Impaginato 5.p65 - Universitat Rovira i Virgili
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INSULA<br />
Quaderno di cultura sarda<br />
Num. 5, giugno 2009<br />
1
♦A♦d♦T♦<br />
Arxiu de Tradicions<br />
INSULA<br />
Quaderno di cultura sarda<br />
Num. 5, giugno 2009<br />
3
4<br />
INSULA, Quaderno di cultura sarda. Num. 5, giugno 2009<br />
Insula@cat è un Centro di Ricerca afferente all’Arxiu de Tradicions de l’Alguer<br />
Direttore e curatore: Joan Armangué i Herrero<br />
Comitato redazionale: Luca Scala, Walter Tomasi<br />
Hanno collaborato a questo numero: Joan Armangué, dell’Università degli Studi di Cagliari; Andreu<br />
Bosch e Constantino Vidal Salmeron, dell’<strong>Universitat</strong> de Barcelona – Spagna; Roslyn Frank,<br />
dell’University of Iowa – USA; Antonello V. Greco, dell’Arxiu de Tradicions; e Mauro Maxia,<br />
dell’Università degli Studi di Sassari.<br />
Con il contributo di<br />
In copertina<br />
Scultura di Gigi Porceddu<br />
Foto di Mauro Porceddu<br />
Prima edizione: Cagliari, giugno 2009<br />
ISBN: 978-88-89978-85-6<br />
© Grafica del Parteolla<br />
Via dei Pisani, 5 (I-09041-Dolianova)<br />
Tel. 0039 070 741234<br />
grafpart@tiscali.it<br />
© Arxiu de Tradicions<br />
Reg. impresa: 221.861<br />
Via Carbonazzi, 17 (I-09123-Cagliari)<br />
Tel. 0039 070 6848000<br />
arxiudetradicions.alguer@gmail.com
UNZIONI RITUALI E SPIRITUALITÀ SEMITICA<br />
Antonello V. Greco<br />
Arxiu de Tradicions<br />
L’unzione della stele. Riflessioni su un rituale biblico in una prospettiva<br />
archeologica e storico-culturale mediterranea *<br />
1.0. Una ideale linea di continuità lega il presente contributo al precedente «Riflessioni<br />
sull’utilizzo rituale di piante e sostanze oleose nella Sardegna feniciopunica»,<br />
all’interno degli Atti della Prima Giornata di Studi Oleari dell’Arxiu<br />
de Tradicions, qui di seguito riproposto in Appendice. 1<br />
In quell’occasione la unanime documentazione evangelica relativa alle pratiche<br />
funerarie in uso presso la contemporanea popolazione ebraica 2 veniva<br />
richiamata all’attenzione quale significativo riscontro per alcune pratiche rituali<br />
e funerarie fenicio-puniche, archeologicamente documentabili in Sardegna<br />
attraverso gli studi sul contenuto delle urne del tofet di Tharros 3 e delle brocche<br />
con orlo a fungo, queste ultime di pertinenza tipicamente funeraria. 4<br />
* Il presente capitolo, che risulta alla stampe altresì presso la rivista Aidu Entos – Archeologia e beni<br />
culturali (Sassari), I, 3, 2007, pp. 24-26, sviluppa ed approfondisce tematiche connesse a precedenti<br />
interventi dello scrivente, in particolare: «L’unzione della stele. Utilizzi rituali dell’olio nel mondo biblico<br />
secondo una prospettiva archeologica» (Giornata di studio dell’Arxiu de Tradicions, Antichi riti ed<br />
espressioni di religiosità popolare durante la Settimana Santa in Sardegna, Iglesias, 7 aprile 2004) e «Il<br />
betilo: un intreccio ideologico tra mondo classico e mondo semitico. Proposte di lettura» (rassegna<br />
Aperitivi culturali dell’Associazione Culturale Onlus Itzokor, Cagliari, 13 marzo 2008), nonché la consulenza<br />
archeologica nel prodotto multimediale L’Albero Divino. Miti e sacralità nelle pratiche religiose<br />
(Giardinoweb, Cagliari 2005; candidato alla XVI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico<br />
di Rovereto; consulenza scientifica a cura dell’Arxiu de Tradicions), con particolare riferimento alla partecipazione<br />
alla I Rassegna del Cinema Archeologico Comunicare l’archeologia (Iglesias, 21 novembre<br />
2008, su iniziativa dell’Associazione Culturale Koiné e dell’Arci Comitato provinciale di Cagliari), sul<br />
tema Culti e sacralità nelle grandi isole del Mediterraneo occidentale: Sicilia e Sardegna.<br />
1 Cfr. A.V. GRECO, Riflessioni sull’utilizzo rituale di piante e sostanze oleose nella Sardegna feniciopunica,<br />
in J. ARMANGUÉ (a cura di), Ulivi in Sardegna. Cultura, tecnica e futuro, Atti della I Giornata<br />
di Studi Oleari dell’Aula Verde dell’Arxiu de Tradicions (Barumini, 9 dicembre 2000), Mogoro,<br />
2001, pp. 9-13 (cfr. infra, Appendice). Tale manifestazione, con la pubblicazione dei relativi Atti,<br />
ha rappresentato l’avvio di un interesse tematico per lo studio dell’olio e dell’olivo, in tutte le loro<br />
implicazioni, che ha connotato e tuttora connota il Centro di Ricerca Arxiu de Tradicions.<br />
2 Gv 12, 3; 19, 39-40; Lc 23, 56; 24, 1; Mc 14, 3 e 8; 16, 1; Mt 26, 7 e 12.<br />
3 Cfr. A.V. GRECO, Riflessioni sull’utilizzo rituale cit., con tutta la bibliografia sull’argomento.<br />
4 Cfr. in proposito, e in maniera particolarmente efficace e sintetica, S. RIBICHINI-P. XELLA, La<br />
religione fenicia e punica in Italia, Roma 1994, p. 36; più di recente: P. BARTOLONI (et alii), La<br />
necropoli di Monte Sirai – I, Roma 2000, pp. 68-70.<br />
5<br />
INSULA, num. 5 (giugno 2009) 5-14
6<br />
Antonello V. Greco<br />
1.1. La documentazione biblica, questa volta però veterotestamentaria, fornisce<br />
ora il punto di partenza delle presenti considerazioni. Il riferimento va ad un<br />
noto episodio del libro della Genesi, relativo al sogno di Giacobbe ed ai successivi<br />
gesti rituali da lui compiuti, concernenti la consacrazione di una pietra eretta<br />
con funzione commemorativa mediante la caratteristica unzione rituale con<br />
olio; 5 tale episodio è all’origine dello stesso toponimo di Betel (greco baiqhl)<br />
– in semitico ‘casa di Dio’ 6 – termine di larghissimo impiego, al di fuori della<br />
stessa sfera biblica, nella sua accezione simbolica di pietra sacra in quanto sede,<br />
emanazione o manifestazione divina. 7<br />
5 Sono molteplici i passi veterotestamentari che si possono richiamare in relazione alla consacrazione<br />
mediante unzione. Unzione regale: 1 Sm 10, 1; 16, 3 e 12-13; 1 Re 1, 34; 19, 15-<br />
16; 2 Re 9, 1-6; Sl 44 (45), 8 [vi allude Eb 1, 9]. Unzione sacerdotale: Es 28, 41; 29, 7; Lv<br />
8, 12; Is 61, 1, nonché – ciò che più interessa rimarcare in questa sede – la consacrazione<br />
mediante unzione anche dei luoghi e di tutti gli arredi sacri: Es 30, 25-30; 40, 9-15. Cfr. in<br />
proposito M. ATZORI, Olio santo e unzioni sacre, in M. ATZORI-A. VODRET (a cura di), Olio<br />
sacro e profano. Tradizioni olearie in Sardegna e Corsica, Sassari 1995, pp. 13-16. Interessanti<br />
riflessioni su aspetti simbolici dell’olio nel mondo del sacro in: D. SALINI, De la<br />
symbolique de l’arbre aux rituels de l’huile, in M. ATZORI-A. VODRET, Olio sacro e profano<br />
cit., pp. 21-22. Cfr. anche «Unguento», in H. HAAG (a cura di), Dizionario Biblico, Torino<br />
1960 (trad. ital. di R. Amerio), p. 1040, con l’interessante precisazione terminologica sul<br />
distinto uso dei verbi greci ¢le…fein e cr…ein nella versione dei Settanta e nel Nuovo Testamento,<br />
rispettivamente per unzioni corporali/medicinali e per consacrazione di oggetti o<br />
persone (re e sacerdoti).<br />
6 Cfr., ad es., Gn 28, 19; 31, 13; 35, 7 e 15. Il termine è significativamente tradotto con<br />
domus Dei e OŒkoj qeoà nella Vulgata latina e nella versione greca dei Settanta: cfr., ad es.,<br />
Gn 28, 22 in: Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum, Città del Vaticano 1979 [d’ora in poi,<br />
semplicemente ‘Vulgata’], p. 41, e Septuaginta. Id est Vetus Testamentum graece iuxta<br />
LXX interpretes (a cura di A. Rahlfs), I-II, Stuttgart 1962 7 (1935 1 ) [d’ora in poi, semplicemente<br />
‘Septuaginta’], p. 43. Sulla località biblica di Betel: cfr. «Bethel», in H. HAAG, Dizionario<br />
Biblico cit., pp. 143-144; M. AVI-YONAH, «Bet(h)-el», in Encyclopaedia Judaica,<br />
vol. 4, Jerusalem 1996, pp. 729-730.<br />
7 Cfr. ad es. G. LILLIU, «Betilo», in Enciclopedia dell’Arte Antica, II, Roma 1959, pp. 72-76;<br />
con specifica referenza all’ambito culturale fenicio-punico: E. LIPIÑSKI, «Bétyle», in ID. (a<br />
cura di), Dictionnaire de la civilisation phénicienne et punique, Turnhout 1992, pp. 70-71.<br />
Il termine semitico Betel è stato appositamente adottato per indicare una raccolta di recenti<br />
studi incentrati sulle raffigurazioni betiliche di tradizione semitica nell’area tharrense: cfr.<br />
A.V. GRECO, Betel. Studi sulle stele con raffigurazioni betiliche dell’area di Tharros, Cagliari<br />
2003. Su questo episodio biblico, così si esprime Mario Atzori, ponendo l’accento<br />
sull’aspetto culturale del rito: «Si trattava della prima operazione di fondazione rituale di<br />
un luogo sacro, definito ‘casa di Dio’» (cfr. M. ATZORI, Olio santo e unzioni sacre cit., p.<br />
14). Sul culto delle pietre erette in ambito semitico – «worship of standing stones<br />
(masseboth)» – cfr. il recente J. PATRICK, The worship of stelae in the Punic world and<br />
among the Nabatean Arabs. A comparative study, in «Actas del IV Congreso Internacional<br />
de Estudios Fenicios y Púnicos» (Cádiz, 2-6 Octubre 1995), a cura di M.E. Aubet-M.<br />
Barthélemy, Cádiz 2000, II, pp. 647-648. In proposito cfr. anche «Masseba o Massebe», in<br />
H. HAAG, Dizionario Biblico cit., p. 619.
UNZIONI RITUALI E SPIRITUALITÀ SEMITICA<br />
Si ritiene significativo in proposito porre all’attenzione i relativi passi biblici<br />
nella versione latina (Vulgata [Nova]) 8 e in traduzione italiana: 9<br />
Gn 28, 18: Surgens ergo Iacob mane tulit lapidem quem supposuerat capiti suo,<br />
et erexit in titulum fundens oleum desuper. 10<br />
Gn 28, 16-22: «Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è<br />
in questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo<br />
luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. Alla mattina<br />
presto Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse<br />
come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel, mentre<br />
prima di allora la città si chiamava Luz. [...] “Questa pietra, che io ho eretta come<br />
stele, sarà una casa di Dio”».<br />
Gn 31, 13: Ego sum Deus Bethel, ubi unxisti lapidem et votum vovisti mihi. 11<br />
Gn 31, 13: «Io sono il Dio di Betel, dove tu [Giacobbe] hai unto una stele e dove<br />
mi hai fatto un voto».<br />
Gn 35, 14: Ille [sc. Iacob] vero erexit titulum lapideum in loco, quo locutus ei<br />
fuerat Deus, libans super eum libamina et effundens oleum. 12<br />
Gn 35, 7-15: «Qui egli [Giacobbe] costruì un altare e chiamò quel luogo “El-<br />
Betel”, perché là Dio gli si era rivelato, quando sfuggiva al fratello […].Allora Giacobbe<br />
eresse una stele, dove gli aveva parlato, una stele di pietra, e su di essa fece una libazione<br />
e versò olio. Giacobbe chiamò Betel il luogo dove Dio gli aveva parlato».<br />
1.2. Lungi dall’affermare l’identità di pratiche rituali tra le genti fenicie ed ebraiche,<br />
pur nell’alveo della comune matrice culturale semitica, 13 la testimonianza<br />
8 Sulle edizioni di riferimento, cfr. supra, nota 6.<br />
9 L’edizione utilizzata è: La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana<br />
(CEI), Padova 1982 6 .<br />
10 Vulgata, p. 40. Si veda anche il relativo passo nella versione greca dei Settanta: (Iakwb) Ÿsthsen<br />
aÙtÒn (sc. l…qon) st»lhn ka… pšceen Ÿlaion p… tÒ ¥kron aÙtÁj (cfr. Septuaginta, I, p. 43).<br />
11 Vulgata, p. 45. Per il relativo passo nella versione greca dei Settanta: cfr. Septuaginta, I, p. 48.<br />
12 Vulgata, p. 51. Per il relativo passo nella versione greca dei Settanta: cfr. Septuaginta, I, p. 56.<br />
13 Analogie e corrispondenze di carattere escatologico tra la spiritualità fenicio-punica e quella ebraica,<br />
in specie cabalistica, sono state a lungo esaminate e sostenute, in maniera talvolta poco condivisibile,<br />
da Ferruccio Barreca: cfr. F. BARRECA, A proposito di una scultura aniconica rinvenuta nel Sinis<br />
di Cabras (Oristano), «Rivista di Studi Fenici», V, 2 (1977), pp. 169-179; ID., La civiltà feniciopunica<br />
in Sardegna, Sassari 1986, pp. 159-169, 208-211; ID., Osservazioni sulla spiritualità e<br />
l’escatologia fenicio-punica, in Riti funerari e di olocausto nella Sardegna fenicia e punica,<br />
«Atti dell’incontro di studio» (Sant’Antioco 3-4 ottobre 1986), «Quaderni della Soprintendenza<br />
Archeologica per le Provincie (sic) di Cagliari e Oristano», 6, supplemento (1989 [1990]), pp.<br />
123-128; un accenno critico in G. TORE, La civiltà fenicia e punica. Categorie artistiche e artigianali,<br />
in V. SANTONI (a cura di), Il museo archeologico nazionale di Cagliari, Sassari 1989, p. 142.<br />
In tempi recenti Hélène Benichou-Safar ha posto l’accento su significative analogie iconografiche<br />
fenicio-puniche ed ebraiche: cfr. H. BENICHOU-SAFAR, Le symbolisme punique: nouvelles<br />
interprétations, in «Actas del IV Congreso Internacional de Estudios Fenicios y Púnicos» cit., II,<br />
in particolare i prospetti grafici alle figg. 1-9 (alle pp. 548-549).<br />
7
8<br />
Antonello V. Greco<br />
biblica in esame suggerisce possibili interessanti elementi di riflessione sull’esistenza<br />
di eventuali pratiche analoghe in uso nel mondo fenicio-punico, ovviamente<br />
allo stato attuale pressoché indimostrabili a livello di documentazione<br />
materiale. 14 Che, d’altra parte, presso le comunità fenicio-puniche di Sardegna<br />
pietre di valore sacrale (betiliche) fossero oggetto di pratiche rituali può essere<br />
chiaramente testimoniato attraverso una nota scultura di provenienza tharrense<br />
che, nella sua singolarità ed espressività rappresentativa, raffigura una scena di<br />
danza sacra proprio intorno a un pilastro betilico 15 (Fig. 1).<br />
La stessa applicazione di pittura, rossa e in minima percentuale nera, sulle<br />
stele puniche – spesso estesa all’intero manufatto oltre che alla faccia anteriore<br />
sede dell’immagine – nella quale sembrano ragionevolmente prevalere contenuti<br />
di natura rituale più che estetico-decorativa, può essere in termini generali<br />
menzionata a supporto della pratica di simili forme di ‘attenzione’ nei confronti<br />
dei manufatti lapidei di valenza sacrale e/o commemorativa. 16<br />
14 Sulla difficoltà nella ricostruzione di aspetti rituali e liturgici della religiosità fenicio-punica<br />
cfr., ad es., S. RIBICHINI-P. XELLA, La religione fenicia e punica in Italia cit., pp. 9, 30. Nel<br />
recente e controverso volume di Sergio Frau si legge: «[…] uno dei betili di Macomer che<br />
Giovanni Lilliu ha studiato e raccontato nel suo Betili e betilini di Sardegna [sic], dove ne<br />
illustra centinaia. Anche questi sardi – e già nel II millennio prima di Cristo e ancora nel II dopo<br />
[?] – in certe occasioni particolari venivano unti ed addobbati a festa»: cfr. S. FRAU, Le Colonne<br />
d’Ercole. Un’inchiesta. Come, quando e perché la Frontiera di Herakles/Milqart, dio dell’Occidente<br />
slittò per sempre a Gibilterra, Roma 2002, p. 565, didascalia; il corsivo è aggiuntivo<br />
rispetto all’originale. A quanto consta, però, dalla disamina del citato G. LILLIU, Betili e betilini<br />
nelle tombe di giganti della Sardegna, «Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei», serie<br />
IX, vol. VI, fasc. IV (1995), pp. 421-507 – relativo, è bene precisare, alla documentazione<br />
nuragica – non risulta possibile inferire analoghe considerazioni. Per ulteriori connessioni agli<br />
studi di Giovanni Lilliu in proposito, cfr. infra.<br />
15 Cfr. P. CINTAS, Sur une danse d’époque punique, «Revue Africane», C (1956), pp. 275-283, con<br />
la riproduzione di due significativi riscontri fittili da Cipro (Pl. I, fig. 3, a-b); in tempi più<br />
recenti, cfr. F. BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna cit., pp. 130, 132, 286, fig. 121<br />
(a p. 157); S. MOSCATI, Il rilievo in pietra, in ID. (a cura di), I Fenici, Venezia-Milano 1988, p.<br />
302 e fig. s.n.; scheda n. 502 (a p. 669); L.I. MANFREDI, Su un monumento punico da Tharros,<br />
«Studi di Egittologia e Antichità Puniche», 3 (1988), pp. 93-109; G. TORE, La civiltà fenicia e<br />
punica. Categorie artistiche e artigianali cit., pp. 140-141, fig. 12 (a p. 136); E. ACQUARO, Il<br />
tofet: un santuario cittadino, in La città mediterranea, «Atti del Congresso Internazionale»<br />
(Bari, 4-7 maggio 1988), Napoli 1993, pp. 99-100; S. RIBICHINI-P. XELLA, La religione fenicia e<br />
punica in Italia cit., fig. 32 (f. t.); P. BERNARDINI, Tharros XXI-XXII. Documenti di Tharros,<br />
«Rivista di Studi Fenici», XXIII, supplemento (1995), pp. 167-170, tav. XVII,1 (f. t.); G. PESCE,<br />
Sardegna Punica (a cura di R. ZUCCA), Nuoro 2000 2 (1961 1 ), pp. 191-193, figg. 68-70 (alle pp.<br />
201-203, didasc. a p. 200).<br />
16 Sull’argomento, una disamina complessiva è stata effettuata in tempi piuttosto recenti da<br />
Giovanna Pisano: cfr. G. PISANO, La pittura e il colore nell’Occidente punico: una eredità<br />
della «tradizione» fenicia, in EAD. (a cura di), Nuove ricerche puniche in Sardegna, Roma<br />
1996, pp. 128-132.
UNZIONI RITUALI E SPIRITUALITÀ SEMITICA<br />
1.3. Quanto alla pratica rituale di unzione con olio di un simulacro lapideo, un<br />
parallelo di particolare interesse si individua nel mondo classico ed è testimoniato<br />
da Pausania (X, 24, 6), secondo cui, ancora ai suoi tempi (II sec. d.C.), a<br />
Delfi, presso la tomba venerata di Neottolemo, figlio di Achille, era una pietra<br />
(l…qoj) su cui quotidianamente veniva versato dell’olio, e, per giunta, ricoperta<br />
di lana in occasione delle feste:<br />
panab£nti dš ¢pÒ toà mn»matoj l…qoj stin oÙ mšgaj, toÚtou ka… œlaion<br />
Ñshmšrai katacšousi ka… kat£ ort»n ˜k£sthn œria epitiqšasi t£ ¢rg£. 17<br />
Quest’ultima testimonianza, in particolare, rappresenta motivo di rilevante<br />
attenzione, in quanto consente di documentare una diffusione di tale pratica di<br />
respiro autenticamente mediterraneo – come del resto suggerisce la stessa pianta<br />
dell’olivo – al di là delle troppo spesso esasperate cesure tra gli ambiti culturali<br />
‘classico’ e ‘semitico’ 18 .<br />
1.4. Nella stessa Sardegna, del resto, il ricco patrimonio folklorico, unitamente<br />
alla tradizione orale, pare in proposito conservare memoria di simili forme rituali<br />
fino a tempi relativamente recenti, come documenta Giovanni Lilliu in<br />
relazione a pratiche di natura fertilistica connesse ad una «pietra di Ortueri [NU]<br />
17 «Per chi sale dal monumento [la tomba di Neottolemo] vi è una pietra non grande. Su di questa<br />
ogni giorno cospargono anche olio e durante ciascuna festività dispongono sopra lane candide»<br />
[trad. ital. a cura dello scrivente]. Per quanto riguarda il valore simbolico attribuito a questa<br />
pietra betilica delfica, appare particolarmente rilevante il seguito della descrizione di Pausania:<br />
sti dš ka… dÒxa j aÙtÒn doq»nai KrÒnó tÒn l…qon ¢nt… toà paidÒj, ka… æj aâqij<br />
Àmesen aÙtÒn Ð KrÒnoj (Paus., X, 24, 6: «Vi è anche la credenza nei confronti di quella [che<br />
sia] la pietra che fu data a Cronos al posto del figlio e che in seguito Cronos vomitò»); in<br />
proposito, cfr. A.V. GRECO, Betel cit., pp. 56-57. Sulla diffusione di questi riti che prevedevano<br />
l’avvolgimento in tessuti preziosi e l’abluzione con unguenti di pietre sacre, cfr. M. UGOLINI, Il<br />
dio (di) pietra, «Sandalion», 4 (1981), pp. 24-25 e nota 38, con particolare riferimento all’interpretazione<br />
allegorica cristiana dell’episodio biblico qui esaminato, ovvero allusione a Cristo<br />
quale lapis unctus. Dal punto di vista figurativo, sempre in ambito classico, la documentazione<br />
del tempio di Apollo Palatino a Roma, di età augustea, fornisce un significativo esempio di<br />
‘ornamentazione’ di un betilo: cfr., ad es., M.J. STRAZZULLA, Il principato di Apollo. Mito e<br />
propaganda nelle lastre «Campana» dal tempio di Apollo Palatino, Roma 1990, fig. 2 (a p.<br />
23), immagine riprodotta anche a colori all’interno del testo (s. n.).<br />
18 Cfr. A.V. GRECO, Betel cit., pp. 56-57. In rapporto alla citata dimensione mediterranea dell’olivo,<br />
per la sua chiarezza divulgativa si segnala il recente M. VIDALE, L’albero del fluido verde,<br />
«Archeo», 229 (marzo 2004), pp. 72-81.<br />
9
10<br />
detta ‘Sa Frissa’, cioè ‘l’unta’» 19 , dischiudendo, pertanto, interessanti prospettive<br />
di futuri approfondimenti sull’argomento all’insegna della multi- e<br />
interdisciplinarità. 20<br />
Fig. 1: Scultura in arenaria da Tharros con scena di<br />
danza intorno a un pilastro sacro. Disegno A.V. Greco<br />
(da fotografia: G. PESCE, Sardegna Punica, a cura di R.<br />
Zucca, cit., fig. 68 a p. 201).<br />
Antonello V. Greco<br />
19 Cfr. G. LILLIU, La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Torino 1988 3 (1963 1 ), p.<br />
258 [= ried. Nuoro 2003, p. 298]. Mi è gradito in proposito ringraziare il Dott. Renato Capocchia<br />
per la segnalazione della presenza di simili pratiche rituali nella tradizione orale sarda (viva<br />
voce). A titolo di completezza, si rimarca come la disamina del Dizionario ottocentesco di Vittorio<br />
Angius alla voce «Ortueri» non ha consentito l’individuazione di alcuno specifico riferimento<br />
in proposito: cfr. V. ANGIUS-G. CASALIS, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale<br />
degli Stati di S. M. il Re di Sardegna. Estratto delle voci riguardanti la Sardegna.<br />
Provincia di Nuoro, Nuoro-Cagliari 1987 [Torino 1840 1 ], III, pp. 1039-1045 [= 573-579], s.v.<br />
20 Cfr. E. MORIN, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano<br />
2000 (trad. ital. di S. Lazzari. Titolo originale: La tête bien faite, Paris 1999), pp. 83-88, 111-124.
UNZIONI RITUALI E SPIRITUALITÀ SEMITICA<br />
APPENDICE<br />
Riflessioni sull’utilizzo rituale di piante e sostanze oleose nella Sardegna<br />
fenicio-punica ∗<br />
Le minuziose indagini di laboratorio condotte alla fine degli anni Settanta da<br />
Francesco Fedele e Renato Nisbet sui resti carbonizzati rinvenuti all’interno di<br />
urne cinerarie del tofet di Tharros conservatesi intatte nel loro contenuto 21 hanno<br />
consentito da un punto di vista paleobotanico di appurare che i roghi si svolgevano<br />
all’aperto, a cadenza stagionale, 22 ed erano alimentati mediante l’impiego,<br />
in maniera pressoché costante e preponderante, di olivo (Olea europaea),<br />
presumibilmente selvatico piuttosto che coltivato, 23 oleastro (Olea europaea,<br />
var. oleaster) e lentisco (Pistacia lentiscus). 24 Il loro utilizzo potrebbe essere<br />
semplicemente attribuito alla raccolta della vegetazione spontanea di macchia<br />
mediterranea allora presente e disponibile nelle vicinanze per coloro che predi-<br />
∗ Già pubblicato in J. ARMANGUÉ, Ulivi in Sardegna cit., pp. 9-13, qui presentato con alcuni<br />
aggiornamenti e integrazioni.<br />
21 Cfr. F. FEDELE, Antropologia fisica e paleoecologia di Tharros. Nota preliminare sugli scavi del<br />
tofet. Campagna 1976, «Rivista di Studi Fenici», V, 2 (1977), pp. 185-193; ID., Tharros – IV.<br />
Antropologia fisica e paleoecologia di Tharros. Campagna 1977, «Rivista di Studi Fenici», VI, 1<br />
(1978), pp. 77-79; ID., Tharros – V. Antropologia e paleoecologia di Tharros. Ricerche sul tofet<br />
(1978) e prima campagna territoriale nel Sinis, «Rivista di Studi Fenici», VII, 1 (1979), pp. 67-<br />
112; ID., Tharros – VI. Antropologia e paleoecologia di Tharros. Ricerche sul tofet (1979) e<br />
seconda campagna territoriale nel Sinis, «Rivista di Studi Fenici», VIII, 1 (1980), pp. 89-98; R.<br />
NISBET, Tharros – VI. I roghi del tofet: uno studio paleobotanico, «Rivista di Studi Fenici», VIII,<br />
1 (1980), pp. 111-126; F. FEDELE, Tharros: Anthropology of the Tophet and Paleoecology of a<br />
Punic Town, in «Atti del I Convegno internazionale di studi fenici e punici» (Roma, 5-10 novembre<br />
1979), Roma 1983, III, pp. 637-650. Cfr. anche F. FEDELE-G.V. FOSTER, Tharros: ovicaprini<br />
sacrificali e rituale del tofet, «Rivista di Studi Fenici», XVI, 1 (1988), pp. 29-46.<br />
22 Cfr. F. FEDELE, Tharros – V. Antropologia e paleoecologia di Tharros cit., p. 85; R. NISBET,<br />
Tharros – VI. I roghi del tofet cit., p. 124; G. TORE, Religiosità semitica in Sardegna attraverso<br />
la documentazione archeologica: inventario preliminare, in P. MARRAS (a cura di), Religiosità,<br />
teologia e arte. La religiosità sarda attraverso l’arte dalla preistoria a oggi, «Convegno di<br />
studio della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna» (Cagliari, 27-29 marzo 1987), Roma<br />
1989, p. 42 (l’intero contributo alle pp. 33-90).<br />
23 Cfr., in particolare, R. NISBET, Tharros – VI. I roghi del tofet cit., p. 117.<br />
24 Cfr. F. FEDELE, Tharros – V. Antropologia e paleoecologia di Tharros cit., p. 84; R. NISBET,<br />
Tharros – VI. I roghi del tofet cit., pp. 114, tab. 1, 116-117; F. FEDELE, Tharros: Anthropology<br />
of the Tophet and Paleoecology of a Punic Town cit., p. 641; A. PIGA-M.A. PORCU, Flora e<br />
fauna della Sardegna antica, in «L’Africa romana. Atti del VII convegno di studio» (Sassari,<br />
15-17 dicembre 1989), a cura di A. MASTINO, Sassari 1990, II, pp. 571 e nota 10, 574-575<br />
(l’intero contributo alle pp. 569-597).<br />
11
12<br />
Antonello V. Greco<br />
sponevano il sacrificio. Alla luce però dell’altissimo significato, di carattere<br />
comunitario, che il rito molk praticato nel tofet rivestiva presso le popolazioni<br />
semitiche 25 – secondo anche la testimonianza biblica 26 – appare difficile pensare<br />
che la stessa scelta dei legni da ardere sulla pira fosse meramente «casuale» e<br />
non rispondesse anch’essa a delle precise istanze di carattere rituale. 27<br />
Nell’ambito più specificatamente funerario è possibile valutare l’utilizzo<br />
delle medesime piante e delle relative sostanze oleose da esse ricavate attraverso<br />
l’analisi morfologica e funzionale di alcune particolari forme ceramiche.<br />
Il riferimento va, in particolare, al noto tipo di contenitore emblematico della<br />
produzione vascolare fenicia, denominato «brocca con orlo a fungo» per la<br />
sua forma caratteristica, documentato in maniera costante nelle regioni costiere<br />
dell’intero bacino mediterraneo raggiunte dall’espansione marittima fenicia, dalle<br />
coste del Libano fino alle coste spagnole e marocchine delle antiche Colonne<br />
d’Ercole. Si tratta di una forma fittile chiusa, atta a contenere e versare (brocca),<br />
come si evince dal corpo globulare e dall’unica ansa; la forma del collo, con la<br />
peculiare strozzatura mediana atta a regolare il flusso del contenuto, e, soprattutto,<br />
l’orlo circolare espanso verso l’esterno (‘a fungo’) chiarificano come il<br />
contenuto non fosse di tipo liquido (acqua o vino), ma di tipo denso, oleoso o<br />
vischioso. 28<br />
Con particolare riferimento ai contesti archeologici fenici del Mediterraneo<br />
occidentale, e sardi in particolare, si constata come questo tipo di brocca sia<br />
prevalentemente – e pressoché esclusivamente – attestata in ambiti funerari: 29<br />
l’analisi di tipo funzionale si concreta, di conseguenza, quale significativa con-<br />
25 La bibliografia sul tofet, nei suoi aspetti storico-religiosi, ideologici, escatologici e di documentazione<br />
materiale ha conosciuto, specialmente in tempi recenti, una ampia fioritura. A titolo<br />
meramente indicativo, e con particolare riferimento al contesto sardo, si segnalano: «Atti del I<br />
Convegno internazionale di studi fenici e punici» (Roma, 5-10 novembre 1979) cit.; S. MOSCATI<br />
(a cura di), I Fenici cit.; Riti funerari e di olocausto nella Sardegna fenicia e punica cit.; F.<br />
BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna cit.; G. TORE, Religiosità semitica in Sardegna<br />
attraverso la documentazione archeologica cit., con tutte le relative referenze bibliografiche.<br />
26 Il nome stesso di tofet è documentato dall’Antico Testamento: cfr. 2 Re 23, 10; Gr 7, 31-32; 19, 3-6.<br />
27 Un accenno in proposito anche in A. PIGA-M.A. PORCU, Flora e fauna della Sardegna antica<br />
cit., p. 575. Sulla preparazione di un rogo rituale connesso con la spiritualità fenicio-punica,<br />
sebbene trasfigurata dal linguaggio poetico, si dispone della nota descrizione virgiliana del<br />
suicidio di Didone (VERG., Aen., IV, 504-508).<br />
28 Le seguenti osservazioni sono il frutto delle specifiche lezioni sulle forme ceramiche feniciopuniche<br />
tenute dal Prof. G. Tore all’Università di Cagliari (Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso<br />
di Archeologia Fenicio-Punica, a.a. 1991/92), dai cui fruttuosi insegnamenti sono originate le<br />
presenti ricerche e che anche attraverso questo contributo mi è sempre caro ricordare, a più di<br />
un decennio dalla sua prematura scomparsa.<br />
29 Cfr., ad es., P. BARTOLONI, La ceramica, in I Fenici cit., p. 495 (l’intero contributo alle pp. 492-510).
UNZIONI RITUALI E SPIRITUALITÀ SEMITICA<br />
ferma del rituale della unzione del cadavere, 30 rimasto in uso per secoli, stante<br />
anche il ben noto e fortissimo conservatorismo religioso, presso i Semiti, a prescindere<br />
dal rito funerario praticato, fosse quello più antico della incinerazione 31<br />
o la successiva inumazione, come ben documentano le unanimi e precise testimonianze<br />
evangeliche sul rito della unzione funeraria, con oli aromatici e<br />
unguenti profumati di mirra, aloe e nardo, ancora in uso nei primi decenni del<br />
I secolo d.C. (Gv 12, 3; 19, 39-40; Lc 23, 56; 24, 1; Mc 14, 3, 8; 16, 1; Mt 26,<br />
7, 26, 12). 32<br />
A livello linguistico, questa pratica rituale è conservata dal verbo ‘imbalsamare’<br />
nel senso originario ed etimologico, dal termine greco b£lsamon<br />
(lat. balsamum), 33 a sua volta derivato e mutuato proprio da una parola<br />
semitica. 34<br />
Ulteriori considerazioni di carattere tecnico sulla forma ceramica esaminata<br />
in questa sede contribuiscono a confermare la funzione esclusivamente rituale<br />
della stessa, in quanto la non eccelsa consistenza determinata da temperature di<br />
cottura dell’argilla non eccessivamente elevate ne avrebbe compromesso l’uso<br />
quotidiano. 35<br />
Una valenza rituale, ma su un piano diverso, dovevano inoltre avere le lucerne<br />
fittili, frequentemente rinvenute in contesti funerari e palesemente allusive<br />
alla luce, sinonimo di vita, idealmente trasferita nel mondo dell’oltretomba. 36<br />
30 Cfr., ad es., con particolare riferimento alla documentazione archeologica sulcitana, P. BARTOLONI,<br />
Riti funerari fenici e punici nel Sulcis, in Riti funerari e di olocausto nella Sardegna fenicia e<br />
punica cit., pp. 69, 73 (l’intero contributo alle pp. 67-81); P. BARTOLONI, Monte Sirai, Sassari<br />
1989, p. 36.<br />
31 Anche in questo caso con una pira lignea alimentata da arbusti di olivastro e lentisco: cfr., ad<br />
es., P. BARTOLONI, Riti funerari fenici e punici nel Sulcis cit., p. 69.<br />
32 La più puntuale testimonianza è quella di Giovanni, 19, 40: «Lo [scil. il cadavere di Gesù]<br />
avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei». La traduzione<br />
è quella fornita da: La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della Conferenza Episcopale<br />
Italiana (CEI) cit.<br />
33 La pratica rituale dell’unzione funeraria era nota da secoli anche in ambito romano-italico, con<br />
ogni evidenza mutuata dal mondo greco, e risultava essere prerogativa delle donne, come si può<br />
evincere da alcune fonti (APUL., Florid., 4, 19, 94; ENN., Ap. Serv., ad Aen., 6, 219). Cfr. anche<br />
R. NISBET, Tharros – VI. I roghi del tofet cit., p. 117, note 16-17.<br />
34 Cfr. L. ROCCI, Vocabolario Greco Italiano, (Firenze) 1981 30 , p. 340, s.v. «b£lsamon».<br />
35 Cfr., ad es., P. BARTOLONI, Riti funerari fenici e punici nel Sulcis cit., p. 69. Appare opportuno<br />
segnalare, in proposito, come la deposizione del corredo funerario, prevalentemente fittile, nel<br />
caso dell’incinerazione avvenisse dopo la cremazione del cadavere sul rogo funebre.<br />
36 In proposito, cfr., ad es., F. BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna cit., pp. 256-257. Si<br />
ricorda, inoltre, il noto passo biblico: Gn 1, 3-5.<br />
13
14<br />
Antonello V. Greco<br />
Le lucerne alimentate ad olio, ovviamente, trovavano il loro principale utilizzo<br />
in contesti di carattere abitativo e quotidiano, di conseguenza non si esclude<br />
l’impiego, per questioni di economicità, dell’olio ricavato dal lentisco, come<br />
suggerito dal Prof. Giovanni Lilliu per i villaggi nuragici di Su Nuraxi di Barumini<br />
e di Genna Maria di Villanovaforru nelle epoche protostoriche, pressoché in<br />
contemporanea con l’inizio e il successivo e inarrestabile consolidarsi della presenza<br />
fenicia, e poi punica, nell’isola. 37<br />
37 Cfr., ad es., F. FEDELE, I boschi, gli animali, in Nur. La misteriosa civiltà dei Sardi, Milano<br />
1980, p. 56 (l’intero contributo alle pp. 45-56); R. NISBET, Tharros – VI. I roghi del tofet cit., p.<br />
120, note 31-32; G. LILLIU, La civiltà nuragica, Firenze 1982, pp. 150, 152; G. LILLIU-R. ZUCCA,<br />
Su Nuraxi di Barumini, Sassari 1988, pp. 65, 127-129; G. LILLIU, La civiltà dei Sardi cit., pp.<br />
448, 451-452 [= ried. Nuoro 2003, pp. 517, 521-522].
DOCUMENTS SOBRE UNA INSCRIPCIÓ HEBREA A<br />
L’ARXIU MUNICIPAL DE L’ALGUER<br />
Constantino Vidal Salmeron<br />
<strong>Universitat</strong> de Barcelona<br />
Al fons de l’Arxiu Municipal de l’Alguer existeixen una fotografia, un esbós i<br />
tres cartes que fan referència a una inscripció hebrea que hom considerava original<br />
de l’Alguer, tot i que es desconeixia la seva localització precisa. Mario Salvietti,<br />
ja mort, va ser qui en va aportar la fotografia, 1 l’esbós amb les mides, una<br />
traducció parcial i una datació, a més de tres cartes que pretenen de donar una<br />
traducció i una contextualització a aquesta inscripció hebrea feta sobre una làpida.<br />
De fet, aquesta làpida es troba a Barcelona, on va ser feta i descoberta. El<br />
senyor Mario Salvietti, habitant de l’Alguer, va haver de fer-ne una fotografia<br />
durant un dels seus viatges a Barcelona i, posteriorment, l’elaboració de l’esbós<br />
i l’encàrrec de les cartes a alguns estudiosos d’Itàlia perquè li’n fornissin una<br />
traducció i una contextualització.<br />
Fotografia de la inscripció<br />
1 Informació transmesa oralment a Joan Armangué (3 de novembre de 2008), a càrrec de la Sra. Antonella<br />
Salvietti, germana de Mario, donadora dels documents a l’Arxiu Municipal de l’Alguer l’any 2002.<br />
15<br />
INSULA, num. 5 (giugno 2009) 15-23
16<br />
Es coneix l’existència d’aquesta làpida des de, almenys, el 1820, any en què<br />
es va enderrocar una casa al número 1 del carrer Marlet de Barcelona i, entre la<br />
runa, s’hi trobava la dita làpida. 2 Llavors es va reposar a la façana del nou<br />
edifici que s’hi va construir, on sempre havia estat segons testimoniatges<br />
d’aleshores, i sota s’hi va afegir una traducció (incorrecta, tanmateix). A fi de<br />
conservar-la millor, el 1981 es va fer una rèplica de la làpida i es va posar al<br />
mateix lloc on es trobava l’original, que va ser traslladat al Museu d’Història de<br />
la Ciutat (Barcelona), on encara avui es conserva (inv. 11330). Diversos experts<br />
van estudiar-la per tal de proposar una traducció i una interpretació més escaients.<br />
Així és que des de 1956 comptem amb una traducció autoritzada i coneixem el<br />
seu context històric. 3 La inscripció conté el següent text en hebreu: 4<br />
I es pot transcriure així:<br />
Heqdeix<br />
rabbí Xemu’el<br />
Hassardí<br />
n.b.t.<br />
Constantino Vidal Salmeron<br />
Si observem l’esbós que suposem que va fer el senyor Salvietti, veurem com<br />
va anotar, en primer lloc, les mides. Aquestes mides, que imaginem expressades<br />
en centímetres i en l’ordre d’alçada, amplada i profunditat, no coincideixen<br />
exactament amb les que proporciona Millàs i Vallicrosa (1956), que ens diu<br />
que la làpida fa 0,33m x 0,30m, ni amb les que proporciona el Museu d’Història<br />
2 Agraeixo a Victòria Mora la valuosa informació que em va fer arribar sobre la història d’aquesta làpida.<br />
3 No és aquest el lloc per a fer un estudi exhaustiu d’aquesta làpida. Per a això, es pot consultar<br />
l’obra de J.M. MILLÀS I VALLICROSA, Las inscripciones hebraicas de España (1956), pàgs. 346-<br />
348 o les altres obres citades a la Bibliografia. Ens concentrarem més aviat, a partir de la traducció<br />
correcta i les dades que coneixem, a fer una lectura crítica de les tres cartes abans esmentades.<br />
4 La traducció avui acceptada d’aquesta inscripció és la que proporciona J.M. Millàs i Vallicrosa<br />
(1956) i que apareix així traduïda al català per Eduard Feliu al lloc on es troba la rèplica: «Fundació<br />
pia de rabbí Samuel ha-Sardí, el seu llum crema permanentment». Per saber més sobre aquest<br />
personatge, Samuel ben Isaac ha-Sardí, vegeu E. FELIU, «La cultura hebrea a la Barcelona<br />
medieval», dins Barcelona. Quaderns d’Història 2/3 (1996).
DOCUMENTS SOBRE UNA INSCRIPCIÓ HEBREA A L’ARXIU MUNICIPAL DE L’ALGUER<br />
de la Ciutat. 5 Al costat de les mides, hi ha escrit el mot arenaria, que vol dir<br />
‘pedra de sorra’ en italià, en referència al material de la làpida, dada confirmada<br />
per Millàs i Vallicrosa (1956). La traducció parcial (dues de les quatre línies) de<br />
la inscripció a l’italià diu: «Il santo sig. (ribbi) Samuele». Aquesta traducció,<br />
tret del nom propi i de l’abreviatura, és incorrecta. Millàs i Vallicrosa (1956)<br />
explica que la primera línia cal llegir-la heqdeix (‘fundació pia’) i no pas haqadoix<br />
(‘el sant’). La data de 1692 que suposem que es refereix a la datació de la<br />
làpida, és també incorrecta. 6<br />
La primera carta 7 la va redactar Antonio Piras, un professor de grec, a Sanluri<br />
el 10 d’abril de 1986, com a resposta a una carta del senyor Salvietti del 24 de<br />
febrer de 1986. Tot i que assegura que la seva interpretació es troba lluny d’ésser<br />
segura, s’aventura a proporcionar una transliteració i una traducció. Translitera<br />
així el text hebreu:<br />
hqds .rsmwç hsrdy .n.b.t<br />
סרדי<br />
שמואל<br />
Encara que bastant correcta, hom no transliteraria la lletra i la amb la<br />
mateixa lletra, ja que la primera és una consonant fricativa alveolar sorda i la<br />
segona, en aquest cas, una fricativa prepalatal sorda. Curiós és el fet que la ,<br />
una lateral alveolar sonora, la transliteri amb «ç». Pel que fa a la traducció,<br />
proposa de llegir les dues primeres línies com a «Sant’Erasmo», lectura errònia,<br />
com ja ha estat dit. Sobre la tercera línia diu: «La terza richiamerebbe l’etnico o<br />
anche il nome geografico della nostra Isola». Aquest punt pensem que va ser el<br />
que va empènyer el senyor Salvietti a interessar-se per la inscripció, és a dir, el<br />
possible origen sard del personatge a què es fa referència. Normalment, se sol<br />
anomenar aquest personatge Samuel ben Isaac ha-Sardí, on ha-Sardí pot voler<br />
dir ‘el sard’, és a dir, natural de Sardenya, tal com defensa Klein (2004): «És<br />
més probable que ell o el seu pare procedissin de Sardenya, on hi havia una<br />
població jueva des de temps antics, en relació constant amb la de Barcelona.<br />
[...] Per tant, Sardí voldria dir ‘sard’». Fita (1890) hi llegeix també «Samuel el<br />
Sardo» i la Jewish Encyclopaedia8 ת ב הסרדי<br />
שמואל 'ת<br />
'<br />
הסרדי<br />
ב<br />
recull una citació d’un autor que «derives<br />
the name “Sardi” from the city (sic) of Sardinia». La datació que es proposa,<br />
«ultimo decennio del XIV secolo», no seria del tot correcta, ja que, segons Millàs<br />
5 35,5 x 32 x 25 cm. Agraeixo al Museu d’Història de la Ciutat haver-me fornit aquesta dada.<br />
6 Vegeu l’anàlisi de la primera carta més endavant, pel que fa a la datació acceptada.<br />
7 Les tres cartes estan arranjades cronològicament. Vegeu l’annex per consultar-les.<br />
8 http://www.jewishencyclopedia.com/view.jsp?artid=158&letter=S&search=sardi.<br />
17<br />
ר
18<br />
i Vallicrosa (1956) la inscripció es va fer en vida del personatge, molt<br />
possiblement en el segle XIII.<br />
La segona carta ve signada per Dino Bidussa el 28 de juliol de 1990 a Liorna.<br />
Ell hi llegeix:<br />
I ho tradueix:<br />
Accadosc Risciamuel Asardos<br />
Il santo Samuele il sardo<br />
Constantino Vidal Salmeron<br />
Com ja hem dit, cal llegir heqdeix i no pas haqadoix. Amb tot, tornem a<br />
topar-nos amb algú que llegeix la tercera línia com «el sard», que denotaria<br />
l’origen del personatge. El que no seria correcte és considerar la quarta línia<br />
com la data jueva de la inscripció, ja que es tracta d’una abreviatura. 9<br />
La tercera carta és adreçada a un tal Emanuele, que deduïm que va fer d’intermediari.<br />
Com a remitent apareix la revista «SEFER YUHASIN – Bollettino di<br />
ricerche sulla storia degli ebrei nell’Italia Meridionale» i signa «tuo Cesare<br />
[Colafemmina]», en data 27 de setembre de 1990 a Acquaviva. Aquesta carta<br />
podem dir que és la que conté la informació menys errònia. Ultra l’error de<br />
considerar com haqqodeix i no pas com heqdeix, la transcripció que en<br />
fa sembla plausible. Hi escriu:<br />
Il santo / Rabbì Shamuel / il Sardo. / La sua anima riposi in paradiso<br />
També aquest autor considera que el personatge és sard i afegeix: «Che un<br />
ebreo che viva in Sardegna possa essere qualificato come “sardo” non mi stupisce.<br />
Probabilmente era un indigeno, un ebreo cioè discendente di ebrei che avevano<br />
messo da tempo radici nella contrada; l’epiteto lo distingueva da omonimi<br />
immigrati da fuori. Nel Sud gli ebrei indigeni nei documenti dei secoli XV-XVI<br />
sono detti “regnicoli” o “italiani” per distinguerli dagli “spagnoli” e dai<br />
“todischi”». També veiem com interpreta l’abreviatura final com<br />
(‘que la seva ànima reposi en el jardí [= paradís]’). En tot cas, la làpida no és<br />
9 Hi ha dues lectures possibles d’aquesta abreviatura: Nero bo’er tamid (‘el seu llum crema<br />
permanentment’) o Nafxo ba-gan tanuakh (‘que la seva ànima reposi en el jardí [= paradís]’).
DOCUMENTS SOBRE UNA INSCRIPCIÓ HEBREA A L’ARXIU MUNICIPAL DE L’ALGUER<br />
funerària, sinó que recorda la fundació d’una pia almoina gràcies a Samuel ben<br />
Isaac ha-Sardí.<br />
Resulta evident, per tant, que els remitents de les tres cartes desconeixien<br />
que aquesta làpida es trobava a Barcelona i que ja havia estat estudiada i traduïda.<br />
Tractant-se de persones i organitzacions establertes a Itàlia, no resulta estrany<br />
que així fos, sobretot tenint en compte que sembla que la paleografia hebrea i el<br />
judaisme no era llur activitat principal. El que no sabem és, si estem gairebé<br />
segurs que la fotografia va ser presa a Barcelona, per què el senyor Salvietti no<br />
ho va dir als seus interlocutors i, menys encara, per què va demanar-ne una<br />
interpretació i traducció si aquesta làpida ja estava prou estudiada pels volts<br />
dels anys 90. De tota manera, els arxivers de l’Arxiu Municipal de l’Alguer ja<br />
disposen d’un primer estudi d’aquest material que hi romania en bona part<br />
incomprès.<br />
19
20<br />
ANNEX: LES TRES CARTES<br />
Constantino Vidal Salmeron
DOCUMENTS SOBRE UNA INSCRIPCIÓ HEBREA A L’ARXIU MUNICIPAL DE L’ALGUER<br />
21
22 Constantino Vidal Salmeron
DOCUMENTS SOBRE UNA INSCRIPCIÓ HEBREA A L’ARXIU MUNICIPAL DE L’ALGUER<br />
BIBLIOGRAFIA 10<br />
ASSAF, S. (1935). Sifran šel rišonim. Jerusalem, Mekize Nirdamim, pàg. 54, nota 2.<br />
DD.AA. (1978). «Sardi, Samuel ben Isaac», dins Encyclopaedia Judaica. Jerusalem, Keter Publising House.<br />
DEUTSCH, G. – MANNHEIMER, S. «Samuel ben Isaac ha-Sardi», dins Jewish Encyclopaedia,<br />
http://www.jewishencyclopedia.com/view.jsp?artid=158&letter=S&search=sardi (març de 2009).<br />
FELIU, E. (1996). «La cultura hebrea a la Barcelona medieval», dins Barcelona. Quaderns d’Història,<br />
2/3, Barcelona: L’Institut.<br />
FITA, Fidel (1890), Boletín de la Real Academia de la Historia. Madrid, Maestre, vol. 16, pàgs. 445-447.<br />
KLEIN, E. (2004). Hebrew Deeds of Catalan Jews, 1117-1316 / Documents hebraics de la Catalunya<br />
medieval, 1117-1316. Barcelona, Societat Catalana d’Estudis Hebraics – Patronat Municipal<br />
Call de Girona, pàg. 139, n. 84.<br />
MILLÀS I VALLICROSA, J.M. et al. (1956). Las inscripciones hebraicas en España. Madrid, CSIC,<br />
pàgs. 346-348.<br />
10 Agraeixo a Eduard Feliu que m’hagi aconsellat bona part de la bibliografia.<br />
23
LE LINGUE IN SARDEGNA ATTRAVERSO<br />
GLI STATUTI DELLE CITTÀ REGIE *<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
Università di Cagliari<br />
Per quanto riguarda struttura e contenuto, una consistenza altamente plastica<br />
caratterizza i testi legislativi, i quali, malgrado questa vulnerabilità formale,<br />
mettono contemporaneamente la loro rigorosa attenzione al servizio della<br />
preservazione della lettera. I codici degli Statuti municipali presentano pertanto<br />
certi aspetti che li rendono idonei all’approfondimento delle discipline<br />
di cui si occupa il filologo. «Accanto ad una parca quantità di deviazioni erronee»,<br />
scrive Paolo Merci, nei testi di legge «vi può essere un numero anche<br />
assai largo di innovazioni “autentiche”». 1 In questa sede ci interesseranno<br />
queste innovazioni: gli interventi, gli aggiornamenti che se da un lato forniscono<br />
dati preziosi alla storia interna delle diverse lingue presenti in Sardegna,<br />
da un altro lato servono a ricostruire parzialmente anche la loro storia<br />
esterna, in quanto risultato di scelte linguistiche ben precise, a volte meccaniche,<br />
a volte a lungo meditate.<br />
Dobbiamo però relativizzare al massimo le conclusioni a cui ci condurrà la<br />
nostra analisi e soltanto in un secondo momento e con molta prudenza applicarle<br />
a terreni culturali e sociali diversi dagli Statuti stessi. La cronologia delle<br />
diverse sostituzioni linguistiche avvenute in Sardegna non necessariamente coinciderà<br />
con gli usi linguistici interni agli Statuti, e perciò la nostra analisi non<br />
potrà essere applicata a fenomeni socioculturali d’altra indole. Ciò nonostante,<br />
* La prima versione di questo articolo, qui aggiornato, fu presentata al Seminario «Gli statuti del Regno di<br />
Valenza e del Regno di Sardegna in età medioevale e moderna», organizzato dall’Istituto sui rapporti<br />
italo-iberici del CNR – <strong>Universitat</strong> de València (Cagliari, 14-16 ottobre 1999), posteriormente pubblicato<br />
in Sardegna e Spagna. Città e territorio tra medioevo ed età moderna, «Archivio Sardo. Rivista di<br />
studi storici e sociali», n.s., n. 2 (2001), Carocci Editore, pp. 199-206. Questo articolo rappresentò il<br />
punto di partenza delle comunicazioni su La traducció catalana dels estatuts municipals de Sardenya<br />
(s. XVII), presentata al XVII Congresso di Storia della Corona d’Aragona (Barcellona-Lerida, 7-12 settembre<br />
2000); e su Il diritto privilegiato municipale e le lingue del potere in Sardegna, presentata a «La<br />
Settimana della Cultura» organizzata dall’Università degli Studi di Cagliari (Cagliari, 9-14 marzo 2006),<br />
i cui Atti sono attualmente in corso di stampa. Revisione della versione italiana a cura di Walter Tomasi.<br />
1 Paolo MERCI, Per un’edizione critica degli Statuti sassaresi, in Antonello MATTONE – Marco TANGHERONI<br />
(a cura di), Gli Statuti Sassaresi. Economia, Società, Istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’Età<br />
Moderna. Atti del convegno di studi (Sassari, 12-14 maggio 1983), Sassari, Edes, 1986, p. 127 (l’articolo<br />
occupa le pp. 119-140).<br />
25<br />
INSULA, num. 5 (giugno 2009) 25-32
26<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
e con tutta la prudenza che stiamo anticipando, cercheremo di proporre delle<br />
ipotesi che fungano da chiave provvisoria per stimolare future ricerche.<br />
Una caratteristica fondamentale accomuna tutti gli Statuti municipali sardi<br />
prodotti o emendati nel Medioevo: seppure redatti nella lingua veicolare propria<br />
del periodo della loro nascita, gli Statuti vi rimarranno legati anche quando<br />
questa stessa lingua sarà priva di un rapporto diretto con la classe dirigente. Il<br />
sardo degli Statuti sassaresi, infatti, perde il suo antico valore di lingua pubblica<br />
nel XV secolo, mentre il volgare italiano del Breve di Villa di Chiesa non rifiorirà<br />
nella nostra isola fino alla seconda metà del XVIII secolo e, ancora, il carattere di<br />
lingua sociale del catalano delle Ordinacions dels consellers del Castell de Càller<br />
(sec. XIV) raggiunge la sua crisi definitiva nel Seicento…, e ciò nonostante queste<br />
Ordinacions cagliaritane vengono ristampate in lingua catalana nel 1713.<br />
Analizziamo ora direttamente questi documenti. Iniziamo quindi con gli Statuti<br />
sassaresi, 2 insieme al Breve di Villa di Chiesa uno dei due unici testi di<br />
legislazione comunale prearagonese riusciti a sfuggire alla distruzione del tempo.<br />
È stato ripetutamente segnalato che il nucleo degli Statuti di Sassari, in un<br />
secondo momento estesi ad Alghero (1355) e Castellaragonese (1448) – che<br />
avrebbero goduto, in precedenza, di uno statuto signorile –, 3 risale all’epoca di<br />
supremazia pisana nel Comune, e quindi agli anni 1272-1294. Posteriormente a<br />
queste date e prima di quella del codice a noi pervenuto, del 1316, il testo latino<br />
sarebbe stato adattato a beneficio dei genovesi, e quindi arricchito con una nuova<br />
veste: il sardo nella sua variante logudorese, la lingua veicolare di buona parte dei<br />
destinatari degli Statuti. Più che la definizione di Giuseppe Manno, «monumento<br />
alla sapienza dei sassaresi», 4 si addice al nostro documento un non meno glorioso<br />
carattere che potremmo fissare parafrasando il barone: «Monumento alla lingua<br />
dei sassaresi, con la loro sapienza e quella di pisani e genovesi», visto che in virtù<br />
dei patti il Comune rimaneva economicamente a loro legato.<br />
La traduzione del libro voluta nel 1316 era mirata «ut intelligatur ab omnibus<br />
personis», recita la versione latina; «a ciò qui se intendat da ogna persone»,<br />
quella in sardo. 5 Capiamo quindi di trovarci in una fase della scrittura legislati-<br />
2 Per quanto riguarda la descrizione paleografica del documento, si veda Luisa D’ARIENZO, Gli<br />
Statuti sassaresi e il problema della loro redazione, in A. MATTONE – M. TANGHERONI, Gli Statuti<br />
Sassaresi cit. 107-117.<br />
3 E. BESTA, La Sardegna medievale, II, Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali,<br />
Palermo 1908-1909, p. 140; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo,<br />
rist. anast. Cagliari, 1974, pp. 288-289.<br />
4 Giuseppe MANNO, Storia di Sardegna, Torino, 1825-1827, libro IV.<br />
5 Citiamo dall’edizione curata da Pasquale TOLA, Codice degli Statuti della repubblica di Sassari,<br />
Cagliari, 1850, libro I, cap. V.
LE LINGUE IN SARDEGNA ATTRAVERSO GLI STATUTI DELLE CITTÀ REGIE<br />
va che non ha ancora lasciato completamente indietro l’oralità: le suddette<br />
«persone», nella stragrande maggioranza non soltanto non capivano il latino,<br />
ma erano logicamente analfabeti. La versione in volgare degli Statuti,<br />
perciò, consisteva, fondamentalmente, in un testo che, a complemento dell’originale<br />
latino, poteva essere letto a voce alta per maggiore informazione<br />
di chi si fosse rivolto alla curia comunale; oppure, per comodità e chiarezza,<br />
un testo previamente impostato per la traduzione orale che normalmente<br />
accompagnava gli atti amministrativi redatti in una lingua diversa da quelle<br />
conosciute dal firmatario. 6<br />
Ricordiamo anche che per via della scarsa conoscenza che in Sardegna<br />
si aveva del contenuto degli Statuti di Sassari – naturalmente, fuori dalla<br />
zona che cadeva sotto la sua influenza diretta –, in tutte le cause esisteva<br />
l’obbligo di allegare la trascrizione dei capitoli necessari alla comprensione<br />
degli atti. Sarebbe utile, in questo senso, comprovare se la versione copiata<br />
corrispondeva normalmente all’originale latino oppure alla versione sarda:<br />
questo fatto aparentemente aneddottico farebbe un po’ di luce sui rapporti<br />
dei notai sardi – professionalmente formati in catalano – con la lingua propria<br />
del regno. Chi si è imbattuto in documenti di questo genere ha trascurato<br />
spesso di chiarire questo particolare, ma, soprattutto in età moderna, possiamo<br />
intuire una logica tendenza a favore della lingua volgare, visto lo<br />
spirito di una frase scritta, citiamo il Tola, «in un mezzo foglio di carta<br />
attaccato interiormente alla coperta membranacea del codice sardo». 7 La<br />
suddetta frase recita così:<br />
Con este libro del sardo se podrán mejor entender muchas menudencias y cosas<br />
que no se han podido copiar ni leer en el libro latín, por ser consumidos los caracteres<br />
en algunas partes, con que no se comprende enteramente el sentido de algunos estatutos<br />
[e questi forti segni di usura nel codice latino indicano forse un’iniziale posizione di<br />
forza a vantaggio della lingua morta], y en otras por no ser el latín corriente, sino del<br />
vulgar antiquísimo que ahora no se pronuncia.<br />
6 È interessante e proprio opportuno ricordare, in relazione a questa pratica notarile, la formula<br />
che in Sardegna accompagnò fino al XVIII secolo i testamenti scritti in catalano (e in tutta l’isola,<br />
fino a data imprecisa, anche quelli scritti in spagnolo e italiano): «Lo notari infrascrit té publicat<br />
dit testament en llengua materna [oppure “sarda”, oppure “vulgar”], en veu alta e intel·ligible».<br />
Questo fenomeno non si verificò ad Alghero, poiché si presumeva che i cittadini capissero in<br />
modo spontaneo il catalano, ossia la propria lingua veicolare (si veda come esempio il registro<br />
relativo ai «Testamentos e inventarios», I, de l’Archivio Diocesano di Alghero).<br />
7 P. TOLA, Prefazione, in Codice degli Statuti della repubblica di Sassari cit., p. XV, nota (correggiamo<br />
l’ortografia di tutti i frammenti catalani e spagnoli citati).<br />
27
28<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
È chiaro che questo latino che dopo il 1607 8 non si pronunciava più come<br />
un tempo né ormai era conosciuto come un tempo, aveva perso definitivamente<br />
la sua lunga battaglia contro le lingue volgari; in questo caso, contro un volgare<br />
sardo scritto e ufficiale, «destinato – ripetiamo con parole di Antonello Mattone<br />
– a servire da modello per tutta la successiva legislazione trecentesca». 9<br />
Ma vediamo ora perché questo testo sopravvisse ai quattro secoli di presenza<br />
iberica in Sardegna. Luisa D’Arienzo scrive che «nei Comuni sardi, al cambio<br />
delle dominazioni, di solito venivano approvate le leggi già esistenti apportandovi<br />
alcuni rimaneggiamenti». 10 D’accordo con questa peculiare forma di rispetto<br />
giuridico, i genovesi adattarono ai loro interessi gli Statuti di Sassari, che fino<br />
allora avevano invece difeso gli interessi pisani dall’autonomia comunale. A maggior<br />
ragione ancora, trent’anni più tardi Giacomo II di Aragona, sovrano in uno<br />
Stato di forte spirito federale, si impegnò a rispettare i suddetti Statuti, naturalmente<br />
previo scrupoloso studio ed emendamento, «addendo vel subtraendo»: 11<br />
questa infatti sarebbe stata la prassi a Villa di Chiesa, dove il Breve pisano fu<br />
corretto globalmente (1324) e, in un secondo momento (1327), ratificato. 12<br />
A Sassari, però, questa correzione sembra non sia mai stata compiuta: l’infante<br />
Alfonso confermerà i privilegi concessi dal padre, e con essi il rispetto<br />
dovuto a quegli Statuti non ancora emendati. Ciò nonostante, i catalani introdurranno<br />
anche la loro struttura politico-amministrativa, e alla tradizione legislativa<br />
locale affiancheranno i privilegi di Barcellona, estesi a Sassari nel 1331.<br />
Come a Cagliari quattro anni prima (25 agosto 1327), anche in questa occasione<br />
si preferì favorire i coloni che ripopolavano Sassari con una legislazione<br />
importata dalla città catalana. Ma se nel capoluogo sardo, dove il ricambio etnico<br />
era stato totale, il Coeterum aveva sostituito la legislazione pisana precedente,<br />
8 Questa è la data a cui risale una copia autentica della versione sarda degli Statuti (16 maggio<br />
1607), in cui leggiamo, probabilmente dovuta allo stesso autore (P. MERCI, Per un’edizione<br />
critica degli Statuti cit., p. 122), una frase simile a quella appena citata: «Con esta copia se<br />
entenderán algunos estatutos que en el libro latín están obscuros por haberse consumido en<br />
parte los caracteres, y en otras partes por ser el latín antiguo vulgar, que hoy no se pronuncia, y<br />
en este libro se especifican de manera que se puede comprender el sentido de la letra y estatutos»;<br />
cfr. Vittorio V. FINZI, Gli Statuti della Repubblica di Sassari, Cagliari, G. Dessì, 1911, p. 12<br />
(abbiamo corretto ortograficamente il frammento).<br />
9 Antonello MATTONE, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, in A. MATTONE –<br />
M. TANGHERONI, Gli Statuti Sassaresi cit., p. 417, nota 98 (l’articolo occupa le pp. 409-490).<br />
10 Luisa D’ARIENZO, Gli Statuti sassaresi e il problema della loro redazione cit., p. 111.<br />
11 Si veda il privilegio del 7 maggio 1323 in P. TOLA, Codice degli Statuti della repubblica di<br />
Sassari cit., p. 614.<br />
12 Luisa D’ARIENZO, Il codice del Breve pisano-aragonese di Iglesias, in «Medioevo. Saggi e<br />
Rassegne», num. 4, Cagliari, 1978, p. 79 (l’articolo occupa le pp. 67-89).
LE LINGUE IN SARDEGNA ATTRAVERSO GLI STATUTI DELLE CITTÀ REGIE<br />
a Sassari, con un ricambio etnico limitato, solo in parte si sostituì l’antica legislazione<br />
comunale. «A popolazione promiscua furono applicate leggi promiscue»,<br />
afferma Mattone. 13 In effetti l’ambiguità, che con gli anni diventerà caos, è una<br />
caratteristica della vita legislativa di Sassari durante la dominazione catalanoaragonese.<br />
È probabilmente così che si spiega la mancata traduzione in catalano degli<br />
Statuti sassaresi, il «rispetto» dei dominatori nei confronti della lingua originale<br />
di redazione: le aggiunte sul codice trecentesco – privilegi e ordinanze che giungono<br />
fino all’anno 1513 – saranno redatte anch’esse in latino o in sardo. La<br />
coerenza linguistica non basta a giustificare la sopravvivenza di tutto il corpus<br />
espresso in sardo. Non ci troviamo di fronte ad un testo come la Carta de Logu,<br />
la «consuetud de la nació sardesca» la cui lingua, proprio un secolo dopo (1421),<br />
verrà rispettata perché essenzialmente rivolta alla popolazione dominata. Sassari,<br />
come città regia, gode dell’ordinamento dei dominatori, ma contemporaneamente<br />
è regolata da questi Statuti che non possono essere tradotti senza una<br />
revisione generale che li completi e aggiorni, che li chiarisca. E dopo anni di<br />
equilibrio politico raggiunto tramite la concessione di una miriade di privilegi,<br />
la chiarezza è diventata qualcosa di difficile da ottenere – quando non fuori<br />
luogo. E viene trascurata. E con essa, la traduzione degli Statuti.<br />
Lo stesso discorso varrebbe per Iglesias – anch’essa, come Sassari, solo<br />
parzialmente ripopolata –, se non fosse per un particolare in assoluto trascurabile:<br />
il volgare italiano del Breve («assai più schietto che non quanti statuti<br />
pisani contiene la bella raccolta [di Bonaini]», con parole di Baudi di Vesme) 14<br />
non sarà più, dopo la rapida decadenza del potere pisano nell’Isola, la lingua<br />
propria né degli interessi comunali né di quelli regi. Nel 1327 il Breve sarà<br />
confermato dall’infante Alfonso, per cui anche nella struttura amministrativa di<br />
questa città confluiscono istituzioni sia locali che catalano-aragonesi; ma la vita<br />
del codice lascerà definitivamente da parte la lingua originale di redazione:<br />
poche note marginali che accompagnano il testo, attribuibili a varie epoche, si<br />
esprimono naturalmente in catalano o in spagnolo.<br />
È nelle trecentesche Ordinacions dels consellers del Castell de Càller l’ambito<br />
in cui la lingua dei vincitori troverà il luogo ideale per la sua collocazione<br />
spontanea: un codice in catalano per una colonia di catalani, valenzani, maiorchini<br />
13 Gli Statuti sassaresi cit., p. 424.<br />
14 Cfr. l’introduzione al Codice Diplomatico di Villa di Chiesa in Sardigna, a cura di Carlo BAUDI<br />
DI VESME, vol. I [ = «Historiae Patriae Monumenta», XVII], Torino, 1877, pp. XXIX-XXX.<br />
Baudi di Vesme si riferisce alla raccolta di Francesco BONAINI, Statuti inediti della Città di Pisa<br />
dal XII al XIV secolo, Firenze, 1854-1857.<br />
29
30<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
e aragonesi. La loro lingua dominerà indiscussa nel Regno, superando la crisi<br />
dinastica che seguì la morte di Martino l’Umano, l’accesso al trono del primo<br />
Trastamara, il matrimonio di Isabella e Ferdinando. 15 Si tratta di aspetti che,<br />
pur annunciando la crisi politica cui vanno incontro i Paesi Catalani, dal punto<br />
di vista linguistico non rappresentano per se stessi dei fenomeni traumatici.<br />
Il Cinquecento è, infatti, il periodo di massima espansione del catalano in<br />
Sardegna. Fino al punto che, d’accordo con l’incalzare dei nuovi tempi, entra<br />
finalmente in scena il problema della traduzione degli antichi Statuti – apparentemente<br />
in modo slegato dal problema del loro aggiornamento. La riforma<br />
municipale fernandina (in Sardegna applicata dal 1481), mirata a limitare gli<br />
«abusi» delle città e quindi a restringerne l’autonomia, rappresenta in questo<br />
senso la frontiera fra l’antica coerenza nella confusione e un nuovo bisogno di<br />
chiarezza – che sta per diventarlo anche a livello linguistico. Decadono le<br />
autonomie cittadine e sembra quindi non debba trovare alcun ostacolo la richiesta<br />
inoltrata dallo stamento militare nel Parlamento presieduto da don<br />
Álvaro de Madrigal (1558): «Que sia proveït i decretat que dits capítols [di<br />
Iglesias e Sassari] sien traduïts en llengua sardesca o catalana». 16 Vale la pena<br />
tener conto, però, del passaggio in cui Girolamo Olives, primo commentatore<br />
della Carta de Logu, appena due anni più tardi ricorda i fatti: veniva chiesto,<br />
scrisse, che i suddetti statuti fossero tradotti «de lingua itala in maternam». 17<br />
In effetti, «in lingua sarda o catalana», chiedeva lo stamento; ed è politicamente<br />
eloquente il decreto viceregio (prammatica dell’8 aprile 1565): «Que<br />
se traduesquen en llengua catalana».<br />
Pochi anni più tardi (1572-74) i rappresentanti dello stamento militare si<br />
mostreranno molto più rigidi: «Plàcia a Vostra Magestat sia proveït e declarat la<br />
Carta de Lloc sia servada en tots los llocs a ont se serven dites lleis pisanes». 18<br />
15 Su Ferdinando il Cattolico l’algherese Antonio Michele Urgias scrisse nel 1823: «È questo il<br />
real sovrano che alla città d’Alghero diede il primo il nome ed il privilegio di città, come altresì<br />
che vi fosse stabilita la chiesa cattedrale col suo capitolo e vescovo, trasferiti dalla sede di<br />
Ottana con real diploma e bolla pontificia di Giulio II» (Biblioteca Comunale di Sassari, ms. 5:<br />
Manoscritti e memorie per uso privato, IV, f. 23r).<br />
16 Cit. C. BAUDI DI VESME, Codice Diplomatico di Villa di Chiesa cit., p. 920, doc. XXXVII; si<br />
veda inoltre in Pasquale TOLA (a cura di), Codex diplomaticus Sardiniae, vol. I [= Historiae<br />
Patriae Monumenta, X], Torino, 1861, vol. II, p. 419, una versione leggermente diversa da<br />
quella riportata da Baudi, il quale si servì degli atti manoscritti del parlamento custoditi presso<br />
l’Archivio di Stato di Cagliari.<br />
17 H. OLIVES, Commentaria et glossa in Cartam de Logu, Matriti, 1567, p. 126.<br />
18 Capítols de cort del stament militar de Sardegna, Caleri, 1572, cap. 28, p. 539. Ciò nonostante,<br />
Castellaragonese chiede contemporaneamente gli stessi capitoli di cui gode Sassari.
LE LINGUE IN SARDEGNA ATTRAVERSO GLI STATUTI DELLE CITTÀ REGIE<br />
Ci sfuggono, per mancanza di documentazione, le conseguenze che poterono<br />
seguire queste richieste. Sappiamo che nel 1572 era stata ordinata la riforma<br />
dei capitoli sassaresi; che le leggi penali vennero pure esse riformate intorno al<br />
1600... 19 Forse con l’incendio del 27 aprile 1780 si perdettero documenti di<br />
importanza fondamentale. Ma la cosa certa è che conosciamo gli Statuti di Sassari<br />
e il Breve di Villa di Chiesa soltanto nella loro redazione trecentesca. Comunque,<br />
qualsiasi tentativo di traduzione senz’altro non ebbe alcuna applicazione:<br />
negli anni 1602-1603, durante il Parlamento presieduto dal conte d’Elda, lo<br />
stamento militare chiede ancora che venga messo ordine alle «molte consuetudini<br />
e usi diversi e contrari», fra cui «certs estatuts en llengua italiana del temps<br />
dels pisans i genovesos» (per Sassari, Bosa, Alghero e Iglesias), per cui supplica<br />
«se estampen totes en una llengua, és a saber, o catalana o llatina». 20<br />
La pubblicazione ufficiale delle leggi municipali non ebbe però luogo, e<br />
questo capitolo, pur approvato dal re, non fu mai applicato. È chiaro che dobbiamo<br />
cercare nella mancanza di collaborazione da parte delle municipalità le<br />
cause più provabili di questa negligenza. Se non un aperto rifiuto, intuiamo<br />
senz’altro un certo malessere. Né poteva essere altrimenti: «La questione linguistica<br />
– scrive Mattone – riflette soprattutto il punto di vista della burocrazia<br />
viceregia, composta in maggioranza da funzionari spagnoli che non capiscono<br />
il sardo [e naturalmente, aggiungiamo noi, nemmeno l’italiano] e si servono del<br />
catalano come lingua ufficiale degli atti». 21<br />
Dovremmo avere, arrivati a questo punto, elementi sufficienti per giungere<br />
a qualche conclusione che vada oltre a quanto è stato anticipato nell’introduzione.<br />
La fedeltà degli Statuti nei confronti di lingue proprie di antiche dominazioni<br />
culturali, lingue di prestigio antico, non può essere soltanto il risultato di<br />
un’ostinata coerenza formale. E non lo può essere perché appare tutto, fuorché<br />
coerente, la convivenza di cinque lingue – sardo, catalano, spagnolo, italiano e<br />
latino – nel regime statutario isolano. Ci deve essere un altro motivo; e lo intuiamo<br />
in quella caratteristica che abbiamo considerato fondamentale: con il supporto<br />
delle lingue delle antiche dominazioni, gli Statuti diventano uno scudo<br />
contro la dominazione in corso. Resistono di fronte alla lingua del potere, perché<br />
rappresentano la resistenza dell’autonomia municipale di fronte al potere.<br />
19 A. MATTONE, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo cit., pp. 456, 479, nota 98.<br />
20 Ibid., p. 459. Non possiamo quindi mettere in relazione con tutte queste richieste certi quaderni,<br />
attualmente irreperibili, contenenti una pretesa traduzione in spagnolo degli Statuti, quaderni<br />
che nel 1840 il Tola riuscì a consultare presso l’Archivio Comunale di Sassari (P. TOLA, Codice<br />
degli Statuti della repubblica di Sassari cit., p. XV, nota).<br />
21 A. MATTONE, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo cit., p. 460.<br />
31
32<br />
Nello statuto comunale possiamo infatti intravedere quella continuità della «Sardegna<br />
dei sardi» che, come afferma Mattone, 22 non muore con la caduta del<br />
marchesato di Oristano (1478). Nessun aspetto del complesso intreccio giuridico<br />
basato sul privilegio poteva essere modificato; e la traduzione del corpus<br />
facilmente avrebbe reso possibile l’emendamento. Il potere municipale si aggrappò<br />
quindi alla forma del diritto particolarista, alla sua lingua veicolare, per<br />
salvaguardare l’integrità.<br />
22 Ibid., p. 479.<br />
Joan Armangué i Herrero
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
Mauro Maxia<br />
Università di Sassari<br />
1. La linguistica italiana e quella sarda, fin dal loro sorgere come branche<br />
autonome e complementari nell’àmbito della linguistica romanza, hanno preso<br />
atto, sulla scia di osservazioni di eruditi e cultori che rimontano fino al<br />
Cinquecento, 1 dell’esistenza nella parte settentrionale della Sardegna di una<br />
zona grigia costituita da alcuni idiomi di matrice corsa. Questi idiomi si interpongono,<br />
appunto, tra il sistema sardo e quello costituito dalla lingua italiana<br />
con le sue varietà regionali e, in particolare, col gruppo di dialetti che formano<br />
il sistema corso.<br />
Una fonetica sincronica di queste varietà era stata predisposta, per una<br />
serie di aspetti non secondari, da Gino Bottiglioni col suo Saggio scritto a<br />
cavallo degli anni Venti del secolo scorso. Sul piano strumentale, poi, una<br />
fonetica di queste varietà è disponibile, di fatto, nel contesto delle osservazioni<br />
sistematiche a carattere strumentale condotte da Michele Contini sul sardo.<br />
2 Su un piano sincronico, sostanzialmente, si collocano anche gli studi del<br />
Rohlfs relativi al corso 3 e che, di riflesso, interessano anche le varietà sardocorse<br />
sebbene non siano quasi mai chiamate direttamente in causa. Una fonetica<br />
storica di queste varietà, pertanto, anche sulla base di queste considerazioni,<br />
appare giustificata.<br />
Forse potrebbe sembrare sproporzionato lo sforzo richiesto da un lavoro<br />
di questo tipo rispetto alla dimensione geografica e alla posizione appartata di<br />
queste varietà che, complessivamente, sono usate da meno di duecentomila<br />
utenti. Gli studi su varietà assai meno diffuse, tuttavia, dimostrano che l’interesse<br />
degli studiosi non sempre è attratto dal prestigio delle varietà quanto,<br />
piuttosto, dall’opportunità che talune di esse, anche minori, offrono, special-<br />
1 Il primo autore che accennò alla situazione linguistica della Sardegna settentrionale fu Sigismondo<br />
ARQUER, Sardiniae brevis historia et descriptio. Tabula chorographica insulae ac metropolis<br />
illustrata, in Münster corografia, Basilea, 1558. aj.<br />
2 M. CONTINI, Études de geographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde, Alessandria,<br />
Edizioni dell’Orso, 1987.<br />
3 Cfr. G. ROHLFS, L’italianità linguistica della Corsica, Vienna, A.Schroll und. C., 1941; Fra<br />
Toscana e Corsica (Penetrazione toscana in Corsica), in «Studi e ricerche su Lingue e dialetti<br />
d’Italia», Firenze, 1972.<br />
33<br />
INSULA, num. 5 (giugno 2009) 33-75
34<br />
mente nelle zone di contatto, circa la possibilità di descrivere determinati fenomeni<br />
nel loro divenire. Su questi aspetti sarà decisivo, come sempre, il giudizio<br />
dei lettori. Non inganni, comunque, il numero relativamente modesto dei parlanti<br />
che, peraltro, in passato fu ancor meno significativo rispetto ad oggi. La<br />
complessità dei rapporti intrattenuti da queste varietà nel corso dei secoli contribuisce,<br />
per dirla con Primo Levi, 4 a rendere le loro strutture grammaticali non<br />
meno interessanti e il loro studio non meno impegnativo rispetto a sistemi linguistici<br />
più noti o prestigiosi.<br />
Queste riflessioni si riferiscono a uno studio che è il primo di una grammatica<br />
storica delle varietà eteroglotte della Sardegna settentrionale che formano il<br />
dominio linguistico sardo-corso. Un altro lavoro relativo alla Morfologia è in<br />
preparazione e anche uno studio relativo alla sintassi procede da tempo.<br />
2. Per dominio linguistico sardo-corso si intende quell’insieme di varietà che,<br />
pur presentando differenze talvolta anche significative al loro interno, formano,<br />
comunque, un gruppo coeso sia sul piano tipologico e strutturale sia per la<br />
condivisione di quote significative di lessico patrimoniale e di prestiti, tra cui<br />
un numero imponente di sardismi e, in misura minore ma pur sempre significativa,<br />
ligurismi, catalanismi e spagnolismi. Gli studiosi corsi denominano<br />
queste parlate «corso-sarde» a partire, evidentemente, dalla loro origine corsa<br />
ma anche dalla diversa prospettiva con la quale le osservano. Qui, tuttavia,<br />
anche per tenere conto di una tradizione che è andata consolidandosi negli<br />
ultimi decenni, si è preferito l’aggettivo «sardo-corso» che, se non si distacca<br />
nella sostanza da quello usato in Corsica, prende atto che le parlate in questione,<br />
oltre che essersi radicate in Sardegna fin dal Medioevo, presentano un<br />
numero notevole di fenomeni che ne fanno delle varietà autonome rispetto al<br />
sistema propriamente corso. Non a caso questi stessi idiomi vengono anche<br />
definiti «varietà ponte» tra il sistema sardo e il gruppo toscano-corso. Si tratta<br />
di definizioni sempre perfettibili che, tuttavia, possono contare su confronti in<br />
altri contesti della Romània dove, per esempio, esistono il sistema francoprovenzale<br />
oppure il dialetto franco-normanno.<br />
Il lessico delle parlate alloglotte della Sardegna settentrionale originarie<br />
della Corsica, volendo tener conto soltanto di quello patrimoniale, presenta<br />
notevoli convergenze col lessico corso e, spesso per suo tramite, con quello<br />
4 P. Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1994, pp. 434-435.<br />
Mauro Maxia
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
toscano. D’altra parte, il non volere tener conto di quanto il lessico e le strutture<br />
del sardo abbiano intaccato quelli originari sarebbe fuorviante rispetto<br />
alla situazione che di queste varietà emerge sul piano scientifico. Vi è chi, nel<br />
tentativo di marcare la distanza del gallurese dal sardo, osserva che i galluresi<br />
chiamano gli altri sardi li Saldi ‘i Sardi’. Si tratta di un approccio riduttivo<br />
perché tralascia che, in modo analogo e da parecchi secoli, i galluresi chiamano<br />
li Còssi ‘i Corsi’ gli abitanti della Corsica. Non sono pochi, peraltro, i<br />
toponimi che testimoniano questa inclinazione, specie da parte dei galluresi<br />
corsofoni, 5 di rimarcare la propria specificità sia nei confronti degli altri sardi<br />
sia nei riguardi degli altri corsi. Si prendano ad esempio gli idrotoponimi Riu<br />
di li Saldi ‘Rio dei Sardi’ e Riu di li Còssi ‘Rio dei Corsi’ attestati lungo il<br />
versante orientale del Golfo dell’Asinara. Testimonianze di questo tipo si rinvengono<br />
qua e là in tutta la zona corsofona, per esempio Azza di li Cossi<br />
(Trinità d’Agultu e Vignola), Carrera di li Cossi (centro storico di Sassari),<br />
Cabu Cossu (rioni dei centri storici di Sorso e Sedini), La Conca di li Cossi<br />
(Sant’Antonio Gallura), Maccia di li Cossi (agro di Perfugas), Punta di li<br />
Cossi (Arzachena).<br />
Parole, verbi e costrutti propriamente sardi sono penetrati profondamente<br />
e da lungo tempo nel lessico e nelle strutture del sassarese e del gallurese<br />
sostituendone le forme originarie. In certi casi il livello di questa penetrazione<br />
è tale da compromettere l’intercomprensione tra i parlanti di queste varietà e<br />
quelli propriamente corsofoni. Pochi esempi come abbà ‘irrigare, annacquare’<br />
(corso innaffià, innacquà); agattà ‘trovare’ (corso truvà); chèssa ‘lentisco’<br />
(corso listìncu); gall. chita, cast. sed. chìdda, sass. chédda ‘settimana’ (corso<br />
settimana, simana 6 ); fai∂∂à ‘parlare’ (corso parlà); gall. matrìca, sass. cast.<br />
sed. maddrìgga ‘lievito’ (corso lévitu); sass. muntìggiu, gall. muntìgghju ‘collina’<br />
(corso collina, póghju); sass. póggiu, gall. pògghju, sed. póju ‘pozza<br />
fluviale, fosso pieno d’acqua’ (corso puzzatellu); gall. cast. sed. pulcàvru,<br />
sass. puccàvru ‘cinghiale’ (corso cignàle, signàle, signàri); rìu ‘fiume’ (corso<br />
5 La definizione di galluresi corsofoni non è casuale perché nell’odierna Gallura il numero<br />
dei corsofoni, secondo le stime più favorevoli, raggiunge le 90.000 unità rispetto a una<br />
popolazione di circa 130.000 abitanti; le restanti 40.000 unità, oltre che da una quota di<br />
italofoni, sono rappresentate da sardofoni che risiedono nei comuni di Olbia, Golfo Aranci,<br />
Luras e Budoni e Padru.<br />
6 La forma simana, semana è attestata nel corso dal 1400; cfr. G. PISTARINO, Le carte del monastero<br />
di San Venerio del Tino relative alla Corsica (1080-1500), Torino, Stab. Tip. Miglietta, Milano<br />
& C., 1944, doc. 45.<br />
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fiùm(m)e); capidannu 7 ‘settembre’ (corso sittèmbre); sciuarà ‘sciegliere’ (corso<br />
scéglie, scé∂∂a); gall. cast. sed. suìlcu, sass. suìccu ‘ascella’ (corso ascélla);<br />
ziràccu ‘servo’ (corso sèrvu); lu di dui ‘il secondo’ (corso u sicôndu, segondu 8 );<br />
fattu l’ài? ‘l’hai fatto?’ (corso l’hai fattu?); dìa paltì ‘io partirei’ (corso partarìa)<br />
possono dare un’idea della situazione di compenetrazione prodottasi tra queste<br />
varietà e il sardo logudorese durante un lunghissimo periodo che corrisponde<br />
alla maggior parte del secondo millennio. Mentre il corso presenta tipiche concordanze<br />
con i dialetti dell’Italia mediana, specialmente per gli infiniti della<br />
seconda e terza coniugazione (es. avene,-a ‘avvenire’, risponde,-a ‘rispondere’,<br />
scèglie,-a ‘scegliere’, vende,-a ‘vendere’ ecc.), 9 le parlate sardo-corse di<br />
più antico radicamento presentano una situazione compatta con terminazioni in<br />
-é, -ì. Vi sono dei fenomeni, inoltre, che sono esclusivi di queste varietà e che,<br />
come le uscite in -ési, -ìsi del perfetto, consentono di inquadrare il contesto<br />
storico in cui operarono gli influssi esterni cui si deve la loro insorgenza.<br />
7 A proposito di questa forma e degli altri sardismi làmpata ‘giugno’, aglióla ‘luglio’, santigaìni<br />
‘ottobre’, santandrìa ‘novembre’ e natàli ‘dicembre’ non manca chi, forse nel tentativo di negare<br />
il massiccio influsso esercitato dal logudorese, riesuma pretese forme patrimoniali come<br />
ghjùgnu, lù∂∂u, sittèmbri, ottòbri, nuèmbri e dicembri (cfr. nella rete Internet le voci «Gallurese»<br />
e «Lingua corsa» dell’enciclopiedia mediatica Wikipedia). In realtà, si tratta di forme propriamente<br />
oltremontane quando non di italianismi assai recenti che non sono recepiti da alcun dizionario<br />
né attestati nella pur ricca letteratura gallurese che vanta più di tre secoli (cfr. in Biblioteca<br />
di Studi Sardi, Cagliari, Fondo Sanjust, manoscritto 44: «Poesie galluresi» di Bernardino Pes,<br />
sec. XVIII, f. 22r: Natali ‘dicembre’). Codesti tentativi si devono a militanti che, non tenendo<br />
conto dei dati oggettivi offerti dagli studi, travisano la reale situazione fuorviando talvolta coloro<br />
che si fidano di strumenti di consultazione non sufficientemente controllati. A volte può<br />
capitare che proprio coloro che cercano di negare l’esistenza di un fenomeno riescano, involontariamente,<br />
a dimostrare l’esatto contrario. Per esempio, il lessicografo tempiese Andrea Usai<br />
una trentina d’anni fa diede alle stampe un piccolo vocabolario che, se è utile per la conoscenza<br />
della parlata di Tempio, purtroppo è costellato di errori e di etimologie dilettantesche. Nell’intento<br />
di negare qualsiasi contatto col sardo, egli affermava che il tempiese ha origine dal latino,<br />
dallo spagnolo e dal toscano (cfr. A. USAI, Vocabolario tempiese-italiano italiano-tempiese,<br />
Sassari, 1977, p. 13). Tuttavia a p. 15, parlando dell’accento «fonico», Usai esponeva una pretesa<br />
regola secondo cui in italiano e ed o toniche richiederebbero l’accento acuto in quanto avrebbero<br />
un timbro chiuso. In realtà egli ignorava che non si tratta di una norma fonetica dell’italiano<br />
bensì del gallurese; in effetti, questa norma opera quando nel parlare in italiano i galluresofoni,<br />
benché il loro idioma non conosca la metafonesi, adottano una tipica norma fonetica del sardo (e<br />
di alcune varietà dell’italiano) che, appunto, distingue tra è, é e ò, ó a seconda che queste vocali<br />
toniche siano seguite o meno da una vocale di timbro chiuso.<br />
8 G. PISTARINO, Le carte del monastero di San Venerio del Tino relative alla Corsica cit., doc. 136<br />
(anno 1467).<br />
9 Le uscite dell’infinito in -a hanno interessanti riscontri nelle parlate della Tuscia; cfr. Ronciglione:<br />
lèggia, pènna ‘pendere’, riccòjja, scégna, séda, véda; Caprarola: bbéva, cada, chjèda, còcia,<br />
combatta, confónna, conóscia, contiéna, mantiéna, métta, mógna ‘mungere’, mòva, nàscia,<br />
pèrda, piagna, rida.
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3. All’interno del dominio sardo-corso si possono individuare due aree principali,<br />
che corrispondono, rispettivamente, ai settori nord-ovest e nord-est dell’isola,<br />
nei quali vigono le varietà sassarese e gallurese. Le due aree sono<br />
collegate da una ristretta zona intermedia in cui vigono delle varietà che per<br />
diversi aspetti partecipano ai due sistemi ma che presentano anche dei tratti<br />
specifici. Più in dettaglio, andando da ovest verso est, la zona occidentale<br />
comprende le parlate di Sassari, Porto Torres, Sorso, Stintino e gran parte<br />
della Nurra. Queste parlate formano un dominio che sul piano fonetico presenta<br />
differenze poco significative da un centro all’altro. Nella Nurra e in<br />
alcuni punti dell’area urbana di Sassari il logudorese contende il predominio<br />
al sassarese.<br />
L’area intermedia, che corrisponde alla fascia costiera dell’Anglona e al<br />
retrostante territorio per una profondità di circa dieci-quindici chilometri, presenta<br />
due varietà principali: il castellanese, che è parlato nell’area urbana di<br />
Castelsardo, e il sedinese. Quest’ultimo, oltre che nell’intero territorio del comune<br />
di Sédini, è parlato anche nel comune di Tergu, nelle frazioni Multeddu e<br />
Peddra Sciolta del comune di Castelsardo e nelle frazioni La Muddizza e La<br />
Ciaccia del comune di Valledoria. Le due varietà presentano scostamenti significativi<br />
specialmente nel vocalismo e per alcuni aspetti del consonantismo. Il<br />
vocalismo del castellanese è sostanzialmente allineato con quello sassarese,<br />
mentre quello del sedinese è solidale con quello gallurese. Il consonantismo del<br />
castellanese, a sua volta, concorda col gallurese per pochi fenomeni tra cui il<br />
trattamento dei nessi originari KL, GL. Da parte sua, il consonantismo del sedinese<br />
tende ad allinearsi per molti aspetti con quello del sassarese.<br />
Nella bassa valle del Coghinas la parlata di Codaruina (capoluogo del comune<br />
di Valledoria) rappresenta quasi un trait d’union tra il sedinese e il<br />
gallurese grazie alla convergenza nella stessa località, fondata durante il<br />
Ventennio fascista, di gruppi provenienti dall’area aggese e da quella sedinese<br />
che ripopolarono una località che fino ad allora era interessata soltanto da un<br />
insediamento di tipo sparso.<br />
Nel settore più orientale dell’Anglona, nei comuni di Santa Maria Coghinas<br />
ed Erula e nell’agro del comune sardofono di Perfugas si usano delle varietà<br />
di gallurese.<br />
Il gallurese si parla in un’area relativamente vasta e, precisamente, in tutti i<br />
comuni della Gallura ma tenendo presenti alcune distinzioni. Nel comune di<br />
Luras il capoluogo è un’isola sardofona (varietà logudorese settentrionale),<br />
mentre nell’agro si usa il gallurese. Nel vasto territorio che circonda Olbia si<br />
parla prevalentemente il gallurese. Nello stesso capoluogo da secoli il gallurese<br />
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contende il dominio al logudorese. 10 Oltre che nella città, tuttavia, anche nella<br />
zona di Rudalza, nell’abitato di Golfo Aranci e in un settore della frazione di<br />
Berchiddeddu accanto al gallurese è usato anche il sardo logudorese. D’altro<br />
canto, il gallurese si parla in porzioni più o meno estese dei comuni sardofoni di<br />
Tula, Oschiri, Berchidda, Monti, Padru, Budoni 11 e Torpè.<br />
Nell’arcipelago della Maddalena, da circa due secoli e mezzo vige una varietà<br />
di corso oltremontano influenzata dal ligure, dal gallurese e dall’italiano. Sul piano<br />
storico è proprio questa varietà che può dare un idea precisa, grazie alle molte<br />
divergenze rispetto al contiguo gallurese, di quanto possa essere antico il<br />
radicamento in Sardegna di quest’ultimo e delle altre varietà di origine corsa.<br />
Naturalmente in tutte le zone suddette si deve tener conto di un crescente<br />
numero di italofoni costituito sia da persone giunte dalla Penisola sia da quanti,<br />
specie negli ultimi cinquanta anni, hanno abbandonato l’uso del sardo e delle<br />
stesse parlate di origine corsa.<br />
Il gallurese e il sassarese sono due varietà ben distinte. Tuttavia, per una<br />
serie di fenomeni fonologici, morfologici e per un notevole numero di lessemi<br />
esse presentano situazioni uniformi prive di variazioni significative.<br />
Per alcuni fenomeni il gallurese ingloba il sedinese e il castellanese spingendosi<br />
fino ai confini della Romangia. Il sassarese, a sua volta, per altri aspetti,<br />
giunge ad abbracciare tutto il settore occidentale della Gallura fino ad Aggius,<br />
cioè fino a pochissimi chilometri dal cuore del dominio galluresofono che è<br />
costituito dall’abitato di Tempio.<br />
4. Le questioni di fondo che ruotano attorno a queste varietà sono essenzialmente<br />
due. La prima, relativa alla loro collocazione nel panorama romanzo, ha<br />
costituito occasione per una lunga discussione tra filosardisti (specialmente Gino<br />
Bottiglioni) e filoitalianisti (sopra tutti Max Leopold Wagner). Discussione che<br />
a un certo punto assunse perfino toni polemici. Dopo essere approdata a un<br />
apparente punto fermo con l’attribuzione, da parte del Wagner, del sassarese e<br />
del gallurese al gruppo toscano, essa è ripresa negli anni Settanta con interventi<br />
di A. Sanna, E. Blasco Ferrer, L. Sole, G. Paulis e di chi scrive. Essa, anzi, va<br />
acquisendo nuovo vigore grazie al rinnovato interesse sulle lingue minoritarie e<br />
10 Secondo un sondaggio condotto alcuni anni fa, nel comune di Olbia il gallurese sarebbe parlato<br />
da circa il 46% degli abitanti; cfr. Gallura. Cenni storici e diversità linguistiche, a cura della<br />
Consulta Intercomunale Gallura, Taphros, Olbia, 2003, p. 41.<br />
11 Nel territorio comunale di Budoni il gallurese sarebbe parlato da circa il 60% degli abitanti (ibid.).
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sulle varietà alloglotte ed eteroglotte. In questa sede l’esame in prospettiva<br />
diacronica di alcuni importanti fenomeni del vocalismo e del consonantismo consente<br />
finalmente di incanalare la discussione su parametri e dati oggettivi.<br />
L’altra questione è relativa al periodo in cui il sassarese e il gallurese si<br />
sarebbero formati. Anche qui, il Bottiglioni e il Wagner furono sostenitori di<br />
due tesi contrapposte. Mentre il primo si schierava a favore dell’antichità di<br />
queste varietà, il secondo si faceva assertore di un radicamento che sarebbe<br />
avvenuto a partire dalla fine del Cinquecento e che si sarebbe affermato soltanto<br />
nel Settecento. Quest’ultima posizione può dirsi superata da una serie di dati storici<br />
e linguistici pubblicati in quest’ultimo decennio. Al lato opposto si colloca il<br />
Petkanov che nel gallurese vedeva una fase più antica dell’oltremontano, precedente<br />
al periodo pre-toscano. Ora le posizioni di M. Alinei relative alle origini del<br />
corso paiono alimentare la tesi, cara ad alcuni cultori militanti, che vede il gallurese<br />
procedere addirittura dall’idioma parlato dagli antichi Corsi, già stanziati nella<br />
parte più settentrionale della Sardegna prima della conquista romana.<br />
Si deve ammettere che sul piano storico il gallurese è testimone, per più aspetti,<br />
della fase più remota del sistema corso, ma anche che i suoi rapporti diretti col<br />
toscano durante il basso Medioevo sono evidenti. Vi sono, viceversa, dei problemi<br />
che non consentono, soprattutto per l’assenza di fonti scritte, di accostarsi con sufficiente<br />
sicurezza al lungo periodo che separa l’età tardo-antica dai secoli XI-XII.<br />
Se intorno alla nascita del sassarese su un preesistente fondo sardo logudorese<br />
non sussistono particolari dubbi, 12 una continuità tra gli antichi Corsi attestati<br />
nell’odierna Gallura e la popolazione del regno o giudicato di Gallura non può<br />
essere negata a priori. Il problema, semmai, riguarda la lingua che la popolazione<br />
protocorsa di Sardegna, ormai romanizzata, parlava nell’alto Medioevo. Se,<br />
cioè, la loro lingua potesse essere la stessa in uso nelle restanti aree sardofone<br />
dell’isola e, in particolare, il logudorese, oppure se, a partire da un’idioma originario<br />
diverso da quello delle popolazioni circostanti (Balari, Iliesi), possa<br />
esservi una continuità storica con la varietà che oggi conosciamo col nome di<br />
gallurese. A questo riguardo le attestazioni del sostrato e la documentazione<br />
medioevale presentano un quadro abbastanza uniforme nel quale i toponimi e le<br />
12 Molti toponimi dei territori di Sassari, Porto Torres, Stintino, dell’Asinara, di Castelsardo e<br />
Sedini conservano ancora oggi una veste logudorese; per esempio: (Sassari) Abba Currente,<br />
Abba Méiga, Abeàlzu, S’Abbàdiga, Sa Pedra Bianca, Tottubella; (Porto Torres) Babbànghelu,<br />
Badde Fenuju, Biùnis; (Sorso) Badde Pira, Muros de Maria, Pedras de Fogu, Silis, Tres Montes;<br />
(Castelsardo) Monte Òschiri, Piana Muddéggiu, Salàggiu (ant. Salàjos); (Sedini) Badu de<br />
Sùes, Giannas, Li Algas, Saraghinu, Su Furraghe.<br />
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grafie delle fonti mostrano quasi sempre forme logudoresi o di veste logudorese.<br />
A segnalare l’antica vigenza del logudorese in tutto il territorio della Gallura<br />
sono numerosi toponimi spia, che in parecchi casi furono corsizzati sul piano<br />
fonetico. Per esempio, il toponimo Li Paùlisi di Bortigiadas, con la desinenza<br />
del plurale in -s e la -i epitetica, costituisce un adattamento di una precedente<br />
forma logudorese Sas Paùles. Ancora più chiari sono, nel territorio già sardofono<br />
di Bortigiadas, il caso del toponimo Budas e dell’altro toponimo, attestato a soli<br />
quattro chilometri da Tempio, relativo a una vallata denominata Badde ’e Chélvu,<br />
mentre nell’odierna varietà bortigiadese il toponimo in questione avrebbe dovuto<br />
presentare la forma gallurese Vaddi di Zèlvu. Questa stessa vallata è delimitata<br />
da un’altura, ancora più vicina all’abitato di Tempio, che è denominata<br />
col toponimo logudorese Limpas. Ancora, nell’antico agro di Aggius residuano<br />
forme logudoresi come Puttu Naragu (anziché Puzzu Naragu), Campuesòro<br />
(anziché Campu di l’oru), Enas (anziché Vèni), Muros (anziché Muri). Una<br />
prova eloquente che in precedenza ad Aggius si dovesse parlare il logudorese<br />
proviene dal toponimo Còltis, relativo a un rione del centro abitato, che rappresenta<br />
un adattamento alla fonetica gallurese di una precedente forma log. Còrtes.<br />
Anche in un territorio profondamente corsizzato come quello di Tempio e delle<br />
ex frazioni di Loiri e Porto San Paolo non è difficile reperire attestazioni del<br />
sostrato logudorese come, per esempio, i toponimi Abba Fritta, Achitòra, Badu<br />
Mesina, Brottu, Campanadolzu, Carralzone, Contra Untulzu, Enas, Fulcas,<br />
Ladas, Limbara, Monte Contros, Punta Conca ’e Intro, Punta de su Mandrone,<br />
S’Aghirru o Laghirru, Sasimedda, S’Ispumadolzu, Vena Suelzu e le seguenti<br />
forme già logudoresi poi adattate alla fonetica gallurese: Balisgiòni (adattamento<br />
dell’antico nome Barisone), Canale Oliòni, Chisginagghju, La Pàtima,<br />
L’Aruleddi, L’Ulpilosu, Lu Nalbuneddu, Lu Naracheddu, Lu Naracu (15 volte),<br />
Lu Pàrisi, Lu Patènti, Lu Sambignu, Monti Cuscusgiòni, Montilittu,<br />
Naracacciu, Nuchis, Patru di Làmpata, Pischi, Riu di lu Patènti, Vitazzòna,<br />
Zirichiltàgghja. Nella toponimia di Sant’Antonio di Gallura spiccano diversi<br />
toponimi logudoresi come Abba ’e Caddu, Abba ’Ia, Bulgùra, Concas, Òltana,<br />
Oroséi, Piras oppure adattati alla fonetica gallurese come Li Rùisi (= log. Sos<br />
Rùos), Lu Lutu (anziché gall. Lu Lòzzu), Suldarana (= log. Sos d’Aràna), 13<br />
Tistuinàgliu (= log. Tostoinàlzu). 14 Ora, poiché il territorio comunale di<br />
13 Questo toponimo pare da riferire alla località di Aràna, situata nell’odierno territorio di Santa<br />
Teresa Gallura, e potrebbe essere insorto in relazione a persone provenienti dalla medesima località.<br />
14 Che si tratti di un toponimo logudorese formato da tostòinu o tostoìne ‘testuggine’ si deduce, oltre<br />
che dalla struttura del lessema, anche dal fatto che il nome gallurese della tartaruga è cuppulàta.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
Sant’Antonio si interpone tra l’agro di Olbia e il territorio di Luras, cioè gli<br />
unici due comuni dove ancora si parla il logudorese, appare sensato supporre<br />
che in un passato non molto lontano tra queste residuali zone sardofone non vi<br />
fosse quella soluzione di continuità che si osserva nella situazione odierna. Un<br />
quadro di questo tipo, tra l’altro, spiegherebbe la vicinanza del dialetto di Luras<br />
a quello di Olbia e dell’estinto dialetto di Bortigiadas 15 che rappresentava una<br />
varietà del logudorese comune. 16<br />
La toponimia medioevale della Gallura, come si accennava, si presenta con<br />
forme logudoresi a partire dai nomi degli stessi centri abitati, alcuni dei quali<br />
risalgono al sostrato preromano. In Gallura nel secolo XIV oltre ad Aggius (ant.<br />
Agios), Arzachena, Bortigiadas, Calangianus (oggi log. Calanzanos), Luogosanto,<br />
Luras, Nuchis (Nughes), Telti (ant. Tertis), Tempio, Terranova (oggi Olbia),<br />
Trinità d’Agultu (ant. Lagustu) e Viddalba (ant. Villa Alba) esistevano anche i<br />
centri denominati Abaguana (= log. Abba Cana), Ariàgono (odierno Agliàcana),<br />
Agugari, Arischion, Arista, Assum, Bacor, Campu de Vinyas, Canahin (odierno<br />
Canaìli), Canaran (odierno Caràna), Caresos (odierno Carési), Capichere (odierno<br />
Capichera), Castru, Corache, Corrùera (odierno Currùaru), Cùcur, Dauno,<br />
Gardoso (odierno Caldosu), Gurgurày, Lapaliga, Lapia, Larathanos, Latinacho,<br />
Longosardo (oggi Santa Teresa Gallura), Mela de Assum, Mela de Taras, Monte<br />
Carellu (odierno Monticaréddu), Montevargiu o Alvargios, Nuragi, Offilò<br />
(odierno Ovilò), Offudè (odierno Oviddè), Ortu Muratu, Oruviar, Panana, Pussolu<br />
(odierno Putzolu), Santo Stefano, Scopetu (odierno Scupetu), Siffilionis (odierno<br />
Silonis), Sortinissa, Sullà, Suraghe, Tamarispa, Telargiu, Uranno, Viniola<br />
(odierno Vignola), Villa Maiore, Villa de Verro, Vinya Maiore, Villa Petresa. A<br />
testimoniare la circostanza per cui durante il periodo giudicale il logudorese<br />
doveva essere parlato in tutta la Gallura è, tra altri dati, il nome della curatoria<br />
più settentrionale. Questa antica circoscrizione amministrativa, che oggi corrisponde<br />
per buona parte al territorio di Santa Teresa Gallura, aveva il nome di<br />
Taras, la cui veste fonetica è indiscutibilmente sarda.<br />
15 Del dialetto logudorese che si parlava a Bortigiadas restano delle testimonianze in alcune registrazioni<br />
di canti locali, eseguite nel 1949, che si conservano presso l’Accademia Nazionale di<br />
Santa Cecilia in Roma. Da tali testi risulta che i nessi st, str, sk, sp erano conservati come nel<br />
dialetto di Luras e, più in generale, nel logudorese comune.<br />
16 Il dato è interessante per ipotizzare la situazione linguistica della Gallura nel periodo che precede<br />
la forte corsizzazione realizzatasi tra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’età moderna.<br />
Probabilmente il limite che oggi divide il logudorese di nord-ovest dalla varietà settentrionale di<br />
nord-est – che attualmente separa i territori di Nughedu San Nicolò, Ozieri e Tula da quelli di<br />
Pattada e Oschiri – continuava in direzione del Limbara per interporsi, all’altezza di Tempio e<br />
Aggius, tra i territori di Bortigiadas a ovest e di Luras a est.<br />
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Non mancano, persino nel cuore della Gallura, dei toponimi riferibili al sostrato<br />
preromano, i quali sono confrontabili con altri toponimi attestati nella zona centro-orientale<br />
dell’isola, cioè nella sua area più conservativa dal punto di vista<br />
linguistico. Si tratta di forme come Azzanidò, Loccoli, Lóiri, Oroséi (Sant’Antonio<br />
di Gallura), Salaùna, Sanalvò, Tiriddò, Zarabaddò. Interessanti sono i toponimi<br />
formati dal fitonimo tòva ‘vetrice’ (Salix viminalis L.) che vanno col nuorese thòba,<br />
thòga, thòa, col logudorese tòa e il campidanese tzòa, sciòva, tutte varianti attribuite<br />
al sostrato paleosardo. 17 La variante gallurese tòva è attestata anche nella<br />
Corsica sudorientale, dove denomina una grande foresta, e pare rappresentare una<br />
testimonianza da riferire alla lingua che prima del dominio romano si parlava in<br />
Sardegna e nella Corsica meridionale. D’altra parte, la tesi che prevede la<br />
corsizzazione della Gallura a partire dal Medioevo può contare su altri riscontri di<br />
grande evidenza come la persistenza, proprio al centro della Gallura, del centro<br />
sardofono di Luras la cui fonologia testimonia gli ininterrotti rapporti che essa<br />
intrattenne sia con le estinte varietà logudoresi dei centri vicini sia con le parlate<br />
che tuttora vigono ai margini della Gallura corsofona e, in particolare, quella già<br />
citata di Olbia e quelle di Monti, Berchidda e Oschiri.<br />
Una conseguenza notevole della plurisecolare interazione tra sardo e corso<br />
è costituita dall’insorgenza, avvenuta in certi casi già durante il Medioevo, di<br />
una serie di varianti di veste corsa rispetto alle antiche forme logudoresi. Sia<br />
sufficiente osservare i seguenti esempi: gall. Àgghju = Aggius (log. Azos); gall.<br />
Bilchìdda = Berchidda; gall. Bultigghjàta = Bortigiadas; sass. Cagliègga =<br />
Cargeghe; gall. Caragnàni, cast. Caragnànu = Calangianus (log. Calanzanos);<br />
sass. gall. Ciaramònti = Chiaramonti (log. Tzaramonte); Cugnàna (log.<br />
Conzanos); gall. Cuzìna, Cucìna = Coghinas; gall. Laìrru = Laerru; gall. Lùris<br />
= Luras; gall. sed. Màlti = Martis; gall. Nùchis (log. Nughes); gall. Nùaru =<br />
Nùoro; gall. Pèlfica, Pèlfuca, sed. Pèlfiga, cast. sass. Pèifigga = Perfugas; gall.<br />
Òscari = Oschiri; sed. Ósili 18 = Osilo; sed. Séddini, gall. Sétini = Sedini (log.<br />
Sédine, ant. Setin); gall. Tarranóa = Terranova = Olbia (log. Terranòa); gall.<br />
Usgìdda = Osidda; sass. Ùsini (log.ant. Usune, Usine); gall. Uziéri = Ozieri<br />
(log. Otiéri); sed.cast. Zélgu = Tergu. La casistica, che comprende parecchi altri<br />
toponimi relativi a località e insediamenti minori, dimostra che talvolta le forme<br />
corsofone hanno sostituito quelle logudoresi.<br />
17 DES = M. L. WAGNER, Dizionario Etimologico Sardo, I-II, Heidelberg, Francke, 1960-62;<br />
vol. II, p. 551.<br />
18 Archivio Parrocchiale di Sedini, Quinque Libri di Speluncas, 1645: «Dominica de Serra naturale<br />
de Osili».
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
Un dato omogeneo che accomuna la Gallura alla Corsica meridionale è<br />
rappresentato dalle attestazioni del suffisso -èna. 19 Nella toponimia<br />
oltremontana spiccano i toponimi Altagène, Aullène, Bisène, Bisugène, Lupèna,<br />
Quinzèna, Sartène, Sicchène, Scupamèna. Queste forme mostrano, forse a<br />
causa dell’influsso ligure, una forte tendenza all’apocope della sillaba finale;<br />
pertanto si hanno forme popolari che corrispondono ad Altaghjè, Au∂∂è, Bisè,<br />
Bisughjè, Sartè, Sicchè. In quest’ultimo caso la forma apocopata ha<br />
definitivamente soppiantato quella originaria, la quale è documentata nell’antico<br />
cognome Sighè, Sequeno che è attestato proprio in Sardegna tra il Cinquecento<br />
e l’Ottocento. 20 La Gallura, a sua volta, presenta i toponimi Aratèna,<br />
Arzachèna, Bassacutèna, Biddichèna, Curichèna, Maghjuchèna, Pisighèna,<br />
Tuttusèna nei quali, al contrario dell’oltremontano, il suffisso -èna si mantiene<br />
saldamente. Non è ancora chiaro se alla base di questi toponimi siano,<br />
almeno in qualche caso, degli antroponimi cui si affigge il suffisso -èna. 21<br />
Questo aspetto sembrerebbe più chiaro nel caso del toponimo Austèna di<br />
Luogosanto, che corrisponde al regolare sviluppo di *Augustenus, variante<br />
della forma prediale Augustanus 22 del noto antroponimo Augustus. Alcuni<br />
attribuiscono il suffisso in questione a un filone retico-etruscoide. 23 Altri lo<br />
19 Qualche dubbio vi è se comprendere nella serie anche il toponimo Alcàzzena di Sant’Antonio di<br />
Gallura.<br />
20 La forma Sequeno è attestata a Sassari da documenti dell’Archivio Vescovile di Sassari relativi<br />
alla prima metà del Cinquecento (M. MAXIA, I Corsi in Sardegna, Cagliari, Edizioni Della<br />
Torre, 2006, p. 103); la variante Siguè è documentata negli atti del catasto urbano ottocentesco<br />
relativi all’abitato di Tempio.<br />
21 Tra le forme corse sarebbe compatibile con questo quadro il toponimo Aullène che può rappresentare<br />
una variante femminile dell’antico antroponimo Aulenus che va con le forme Aulus e<br />
Aullus (cfr. H. SOLIN et O. SALOMIES curaverunt, Repertorium nominum gentilium et cognominum<br />
Latinorum, in Alpha-Omega, Reihe A, Lexica – Indizes – Konkordanzen zur klassischen<br />
Philologie, LXXX, Hildscheim-Zurich-New York, Olms-Weidmann, 1988, pp. 28, 298); il<br />
toponimo Bisène appare coerente con l’antroponimo Bisenus (ivi, p. 35); il toponimo Lupèna<br />
va con le forme antiche Lupo, Luppo e Lupus (ivi, p. 335); il toponimo Quinzena può rappresentare<br />
un regolare sviluppo dell’antroponimo Quintienus (ivi, p. 153) di cui costituirebbe una<br />
variante femminile; la forma Sicchène può risalire agli antichi antroponimi Sic(c)a, Siccus e<br />
Siquanus (ivi, pp. 403-404); riguardo a Sartèna una base antroponimica si può dedurre attraverso<br />
il confronto col toponimo prediale toscano Sarteano. Tra le forme galluresi il toponimo<br />
Biddichèna può risalire all’antico antroponimo Bellicus (ivi, p. 33); anche il toponimo Curichèna<br />
può avere alla base l’antroponimo Coricius (ivi, p. 61) così come Tuttusèna potrebbe essere<br />
formato dall’antroponimo Tutus (ivi, p. 415).<br />
22 Cfr. H. SOLIN et O. SALOMIES, Repertorium cit., p. 298.<br />
23 G.B. PELLEGRINI, Contributo allo studio della romanizzazione della provicia di Belluno, Padova,<br />
1949, pp. 64-65; C. BATTISTI, Toponomastica feltrina preromana e sostrati prelatini del<br />
Veneto, in Sostrati e parastrati nell’Italia preistorica, Firenze, 1959, pp. 171-218.<br />
43
44<br />
Mauro Maxia<br />
considerano un suffisso tirrenico o paleosardo da confrontare con l’etrusco e<br />
l’anatolico. 24 Altri lo confrontano con forme toponimiche in -ènna documentate<br />
nell’Africa settentrionale. 25 In ogni caso, parecchi toponimi desinenti<br />
in -èna sono attestati nella penisola italiana con maggiori frequenze nella Toscana<br />
orientale, in Umbria, nell’Emilia-Romagna, nel Veneto e nella fascia<br />
prealpina della Lombardia ma con una discreta diffusione anche in Abruzzo e<br />
nel Molise. 26<br />
Se la zona in cui sono attestati i citati toponimi galluresi in -èna corrispondesse<br />
a quella in cui erano stanziati gli antichi Corsi, se ne potrebbero ipotizzare,<br />
almeno a grandi linee, le relative sedi galluresi. Sedi che, qualora la supposizione<br />
risultasse fondata, andrebbero situate nel settore che corrisponde grossomodo<br />
alla metà orientale della Gallura. Nelle fonti medioevali relative a questa<br />
regione, nelle quali sono attestate decine di toponimi, l’unica forma suffissante<br />
in -èna è Arsequen (Arzachena) che è attestata verso la metà del Trecento. 27<br />
Questa grafia con -n, peraltro, appare in linea con una serie di toponimi preromani<br />
attestati nel resto dell’isola come Bioseuin, Carbian (oggi Càlvia), Consedin<br />
(oggi Cossoine), Erisschion, Girafan, Lerron, Moccon, Oiun, Segadon, Semeston<br />
(oggi Semestene), Sugugin, Sustan, Urgen, Urin e altri 28 .<br />
A marcare una discontinuità storica intervenuta tra il Pomonte corso e la<br />
Gallura è un’altra forma, stavolta propriamente sarda, cioè il termine log. nuraghe<br />
che con le sue numerose varianti denomina l’edificio a forma di torre che caratterizza<br />
tuttora il paesaggio della Sardegna. Costruzioni del tutto simili ai nuraghi<br />
si trovano anche nella Corsica meridionale, cioè nel territorio che anticamente<br />
doveva essere occupato da quei Corsi che risiedevano anche in Gallura. Ma,<br />
mentre il gallurese, il sassarese e le altre varietà sardo-corse presentano delle<br />
forme adattate del vocabolo sardo (gallurese naràcu, naràgu; sedinese runàghi;<br />
sassarese nuràghi, nuràgu), il corso, compreso l’oltremontano dell’estremo sud,<br />
24 M. PITTAU, I nomi di paesi fiumi monti e regioni della Sardegna, Cagliari, Gasperini Editore,<br />
1997, p. 26 e passim.<br />
25 B. TERRACINI, Osservazioni sugli strati più antichi della toponomastica sarda, «Atti del Convegno<br />
archeologico sardo (1926)», Reggio Emilia, 1929, pp. 129-130.<br />
26 Tra la Ciociaria, la Marsica e il Sannio settentrionale sono attestati i toponimi Alfedena, Fallena,<br />
Ofena, Palena e Valdena.<br />
27 P. SELLA (a cura di), Rationes Decimarum Italiae. Sardinia, Città del Vaticano, 1945, nn. 725,<br />
1091, 1254, 2006, 2271, 2754; il toponimo è attestato cinque volte con la grafia Arsequen e una<br />
volta con la variante epitetica Arsequene che va con i toponimi corsi suffissanti in -ène.<br />
28 G. PAULIS, I nomi di luogo della Sardegna, I, Roma, Delfino Editore, 1987, pp. 453-456; cfr.<br />
anche Cossoìne (ant. Consedin), Curin, Itin, Sédini (ant. Setin), Sévin, in B. TERRACINI, Osservazioni<br />
sugli strati più antichi della toponomastica sarda cit., p. 129.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
non ha un nome preromano per queste costruzioni preistoriche, le quali sono<br />
designate col termine romanzo tòrra, tòra, tùrri, tùri ‘torre’. La civiltà protocorsa<br />
coeva di quella protosarda, che gli archeologi definiscono «civiltà nuragica», in<br />
Corsica prende il nome di «cultura torreana». A seguire queste definizioni sembrerebbe<br />
che a costruire le torri corse non sia stato lo stesso popolo che costruì<br />
le torri sarde e galluresi.<br />
Insomma, sono parecchi gli elementi convergenti che lasciano ritenere che<br />
gli antichi Corsi 29 stanziati sulle opposte sponde del Fretum Gallicum non fossero<br />
altro che una delle popolazioni che, insieme ai Balari, agli Iliesi, ai Galillesi<br />
e ad altri gruppi, costituivano la macroetnia che le fonti classiche ricordano con<br />
l’etnico Sardi. Non a caso Tolomeo li elencava tra le popolazioni propriamente<br />
sarde 30 e Plinio il Vecchio citava i Corsi insieme ai Bàlari e agli Iliensi tra le<br />
popolazioni più note della Sardegna, 31 mentre il Corpus Inscriptionum<br />
Latinarum 32 (C.I.L.) ritrae la presenza dei Corsi in Sardegna anche sotto il profilo<br />
militare. 33 Anche l’onomastica antica, grazie a due epigrafi ritrovate nei<br />
pressi di Telti, fornisce le prove della presenza in Gallura degli antichi Corsi<br />
attraverso due personaggi aventi Cursius 34 ‘Corso’ come prenome. E, per quanto<br />
riguarda la componente ligure della coorte gemina di Liguri e Corsi stanziata<br />
in Sardegna durante il I secolo d.C., 35 non può escludersi che il nome del soldato<br />
Tunila, figlio di un Caresio, da cui pare essere insorto il toponimo gallurese Carési<br />
(ant. Caresos), sia da attribuire all’elemento ligure qualora la sua pronuncia fosse<br />
proparossitona [tunila]. Indizi in questa direzione provengono dalla toponimia<br />
gallurese, in cui sono attestate forme proparossitone in ´-ula come Vìgnula (nome<br />
29 PAUSANIA, Helládos Periéghesis, X, 17, p. 8 segg.; ZONARA VIII, 18; Fasti Triumphales Capitolini,<br />
in Inscriptiones Italiae XIII, 1; P. MELONI, Sei anni di lotte di Sardi e Corsi contro i romani<br />
(236-231 a.C.), in «Studi Sardi», IX, 1949, p. 121 segg.<br />
30 C. TOLOMEO, Geographia, III, 3, 6.<br />
31 PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, III, 7, 85.<br />
32 Th. MOMMSEN, CIL = Corpus inscriptionum latinarum, Berlino, 1862 segg.<br />
33 CIL X 2954; CIL X 7883 = XVI, 34; CIL X 7890 = XVI, 40. Queste fonti epigrafiche non<br />
chiariscono se si tratti di Corsi originari della Corsica oppure di quelli stanziati in Gallura. Il<br />
fatto che fra le tre coorti ve ne fosse una composta di Sardi, pare conferire maggiore probabilità<br />
alla seconda ipotesi ma non esclude la prima. Una delle due coorti gemine dislocate in Sardegna<br />
era composta da Corsi e Liguri.<br />
34 Si tratta, rispettivamente, di Pertius Cursi filius (EE VIII 737) e di Cursius Costini filius (CIL X<br />
7981); quest’ultima forma può essere confrontata col toponimo còrso Còstini relativo a un<br />
villaggio situato nel comune di Riventosa.<br />
35 Interessante è il ritrovamento presso Olbia di un’iscrizione funeraria relativa a un decurione<br />
della coorte di Liguri equitata, vissuto al tempo di Nerone; cf. Giovanna SOTGIU, Iscrizioni<br />
latine della Sardegna, Padova, Cedam, 1961, I, 313.<br />
45
46<br />
Mauro Maxia<br />
di un’altura che separa i territori di Santa Maria Coghinas e Sedini), che si oppone<br />
a Vignóla, sviluppo regolare del toponimo Viniola riferito dalle fonti. Notevole è<br />
anche l’attestazione di una Valeria Nispeni, il cui cognome, forse paleosardo,<br />
dimostrerebbe la coesistenza nell’area di Olbia di forme antroponimiche protocorse<br />
con altre propriamente protosarde. 36 Si tratterebbe, appunto, di un indizio a favore<br />
dell’identità o affinità delle due etnie.<br />
L’unica parola protocorsa ricordata dalle fonti classiche è il nome dei Bàlari,<br />
antica popolazione stanziata tra l’Anglona e il Monteacuto. Secondo gli antichi<br />
Corsi essi si chiamavano così perché il loro nome significava ‘esuli, fuggiaschi’<br />
e ‘disertori’, in quanto avrebbero abbandonato l’esercito cartaginese di cui sarebbero<br />
stati mercenari. 37 Questa testimonianza, tramandata dal geografo greco<br />
Pausania, potrebbe rappresentare una paretimologia, dal momento che il<br />
toponimo Pérfugas (lat. pérfŭgas), relativo a un villaggio dell’Anglona confinante<br />
con la Gallura, traduce alla perfezione l’etnico bàlar(i). 38<br />
5. Al problema della continuità tra gli antichi Corsi e il popolamento della<br />
Gallura in epoca medioevale si aggiunge una serie di indizi relativi a un’antica<br />
presenza ligure. A questo elemento potrebbe risalire il toponimo Lùras,<br />
relativo al citato villaggio sardofono situato nel cuore della Gallura montana<br />
(in gallurese Lùris). 39 Questo toponimo può essere confrontato con la forma<br />
ligure Luras ricordata nella Tavola di Veleia, 40 per la quale non va escluso che<br />
si trattasse di un etnico. 41 Su questo aspetto appare interessante la denominazione<br />
del villaggio di Luri, situato nel Capo Corso, che la tradizione dell’isola<br />
minore distingue con la forma Luri di Corsica 42 dalla Luris di Gallura. Le deno-<br />
36 Su queste attestazioni epigrafiche cfr. A. MASTINO, Olbia in età antica, Atti del Convegno Internazionale<br />
di Studi Da Olbìa ad Olbia. 2500 anni di storia di una città mediterranea, Sassari,<br />
Chiarella, 1993, vol. I, p. 63; L. GASPERINI, Olbiensia epigraphica, Da Olbìa ad Olbia cit., p.<br />
311 segg. con bibliografia.<br />
37 PAUSANIA cit., X, 17, 9.<br />
38 M. PITTAU, I nomi di paesi cit., p. 159.<br />
39 Cfr. D. PANEDDA, A proposito di due nomi geografici galluresi, Luras e Celsaria, in «Archivio<br />
Storico Sardo di Sassari», X, 1984, pp. 336-345; M. PITTAU, I nomi di paesi cit., p. 108.<br />
40 CIL XI, 1147.<br />
41 Cfr. R. OLIVIERI, Gli etnici liguri delle fonti classiche, in «Bollettino dell’Atlante Linguistico<br />
Italiano», III, Dispensa n. 11-16, 1987-1992, Torino 1993, p. 48.<br />
42 F.D. FALCUCCI, Vocabolario dei dialetti, geografia e costumi della Corsica, opera postuma<br />
riordinata e pubblicata di su le schede ed altri mss. dell’Autore a cura di Pier Enea Guarnerio,<br />
Aldo Forni Editore, Cagliari 1915; ristampa anastatica Sala Bolognese, p. 222.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
minazioni di questi due centri vanno confrontate anche con l’altro toponimo<br />
corso Lura, relativo a una località del comune di Cargese. Sull’affinità linguistica<br />
tra Liguri e Corsi si era espresso lo stesso Seneca, 43 che della realtà corsa<br />
aveva maturato una diretta conoscenza durante il suo esilio in quell’isola. Ora il<br />
ritrovamento a Sorgono di un diploma dell’88 d.C. 44 e di un altro a Dorgali del<br />
96 d.C., 45 mentre attesta la dislocazione di una coorte di Liguri nel centro dell’isola,<br />
rende possibile anche un confronto dei toponimi sardi Orotelli, relativo<br />
all’omonimo villaggio e a una località di Urzulei, e Oradelli (localizzato<br />
nell’Oristanese da Giovanni Francesco Fara) 46 con l’etnico ligure Oratelli 47<br />
ricordato anche da Plinio il Vecchio. 48 Questo etnico spettava a una tribù un<br />
tempo stanziata nell’entroterra della Riviera di Ponente. 49<br />
A una presenza celto-ligure potrebbe risalire il toponimo Monte Alma, relativo<br />
a due distinte alture situate nei territori comunali di Nulvi e Sorso, in cui si<br />
osservano dei caratteri geomorfici confrontabili con quelli di altre località denominate<br />
dalla voce ligure (b)alma, (b)arma ‘riparo sotto roccia, cavità, grotta’ e<br />
‘grotta artificiale chiusa con un muro’. 50 All’elemento celtico, forse veicolato dagli<br />
stessi liguri documentati in Sardegna, potrebbero risalire i toponimi Luguidunec<br />
(= Castro, Oschiri) e Portus Luguidonis dell’Itinerario Antoniniano. Quest’ultimo<br />
sembra alla base del toponimo Budoni, 51 la cui pronuncia locale Budùne corrobora<br />
la congruenza grafica delle due forme. La loro origine andrà ulteriormente<br />
approfondita e, in ogni caso, si tratta di dati frammentari da utilizzare con prudenza.<br />
La documentazione disponibile non è ancora sufficiente per affrontare un discorso<br />
organico sull’antroponimia protocorsa in Sardegna né a verificare se esista<br />
una continuità tra l’antica popolazione dei Corsi e le prime attestazioni dell’etnico<br />
Corsu nelle fonti sarde dell’XI secolo. La cesura delle fonti relative all’alto Medioevo<br />
rappresenta, almeno finora, un serio ostacolo in tale direzione.<br />
43 SENECA, Ad Heluiam matrem, VII, 9.<br />
44 CIL X, 7883 = XVI, 34.<br />
45 CIL X, 7890 = XVI, 40.<br />
46 E. CADONI (a cura), Ioannis Francisci Farae Opera, Sassari, Gallizzi, 1992, vol. I, p. 136.15.<br />
47 CIL V, 7817.<br />
48 PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, III, 20.<br />
49 La coerenza del suffisso -elli con l’antico territorio ligure fu intravista dal Terracini, in Osservazioni<br />
sugli strati più antichi della toponomastica sarda cit., p. 131.<br />
50 La voce balma è diffusa in una vasta area che va dalla Catalogna alla Germania passando per la<br />
Francia e la Svizzera; in Italia cfr. i toponimi Arma di Taggia, Vallone delle Arme, Armella (2),<br />
Armetta, ant. Almablanca, Barma d’u Besagnìn (Imperia), Balma e Balmuccia (Vercelli), Balme<br />
(Torino), Barme (Aosta) e Monte d’Alma, Fosso d’Alma, Pian d’Alma (Grosseto).<br />
51 M. PITTAU, I nomi di paesi cit., pp. 49-50.<br />
47
48<br />
Mauro Maxia<br />
Alla luce delle questioni cui si è accennato, anche se la tesi che postula una<br />
continuità tra il gallurese e l’idioma degli antichi Corsi di Sardegna non può essere<br />
scartata in modo aprioristico, si deve ammettere che essa non può contare su<br />
dati oggettivi che possano corroborarla. I dati di cui si dispone sul piano linguistico<br />
consentono di ipotizzare che i discendenti della popolazione protocorsa della<br />
Gallura, nel periodo compreso tra l’alto Medioevo e i primi secoli del basso Medioevo,<br />
dovessero parlare una varietà simile all’antico logudorese. Il lascito più<br />
evidente sarebbe costituito dalla condivisione di alcuni fenomeni fonetici da parte<br />
del gallurese e dell’oltremontano, da un lato, e dal sardo antico e dall’odierno<br />
nuorese-bittese, dall’altro. Il periodo del radicamento del gallurese e, per più aspetti,<br />
anche del sassarese andrebbe collocato tra il Cento e gli inizi del Trecento. Sul<br />
piano propriamente storico questo assunto comporta un quadro che già durante<br />
l’età giudicale vede delle comunità corsofone stanziate accanto all’elemento autoctono.<br />
52 In alcune località più importanti a queste due componenti si affiancava,<br />
a seconda della congiuntura storica, anche una comunità pisana (Sassari, Orosei,<br />
Iglesias) o ligure (Castelsardo, Alghero e ancora Sassari) o della Lunigiana (Osilo,<br />
Bosa). In questa fase i nuclei corsofoni, probabilmente minoritari rispetto alla<br />
complessiva massa costituita dai sardofoni e da altre componenti linguistiche,<br />
acquisirono gran parte dei sardismi lessicali e fonetici che oggi si possono osservare<br />
nelle varietà sardo-corse. È durante tale periodo, che si protrae fino alla<br />
seconda metà del Trecento e agli inizi del Quattrocento, che il gallurese e il sassarese<br />
acquisiscono la maggior parte dei loro tratti tipici. Si deve a queste motivazioni,<br />
in buona sostanza, se questi idiomi non hanno risentito, se non in misura marginale,<br />
dei successivi apporti giunti dalla Corsica tra il Sei e il Settecento. A confermare<br />
questo quadro storico sono le ondate migratorie che, durante il basso Medioevo<br />
e fino agli inizi dell’età moderna, si dirigono dalla Corsica non solo alla volta<br />
della Sardegna ma verso le regioni dell’Italia centrale e altrove. 53<br />
52 Tracce documentarie di comunità corse si trovano nei condaghes, cfr. Il Condaghe di S. Maria<br />
di Bonarcado, a cura di Maurizio VIRDIS, Centro Studi Filologici Sardi, CUEC, Cagliari, 2002,<br />
schede 5,2 e 211,2: «una terra in Istakesos tenendo a sos de Corsiga» ‘una tratto di terra (nella<br />
località) di Istakesos confinante con quelli di Corsica’.<br />
53 G. PISTARINO, Una colonia corsa a Campiglia Marittima nel Quattrocento, Livorno, Stabilimento<br />
Poligrafico Toscano, 1940; G. PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, Istituto Storico<br />
per il Medioevo, coll. «Studi Storici», 1976, pp. 135-166; J.A. CANCELLIERI, Emigrer pour<br />
servir: la domesticité des femmes corses en Italie comme rapport de dépendence insulaire<br />
(1250-1350 environ), in M. BALARD, A. DUCELLIER (sous la direction de), Coloniser au Moyen<br />
Age, Parigi, A. Colin, 1995. Nel contesto della toponimia urbana di Orvieto spicca il Quartiere<br />
di Corsica. Toponimi analoghi sono attestati anche in altri centri umbri e laziali. Per questi ed<br />
altri aspetti si rimanda a M. MAXIA, I Corsi in Sardegna cit.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
A favore dell’ipotesi che il gallurese odierno sia giunto in Sardegna dalla<br />
Corsica meridionale in epoca medioevale milita anche il fatto che esso presenta<br />
moltissimi sardismi a lato dei quali, in alcuni casi, si conservano le corrispondenti<br />
forme patrimoniali corse. La struttura di alcuni di questi sardismi<br />
dimostra che essi furono acquisiti dalle varietà corse prima del Cinquecento.<br />
Questo aspetto presuppone una fase in cui l’oltremontano, una volta trapiantato<br />
in Gallura, dovette conoscere un lungo periodo di acclimatamento a fianco<br />
del logudorese.<br />
I dati che emergono dalla ricerca permettono di affermare che la base del<br />
gallurese ha i più convincenti confronti, piuttosto che col dialetto di Sartene, 54<br />
col rucchisgianu, cioè con la parlata dell’Alta Rocca, che rappresenta la varietà<br />
più conservativa dei dialetti corsi. Soltanto il rucchisgianu condivide col gallurese<br />
tutta una serie di fenomeni caratterizzanti come la conservazione di I <br />
e U * origi-<br />
narie; il mantenimento di K, P, T intervocaliche; l’uscita unica del pronome personale<br />
i∂∂i ‘essi, esse’; lo sviluppo cacuminale sia per LL che per LJ (fi∂∂ólu<br />
‘figliolo’, pi∂∂à ‘pigliare’, vó∂∂u ‘voglio’); le uscite dell’imperfetto indicativo<br />
in -à(v)ami, -à(v)ati, -à(v)ani e altre importanti particolarità. Sono questi dati a<br />
lasciare ritenere che i primi colonizzatori corsofoni siano giunti in Gallura –<br />
forse già prima della conquista genovese della Corsica e della fondazione della<br />
colonia di Bonifacio – dalla regione montana e pastorale del Tallano e da comunità<br />
come quelle di Carghjaca, Loretu, Mela, Zoza, Auddè, Quenza, Scupamena,<br />
Surbuddà, Càrbini, Livìa e Zonza. Comunità corse che per secoli, quasi fino ad<br />
oggi, hanno condiviso con le comunità corsofone della Gallura l’antica tradizione<br />
della transumanza dai villaggi montani alle pianure costiere e viceversa.<br />
6. «Nessuna regione italiana ha avuto una storia linguistica unitaria» e «nessuna<br />
storia regionale può fare a meno delle esperienze linguistiche del suo territorio». 55<br />
Queste considerazioni, che nulla tolgono all’originalità della situazione sarda,<br />
valgono tuttavia anche per la Sardegna proprio e soprattutto a causa della presenza<br />
nella sua parte settentrionale delle parlate giunte dalla Corsica.<br />
Alle varietà sardo-corse, in generale, è stata dedicata un’attenzione minore<br />
rispetto a quella riservata al sardo che, per via delle sue strutture e del suo<br />
54 È questa la tesi cara al Wagner; cfr. M.L. WAGNER, La lingua sarda. Storia spirito e forma, a<br />
cura di Giulio Paulis, Nuoro, 1997, p. 345.<br />
55 B. DEVOTO – G. GIACOMELLI, I dialetti delle regioni d’Italia, Firenze, Bompiani, 1972, Introdu-<br />
zione, VI.<br />
49
50<br />
Mauro Maxia<br />
lessico particolarmente conservativi, ha sempre attratto gli studiosi interessati a<br />
descrivere le fasi del trapasso del latino verso il romanzo. Comunque gli studi<br />
relativi alle varietà in questione, anche se la penuria di fonti scritte non li ha sicuramente<br />
incoraggiati, non sono mancati affatto. Si deve ricordare la fase pre-scientifica<br />
durante la quale i contributi più interessanti provengono, a partire dalla<br />
seconda metà del Settecento, dal naturalista Francesco Cetti, da Giuseppe Cossu,<br />
dal padre Tomaso Napoli, da Vittorio Angius, dal canonico ploaghese Giovanni<br />
Spano, da Enrico Costa, dal principe Luciano L. Bonaparte, da O. von Reinsberg<br />
Düringsfeld e dal barone di Maltzan. In quel periodo i più consideravano le varietà<br />
sardo-corse un tutt’uno, definendole ora «sardo settentrionale» ora «gallurese».<br />
L’argomento, insomma, attirava e appassionava gli eruditi già quasi due secoli e<br />
mezzo or sono. Una tradizione, questa, che non si è mai spenta e che, anzi, negli<br />
ultimi decenni ha attratto una schiera di cultori anche validi tra i quali si ricordano<br />
soprattutto alcuni lessicografi. 56 Questi studi partivano, in generale, da approcci<br />
che hanno privilegiato gli aspetti sincronici che, pur essendo molto importanti,<br />
offrono una rappresentazione parziale della complessiva situazione. I pur rari<br />
materiali documentari, spesso costituiti da interferenze, non hanno formato oggetto<br />
di indagine. Tuttavia la conoscenza delle fonti scritte, specialmente da un<br />
punto di vista filologico, rappresenta un aspetto irrinunciabile.<br />
La conseguenza di questa situazione è che gli approcci multiformi e diversificati<br />
non hanno portato a risultati unanimemente accettati. Vi è chi considera il<br />
sassarese come il risultato della coesistenza, durante il periodo giudicale (sec.<br />
XI – metà sec. XIII), dell’antico toscano col sardo logudorese. Nessun dubbio<br />
può esservi, in realtà, sul fatto che il sassarese, come il gallurese, condivida col<br />
corso buona parte della morfologia e molti fenomeni fonetici, oltre che non<br />
pochi fatti sintattici e una quota rilevante del lessico patrimoniale. È vero che<br />
per il gallurese, in relazione alla condivisione di un certo numero di fatti<br />
56 Si tratta di L. Gana, A. Usai, M. Sardo, P. Ciboddo, F. Rosso e S. Brandanu per il gallurese e G.<br />
Muzzo, V. Lanza, S.D. Sassu e G.P. Bazzoni per il sassarese. A. Rubattu nel suo lessico generale<br />
si è interessato sia del gallurese che del sassarese. Su un piano lessicografico si colloca anche un<br />
lavoro di F. Mameli mentre alcuni contributi sulla grammatica del gallurese sono giunti da F.<br />
Corda. Di recente ai rapporti tra il lessico sassarese con quello spagnolo e catalano è stato<br />
dedicato un saggio di C. Melis. Il dialetto maddalenino è stato oggetto degli studi di R. Demartino<br />
che gli ha dedicato una grammatica e un lessico. Sul piano specialistico la questione relativa ai<br />
caratteri e alla collocazione delle varietà sardo-corse è stata affrontata da P.E. Guarnerio, M.G.<br />
Bartoli, M.L. Wagner, I.G. Ascoli, G. Campus, G. Bottiglioni, I.A. Petkanov, Ch. Gartmann, A.<br />
Sanna. Contributi più recenti si devono a E. Blasco Ferrer, C. Colombo, J.Ph. e M.-J. Dalbera<br />
Stefanaggi, L. Sole, G. Paulis e a chi scrive (per la relativa bibliografia si rimanda alla Fonetica<br />
storica del sardo-corso di prossima pubblicazione).
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
morfologici, un’ascendenza al toscano antico potrebbe essere sostenuta anche<br />
senza la mediazione del corso. Questo fatto risulterà più chiaro nella Morfologia.<br />
Ma il tentativo di sostenere un’origine diretta della parlata sassarese dal pisano<br />
antico andrebbe incontro a qualche difficoltà.<br />
In effetti le varietà sardo-corse condividono col toscano antico alcuni fatti<br />
notevoli tra i quali le forme dell’articolo (gall. lu, la, li ≠ tosc. antico lo, la, li,<br />
le) e le preposizioni non articolate (es. in lu, in la, in li ‘nel, nella, negli, nelle’<br />
≠ tosc. antico in lo, in la, in li, in le). Questo aspetto interessa anche talune<br />
forme della flessione verbale, specialmente relative all’imperfetto indicativo,<br />
e altri fenomeni che talvolta soltanto la toponimia riesce a rivelare grazie alla<br />
sua capacità di cristallizzare forme cadute in disuso da molto tempo. Tuttavia,<br />
si deve tenere presente che anche il corso antico presentava l’articolo in forme<br />
che corrispondono a quelle dell’odierno gallurese e che, forse a causa del<br />
forte influsso ligure, furono abbandonate a favore delle forme odierne u, a, e,<br />
i a partire dal Cinquecento. Spie di questo processo storico si rilevano anche<br />
nei materiali antroponimici della città di Sassari. Per esempio, tra i cresimati<br />
della parrocchia di San Donato nel 1555 è attestato un tale Luca Dauloro, il<br />
cui cognome rappresenta la concrezione del nesso di origine toponimica da u<br />
Loro, 57 relativo a un toponimo corso, nel quale l’antico articolo lu è passato a<br />
u. Testimonianze di questo tipo sono utili per inquadrare il periodo entro il<br />
quale le varietà di origine corsa si radicarono stabilmente in Sardegna. Ebbene,<br />
se queste ultime hanno conservato le antiche forme dell’articolo<br />
determinativo mentre il corso le ha perdute a partire dal Cinquecento, se ne<br />
può dedurre che le varietà in questione dovevano essere presenti nella parte<br />
settentrionale della Sardegna già in epoca anteriore.<br />
In Corsica è il lessico il maggiore testimone del processo di toscanizzazione<br />
attuato da Pisa a cavallo tra il primo e il secondo millennio. Lessico che doveva<br />
essere condiviso dalle varietà corse trapiantate in Sardegna nell’iniziale fase di<br />
acclimatamento. Diverso è il caso rappresentato dall’imponente massa lessicale<br />
passata già da molti secoli dal sardo al sassarese e al gallurese. In questo caso è<br />
possibile storicizzare con una certa precisione la fase della corsizzazione dei moltissimi<br />
vocaboli e forme logudoresi acquisiti dalle due varietà giunte dalla Corsica.<br />
57 Cfr. M. MAXIA, Studi sardo-corsi. Dialettologia e storia della lingua tra le due isole, Olbia,<br />
Taphros, 2008, p. 319; si tratta probabilmente dell’antico cognome De lo Loro documentato a<br />
Sassari nel 1355 (M. MAXIA, I Corsi in Sardegna cit., p. 55) ma attestato in precedenza in<br />
Corsica dal 1206; cfr. G. PISTARINO, Le carte del monastero di San Venerio del Tino relative alla<br />
Corsica cit., doc. XIV, p. 15.<br />
51
52<br />
Mauro Maxia<br />
Sia il gallurese che l’oltremontano, ma anche il sassarese, presentano non<br />
pochi fenomeni, spesso relativi ai nessi consonantici, che sono condivisi con<br />
l’italiano mediano, meridionale e dell’estremo sud. In ciò va vista una testimonianza<br />
di maggiore coesione, in antico, di queste varietà rispetto a quanto si<br />
rilevi in sincronia. Ma il gallurese, specie nella morfologia, presenta tratti più<br />
arcaici e non di rado autonomi rispetto allo stesso oltremontano che, pure, è<br />
considerato unanimemente la varietà più conservativa del corso. Ancora, il<br />
gallurese conserva sia pur rari sviluppi di basi latine non attestati in altre aree<br />
romanze. Forse grazie alla sua posizione appartata, il gallurese, in modo non<br />
dissimile dal sardo, parrebbe rappresentare un antico testimone di una maggiore<br />
coesione linguistica che in passato poteva accomunare l’Italia mediana con la<br />
Corsica e la Sardegna settentrionale. Se si potesse astrarre dal forte influsso e,<br />
per vari aspetti, dalla compenetrazione avuta col sardo fin dal Medioevo, si<br />
potrebbe sostenere che il gallurese rappresenti la varietà più conservativa del<br />
corso. D’altra parte, non si possono dimenticare i frequenti e contestuali contatti<br />
che le popolazioni corse ebbero durante il Quattrocento sia con la Tuscia e<br />
l’Umbria sia con l’intero territorio della Sardegna.<br />
7. Lo studio delle varietà sardo-corse ha sempre incontrato ostacoli di varia<br />
natura. L’interesse dei maggiori studiosi, come si accennava, è stato calamitato<br />
dall’importanza che il sardo riveste per la ricostruzione del passaggio del latino<br />
al romanzo. Al sassarese e al gallurese, e ancora di più alle altre varietà meno<br />
note, è stata dedicata un’attenzione certamente inferiore, sebbene dal Guarnerio<br />
in poi non siano mancati contributi anche di notevole spessore. Tuttavia, si può<br />
dire che soltanto il Bottiglioni, benché le sue conclusioni non siano sempre<br />
condivisibili, abbia riservato interessi e sforzi commisurati ai problemi che lo<br />
studio di queste varietà riserva a chi intenda accostarvisi.<br />
Si deve riconoscere che tra altri ostacoli non sono mancate difficoltà di carattere<br />
politico, motivate sia dall’appartenenza della Corsica alla Francia sia<br />
dalla sua plurisecolare e orgogliosa opposizione alla dominazione genovese.<br />
Difficoltà che per certi versi hanno alimentato dei pregiudizi che tuttora si<br />
frappongono rispetto a una visione della complessiva questione scevra da<br />
condizionamenti ideologici.<br />
Una delle conseguenze più notevoli di tali difficoltà è rappresentata dalla generale<br />
sottovalutazione dell’importanza che l’elemento ligure ebbe per la storia<br />
sia del corso sia delle varietà sardo-corse, nessuna esclusa. Il pregiudizio<br />
antigenovese, che fortunamente condiziona sempre meno la linguistica corsa, ha
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
avuto dei riflessi anche sugli studi relativi alle parlate della Sardegna settentrionale.<br />
Questo atteggiamento, in parte, ha coinvolto lo stesso logudorese. Specialmente<br />
sul piano etimologico, si è preferito attribuire l’origine di certi forestierismi al<br />
catalano o allo spagnolo o anche al piemontese piuttosto che al ligure. Un esempio<br />
di questa predisposizione si osserva nel verbo chittì(ssi) ‘ripagare, rivaler(si)’<br />
e nell’aggettivo chìttu ‘pareggiato, saldato (sul piano economico)’, che è comune<br />
al logudorese e alle parlate sardo-corse. Le voci in questione rappresentano dei<br />
francesismi (fr. quitte ‘libero da debiti, obblighi, tasse, ecc’) passati in catalano e<br />
spagnolo ma anche nel genovese. Non a caso quest’ultimo ha un’espressione come<br />
semmo chitti ‘siamo pari’ 58 sulla quale si è operato il calco sass. cast. sed. sèmmu<br />
chìtti, gall. sèmu chìtti e log. sémus chìttos ‘siamo pari, abbiamo pareggiato i<br />
conti’. Ebbene, Wagner riteneva che il log. chìttu derivasse dallo sp. quite e che il<br />
verbo chittìre venisse dal cat. quedar quiti ‘essere in pace’ 59 senza chiedersi,<br />
trattandosi di forme attestate nella Sardegna settentrionale, se potessero essere<br />
penetrate per il tramite del genovese. Accanto alla pretesa toscanità del sassarese,<br />
dunque, si deve considerare il fatto che su non pochi ligurismi fonetici, morfologici,<br />
sintattici e lessicali del gallurese resta ancora molto da studiare.<br />
Per cercare di superare gli ostacoli che in qualche misura sembrano ancora<br />
impastoiare il dibattito sulle eteroglossie della Sardegna settentrionale 60 si è<br />
cercato di reperire il maggior numero di testimonianze documentarie su queste<br />
varietà, fossero esse di carattere onomastico, letterario, epigrafico oppure soltanto<br />
rappresentate da interferenze nel corpo di testi scritti in altre lingue come<br />
il latino, l’italiano e il sardo.<br />
È innegabile, come si accennava, che le eteroglossie sardo-corse non dispongano<br />
di un corpus documentario significativo. Tuttavia le pur frammentarie testimonianze<br />
non sono affatto da trascurare e costituiscono una base per impiantare<br />
un confronto con le fonti scritte, medioevali e moderne, di cui si dispone per il<br />
corso, il toscano, il ligure e il sardo, cioè i principali referenti linguistici con i<br />
quali le parlate sardo-corse si sono confrontate nel corso della loro storia. Ciò<br />
comporta che la lettura di determinati fenomeni debba avvenire necessariamente<br />
in filigrana. Concetto, questo, che è stato assunto come elemento fondante per<br />
qualsivoglia approccio alle varietà linguistiche corse: «La langue corse est présente<br />
58 A. GISMONDI, Nuovo vocabolario genovese-italiano, Torino, Edizioni Fides, 1955, p. 101.<br />
59 DES, I, p. 351.<br />
60 Su questo aspetto cfr. V. ORIOLES, Per una ridefinizione dell’alterità linguisttica. Lo statuto<br />
delle eteroglossie interne, in «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», anno 25 (2005),<br />
3, Nuova Serie, pp. 407-423.<br />
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54<br />
Mauro Maxia<br />
et se manifeste, d’une façon ou d’une autre, dans tout texte écrit par un Corse,<br />
quels que soient l’époque et le code employé, et que de tels témoignages son<br />
utilisables». 61 A maggior ragione questo aspetto deve essere tenuto presente per<br />
quanto riguarda le eteroglossie di matrice corsa del settentrione sardo.<br />
8. Nello studio della fonetica storica delle varietà in questione l’approccio deve<br />
partire da almeno tre considerazioni. Anzitutto bisogna ricostruire, fin dove<br />
possibile, il quadro storico entro cui la presenza corsa si venne attestando e<br />
consolidando nella parte settentrionale della Sardegna. A questo problema lo<br />
scrivente ha dedicato, durante l’ultimo decennio, vari studi che hanno toccato<br />
diversi aspetti di quel vero e proprio caleidoscopio che è la linguistica sardocorsa.<br />
Non appare privo di importanza, a questo riguardo, come la recente<br />
storiografia ci assicuri della presenza a Sassari di una consolidata colonia corsa<br />
fin dalla prima metà del Trecento. E, d’altra parte, la rivisitazione di alcuni<br />
documenti, che finora erano passati in secondo piano, consente di stabilire che<br />
l’elemento corso fin dalla seconda metà del Cento in Sardegna giocava, per<br />
certi versi, un ruolo paragonabile a quello degli elementi pisano e genovese. 62<br />
Un altro aspetto, strettamente connesso con quello precedente, è rappresentato<br />
dal percorso carsico che le varietà in questione hanno compiuto durante<br />
parecchi secoli. Tutto ciò a causa dello scarso prestigio di cui, specialmente<br />
il sassarese, sono state accreditate, si può dire, fino a oggi.<br />
Un promettente filone di ricerca è costituito dai testi logudoresi prodotti<br />
nei centri corsofoni o esposti all’influsso del gallurese, del sassarese o delle<br />
varietà intermedie dell’Anglona. Negli archivi parrocchiali di Sassari, Sorso,<br />
Castelsardo, Sedini, Tempio, Aggius e Calangianus può capitare, spesso nel<br />
contesto di documenti secenteschi, di reperire dei corsismi lessicali, fonetici,<br />
morfologici e sintattici. A titolo di esempio si può citare il passo di un documento<br />
proveniente dalla zona di Sedini, «di custu p(rese)nti annu» 63 , in cui la<br />
prima e la terza forma sono corse mentre la seconda è sarda e la quarta risulta<br />
ambigua. Del resto, interferenze che segnalano la vigenza del corso si rintrac-<br />
61 Cfr. J. CHIORBOLI, Reflets de la langue corse dans un manuscrit du XVIIe siècle, in «Etudes<br />
Corses», 10, (1978), p. 156.<br />
62 Cfr. CDS = TOLA P., Codex Diplomaticus Sardiniae, I-II, «Historiae Patriae Monumenta», Torino,<br />
1858-1862, ristampa anastatica, Delfino Editore, vol. I, docc. 83, 93, 95 (anno 1169); alcuni<br />
brani sono ora riproposti in M. MAXIA, Studi sardo-corsi cit., parte I, cap. 2.<br />
63 Archivio Parrocchiale di Sedini, Quinque Libri di Speluncas, f. 1, l. 1.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
ciano negli stessi Statuti di Sassari (1316) con grafie come catreia 64 ‘sedia’, a<br />
qui ‘perché’, 65 assay, 66 rùchiu e rùghiu 67 ‘abigeato’, culpa e altre.<br />
Per la descrizione di certi fenomeni, che diversamente non emergerebbero a<br />
causa della penuria di fonti documentarie, non bisogna sottovalutare i dati offerti<br />
dall’antroponimia, sia nominale che cognominale, e dalla toponimia. Sotto<br />
questo aspetto l’onomastica, grazie alla cristallizzazione delle forme originarie,<br />
offre un apporto a volte determinante. A questo riguardo bisognerebbe, se non<br />
ribaltare, quanto meno riconsiderare la convinzione, espressa da qualche studioso,<br />
che l’onomastica costituisca una branca ancillare della linguistica.<br />
Un aspetto non secondario è rappresentato dalla conoscenza delle microvarietà<br />
locali. Spesso nelle parlate di piccoli insediamenti è ancora possibile osservare<br />
fenomeni che rappresentano elementi importanti per la ricostruzione storica relativa<br />
ad aree più vaste. Le parlate di Aggius e Sedini, per esempio, conservano il<br />
prezioso arcaismo tèn’e ‘finanche, persino’ che continua il lat. tenus et e col quale<br />
vanno le varianti tenamènti, tiamènti, tamènt’e, tia, 68 tiachì 69 vigenti in gallurese.<br />
Talvolta anche nei parlari rustici di qualche stazzo è possibile reperire forme<br />
tanto inattese quanto utili anche sui piani morfologico e semantico. Presso<br />
poche famiglie che abitavano gli stazzi ormai disabitati di Giagòne e Pubattu<br />
(Erula), 70 situati in una penisola linguistica che si insinua nel dominio logudorese,<br />
si usava il verbo succiarrà ‘accostare la porta’ (incrocio di succhjudì ‘socchiudere’<br />
e sarrà ‘chiudere’), 71 che è conosciuto anche in altre zone del dominio<br />
galluresofono ma con significati figurati formatisi più di recente. Probabilmente<br />
la situazione delle suddette località, poste in prossimità del confine linguistico<br />
col dominio logudorese, ha contribuito a conservare il significato originario<br />
del verbo in questione. Ecco, allora, che la conoscenza delle microvarietà costi-<br />
64 Stat. Sass. = P. E. GUARNERIO, Gli Statuti della Republica Sassarese, testo logudorese del secolo<br />
XIV, nuovamente edito d’in sul codice, «Archivio Glottologico Italiano», XIII, 1892, libro I,<br />
cap. 38; questa grafia ha l’aspetto di un incrocio del log. catrèa col corso cherèia.<br />
65 Stat. Sass., lib. II, cap. 46.<br />
66 Ibid.<br />
67 Ivi, lib. II, capp. 48, 49; sono forme sconosciute al sardo che si accordano col corso rucchjà<br />
‘raggruppare’, rucchjata ‘banda, compagnia’ (F.D. FALCUCCI, Vocabolario dei dialetti cit., p. 301).<br />
68 Cfr. Il Cantico de’ Cantici di Salomone, volgarizzato in dialetto sardo settentrionale tempiese<br />
dal P.G.M. MUNDULA, Strangeways & Walden, Londra, 1861, III, tia a tantu ‘fintanto’; VIII, 10<br />
tia da candu ‘fin da quando’.<br />
69 Ivi, II, 7 tiachì n’aggja gana; II, 17 tiachì spuntia la dì; III, 5 tiachì idda n’àggja gana.<br />
70 A queste denominazioni logudoresi si affiancano le locali varianti galluresi Ghjacòni e Pupàtta.<br />
71 Per questa e altre particolarità relative all’area galluresofona del Sassu cfr. M. MAXIA (a cura),<br />
Lingua, Limba, Linga. L’uso dei codici linguistici in tre comuni della Sardegna settentrionale,<br />
Cagliari, Condaghes, 2006, p. 66, n. 34.<br />
55
56<br />
Mauro Maxia<br />
tuisce, non soltanto sul piano sincronico, un aspetto di grande rilievo specialmente<br />
nel caso in cui, oltre alla cornice, si vogliano apprezzare anche i particolari<br />
del quadro. Da questo punto di vista anche la pubblicazione, durante gli<br />
ultimi anni, di alcuni dizionari di gallurese, sassarese e maddalenino ha dilatato<br />
le possibilità di osservare la situazione in sincronia.<br />
9. Riguardo all’influsso esercitato dal genovese nei secoli bassomedioevali, ora,<br />
grazie anche alla rivisitazione delle fonti letterarie medioevali, esso emerge in<br />
termini più chiari di quanto non avvenisse in precedenza. Alcuni fenomeni come,<br />
per esempio, l’esito postalveolare sonoro della fricativa sibilante + jod a<br />
Castelsardo sono documentati fin dalla metà del Duecento. La presenza di sconosciuti<br />
ligurismi nel gallurese – forse penetrati attraverso i contatti con la colonia<br />
genovese di Bonifacio o per il tramite dei pialinchi, 72 dei brandinchi 73 e di<br />
altri gruppi corsi variamente esposti all’influsso ligure – consente di affrontare<br />
la relativa questione con una migliore dotazione di strumenti di studio.<br />
L’influsso ligure rappresenta una problematica in relazione alla quale l’approccio<br />
finora è stato più pregiudiziale che sistematico. In effetti, una complessiva<br />
rivisitazione della questione consente di riconoscerlo con chiarezza anche<br />
nella morfologia e nella sintassi, talvolta con calchi che rimandano ad attestazioni<br />
documentarie degli ultimi due secoli del Medioevo. La disponibilità di una serie<br />
di antichi testi genovesi e liguri, prima non facilmente accessibili, consente<br />
ora di avere materiali molto interessanti su cui operare confronti più puntuali. 74<br />
Sicché lo stesso lessico, ora più copioso rispetto alle conoscenze precedenti, 75<br />
72 Così sono denominati gli abitanti corsofoni del vasto agro di Bonifacio.<br />
73 Sono gli abitanti della pieve di Brando, noti per i loro traffici commerciali, la cui presenza in<br />
Sardegna è attestata sia nei registri parrocchiali di Tempio sia nella toponimia della Gallura<br />
orientale (Cala di li Brandinchi). Per la loro presenza a Tempio nel Settecento cfr. M. MAXIA, I<br />
Corsi in Sardegna cit., pp. 175-176; per la presenza di brandinchi nelle baronie di Posada e di<br />
Orosei durante lo stesso periodo cfr. G. ZIROTTU, Corsi, francesi, liguri e napoletani nella baronie<br />
di Posada e Orosei nel ‘700, «Quaderni Bolotanesi», 30, 2004, pp. 359-361.<br />
74 Determinanti per questa nuova situazione si rivelano gli studi pubblicati da Fiorenzo Toso negli<br />
ultimi dieci anni.<br />
75 Cfr. gen. bacin ‘bacile’ (F. TOSO, La letteratura genovese. Ottocento anni di storia, arte, cultura<br />
e lingua in Liguria, 3 voll., Le Mani, Recco 2000, vol. I, p. 244) e sass. bazzinu ‘bacile, pitale’;<br />
gen. bestentà(sse) ‘tardare, indugiare, trattenersi’ e gall. bistintà(ssi); gen. bugata ‘bucato’ (F.<br />
TOSO, La letteratura genovese cit., I, 244) e gall. bucata, sass. cast. sed. bugadda; gen. strapunta<br />
‘trapunta’ e gall. ‘id.’; gen. draper ‘drappiere’ (F. TOSO, La letteratura genovese cit., I, 243) e sass.<br />
drapperi; gen. giazza ‘brina, ghiaccio’ (F. TOSO cit., II, 25) e gall. ‘id.’; gen. schiupetti ‘mortaretti’<br />
(ibid.) e gall. sciuppètti; gen. avisto ‘scaltro, avveduto’ (ibid.) e gall. avvistu; gen. cabban ‘gabbano’<br />
(ibid.) e gall. gabbanu; gen. pendin ‘orecchini’ (ivi, 28) e gall. pindini ‘id.’.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
si presenta con attestazioni più chiare e immediate a un riesame dei fenomeni<br />
fonetici e morfosintattici. Per esempio, un verbo come il sassarese e gallurese<br />
ammuntunà ‘ammucchiare’, che finora passava per uno spagnolismo o<br />
catalanismo al pari del log. ammuntonare, si offre al confronto col genovese<br />
amontonar. 76 Ancora, una voce poco nota come il tempiese sciagà ‘battere, percuotere’<br />
trova spiegazione nel genovese antico xachar. 77 Lo stesso lessema présgiu<br />
‘prezzo’, che passava per uno dei tanti toscanismi, può discendere dal genovese<br />
antico prexio, 78 col quale va il corso antico prexio. 79 Anche un vocabolo disusato<br />
come il corso e gallurese vèscu 80 ‘vescovo’ proviene probabilmente dal genovese<br />
vesco 81 contribuisce a chiarire la complessità dei rapporti avuti, non soltanto dal<br />
sassarese e dal castellanese, ma dallo stesso gallurese col genovese antico e, pertanto,<br />
durante una fase che necessariamente rimonta a parecchi secoli orsono.<br />
Insomma, le nuove acquisizioni in tema di influsso ligure mettono fortemente<br />
in discussione una serie di convinzioni che, attraverso l’analisi delle varietà<br />
sardo-corse, sono da rivisitare per molteplici aspetti anche in relazione al<br />
corso e allo stesso sardo logudorese. 82<br />
Anche sul maddalenino è possibile dire qualcosa di nuovo. È alla parlata dei<br />
fondatori della Maddalena che si devono alcuni dei nesonimi delle isole che<br />
punteggiano le coste nord-orientali della Gallura. Si tratta delle denominazioni<br />
delle isola di Spàrgi ‘(isola degli) asparagi’; Corcelli lettm. ‘(i) poverelli,<br />
meschinetti’; Barrettini ‘le piccole berrette’; Pèveru ‘senape’. Figarolo è<br />
diminutivo di Fìgari, toponimo corso che denomina anche il capo Figari presso<br />
76 F. TOSO, La letteratura in genovese, I, p. 243.<br />
77 Ivi, p. 234.<br />
78 Ivi, pp. 156, 191; M.L. Wagner riteneva che il log. sett. préju, présgiu, col quale va il gall. sass.<br />
présgiu, dipendesse dal toscano ant. pregio, prescio (DES II, p. 309, s.v. préthu).<br />
79 G. PISTARINO, Le carte del monastero di San Venerio del Tino cit., doc. 168 del 1481.<br />
80 Ivi, doc. 151 del 1468: quello vesco de Ampugnani.<br />
81 Ibid. Il gallurese antico (v)èscu è attestato nella toponimia del territorio comunale di S. Antonio<br />
di Gallura; cfr. D. PANEDDA – A. PITTORRU, Santantonio di Gallura e il suo territorio tra cronaca<br />
e storia, Sassari, Chiarella, 1989, pp. 109-111, s.v. Lu ‘Èscu; tuttavia forme analoghe, per es.<br />
bbèsco, non mancano anche nei dialetti della Tuscia.<br />
82 A un influsso genovese pare dovuto il log. ant. dittu, frequentissimo nei testi giuridici medioevali<br />
e moderni, ma sconosciuto alla lingua viva (per la sua genovesità cfr. F. TOSO, La letteratura<br />
in genovese cit., I, p. 174 dita la messa). A un influsso parallelo potrebbe essere dovuto il<br />
dileguo delle forme che in sardo, specialmente in logudorese, si verifica nei verbi composti che<br />
presentano dicere come secondo elemento, per es. log. beneìghere, maleìghere, traìghere che al<br />
part. pass. hanno beneìttu, maleìttu, traìttu come il gen. ant. beneito (F. TOSO, La letteratura<br />
genovese cit., I, p. 183), traymento (ivi, p. 167) e simili; sul dileguo che caratterizza le forme in<br />
questione si vedano le perplessità manifestate dal Wagner (DES II, p. 504 s.v. traígere) che<br />
propendeva appunto per una origine italiana.<br />
57
58<br />
Mauro Maxia<br />
Golfo Aranci. Anche il suffisso -éra del nesonimo Caprera costituisce indizio<br />
di corsità; infatti, l’antico nome ligure di quest’isola era Cravàira, mentre<br />
quello toscano corrisponderebbe a Capràia e quello sardo a Crabarza. Questo<br />
quadro è coerente con la situazione linguistica dell’isola di Tavolara, i cui<br />
pochi abitanti non parlavano il sardo o il gallurese ma l’isulanu ossia il<br />
maddalenino. 83 Comunque, durante gli ultimi due secoli la parlata dell’arcipelago<br />
maddalenino va sempre più subendo, specialmente sul piano lessicale<br />
e sintattico, la pressione del gallurese che veicola anche un numero cospicuo<br />
di sardismi e persino di iberismi.<br />
10. Da una certa prospettiva, alla quale aveva lavorato specialmente Gino Bottiglioni,<br />
si può osservare come la zona orientale del dominio sardo-corso, cioè<br />
la Gallura, intrattenga dei rapporti abbastanza stretti sia con le varietà dell’estremo<br />
sud-est della Corsica, sia col logudorese comune in uso nel Monteacuto, ma<br />
anche con le varietà della Baronia e col bittese. Tutte queste zone sono accomunate<br />
da un vocalismo molto conservativo che prevede il mantenimento di i e u<br />
brevi originarie e, inoltre, da un consonantismo che, ad eccezione del logudorese<br />
comune, prevede il mantenimento delle occlusive intervocaliche.<br />
La situazione odierna ha il suo pendant storico nell’antico regno giudicale di<br />
Gallura, che si estendeva dall’estremo nord fino all’odierno territorio di Orosei.<br />
Sulla varietà di logudorese che durante l’età giudicale si parlava in quel regno, ma<br />
soprattutto sulle abitudini fonatorie dei suoi abitanti, non si dispone di dati utili a<br />
formulare ipotesi circostanziate. Ma è la situazione odierna a suggerire che l’intonazione<br />
che accomuna il gallurese, il logudorese comune del Monteacuto e il<br />
baroniese possa essere spiegata come un tratto dell’antico logudorese che allora si<br />
parlava in quel regno. L’intonazione del gallurese comune, diversa da quella<br />
dell’oltremontano, si spiegherebbe, cioè, attraverso il lungo processo di osmosi<br />
intrattenuto da questa varietà di origine corsa con la lingua autoctona di cui oggi<br />
residuano soltanto le isole linguistiche di Luras e Olbia.<br />
Una ipotesi analoga anche per quanto riguarda la varietà sassarese e quella<br />
logudorese di nord-ovest potrebbe risultare incongrua sul piano storico. È noto,<br />
infatti, che l’influsso genovese si dispiegò soprattutto dopo la caduta del regno<br />
giudicale del Logudoro (1259). Non molto tempo dopo e fino ai primi anni del<br />
83 L’isola fu ripopolata nel 1807 dai Bertoleoni, un nucleo parentale di origine corsa che aveva la<br />
propria sede nelle isole di S. Maria e Soffi nell’arcipelago maddalenino; cfr. A. PAPURELLO<br />
CIABATTINI, Il profilo geografico di Tavolara, Sardegna, Fossataro, Cagliari, 1973, p. 69.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
Quattrocento gran parte di questa regione venne a trovarsi sotto il dominio di<br />
Genova e con essa anche le città di Sassari, Castelsardo e Alghero (quest’ultima<br />
fino al 1353). Ma anche dopo la definitiva conquista catalano-aragonese il<br />
Logudoro conservò la sua antica coesione in quanto continuò a dipendere da<br />
Sassari nell’ambito del governatorato che prese nome di Cabo de Sásser y<br />
Logudoro. Dunque la condivisione di alcuni importanti fenomeni linguistici risulta<br />
coerente, anche in questo caso, con le vicende storiche conosciute dal<br />
territorio in questione. Di particolare rilievo è il patrimonio cognominale di<br />
origine corsa che in alcuni casi è documentato fin dalla prima metà del Trecento.<br />
Si tratta di forme (alcune delle quali estinte) come Abózzi, Accorrà, Alivési,<br />
Alivìa, Arca, Arru, Bastèlica (oggi Pastèriga), Bicchisào, Bologna, Callaga o<br />
Cargiaga (oggi Cargiàghe), Canali, Canòpoli, Cillàra, Coasìna, Cotoni, Crabuzza,<br />
Cossa, Cossu, Dachèna, Dapìla, Deiòla, Delipéri, Delitàla, Fìgari, Figo, Frassètto,<br />
Fundòni, Gardu, Gavìni, Giacomòni, Loru, Lupìno, Marinàccio, Montanàzzo,<br />
Mugàno (oggi Mugà, Amucano), Niólu, Obinu, Ògana, Oliva, Olmeto, Ornàno,<br />
Ortolanu, Paliàzo, Petrètto, Poggiu, Rocca, Salvagnolu, Santòni, Sara (varianti<br />
Asara, Azara, Dasara), Sussaréllu, Tavèra, Tolla o Tola, Vico, Zonza e molti altri.<br />
Anche l’area occidentale, che, oltre al sassarese, per molti aspetti abbraccia<br />
pure l’Anglona fino alla foce del Coghinas, comprende delle sottovarietà la cui<br />
intonazione meriterebbe degli approfondimenti. Le parlate di Sorso e Castelsardo,<br />
per esempio, si segnalano per una calàdda cantilenante che ricorda la còccina<br />
ligure. Ma se sul piano intuitivo l’accostamento potrebbe apparire congruo,<br />
occorre tenere conto del fatto che nel periodo storico in cui questo fenomeno<br />
insorse nelle parlate ponentine, verosimilmente a cavallo tra Sei e Settecento, la<br />
zona di Sorso e Castelsardo non pare avesse con la Liguria contatti così importanti<br />
da giustificare un influsso di tale portata.<br />
L’area sassaresofona condivide alcuni importanti fenomeni fonetici con una<br />
zona della Corsica che corrisponde alla conca ajaccinca e al suo entroterra. Ma<br />
essa ebbe contatti anche con le varietà cismontane. Dal confronto tra il vocalismo<br />
sassarese e quello del corso cismontano e ajaccino emerge la corrispondenza<br />
dei singolari sviluppi di I ¤<br />
U * toniche originarie. Relativamente al consonantismo,<br />
appare notevole il rafforzamento delle occlusive intervocaliche, un fenomeno<br />
di origine ligure che il sassarese condivide ancora col cismontano e l’ajaccino.<br />
Altre corrispondenze il sassarese ha col logudorese di nord-ovest, col quale<br />
condivide i caratteristici esiti di L, R, S in nesso con le occlusive e non solo. Esiti,<br />
questi, che suggeriscono collegamenti con l’area linguistica ligure non meno<br />
che con la Toscana. Sul piano linguistico questa duplice corrispondenza richiama<br />
in causa la teoria del continuum ossia del ponte linguistico che, con sfuma-<br />
59
60<br />
Mauro Maxia<br />
ture di diversa intensità, si coglie, per un verso, passando dall’estremo sud della<br />
Corsica in Gallura e poi proseguendo in direzione delle Baronie. D’altro canto,<br />
un collegamento quasi parallelo si può osservare tra la Corsica occidentale e la<br />
zona dove vigono il sassarese e il castellanese.<br />
Una esemplificazione di questa situazione può essere offerta dall’osservazione<br />
dell’oscillazione /rr/ ~ /r/ che caratterizza il corso, per esempio nel coronimo<br />
Sorro, Sorru ≠ Soro, Soru e nei vocaboli terra, tarra ‘terra’ ≠ tera, tara; serra,<br />
sarra ‘catena montuosa o collinare’ ≠ sera, sara e tòrra, turri ‘torre’ ≠ tòra, turi.<br />
Si vedrà subito che l’area sardo-corsa non partecipa (ad eccezione del maddalenino)<br />
al fenomeno dello scempiamento di /rr/ che accomuna buona parte della Corsica<br />
all’Italia di nord-ovest, ad alcune zone dell’area medio-italiana e specialmente al<br />
romanesco. Riguardo al fenomeno in questione, da un punto di vista classificatorio<br />
in Corsica è possibile, secondo le rilevazioni dello Sprach- und Sachatlas Italiens<br />
und der Südschweiz 84 e dell’Atlante Linguistico Etnografico Italiano della<br />
Corsica, 85 individuare quattro zone non sempre coese sul piano geografico.<br />
La prima di queste zone, in cui vigono i tipi sèrra, tèrra, tòrra, accomuna il<br />
territorio di Centuri nel Capo Corso, parte dei cantoni di Venaco, Ghisoni, la<br />
parte meridionale del cantone di Prunelli di Fiumorbo, il cantone di Due Sevi<br />
(eccettuato il comune di Piana), i comuni di Eccica Suarella e Cuttoli Corticchiato,<br />
i comuni di Coti Chiavari, Sollacarò e Viggianello e il cantone di Bonifacio (ma<br />
non per la forma tòrra).<br />
La seconda, dove vigono i tipi sèra, tèra, tòra, abbraccia tutto il nord-est ad<br />
eccezione di Centuri, la fascia costiera della Balagna, la parte settentrionale del<br />
cantone di Prunelli di Fiumorbo, il cantone di Zicavo, il cantone di Santa Maria-<br />
Sicchè (ad eccezione di Coti Chiavari, Sollacarò e Viggianello), il cantone di<br />
Sartene (ad eccezione di quest’ultimo centro).<br />
La terza zona, in cui vigono i tipi sarra, tarra, turri, corrisponde ai territori<br />
comunali di Aullene, Cargiaca, Porto Vecchio (parzialmente) e Bonifacio.<br />
Infine, la quarta zona, relativa ai tipi sara, tara, turi, comprende i comuni di<br />
Quenza, Livìa, Carbini, Sartene, Figari e Sotta. Se si confronta questa situazione<br />
con quella attestata nel dominio sardo-corso si osserverà che l’area<br />
sassaresofona corrisponde alla prima zona della Corsica mentre l’area<br />
galluresofona corrisponde alla terza zona. La seconda e la quarta zona per il<br />
fenomeno in questione non trovano alcun confronto nelle varietà sardo-corse<br />
84 K. JABERG e J. JUD, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen, 1928-1940.<br />
85 Gino BOTTIGLIONI, Atlante Linguistico Etnografico Italiano della Corsica, Pisa, 1933-1942.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
con l’unica eccezione del dialetto maddalenino che, infatti, ha una storia assai<br />
diversa rispetto al sassarese e al gallurese.<br />
Sul piano linguistico questi dati, oltre a confermare l’esistenza di un’area<br />
gallurese-oltremontana – ma più limitata rispetto a quanto comunemente si ritiene<br />
– individuano una macroarea che presenta significative concordanze col<br />
sassarese. Ebbene, gli stessi dati, ma da una prospettiva storica, potrebbero avere<br />
molta importanza al fine di stabilire il periodo del radicamento delle varietà<br />
di origine corsa in Sardegna. Questa situazione va confrontata con l’osservazione<br />
del Rohlfs che, citando Dante, implicitamente collocava l’origine del fenomeno<br />
dello scempiamento di /rr/ all’interno del Duecento. 86 Ora, poiché l’innovazione<br />
si propagò fino alla Corsica centrale e, seppure in misura sporadica,<br />
anche a quella meridionale, ma senza attecchire nelle varietà corse della Sardegna<br />
settentrionale, ciò equivarrebbe ad ammettere che queste ultime dovessero<br />
già avere vigenza, accanto al sardo antico, nel corrispondente momento storico.<br />
Questa prospettiva, peraltro, sarebbe convalidata da vari indizi che giungono<br />
sia da certi sviluppi fonetici 87 sia da una serie di attestazioni nella toponimia. 88<br />
11. Parlando di continuum tra una zona e l’altra del dominio sardo-corso, gli<br />
sviluppi dei nessi RK, RG sono tra i più utili per osservare la progressione con cui il<br />
mutamento avviene da una varietà all’altra. La tendenza alla palatalizzazione /r/ ><br />
/l/ esistente tra il gallurese e le varietà anglonesi e lo sviluppo semiconsonantico<br />
/j/ che nei medesimi contesti si presenta tra queste ultime e il sorsense producono<br />
una continuità geolinguistica che fa sì che dall’estremo est della Gallura all’estremo<br />
ovest della Nurra si possa parlare di coerenza fonologica di tutte le varietà<br />
sardo-corse, pur nella diversità esistente tra le varianti vigenti in ciascuna di esse.<br />
Sul piano propriamente storico, specialmente per quanto riguarda il periodo<br />
del radicamento delle varietà sardo-corse, lo studio sistematico della loro fonetica<br />
consente di trarre delle conclusioni di carattere forse decisivo.<br />
Gli esiti di una serie di fonemi e nessi consonantici di entrambi i gruppi, sia<br />
quello occidentale che quello orientale, rendono incontestabile la piena vigenza<br />
delle varietà in questione accanto al logudorese medioevale. Per esempio,<br />
l’acquisizione di antichi sardismi che all’epoca presentavano la fricativa<br />
86 G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966,<br />
Fonetica, pp. 336-337.<br />
87 Cfr. M. MAXIA, Studi sardo-corsi cit., parte I, cap. 3.<br />
88 Ivi, parte II, cap. 3.<br />
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62<br />
Mauro Maxia<br />
interdentale /è/ oppure i nessi /kl/, /gl/ porta a concludere che sia le due<br />
macrovarietà (sassarese e gallurese) sia le varietà intermedie (castellanese e<br />
sedinese) dovevano essere in uso durante gli ultimi due secoli del Medioevo<br />
contestualmente al sardo logudorese.<br />
12. Un altro tipo di verifica si può condurre grazie alla particolarità per cui il<br />
sassarese tende a conservare le antiche /b/ e /v/ intervocaliche. Il confronto tra<br />
sardismi che presentano questi fonemi e altri sardismi in cui si è avuto il dileguo<br />
costituisce una vera e propria metodica per risalire alla fase storica in cui<br />
determinate forme passarono dal sardo al sassarese.<br />
La verifica dell’attendibilità dei risultati offerti da questi approcci è offerta<br />
anche da preziosi toscanismi e ligurismi caduti in disuso da tempo. È il caso, ad<br />
esempio, della preposizione ‘verso’, di cui alcuni toponimi galluresi e della<br />
zona di Sedini conservano la forma apocopata vel, per esempio Vel di Còssu<br />
lettm. ‘verso dove sta Cossu’, Vel di Donna ‘verso (la proprietà) della signora’,<br />
Vel di Paùla ‘verso la palude’ (Tempio), Vel di Pàddru ‘verso il prato comunitario’<br />
(Sedini). La forma vel costituisce una variante apocopata di vèssu ‘verso’<br />
che, essendosi cristallizzata da tempo, riflette una fase in cui il nesso /rs/ non si<br />
era ancora assimilato in /ss/ secondo una regola che, sulla base della documentazione<br />
disponibile per il logudorese, il gallurese avrebbe acquisito dal sardo<br />
nel corso del Quattrocento. Per quel secolo, infatti, le fonti mostrano, accanto<br />
alla forma Corsu ‘Corso’ (cognome), la variante assimilata Cossu oggi così<br />
frequente nell’antroponimia sarda. Quindi l’antica forma apocopata ver in<br />
gallurese passò a vel in forza di un’altra norma per la quale questa varietà, quando<br />
/r/ è seguita da un’altra consonante si trasforma in /l/. 89 Oggi, forse a causa di<br />
una certa opacizzazione prodotta dal tempo, quasi sfugge l’origine dell’antico<br />
costrutto vel di ‘verso di, in direzione di’, tanto che i poeti e i lessicografi lo<br />
trascrivono quasi sempre con la forma agglutinata vèldi 90 che non differisce in<br />
89 Il trattamento /rd/ > /ld/ in Gallura è documentato dai primi del Seicento ma rimonta a un<br />
periodo più antico ed è coerente col trattamento /rt/ > /lt/ per il quale si dispone di attestazioni<br />
documentarie che vanno dal 1321 (Castelsardo) a tutto il Cinquecento.<br />
90 Cfr. F. ROSSO, Dizionario della lingua gallurese, a cura di Anatolia Debidda e Luca Fresi,<br />
Stampasì editrice, Tempio Pausania, 2000, p. 641; S. BRANDANU, Vocabulàriu Gaddhurésu<br />
Italianu, Vocabolario gallurese-italiano, Istituto delle Civiltà del Mare, Tipolitografia Ovidio<br />
Sotgiu, Olbia, 2004, p. 569. Andrea Usai, autore del Vocabolario tempiese-italiano cit., tra<br />
tante inesattezze e spinto quasi da un’ansia di negare qualunque rapporto di dipendenza del<br />
gallurese rispetto al sardo, intuì il nesso storico del gallurese vel di col toscano antico ver di
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
nulla dall’aggettivo vèldi ‘verde’. 91 Peraltro, la variante inver è documentata fin<br />
dai primi decenni del Trecento negli Statuti di Sassari 92 accanto alla forma estesa<br />
inversu 93 (il sassarese odierno ha vèssu). Anche negli Statuti di Castelsardo<br />
(1334-1336) è attestata la forma in ver col significato di ‘in direzione di’. 94<br />
Ebbene, questo discorso chiama in causa il toscano antico, dal momento<br />
che la formula ver di è attestata più volte nella Commedia dantesca. 95 E, anzi,<br />
un passo del Purgatorio, in cui la forma apocopata ver occorre per due volte,<br />
96 ha per oggetto proprio la Gallura col suo giudice-re Nino Visconti. L’importanza<br />
della residuale vigenza di questa forma in gallurese e nella parlata<br />
sedinese risiede nel fatto che la grafia ver tramandata da Dante e da altri autori<br />
97 non rappresenta, come sostengono gli studiosi di stilistica letteraria, una<br />
forma poetica in luogo di verso. In effetti, oltre al citato passo degli Statuti di<br />
Sassari, sono altri documenti toscani ad attestare che nel Duecento ver era una<br />
variante talmente comune da concorrere con la forma verso nell’uso corrente.<br />
Ad esempio, una importante fonte pisana della metà del XIII secolo come il<br />
portolano detto Compasso da Navegare 98 documenta le forme ver lo greco (3<br />
volte), ver lo maestro (5), ver lo garbino (5), ver lo meczo iorno/jorno/zorno<br />
mettendo a lemma, anziché la grafia versu o la forma apocopata vel, l’intero sintagma Veldi nói<br />
(p. 255) citando un passo del Purgatorio in cui, peraltro, non è attestata la forma ver ma verso.<br />
Leonardo GANA, Vocabolario del Dialetto e del Folklore Gallurese, Cagliari, Fossataro, 1970,<br />
p. 619, lemmatizzò la forma Vèl-di citando di proposito una strofa di una poesia in cui Leone<br />
Chispima (pseudonimo dell’avvocato aggese Michele Pisano) trascrisse la forma in questione<br />
avendo riguardo alla sua origine (Undi li boli toi / poara cédda dài? Vèl d’undi moi? ‘Dove i<br />
tuoi voli / povero uccello indirizzi? Verso dove ti dirigi?’).<br />
91 Un muttu gallurese la cita con la forma inveldi: «Un furru timpiesu / inveldi Sant’Antoni /<br />
cucendi infelti e culboni / dì e notti sempri ’ncesu». Anche Giulio Cossu utilizza questa forma:<br />
«no tendi più lu paesi inveldi la campagna»; cfr. G. COSSU, Frondi come parauli, Amministrazione<br />
Comunale di Quartu Sant’Elena, Cagliari, Stef, 1989, p. 21.<br />
92 Stat. Sass. lib. I, cap. 37, «inver su fossatu» ‘verso il fossato’.<br />
93 Stat. Sass. lib. II fragmenta, cap. 53 «inversu Gantine Sale» ‘verso (la località detta) Gantine<br />
Sale’ (oggi torre di Bantine Sale).<br />
94 E. BESTA, Intorno ad alcuni frammenti di un antico Statuto di Castelsardo, Modena, Direzione<br />
dell’archivio giuridico, 1899, cap. 206: «in su Padru vernile de Castellu Ianue cio est dae Nurachi<br />
in ver Marignolu» lettm. ‘nel prato comunitario invernale di Castel Genovese cioè da Nurachi<br />
in direzione di Marignolu’.<br />
95 D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Inf., XVI, 7 ver noi, 14 ver me; XXIV, 27 ver la cima;<br />
XXXII, 73 inver lo mezzo; Purg. II, 131 inver la costa.<br />
96 Ivi, Purg., VIII, 52 ver me si fece, e io ver lui mi fei.<br />
97 La grafia inver è presente anche in Giacomo da Lentini, per es. nella canzone Meravigliosamente, 38.<br />
98 Il Compasso da navigare. Opera italiana della metà del secolo XIII, prefazione e testo del<br />
codice Hamilton 396, a cura di Bacchisio R. Motzo, Università di Cagliari, Roma, Tipografia<br />
Cuggiani, 1947.<br />
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Mauro Maxia<br />
(5), ver lo meczodì (2), ver lo levante (2), ver tramontana (2), ver lo sirocco/<br />
silocco (10), ver lo ponente (2), ver Sardegna (3), ver terra, ver terra ferma,<br />
ver l’isola 99 e altre. Questo manuale riservato ai navigatori, quindi avulso da<br />
qualunque intento letterario, presenta decine di occorrenze della forma ver mentre<br />
non impiega mai la forma verso. La circostanza, tra l’altro, può spiegare perché<br />
in gallurese si usi ancora la forma vel di e non la forma vèssu di o, almeno, non<br />
la si usi con altrettanta frequenza. D’altra parte il corso, in cui non opera il<br />
trattamento /rd/ > /ld/ che tipicizza il gallurese, conserva questa congiunzione<br />
con l’identica forma ver di attestata nel toscano antico (ver di u Sorru ‘verso il<br />
cantone di Sorru’, ver di u Niolu ‘verso la regione del Niolu’). Ecco, dunque,<br />
che non solo la storia del corso, ma quella dello stesso gallurese e delle altre<br />
varietà sardo-corse assume rilievo per la storia della lingua italiana.<br />
Il fatto che in italiano certe forme siano cadute in disuso da secoli ha convinto,<br />
come si accennava, gli studiosi che casi come quello di ver rappresentino<br />
delle forme letterarie. In realtà le varietà sardo-corse dispongono, talvolta<br />
insieme al corso e ad altre parlate periferiche ma spesso anche in modo<br />
autonomo, di varie prove circa il fatto che alcune pretese forme poetiche<br />
vigevano realmente nel toscano parlato nel Duecento e nel Trecento. Un esempio<br />
di questa situazione è offerto dal gall. mintüà e dal sass. funtumà che,<br />
insieme al corso mintu(v)à e al logudorese mentovare e fentomare, testimoniano<br />
la passata vigenza del verbo ormai disusato mentovare che attualmente<br />
si conserva come sporadico arcaismo nei dialetti della Lucchesia, della Versilia<br />
e dell’isola del Giglio. 100 Un altro esempio è offerto dalla rara forma oggimai<br />
impiegata soltanto poche volte da Dante (Inf. XXXIV, 32; Purg. III, 142;<br />
XVI, 127). Si tratta di una grafia sinonimica di oramai che vige tuttora, e con<br />
alte frequenze, nelle varietà sardo-corse con le varianti sassarese e sedinese<br />
aggiummài e gallurese e castellanese agghjummài, le quali occupano un vasto<br />
spettro semantico con i significati di ‘ormai, quasi, per poco, a momenti,<br />
giammai, addirittura’. La deformazione avvenuta in contesto dialettale rispetto<br />
alla forma attestata in Dante pare dovuta a un accostamento con la voce<br />
verbale sass. àggiu, gall. àgghju ‘ho’. È proprio la più giovane tra le varietà<br />
99 Una parte significativa del portolano descrive parecchie località della Sardegna settentrionale<br />
tra cui l’Azenara, Sancta Reparata, Longun sardo, Sancta Maria, Buzenare, Spargi, Porto<br />
Polo, Sancto Stefano, Cravaira = Caprera, isola de le Bisse, capo de l’Orsa, Iscla Mortore,<br />
Figarola, Taulara, Sancto Polo, Morala/Morara = Molara.<br />
100 Altre varianti sono note per la zona centrale delle Marche (mentuà, montivè) e la Puglia settentrionale<br />
(munduvà).
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
sardo-corse, il maddalenino, ad assicurare su questa origine con le forme<br />
ogghjimà, ogghjimmài ‘ormai, finalmente’. 101<br />
13. Ancora a proposito del Compasso da Navegare, Emidio De Felice attribuiva<br />
i toponimi sardi recanti il suffisso -àra allo strato pisano «per il carattere<br />
specificamente pisano della tradizione medioevale […] e inoltre dal tipo lessicale<br />
e dal suo aspetto fonomorfologico, non giustificabile all’interno del sardo<br />
neolatino né di altri superstrati esterni» 102 . Sulla tradizione risalente al Compasso<br />
e alla Carta Pisana è difficile dare torto a De Felice, anche se nel testo non<br />
mancano forme di probabile origine ligure. 103 Per quanto riguarda gli altri<br />
superstrati occorre tenere conto che il suffisso -àra vige con elevata frequenza<br />
nella toponimia corsa (cfr. Arbellara, Cavallara e Cavallaracce, Carbonara,<br />
Cavara, Chjoccara, Ciombolara, Colombara, ant. Colombara de Sancto<br />
Anthonino, 104 Corbara e Pietra Corbara (poi anche Corbaia e Curbaghja),<br />
Cuara, Farareccia, Figaraccia, Focolara, Ghiandaraccio, Marcellara,<br />
Mattonara, Navara, Patara, Rondinara, Solenzara, Tonnara, Zigliara). Viceversa,<br />
le analoghe forme toscane presentano il caratteristico suffisso -àia 105 che<br />
già dal Cento cominciò a sostituire –àra. 106 Le forme in -àra attestate nella Sardegna<br />
settentrionale vanno anche con quelle attestate in Liguria 107 e, in misura minore,<br />
nella Lunigiana. 108 Riguardo al sardo, poi, a De Felice sfuggiva che toponimi<br />
come Taulara e Molara, e a maggior ragione Limbara che è attestato all’interno<br />
dell’isola, sono formati dalle voci sarde tàula ‘tavola’, mòla ‘macina’ e limba<br />
101 R. DE MARTINO, Il Dizionario Maddalenino. Glossario etimologico comparato, Cagliari, Edizioni<br />
Della Torre, 1996, p. 101.<br />
102 E. DE FELICE, Le coste della Sardegna. Saggio toponomastico storico-descrittivo, Cagliari,<br />
Fossataro, 1964, p. 103.<br />
103 Tra altre particolarità, sono da segnalare la forma ecqua per acqua; il trattamento /l/ > /r/<br />
nell’articolo ra ‘la’ e nella variante Morara del toponimo Molara; la forma zoè per cioè.<br />
104 Forma attestata nel 1382; cfr. G. PISTARINO, Le carte del monastero di San Venerio del Tino<br />
relative alla Corsica cit., p. 74.<br />
105 Cfr. Capraia, Colombaie, Monte Voltoraio, Nibbiaia, Polveraia.<br />
106 Cfr. le forme ispornaio, mannaia, matieia, restaiolo del Conto navale pisano e la grafia Nappaio<br />
accanto a Nappari in A. CASTELLANI, I più antichi testi italiani, edizione e commento, Bologna,<br />
Pàtron, 1973, pp. 128-130; 156-161.<br />
107 Cfr. Brizzolara, Calderara, Carpenara, Corvara, Costa Carnara, Costa Figara, Fornara,<br />
Granara, Manarola, Migliarina, Pampara, Pietra Lavezzara, Rivara, Rivarolo, Schiara. Uno<br />
dei maggiori corsi d’acqua del Ventimigliese è detto Fiumara di Taggia.<br />
108 Cfr. le forme Brascarolo, Corvarola.<br />
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‘lingua’. Ma anche per quanto riguarda il nesonimo Asinara bisogna chiedersi se<br />
non si tratti di una forma paretimologica e non rappresenti una grafia prodottasi in<br />
fonia sintattica da un precedente nome Sinara ‘sinuosa’ che sarebbe coerente col<br />
fatto che l’isola in sardo non sia denominata, come ci si aspetterebbe, *Ainàra.<br />
Sul suffisso in questione è lo stesso Compasso a indicare la soluzione del problema<br />
grazie all’elevatissima frequenza della voce millàra e millàro ‘migliaia, migliaio’,<br />
la quale assicura la vigenza, ancora alla metà del Duecento, del suffisso<br />
-àra nel pisano antico. Relativamente alla Gallura la Carta di compromesso tra il<br />
vescovo di Civita e l’operaio della cattedrale di Pisa (1173) registra ancora l’antica<br />
forma logudorese operariu. E ancora in Dante (1304-08) il toscano antico<br />
presenta operario. La circostanza non è priva di importanza se la si riferisce ai<br />
citati toponimi galluresi formati da basi logudoresi (Limbara, Taulara, Molara).<br />
La loro insorgenza, dunque, rimonta probabilmente al periodo in cui fu redatto il<br />
Conto navale pisano (metà sec. XII) e che precede la stesura del Compasso (sec.<br />
XIII) e va a collocarsi, con le analoghe forme attestate in Corsica e in Liguria, nella<br />
fase che precede l’affermazione del suffisso -àia. Dunque, queste attestazioni<br />
toponimiche sarebbero coerenti con la dominazione pisana sulla Gallura durante<br />
la fase finale dell’istituzione giudicale.<br />
14. Tra altre voci caratteristiche, il sassarese ne conserva una tipica, grèffa<br />
‘cricca, clan, gruppo di giovani’, 109 che è passata anche nel gallurese e nel<br />
logudorese, tanto che alcuni lessici accolgono ormai anche questa parola. 110<br />
La forma in questione pare corrispondere alla voce toscana disusata gueffa<br />
citata da Dante (Inf., XIII, 16) e attestata in pochi e antichi documenti. I<br />
primi commentatori della Commedia ne davano la seguente definizione: «È<br />
detta gueffa lo spago avvolto insieme l’uno filo sopra l’altro» (Anonimo<br />
Fiorentino). Altri chiamavano in causa la relativa voce verbale: «aggueffare<br />
è filo a filo aggiungere» (Buti). Ancora più chiaro è il significato nello Statuto<br />
della Corte dei Mercanti di Lucca, 111 in cui gueffa è tradotto ‘matassa’.<br />
Sicché il passo dantesco fa gueffa vale propriamente ‘fa matassa’. Sul piano<br />
109 G.P. BAZZONI, Dizionario fraseologico sassarese-italiano, Sassari, Magnum-Edizioni, 2001, p. 252.<br />
110 Soltanto di recente vi è stato un primo tentativo di chiarirne l’origine. Massimo PITTAU, Dizionario<br />
della lingua sarda, Cagliari, Gasperini Editore, 2000, I, p. 445 spiega il significato di<br />
‘combriccola’ attraverso un incrocio delle voci italiane gregge e greppia.<br />
111 Lo Statuto della Corte dei Mercanti in Lucca del 1376, a cura di Umberto Dorini, Augusto<br />
Mancini e Eugenio Lazzareschi, Firenze, Olschki, 1927, p. 159.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
semantico non pare difficile scorgere il nesso esistente tra il toscano guèffa<br />
e il sassarese grèffa. Anche quest’ultimo termine reca in sé il letterale significato<br />
di matassa che, applicato in senso figurato alle persone, assume appunto<br />
il significato di ‘cricca, clan, combriccola, congrega, gruppo di persone<br />
che si riuniscono abitualmente’. Sul piano fonetico l’unica particolarità<br />
è costituita dalla /r/ ascitizia che, peraltro, non rappresenta un fatto infrequente<br />
nella fonologia del sassarese. Volendo restringere il campo a questa<br />
varietà, simili casi di epentesi sono costituiti, per esempio, da buttréa ‘bottega’,<br />
trònu ‘tuono’, léstru ‘lesto’, priggurósa ‘Parietaria officinalis’ (log.<br />
pigulòsa), etc. Non vi è alcuna difficoltà, dunque, ad ammettere che il sass.<br />
grèffa sia un continuatore del termine guèffa anticamente usato in Toscana.<br />
La sua residuale vigenza nella parlata sassarese può essere attribuita al fatto<br />
che fino alla fine del Duecento, o almeno fino alla sconfitta pisana alla<br />
Meloria nel 1284, la città di Sassari rappresentava un punto periferico ma<br />
importante dell’orbita pisana e, di riflesso, toscana.<br />
Quando giunsero in Sardegna questi toscanismi di cui l’italiano odierno<br />
conserva il ricordo soltanto attraverso le fonti documentarie e letterarie? I<br />
dati cui si accennava lasciano ritenere che essi si siano affermati in Corsica<br />
e nelle varietà sardo-corse, specialmente nel gallurese, durante il periodo<br />
della toscanizzazione dell’isola minore da parte della potenza pisana; periodo<br />
che gli studiosi inquadrano tra l’XI e il XII secolo. Non si può tacere che<br />
si tratta, grossomodo, del medesimo periodo in cui Pisa produsse un formidabile<br />
influsso culturale, e non solo, su tutta la Sardegna settentrionale. Influsso<br />
che in Sardegna, anzi, si prolungò anche oltre rispetto a quanto si<br />
verificò in Corsica.<br />
15. Se gli aspetti suddetti riguardano il toscano antico, non mancano neanche<br />
esempi relativi al genovese antico. Nel tempiese vige la rara forma verbale sciagà<br />
‘colpire con forza, percuotere’, la quale è sconosciuta alle altre varietà sardocorse.<br />
Tra i lessicografi galluresi, il tempiese Andrea Usai ha messo a lemma la<br />
forma sciagata ‘pesante colpo di mano aperta’, 112 una definizione che è stata<br />
ripresa fedelmente da Francesco Rosso nel suo recente Dizionario. 113 Ai tempiesi<br />
e a chi ha pratica della loro parlata non sfugge la riduttività della definizione<br />
112 A. USAI, Vocabolario tempiese-italiano italiano tempiese cit., p. 216.<br />
113 F. ROSSO, Dizionario della lingua gallurese cit., p. 528 sciagata ‘colpo pesante dato con mano aperta’.<br />
67
68<br />
Mauro Maxia<br />
dell’Usai che, diversamente da altri casi, rinunciò a individuarne l’etimologia.<br />
A Tempio si sente dire, a volte con tono burbero ma più spesso come finta<br />
minaccia, la frase Mi’ chi ti sciagu!, che ha più o meno lo stesso significato<br />
dell’altra frase Mi’ chi ti battu! ‘guarda che ti picchio!’. Altre volte si sente dire<br />
Ghjà l’ani sciagatu be’ ‘lo hanno ridotto a mal partito’. Da queste citazioni si<br />
comprende come questo verbo viga con tutte le forme flesse e non si riduca al<br />
solo deverbale sciagàta registrato da Usai. Ebbene, si tratta di un ligurismo che<br />
va col genovese ant. xacar, documentato dal 1425-26 col participio passato<br />
xachao, 114 che corrisponde all’odierno genovese sciaccà ‘schiacciare, rompere,<br />
infrangere, pigiare, calcare’. 115 Il corso cismontano presenta questo ligurismo<br />
con la stessa forma sciaccà ‘schiacciare, percuotere’, che nella parlata del Capo<br />
Corso assume anche il significato di ‘suonarle a qualcuno’. 116 Anche il corso,<br />
come il gen. sciaccadda, ha la forma sciaccata ‘colpo, percossa’, che sul piano<br />
semantico collima con la forma gallurese sciagà. La particolarità della variante<br />
tempiese è data dal fatto che l’occlusiva velare sorda in contesto intervocalico,<br />
contrariamente alla norma che ne vuole il mantenimento, 117 si è sonorizzata<br />
passando a fricativa del corrispondente grado di articolazione.<br />
Questo fenomeno sembra essersi realizzato per evitare la confusione o l’opposizione<br />
fonologica con la voce sciaccà ‘sciacquare’. 118 Per rendere il significato<br />
di ‘schiacciare, premere, pigiare, calpestare’ il gallurese, quindi, ha preferito<br />
la voce sciaccià, che va col toscano schiacciare, al genovese sciaccà che,<br />
tuttavia, si è conservato con la variante sciagà operante in un più limitato spettro<br />
semantico. I dati che emergono dalla discussione intorno a questo verbo<br />
sembrano escludere, per ragioni di ordine semantico, che si sia potuto introdurre<br />
a Tempio direttamente dal genovese. Però le fonti documentarie di Tempio<br />
attestano la presenza di parecchie persone provenienti dal Capo Corso e specialmente<br />
dalla pieve di Brando, 119 dove la voce sciaccàta ha lo stesso significato<br />
del tempiese sciagàta. Orbene, poiché la nutrita presenza di brandinchi è<br />
documentata soprattutto all’interno della prima metà del Settecento, si può rite-<br />
114 F. TOSO, La letteratura in genovese cit., I, p. 234 lo cor xachao.<br />
115 G. CASACCIA, Vocabolario genovese-italiano, Genova, Tipografia Fratelli Pagano, 1851, p. 493.<br />
116 F.D. FALCUCCI, Vocabolario dei dialetti cit., p. 317.<br />
117 Tuttavia non mancano altri casi di sonorizzazione che sono citati nel paragrafo relativo alle<br />
occlusive intervocaliche, per le quali si rimanda al volume di prossima edizione.<br />
118 G. BOTTIGLIONI, Leggende e tradizioni di Sardegna, Biblioteca dell’Archivum Romanicum,<br />
serie II, vol. 5, Ginevra, 1922, p. 44.<br />
119 M. MAXIA, I Corsi in Sardegna cit., p. 175.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
nere che la voce genovese si sia acclimatata nella parlata tempiese nel medesimo<br />
periodo, al termine di un lungo percorso cronologico che in precedenza l’ha<br />
vista transitare nell’estremo nord della Corsica.<br />
Comunque, forse più che le attestazioni di antichi toscanismi e ligurismi, a<br />
dare la misura dell’antichità del radicamento del sassarese, del gallurese e<br />
delle altre varietà sono i fenomeni e le modalità con cui queste varietà adattarono<br />
i moltissimi sardismi che, penetrando nelle loro strutture grammaticali e<br />
nel relativo patrimonio lessicale, ne determinarono l’odierna, caratteristica<br />
veste di varietà-ponte.<br />
A quest’ultimo e fondamentale aspetto si deve aggiungere, sul versante sardo,<br />
l’importante influsso esercitato per circa quattro secoli dal catalano e dallo<br />
spagnolo su tutte le varietà sardo-corse con la sola eccezione del maddalenino. 120<br />
Sul piano lessicale il contatto con le due lingue iberiche ha determinato<br />
l’acquisizione di oltre un migliaio di lessemi che in molti casi sono stati adattati<br />
alle norme fonologiche delle singole varietà. 121 Non sono pochi né privi di importanza<br />
neppure diversi fatti morfologici che insieme a decine di calchi sintattici<br />
contribuiscono a caratterizzare specialmente il gallurese. Sul versante corso,<br />
viceversa, si deve tener conto dell’influsso esercitato dal ligure che fu sicuramente<br />
più intenso e duraturo rispetto a quanto avvenne in Sardegna. Inoltre, ad<br />
accentuare il processo di allontamento del corso rispetto al sassarese e al gallurese<br />
durante questi ultimi due secoli ha contribuito anche l’influsso sempre più<br />
invasivo del francese che, viceversa, è pressoché sconosciuto nelle varietà trapiantate<br />
in Sardegna. 122<br />
120 Alcuni catalanismi e spagnolismi sono penetrati anche nel corso; talvolta da vettore di questo<br />
influsso possono avere agito il gallurese e il sassarese come pare testimoniare, per esempio, il<br />
caso del corso (di) vada, bada ‘di regalo, gratis’ (F.D. FALCUCCI, Vocabolario dei dialetti cit., p.<br />
368) che va col gall. di bata < sp. de badas; cfr. M. MAXIA, Tra sardo e corso cit., cap. 18.<br />
121 Un inventario degli spagnolismi e dei catalanismi nelle parlate sardo-corse non è stato effettuato.<br />
Una stima è stata operata da chi scrive nei confronti del logudorese, per il quale i prestiti<br />
acquisiti dalle due lingue iberiche sono calcolati intorno a 1.300. Se si tiene conto che il gallurese<br />
presenta catalanismi e spagnolismi in numero non inferiore a quelli attestati nel logudorese,<br />
questa approssimazione potrebbe risultare attendibile anche da questo punto di osservazione.<br />
Se si prendesse a riferimento il dizionario del Gana, il numero di iberismi attestati in gallurese<br />
(compresi quelli disusati) corrisponderebbe complessivamente a circa il 7-8% del complessivo<br />
patrimonio lessicale.<br />
122 Uno dei rarissimi francesismi penetrati nel maddalenino e lungo l’estrema fascia settentrionale<br />
della Gallura è patècca ‘anguria’ ma il tramite di questo prestito non è il fr. pastèque bensì il<br />
gen. patèca.<br />
69
70<br />
Mauro Maxia<br />
16. La disamina dei vari fenomeni che caratterizzano la fonetica storica del<br />
gallurese, del sassarese e delle varietà intermedie di Castelsardo e Sedini,<br />
confrontata con le attestazioni storiche e documentarie, porta a concludere<br />
che il radicamento di codesti parlari risalga alla fase finale dell’età giudicale<br />
(secoli XII-XIII). Essi presero piede, affiancandosi all’antico logudorese, grazie<br />
ad alcuni nuclei di corsi stabilitisi in una serie di località (Sassari,<br />
Castelsardo, Sedini, Tempio) che funsero da punti-chiave per la successiva<br />
diffusione nei territori circostanti. Col trascorrere del tempo queste parlate<br />
alloglotte acquisirono strutture e rilevanti quote di lessico dal logudorese,<br />
cominciando quel percorso di allontamento dalle varietà propriamente corse.<br />
Successivi apporti demografici, specialmente in Gallura, introdussero fenomeni<br />
e termini di origine ligure.<br />
Le differenze che si rilevano nel vocalismo e nel consonantismo delle parlate<br />
sardo-corse si spiegano, per alcuni aspetti, a partire da variazioni che potevano<br />
già vigere nelle due macroaree della Corsica con le quali, sul piano fonomorfologico,<br />
le due principali varietà della Sardegna settentrionale (sassarese e<br />
gallurese) mostrano di condividere molti fenomeni. Questi rapporti si intravedono<br />
più chiaramente, da un lato, tra il gallurese e l’estremo sud-est e, dall’altro, tra<br />
il sassarese e la zona della Corsica occidentale che ha al centro il golfo di Ajaccio.<br />
Per altri aspetti, alla successiva e ulteriore differenziazione dei due gruppi<br />
principali (sassarese e gallurese) hanno contribuito, da un lato, il fortissimo<br />
influsso sardo logudorese e, dall’altro, il prolungato contatto col catalano, prima,<br />
e col castigliano, infine.<br />
Per quanto riguarda l’elemento toscano, che è rilevabile più chiaramente<br />
nelle varietà orientali, esso sembrerebbe risalire sostanzialmente a un periodo<br />
che potrebbe precedere lo stabile radicamento del corso in Sardegna. Alcuni<br />
fenomeni sembrano rimontare al periodo in cui più forte fu l’influsso esercitato<br />
da Pisa sulla lingua parlata a Sassari (sec. XIII) e, soprattutto, in Gallura (sec. XI<br />
– metà sec. XIV). Si deve riconoscere, d’altra parte, che l’influsso toscano dovette<br />
dispiegare i suoi effetti nel periodo che precedette la conquista della Sardegna<br />
da parte della Corona d’Aragona.<br />
Tornando all’influsso ligure, la maggior parte dei fenomeni imputabili ad<br />
esso poté insorgere in un periodo in cui sia la Corsica sia la Sardegna di nordovest<br />
furono sottoposte a un dominio diretto di Genova ovvero mediato dalla<br />
signoria dei Doria. Il potentissimo casato genovese, oltre che a Sassari, aveva<br />
dei caposaldi economici nei porti di Turres (Porto Torres), Castel Genovese<br />
(Castelsardo) e Alghero, che fu catalanizzata nel 1354. Questo quadro può spiegare<br />
la maggiore frequenza di ligurismi nel sassarese rispetto al gallurese che,
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
pur avendo probabilmente una genesi comune all’oltremontano meridionale, 123<br />
ne presenta a sua volta in misura niente affatto trascurabile. Ma, dovendosi<br />
escludere per ragioni storiche una diretta influenza della Superba sulla Gallura,<br />
il principale punto di irraggiamento di tale influsso andrebbe individuato nella<br />
colonia da essa impiantata a Bonifacio nel 1195. Ciò non esclude i contributi di<br />
altri gruppi, di cui le fonti documentarie consentono di riconoscere le sedi di<br />
partenza nello stesso Capo Corso. 124<br />
A lungo si è parlato dell’italiano riguardo alla formazione del sassarese anche<br />
in relazione a periodi in cui, oggettivamente, una presenza propriamente italiana<br />
sul piano linguistico appare difficilmente giustificabile. In effetti l’approccio a<br />
questo argomento andrebbe condotto, di volta in volta, attraverso le tre macrovarietà<br />
regionali (corso, toscano e ligure) che, in misura diversa ma sempre importante,<br />
ebbero rapporti anche intensi col sardo. Ma mentre la vigenza del toscano e del<br />
ligure va inquadrata in corrispondenza dell’influsso politico e culturale esercitato<br />
da Pisa (secc. XII-XIV) e Genova (sec. XIII-XV), quella del corso si prolungò senza<br />
soluzione di continuità per tutto il periodo che abbraccia il basso Medioevo e l’età<br />
moderna. Questo aspetto risulta chiaro quando i Gesuiti, nel 1561, osservavano<br />
che Sassari aveva «peculiar lengua, muy conforme a la italiana, aunque los<br />
ciudadanos dessean desterrrar esta lengua de la ciudad por ser apegadisa de<br />
Córsega» 125 e consideravano il corso alla stregua dell’italiano. 126<br />
Per quanto riguarda l’elemento sardo logudorese, presente in misura cospicua<br />
in tutte le varietà sardo-corse più antiche, il problema di fondo gira attorno a una<br />
duplice opzione: se, cioè, si debba interpretare l’altissimo numero di sardismi<br />
lessicali, fonetici e sintattici come conseguenza di un influsso che, pur massiccio,<br />
non mise in discussione la base corsa delle parlate in questione. In tal caso sarebbe<br />
legittimo parlare di prestiti. L’altra opzione è rappresentata dalla circostanza<br />
per cui l’imponente quota di sardismi vigenti nelle strutture e nel lessico del<br />
sassarese, del gallurese e delle altre varietà rappresenti essa stessa un elemento<br />
costitutivo di queste parlate. Gran parte dei dati esposti nella preannunciata Fonetica<br />
va in quest’ultima direzione. Per molti sardismi lessicali e fonetici, grazie alle<br />
123 M.J. DALBERA-STEFANAGGI, Le corso-gallurien, «Géolinguistique», 8 (1999), pp. 161-179. Già<br />
dal golfo del Valinco e da alcuni villaggi del Sartenese le isofone presentano, specialmente per<br />
il vocalismo, significative concordanze col sassarese e castellanese piuttosto che col gallurese.<br />
124 Per la presenza nel territorio un tempo spettante a Tempio di gruppi provenienti da Bastia e<br />
dalla pieve di Brando cfr. M. MAXIA, I Corsi in Sardegna cit., pp. 175-176.<br />
125 R. TURTAS, Scuola e Università in Sardegna tra ‘500 e ‘600, Sassari, Chiarella, 1995, doc. 6,<br />
pp. 116-117.<br />
126 Ivi., doc. 7, p. 117: «corço, o italiano que le es vezino».<br />
71
72<br />
Mauro Maxia<br />
norme della fonetica storica del sardo, 127 è possibile stabilire con una certa precisione<br />
il periodo in cui furono acquisiti dalle nuove varietà giunte dalla Corsica.<br />
Nella maggior parte dei casi i fenomeni in questione si collocano tra la fase finale<br />
dell’età giudicale (metà del XIII secolo) e il Quattrocento.<br />
La tesi conseguente a questo quadro storico-linguistico contempla una situazione<br />
sociale piuttosto complessa che dovette protrarsi a lungo. Durante un<br />
primo periodo le varietà alloglotte dovettero radicarsi presso nuclei di immigrati<br />
corsi che riuscirono a conservarsi coesi in determinate zone e quartieri dei<br />
centri abitati più importanti della fascia settentrionale della Sardegna. Sono diverse,<br />
ormai, le prove storiche e onomastiche che dimostrano questa situazione. 128 In<br />
un secondo momento – che non è necessariamente lo stesso per tutti i centri in<br />
cui oggi si parlano varietà di matrice corsa – il corso ha cominciato a sostituirsi<br />
al logudorese. In alcuni centri questo processo si è concluso da molto tempo.<br />
Per Sassari, Sorso, Castelsardo, Sedini, Tempio, Aggius e Calangianus il relativo<br />
periodo andrebbe individuato tra il Quattrocento e il Cinquecento. A<br />
Bortigiadas e nella bassa valle del Coghinas il processo di sovrapposizione del<br />
corso sul logudorese si è concluso soltanto tra la metà dell’Ottocento e i primi<br />
decenni del Novecento. A Olbia una dinamica analoga è in corso da secoli. Da<br />
qualche decennio anche a Budoni, Perfugas e Padru, anche a causa del<br />
concomitante abbandono del sardo a favore dell’italiano, il gallurese sembra<br />
guadagnare spazio nei confronti del logudorese.<br />
Lo studio dell’antroponimia a livello locale ha consentito di appurare che<br />
non sempre la lotta tra il sardo e il corso si è conclusa a favore di quest’ultimo.<br />
A Osilo, Nulvi e Ozieri, dove tra il Quattro e il Cinquecento sono attestate cospicue<br />
colonie corse, l’elemento alloglotto fu sopraffatto da quello autoctono. 129<br />
Nella prospettiva di un sempre più soddisfacente chiarimento di quanto è avvenuto<br />
in passato, queste situazioni locali offrono la possibilità di osservare le<br />
dinamiche con le quali le due varietà, quella autoctona e quella alloglotta,<br />
interagirono. Si tratta di processi lenti, durante i quali le due varietà concorrenti<br />
acquisiscono a vicenda sardismi e corsismi adattandoli alle proprie norme fonetiche.<br />
Queste situazioni possono protrarsi per un tempo indefinito, come dimostra<br />
il caso di Olbia, oppure volgere a favore di una delle due varietà in un tempo<br />
127 Cfr. M. L. WAGNER, Fonetica storica del sardo, Introduzione Traduzione e Appendice di Giulio<br />
Paulis, Cagliari, Trois, 1984.<br />
128 Cfr. M. MAXIA, I Corsi in Sardegna cit., pp. 45-47 e passim.<br />
129 Ivi, pp. 197-205; 207-217.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
relativamente breve, come si è verificato nel caso di Bortigiadas. In effetti, per<br />
avere un quadro più completo della microidentità sardo-corsa che si è venuta<br />
formando lungo il corso di parecchi secoli sarebbero necessari degli studi che,<br />
oltre ai fatti propriamente linguistici, dessero conto anche delle diverse sfaccettature<br />
con cui questa microidentità si manifesta e cioè la musica, il canto, la danza,<br />
l’abbigliamento, i prodotti dell’economia tradizionale, la cucina e altri campi che<br />
concorrono a formare i concetti di cultura materiale e immateriale.<br />
17. Uno studio di fonetica storica non è mai un lavoro a sé stante, ma comporta<br />
diverse implicazioni, specialmente in una situazione come quella delle varietà<br />
sardo-corse per le quali, se si escludono alcuni dizionari di appassionati cultori, si<br />
dispone di pochi studi preliminari non solo in àmbito fonologico ma anche per<br />
quanto riguarda le altre branche della grammatica. 130<br />
Trarre ora delle conclusioni che vadano in direzione del toscano-corso piuttosto<br />
che del sardo equivarrebbe, oltre che a una semplificazione, a una riduzione<br />
delle molte questioni che ruotano intorno all’argomento. Anche se la complessiva<br />
discussione scientifica su queste varietà, pur tra comprensibili difficoltà, è riducibile<br />
a schema, la lunga polemica tra il Wagner (che sosteneva l’italianità del sassarese)<br />
e il Bottiglioni (che ne sosteneva la sardità) testimonia ancora oggi dei pesanti<br />
riflessi e dei ritardi che essa ha prodotto sul prosieguo degli studi.<br />
Un lavoro organico e di largo respiro come può essere la fonetica storica del<br />
sardo-corso può dimostrare che i tempi per le conclusioni, che forse neanche<br />
oggi sono maturi, lo erano tantomeno in un periodo in cui le conoscenze su<br />
queste problematiche erano, per più aspetti, inferiori a quelle attuali. Peraltro, la<br />
lingua finché vive e si evolve rappresenta un fatto dinamico che non sempre si<br />
presta a classificazioni rigide. E, d’altra parte, i fenomeni linguistici non andrebbero<br />
analizzati con la sola lente del linguista. I fatti dimostrano che, a causa<br />
della penuria dei dati propriamente linguistici, senza l’ausilio delle fonti<br />
storiografiche e senza le testimonianze di tipo onomastico una fonetica storica<br />
delle varietà in questione forse non si sarebbe potuta scrivere o si sarebbe dovu-<br />
130 Sul piano generale è da ricordare il sempre valido Saggio del Bottiglioni (G. BOTTIGLIONI, Saggio<br />
di fonetica sarda. Gli esiti di L (R, S) + consonante e di J nei dialetti di Sassari e della<br />
Gallura, di Nuoro e del Logudoro, ‘Studi Romanzi’, XV, Perugia, 1919), mentre su un piano<br />
specifico uno dei migliori lavori è la monografia di Ch. GARTMANN, Die Mundart von Sorso,<br />
Abhandlung zur Erlangung der Doktorwürde der Philosophischen Fakultät I der Universität<br />
Zürich, Zürich, 1967 (dattiloscritto).<br />
73
74<br />
Mauro Maxia<br />
ta limitare ai soli fatti sincronici, rinunciando con ciò alla descrizione di fatti<br />
che, viceversa, sono osservabili anche sul piano grafico.<br />
È proprio quando la ricerca su determinati fenomeni si affina che può rivelarsi<br />
maggiormente utile l’apporto di competenze pluridisciplinari. Volendo chiudere<br />
con una similitudine, si potrebbe invocare la metafora dell’innesto. Ammesso<br />
che ciò sia compatibile con un lavoro specialistico, si potrebbe dire che<br />
le varietà sardo-corse, in relazione all’origine e al loro sviluppo, sono paragonabili<br />
a certe piante di cui alcuni caratteri ricordano quelli del portainnesto e altri<br />
quelli della marza.<br />
Date queste premesse, il lavoro appena portato a conclusione si propone<br />
anche di svolgere una funzione di stimolo nella direzione di un rinnovato interesse<br />
alla descrizione dell’origine e dell’evoluzione del sardo-corso a partire<br />
dalle sue singole varietà. Varietà che, pur nel loro ridotto ambito geografico,<br />
presentano tuttavia degli importanti elementi per una migliore conoscenza del<br />
panorama romanzo e, in particolare, della linguistica italiana e sarda.
PER UNA FONETICA STORICA DELLE VARIETÀ SARDO-CORSE<br />
ABBREVIAZIONI<br />
ant. antico<br />
camp. campidanese<br />
cap. capitolo<br />
cat. catalano<br />
cast. castellanese, di Castelsardo<br />
cfr. confronta<br />
cit. citato<br />
doc. documento<br />
ecc. eccetera<br />
es. esempio<br />
f. foglio<br />
fr. francese<br />
gall. gallurese<br />
gen. genovese<br />
ibid. ibidem<br />
id. idem<br />
Inf. Inferno<br />
it. italiano<br />
l. linea<br />
lat. latino<br />
lettm. letteralmente<br />
log. logudorese<br />
n. numero, nota<br />
p. pagina<br />
part. participio<br />
pass. passato<br />
Purg. Purgatorio<br />
r recto (del foglio)<br />
sass. sassarese<br />
sec. secolo<br />
sed. sedinese, di Sedini<br />
segg. seguenti<br />
sett. settentrionale<br />
sp. spagnolo<br />
tosc. toscano<br />
v verso (del foglio)<br />
v. vedi<br />
vol. volume<br />
75
1. Introducció<br />
PROBLEMES DE CODIFICACIÓ DE L’ALGUERÈS *<br />
Andreu Bosch i Rodoreda<br />
<strong>Universitat</strong> de Barcelona<br />
L’article analitza dos fenòmens lingüístics o problemes de codificació que deriven<br />
de la manca d’alfabetització efectiva en català a l’Alguer i de la situació<br />
ecosociolingüística peculiar d’aquest territori de parla catalana: d’una banda,<br />
l’ús de l’alguerès en la retolació viària i comercial amb errors de correcció<br />
lingüística o basat en models lingüístics contraposats; i, de l’altra, les dificultats<br />
d’elaboració de materials didàctics a l’alguerès respectant l’ortografia de la<br />
llengua catalana i alhora reflectint la parla algueresa.<br />
En el primer cas, es comparen les dades recollides per l’autor entre 1993 i<br />
1998 amb dades de 2008, 10 anys després, tant pel que fa a l’ús del català en la<br />
retolació viària i nomenclàtor de carrers com quant a la presència de l’alguerès<br />
en la retolació comercial. Es confirma el desgavell de models lingüístics en què<br />
s’ha basat l’ús de l’alguerès en aquests àmbits, no únicament ortogràficament,<br />
sinó també gramaticalment (models de codificació asimètrics).<br />
En el segon cas, la necessitat d’adaptar materials didàctics per a l’escola,<br />
per raons pedagògiques, però també per factors de cohesió lingüística, comporta<br />
la presa de decisions sobre el model de llengua oral i escrit a seguir, a partir<br />
d’una anàlisi descriptiva de la llengua (fonètica i fonològica, i també morfològica,<br />
lèxica i sintàctica). L’autor aporta exemples extrets de l’elaboració de materials<br />
en què ha participat, com ara el còmic Tintín al país de l’or negre (1995) i el<br />
recull Històries de l’Alguer, entre la marina i la campanya (1996), alguns dels<br />
quals són objecte de revisió; i també exemples procedents dels materials didàctics<br />
elaborats des del Centre de Recursos Pedagògics Maria Montessori per un equip<br />
docent, amb revisió lingüística de Luca Scala.<br />
* Aquest treball forma part del projecte d’investigació HUM2007-65531, finançat pel MICINN i el<br />
FEDER. Reprodueix la comunicació que duu el mateix títol presentada al III Col·loqui Internacional<br />
«La Lingüística de Pompeu Fabra», <strong>Universitat</strong> <strong>Rovira</strong> i <strong>Virgili</strong> (17 de desembre de 2008).<br />
77<br />
INSULA, num. 5 (giugno 2009) 77-88
78<br />
2. Alguns casos de publicitat comercial i viària a partir de models de<br />
codificació asimètrics<br />
Després de les dades reportades el 1998 en relació al treball de camp realitzat a<br />
l’Alguer entre 1996-1997 sobre «L’ús del català i la interferència lingüística en<br />
la publicitat visual i la retolació comercial i institucional de l’Alguer» (Bosch<br />
1998; Bosch 2002: 209-258), no es pot dir que s’hagi avançat gaire en el panorama<br />
de la codificació lingüística, com demostren les dades que reporto en aquest<br />
article recollides el 2008.<br />
Ja aleshores apuntava dos fenòmens a considerar: d’una banda, «l’ús del<br />
català en la publicitat visual i la retolació comercial i institucional a l’Alguer,<br />
que és escàs i testimonial, si bé obeeix a unes constants sociolingüístiques,<br />
especialment interessants des d’una òptica d’alternança de llengües (català i<br />
italià)»; i, d’una altra, el model de llengua utilitzat, per tal d’«estudiar-ne les<br />
interferències de l’italià – especialment gràfiques, lèxiques i sintàctiques –, però<br />
també de l’estàndard català enfront de l’ús d’un model o d’uns models – si és<br />
que n’hi ha – de llengua més acostats a la varietat algueresa, especialment en la<br />
morfologia i el lèxic», tot relacionant-ho amb «la incidència de l’ortografia<br />
catalana – i, per tant, de la normativa ortogràfica – en els usos lingüístics<br />
publicitaris a l’Alguer, un dels aspectes més interessants, a cavall de la fonètica<br />
algueresa i de les interferències de l’ortografia de la llengua italiana». 1<br />
Fenòmens lingüístics i problemes de codificació inherents als missatges:<br />
a) Consonantisme<br />
[Per a seguir aquest apartat, caldrà tenir en compte el valor de les sigles següents:<br />
(AAST) Retolació turística de l’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo (l’Alguer),<br />
avui desapareguda.<br />
(MA) Retolació viària: nomenclàtor oficial de carrers (Municipi de l’Alguer).<br />
(MAT) Retolació turística municipal (Municipi de l’Alguer).<br />
(PC) Producte comercial.<br />
(RP) Retolació viària: nomenclàtor popular de carrers (Rotary Club Alghero).<br />
(RPA) Retolació viària: nomenclàtor popular de carrers (altres).<br />
(RC) Retolació i publicitat comercial.]<br />
– Canvi de r implosiva a [l]:<br />
(1) Ristorante EL PULTAL Pizzeria (RC)<br />
(2) Lo Portal – Piazza Porta Terra (MA)<br />
(3) Lo barber Estetista (RC)<br />
(4) Margalló i www.margallo.it (Azienda Agricola Antonella Ledà d’Ittiri) (PC)<br />
(5) Valmell Cannonau di Sardegna DOC, Cantina Sociale Santa Maria la Palma (PC)<br />
1 Bosch 1998: 105; revisat a Bosch 2002: 209.<br />
Andreu Bosch i Rodoreda
PROBLEMES DE CODIFICACIÓ DE L’ALGUERÈS<br />
Observem manca de simetria en els exemples de retolació comercial (1) i (3),<br />
i també d’(1) respecte del cas (2) del nomenclàtor oficial de carrers al casc antic,<br />
que remeten a portal [pulºtal]. La mateixa asimetria apareix en l’etiquetatge de<br />
vins algueresos: Margalló [ma:ga¥o] (4) no s’adiu amb Valmell ‘vermell’ [valmel]<br />
(5), 2 malgrat el manteniment ortogràfic de -ll, que es despalatalitza en alguerès.<br />
– Rotacisme de -/d/- > [\]:<br />
(6) RUMPURA di Loi Alessandro i www.rumpura.com (RC)<br />
(7) Pescheria «RURÓ» di Paolo e Dino Melone (RC)<br />
(8) Davallada de don Pinna (MA) i Devellada de don Pinna (RP)<br />
Un cas ben particular d’arcaisme i de transgressió ortogràfica desapercebut<br />
és (6): Rompuda és un xisto o malnom dels membres d’una família popularment<br />
coneguts per ésser enterramorts. M’informa Luca Scala que els minyons feien<br />
broma amb aquest malnom repetint en italià un fals eslògan «Rompuda: bare e<br />
bauli su misura», que evidencia la realització amb rotacisme [rumpu\a] (a més<br />
d’haver fossilitzat la flexió pròpia de la classe verbal II, avui rompit, rompida,<br />
de rompir). 3 El malnom s’ha lexicalitzat a partir de les formes primigènies m.<br />
lo/s de Romput, f. la/les de Rompuda.<br />
Un cas anàleg és (7), a partir de la realització de rodó [ru\o], que ja vaig<br />
reportar el 1998. 4 Tots dos casos no s’adiuen amb els dues seqüències gràfiques<br />
de (8) del mot davallada [dava¥a\a].<br />
– Despalatalització de -ll final:<br />
(9) Ristorante Bar Gelateria CAVAL MARI’ (RC) 5<br />
(10) Valmell Cannonau di Sardegna DOC, Cantina Sociale Santa Maria la Palma (PC)<br />
(11) La Prassa del Pou Vel (RPA) / Plaça del Pou Vell – Piazza Civica (MA)<br />
Mentre els casos (9) – ja desaparegut de la via pública – i (11) – un rètol no<br />
oficial però ben visible a la façana del palau de Ferrera o d’Arcayne – deriven<br />
d’una grafia fonètica, el cas (10), que reflecteix la presència escadussera en<br />
l’etiquetatge en català en l’activitat vinícola, 6 és un reflex de la manca de criteri:<br />
es manté -ll avui amb realització despalatalitzada [valmel], però hom grafia<br />
un cas de tractament de /\/ > [l] en posició de coda travada.<br />
2 Bosch 2008: 83.<br />
3 Scala 2003: 293.<br />
4 Bosch 1998: 143; Bosch 2002: 255.<br />
5 Activitat comercial desapareguda (Bosch 1998: 130, 143; Bosch, 2002: 238, 255).<br />
6 Bosch 2008: 83-84.<br />
79
80<br />
b) Vocalisme<br />
Reducció vocàlica<br />
– De la [a] àtona:<br />
– De la [u] àtona:<br />
(12) Davallada de don Pinna i Davallada de Ricciu (MA) / Devellada de don Pinna (RP)<br />
(13) A mos veura (MAT) vs. A nos veure (AAST)<br />
(14) Valmell Cannonau di Sardegna DOC, Cantina Sociale Santa Maria la Palma (PC)<br />
(15) RUMPURA di Loi Alessandro i www.rumpura.com (RC)<br />
(16) Pescheria «RURÓ» di Paolo e Dino Melone (RC)<br />
(17) Ristorante EL PULTAL Pizzeria (RC) / Lo Portal – Piazza Porta Terra (MA)<br />
(18) Lo barber Estetista (RC) / Pizzeria LU FURAT da Claudio / Ristorante<br />
“Lu Casal” (RC)<br />
Observem que en aquesta tipologia de fenòmens (reducció vocàlica de<br />
a/e àtones en [a] i de o/u en [u]) 7 es nota precisament la manca de referents<br />
ortogràfics, i, per tant, un tractament ad hoc de codificació al marge de l’ortografia<br />
i l’etimologia catalanes, reflex, sens dubte, de la manca d’alfabetització<br />
en català. Sobre aquests aspectes, els Registres de danys (1683-1829) i els<br />
Registres d’estimes de fruita (1783-1829) de la Barracelleria algueresa ja<br />
evidenciaven vacil·lacions a l’hora de fixar la grafia amb e/a i o/u àtones. 8<br />
c) Altres fenòmens fonètics<br />
(19) Carrer de Pa i Algua (RP i MA) vs. Bed & Breakfast AIGUA (RC)<br />
(20) Carrer de la Merced (RP) vs. Carrer de la Mercè (MA)<br />
(21) Carrero’ del Carmen (RP) vs. Carreró del Carme (MA)<br />
(22) Muralla de l’Espital (RP) vs. Carrer de l’Hospital (RP i MA)<br />
(23) Escola de Alguerés “Pasqual Scanu” (RC)<br />
Els casos (19) a (22) evidencien asimetria ortogràfica, d’acord amb les<br />
realitzacions en alg. mod. [a:gwa] (19), 9 [malset] (20), [kalmenªt] (21) i [aspital]<br />
(22). En canvi, el cas (23), al marge de la qüestió de l’accentuació de e d’acord<br />
amb la realització algueresa, 10 convé remarcar la manca d’apostrofació de de<br />
davant vocal, tenint en compte la realització [de] en bona part de contextos. 11<br />
7 Scala 2003: 25-27.<br />
8 Bosch 1999: 77, 140, 173.<br />
9 Scala 2003: 27.<br />
10 Scala 2003: 33.<br />
11 Bosch 2002: 144-145.<br />
Andreu Bosch i Rodoreda
PROBLEMES DE CODIFICACIÓ DE L’ALGUERÈS<br />
d) Ortografia fonètica (a la italiana)<br />
(24) Davallada de Ricciu (MA)<br />
(25) Hotel San Giuan (RC)<br />
(26) La Prassa del Pou Vel (RPA)<br />
També ací es nota la manca de referents ortogràfics, i, per tant, un tractament<br />
de codificació al marge de l’ortografia i l’etimologia catalanes, reflex del<br />
mimetisme dels grafemes i dígrafs propis de l’italià. Aquests exemples<br />
s’emmarcarien en la proposta del principi fonèmic basat en l’ús de la grafia<br />
italiana que proposa Chessa (2008, p. 190).<br />
Llegiu, respectivament, [rit°Su], [Æsan d°Zuan], [p\asa] i [vel]. Sobre aquests<br />
aspectes, els Registres de danys (1683-1829) i els Registres d’estimes de fruita<br />
(1783-1829) de la Barracelleria algueresa presenten aquest fenomen<br />
d’interferència ortogràfica de l’italià de manera força generalitzada, especialment<br />
a cavall dels segles XVIII i XIX. 12<br />
e) Ortografia (accentuació)<br />
(27) TANCA FARRA’, ALGHERO D.O.C. i RAÍM, Isola dei Nuraghi I.G.T., Sella &<br />
Mosca (PC)<br />
(28) Vi Marí, Margalló i Gínjol, Azienda Agricola Antonella Ledà d’Ittiri (PC)<br />
(29) Cabiròl, Cantina Sociale Santa Maria la Palma (PC)<br />
(30) Pescheria «RURÓ» di Paolo e Dino Melone (RC)<br />
(31) La Tazza d’oro Snack Piano Bar EL TRO’ (RC)<br />
(32) Escola de Alguerés “Pasqual Scanu” (RC)<br />
(33) Carrer de la Mercè (MA)<br />
(34) Carrero’ del Carmen (RP) vs. Carreró del Carme (MA)<br />
(35) TOT PER LA MUSICA (RC)<br />
Observem dos tipus de fenòmens: els graficofonètics i els ortotipogràfics.<br />
Pel que fa als primers, contrasta el cas incorrecte de raím (27) respecte de les<br />
lliçons marí, margalló i gínjol (28), ben accentuades; com també cabiròl (29)<br />
respecte de ruró (30). Per altra banda, ja hem vist que (32) remet a la realització<br />
tancada dialectal d’alguerès [a:ga\es] (com en cat. occ.), mentre que<br />
l’accentuació de (33), normativa, no es correspon amb la realització algueresa<br />
de Merced [malset], com hem vist a (20).<br />
Pel que fa als problemes ortotipogràfics, l’accentuació de les majúscules<br />
resulta conflictiva, amb restriccions o interferències tipogràfiques pròpies de<br />
12 Bosch 1999: 31-33.<br />
81
82<br />
l’italià: contrasta FARRA’ (27) i TRO’ (31), 13 amb l’accent gràfic desplaçat,<br />
respecte de RURÓ (30); la mateixa asimetria trobem a (34) en relació amb el<br />
mot carreró, en minúscula. 14 El cas de (35) tant pot remetre a raons ortogràfiques<br />
(per omissió) com ortotipogràfiques.<br />
f) Asimetria morfològica<br />
– Determinant masculí lo:<br />
(36) Ristorante EL PULTAL Pizzeria (RC)<br />
(37) La Tazza d’oro Snack Piano Bar EL TRO’ (RC)<br />
(38) Lo Portal – Piazza Porta Terra (MA)<br />
(39) Lo barber Estetista (RC)<br />
(40) Pizzeria LU FURAT da Claudio (RC) / Ristorante “Lu Casal”<br />
Hi podem observar totes les combinacions morfològiques i graficofenètiques.<br />
A (36) l’ús de el (estàndard) no s’adiu amb la grafia Pultal (cf. alg. [lu pulºtal]),<br />
un cas anàleg a (37); ambdós contrasten amb les solucions ortogràfiques dialectals<br />
lo Portal (38) i lo barber (39). 15 El cas (40), en canvi, respon a una mera grafia<br />
fonètica, a partir de lo forat [lu fu\at] i lo casal [lu kazal].<br />
– Pronom clític mos:<br />
– Flexió verbal:<br />
(41) A mos veura (MAT) / a nos veure (AAST) 16<br />
(42) Benvingut (MAT) / benvenguts (AAST) 17<br />
(43) RUMPURA di Loi Alessandro i www.rumpura.com (RC)<br />
Andreu Bosch i Rodoreda<br />
Les solucions dels missatges institucionals de (41) i (42) són asimètriques: A<br />
mos veura (41), que vol reflectir la parla algueresa [a muz vew\a] (o [a muzve\a]),<br />
no s’adiu amb benvingut (42), atès que en alg. trobem benvengut [beMvaNgut],<br />
com reflecteix la lliçó benvenguts (42). Contràriament, la lliçó a nos veure (41)<br />
sembla un intent d’estandardització, amb nos en lloc de l’alg. mos [mus], si bé no<br />
podem descartar que vulgui reflectir una solució més genuïna, arcaica, en desús. 18<br />
13 Cf. el cas (9).<br />
14 Cf. «lo rùstic» (Bosch 1998: 141; Bosch 2002: 253).<br />
15 Veg. la nota anterior.<br />
16 Rètol turístic institucional desaparegut (Bosch 2002: 239-240).<br />
17 Rètol turístic institucional desaparegut (Bosch 2002: 238-239).<br />
18 En aquest sentit, Luca Scala m’informa que mos [mus] és relativament recent, en alguerès:
PROBLEMES DE CODIFICACIÓ DE L’ALGUERÈS<br />
Pel que fa a (43), ja hem vist a (15) que «rumpura» remet a rompuda, un cas<br />
de fossilització d’una solució verbal arcaica.<br />
3. Problemes d’alfabetització i codificació davant del panorama<br />
ecosociolingüístic de l’Alguer<br />
Ja hem vist més amunt que el 1988 apuntava que en l’ús de l’alguerès en la<br />
retolació comercial i institucional evidenciava tres tipus de fenòmens o factors:<br />
les interferències (orto)gràfiques de l’italià, la incidència de l’ortografia del<br />
català (i de l’estàndard general) i les interferències de la fonètica de l’alguerès. 19<br />
Però, de fet, aquesta casuística de fenòmens o problemes de codificació és<br />
aplicable a altres àmbits d’ús públic de l’alguerès. Pel que fa al primer factor, i a tall<br />
d’exemple, és habitual llegir a la premsa local o sarda titulars com aquest: «Gran<br />
successo de ‘Lus cassarolz’», on trobem una seqüència gràfica que reflecteix la<br />
realització algueresa [lus kasa\olt°s], 20 a partir de grafia a la italiana i, doncs, s’allunya<br />
de l’ortografia catalana: u per o àtona, -ss- per -ç-, -r- per -d- (intervocàlica), realització<br />
africada de /z/ → [t°s] / __ ## (de fet, aplicable a /s/ o /z/ postconsonàntiques en<br />
posició de coda) i canvi de -r a [l] implosiva seguida de consonant en codes complexes<br />
a final de mot. 21 És un cas anàleg a les lliçons (24), (25) i (26) de § 2.<br />
Sobre aquest fenomen, Enrico Chessa planteja les opcions d’un procés de<br />
normalització que prescindeixi de la codificació de l’alguerès, ateses les<br />
divergències entre ortografia i realització fonètica dialectal, la qual cosa voldria<br />
dir l’adopció de «la grafia italiana per representar les tires fòniques de l’alguerès»;<br />
o bé continuar exercint pressió sociocultural de codificació amb l’ús de la grafia<br />
catalana, si bé apunta que «la desviació del principi fonèmic es pot acceptar<br />
només si es donen certes condicions»: 22<br />
el trobem a partir de la fi del XIX; és més, «per exemple, Gaví Ballero (1915-2001), en les comèdies<br />
que escrivia sempre en grafia italiana – entre les quals Lo sidadu –, mai grafiava el clític amb m-,<br />
sempre amb n-, perquè era l’ús més familiar al qual estava acostumat». Per a més detalls sobre<br />
l’asimetria dels casos (41) i (42), veg. Bosch 2002: 223-224, 238-240).<br />
19 Bosch 2002: 217.<br />
20 Bosch 2002: 218, n. 30.<br />
21 Sobre aquests fenòmens, veg. Bosch 2002: 141.<br />
22 Chessa 2008: 190-193. És més: «Les peculiaritats de l’alguerès [...] imposen, al nostre entendre,<br />
un debat seriós a l’entorn de la normalització i, en concret, del procés de codificació. [...] Presentem<br />
– de manera molt esquemàtica – dues propostes normalitzadores contraposades, les quals volen<br />
ser la base per a l’elaboració d’un nou discurs de recuperació lingüística a l’Alguer. Els nostres<br />
suggeriments s’articulen al voltant de l’assumpte que el normalitzador té fonamentalment dues<br />
opcions: aplicar – tal com s’ha fet – les normes ortogràfiques de base etimològica o bé adoptar<br />
l’ortografia fonèmica que més s’ajusti a les característiques de l’alguerès» (Chessa 2008: 190).<br />
83
84<br />
Andreu Bosch i Rodoreda<br />
– Amb la primera proposta se suggereix l’ús d’una ortografia, basada en el principi<br />
fonèmic, que permeti, en bona mesura, una associació biunívoca entre signes gràfics i<br />
fonemes de l’alguerès col·loquial. Ens referirem a aquest enfocament amb el terme ús<br />
de la grafia italiana perquè, fonamentalment, es tracta de fer ús de les relacions<br />
graficofonèmiques tal com es donen en italià, amb les quals els algueresos estan més<br />
acostumats (Chessa 2008: 190);<br />
– La segona proposta, en canvi, recolza sobre els pressupòsits següents: l’alguerès necessita<br />
l’elaboració i la divulgació d’una varietat estàndard al·lòctona; els criteris ortogràfics<br />
han de ser els mateixos que els que s’utilitzen arreu del domini lingüístic català; a l’Alguer,<br />
però, caldrà invertir esforços considerables que incrementin les competències orals dels<br />
parlants. 23 Caldrà engegar uns mecanismes d’interacció lingüística (entre parlants adults<br />
de llengua inicial algueresa i nouparlants) de cara a afavorir un contacte constant, i<br />
possiblement intens, amb la varietat col·loquial (Chessa 2008: 191).<br />
De fet, Chessa, per defensar l’opció de l’ús de la grafia italiana en l’alfabetització<br />
en alguerès, es basa en casos de realitzacions més o menys idiosincràtiques que<br />
fan que resulti complexa una adaptació ortogràfica respectant alhora l’ortografia<br />
fabriana i la solució fonètica dialectal, al marge d’un cas d’homofonia ben<br />
paradigmàtic que ja vaig apuntar jo mateix colom – codony, amb realització<br />
[ku\om], 24 una homofonia que també es dóna en casos com mala – mare [ma\a].<br />
Aquest fenomen, però, no pot fer decantar la balança cap a criteris d’alfabetització<br />
o de codificació allunyats de l’ortografia catalana. A més, aquestes divergències a<br />
partir d’idiosincràsies fonològiques o fenòmens més o menys regulars aplicats a<br />
la lecto-escriptura també es donen en bona part dels dialectes catalans. 25<br />
Vet aquí els casos reportats i transcrits per Chessa (amb algunes imprecisions<br />
de transcripció, que esmeno): servidors [salvi\olt°s], hivern [iµvEl], 26 aquidrar<br />
(< cridar) [akira], 27 dormir [rumi], 28 acceptar [at°satta], 29 lleixiu [¥iSiw], cauen<br />
[kawn], aigua [a:gwa], cadira [ka\ia], hospital [aspital], moment [mamEnªtu], 30<br />
d’acord [dekOlºdiw], 31 decid (v.) [disi\]. 32<br />
23 Aspecte que em sembla essencial, atenent als resultats de l’Enquesta d’usos lingüístics a l’Alguer<br />
de la Secretaria de Política Lingüística (2004). Cf. Bosch 2007: 45-47.<br />
24 Bosch 1999: 52-53; Chessa 2008: 188.<br />
25 Com ara, per citar-ne alguns casos, la iodització del balear o d’altres parlars. O casos més idiosincràtics<br />
com cella o darrere amb realització [ sEj´] o [r´ De\´], respectivament, en català central.<br />
26 Cf. [in vel] (Chessa 2008: 189).<br />
27 Amb pròtesi de a- i metàtesi acridar > aquidrar i assimilació final -dr- > [r].<br />
28 Amb metàtesi dormir > dromir i assimilació -dr- > [r] per fonosintaxi.<br />
29 Cf. [atsa ta] (Chessa 2008: 189). També [asat ta].<br />
30 Cf. [ma mentu] (Chessa 2008: 189).<br />
31 Cf. [de kolºDiw] (Chessa 2008: 189).<br />
32 Chessa 2008: 189, n. 10, generalitza en excés aquesta realització amb rotacisme de /d/<br />
intervocàlica (amb intervenció de la vocal epentètica final -[i]) a casos com: acud [a ku\]
PROBLEMES DE CODIFICACIÓ DE L’ALGUERÈS<br />
Podem observar que en aquest llistat de fenòmens hi ha realitzacions<br />
fonètiques regulars i aspectes més idiosincràtics. En aquest sentit, ja vaig apuntar<br />
fa alguns anys que «aquells fenòmens fonètics que es poden sotmetre a regularitat<br />
no han de transgredir l’ortografia si aquesta esdevé una mera convenció fàcilment<br />
aplicable a l’execució oral de la llengua» (Bosch 2001: 61). 33 I aquest fou el<br />
criteri de codificació aplicat als primers materials didàctics i escolars adaptats a<br />
l’alguerès entre 1994 i 1996 en què vaig poder participar des del Centre de<br />
Recursos Pedagògics Maria Montessori, criteri aplicat, per exemple, a la revista<br />
Mataresies. Periòdic al servici dels minyons o a Tintín al país de l’or negre<br />
(1995); i també aplicat per Bosch i Sanna (1996) al recull Històries de l’Alguer,<br />
entre la marina i la campanya (1996). 34<br />
De la mateixa opinió sembla ser Luca Scala, a partir de l’experiència al<br />
Centre de Recursos Pedagògics Maria Montessori i d’Òmnium Cultural de<br />
l’Alguer «de crear i experimentar un model d’alguerès útil per l’escola: propondre<br />
el model, discutir-lo col·lectivament, posar-lo a la prova i adaptar-lo<br />
progressivament quan se’n trobaven defectes i virtuts», 35 tal com descriu al<br />
«Model d’àmbit restringit de l’alguerès» (Scala 2003: 19-79), document avalat<br />
per la Secció Filològica de l’Institut d’Estudis Catalans en la seva reunió del 12<br />
d’abril de 2002. 36 És més: «Aquest model, partit ja amb una bona base<br />
d’estabilitat, és aplicat a les llicions d’alguerès que imparteixen los components<br />
del Grup de Mestres del CRP; als materials de les nou edicions de l’Escola<br />
d’Estiu; al periòdic infantil Mataresies; als còmics Tintín al país de l’or negre,<br />
(< acudir [aku \i]), convid [kuµ vit] i no pas *[kuµ vi\] (< convidar [kuµvi \a]), fored [fu \e\]<br />
(< foradar [fu\a \a]), salud [sa \ut] i no pas *[sa \u\] (< saludar [sa\u \a]). Tanmateix, cf. mesut<br />
[ma zut] i no pas *[ma zu\] (< mesurar [mazu \a]), per hipercorrecció (dec aquesta informació a<br />
Luca Scala).<br />
33 «D’altra banda, aquest model de llengua, si bé absolutament respectuós amb la morfologia, la<br />
sintaxi i el lèxic algueresos, és rigorosament respectuós amb l’ortografia de la llengua catalana,<br />
amb la premissa que la fonètica no ha de condicionar mai l’ortografia, tret de casos idiosincràtics<br />
en què convé permetre’s una llicència; d’aquesta manera, resta la porta ben oberta a la comprensió<br />
i la lectura de textos redactats en català estàndard» (Bosch 2001: 60).<br />
34 Per a més detalls, veg. Bosch 2001: 57-61.<br />
35 «D’una banda, el model d’alguerès [del CRP Maria Montessori] és un model que tothora traspua<br />
els registres menys italianitzats de la varietat algueresa, sempre a la recerca d’aquells mots i<br />
expressions encara vius en la parla de la gent més gran, per tal de presentar-los de model, no tant<br />
com un exercici nostàlgic ni redemptor, sinó com una utilitat real, per tal d’evitar haver de<br />
recórrer a l’italià com a superació de l’acte comunicatiu» (Bosch 2001: 58).<br />
36 IEC 2003, també editat a Scala 2003: 19-79. I implícitament tampoc no té en compte els aspectes<br />
de morfologia de l’alguerès acceptats per l’IEC el 1996 a la proposta d’estàrdard oral (IEC<br />
1998), a l’entorn del Grup per a la Normativització de l’Alguerès, coordinat per Joan Armangué<br />
(2006: 128-130).<br />
85
86<br />
Andreu Bosch i Rodoreda<br />
Pinocchio, Robin Hood, Heidi, Alí Babà; i ja de quatre anys als materials didàctics<br />
i als llibres de text del Projecte Joan Palomba», en paraules del propi Scala<br />
«una producció objectivament imponent de miliars de pàgines escrites en ortografia<br />
normalitzada que testimonia 10 anys de treball dedicat exclusivament a<br />
la introducció oficial, coordinada i generalitzada, de l’ensenyament de l’alguerès<br />
a totes les escoles» (Scala 2003: 15).<br />
En la meva opinió, Enrico Chessa (2008) sembla obviar que la Secció<br />
Filològica de l’Institut d’Estudis Catalans va aprovar el document «Model<br />
d’àmbit restringit de l’alguerès», un model, és bo remarcar-ho, que respon al fet<br />
que «calia establir els criteris per a la formació d’un estàndard d’àmbit restringit,<br />
respectuós amb l’ortografia i que integrés elements gramaticals i lèxics de la<br />
llengua col·loquial en un model participatiu, en el qual els catalanoparlants de<br />
l’Alguer se sentissin representats» (Scala 2003: 21). I, doncs, Chessa no sembla<br />
tenir en compte que per a arribar a aquest model hi ha hagut una tasca feixuga i<br />
rigorosa d’experimentació d’ençà de 1994 coordinada des del Centre de Recursos<br />
Pedagògics Maria Montessori i, més tard, des d’Òmnium Cultural de l’Alguer<br />
per a establir «criteris, sobretot de fonètica, que donguessin punts ferms a<br />
l’aplicació d’un naixent model de llengua escrita per l’escola», al capdavall<br />
«una exigència de funcionament pràctic, que consentissi un ensenyament vàlid,<br />
homogeni i científicament plausible i rigorós» (Scala 2003: 14-15).<br />
I això no vol dir que les reserves expressades per Enrico Chessa en aquest<br />
procés de codificació no estiguin fonamentades. En aquest sentit, Luca Scala ja<br />
apunta les dificultats de codificació sense allò que anomena deformació<br />
lingüística: «És sempre estat difícil escriure, amb la grafia deguda, l’alguerès<br />
dirigit únicament als algueresos. Les sues característiques fonètiques, sobretot,<br />
i l’habitud de llegir-lo escrit prevalentment en grafia italiana poden desorientar<br />
un lector ocasional. És complicat, per qui no hi sigui habituat, reconèixer<br />
fàcilment metàtesis, rotacismes, assimilacions, despalatalitzacions, epèntesis,<br />
reduccions, vocals paragògiques i/o eufòniques, etc., normals en la llengua oral,<br />
de paraules com processó, buidar, pedaç, ple, saludar, dormir, a lluny, anys, li,<br />
veuen, la iglésia, amb, Mont Girat, etc; realment costa un bon esforç de llegirles<br />
naturalment i també, a voltes, de comprendre el que volen diure. I és també<br />
complicat donar una grafia catalana científicament rigorosa a sardismes o altros<br />
barbarismes que són ja part integrant de la nostra variant» (Scala 2003: 11).<br />
I per això la formació pedagògica o les estratègies didàctiques hi juguen un<br />
paper fonamental en el procés d’alfabetització en català a l’Alguer. I en aquesta<br />
direcció s’emmarquen els més de 10 anys de Projecte Joan Palomba (1998-<br />
2009) i els nous materials elaborats per Luca Scala (2005), «un curs
PROBLEMES DE CODIFICACIÓ DE L’ALGUERÈS<br />
d’alfabetització que ha ensenyat los primers rudiments de l’alguerès escrit als<br />
funcionaris de l’Administració [...], un primer pas imprescindible ors a la plena<br />
normalització de la llengua també en l’ús formal a dins de l’Administració»<br />
(Scala 2005: [III]), i per un grup de mestres coordinat per Rosa Montero, amb el<br />
manual Alguerès 1 (2006) per al primer cicle de l’escola Primària (7-8 anys).<br />
En aquest sentit, a Scala (2005: 3), en presentar «Les vocals», per exemple,<br />
llegim que «les paraules hospital, moment i obscur se pronuncien respectivament<br />
[aspital], [mamEntu] i [askur], cosa que, però, no ne té de modificar la grafia»,<br />
així com també que «modernament, en la pronúncia algueresa, s’és transformada<br />
en [l] la i de les paraules aigua, aiguada, aigüer, aigüeta, caiguda; i la de les<br />
formes verbals de caure [...]. Això no ne té de modificar la grafia correcta amb<br />
i». Per tant, és evident l’enfocament normatiu i interdialectal de la metodologia<br />
didàctica aplicada per Scala (2005).<br />
4. Conclusions<br />
No em sembla justificat defensar en el procés de codificació de l’alguerès l’ortografia<br />
fonèmica adduint les dificultats fonètiques d’aprenentatge dels nocatalanoparlants<br />
només pel fet que s’allunyarien, en alguns aspectes, de la fonètica<br />
col·loquial de l’alguerès, perquè sembla que l’alguerès s’hagi de resignar a<br />
l’aïllament dins el diasistema català, sense possibilitat d’esdevenir una llengua<br />
vàlida per als usos formals. Que un infant llegeixi a escola, com s’ha vist, dormir<br />
per [rumi], lleixiu per [¥iSiw], a lluny per [a¥unªt] o moment per [mamEnªtu]<br />
no és el problema, ni tampoc l’existència d’homofonies com codony o colom<br />
per [ku\om], sempre que tingui l’oportunitat fora de l’escola de parlar l’alguerès:<br />
serà amb l’ús social o familiar de la llengua que ja aprendrà a identificar els<br />
desajustos fonètics de l’ortografia apresa a escola. Una altra cosa és que, ateses<br />
les circumstàncies de substitució lingüística consolidada, com demostren les<br />
dades de l’Enquesta d’usos lingüístics a l’Alguer (2004), vulguem que l’alguerès<br />
escolar sigui una mera transcripció nostàlgica de l’alguerès col·loquial d’una<br />
comunitat de parla minoritzada i minoritària.<br />
I aquest és el camí, al capdavall, per superar el desgavell de models de<br />
codificació asimètrics que hem vist a § 3 en relació amb els usos públics i formals<br />
de l’alguerès en la publicitat visual i la retolació comercial i institucional de l’Alguer.<br />
87
88<br />
REFERÈNCIES BIBLIOGRÀFIQUES<br />
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EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY<br />
REFUGIUM THEORY (PCRT):<br />
HAMALAU AND ITS LINGUISTIC AND CULTURAL RELATIVES<br />
1.0. Timing of the performances<br />
PART 2<br />
Roslyn M. Frank<br />
University of Iowa<br />
In Europe, «good-luck» performances tended to take place during the period from<br />
the beginning of November to early January. In New World locations such as<br />
Newfoundland and Labrador, the practice continued to involve adults and persisted<br />
until quite recently. In contrast, in the United States the period in question contains<br />
only three days – separated in time – in which masquerading is accepted and<br />
commonplace, i.e., when disguised characters regularly walk about the streets,<br />
namely, All Hallow’s Eve, Christmas Eve and New Year’s Eve. Moreover, in most<br />
parts of the United States, the customary «good-luck visits» associated with<br />
Halloween are no longer carried out by adults wearing masks (Halpert and Story<br />
1969). The same is not true, however, in the case of the Advent period when<br />
homes are regularly visited by an adult disguised as St. Nicholas or Santa Claus.<br />
In the latter instance although it is an adult who dresses up as St. Nicholas or<br />
Santa Claus, children are the targets of the performance. Yet at the same time<br />
adults, in general, play a role by actively encouraging their offspring to believe<br />
in the reality of the «night visitor». Then at Halloween, the practice of conducting<br />
house visits has became generationally down-graded so that today in the United<br />
States, we find only children dressed up in outlandish costumes going door to<br />
door, repeating the saying «trick or treat». 1 Again, in the case of this type of<br />
generational down-grading there are often transitional periods in which at one<br />
geographical location adults are still the primary instigators while at other<br />
locations it is only children who take part in what is essentially the same ritual.<br />
1 In the United States even though Halloween parties for adults are commonplace, it is frowned<br />
upon for adults or even teenagers to go «treat-or-treating», i.e., to take part in the door-to-door<br />
house-visits. When adults do accompany children on these house visits, the adults do so only as<br />
chaperons not as active participants in the begging ritual.<br />
89<br />
INSULA, num. 5 (giugno 2009) 89-133
90<br />
Roslyn M. Frank<br />
Originally it would seem that these «good-luck visits» and attendant<br />
performances took place throughout the year, motivated by the specific needs<br />
of the patient, household or community in question. In this sense, the performers<br />
along with their flesh and blood dancing bear (or its human counterpart) would<br />
have functioned much in the same way as the members of the Society of False<br />
Faces of the Iroquois and the heyoka of the Sioux whose fierce masks were<br />
intended to frighten away the evil spirits that were causing the illness or<br />
misfortune. These Native American medicine men and women were the<br />
«contraries» or sacred clowns who performed when needed, in the homes of<br />
the afflicted (Speck 1945).<br />
In the sections that follow we will examine the case of Europe (and the<br />
United States) where it appears that the prophylactic healing powers associated<br />
with the performers and their bear underwent a tripartite process of<br />
hybridization, marginalization and generational down-grading. This process<br />
of change came about gradually as the ursine symbolic order was repeatedly<br />
recontextualized, losing some elements while gaining others. At the same time,<br />
and perhaps most remarkably, we shall discover that certain core features have<br />
remained relatively stable across time. That said, what contributed, at least in<br />
part, to the stability of these features seems to be, quite ironically, the prolonged<br />
contacts between groups defending opposing symbolic orders, the<br />
recontextualizations that resulted and the subsequent embedding of the older<br />
animistic cosmology inside a Christian interpretive framework. In what follows<br />
we will trace the development of these «good-luck visits» and the way that the<br />
portrayal of the ursine main character has evolved over time. In doing so we<br />
shall examine the changes that have occurred using an approach grounded in<br />
the concepts of hybridization, marginalization and generational down-grading.<br />
2.0. Hybridization: The dancing bear Martin, «He who walks barefoot»<br />
As we noted, one of the fundamental structural elements of the ursine<br />
cosmology has been the phenomenon of «good luck visits», a social practice<br />
that has contributed directly to the cultural storage, preservation and stability<br />
as well as the transmission of the tenets of the earlier ursine cosmology, across<br />
generations, by bringing into play mechanisms, reiterative and redundant in<br />
their nature, typical of oral cultures. Nonetheless, in some parts of Europe<br />
under the influence of Christianity the central role of the bear was modified<br />
slightly and some of its functions reassigned by the Church to a specific saint
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
even though it appears that both the clergy and the general populace were<br />
often well aware of the adjustments that were taking place, at least initially.<br />
In order to illustrate more clearly how this process of symbolic hybridization<br />
works, we will look at a concrete example: that of the transference of the functions<br />
of the bear to a particular saint, namely, St. Martin, while the role of his trainer<br />
was taken over by the figure of a bishop. As was usually the case with such<br />
hagiographically-based legends, the bishop chosen was one whose historical<br />
origins were remote, shrouded in the mists of time. St. Martin, Bishop of Tours,<br />
was finally consecrated by the Church in the fifth century, and turned into the<br />
central character of a great Church festival, Martinmas, celebrated on November<br />
11 th . A curious story was propagated about this Martin. Indeed, there is reason to<br />
believe that the legend itself was a conscious attempt to link the saint’s name<br />
and performances conducted in his honor directly to those of the dancing bears.<br />
In order to understand this process we need to recognize that in the Middle Ages<br />
across much of Europe a common nickname for any bear brought in to conduct<br />
a cleansing ceremony was Martin. In fact, this name was frequently modified by<br />
adding the phrase «he who walks barefoot» e.g., as in the expression Mestre<br />
Martí au pès descaus, literally, «Bare-Foot Martin» or «Martin, he who walks<br />
barefoot,» while the phrase «he who walks barefoot» was used to refer to bears<br />
in general (Calés 1990: 7; Dendaletche 1982: 92-93).<br />
The Church spin-doctors concocted a series of pious legends that would<br />
seek to stitch the two belief systems together. Apparently the stories were an<br />
attempt, although quite an unsuccessful one, to counter the wide-spread belief<br />
in the efficacy of performances conducted by bear trainers and their dancing<br />
bears or at least to give them an air of legitimacy within the framework of Christian<br />
belief. The legend propagated by the Church with respect to St. Martin shows<br />
the ingeniousness of its authors, particularly with respect to the way in which<br />
they managed to elaborate such a truly convoluted plot for the story itself. It was<br />
one that told of the generosity of the Bishop of Tours, a man named Martin.<br />
When visited by his disciple and friend Valerius, a fifth-century bishop of Saint<br />
Lizier in the Pyrenees, Martin gave him an ass so that Valerius would no longer<br />
have to laboriously traverse the rugged mountainous terrain on foot and,<br />
consequently, would be better equipped to spread the good word. And Valerius,<br />
in turn, named his ass Martin. However, just when Valerius reached the path that<br />
would lead him to the Pyrenean town of Ustou, darkness overtook him. 2<br />
2 Saint Lizier is located some 35 kilometers from Ustou.<br />
91
92<br />
Roslyn M. Frank<br />
The next morning much to his chagrin Valerius discovered an enormous<br />
bear standing next to the tree where he had had left his ass tied the night before.<br />
Realizing the beast was devouring the last remains of his pack animal, Valerius<br />
called out to him, «The Devil take you! No one will ever say that you have kept<br />
me from spreading the good word across these mountains. Since you have eaten<br />
my friend Martin, you will take his place and carry me about». The bear<br />
approaches Valerius and sweetly agrees to do what he has been asked. When<br />
they arrive in the village of Ustou, the inhabitants crowd around Valerius and<br />
his bear. And at this point after being given a bit of honey, in a sign of his<br />
appreciation the bear Martin takes the bishop’s walking staff in his paw, raises<br />
himself up on two feet and begins to dance, according to the text, «the most<br />
graceful of dances ever executed by a bear» (Bégouën 1966: 138-139). But<br />
there is more. Because the villagers are so impressed by Valerius and his dancing<br />
bear Martin, they decide to set up their own school where little bears could be<br />
taught to dance. Moreover, the pious story could be understood equally to be<br />
one utilized to explain and legitimize the prestige, indeed, the European-wide<br />
reputation of the Bear Academy that was established in the Pyrenean village of<br />
Ustou (Praneuf 1989: 66-70).<br />
Such pious legends need to be examined more closely in terms of their psychosocial<br />
intentions as well as their actual consequences. For instance, this legend, in<br />
all likelihood promoted by the Church and locals alike, also gave the clergy a<br />
Christian-coded explanation for why bears were called Martin. 3 In addition, it<br />
sought to identify the bishop in question, Valerius, with the person of the bear<br />
trainer. Even the dancing bear’s long pole, the standard prop of all bear trainers,<br />
was attended to narratively and reinterpreted as the bishop’s walking stick, his<br />
staff of office. 4 As a result of these symbolic reinterpretations, the legend ended<br />
up providing the populace with an ingenious justification for conducting «good<br />
luck visits»: the narrative became a means of justifying deeply ingrained patterns<br />
of belief while slightly modifying them. At the same time by associating the dancing<br />
bear with a given saint’s day, those wishing to carry out «good luck visits» were<br />
given a green light. Indeed, in many locations the performances continued to be<br />
conducted with relatively little interference from the Church authorities.<br />
3 For additional discussion of this legend and similar ones associated with other saints, cf. Lajoux<br />
(1996: 213-220), Pastoureau (2007: 53-69) and Lebeuf (1987).<br />
4 From a comparative standpoint, the bishop’s staff corresponds morphologically to the pole carried<br />
by bear trainers. The trainer would give the pole to the bear who was then better able to support<br />
himself in an upright position while he executed his dance steps (Dendaletche 1982: 89-91).
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
For example, today in many parts of Europe on the saint’s day in question,<br />
November 11 th , an actor appears in the guise of the bishop St. Martin. But, more<br />
importantly, when the individual dressed as a bishop does appear, he continues,<br />
as before, to be accompanied on his rounds by a bear-like creature, his pagan<br />
double. In short, these ursine administrants, in recent times merely ordinary<br />
human actors, perform their duties authorized by a kind of Christian dispensation<br />
that permits them to continue to preside, quite discreetly, over the festivities<br />
(Miles [1912] 1976: 208). In turn the bishop in question takes over the role and<br />
attributes of the bear trainer through this process of symbolic hybridization.<br />
Thus, the meaning of the bishop’s companion, the masked figure representing<br />
the bear, is transparently obvious once one understands the mechanisms of<br />
hybridization involved in the renaming processes themselves. 5 In short, any<br />
attempt to discover the identity of the furry, often frightening, masked figures<br />
associated with St. Martin’s day must take these facts into account (Figure 1).<br />
Figure 1. Names of the gift-bringers on St. Martin’s Day (November 11). Adapted from<br />
Erich and Beitl (1955: 509).<br />
5 In addition to the Pyrenean zone, across much of France and the rest of Western Europe the dancing<br />
bear is called Martin; in the Carpathian region of Romania among its nicknames are Mos Martin<br />
(‘Old Martin’), Mos Gavrila (‘Old Gabriel’), as well as Frate Nicolae (‘Brother Nicholas’). In other<br />
parts of Europe the bear is often called Blaise. The name is linked to the date of February 3 and to the<br />
figure of St. Blaise, the patron saint of bears. In addition, this saint’s day coincides neatly with the day<br />
after Candlemas Bear Day, the latter being celebrated on February 2. In the Balkans, however, it is St.<br />
Andrew who is presented as the patron of bears (Lebeuf 1987; Praneuf 1989: 32: 61-71.<br />
93
94<br />
Roslyn M. Frank<br />
Moreover, in case there were any doubts concerning the real identity of the<br />
bishop’s companion, in Germanic speaking zones his side-kick was referred to not<br />
as Martin, but rather as Pelzmärte, a term that could be interpreted as «Furry Martin»<br />
or perhaps «Martin with a Fur Coat». In fact, the Pelzmärte frequently appears<br />
alone, without his bishop, on St. Martin’s day as well as on Christmas Eve. With<br />
respect to the Pelzmärte we should recall that in some parts of Europe the «good luck<br />
visits» conducted on St. Martin’s day (November 11 th ) eventually came to be transferred<br />
to the winter solstice (Miles [1912] 1976: 161-247; Rodríguez 1997: 97-105).<br />
As has been noted previously, «Martin» was a common name for a «dancing<br />
bear» in France and Germany. However, the etymology given for the German<br />
expression Pelzmärte, one that interprets the second element of the compound<br />
märte as if it referred to a proper name, i.e., «Martin,» is probably nothing more<br />
than a folk-etymology. At the same time, the erroneous folk explanation for the<br />
meaning of märte – interpreting it as if it were a proper noun – was probably<br />
reinforced by the celebration of the «good-luck visits» on St. Martin’s Day. As<br />
was shown in the narrative relating to how St. Martin acquired his bear and<br />
began to travel about with it, the introduction of a Christian saint served as a<br />
pretext for continuing the highly entrenched practice of «good-luck visits». In<br />
short, it was a Christianized rationalization – the result of hybridization – that<br />
served to legitimize the pre-existing tradition.<br />
Given that the belief in the supernatural healing powers of the bear and its<br />
retinue harkens back to a pre-Christian cosmology, to expect an unconscious or<br />
inadvertent reanalysis of pre-existing terminology would not be unusual. For<br />
example, there are two terms in German for the furry visitor that include the same<br />
prefixing element: pelz- «fur, furry». We have the expression Pelznickel 6 where<br />
6 Similar examples of visitations by disguised inquisitors are found in the North American German<br />
customs of Nova Scotia, the state of Virginia and particularly the nineteenth-century Pennsylvania<br />
Dutch where it is called «belsnickling» (Halpert 1969: 43), obviously a verb derived from a phonological<br />
reinterpretation of the German expression Pelznickel (Bauman 1972; Cline 1958; Creighton 1950).<br />
Indeed, there is evidence of further attempts to make sense of the name given to these actors who were<br />
referred to as «belsnickles» and «bellschniggles», by reinterpreting the term as two separate words:<br />
«Bell Snickles» (Siefker 1997: esp. 17-26). Here the folk reinterpretation appears to have been motivated<br />
by the ox bells and other noise-makers employed by the mummers (Creighton 1950: 58-59): «It was<br />
the custom of young people [....] to organize Bell Schnickling parties in October and November of<br />
each year...» (cited in Halpert 1969: 40-41). By 1827, as Nissenbaum (1997: 100) points out, in the<br />
Philadelphia Gazette «the Belsnickle was being compared to Santa Claus» and we see that the<br />
Belsnickle described in this newspaper article was made up in blackface: «Mr. Bellschniggle is a<br />
visible personage. […] He is the precursor of the jolly old elf ‘Christkindle,’ or ‘St. Nicholas,’ and<br />
makes his personal appearance, dressed in skins or old clothes, his face black, a bell, a whip, and a<br />
pocket full of cakes or nuts; and either the cakes or the whip are bestowed upon those around, as may<br />
seem meet to his sable majesty» (cited in Shoemaker 1959: 74). Cf. also Nissenbaum (1997: 99-107).
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
the second element -nickel is equated with a kind of «demon»; then, if we continue<br />
with the same semantic logic, we have the compound Pelzmärte where the second<br />
element would also refer to a «demon» or some other sort of supernatural creature.<br />
And as we noted earlier, the Germanic term -märte is linked the modern German<br />
word mahr «nightmare» while the latter is related to phonological variants in mârt,<br />
mârte, mârten, and consequently to the frightening «night visitor», discussed<br />
previously (Frank 2008). In addition to the term Pelzmärte, in Germany we also<br />
find other similar compounds for the «gift-bringer»: Nufssmärte, Rollermärte,<br />
Schellenmärte as well as Märteberta (Erich and Beitl 1955: 509), while in the<br />
latter case, the second element Berta refers to an ominous pre-Christian female<br />
figure, also referred to as Pertcha (Weber-Kellermann 1978: 19-23.<br />
2.1. St. Nicholas and his furry dark companion<br />
In the case of St. Nicholas, said to be a fourth century bishop from Myra in<br />
Turkey, his saint’s day was celebrated in the spring until the thirteenth century.<br />
From the thirteenth century to the time of the Protestant Reformation in the<br />
sixteenth century, the individuals who dressed up as this bishop made their house<br />
calls on the sixth of December (Figure 2).<br />
Figure 2. Names of the gift-bringers on St. Nikolaus’s Day (December 6). Adapted from<br />
Erich and Beitl (1955: 564).<br />
95
96<br />
Roslyn M. Frank<br />
It wasn’t until after the Council of Trent (1545-1563) that the figure of Christkind<br />
or, in its diminutive form, das Christkindel, the Christ child, was introduced. 7 He,<br />
too, was supposed to distribute gifts, but on Christmas Day. 8 That practice eventually<br />
led St. Nicholas to change the date of his «good luck visits» to December 25 th , while,<br />
somewhat ironically, the expression das Christkindel, originally intended to designate<br />
little Jesus, evolved into Kris Kringle, one of the Germanic terms for Father<br />
Christmas (Rodríguez 1997: 99-103). In the Netherlands, the bishop in question is<br />
accompanied, nonetheless, by Black Peter (Zwarte Piet), his faithful servant, whose<br />
role included carrying off misbehaving children in his giant sack or a large straw<br />
basket, while today Zwarte Piet has been converted into an innocuous helper of a<br />
kindly child-loving Sinterklaas (Figure 3). 9<br />
Figure 3. Dag, Sinterklaasje (Hello, Sinterklaas). Source: Vriens (1983). Illustration by Dagmar Stam.<br />
7 For a detailed and eminently erudite discussion of the various and sundry efforts, often frustrated, on<br />
the part of the Church to establish the date for celebrations associated with the birth of Christ, cf.<br />
Tille (1899: 119-137). Based on Tille’s discussions, it should be noted that in Britain even into the<br />
sixth century there was significant confusion concerning whether the third of the three great Christian<br />
festivals, the first two being Easter and Pentecost, was Epiphany or Christmas. Indeed, for many<br />
centuries competing dates for Christ’s birth were November 17 and March 28 (Tille 1899: 119).<br />
8 Nonetheless, in the United States, as in many other European countries, even into the early<br />
nineteenth century, if presents were exchanged at this season it was usually done on New Year’s<br />
Eve and they were exchanged between adults rather being given to children. «In the 1840’s<br />
there was an increasing emphasis on Christmas Day. This seems to have happened for several
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
In addition, we find that historically St. Nicholas himself has a semantic<br />
counterpart in the Pelznickel, an expression that could easily have been interpreted<br />
or justified, albeit erroneously, as either as «Furry Nicholas» or «Nicholas with a Fur<br />
Coat». The fierce Pelznickel goes by many other names, for example, in Austria the<br />
creature is known as the Krampus while in other parts of Germany two of the most<br />
popular names are Hans Trapp and Knecht Ruprecht (Miles [1912] 1976: 218-221,<br />
231-232; Müller and Müller 1999; Rodríguez 1997: 103-104 (Figure 4). 10<br />
Figure 4. St. Nikolaus Eve. Source: Weber-Kellermann (1978: 27).<br />
reasons. The press – which now reached a far wider audience with its cheaper production costs<br />
and consequently wider circulation – stressed the fact that Christmas Day was the celebration of<br />
the birth of Jesus. Birthdays had always been a day for giving presents and it was a natural step to<br />
celebrate Jesus’s birth by giving gifts on that day. [...] By the end of the century Christmas Day<br />
was firmly fixed – in England at least – as a children’s festival and the day on which presents were<br />
given» (Chris 1992: 87-88). Similarly, in the United States, the gift-bringing aspect of the celebration<br />
of St. Nicholas’ day (December 6 th ) was eventually reassigned to Christmas Eve.<br />
9 For a particularly cogent analysis of the «bellsnickles» and Christmas mumming as well as the<br />
connections between the «bellsnickles», Zwarte Piet and the Caribbean counterparts of this<br />
furry figure, cf. Siefker (1997: 7-39), particularly her Chapter 3, «His Clothes Were All Tarnished<br />
With Ashes and Soot». Also there is the reproduction of a curious painting with the heading:<br />
«The Black Pete figure that accompanied Saint Nicholas on his Christmas expeditions also<br />
accompanied women saints on their gift-giving rounds, as shown above. Black Pete’s role was<br />
to threaten misbehaving children and rattle his chain» (1997: 11). In short, Siefker suggests that<br />
Black Pete was an accepted companion for female saints, not just bishops like St. Nicholas.<br />
Unfortunately, no source is provided for the painting.<br />
10 For further discussion of these characters as well as excellent illustrations of them, cf. Weber-<br />
Kellermann (1978: 24-42).<br />
97
98<br />
Roslyn M. Frank<br />
The Krampus is a rather scary creature who appears either alone or in the<br />
company of an individual dressed as a bishop. The latter wears a long flowing<br />
robe or coat trimmed with fur and carries a staff. In zones where the two characters<br />
appear together, the pair plays the role of «white and black inquisitors» (Halpert<br />
1969: 43) (Figures 5 & 6).<br />
Figure 5. Painting by Franz Xaver von Paumgartten: Christmas Eve and St. Nicholas with the<br />
Krampus. Vienna 1820. (Museen der Stadt Wien). Reproduced in Weber-Kellermann (1978: 26).<br />
Figure 6. Krampus. Austrian postcard from circa 1900.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
Far from being a long forgotten tradition, the customary visits by the Krampus<br />
and his Bishop are alive and well, indeed, thriving in modern-day Austria, where<br />
Krampus troupes have sprung up across the land. For instance, in places like<br />
Salzburg, Krampus performers number, quite literally, in the hundreds (Figures<br />
7, 8 & 9). Once again I would emphasize that the creature they call the Krampus,<br />
albeit furry and horned, is not viewed – at least not consciously – as a bear or<br />
bear-like being.<br />
Figure 7. Krampus Group. Salzburg, December 2002.<br />
Source: http://www.krampusverein-anras.com/home.htm.<br />
Figure 8. Nikolaus und Krampus. Pettneu am Arlberg, December 2003. © Karl C. Berger. 11<br />
11 For a remarkable contemporary enactment, cf. http://www.youtube.com/watch?v=gSn4KBA_XPI.<br />
99
100<br />
Figure 9. A very large Krampus. December 2002.<br />
Source: http://www.luehrmann.at/BildderWoche/2002/02-12-04-krampus.jpg.<br />
Roslyn M. Frank<br />
In other instances, the fur-clad horned creature known as the Krampus<br />
takes on a somewhat more child-friendly appearance (Figures 10 & 11).<br />
Figure 10. Waidhofen Station: Krampus performers preparing to catch a special steam<br />
locomotive that will take them to Ybbsitz, Austria. December 2, 2006.<br />
Source: http://www.ybbstalbahn.at/nostalgie__alt.htm.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
Figure 11. Entrance of Nikolaus and the Krampus in Dorplatz, Austria. December 2, 2006.<br />
Source: http://www.ybbstalbahn.at/nostalgie__alt.htm.<br />
101<br />
In other contemporary European versions of this performance piece, for<br />
example, in Amsterdam, the Christian bishop Nicholas called Sinterklaas, dressed<br />
in white or red, enters first, followed by Zwarte Piet (Black Peter), his darkfaced<br />
companion (Chris 1992). The former would interrogate the children and<br />
in the case of a good report, distributes gifts. Meanwhile his black-faced<br />
counterpart would stand at the door, poised, if need be, to administer punishment,<br />
lashes, leaving whips, rods or chunks of coal behind for the misbehaving children.<br />
Or he would simply stuff them into the sack that he carried for that purpose.<br />
Fig. 12. St. Nicholas and his Servant – St. Nikolaas en zijn knecht by J. Schenkman].<br />
Amsterdam: J. Vlieger, [ca.1885].<br />
Source: http://www.kb.nl/uitgelicht/kinderboeken/sinterklaas/sinterklaas-ill.html.
102<br />
Roslyn M. Frank<br />
In the case of Hans Trapp he sometimes accompanied a female figure called<br />
Christkind, although his role was similar to that of the other dark intruders.<br />
Figure 13. Christkind and Hans Trapp in Elsace 1850. Reproduced in Weber-Kellermann (1978: 35).<br />
It should be noted that when only one figure appears, e.g., the Pelzmärte or<br />
Pelznickel, Hans Trapp or Knecht Ruprecht, 12 he is in charge of distributing both<br />
punishments and rewards, although he too strikes fear into the hearts of children<br />
(Figures 13 & 14). In this sense, the characteristics associated with these figures<br />
correspond more closely with the older profile of this fearsome creature.<br />
Figure 14. Franz von Pocci (1807-1876): Der Pelzmärtel, 1846.<br />
Reproduced in Weber-Kellermann (1978: 32).<br />
12 For an interesting discussion of Knecht Ruprecht and his European counterparts, cf. http:/<br />
/en.wikipedia.org/wiki/Companions_of_Saint_Nicholas.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
103<br />
The menacing nature of the eighteenth and nineteenth century portrayals of<br />
the Pelznickel and Knecht Ruprecht provides us with a way to gauge, albeit<br />
indirectly, the kind of the discourse employed by adults at that point in time, as<br />
they explained to their offspring the dangers of misbehaving: failure to obey<br />
could result in a frightening punishment; the child might be stuffed into the sack<br />
(or basket) of this night visitor and carried off to meet a horrible fate (Figure 15).<br />
Figure. 15. Franz Regi Göz. Knecht Ruprecht 1784. Reproduced in Weber–Kellermann (1978: 32).<br />
Moreover, there is every indication that the fur-clad horned creature was<br />
even more frightening in times past, as is suggested by representations of his<br />
Austrian counterpart, the Krampus.<br />
2.2. Good-luck visits and ritual cleansings<br />
In the Mittelmark the name of de hêle Christ («the Holy Christ») is given strangely<br />
to a skin- or straw-clad man, elsewhere called Knecht Ruprecht, Klas, or Joseph<br />
(Figure 15). In the Ruppin district the man dresses up in white, with ribbons,<br />
carries a large pouch, and is called Christmann or Christpuppe. He is<br />
accompanied by a Schimmelreiter and a troupe of Feien with blackened faces. 13<br />
13 The Schimmelreiter is a character associated with the rider on a white or dapple horse, while<br />
other masked celebrants called Feien appeared attired as women, similar to the Kalends maskers<br />
condemned by the early Church. This centaurus-like figure shows up in other parts of Europe<br />
and should be considered one of the characters who regularly take part in these «good-luck<br />
visits» (cf. Frank in press).
104<br />
Roslyn M. Frank<br />
As the procession goes round from house to house, the Schimmelreiter enters<br />
first, followed by Christpuppe who makes the children repeat some verse of<br />
Scripture or a hymn; if they know it well, he rewards them with gingerbreads<br />
from his wallet; if not, he beats them with a bundle filled with ashes. Then both<br />
he and the Schimmelreiter dance and pass on. Only then are the Feien allowed<br />
to enter; they jump about and frighten the children (Miles [1912] 1976: 230-<br />
231 (Figures 16, 17, 18). Indeed, the ritual of smearing ashes on the faces of<br />
those encountered, as well as the fact that ashes form an integral part of the<br />
make-up of the performers themselves, are recurrent features of the performances.<br />
As such, the use of ashes may have been a fundamental component of the «goodluck»<br />
healing ceremonies themselves. There are many examples of the old<br />
European belief in the «good luck» conferred by ashes, blackening one’s face<br />
with them and black creatures in general (Alford 1930: 277 ff; Barandiaran<br />
1973, II: 375; Creighton 1950: 20-21; Frank 2005).<br />
Figure 16. St. Nikolaus with his companions in Berchtesgaden, Bavaria 1958.<br />
Photo Wolf Lüking. Reproduced in Weber-Kellermann (1978: 33).
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
Figure 17. St. Nikolaus with his companions in Bavaria 1958.<br />
Photo Wolf Lüking. Reproduced in Weber-Kellermann (1978: 29).<br />
Figure 18. Oscar Gräf (1861-1902). Perchtenlaufen Festival in Salzburg 1892.<br />
Reproduced in Weber-Kellermann (1978: 21). 14<br />
105<br />
14 For more on the Krampus and Perchten runs, cf. the YouTube videos at http://video.google.com/<br />
videosearch?hl=en&q=Krampus%20runs&um=1&ie=UTF-8&sa=N&tab=wv# and for a recent<br />
video clip from Pongau, Saltzburg, showing the variety of masks employed and the<br />
remarkable similarity between the Krampus performers and the Sardinian Mamuthones, cf.<br />
http://www.aeiou.at/aeiou.film.o/o189a, the wide variety of videos at http://<br />
www.brauchtumspflegeverein-anras.com/content/view/25/50/, as well as these pictorial<br />
representations of the Krampus: http://www.galavant.com/krampus/. The regional variation of<br />
the costumes and masks is noteworthy, while performers dressed in straw with blackened faces<br />
also are commonplace, e. g., the St. Nikolaus day characters called Perschtln in the Austrian Tirol.
106<br />
Roslyn M. Frank<br />
At the same time, while at first glance leaving behind chunks of black charcoal<br />
would appear to carry a purely negative connotation, Miles ([1912] 1976: 251-<br />
260) has demonstrated that charcoal was originally viewed in a positive light.<br />
Specifically, pieces of charcoal from the Yule Log were highly valued for their<br />
prophylactic characteristics as were the log’s ashes which were carefully collected<br />
and utilized for a variety of healing purposes. 15 Moreover, it has been argued<br />
that the ethical distinction between good children and bad children along with<br />
the consequent distribution of gifts or blows, «is of comparatively recent origin,<br />
an invention perhaps for children when the customs came to be performed solely<br />
for their benefit, and that the beatings and gifts were originally shared by all<br />
alike and were of a sacramental character» (Miles [1912] 1976: 207). Further<br />
evidence for structural inversions in gift-giving comes from the fact that in other<br />
parts of Europe it is a troupe of young adults along with their bear (or bears) who<br />
visits the households and expects, in return for their services, to receive, not give,<br />
«treats» of food and drink (Alford 1928, 1930, 1931, 1937; Praneuf 1989). 16<br />
In Europe the ritual cleansings that formed part of the «good luck visits»<br />
included fumigations, incensing by smoke, and flailing the person with aromatic<br />
branches. Such ceremonies recall similar healing techniques involving smudging<br />
with the sacred smoke of juniper branches, still performed today by Native<br />
American medicine men and women (Brunton 1993: 138). Hence, from a<br />
diachronic point of view the European whipping customs are perhaps better<br />
understood not as «punishments, but kindly services; their purpose is to drive<br />
away evil influences, and to bring to the flogged one the life-giving virtues of<br />
the tree from which the twigs or boughs are taken» (Miles [1912] 1976: 207).<br />
Indeed, wands were often constructed for this purpose from a birch-bough with<br />
all the leaves and twigs stripped off, except at the top, to which oak-leaves and<br />
twigs of juniper pine were attached along with their bright red berries. Devoid<br />
of decoration, these rods or switches became broom-like devices that were used<br />
15 In zones where only one character clad in skins or straw examines children, distributing blows<br />
and gifts alike, e.g., in the case of the Christpuppe or Knecht Ruprecht, ashes play a major role.<br />
For example, in Mechlenburg where he is called rû Klas («rough Nicholas»), he sometimes<br />
wears bells and carries a staff with a bag of ashes at the end. Hence the name Aschenklas is<br />
occasionally given to him. One theory connects this aspect of him with the Polaznik «first<br />
footer» visitor of the Slavs. On Christmas Day in Crivoscian farms he goes to the hearth, takes<br />
up the ashes of the Yule log and dashes them against the cauldron-hook above so that sparks fly<br />
(Miles [1912] 1976: 231, 252).<br />
16 In the United States, it is common for parents to have their children leave out a plate with<br />
cookies along with a glass of milk for Santa. Naturally, the next morning the food offering has<br />
disappeared and nothing but a few crumbs remain on the plate.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
107<br />
to sweep away unhealthy influences. Pig bladders attached to poles were also<br />
used in such prophylactic flagellations. In short, blows delivered by the switches<br />
and bladders were believed to insure good health, promote fertility in animals<br />
and humans alike as well as the fruitfulness of crops: they were intended to<br />
bring about prosperity in general.<br />
3.0. Marginalization: The transformation of the New World «good-luck» visitor<br />
In the United States a series of transformations would take place, altering the<br />
European template of these «good luck visits» and the cast of characters involved<br />
in them, transformations that would lead to the creation of the modern day<br />
consumer Santa, familiar to people around the world. In this process, the dark<br />
ursine companion would be increasingly marginalized. Although there were many<br />
forces at work which, acting in consonance, brought about this situation, a close<br />
examination of the facts allows us to recognize that many of the most familiar<br />
aspects of the American Santa Claus are products of the fertile imaginations of<br />
four remarkable individuals: Washington Irving, Clement C. Moore, Thomas<br />
Nast and Haddon Sundblom.<br />
First, we have Washington Irving (1783-1859) who in his Knickerbocker’s<br />
History of New York (1809) divested St. Nicholas of his bishop’s garb and severe<br />
inquisitorial demeanor, took away his bear companion, leaving behind a<br />
quintessentially good-natured bourgeois Dutchman contentedly smoking his long<br />
clay pipe. Indeed, in a very short time Washington Irving’s writings managed to<br />
turn the popular Sinterklaas or Sinter Klaas of Holland into the tutelary guardian<br />
of New York (Chris 1992: 37-41; Rodríguez 1997; Webster [1869] 1950). 17<br />
The next step in the metamorphosis of the European character was undertaken<br />
by Clement C. Moore, the biblical scholar who, in 1822, wrote his now famous<br />
poem «An Account of a Visit from St. Nicholas» in which Santa acquired a sled<br />
and reindeer. 18 This poem, in turn, was illustrated by the political cartoonist<br />
Thomas Nast in a series of vignettes published in Harper’s Weekly between<br />
1863 and 1886 (Nast St. Hill 1971).<br />
17 For a much finer grained cultural analysis of the evolution of the American Christmas holiday<br />
as well as evidence of European traditions subsisting, especially among the lower classes, cf.<br />
Nissenbaum (1997).<br />
18 Composed for his own six children’s diversion, Moore’s poem first appeared in The Troy Sentinel<br />
of New York on December 23, 1823.
108<br />
Roslyn M. Frank<br />
Figure 19. Brown furry-suited Santa. Source: Webster 1869 version of book cover ([1869] 1950).<br />
However, the artist, born in Bavaria, brought with him to New York fond<br />
memories of the Pelznickel whose furry brown body and paws reappear quite<br />
clearly in his early drawings (Nast [1890] 1971: 53) (Figure 19). 19 Nast’s Santa<br />
has been categorized as «a direct descendent of Pelz-Nicol [sic], the counterpart<br />
of St. Nicholas [... and] the beaming, wholesome Santa Claus of today with his<br />
baggy costume gradually evolved from the more sinister appearing Santa with<br />
his furry skin tight costume» (Webster [1869] 1950). 20<br />
Finally, in 1931, we find Haddon Sundblom, a publicist for Coca-Cola from<br />
Chicago. It is Sundblom who should be given credit for giving the American Santa<br />
his final form, for crafting that jovial consumer Santa so familiar to children and<br />
adults the world over. 21 And in a stroke of genius, from 1931 forward the official<br />
colors of Coca-Cola®, red and white, would be identified year after year with the<br />
19 In Nast’s drawings frequently the creature is shown as elf-like, far smaller than a human being.<br />
20 First published about 1870, Webster’s poem «Santa Claus and his Works», loosely based on<br />
Moore’s poem, was also illustrated by Nast, while somewhat earlier, in 1863, in the Christmas<br />
edition of Harper’s Weekly it was Nast’s drawings that illustrated Moore’s poem and showed<br />
Santa with his sleigh and reindeer much as Moore had described him (Nast [1890] 1971: 6-7).<br />
21 According to Chris (1992: 57), although «most of the United States did not legally recognize<br />
Christmas until the latter half of the nineteenth century, by the 1840’s it was already being seen<br />
very much as a children’s festival...». For a more finely grained analysis of the socio-cultural<br />
and economic factors affecting the transformation of these European traditions into the American<br />
version of Christmas, cf. Nissenbaum (1997).
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
109<br />
bright colors of Santa’s suit (Chris 1992; Rodríguez 1997: 107-132). The Chicago<br />
artist reworked Nast’s chubby bear-like Santa into a taller, ever smiling and more<br />
humanized version, the ideal grandfather, basing his paintings initially on the face<br />
of his friend Lou Prince and upon the death of the latter, on his own.<br />
One of Nast’s illustrations provides us with a particularly a good example of<br />
how entrenched customs can be modified, if not erased. That is, the way that<br />
(unconscious) beliefs and as well as other circumstances can come into play in order<br />
to make the past appear to conform more closely with the present. In this instance,<br />
we have the example of the original cover page from the 1869 edition where Nast’s<br />
childhood memories of the furry Pelznickels are clearly evident in the brown tones<br />
of the creature’s fuzzy costume and paws (Figure 19). However, when this book<br />
was reprinted, in 1950 (Webster [1869] 1950), a decision was taken with respect to<br />
the cover of the new edition to alter the colors of the earlier illustration, remove the<br />
Peltznickel’s brown paws, and replace them with furry white mittens (Figure 20).<br />
That choice brought the color-coding of the book’s cover into greater conformance<br />
with what was, by the 1950s, the conventional view of the colors associated with the<br />
Coca-Cola Santa, namely, red and white. Quite possibly those in charge of deciding<br />
on the packaging of the book were doing nothing more sinister than attempting to<br />
make it as visually marketable as possible. Luckily, those in charge of the reprint<br />
also decided to include a color reproduction of the original cover from the 1869<br />
edition, in the 1950 edition of the book.<br />
Figure 20. Red-colored cover of Webster’s book of Nast’s drawings. Source: Webster ([1869] 1950).
110<br />
Almost every year from 1931 to 1964 Sundblom painted new illustrations<br />
for Coca-Cola and their annual Christmas advertising campaign. These<br />
advertisements appeared in Saturday Evening Post, Ladies Home Journal,<br />
National Geographic, Life, etc., as well as on billboards and point-of-purchase<br />
store displays. As Berryman (1995) has noted: «The Coca-Cola Company’s large<br />
advertising budget ensured that Sundblom’s distinctive vision of Santa received<br />
massive exposure across the country and around the world.» Unquestionably<br />
the jolly, fully human Santa figure popularized by Coca-Cola was a successful<br />
ambassador of feel-good consumerism and optimism and, like Moore’s Santa,<br />
he was plump and grandfatherly with twinkling eyes and a hearty laugh. 22<br />
In short, the massively successful publicity campaigns surrounding these<br />
illustrations, still used by Coca-Cola today, are undoubtedly one of the major<br />
reasons for the rapid diffusion of the image of the American Santa Claus<br />
throughout the world (Chris 1992: 108-132; Rodríguez 1997) and the consequent<br />
loss from our collective consciousness of the European bear ancestor. In the<br />
United States the sack is stuffed not with terrified children, but with candies and<br />
toys. By this point, we might argue that the conversion of the animal-like creature<br />
into an inoffensive, child-friendly bearer of consumer goods is nearly complete,<br />
while the «good-luck visits» have ended up having primarily children as<br />
their beneficiaries, rather than adults, at least in the United States. Yet this fact<br />
should not lead us to the naïve conclusion that the transformation has been uniform<br />
or that the only image left is that of the rosy-cheeked American Santa. Rather,<br />
for example, as has been indicated in this study, in Austria still today we discover<br />
the older horrific image of the Krampus, the creature who goes after innocent<br />
passersby, often striking fear in the hearts of misbehaving children, all of which<br />
is another sign of the continuing strength of this ancient and quite indigenous<br />
ursine tradition of Europe.<br />
4.0. Generational down-grading: A different perspective<br />
Roslyn M. Frank<br />
In the previous sections of this study we documented the fact that there has been a<br />
generational down-grading with respect these customs: those who believe in the<br />
reality of the furry creature and the importance of behaving properly in order to<br />
get a good report card are now primarily children. Yet, even in the case of Santa<br />
22 For a large sampling of representations of Sundblom’s Coca-Cola Santa as well as an analysis of the<br />
publicity campaign associated with them, cf. http://www.angelfire.com/trek/hillmans/xmascoke.html.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
111<br />
Claus which is the most recent manifestation of the older belief complex, every<br />
child goes through a phase of believing that Santa is omniscient and will judge<br />
them. These supernatural powers are inculcated in the child by means of parental<br />
collusion as well as by popular culture. For example, everyone in the United States<br />
knows the words to the song called «Santa Claus is Coming to Town», played<br />
endlessly during the Christmas holidays. Since 1934, the words of this song have<br />
impressed on children the magical powers attributed to this night visitor:<br />
Oh! You better watch out,<br />
You better not cry,<br />
You better not pout,<br />
I’m telling you why:<br />
Santa Claus is coming to town!<br />
He’s making a list,<br />
He’s checking it twice,<br />
He’s gonna find out<br />
who’s naughty or nice.<br />
Santa Claus is coming to town!<br />
He sees you when you’re sleeping,<br />
He knows when you’re awake.<br />
He knows when you’ve been bad or good,<br />
So be good for goodness sake!<br />
Granted, the American version of the main character projects a more childfriendly<br />
and far less threatening personality than its European counterparts, the<br />
disturbingly ominous semi-bestial creatures who continue to form part of<br />
European performance art. Still, even the most recent version of the belief<br />
complex requires the assumption that the being in question is endowed with<br />
supernatural powers: that it is omniscient, capable of knowing exactly what the<br />
child has been doing throughout the year. Building on this assumption, adults<br />
have invoked the name of the character in question in order to get the child to<br />
behave. Thus, the generational down-grading makes children the target of the<br />
moral scrutiny of the character in question: young people are the ones interrogated<br />
and whose actions are watched over, so to speak, by this tutelary guardian being.<br />
4.1. Hamalau-Zaingo: Interlocking meanings<br />
Speaking of the process of generational down-grading, there is reason to believe<br />
that earlier the actions of adults were also subject to a similar type of scrutiny.<br />
This conclusion is based to the strong possibility that in times past there existed
112<br />
Roslyn M. Frank<br />
a flesh and blood counterpart of this guardian figure, concretely, an official who<br />
was in charge of guarding the social norms of the entire community. Here we<br />
need to keep in mind the linkages holding between the term hamalau and the<br />
title that was conferred on the judicial official known as the Hamalau-Zaingo,<br />
whose duties included watching over the collective in question. In short, this<br />
individual appears to have been charged with keeping track of those members<br />
of the community who misbehaved in some way, violating the community’s<br />
norms. Furthermore, there is reason to believe that the duties that fell to the<br />
Hamalau-Zaingo included acting as a kind of judge, determining the seriousness<br />
of the infraction or crime; imposing the appropriate punishment as well as perhaps<br />
seeing that it was carried out properly. In the case of Zuberoa, the individual<br />
who held this office even had immunity from prosecution as indicated in the law<br />
codes from the same zone (Haristoy 1883-1884: 384-385. In other words, in<br />
Euskal Herria we find evidence pointing to the existence of a kind of judge, a<br />
guardian figure whose title included the term hamalau.<br />
Likewise, Azkue (1969: I, 36) explains that the being known as the<br />
amalauzaku (hamalauzaku) is «el Bú, fantasma imaginario con que se asusta<br />
los niños» («the fantastic being, the imaginary phantom that is used to frighten<br />
children»). Then in the Diccionario Retana de Autoridades de la Lengua Vasca<br />
(Sota 1976: 251) under the variant of amalau-zanko we find a similar definition:<br />
Bú, fantasma. «–Uraxe bai izugarri! Benetan, é! Espiritu bat ikusi nian. –Bai zea!<br />
Amalau zankoa?» [‘A fantastic being, phantom. «–That one is awful frightening!<br />
Really, don’t you agree? I saw a ghost. –Really!! Was it Amalau zankoa?»’]<br />
Finally, another example of the same phonological variant, namely,<br />
(h)amalauzanko, is listed in Michelena (1987, I: 874):<br />
Baita umiak izutzeko askotan aipatu oi diran izen. Amalauzanko, Prailemotxo, Ipixtiku<br />
eta beste orrelekorak, lehengoko deabru, gaizkiñ edo jainkoizunen oroipenak izan<br />
bear dute. [‘Also the names that are commonly used to frighten children. Amalauzanko,<br />
Prailemotxo, Ipixtiku and other similar ones must be recollections of devils, demons<br />
or gods of times past’.]<br />
In short, these phonological variants of Hamalau-Zaingo refer to the guardian<br />
figure who is invoked today by adults to threaten children.<br />
Furthermore, we find variants of the compound expression hamalau-zaingo<br />
showing up as (h)amalauzanko and (h)amalauzaku in the name given to a class<br />
of performers. In this case, the phonological reduction of the compound hamalauzaingo<br />
has been accompanied by a reanalysis of the phonologically reduced<br />
form itself. Here I refer to what has happened in villages such as Lesaca where
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
113<br />
there are colorful, albeit rather grotesquely proportioned, figures that go by the<br />
name of azaku-zaharrak, where the second element is the plural of zahar «old». 23<br />
The phonological erosion suffered by the expression might have developed as<br />
follows: hamalau-zaingo-zaharrak > *(hama)lau-za(in)ko-zaharrak ><br />
*lauzaku-zaharrak > azaku-zaharrak.<br />
It was not until the 1970s that these characters were recuperated in Lesaca<br />
and their name re-introduced, after nearly a forty year hiatus, given that during<br />
the Franco period the characters were absent. 24 Today the performers’ appearance<br />
is manipulated so as to make them appear extremely bulky, larger than life,<br />
similar to En Peirot of Catalunya, a character we will examine in more detail<br />
shortly. In order to achieve this effect, the actors stuff their costumes with straw,<br />
while the costumes themselves are made out of gunny sacks. As a result, the<br />
expression azaku-zaharrak ([Ihauteriak] 1992) has undergone further<br />
phonological erosion and semantic reanalysis, being reduced, at least by some<br />
writers, to zaku-zaharrak, and interpreted, erroneously, as meaning «sacos viejos»<br />
(«old sacks») as if the first element corresponded to the old gunny sacks used to<br />
make the costumes.<br />
Fig. 21. Lesaka Zaku Zaharrak, 2007.<br />
Source: http://www.flickr.com/photos/dantzan/724934332/in/set-72157600656899313/.<br />
23 Cf. http://www.flickr.com/photos/dantzan/724061073/.<br />
24 Even earlier, there was no specific date for when the zaku-zaharrak were supposed to appear,<br />
rather from January 6 th until the beginning of Carnival the various groups of performers would<br />
take turns coming out into the streets. Then on the Monday of Carnival all the groups of performers<br />
would come together, which could produce rivalries between the zaku-zaharrak of the various<br />
wards of the village ([diariodenavarra.es] n.d.).
114<br />
Roslyn M. Frank<br />
In summary, in the case of the compound hamalau-zaingo we find three<br />
intertwined meanings that, in turn, reveal three distinct yet interlocking aspects<br />
or characteristics that are closely associated with the entity in question. First,<br />
the phonologically eroded variants of hamalauzanko and hamalauzaku appear<br />
to be reflexes of the name of the official who was in charge of watching over the<br />
community and insuring that its norms and rules of conduct were observed;<br />
second, we note that it is the name assigned to the fantastic being invoked to<br />
make children behave; and finally, it shows up in the name of a bizarre bear-like<br />
masked performer, the hamalauzaku. Stitching these clues together we discover<br />
a clear pattern, one that illuminates yet another dimension of the Hamalau cultural<br />
complex: that in all likelihood the individual who was in charge of watching<br />
over the community was also the individual who dressed in a particular fashion,<br />
not like the other members of the community, and was also expected to take an<br />
active part in public rituals, if not preside over them. Therefore, it would not<br />
have been illogical for adults to invoke the name of this official when telling<br />
their children that if they didn’t behave they would be carried off and punished<br />
by him (or her). Yet at the same time, standing behind the official in question<br />
was a more terrifying creature of supernatural dimensions, the half-human, halfbear<br />
figure of Hamalau, the intermediary between humans and bears, identified<br />
as well with the ominous «night visitor» or «sensed presence».<br />
In addition, keeping in mind the processes involved in generational downgrading,<br />
if we attempt to combine all of these characteristics into a single coherent<br />
narrative we are confronted once more with the strong possibility that the<br />
attribution of omniscience to this creature on the part of adults, i.e., when speaking<br />
to children, reflects an earlier belief held by adults themselves: a belief on their<br />
part in the supernatural powers of this being. In short, to assume that in times<br />
past the cultural conceptualization in question was equated with a particular<br />
notion of divinity would not be too far-fetched. This leads us back to Perurena’s<br />
suggestion that Hamalau might be best understood as a kind of pre-Christian<br />
deity (Hamalaua, gure Jaingo «Fourteen, our god») (Perurena 1993: 265; 2000).<br />
As is well recognized, Western concepts of divinity tend to be informed by<br />
the notion of transcendence and moral authority, that is, a conceptual framework<br />
that projects a distant, otiose high god, physically removed from the world of<br />
humans and nature, although judgmental, nevertheless. In contrast, the ursine<br />
cosmology embodies a more animistic framework, grounded much more in the<br />
here and now, in nature itself. Thus, the source of authority seems to more immediate,<br />
less remote and more accessible. Both humans and bears are implicated<br />
as is, by extension, the rest of nature. Thus, rather than projecting a lofty high
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
115<br />
god, a transcendent being separate from humans and nature, the ursine cosmology<br />
seems to incarnate a radically different and more all encompassing vision of<br />
reality, self and other.<br />
In conclusion, when analyzed from the perspective of generational downgrading,<br />
we see ample evidence of adults being fully complicit in terms of<br />
transmitting and promoting the belief in this supernatural being, actively<br />
endeavoring to inculcate the belief in the minds of their children. Yet adults<br />
themselves no longer actually share the belief. In other words, what we find are<br />
adults and children operating with different interpretive frameworks. However,<br />
as has been stated, there is every reason to assume that the belief system implicated<br />
by the actions of the adults represents a residual pattern of belief once held by<br />
the wider community.<br />
Likewise, although adults are no longer the target of the modern day<br />
interrogations, e.g., as carried out by St. Nicholas and his furry companion, it<br />
would appear that in times past the adult members of the community were not<br />
exempt from moral scrutiny. For instance, we have the example of the comic<br />
critique which still forms part of the structure of «good-luck visits». That component<br />
clearly is directed at evaluating the behavior of those visited, albeit in a satiric<br />
fashion. This suggests that a similar component could have been present earlier<br />
and that it once formed an integral, even obligatory, part of the ritual.<br />
Finally, we are left with two additional questions, neither of which has a<br />
clear answer. The questions concern the nature of the relationship holding between<br />
the individual performing the role of Hamalau-Zaingo and the figure of Hamalau.<br />
First, we might ask how we should characterize this relationship if we assign a<br />
supernatural dimension to Hamalau. And the second question that we might ask<br />
is how that relationship impacted the way that human animals viewed their ursine<br />
non-human brethren. Again, even by drawing on all the information collected to<br />
date neither of these questions has an easy answer.<br />
5.0. Cross-cultural comparisons: Artifacts from the Pyrenean-Cantabrian<br />
refugium<br />
When we compare the path taken by the various linguistic and cultural artifacts<br />
under analysis we find a curious pattern. On the one hand, in certain locations<br />
the «bear» character has essentially disappeared from view, being supplanted<br />
by St. Nicholas and/or his more modern counterpart Santa Claus. Undoubtedly,<br />
Christianity has played a role in these transformations. Yet, at the same time, in
116<br />
Germanic-speaking zones we find the older figure standing, quite literally,<br />
alongside the modern Christianized character. In other words, the original figure<br />
has not been erased. Quite the contrary, the Austrian Krampus is still a very<br />
frightening creature.<br />
In the case of the linguistic and cultural artifacts drawn from zones inside<br />
the Pyrenean-Cantabrian refugium and/or closely linked to it, e.g., the Sardinian<br />
materials, we find a different symbolic regime operating where the main character<br />
did not undergo the same sort of Christianization. Here I refer to the Basque<br />
figure of Hamalau itself and its variants (e.g., in Mamu, Marrau, Hamalauzango/<br />
Hamalauzaku, etc.) as well as the Sardinian conceptual equivalents (e.g., variants<br />
in marragau, marragotti, mommotti, mamudinu, mamuthones, etc.) on the one<br />
hand, and on the other the frightening creature encountered within the<br />
geographical reach of the Pyrenean-Cantabrian refugium, referred to generically<br />
as L’Home del Sac and, more specifically, embodied in figures such as the Catalan<br />
Marraco, as it was originally understood. 25<br />
What is unusual is the fact that in this region of Europe the belief and associated<br />
performance art survived on the margins of Christianity. In all probability part of<br />
the reason for this lies in the fact that the Church managed to promote a different<br />
biblically-based Christianized identity for the gift-bringers, namely, the Three Kings<br />
who were in charge of bringing presents to well-behaved children on January 6 th .<br />
That strategic choice on the part of the Catholic Church, whether fortuitous or<br />
deliberate, allowed the belief in the older more ambivalent guardian figure to<br />
continue to operate on the margins of the dominant cultural discourse. There the<br />
character went on fulfilling its role as an asustaniños even though with time adults<br />
would invoke its name less frequently. Nevertheless, as we shall soon discover, in<br />
locations such as Catalunya, just as in Germanic-speaking countries, the<br />
Christianization process was incomplete and in some locations the furry creature<br />
continued to appear along with its Christianized brethren into recent times.<br />
5.1. Iberian «bogey-men»<br />
Roslyn M. Frank<br />
Writing in 1950s, the renowned Catalan ethnographer Joan Amades prepared a<br />
series of studies exploring what he called «ogros infantiles». He uses this term<br />
to refer to the same class of monstrous beings invoked by adults to frighten their<br />
25 In this respect I would mention the Basque figure of Olentzaro who will be discussed in detail in<br />
the next chapter of this investigation.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
117<br />
offspring that we have been discussing throughout this chapter (Amades 1951,<br />
1952, 1957). Among the most popular of these figures is En Pelut which translates<br />
as the «Hairy One» or the «Shaggy One» and which Amades describes as the<br />
«asustachicos catalán»:<br />
En Básquera, Montagut, Tortellá y por otros lugarejos de la Garrotxa, en vísperas de<br />
Navidades intimidan a los chicos traviesos con el Pelut o Peludo, hombrón alto y<br />
fornido cual un roble, negro como el hollín y peludo cual un oso, que habla estentórea<br />
y bruscamente, el cual ronda en busca de chicos traviesos, que carga en un enorme<br />
saco que trae a cuestas para celebrar con ellos unas buenas Pascuas. [‘In Básquera,<br />
Montagut, Tortellá and other localities of Garrotxa, on the evenings preceding<br />
Christmas they intimidate mischievous children with the Pelut or Peludo, a very<br />
large man, tall and muscular as a oak tree, black as soot and shaggy as a bear, who<br />
speaks in a brusque stentorian fashion, and who goes about looking for mischievous<br />
children, who he carries off in an enormous sack that he has on his back in order to<br />
enjoy with them a sumptuous feast’.] (Amades 1957: 274)<br />
Amades goes on to say:<br />
A veces, para dar más efectividad a la farsa, un vecino bien alto y robusto, cubierto<br />
con pieles de carnero negro, que algún día debieron ser de oso, cargado con un saco<br />
repleto de paja al hombro, al anochecer visita los hogares donde hay chicos díscolos,<br />
vociferando que viene a por ellos para zampárselos en Nochebuena. Los ruegos de<br />
los mayores y las súplicas de los amenazados le convencen de que se vaya, lo cual<br />
hace muy a regañadientes. [‘Sometimes, in order to make the farce more effective, a<br />
tall and robust neighbor covered in the skins of a black ram, skins that earlier were<br />
probably those of a bear, bearing a sack filled with straw on his shoulder, visits<br />
around nightfall those households where there are disobedient children, crying out<br />
that he will be coming to get them, to swallow them up on Christmas Eve. The entreaties<br />
of the adults and the pleadings of those threatened convince him that he should leave,<br />
which he does very unwillingly’.] (Amades 1957: 274-275)<br />
Supposedly, one of the other functions of En Pelut was to give a report to the<br />
Three Kings concerning the conduct of children. In contrast to the way this was<br />
set up in Germanic-speaking countries where St. Nicholas would often arrive<br />
accompanied by his dark furry companion, here we have a bear-like creature<br />
arriving alone, well ahead of the Three Kings, and operating autonomously.<br />
Also, we see that it is En Pelut who is in charge of determining whether the<br />
children have misbehaved and, supposedly, later transmitting that report to the<br />
Christianized three-some of «gift-bringers» (Mano Negra 2005). In this sequence<br />
of events there is a kind of discrepancy in that the date assigned for the definitive<br />
punishment – when the creature says he will return – is Christmas Eve, i.e., the<br />
Winter Solstice, not January 6 th .<br />
While there are significant parallels with respect to the way that the Catalan<br />
representation of the creature has evolved alongside Christianity, what is perhaps
118<br />
Roslyn M. Frank<br />
most remarkable about this Catalan custom is the recognition on the part of<br />
Amades that in all likelihood in times past the person dressed up in a bear skin.<br />
Although Amades does not directly associate En Pelut with a bear, he does add<br />
these comments:<br />
Por los valles altos pirenaicos de la región leridana se había acudido asimismo al<br />
oso, y en Andorra, a su hembra, la osa, mucho más temible aún que éste. La<br />
representación del oso danzarín había sido muy frecuente en Carnaval; y, cual<br />
En Peirot o el Marraco, los niños lo miraban con pavor, no como un fiero animal,<br />
sino en su condición de traganiños traviesos. [‘In the high Pyrenean valleys of<br />
the region of Lérida, they have also resorted to the bear, and in Andorra, to the<br />
female bear, which is even more fearsome than the former. The representation<br />
of a dancing bear is very common during Carnival; and, like En Peirot or the<br />
Marraco, children looked at it with terror, not because it was as a wild animal,<br />
but rather because of its condition as a devourer of disobedient children’.]<br />
(Amades 1957: 269-270)<br />
In the example above, we find that the conflation of the two meanings is<br />
complete: the frightful being invoked by adults is identified precisely with<br />
the performer dressed as a «bear» (Figure 22).<br />
Figure 22. «Mascarada del Oso». Xarallo. – L’Allars. Source: Amades (1957). 26<br />
In the traditional festivals of the town of Solsona four «bears» took part,<br />
performers whose presence terrified of the children of Solsona, Vall del<br />
26 From a drawing made by Amades based on a work of J. Noé located in the Museo de Industrias<br />
y Artes Populares del Pueblo Español in Barcelona.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
119<br />
Hort and Ribera Salada, meanwhile their parents would repeatedly speak<br />
to their offspring about the «bears» to in order to make them obey (Amades<br />
1957: 270). Based on the only photo I have found of them, today they look like<br />
harmless Disney-like characters, indeed, looking more like mice than bears.<br />
However, in times past there was a dearth of images other than those found in<br />
one’s own everyday environment, no television, no magazines, no Internet. So<br />
any unfamiliar creature, especially a strange unnatural masked one, would have<br />
given any child goose-bumps. Also, we do not know how these four «bears»<br />
dressed centuries ago (Fig. 23).<br />
Figure 23. «Los osos». Solsona-Solsonès. Source: Amades (1957).<br />
In the passages cited above Amades mentions another performer known as En<br />
Peirot. According to Amades, the characteristics of this «ogre» appear to replicate<br />
those of the Sardinian Marragau, although its name, En Peirot, bears no resemblance<br />
to any of the phonological variants of Hamalau we have discussed so far. It is<br />
noteworthy that geographically speaking this performer also inhabits the region of<br />
Lérida where in a certain sense it must have competed (or co-habited) with performers<br />
dressed as «bears». Amades describes the participation of this actor as follows:<br />
Por las altas comarcas leridanas, el terror de la chiquillería era el Peirot, que durante el<br />
Carnaval salía a danzar a la plaza al son de una canción dedicada a él […]. Para dar la<br />
sensación de que estaba enormemente gordo, a causa del gran número de criaturas<br />
malas que se había tragado, el disfrazado escondía un par de almohadas debajo del<br />
vestido, con lo que adquiría un aspecto deforme y grotesco. La chiquillería quedaba<br />
aterrorizada al verle por sus propios ojos, dándoles una sensación de realidad que daba<br />
gran eficacia a la palabra de los mayores cuando le invocaban. [‘In the high districts of<br />
Lérida, what terrorized the crowds of small children was the Peirot, who during Carnival
120<br />
Roslyn M. Frank<br />
would come out to dance in the plaza to the sound of a song dedicated to him […]. In<br />
order to give the sensation that he was enormously fat, because of the large number of<br />
bad kids that he had swallowed up, the masked figure would hide a pair of pillows<br />
under his costume, with the result being that he took on a deformed and grotesque<br />
shape. The crowds of children were horrified upon seeing him with their own eyes,<br />
which gave them the impression that he was real, a sensation that made the words used<br />
by their elders when they invoked his name extremely effective’.] (Amades 1957: 275) 27<br />
Amades (1957: 270) also points out that a figure called Peirotu appears<br />
in this capacity of a tragachicos on the French side of the Pyrenees. In<br />
spite of the fact that the names Peirot and Peirotu bear no resemblance to<br />
the phonological variants of Hamalau studied so far, the characteristics<br />
attributed to Peirot and Peirotu are remarkably similar in many respects.<br />
In the town of Lérida we find a carnival performer called Marraco, quite<br />
comparable to En Peirot, whose body size was also exaggerated by stuffing<br />
pillows inside the actor’s costume. This was the case before the townspeople<br />
decided to construct a new, highly elaborated version of the fearsome<br />
yet amorphous being called Marraco (Amades 1857: 275). Indeed, we<br />
discover that the ursine connections of the character were essentially eliminated<br />
when the decision was taken to give a concrete physical shape to the Marraco,<br />
the creature that devoured children. According to Amades (1957: 268-269), at<br />
one point the officialdom of Lérida decided that they wanted to construct an<br />
impressive animal-like figure of monstrous proportions in order to enhance the<br />
visual appeal of the local Carnival festivities. After some discussion, it occurred<br />
to them that the best choice would be to give plastic form to the fabulous Marraco.<br />
Apparently, as adults, those in charge of making this decision still remembered<br />
the fear they had experienced as children when their parents reprimanded them,<br />
in short, the abstract sense of terror that the Marraco had aroused in them.<br />
However, by this point in time it is clear that the authorities in question were<br />
seeking to devise not some horrendously frightful creature, but rather something<br />
that would be an attractive addition to the local festivities, a source of entertainment<br />
for the community. In other words, the belief in the Marraco was losing its grip. As<br />
a result, they ordered the construction of an enormous animal and had it mounted<br />
on a chassis with wheels so that it could move through the streets. The antediluvian<br />
creature was equipped an enormous mouth. That way children could enter though<br />
27 Although Amades explains that the custom of stuffing the performer’s costume with pillows to<br />
give it more bulk was explained by the wanting to give the impression that he was fat from<br />
eating so many children, this explanation might well be false. Instead, there is reason to believe<br />
that the bulky nature of the costume was, at least in part, a desire – in times past – to make the<br />
performer take on a bear-like appearance.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
121<br />
this aperture and by means of a special internal device, they were moved along<br />
gently inside the bowels of the creature so that upon emerging from it, they ended<br />
up being deposited, quite safely, on the ground (Amades 1957: 268-269).<br />
The first Marraco, made of cardboard, fell apart and was substituted by<br />
another incredibly bigger one. While the new version was also mounted on<br />
wheels, it no longer was capable of swallowing up the little ones as its predecessor<br />
did. In short, the «child-eating» Marraco that previously had inhabited every<br />
child’s imagination, albeit with an amorphous shape, was now given a concrete<br />
plastic representation and, consequently, deftly converted into an innocuous<br />
object of entertainment (Figure 24).<br />
Figure 24. The Marraco of Lérida. Source: Amades (1957).<br />
5.2. Another linguistic variant<br />
Finally, in other zones still within the geographical limits of the Pyrenean-<br />
Cantabrian refugium or quite nearby we find that the menacing asustachicos<br />
goes by several names quite similar to each another, suggesting that they share a<br />
common etymology. For instance, we have the Papu which in Catalunya has<br />
been perhaps the most popular name for this character. Also, in many regions of<br />
Catalunya the word papu means «worm, insect or any little non-flying animal»<br />
(Amades 1957: 255). The latter meanings coincide closely with meanings found<br />
in Sardu for a number of words based on the stem of mamu-, e.g., mamusu; it<br />
also has parallels in Euskera in meanings associated with the terms mamu,
122<br />
mamarro, mamorru, mamurru, mamarrao and mamor, namely, «worm, insect,<br />
very small animal» (Michelena 1987: XII, 37-38).<br />
In Basque this definition may well be rooted in an animistic belief that<br />
attributed to these beings special transformative spiritual powers. The word field<br />
comprised by these terms also includes small beings, tiny magical semi-human<br />
creatures, often helpful to humans but of a rather indefinite shape. As such, they<br />
appear incarnate in the form of insects, as if the latter were capable of shapeshifting,<br />
undergoing metamorphosis, taking on a disguise, e.g., as a larva might<br />
be understood to shape-shift when it becomes a chrysalis and then magically<br />
turn into a butterfly. For example, in Euskera mamutu carries meanings related<br />
to «putting on a mask» or otherwise «disguising oneself»; to «becoming<br />
enchanted, astonished, astounded» or «put under a spell»; more literally it means<br />
«to become a mamu» while the verb mamortu, from the root mamor-, means<br />
both «to become enchanted» and «to form oneself into a chrysalis» or «to become<br />
an insect» (Michelena 1987, XII: 56-59). In some Spanish-speaking zones these<br />
magical beings are called mamures or mamarros (cf. Barandiaran 1994: 79;<br />
Gómez-Legos 1999; Guiral, Espinosa and Sempere 1991).<br />
5.3. Exploring etymological origins of Romance terms<br />
Roslyn M. Frank<br />
Amades (1957: 255) suggests that names like Papu and Babau (as well as Papao<br />
found in Portugal), Bubota and Bubú that we find the Baleares, all of which are<br />
associated with the figure of L’Home del Sac, might be explained by their<br />
association with the verb papar «to suck, to swallow without chewing», that in<br />
turn is linked etymologically to Castilian papo and Catalan pap «throat, lower<br />
part of an animal’s neck». In passing, we need to mention that as far west as<br />
Portugal we find Papao and at the same time there is Babau which is especially<br />
well known in the Pyrenean region of Roussillon, including Rivesaltes. 28<br />
28 In the case of the monstrous «child-eater» of Rivesaltes it, too, was eventually turned into a dragonlike<br />
animal. Its presence is justified by a charming yet highly elaborated local legend: an allegedly<br />
ancient account about how the Babau, «a monster, if not a dragon, […] breached the defences of<br />
the town and devoured several infants» (cf. http://www.perillos.com/babau.html). What is perhaps<br />
most striking about the legend is the way it assigns to the tragic event the dates of February 2 and<br />
3, namely, to Candlemas Bear Day and the day after whose patron saint is St. Blaise. And as is well<br />
recognized, in France traditionally the bear or bear-hunt has been associated with the feast of<br />
Candlemas and the day after, when the feast of St. Blaise is celebrated, while the latter saint is<br />
renowned both for his healing abilities and his role as the guardian saint of bears.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
123<br />
Finally, the latter term would appear to coincide with the Babau of the Italian<br />
Peninsula.<br />
While Amades tentatively links the etymology of Papu and the others to<br />
papar, there is another way of approaching the problem. First, we need to return<br />
to our Sardinian linguistic evidence. Examining the dialectal variants of momotti<br />
«babau», we find bobbotti «babau»; similarly, we find that mommoi has a variant<br />
in bobboi, both words meaning «mangiabambini, mannaro, spauracchio, insecto»<br />
(Rubattu 2006). From this it is evident that we have an alternation in /m/ and /b/.<br />
Furthermore, since we have argued that the forms in /m/ are quite archaic, it<br />
would follow that the words with /b/ are phonological variants of the latter.<br />
Hence, we can apply this phonological shift to the examples cited above, e.g.,<br />
Papu, Babau, etc.<br />
However, before we do so, we need to look at one more dialectal variant of<br />
Mamu, namely, Mahu which in turn is regularly duplicated as Mahu-Mahu in<br />
the region of Valcarlos in Low Navarre. The latter is also a proper noun, the<br />
name of the «night visitor» and hence should be added to our list composed of<br />
Mamu and Marrau as well as Hamalauzango/Hamalauzaku. In the following<br />
saying which Basque-speaking parents used with their children, we find that the<br />
creature being addressed is called mamu, marrau as well as mahumahu.<br />
Satrústegui (1987: 17) points out that as the parent would say these words to the<br />
child, the adult would clench her fingers to form claws and gesture as if trying to<br />
seize the child. Consequently, this gesture served to further impress upon the<br />
child the kind of fate that awaited her as well as illustrate the fearsome nature of<br />
the creature being invoked by the parent.<br />
Mahumahu! [Mahumahu!]<br />
Jan zak haur hau [Eat this child.]<br />
Bihar ala gaur? [Tomorrow or today?]<br />
Gaur, gaur, gaur. [Today, today, today.] (Satrústegui 1987)<br />
In sum, we see that in this Basque-speaking zone mamu developed a variant<br />
in mahu. Drawing on the alternation /m/ to /b/, it would not be difficult to imagine<br />
a developmental pattern where there was an initial alteration or competition<br />
between two forms, namely, mamu and mahu and/or between mamu and babu.<br />
This in turn could have led to to a developmental path such as: mamu → mahu<br />
→ babu → papu. Or one could imagine an even simpler developmental sequence:<br />
mamu → babu → papu. Consequently, it would follow that the expressions<br />
papu, babu, papao, and babau are nothing more than phonological variants<br />
based on the same etymological template and belonging to the same lineage.
124<br />
Therefore, they should be viewed as deriving ultimately from hamalau. The<br />
logic of this reconstruction is reinforced by the fact that the referent evoked by<br />
these expressions is essentially identical: it is the same fearsome creature,<br />
instantiated socio-culturally in a very similar fashion across the entire<br />
geographical region. In short, there has been significant stability in the nature of<br />
the referent itself.<br />
5.4. Exploring a final Basque variant: Inguma<br />
Roslyn M. Frank<br />
Among the phonological variants of hamalau, e.g. marrau and mamua,<br />
Satrústegui also cites the following expressions encountered in Valcarlos, Low<br />
Navarre: mahumahu, mahu-mahuma, mahoma, mahuma and inguma. The terms<br />
mamua, mahuma, etc. are listed as synonyms of inguma (Lhande 1926: 512).<br />
The form inguma appears to represent a much later, more specialized<br />
phonological development of the term hamalau since it, too, is applied to the<br />
«sensed presence» or «night visitor» (Satrústegui 1981a, b, 1987). In the case of<br />
inguma, the word has no obvious root-stem in Basque. This fact suggests that<br />
there are two possible paths for its etymology: 1) it is a borrowed term from an<br />
unknown source or perhaps from Lat. incubus, as Trask (1999) once suggested;<br />
or 2) it is an indigenous term whose etymology has become obscured. Given<br />
that inguma is used to refer to the «sensed presence» or «night visitor» we have<br />
been discussing, its semantic referent and content is synonymous with that of<br />
mamua, marrau, etc.. Hence, perhaps the most logical etymological choice would<br />
be one based on the following set of phonological shifts: hamalau > *mamalau<br />
> mahumahu > mahuma > *maguma > inguma.<br />
In discussing the various terms that exist in Euskara for «butterfly», Trask<br />
made the following comment:<br />
Inguma (G) (1745). This curious word does not look like an expressive formation.<br />
But the same word is recorded from 1664 as ‘incubus, succubus’. We may therefore<br />
surmise a possibly unattested Late Latin *incuba ‘female incubus, succubus’, which,<br />
if borrowed into Basque, would regularly yield the attested inguma. The motivation<br />
is not obvious, but I have seen pictures of the night-demons portraying them as perched<br />
on top of the bodies of their sleeping victims, so maybe the butterfly’s habit of perching<br />
is the motivation. (Trask 1999).<br />
In contrast to Trask’s proposed etymology, based on an unattested Late<br />
Latin form, I would argue that another argument in favor of preferring an<br />
indigenous etymology is the fact that inguma refers both to the «night visitor»
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
125<br />
and to a «butterfly». That same semantic linkage is found between other<br />
phonological variants of hamalau, that is, connections between hamalau and<br />
insects, particularly shape-shifting insects, as has been pointed out previously<br />
in this investigation. Thus, that the same word has both of these meanings<br />
makes the case even stronger: that inguma belongs to the same lineage, the<br />
same word field as the other variants, and, therefore, that it derives ultimately<br />
from hamalau.<br />
Viewed from this perspective, the replicated version mahumahu gave rise to<br />
a phonological variant in mahuma and then over time mahuma underwent further<br />
reanalysis, producing inguma. As noted, the latter expression also refers to a<br />
«butterfly», the «night visitor» as well as to the incubus-succubus phenomenon.<br />
Obviously, if all one had to work with was the final phonological shape of inguma<br />
it would not occur to a linguist to trace that word’s etymology back to hamalau.<br />
Yet there is little doubt about the phonological track followed by the expression<br />
inguma, as one earlier variant form after another underwent phonological<br />
transformation, bringing about phonological and semantic reduction.<br />
When I speak of «semantic reduction» I am referring to the loss of the original<br />
meaning of the term hamalau; the fact that it is a number: that it originally<br />
meant «fourteen». Indeed, it would appear that this meaning exists only at the<br />
head of the semantic chain, i.e., occupying the top node of the etymological<br />
lineage leading to the formation inguma, while the immediate ancestral forms<br />
of inguma, i.e., mamu, mahuma, etc. would have already lost that basic numeric<br />
meaning, leaving a more restricted semantic field in place here only the notions<br />
of the «night visitor» and «insects» were operating. It is also quite possible that<br />
these processes of change were influenced by dialectal variants repeatedly coming<br />
into contact with each other, a process that would have contributed to the loss of<br />
recognition of the underlying semantic contents of the expressions.<br />
Finally, inguma was used not just a common noun, but also as a proper<br />
name, concretely, a form of address used when talking to the mysteriouos being<br />
itself. This fact further supports an indigenous evolution of the term and its<br />
original derivation from hamalau: it reinforces the assumption that inguma<br />
belongs to the same lineage. For example, this obviously ritualized bedtime<br />
prayer addressed to Inguma is found in the Labourdin dialect:<br />
Inguma, enauk bildur, Jingoa ta Andre Maria artzen tiat lagun; zeruan izar, lurrean<br />
belar, kostan hare, hek guziak kondatu arte ehadiela nereganat ager (‘Inguma, I’m<br />
not afraid of you, I take refuge in God and the Virgin Mary; stars in the sky, [blades<br />
of] grass on the ground, [grains of] sand on the beach, until you have counted all of<br />
these, don’t present yourself to me’.) (Azkue 1969, vol. 1: 443).
126<br />
Roslyn M. Frank<br />
As Satrústegui points out, in some cases these prayers and folk sayings<br />
insert the term inguma when addressing the being in question, while in other<br />
cases the same prayer or folk saying employs the term marrau or mamua.<br />
Thus, we can see that these three terms (marrau, mamua and inguma) are<br />
synonyms: phonological variants of each other. This line of evidence would<br />
also suggest that two sets of phonological variants of the term hamalau might<br />
have branched off from the original etymon of hamalau and then distanced<br />
themselves from each other: one set situated in more eastern dialects and<br />
another in more western ones. 29<br />
At the same time we can see that once Christianity arrived, people came up<br />
with discursive ways to dissuade the frightening «night visitor» from paying<br />
them an unwanted visit. Thus, these formulaic sayings and prayers represent<br />
another example of the kind of hybridization that took place when the two belief<br />
systems came into direct contact with each other. One only wonders what this<br />
night-time prayer would have sounded like before the arrival of Christianity:<br />
were children instructed to talk to Hamalau before going to sleep, in order to tell<br />
the creature to keep busy with other things, like counting the stars, rather than<br />
paying them a visit? And, in the case of adults, were they, too, accustomed to<br />
addressing this being each night before falling asleep? As Satrústegui has<br />
observed, it is noteworthy that the prayers are not directed to God, Jesus Christ<br />
or the Virgin Mary, seeking their intervention, but rather the discourse scenario<br />
has the individual speaking directly to Hamalau, albeit under the variant names<br />
of Marrau, Mamu, Mahumahu, Mahuma, Inguma, etc.<br />
Also, according reports by Donostia based on the fieldwork he carried out in<br />
the same region, his adult informants said that the creature was an animal: «Como<br />
una especie de animal sedoso que oprime al durmiente» [‘Like a kind of silky<br />
animal that presses down on the sleeper’], while the general opinion of the<br />
informants was the «el Ingume es una especie de animal, suave, de mucho peso,<br />
que se desliza por el pecho apretándolos» [‘the Ingume is a kind of animal,<br />
smooth, very heavy, that slides onto their chest, gripping them tightly’] (cited in<br />
Satrústegui 1987: 22).<br />
Another clue concerning the nature of the creature comes from the verbal<br />
syntax encountered in the prayers and sayings. In Euskara there is a type of<br />
dialogic addressivity associated with certain verb forms which requires the<br />
speaker to mark the gender of the person being spoken to, i.e., the presence of<br />
29 For a much more detailed ethnographic discussion of the western variants cf. Satrústegui (1981a;<br />
1981b: 365-375).
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
127<br />
the addressee is integrated into the structure of the conjugated verb. Because of<br />
this fact, we can determine, based on the sampling of prayers and sayings<br />
collected, that the informants addressed the creature using the male gender<br />
marker, e.g., ez niok hire beldurrez; enuk hire beldur, etc. That said, it is also<br />
true that the collection of prayers and sayings is not extensive. Hence, the<br />
examples of dialogic addressivity which mark male gender might not be<br />
representative of the discursive style of all speakers. For example, in discussions<br />
of the collection of prayers and sayings, the gender of the informant is not<br />
indicated. Therefore, we do not know for sure whether men and women always<br />
addressed the being if it were male. 30 Also, we need to keep in mind the<br />
ambiguous, indeed, amorphous nature of the entity being addressed and the fact<br />
that it was often viewed as an animal.<br />
In some cases the prayers addressed to the creature, seek protection for the<br />
daytime hours as well as at night, repeatedly indicating that the individual is not<br />
afraid of the fearsome being at anytime:<br />
Mahuma, gaur enuk hire beldur [‘Mahuma, today I do not fear you’]<br />
Loan ez ihartzarrian. [‘neither sleeping nor awake.’]<br />
Jinkua diau aita, [‘God is our father,’]<br />
Anderedena Maria ama, [‘Virgin Mary [our] mother,’]<br />
Jandonahani gazaita, [‘Saint John [our] godfather,’]<br />
Jandone Petri kusi, [‘Saint Peter [our] cousin,’]<br />
Horiek denak ditiau askazi, [‘they all are our relatives,’]<br />
Loiten ahal diau ausarki. [‘we can sleep abundantly.’] (Satrústegui 1987: 17)<br />
30 In passing I should mention that there is evidence for a female-oriented interpretation of the<br />
main character, a topic that is, however, outside the scope of this study. Briefly stated, this<br />
feminine orientation may be reflected in the figures of the pre-Christian Basque goddess Mari<br />
and her animal helpers, the Italian Befana and most particularly the Germanic Percht(a)/Bercht(a).<br />
In the case of the latter figure we should keep in mind that the etymology of the term (and its<br />
phonological variants such as precht and brecht) takes us back to the etymon of Germanic<br />
words for «bear», namely, *bher- «bright, brown» which also shows up in the name Hans Rupert/<br />
Ruprecht: «Das Wort percht entspricht althochdeutsch peraht/beraht und bedeutet strahlend,<br />
glänzend, und es ist in dieser Bedeutung in Eigennamen wie Berchthold, Albrecht, Rupprecht/<br />
Rupert bis heute erhalten. […] Mit der Etymologie des Namens Bercht(a)/Percht(a) hat man<br />
sich seit dem frühen 18.Jahrhundert beschäftigt: Er wurde einerseits mit dem bereits erwähnten<br />
althochdeutschen Wort peraht/beraht in Verbindung gebracht; demgemäß würde er also entweder<br />
die Leuchtende, Strahlende meinen – oder aber die ‘Frau der Perchtnacht’» [The word percht<br />
comes from Old High German peraht/beraht and means ‘bright, shiny’, and it survives in this<br />
meaning in names such as Berchthold, Albrecht, Rupprecht/Rupert. […] The etymology of the<br />
name Bercht(a)/Percht(a, has been studied since the early18th century: It [the name] was being<br />
related, on the one hand, to the Old High German word peraht/beraht already mentioned;<br />
accordingly, it would mean either ‘the luminous, bright’ or the ‘Woman of the Perchtnacht’]<br />
(Müller and Müller 1999: 450).
128<br />
Roslyn M. Frank<br />
And this one which again emphasizes that creature’s presence was sensed in<br />
some fashion throughout the day and night.<br />
Mahuma, enuk hire beldur, [‘Mahuma, I’m not fear you,’]<br />
Etzaten nuk Jinkuaikin [‘with God I go to sleep’]<br />
Jiekitzen Andredena Mariaikin [‘with the Virgin Mary I awake’]<br />
Aingeru ona sabetsian [‘with the good Angel at my side’]<br />
Jesus ene bihotzian [‘Jesus in my heart’]<br />
janian, edanian, loan, ametsian. [‘when eating, drinking, sleeping and dreaming.’]<br />
(Satrústegui 1987: 17)<br />
Then in reference to the daytime presence of the creature, writing in 1987,<br />
Satrústegui (1987: 20) recounts what was told to him by a woman from the<br />
district of Gainekoleta, a zone in which rock-slides were relatively common<br />
because of the mountain nearby. The woman said that when a rock-slide<br />
happened her mother would comment to her: «It’s Mahuma». Similarly, when<br />
the informants spoke to Satrústegui about their experiences with the «night<br />
visitor» they did not doubt the reality of the creature’s existence: that it had<br />
actually come to see them. Then there is the folk belief that any hematoma –<br />
the blue-black mark left on the skin that is associated with a bruise – was<br />
caused by Mahuma having pinched the person, i.e., Mahumaren zimikoa<br />
(Satrústegui 1987: 21). Granted, today that concept is understood as nothing<br />
more than a mere folk saying.<br />
In sum, the replicated version mahumahu gave rise to a phonological variant<br />
in mahuma and then over time mahuma was reanalyzed, producing inguma.<br />
The latter expression found in Basque today refers to a «butterfly», the «night<br />
visitor» and is used as well as to refer to the incubus-succubus phenomenon.<br />
The latter association suggests the possibility that somewhere along the way the<br />
Catholic Church and/or Inquisitional authorities played a role in popularizing<br />
the variant of inguma. And as I have mentioned, quite obviously, if all one had<br />
to work with was the final phonological shape of inguma, it would not necessarily<br />
occur to a historical linguist that the word’s etymology should be traced back to<br />
hamalau. Yet the path taken by the expression inguma is a relatively straight<br />
forward one, as one variant form after another underwent phonological<br />
transformation and was rehaped, each building on the shape of the previous<br />
form, with resulting phonological and semantic reduction being helped along<br />
the way by exchanges and criss-crossing of dialectal variants over a period of<br />
hundreds if not several thousand years.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
6.0. Conclusions<br />
129<br />
At the beginning of this study I suggested that the linguistic and cultural artifacts<br />
under analysis could provide support for the PCRT approach to prehistory, that<br />
is, an approach that argues – primarily on the basis of genetic and archaeological<br />
evidence – that at the end of the last Ice Age there were a series of migrations<br />
out of the Pyrenean-Cantabrian refugium. Eventually, these population<br />
expansions would take the inhabitants of this zone and their descendants<br />
northward and eastward into other parts of Europe. Until now this version of<br />
events has been grounded in the findings of molecular genetics, archaeology,<br />
evolutionary and population biology and related fields of inquiry. As such, even<br />
though the evidence collected to date is compelling, in order to be totally<br />
convincing, the PCRT narrative is still in need of additional proofs. Moreover,<br />
until now the fields of historical linguistics and ethnography have not been<br />
forthcoming in terms of supplying data sets that could be marshaled convincingly<br />
in support of this narrative of European population dispersals.<br />
In the course of this study I have proposed that the ursine cosmology is best<br />
understood as a symbolic order that reflects the world view of hunter-gatherers,<br />
although we cannot predict precisely what time-depth should be assigned to the<br />
individual linguistic and cultural artifacts under analysis. Certainly some features<br />
associated with them are quite modern, while others may be significantly older.<br />
The belief that humans descended from bears, however, would logically antedate<br />
the Neolithic world view, the latter being characterized generally by its emphasis<br />
on domestication and the control of nature rather than celebrating a spiritual<br />
reciprocity between human animals and non-human animals (Bird-David 1999;<br />
Ingold 1995).<br />
Hunter-gatherers do not, as Westerners are inclined to do, draw a Rubicon separating<br />
human beings from all non-human agencies, ascribing personhood exclusively to the<br />
former whilst relegating the latter to an inclusive category of things. For them there<br />
are not two worlds, or persons (society) and things (nature), but just one world – one<br />
environment – saturated with personal powers and embracing […] human beings,<br />
the animals and plants on which they depend, and the landscape in which they live<br />
and move. (Ingold 1992: 42)<br />
With respect to the antiquity of the linguistic artifacts, during the course of<br />
this investigation I have kept in mind the commentary of Gamble et al. (2005:<br />
209), namely, their argument that there could be a linguistic component to the<br />
PCRT narrative. If Western Europe was, to a large extent, repopulated from the<br />
Pyrenean-Cantabrian refugium, we could hypothesize that people in this source
130<br />
Roslyn M. Frank<br />
region spoke languages related to Basque. Consequently, the obvious conclusion<br />
would seem to be that the expanding human groups would have been speaking<br />
languages related to ancestral forms of modern day Basque.<br />
Earlier when discussing the methodology that would be applied in this study,<br />
I posed three questions. First, how do we go about determining the original<br />
location of the linguistic and cultural artifacts in question? At this stage we can<br />
reply that by tracing the linguistic and cultural artifacts associated with Hamalau<br />
we have been able to determine that it is in the Pyrenean-Cantabrian zone where<br />
the clearest understandings of the word’s meaning(s) are found. Then there was<br />
the question concerning the evidence we have, if any, that would allow us to<br />
chart the pathways taken by these cultural artifacts as they moved out of the<br />
initial western refugium. Again, although in the course of this investigation only<br />
a small sampling of the phonological variants of hamalau has been treated, they<br />
have allowed us to follow a trail laid down by a set of linguistic and cultural<br />
artifacts that appear to derive ultimately from the same ursine cosmology. In<br />
other words, the linguistic artifacts dove-tail with the cultural data.<br />
Finally, the third question I asked at the beginning of this study is the<br />
following: does the diffusion of the linguistic and cultural artifacts related to the<br />
ursine cosmology allow us to map the development of the cultural complex over<br />
time? At this juncture it would seem that, at a minimum, they permit us to formulate<br />
a series of hypotheses concerning the way that the various components<br />
belonging to the ursine cultural complex fit together as well as how they evolved<br />
along parallel paths. Likewise, the application of a broad cross-linguistic and<br />
cross-cultural approach to the data provided a basis for reconstructing a set of<br />
cultural conceptualizations pertaining to much earlier stages of the belief system,<br />
albeit in a highly tentative fashion.<br />
In short, tracing these artifacts across space and time allowed us to explore<br />
the linguistic and cognitive pathways forged by them and to tease out features of<br />
the underlying interpretive framework, again, in a provisional fashion. In other<br />
words, the methodology employed has brought into view a relatively cohesive<br />
cluster of elements. Undersood as a cultural complex that evolved over time,<br />
the components making up the complex can be viewed as constituting a single<br />
lineage and hence could serve to illuminate the much earlier symbolic regime<br />
that was once present in the Pyrenean-Cantabrian refugium, as well as in adjoining<br />
zones such as Aragon and Catalunya, and beyond. In conclusion, the sociocultural<br />
entrenchment of the artifacts analyzed appears to reinforce the plausibility<br />
of the PCRT hypothesis.
EVIDENCE IN FAVOR OF THE PALAEOLITHIC CONTINUITY REFUGIUM THEORY (PCRT)<br />
REFERENCES<br />
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Nutt.<br />
Trask, R. L. 1999. Basque butterflies. The Indo-European Mailing List
134
NORME PER LA PRESENTAZIONE DI ORIGINALI<br />
La collaborazione a «Insula. Quaderno di cultura sarda» avviene su invito della redazione.<br />
135<br />
1. TITOLI E CRITERI GENERALI<br />
Il titolo dell’articolo deve essere centrato e scritto in maiuscoletto; il nome e il cognome<br />
dell’autore dell’articolo devono essere centrati e scritti in tondo.<br />
Se il testo dell’articolo è diviso in capitoli, i relativi titoli devono essere scritti in corsivo.<br />
Negli incisi si usa il trattino lungo [–].<br />
Nel corpo del testo le citazioni tratte da fonti archivistiche e bibliografiche devono<br />
essere scritte in tondo tra virgolette caporali [« »].<br />
Nel corpo del testo la denominazione della fonte archivistica o bibliografica deve<br />
essere scritta in corsivo.<br />
Nel corpo del testo le parole straniere, quelle utilizzate con significato particolare o<br />
diverso da quello abituale e i titoli di opere d’architettura, di musica, di pittura, di<br />
scultura, etc., devono essere scritte in corsivo.<br />
Quando si vuole evidenziare una parola o un’espressione devono essere usate le virgolette<br />
semplici [‘ ’].<br />
Per indicare la traduzione letterale di una parola o di un’espressione da un’altra lingua<br />
devono essere usate le virgolette semplici [‘ ’].<br />
I nomi delle istituzioni devono essere scritti in maiuscolo.<br />
I nomi delle cariche istituzionali devono essere scritti in minuscolo.<br />
I secoli devono essere scritti in maiuscoletto.<br />
2. NOTE A PIÈ DI PAGINA: RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI<br />
2.a. Autori e curatori<br />
Quando si cita un testo:<br />
L’iniziale puntata del nome dell’autore deve essere seguita dal cognome scritto in<br />
maiuscoletto seguito da virgola;<br />
il titolo dell’opera deve essere scritto in corsivo seguito da virgola;<br />
il luogo e la data di edizione devono essere scritti in tondo seguiti da virgola;<br />
l’indicazione della pagina o delle pagine deve essere abbreviata con «p.» o «pp.». I<br />
numeri delle pagine devono essere scritti per esteso: quelli contigui separati da un<br />
trattino piccolo [125-130], quelli non contigui da una virgola [125, 130].<br />
Es: A. BOSCOLO, Medioevo aragonese, Padova 1958, pp. 50-52.<br />
Quando si cita un testo già citato:<br />
Il titolo del testo già citato deve essere abbreviato e seguito dalla dicitura «cit.» scritta<br />
in tondo, da una virgola e dall’indicazione della pagina o delle pagine.<br />
Es: A. BOSCOLO, Medioevo aragonese cit., p. 55.<br />
Quando il titolo in corsivo presenta una parola che nel testo dovrebbe essere scritta in<br />
corsivo:<br />
La parola deve essere indicata tra virgolette semplici [‘ ’].<br />
Quando gli autori sono due o più di due:<br />
I nomi degli autori devono essere separati con un trattino breve senza lasciare spazi.<br />
Es.: G. ANGIONI-M.G. DA RE, Pratiche e saperi: saggi di antropologia…
136<br />
Quando l’autore ha due nomi:<br />
Le iniziali puntate dei nomi devono essere scritte senza lasciare spazi.<br />
Es: M.G. DA RE, La casa e i campi: divisione sessuale del lavoro nella Sardegna<br />
tradizionale...<br />
Quando l’opera ha un curatore:<br />
L’iniziale puntata del nome del curatore deve essere seguita dal cognome scritto in<br />
maiuscoletto e dalle diciture (a cura di) oppure (ed.), in tondo tra parentesi tonde.<br />
Es: L.M. PLAISANT (a cura di), Joyce Lussu: una donna nella storia…<br />
2.b. Opere<br />
Quando viene citata la stessa opera in più note consecutive:<br />
Nelle note successive alla prima, quando si cita la stessa pagina deve essere usata la<br />
dicitura «Ibid.» in corsivo; quando si citano pagine diverse da quelle della nota precedente<br />
si utilizza la dicitura «Ivi» in tondo seguita da una virgola e dall’indicazione<br />
della pagina o delle pagine.<br />
Es: Nota 1: A. BOSCOLO, Medioevo aragonese, Padova 1958, pp. 50-52.<br />
Nota 2: Ibid.<br />
Nota 3: Ivi, p. 55.<br />
Quando si citano più opere di diversi autori nella stessa nota:<br />
Le opere devono essere separate da un punto e virgola.<br />
Es: A. BOSCOLO, Medioevo aragonese, Padova 1958, p. 50; G.G. ORTU, I Giudicati:<br />
Storia, governo e società…<br />
Quando si citano più opere di uno stesso autore nella stessa nota:<br />
Al posto del nome e del cognome dell’autore deve essere usata la dicitura «ID.» o<br />
«EAD.» in maiuscoletto, a seconda che si tratti di autore di sesso maschile o di sesso<br />
femminile.<br />
Es: A. BOSCOLO, Medioevo aragonese, Padova 1958, p. 50; ID., I conti di Capraia,<br />
Pisa e la Sardegna…<br />
E. DELITALA, Fiabe e leggende nelle tradizioni popolari della Sardegna...; EAD.,<br />
Materiali per lo studio degli esseri fantastici del mondo tradizionale sardo…<br />
Quando si cita da una ristampa o da una ristampa anastatica:<br />
Devono essere usate rispettivamente le diciture «rist.» o «rist. an.» scritte in tondo.<br />
La dicitura deve essere seguita dall’indicazione del luogo e della data di riedizione, e<br />
dall’indicazione del luogo e della data della prima edizione tra parentesi tonde.<br />
Es: P. TOLA (a cura di), Codex Diplomaticus Sardiniae, rist. Sassari 1985 (Torino 1861).<br />
Quando un testo è stato pubblicato in un volume miscellaneo:<br />
L’iniziale puntata del nome dell’autore deve essere seguita dal cognome scritto in<br />
maiuscoletto seguito da una virgola; il titolo del testo deve essere scritto in corsivo,<br />
seguito da una virgola e dalla dicitura «in» scritta in tondo, dall’iniziale puntata del<br />
nome del curatore e dal cognome scritto in maiuscoletto, seguito dalla dicitura «a<br />
cura di» scritta in tondo tra parentesi tonde e dal titolo del volume miscellaneo indicato<br />
in corsivo, seguito dall’indicazione del luogo e della data di edizione.<br />
Es: V. MURA, Per una ricerca sull’autonomia della classe politica sarda, in G.G.<br />
ORTU (a cura di), Élite politiche nella Sardegna contemporanea, Milano 1987.
137<br />
Quando si cita da una tesi di laurea o di dottorato:<br />
L’iniziale puntata del nome dell’autore della tesi deve essere seguita dal cognome<br />
scritto in maiuscoletto e da una virgola; il titolo della tesi deve essere scritto in corsivo,<br />
seguito in ordine: da una virgola, dalla dicitura «tesi di laurea» indicata in tondo,<br />
dal nome della Facoltà, da una virgola, dalla dicitura «a.a.» in tondo, seguita dall’indicazione<br />
dell’anno accademico, da una virgola, dalla dicitura «relatore», dall’iniziale<br />
puntata del nome del relatore e dal suo cognome scritto in tondo.<br />
A. CUCCU, Angelo Corsi: un socialista riformista tra Italia liberale e fascismo, tesi<br />
di laurea Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2003-2004, relatore C. Natoli.<br />
2.c. Atti, riviste, enciclopedie, dizionari<br />
Quando un testo è stato pubblicato negli atti di un convegno, congresso, seminario,<br />
incontro di studi, etc.:<br />
L’iniziale puntata del nome dell’autore deve essere seguita dal cognome scritto<br />
in maiuscoletto seguito da una virgola; il titolo del testo deve essere scritto in<br />
corsivo, seguito in ordine: da una virgola, dalla dicitura «in» indicata in tondo,<br />
dal titolo in corsivo del convegno, congresso, seminario, incontro di studi, etc.,<br />
seguito da una virgola e dalla dicitura «Atti del convegno, congresso, seminario,<br />
incontro di studi» scritta in tondo, dall’indicazione del luogo e della data di svolgimento<br />
del convegno, congresso, seminario, incontro di studi, etc., indicata tra<br />
parentesi tonde seguite da una virgola e dall’indicazione del curatore, del luogo e<br />
della data di edizione.<br />
Es.: G. MELE, Tradizioni codicologiche e cultura tra Sardegna e Catalogna nel Medioevo,<br />
in La Sardegna e la presenza catalana nel Mediterraneo, Atti del VI Congresso<br />
dell’Associazione Italiana di Studi Catalani (Cagliari, 11-15 ottobre 1995), a<br />
cura di P. MANINCHEDDA, Cagliari 1998, I, pp. 237-260.<br />
Quando un testo è stato pubblicato in una rivista o collana:<br />
L’iniziale puntata del nome dell’autore deve essere seguita dal cognome scritto in<br />
maiuscoletto seguito da una virgola; il titolo del testo deve essere scritto in corsivo<br />
seguito da una virgola e dal titolo della rivista o della collana scritta in tondo tra<br />
virgolette caporali [« »]. In ordine devono seguire: il numero del volume o dell’annata,<br />
l’indicazione della data di edizione tra parentesi tonde, una virgola e il numero<br />
delle pagine di riferimento.<br />
Es: L. USAI, Materiali prenuragici da alcune grotte del territorio di Alghero<br />
(Sassari), «Sardinia, Corsica et Baleares Antiquate. International Journal of<br />
Archeology», IV (2006).<br />
Quando si cita la voce di un’enciclopedia o di un dizionario:<br />
L’eventuale autore della voce deve essere indicato con l’iniziale puntata del nome e<br />
col cognome scritto in maiuscoletto cui deve seguire una virgola. La voce consultata<br />
deve essere indicata in tondo tra virgolette caporali [« »] e seguita da una virgola,<br />
dalla dicitura «in» indicata in tondo, dall’iniziale puntata del nome del curatore dell’enciclopedia<br />
o del dizionario e dal suo cognome scritto in maiuscoletto, seguito<br />
dalla dicitura «a cura di» in tondo tra parentesi tonde e dal titolo in corsivo dell’enciclopedia<br />
o del dizionario.<br />
Es: V. ANGIUS, «Gallura», in G. CASALIS (a cura di), Dizionario geografico storico<br />
statistico commerciale degli stati di sua maestà il re di Sardegna, VII, Torino<br />
1851-1856, p. 69.
138<br />
3. ARCHIVI E BIBLIOTECHE<br />
Quando si cita un archivio o una biblioteca:<br />
Nella prima citazione il nome dell’archivio o della biblioteca devono essere scritti<br />
per esteso; fra parentesi tonde deve essere indicata la dicitura «in seguito citato come»<br />
e la sigla di riferimento dell’archivio o della biblioteca; per le citazioni successive si<br />
usa solo l’abbreviazione in tondo.<br />
Es: Archivio di Stato di Cagliari (in seguito citato come ASC); Biblioteca Universitaria<br />
di Cagliari (in seguito citata come BUC).<br />
Quando si cita un documento d’archivio o di biblioteca inedito:<br />
Dopo l’indicazione del nome o della sigla dell’archivio o della biblioteca, il nome del<br />
fondo deve essere scritto in corsivo e seguito da una virgola, dal nome della serie o<br />
della sezione scritto in corsivo, da quello del registro o del documento indicato in<br />
tondo, dall’indicazione del numero dei fogli in tondo, dal recto e dal verso in tondo.<br />
Es: Archivio di Stato di Cagliari (in seguito citato come ASC), Antico Archivio Regio,<br />
Arrendamenti, infeudazioni e stabilimenti, reg. BD1, doc. 3, ff. 1r-3v.<br />
4. ABBREVIAZIONI DI USO COMUNE IN ITALIANO<br />
c., cc. = carta, carte<br />
cfr. = confronta<br />
cit. = citato<br />
col., = collana<br />
doc., docc. = documento, documenti<br />
ed. = edizione<br />
f., ff., f. e ss. = foglio, fogli, foglio e seguenti<br />
fasc., fascc. = fascicolo, fascicoli<br />
l., ll. = libro, libri<br />
n., nn. = numero, numeri<br />
nota, note = nota, note<br />
p., pp., p. ss. = pagina, pagine, pagina e seguenti<br />
r., rr. = riga, righe<br />
reg., regg. = registro, registri<br />
r = recto<br />
s., ss. = seguente, seguenti<br />
t., tt. = tomo, tomi<br />
v = verso<br />
vol., voll. = volume, volumi
SERIE «ATTI»<br />
Pubblicazioni dell’Arxiu de Tradicions<br />
COEDIZIONI<br />
GRAFICA DEL PARTEOLLA – AdT<br />
139<br />
1. Tesori in Sardegna. Atti del II Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Dolianova 2001.<br />
4. L’acqua nella tradizione popolare sarda. Atti del III Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Dolianova 2002.<br />
5. Le lingue del popolo. Contatto linguistico nella letteratura popolare del Mediterraneo occidentale. Dolianova 2003.<br />
6. Oralità e memoria. Identità e immaginario collettivo nel mediterraneo occidentale. Dolianova 2005.<br />
7. La biografia popular. De l’hagiografia al gossip. Atti del VI Simposio di Etnopoetica dell’AdT (Tarragona<br />
2005). Dolianova 2006.<br />
8. Els gèneres etnopoètics. Competència i actuació. Atti del VII Simposio di Etnopoetica dell’AdT (Palma di<br />
Maiorca 2006). Dolianova 2007.<br />
9. Folklore i Romanticisme. Els estudis etnopoètics de la Renaixença. Atti dell’VIII Simposio di Etnopoetica<br />
dell’AdT (Alicante 2007). Dolianova 2008.<br />
STUDI STORICI<br />
1. Storia dell’ulivo in Sardegna. Atti della II Giornata di Studi Oleari dell’AdT. Dolianova 2001.<br />
2. Aragonensia. Quaderno di studi sardo-catalani. Dolianova 2003.<br />
3. La rotta delle isole / La ruta de les illes. Dolianova 2004.<br />
4. Norbello e Domusnovas. Appunti di vita comunitaria. Dolianova 2005.<br />
INSULA. QUADERNO DI CULTURA SARDA<br />
1. Giugno 2007.<br />
2. Dicembre 2007.<br />
3. Giugno 2008.<br />
4. Dicembre 2008.<br />
5. Giugno 2009.<br />
BOLLETTINO DELL’ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI ORISTANO<br />
1. Dicembre 2007.<br />
2. Agosto 2008.<br />
3. Dicembre 2008.<br />
PUBLICACIONS DE L’ABADIA DE MONTSERRAT – AdT<br />
1. La Setmana Santa a l’Alguer. Atti del I Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Barcellona 1999. Serie «Atti», num. 1.<br />
2. Arxiu de Tradicions de l’Alguer. Barcellona 2001. Serie «Atti», num. 3.<br />
3. Joan Armangué, L’obra primerenca d’Apel·les Mestres. Barcellona 2007.<br />
«ROCCAS»<br />
S’ALVURE – AdT<br />
1. Castelli in Sardegna. Oristano 2002.<br />
2. Aspetti del sistema di fortificazione in Sardegna. Oristano 2003.<br />
3. Anna Paola Deiana, Il castello di Gioiosa Guardia, attraverso i documenti e la lettura archeologica. Oristano 2003.<br />
4. I catalani e il castelliere sardo. Oristano 2004.<br />
ARCHIVIO ORISTANESE<br />
PRIMA TIPOGRAFIA MOGORESE – AdT<br />
1. Archivio oristanese, ed. Maria Grazia Farris. Mogoro 2003.<br />
2. Dei, uomini e regni, da Tharros a Oristano, ed. Joan Armangué. Mogoro 2004.<br />
3. La cultura catalana del Trecento, fra la Catalogna e Arborea. Mogoro 2005.<br />
4. Uomini e guerre nella Sardegna medioevale. Mogoro 2007.<br />
HELIS!<br />
1. Testimonianze inedite di storia arborense, ed. Walter Tomasi. Mogoro 2008.
140<br />
SERIE «FASCICULARIA»<br />
EDIZIONI AdT<br />
1. Estudis catalans a Sardenya, ed. Joan Armangué (novembre 1999).<br />
2. Memòria de les activitats, 1997-2000 (marzo 2000).<br />
3. Forme dell’acqua nella cultura popolare, ed. Veniero Pinna e A. Murgia (agosto 2000).<br />
4. La ruta de les illes: de Sardenya a Malta, ed. Joan Armangué (novembre 2000).<br />
5. Emanuela Sarti, La Guerra Civile in Catalogna (1936-1939) (giugno 2001).<br />
7. La ruta de les illes: de Mallorca a Sardenya, ed. Joan Armangué (novembre 2001).<br />
8. Memòria de les activitats, 1997-2002 / Memoria delle attività, 1997-2002 (maggio 2002).<br />
9. Pirri: la storia e le chiese, ed. Alessandro Sogos (luglio 2002).<br />
10. Laudes immortales. Gosos e devozione mariana in Sardegna, ed. Sara Chirra e Maria Grazia Farris (agosto 2002).<br />
11. Lo Càntic dels Càntics / Su Cantu de is Cantus, ed. Arxiu de Tradicions (agosto 2002).<br />
13. Francesc Pasqual i ArmengoL, Apel·les Mestres a Cervelló (settembre 2003).<br />
14. Memòria de les activitats, 2003 / Memoria delle attività, 2003 (gennaio 2004).<br />
15. El Seminari de formació del voluntari. Units – 2004 (novembre 2004).<br />
16. Francesca Cau, L’arciconfraternita della Madonna d’Itria in Cagliari (gennaio 2005).<br />
17. Walter Tomasi, Taxació d’oficis de maestrances. Oristano 1597-1621 (maggio 2005).<br />
18. Daniela Di Giovanni, I luoghi dei giovani nella Cagliari notturna (giugno 2005).<br />
19. Federica Pau, Soggettività e totalità nella forma del romanzo moderno (dicembre 2006).<br />
20. Walter Tomasi, Alcuni documenti inediti sulle manifestazioni equestri nella Oristano dei secoli XVI-XVII (dicembre 2006).<br />
21. Giannina Monzitta, Ombre cinesi, ed. Tiziana Limbardi (settembre 2007).<br />
SERIE «OPUS MINUS»<br />
1. Cristiana Pili, El Llegendari Popular Català (1924-1930) (luglio 2001).<br />
2. Ramon Violant i Simorra, Paral·lelismes culturals entre Sardenya, Catalunya i Balears, ed. Arxiu de Tradicions<br />
de l’Alguer (settembre 2003).<br />
3. Apel·les Mestres, Sant Pere en la llegenda popular, ed. Anna Garcia (febbraio 2007).<br />
4. Carla Piga, Pasqual Scanu i els Jocs Florals de la Llengua Catalana a l’exili (1959-1977) (gennaio 2008).<br />
5. Pere Català i Roca, Pasqual Scanu, perfilat per ell mateix (30 gennaio 2008).<br />
6. Joan Armangué, Llegendes alguereses al Llegendari Popular Català (1926-1928) (febbraio 2008).<br />
SERIE «DEDÀLEIA»<br />
1. Homenatge a Francesc Martorell, arqueòleg a l’Alguer (1868) (settembre 2002).<br />
2. Antonello V. Greco, Betel. Studi sulle stele con raffigurazioni betiliche dell’area di Tharros (settembre 2003).<br />
SERIE «LINGUA»<br />
1. Enrico Chessa, La llengua interrompuda. Transmissió intergeneracional i futur del català a l’Alguer<br />
(ottobre 2003).<br />
2. Marina Castagneto, Chiacchierare, bisbigliare, litigare… in turco. Il complesso intreccio tra attività<br />
linguistiche, iconismo, reduplicazione (settembre 2004).<br />
3. Joan Armangué, Represa i exercici de la consciència lingüística a l’Alguer (ss. XVIII-XX) (giugno 2006).<br />
ANTOLOGIA<br />
1. Poesia algueresa de Quaresma i de Passió, ed. Joan Armangué (aprile 2000).<br />
2. Gaví Ballero, Lo sidadu, ed. Luca Scala (febbraio 2002).<br />
3. Carles Duarte, Il silenzio (settembre 2004).<br />
4. August Bover, Vicino al mare (ottobre 2006).<br />
5. Mariagrazia Dessì, A perda furriada (novembre 2006).
Num. 1 (giugno 2007)<br />
INDICE DEI NUMERI PRECEDENTI<br />
141<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Forme di cultura catalana nella Sardegna<br />
medioevale<br />
Esther MARTÍ (<strong>Universitat</strong> de Lleida), Les ciutats reials en els Parlaments sards i en les<br />
Corts catalanes durant el Regnat d’Alfons el Magnànim<br />
Walter TOMASI (Arxiu de Tradicions), Taxació d’oficis de maestrances (Oristano 1597-1621)<br />
Maria LEPORI (Università di Cagliari), Il marchese d’Arcais, un signore sgradito<br />
Gabriel ANDRÉS (Università di Cagliari), Grazia Deledda sotto censura nella Spagna<br />
franchista<br />
Num. 2 (dicembre 2007)<br />
Antonello V. GRECO (Arxiu de Tradicions), Città costiere romane di tradizione punica:<br />
alcune osservazioni topografiche su Carales e Carthago Nova. Ipotesi sulla circolazione<br />
di un ‘modello’ metropolitano<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Le prime ‘Ordinanze’ di Castello di Cagliari<br />
(1347). Testo e traduzione<br />
Umberto ZUCCA (OFMCon), Il culto di san Giuseppe da Copertino in Oristano<br />
Ramon VIOLANT I SIMORRA, Parallelismi culturali tra Sardegna, Catalogna e Baleari<br />
Matthew L. JUGE (Texas State University, San Marcos), Usual outcomes in unusual<br />
circumstances: Catalan in L’Alguer<br />
Num. 3 (giugno 2008)<br />
Jordi CARBONELL DE BALLESTER (Università di Cagliari), La grida in catalano del veghiere<br />
di Cagliari del 1337<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Gli ebrei nelle prime ‘Ordinanze’ di Castello di<br />
Cagliari (1347). Nota per una rilettura etnologica<br />
Ines LOI CORVETTO (Università di Cagliari), Prassi scrittoria e interferenze linguistiche<br />
nella Sardegna sabauda<br />
Simona MELONI (Arxiu de Tradicions), Il Fondo Timon della Biblioteca Universitaria di<br />
Cagliari. Testimonianze dello sviluppo della tipografia nella Sardegna del XIX secolo<br />
Roslyn M. FRANK (University of Iowa), Recovering European Ritual Bear Hunts:<br />
A Comparative Study of Basque and Sardinian Ursine Carnival Performances<br />
Francesc-Xavier LLORCA IBI (<strong>Universitat</strong> d’Alacant), ‘Turina bella’. Llengua i cultura<br />
de la tonyina a Sardenya
142<br />
Num. 4 (dicembre 2008)<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Ripopolamento e continuità culturale ad<br />
Alghero: l’identità epica<br />
Mauro MAXIA (Università di Sassari), Il Condaghe di Luogosanto. Un documento in<br />
sardo logudorese del primo Cinquecento<br />
Aldo SARI (Università di Sassari), I teatri stabili ad Alghero nell’Ottocento<br />
Constantino VIDAL SALMERON (<strong>Universitat</strong> de Barcelona), Una ‘mezuzà’ algueresa inèdita<br />
Francesc BALLONE (Università di Sassari), Català de l’Alguer: anàlisi instrumental d’un<br />
text oral<br />
Roslyn M. FRANK (University of Iowa), Evidence in Favor of the Palaeolithic Continuity<br />
Refugium Theory (PCRT): ‘Hamalau’ and its linguistic and cultural relatives. Part 1
INDICE DEL PRESENTE VOLUME<br />
143<br />
Antonello V. GRECO<br />
Unzioni rituali e spiritualità semitica 5<br />
Constantino VIDAL SALMERON<br />
Documents sobre una inscripció hebrea a l’Arxiu Municipal de l’Alguer 15<br />
Joan ARMANGUÉ<br />
Le lingue in Sardegna attraverso gli Statuti delle città regie 25<br />
Mauro MAXIA<br />
Per una fonetica storica delle varietà sardo-corse 33<br />
Andreu BOSCH I RODOREDA<br />
Problemes de codificació de l’alguerès 77<br />
Roslyn FRANK<br />
Evidence in Favor of the Palaeolithic Continuity<br />
Refugium Theory (PCRT): ‘Hamalau’ and its linguistic<br />
and cultural relatives. Part 2 89<br />
Norme per la presentazione di originali 135<br />
Pubblicazioni dell’Arxiu de Tradicions 139<br />
Indice dei numeri precedenti 141
144<br />
Finito di stampare<br />
nel mese di giugno 2009<br />
nella tipografia<br />
Grafica del Parteolla<br />
Dolianova (CA)