...
N.S. Quali sono gli
autori emergenti che lei
predilige?
F.M. Non mi faccia
questa domanda! E’
come chiedere il parere
di un etologo sull’animale
che preferisce. Ci sono
tanti artisti interessanti... oggi! Rispondere
è facile... rispondere bene è difficile! Poi si
pensa sempre che il critico abbia interesse
a parlare in un modo e non in un altro. Se
si considerano nomi già molto affermati non
posso non pensare all’inglese Julian Opie,
per esempio, o a Mark Francis, Barry-X-Ball,
Yves Dana. Diversamente, in Italia io ammiro
la scultura di Fabio Viale, come anche il
lavoro di uno degli artisti astratti più curiosi
di oggi: Paolo Serra (da Rimini...). Ma non si
può riassumere così la sfumatura linguistica
dell’arte, anche se condensata in una
stratificazione d’identità, perché si giunge
presto al nominalismo!
N.S. E all’ora? Non si può parlare criticamente
di gusti? Non è giusto discutere di un nome
piuttosto che di un altro?
F.M. Si, è possibile, ma non è intelligente né
comodo! Io vorrei, invece, parlare di una
cosa che mi fa irritare ancora più delle sue
domande!
Fabio Migliorati accanto a recenti opere di Julian Opie
N.S. Ah sì? Sono curiosa!
F.M. Voglio tirare in
ballo il mio desiderio
scissionista, in due
maniere. Primo. Separare
la critica dalla storia,
dell’arte ovviamente!
Lionello Venturi ne aveva
legittimato in qualche
modo l’unione, ma
sembra che oggi il suo
intento sia stato frainteso:
lui auspicava una storia
critica dell’arte – cosa che
in parte è accettabile – ma
io vorrei che la critica si
occupasse, invece, di arte
come materia di artisti e
che la storia si interessasse
dell’arte nel tempo,
poiché i suoi autori sono
necessariamente scomparsi. Non è possibile
fare una storia dell’arte contemporanea, in
questo senso; cioè non si può storicizzare
processi ancora in corso, né definire arte
dell’attualità una parentesi più lunga della
vita di un uomo (dell’artista, in detto caso).
Secondo. E vorrei anche che il critico non
corresse il rischio d’essere scambiato per
curatore.
N.S. Ed è così differente?
F.M. Eccome, se è differente!
Si tratta d’indagare un’espressione creativa
durante il proprio farsi (in un caso) o nel
suo passato (nell’altro)... rispettivamente. La
curatela, poi, è diversa dalla critica: il critico
può (pure) curare, ma il curatore non sa
(pure) criticare.
N.S. E se io, allora, la chiamo storico o
curatore, lei si offende?
F.M. Certo che no, ma la correggo! Come
ho già fatto un paio di volte, finora. In soli
quindici minuti!
23

intervista a
MARIA CRISTINA CRESPO
D: Anche sulla rivista ARCHEO (11 – anno
XXIII) l’archeologo Paolo Moreno parla del
tuo incontro con il mito, è una delle peculiarità
della tua ricerca…
MCC: Paolo Moreno
è stato uno
dei primi incontri
all’università (lui
stesso è un mito,
è quello che ha
dato un’identità
ai Bronzi di Riace
e al Satiro Danzante…)
e rappresenta
uno dei
primi contatti con
questi temi, che
precedentemente avevo vissuto in famiglia
grazie a due tipi di esperienze (tutte e due di
origine americana) Walt Disney, un gigante
del Novecento, penso al film “Fantasia”, e i
bombardamenti del paese dove aveva vissuto
mia nonna, Palestrina, uno dei castelli
romani.
I bombardamenti avevano portato alla luce il
tempio della Fortuna e l’antro della Sibilla, lo
strato al di sotto della casa di famiglia.
La casa di famiglia poggiava sul tempio romano,
la cantina invece sulla casa di Pierluigi,
il musicista rinascimentale. “La mia patria
è l’infanzia” scrive Sandor Marai.
Tutte le opere sono un po’ autobiografiche,
ricerche scaturite a seguito di incontri, con
personaggi famosi o sconosciuti, o con testi
particolari, come “Il Ramo d’Oro” di Frazer,
che per primo studia le origini del Mito…così
24
di
Nicola Dimitri
scopri che ognuno di noi nella quotidianità
può viverne qualcuno…e per finire capisci
che stiamo parlando della nostra stessa identità,
quella che ci fa definire “occidentali”,
insomma a quanto pare si tratta di un tema
molto attuale, in
una fase in cui si
parla sia di scontri
tra culture e sia di
globalizzazione…
E poi c’è il mito
dissacrato, quello
ad esempio di
Durrenmatt (“La
morte della Pizia”)
che ho illustrato
sulla rivista
Cahiers d’Art negli
anni novanta. In realtà le mie opere non
sono mai illustrazioni, anche se sono spesso
usate per “illustrare”, anzi il contrario, voglio
che siano quanto di più lontano da un’immagine
(di immagini ce ne sono anche troppe
nella società della immagine, del computer,
del virtuale). Queste opere sono il risultato
di un rituale di cui mi sento sacerdotessa (appartengono
quindi più all’azione, ma lentissima,
un’azione che dura anche un mese, un
esorcismo, una preghiera impostata sulla pratica,
un po’ alla maniera del Tibet. Non sono
certo la prima che affonda l’arte nei cartoni
(penso a Keith Haring) ma nello stesso tempo
soffro per l’emarginazione che ha avuto tutta
una parte della nostra cultura, quella popolare,
che affonda le radici proprio in quegli
antenati di Disneyland che furono i Sacri
Monti, in quegli antichi diorami che erano i
Galleria Benucci dic. 2006, con Paola Orlandini di Art News e (a destra) la fotografa Valeria Cicogna

etablos, Ma tutti
gli studi che ho intrapreso
sono stati
finalizzati soltanto
ad approfondire le
cose che amavo da
bambina, un atto
di amore per chi
mi stava intorno,
e vorrei che tutto
convergesse verso
un unico, continuo
monumento
alla felicità…
D: Un monumento
non necessariamente
di grandi
dimensioni
MCC: Non necessariamente. Ho dovuto affrontare
in alcuni casi la grande dimensione,
anche perché nel monumentale ad esempio,
è quasi d’obbligo: penso alla mia opera per la
Metropolitana di Napoli, quel grande museo
“obbligatorio” ideato da Achille Bonito Oliva,
o a certi murales
o grandi lavori
commissionati.
Ma la mia è un’
arte del dettaglio,
di lenta esecuzione,
preziosa, che
richiede tempo
anche solo per
guardarla e quindi
dispendiosa,
molte opere quindi
sono di piccolo
formato; sono pezzi
unici impossibi-
li da ripetere perché realizzati con frammenti
di oggetti o stoffe spesso trovate. Impossibili
anche da riprodurre serialmente: in quel caso
verrebbe meno la storia dei singoli materiali
“Via Lattea”. 2006-2007. Mosaico, ceramica, pietra lavica dall’Isola di Pasqua, strass.
Metropolitana di Napoli, Linea 6 Stazione Augusto.
riciclati, verrebbe
meno il senso dell’opera
come momento
irripetibile
collegato a un momento
irripetibile
di vita. La grande
dimensione spesso
è sopraffazione,
urlo sguaiato
quando gratuito,
e spesso non è
neanche una trovata
nuova: già
Bernini molto prima
del Pop, ingigantiva
gli oggetti;
il Baldacchino di
San Pietro ne è un esempio. Oggi il gigantismo
è una piaga, e non parlo solo degli orrori
fuori scala che affollano piazze e giardini,
ma anche degli orrendi manifesti pubblicitari
che deturpano il paesaggio, spesso illegali
anche se hanno tutti i permessi (eppure perfino
i Writers, così fintamente trasgressivi, li
rispettano, e tanti intellettuali dabbene non
ne denunciano
l’orrore): ci siamo
talmente assuefatti
a questa gigantesca
invadenza
che offusca ogni
angolo di verde
nelle nostre città
che neanche la
vediamo più….
D: c’è una prevalenza
di personaggi
femminili nei
tuoi tabernacoli?
MCC: Direi che c’è una prevalenza in genere
di ogni storia per troppo tempo trascurata.
L’intento è quello di custodire una memoria,
25

di far si che i bisbigli non si affievoliscano
per sempre. Un ruolo simile lo svolgo anche
come consulente per il programma Art News,
prodotto da RAI Educational, in onda ogni
sabato mattina su
RAI3, mi sforzo
di individuare temi
e storie rimasti
marginali, spesso
ingiustamente.
Nelle mie opere
le donne della
grande e piccola
storia rivivono
trasformate e sintetizzate
in piccoli
“monumenti”, una
sorta di presepe laico…e del resto anche fare
il vero presepe, quando ero piccola a casa
mia toccava a mia madre. E uno dei motivi
per cui realizzare un’opera di grande formato
è impegnativo è perché la dimensione dei
personaggi è sempre
la stessa, quella
delle figure del
presepe napoletano.
La ricchezza
dei materiali usati,
la mescolanza
e la varietà sono
fondamentali per
accrescere la
sensualità della situazione
e creano
una sorta di alchimia
non solo di contenuto ma anche proprio
di forme: l’opera si crea attraverso una vera
e propria metamorfosi, attraverso micro-passaggi
da una materiale all’altro, non si tratta
di semplici assemblaggi ma di trasformazioni
occulte da una materia all’altra…
D: che rapporto hai con Roma?
MCC: Di dipendenza totale, di simbiosi, mi
26
“Gibellina”, Atelier, settembre 2004, con il senatore Ludovico Corrao”.
dispiace che tanti artisti si sentano costretti
a farsi strada altrove (e giustamente, perché
nessuno è profeta in patria), io non ci sono
riuscita, proprio perché qui c’è il nutrimento
dell’infanzia…
U m b e r t o E c o
scrisse un romanzo
ispirato alla
sua infanzia, “La
Fiamma della ReginaLuana”…ebbene
mio padre mi
portava a visitare i
sotterranei della
Basilica di San
Clemente, ma non
con la guida in
mano, no, giocavamo a fare Cino e Franco e
la Fiamma della Regina Luana…naturalmente
erano fumetti della sua epoca, ma le nostre
visite d’arte a Roma erano così, un gioco. E
la prima donna anticonformista della storia
fu Claudia Quinta,
una matrona
romana malvista
perché incurante
dei giudizi le piaceva
pettinarsi e
vestirsi in modo
estroso…alla fine
però ebbe la benedizione
della
dea siriana, liberando
come per
miracolo il corteo
fluviale che trasportava la sacra pietra a Roma.
Succedevano miracoli qui anche prima
che Costantino sognasse la croce che sconfisse
Massenzio, Aureliano ad esempio sconfisse
Zenobia sognando Eliogabalo…Come
già diceva Flaiano a proposito del Marziano,
sintetizzando il concetto, qui se ne sono viste
di tutti i colori per cui è più difficile che
qualcuno si scomponga per il tuo lavoro…
fine
sopra: “NOVALIS” “Sacro Sonno (tu provieni da antiche leggende schiudendo il cielo...)”
1996, cm. 130 x 75 x 40 Polimaterico con legno, stucco, stoffa, cartapesta, pittura acrilica

intervista a
NEXT ART GALLERY
AREZZO E BERGAMO: LE DUE GALLERIE DEI FRATELLI MACRÌ
D. Antonio, Saverio, Pasquale Macrì, qual
è la storia di Next Art Gallery e come siete
arrivati alla doppia sede?
A.M. La Galleria è stata fondata nel 2005,
ad Arezzo, città in cui vivo e lavoro. Next
Art Gallery rappresenta la realizzazione
di un progetto che coagulava la passione
familiare per l’arte; per noi (tre fratelli,
tutti medici),
non si è trattato
d’inventarci un
mestiere ma di
concretizzare
un disegno lungamenteelaborato.
Niente di hobbistico
però! Nella
gestione delle
Gallerie versia-
mo impegno ed
energie, quanto nell’attività professionale
propria.
P.M. Quali galleristi abbiamo modificato
i precedenti stili di vita, intensificando
viaggi all’estero per contatti con le gallerie
internazionali, per portare in Italia
artisti affermati; non lesinando però investimenti
sulla giovane arte italiana...
insomma cerchiamo di fare il necessario
per competere con i migliori, stabilendo
relazioni con le realtà più rilevanti del
36
di
Fabio Migliorati
“In fiera a Reggio Emilia”
sistema artistico italiano e non solo. Non
abbiamo, comunque, abbandonato la logica
di ricerca e non vogliamo perdere
la curiosità dei collezionisti, quali siamo
stati e continuiamo ad essere .
D. L’attività di Next Art Gallery come si
può raccontare, descrivere, sintetizzare?
S.M. Intanto, la
Galleria tratta
arte contemporanea;
è situata
in via della Bicchierata
20 ad
Arezzo e in via
della Fara 13, a
Bergamo (alta).
La sede di Arezzo
è nel cuore
della città vecchia,
a cinquanta
metri dal polittico di Pietro Lorenzetti,
nella Chiesa di Santa Maria della Pieve,
e a duecento dalla Leggenda della Vera
Croce di Piero della Francesca, in quella
di San Francesco. Essa s’immerge, ogni
primo fine-settimana del mese, nell’atmosfera
colorata dalla fiera antiquaria
più antica d’Italia, mentre la sede di
Bergamo è allocata in un prestigioso palazzo
seicentesco, in una bella piazza di
Bergamo alta. Come Art Directors, noi
testimoniano la passione della scoperta

artistica attraverso il coinvolgimento di
“nomi nuovi” dell’arte italiana e no, da
affiancare ai grandi del presente internazionale.
A.M. Artisti italiani ma anche non italiani,
quindi, sono invitati ad esporre, nel
processo – creativo
anch’esso
– della costituzione
di una sorta
di “scuderia”.
I nomi sono
quelli più o
meno giovani di
Massimo Festi,
Massimo Pulini,
Milena Jovicevic
Popovic,
Klaus Mehrkens, Serge Mendjisky, Lidia
Bachis, Nicola Micatrotta, Pierluigi Febbraio,
Nicola Samorì, Enrico Robusti,
Paolo Serra, Stuart Semple, insieme a
qualche big del calibro di Hermann Nitsch,
ma soprattutto dell’inglese Julian
Opie, vero e proprio colosso dell’arte
contemporanea internazionale. L’attività
è sia pittorica, sia scultorea, sia fotografica;
attendiamo d’individuare qualche
interessante autore di performance e di
installazioni. Next Art è anche tentata di
dare il giusto valore ad eventi del passato,
come la Poesia Visiva o il lavoro di
Bernard Aubertin, restituendo valore ad
un artista che per certi versi ha “bruciato
le tappe della contemporaneità” – mi
si vorrà, spero, perdonare, l’allusione al
suo stile...
D. Quali sono le caratteristiche di un artista,
per entrare a far parte della “scuderia Next”?
“Una mostra da nextartgallery”
A.M. Non si può parlare di “peculiarità
necessarie” o di “carte in regola” o altro.
Secondo noi – e credo di riferire anche
le intenzioni dei miei fratelli – un artista
deve prima di tutto essere tale, cioè
trarre profitto per la propria sussistenza
dall’attività creativa; non prendiamo in
considerazione
dopolavoristi o
artisti che non
credono abbastanza
in loro
stessi. Ambiamo
a persone che
sappiano “essere
artisti”, non
a coloro che
desiderano “fare
l’artista”.
P.M. La filosofia della galleria è semplicemente
coerenza: costanza nel percorso
in cui le risorse (umane ed economiche)
sono dedicate agli artisti, non soltanto
all’arte. Gallerista – secondo Next Art –
è chiunque presti una forma di continua
assistenza, senza essere schiavo del profitto
o dell’immediato ritorno. Il senso di
un dato modo di procedere, che diventa
“comportamento moralmente estetico”,
si scopre nelle conseguenze di un certo
agire: nei risultati, per adesso ottimi, nei
rapporti con altre Gallerie o con le Istituzioni,
con cui collaboriamo (La Galleria
Comunale di Arezzo, per prima, e il Comune
di Cortona, nell’ambito del Tuscan
Sun Festival, come esempi). Siamo, insomma,
tre fratelli gemelli, per moralità
e dedizione, che sognano un’arte civica,
capace di far riflettere ed emozionare
ancora.
37

D. In ultimo, i prossimi appuntamenti di
Next Art Gallery?
A.M. Oltre alla solita decina di mostre,
il nuovo anno ci condurrà a Bergamo,
per la fi era dell’arte contemporanea: una
tappa per noi obbligata, perché la “piccola
di famiglia” (la seconda sede nata
da poco) è bergamasca.
S.M. Siamo reduci da Immagina, Fiera
di Reggio Emilia, che ha regalato risultati
insperati, quindi andiamo avanti,
caparbiamente, nonostante la recessione
economica che incalza, scoraggiando
tanti. La fi ducia e l’ottimismo sono importanti.
P.M. Saverio ha ben espresso l’intenzione
della NAG: procedere e crederci più
che mai!
Insieme a Bergamo, potrebbe esserci
MiArt, a Milano, nonché, forse, Kunstart
di Bolzano... ma non voglio programmare
troppo, perché è anche bello improvvisare;
altrimenti saremmo mercanti, non
galleristi. Voglio far sapere, infi ne, ai nostri
collezionisti (presenti e futuri) che a
breve troveranno il lavoro di due scultori
d’indiscusso valore, i quali, dall’Italia e
dalla Svizzera, diffondono fascino nel
mondo: Mauro Staccioli e Yves Dana.
38
Legenda:
P.M: Pasquale Giuseppe Macrì
A M: Antonio Macrì
S.M: Saverio Macrì
a cura di:
D.: Fabio Migliorati

intervista a
ALFIO PUGLISI COSENTINO
SICILIA: POLO D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
Ha lo sguardo velato della
malinconica consapevolezza
di chi vorrebbe dare
una direzione ad un tempo
senza tracce, Alfio Puglisi
Cosentino. Riedificare gli
spessori corrosi da una recessione
culturale ed ambientale.
Credo che quattro anni di paziente attenzione
nel seguire i lavori di recupero del settecentesco
Palazzo Valle, un gioiello del barocco
progettato dal grande architetto Giovanni
Battista Vaccarini (Palermo, 1702-1768), abbandonato
in uno stato di degrado tale da
sfregiare il volto di una città come Catania,
ricca di antichi splendori, debba far riflettere
ulteriormente su quanto la
nostra “civiltà”, cosiddetta
del benessere, possa rendersi,
se osservata da una
determinata dimensione
spirituale, particolarmente
logorante.
Ebbene, questa è semplicemente
la mia impressione
nell’avvicinarmi, con qualche
domanda da porre, a
questo personaggio senza
la cui iniziativa oggi non
potremmo beneficiare, oltre
che di una risorta opera
architettonica d’immenso
40
di
Marie Claire Delamichelle
valore, (con i lavori di
restauro diretti impeccabilmente
dall’architetto
Vincenzo Garozzo), anche
di uno spazio destinato a
diventare uno dei poli di
riferimento nazionale nella
promozione dell’arte contemporanea.
Ad accogliere il pubblico di Palazzo Valle -
Fondazione Puglisi Cosentino, saranno due
grandi installazioni permanenti di Giovanni
Anselmo e Jannis Kounellis.
Nomi da togliere il respiro, quanto sia storicizzato
il respiro di questi grandi artisti calibro
Moma.
D. Quesito di prassi, chiedo
cosa gli ha dato l’imput per
realizzare questo progetto.
A.P.C. La passione per l’arte.
All’inizio era soprattutto
il classico del Seicento
che mi attorniava in famiglia
e che amo tuttora, a
suscitarmi emozione, nel
tempo ho spostato il mio
interesse verso il moderno
e poi, sempre più verso il
contemporaneo.
D. Grazie a chi, o a che cosa?

A.P.C. Alla mia
curiosità. Guardando,osservando.
Abitare a
Roma e viaggiare
molto per lavoro
mi ha consentito
di allargare gli
orizzonti.
Grazie al non
vivere soltanto in
Sicilia perché in Sicilia, ahimé, la visuale è
ristretta.
C’è stata tanta storia in Sicilia, partendo dal
periodo ellenistico fino ad arrivare ad oggi,
ma oggi, ce n’è ben poca di storia.
Io insieme ad altri, pure in sinergia con Antonella
Purpura, direttrice della Galleria d’Arte
Moderna di Palermo, ex Convento di Sant’Anna,
affine per le modalità e gli obbiettivi del
restauro, vorremmo che la Sicilia diventasse
un centro di conoscenza, di contatti, di interscambio
culturale anche in questo secolo.
D. La Fondazione Puglisi Cosentino si avvale
della direzione artistica di Bruno Corà. La
ragione di questa scelta?
A.P.C. Bruno Corà, un critico d’arte su cui
non devo dire nulla, in molti lo conoscono
e lo apprezzano, competente e puro, e nel
puro ci metto tutto.
D. I progetti?
A.P.C. Insieme a Bruno Corà, direttore del
Museo d’Arte e coordinatore del polo culturale
della città di Lugano e critico d’arte di
livello internazionale, abbiamo un comitato
scientifico di assoluto prestigio composto da
Franca Falletti, direttrice
della Galleriadell’Accademia
di Firenze,
Rudi Fuchs, storico
dell’arte e guest
curator, Marie
Laure Bernadac,
conservateur en
chef responsabile
di arte contemporanea
al Museo del Louvre, Gillo Dorfles, critico
d’arte già ordinario di Estetica presso le
Università di Trieste e Milano, Manolo Borja-
Villel, direttore del Museo Nacional Centro
de Arte Reina Sofia di Madrid; ciò vuol dire
che siamo fuori da qualsiasi influenza e contempleremo
soltanto la qualità.
La prima mostra sarà “Costanti Classiche del
XX° e XXI° Secolo”, improntata sul moderno
e contemporaneo, prevista per il 21 febbraio
2009; una mostra con circa 72 opere di artisti
molto importanti, alcuni viventi, del ‘900.
Per l’autunno 2009 è in programma una
monografica di cui ancora mi devo tenere il
nome dell’artista.
D. Posso avere un anticipo sulle opere presentate
a febbraio o è top-secret?
A.P.C. Una tela di Castellani lunga 6 metri;
non posso dire di più.
Saranno comunque opere in attinenza con il
tema del restauro, esattamente per valorizzare
l’operazione di ristrutturazione di Palazzo
Valle, lavori di grandi Maestri volti a dimostrare
che esiste un’analogia, un collegamento
di pensiero con il passato.
A cura di
Marie Claire Delamichelle
41

Reportage dedicato alla mostra di Valentino del 2007 a Roma, ospitata nella
nuova teca progettata dall’architetto Richard Meyer a copertura dell’ARA
PACIS, l’antico altare della pace voluto dall’imperatore Augusto.
Attraverso le vetrate della nuova teca, l’antico monumento romano
dialoga con i platani del lungotevere, con il cielo limpido e con i manichini
che indossano abiti di Valentino...
…L’indagine dell’autrice è fondamentalmente
incentrata sul valore del riflesso come forma
di sperimentazione e, al contempo, di
verifica del rapporto che lega l’immagine riprodotta
al suo archetipo, ovvero il dato reale.
I suoi scatti ritraggono, infatti, porzioni di
quotidianità che accidentalmente si riflettono
su superfici specchianti e che vengono resti-
42
fotografia
VALERIA CICOGNA
con un testo di
Emanuela Nobile Mino
tuite all’osservatore in maniera doppiamente
traslata: dal supporto riflettente e dal medium
fotografico. Tale mediazione non solo restituisce
un inedito punto di vista dei soggetti
ritratti “per rifrazione”, ma anche una loro
astrazione dal contesto di realtà contingente
favorendo una lettura ambivalente del presente.
…

intervista a
MARIO BESSARIONE
“ L’ av v e n t u r o s o e d e s a l t a n t e i n s e g u i m e n t o d e l l a l u c e ,
q u a l e l i m p i d a m e t a f o r a d e l l a d i m e n s i o n e s p i r i t u a l e “
di
Sergio Molesi
Sergio: Nella presentazione
di una
mostra personale
di Mario Bessarione
proprio all’inizio
del nuovo
millennio è stato
detto che questa
pittura è “ l’avventuroso
ed esaltante
inseguimento
della luce, quale
limpida metafora
della dimensione
spirituale.“
Sergio: Caro Mario, quale estensione nel tempo
ha avuto per te questo
inseguimento della luce?
Mario: Caro Sergio, da
sempre la luce è stata per
me elemento capace di rivelare
non solo il mondo
che mi circonda ma soprattutto
il mio profondo
essere interiore.
Sergio: Io ho l’impressione
che questo inseguimento
della luce si sia manifestato in tutti i tuoi diversi
momenti espressivi, anche in quelli che
più facilmente era possibile collegare a ten-
48
Da sinistra: Sergio Molesi e Mario Bessarione
“422 - 1992” - T.M. e colori riflessi, su tavola. cm 100 x 6 x 107
denze artistiche
particolari.
È cosi?
Mario: Certamente!
Sin dalle
prime esperienze
nell’ambito di un
realismo abbreviato
e nel successivo
passaggio
ad un peculiare
informale la luce
è sottesa a tutta l’esperienza pittorica. Subito
dopo sono passato definitivamente all’astrazione
aniconica sia sul versante organico che
su quello razionale.
Sergio: Mi pare che questo
sia un momento cruciale
del tuo percorso artistico.
Cosa ti è successo in quegli
anni fantastici ed avventurosi?
Mario: Nell’ambito dell’astrazione
razionale ci
fu un momento di ricerca
sul versante materico che
si trasformò nell’oggettualità degli occhioli
a vite che produssero effetti optical in cui la
luce, finalmente indagata, si confrontò con

1977
1978
“op. 209” - 1981 (part.) - cm 70 x 70
533 occhioli a vite su tavola
“op. 243” - 1984 (part.)- cm 50 x 50
acrilici, carta fustellata, colori riflessi su tavola
le ombre. Occhioli a vite che ben presto passarono
dal metallo alla carta.
Sergio: A questo punto mi pare di ricordare
che avvenga la grande scoperta della tua pittura
, che è l’aspetto vittoriosamente creativo
le cui positive conseguenze durano ancora.
Cosa ti è successo?
Mario: Lavorando con carte colorate scopro,
con sorpresa, il suggestivo fenomeno del
colore riflesso: foglietti di cartoncino bianco,
strappato o fustellato, dipinti sul retro e
disposti ripiegati in file successive, riflettono
il colore antistante. Questo colore, del tutto
immateriale, cioè di pura luce, acquista metaforicamente
la funzione di “portare in superficie
e quindi di rendere manifesto quanto
di intangibile e spirituale sta nell’uomo”
Sergio: Mi ricordo benissimo che questo esaltante
risultato è stato da te raggiunto negli
anni ottanta in memorabili mostre a Trieste e
Genova. So anche che questo trionfo della
luce pura viene confrontato dialetticamente
con altri aspetti della vita espressi con modalità
operative adeguate.
E su questa strada il tuo cammino artistico
prosegue in maniera esaltante e vittoriosa.
Cosa hai combinato?
Mario: La carta colorata nel suo riflesso si
confronta con la materia , con il colore e , recentemente,
anche con le immagini della comunicazione
di massa . E così viene restituita
la totalità dell’esperienza umana sul versante
della sua interiorità e sul versante dei condizionamenti
con cui si deve confrontare.
a cura di:
Sergio Molesi
49

MICHELE SIVIERO
S q u a r c i a r e i l Ve l o
di
Antonella Andriuolo
Rosso e nero: Mi-
cia le rispettive
chele Siviero co-
autonomie. Un
glie le sfumature
filo condannato
dell’anima.
a spezzarsi, nella
Lo fa con dedi-
realistica evenzione,
come, in
tualità di uno
letteratura, fece
sperato interagi-
Stendhal nel suo
re. Punti di con-
romanzo, per cartatto.
Sono questi
pirel’imprevedi- gli affioramenti,
bile essenza delle
le camaleontiche
passioni terrene,
c o m p o s i z i o n i
per fotografarne
che coniugano il
la vulnerabile irre-
tempo presente
quietezza, senza
a quello passato:
tuttavia arrender-
in un articolarsi
si alla totalizzan- Sopra e a lato: “Affioramenti” T.M. su materiali contemporanei - 2007/8
di curve, linee,
te intensità dei colori. Alla scelta del rouge spirali emergono, come dimenticate costel-
e del noir, la cui istintività enfatizza con il lazioni, immagini plastiche e suggestive di
mirato uso della similpelle, affianca, infatti, astri abilmente disposti lungo la volta celeste.
una lettura moderna, sofisticata, scandita dai L’armonia si plasma, come note sinfoniche in
toni morbidi del blu e dell’argento che corag- uno spartito musicale, nel fascino di strutture
giosamente contrappone al rigore razionale damascate, arabeggianti, di cui immediata-
della lucida forma geometrica. Una forma, mente si avverte una primaria impenetrabili-
questa, mai statica ma che, inaspettatamente, tà. Ricami labirintici imprigionano il pensiero
si mostra pulsante di vita. Dinamismo. L’esi- e ne disegnano i confini: questo l’ostacolo
stenza esonda dalla tela, la domina, la perva- dell’irrefragabile limes, fisico e metafisico, a
de. È davvero l’artista padrone ultimo del suo cui l’uomo tenta ostinato d’opporsi. L’artista
manufatto? È davvero l’artefice il massimo accetta la sfida: l’opera di Siviero non vuole
conoscitore del suo operato o permane, inve- suggerire ma dimostrare. Non vuole affascice,
l’inafferrabile presenza di un quid ameno nare ma sedurre. Non vuole essere oggetto
e sconosciuto? Sottile è il filo che divide crea- meramente contemplativo del sentire estetico
tore e creato, di cristallo il solco che ne trac-
50
ma elevarsi, invece, a suo vivo e principale

interlocutore. È
un’arte di “affioramento”,
capace
di essere assorbita
solo attraverso
un’accurata analisi
della superficie,
di ciò che essa
rivela, di quanto
delicatamente nasconde,
del puro
concetto di veritas
che sottende. Ed è
proprio dal valore
semantico ed etimologicodell’aleteia,
in quanto dimensione non-celata, che ha
origine lo sforzo intellettuale di Siviero che
gradualmente si accosta a quello materico,
nella ricerca della perfezione esecutiva attraverso
l’equilibrio degli elementi. Affannoso il
bisogno di strappare il vero dall’oblio. A tale
scopo applica un processo induttivo: nuclei
ontologici a sé stanti concorrono insieme alla
creazione, alla nascita dell’uno, animati dalla
consapevolezza che nella superficie vi è
un qualcosa che la eccede ma che può essere
intuita solo attraverso essa, secondo la concezione
che vede il finito intessuto di infinito.
Astrattismo e materia, tangibile ed impalpabile,
ecco il paradosso adorniano: l’affioramento,
in quanto apparenza, risulta pertanto
necessario alla comprensione della profondità
e, in qualità di fattore imprescindibile, è
destinato a divenire il maggior grado di quest’ultima.
Siviero lo sa e si lascia guidare dalla
dea dell’arte, ne trae ispirazione, la invoca,
facendosi condurre nei non-luoghi che imprime
su tela, in un iter di cui egli stesso sembra
ignorare la meta finale, teorizzando l’intrin-
secaincompiutezza dell’opera.
Paul Klee diceva
di non aver mai
finito un quadro,
di non essere mai
riuscito a portare
nessuna opera a
termine, narrando
l’amara consuetudine
di essere
strumento e non
matrice. Siviero,
pur nella naturale
irrazionalità
che caratterizza il
gesto creativo e la meta-operatività umana,
tenta di codificare il messaggio superficiale
dell’apparire dettato dalla contingenza. Più
che di cifra artistica allora, nel corpus dei
suoi lavori, si può parlare di una sorta di decifrare
che fa dell’interpretazione il suo punto
di forza e che collima con l’urgente richiesta
da parte dell’uomo di volere l’infinito dispiegato
ai suoi occhi. Grazie alla traduzione del
criptico messaggio racchiude l’universo in
una tendenza sintetica e sincretica, inducendolo
ad un perpetuo movimento; appare così
esplicito l’implicito, chiaro l’oscuro, svelato
il segreto. Come in Fontana, l’Arte oltrepassa
la linea di demarcazione, rifiutando la convenzione
comune, l’etichettatura, le gabbie
accademiche ansiose di catalogarla.
Prima fulminei bagliori di luce, poi… buio,
poi nuovamente ed eternamente luce. Arriva
l’idea, la risposta, la redenzione, l’esito
audace che si stava attendendo. E giunge,
finalmente, dall’ovattata foschia in cui era
sommersa, l’interezza: il Velo è stato squarciato.
51

A.F. Daniela, tra le tue ultime
opere ci sono queste
mani in preghiera con rosa-
52
intervista a
DANIELA ALFARANO
di
Anna Ferri
Quelle mani congiunte
in preghiera
sembrano quasi
forzare la resistenza
del legno per
uscire e chiedere
ad alta voce la
domanda che a
nessuno è consentito
conoscere,
una preghiera rivolta
a qualcuno
che rimarrà sospesa
nel tempo
eterno dell’attesa
di una risposta. E
sono quegli attimi
sospesi, pieni di
intensità, che Daniela
Alfarano disegna calcando le venature
del legno con un graffite che, sfiorando la tavola,
racconta dolore e sofferenza attraverso
le pieghe della pelle, protagonista indiscussa
del suo lavoro. E c’è proprio lei, la giovane
artista modenese che vanta numerose esposizioni,
tra cui la recente fiera “Immagina” a
Reggio Emilia con la galleria Ariete di Bologna,
e conosciuta anche per
essere la mano che ha tratteggiato
i ritratti de “I Corti
di Carta” del Corriere della
sera l’estate scorsa, dietro a
queste opere che raccontano
momenti di vita, un po’
sua, un po’ immaginata.
Sopra e a destra: due opere recenti di Daniela Alfarano
Daniela Alfarano
rio. Una simbologia
sacra e molto
forte.
D.A. “Spesso nei
miei lavori vengono
rappresentate
mani giunte in un
attimo di preghiera,
che può essere
una preghiera
cristiana ma anche
solo umana,
legata al proprio
quotidiano e ai
propri bisogni di
pace. Queste mani
congiunte in una
forma talmente
precisa e assoluta sono già di per se sacre, al
di là del loro valore simbolico”.
A.F. Mani congiunte in preghiera, volti rivolti
verso l’alto. Sembra quasi una continua ricerca
di risposte.
D.A. “Vedo la vita come un domandarsi
continuo, in questo mi rispecchio
molto nelle mie
opere. I miei personaggi sono
protetti dalla preghiera,
che non è necessariamente
rivolta a un Dio. Io vorrei
sentirmi protetta da questo
gesto, ma non ci sono ancora
riuscita”.
A.F. In alcune tue opere precedenti
ti limitavi ad alcuni

dettagli nudi: mani
congiunte, piedi, volti.
Poi hai aggiunto
degli oggetti sacri:
rosario e Bibbia. Perchè?
D.A. “Ho sentito che
non era più sufficiente.
Congiungere
le mani non bastava
più, dovevo dare
un nuovo peso alle
immagini. Così ho
preso i simboli più
rappresentativi, il
rosario e la Bibbia, e
li ho aggiunti. Avevo
l’esigenza di mettere
qualcosa in più, come
a sottolineare il
gesto”.
A.F. I tuoi soggetti sono
anziani. E questa
particolarità viene
accentuata nei volti
e nella pelle del corpo.
D.A. “Queste immagini, proprio perché fatte
su persone che hanno vissuto e che che non
sono più in grado di mostrare una bellezza
corporea, non ammaliano lo sguardo dello
spettatore, la cui attenzione rimane ferma sul
loro lato più fragile, ma anche più forte: la spiritualità
e la bellezza di rivolgersi in maniera
pura e assoluta a qualche cosa che vada al di
là di loro”.
A.F. La pelle, i suoi segni e le sue sfumature
sono protagonisti indiscussi delle sue opere.
D.A. “Cerco di scavare dentro la pelle, dentro
la sensibilità di una persona, dentro quello
che ha vissuto. Dentro
il suo dolore. Ed
è proprio dalla pelle
che parte l’esplorazione
estetica che
vado a costruire”.
A.F. I tuoi personaggi
si rivolgono a qualcuno,
la risposta arriva?
D.A. «Non si sa.
Potrebbe essere positiva
o negativa.
Quello che disegno
è un attimo sospeso,
quel momento in cui
tutto può succedere.
È una sorta di attesa,
di preghiera, di avvicinamento».
A.F. Oltre alla sacralità,
c’è anche il dolore
come elemento
distintivo della tua
opera.
D.A. «Il lavoro che faccio oggi, rispetto a 4
anni fa, mi rappresenta davvero. C’è stata una
sorta di presa di coscienza, consapevolezza,
accettazione. E tutto questo l’ho trasformato
nel mio linguaggio».
A.F. La tua tecnica è graffite su legno. Perché
questa scelta?
D.A. “Grafite perché nel chiaro scuro trovo
la giusta intensità, la giusta luce pura e dura.
Anche la scelta della tavola di legno non è
casuale, per me è come dipingere. Le venature
calde e vive del legno sono come una trama
da seguire per rendere il quadro un’opera to-
tale”. Anna Ferri
53

EDOARDO PUGLISI
intervista tratta da:
OOMM
di
Marie-Claire Delamichelle
Dimmi, se ti donassi una bacchetta
magica, che uso ne faresti?
La userei come arma letale...
Hai presente le avventure di Pippo,
Pertica e Palla di Benito Jacovitti?
Ebbene, piloterei un aereo pieno di
bombe comiche da lanciare su tutto il pianeta
per far sì che la gente rida ventitrè ore
al giorno con una sosta di un’ora per mangiare!
Se fossi tua madre, cosa potrei fare per te?
Cucirti, cucinarti o rincuorarti?
Rincuorarmi. Sarebbe l’unica persona in grado
di farlo: forte, vera.
...E se fossi tuo padre? Indicarti la strada, condurti
per mano o portarti
in braccio?
In questo momento
avrei bisogno che mi
conducesse per mano.
Tanto è il desiderio della
sua presenza che vorrei
sentire il suo calore anche
fisico.
Che valore dai all’amicizia?
Do molta importanza
all’amicizia, troppa, ed
è per questo che spesso
ne resto deluso. Tendo a
considerare gli amici come membri di una
famiglia ideale che forse non esiste. Probabilmente
dovrei valutare l’idea di fare prima
di tutto amicizia con me stesso: l’impresa
più difficile.
Creare è una forma di pane impastata con la
farina del bene o del male?
54
Marie Claire e Edoardo Puglisi a Milano
Dipende. Dal momento, il luogo, la
situazione. Dipende... Oggigiorno
potrebbe essere impastata anche
con farina geneticamente modificata...
Ho capito. Non ti fidi della farina...
“Il vantaggio della cattiva memoria è che si
gode parecchie volte delle stesse cose per
la prima volta”. E’ un pensiero di Nietzsche.
Che ne pensi?
Se la parola d’onore fosse fondata sulla buona
memoria, puntare su quella cattiva diverrebbe
un ottimo alibi.
Ho l’impressione che molte cose marcino
sull’incongruenza e la contraddizione, sulla
dimenticanza delle
promesse date, secondo
questioni di comodo.
Triste, ma è meglio non
fidarsi neanche della
memoria...
Ora, rispondi sinceramente
facendo appello
ad una buona coscienza:
quanto pensi di essere
padrone delle tue mutande
in rapporto alla
misura di come lo sei di
te stesso?
Non abbastanza. Vorrei
avere a disposizione un tempo illimitato
perché in fondo, mi piace questo gioco del
vivere come se fosse una partita a poker. Ho
sempre bisogno di una rivincita, e siccome
la rivincita non mi soddisfa mai, non so se
riuscirò a conquistare definitivamente le mie
mutande...

62
ENZO
G U A R I C C I
G A L L E R I A
RINO COSTA
Via Ariosto, 6 - 15048 VALENZA (AL)
Tel./Fax - +39 0131950777 - E-mail: info@galleriarinocosta.it
sito: www.galleriarinocosta.it

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