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Lupo_maggio 2005 - Il Nuovo Lupo

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Verso la fine del 1973 arrivarono nel<br />

nostro paese quattro giovani preti.<br />

A vederli per la strada non sembravano<br />

affatto dei sacerdoti perché vestivano<br />

come tutti i giovani della loro età<br />

ed avevano un atteggiamento ben diverso<br />

da quello dei curati che eravamo abituati<br />

a vedere da sempre. Ci si rivolgeva<br />

loro usando il “tu” e senza mettere davanti<br />

al nome il tradizionale “don”. Per tutti erano<br />

semplicemente Gigi, Corrado, Sergio<br />

e Piergiorgio. Una piccola rivoluzione, per<br />

quei tempi. Ma la cosa che fece più scalpore<br />

fu il fatto che questi giovani avevano<br />

deciso che si sarebbero guadagnati da<br />

vivere lavorando, come qualsiasi altra persona.<br />

Sarebbero quindi stati preti-operai.<br />

Eccola, la rivoluzione, quella vera. Ma ecco<br />

anche lo scandalo e la paura della Gerarchia.<br />

<strong>Il</strong> vento del Sessantotto aveva infatti<br />

soffiato anche sul Seminario alimentando<br />

nuove idee e nuove speranze nei<br />

giovani aspiranti preti. Non era più possibile<br />

star fermi o pregare e basta. Bisognava<br />

darsi da fare, partecipare, comprendere,<br />

lavorare. Appunto, lavorare.<br />

Ecco la nuova strada. Ma lavoro significa<br />

anche indipendenza economica e l’indipendenza<br />

convive difficilmente<br />

con l’obbedienza. <strong>Il</strong> Vescovo Carraro<br />

aveva capito tutto e cercava i<br />

rimedi. Ma era anche quel vescovo<br />

che mesi prima aveva celebrato<br />

la Messa di Natale nella cartiera<br />

occupata dagli operai. Non poteva<br />

tradire se stesso, ma non poteva<br />

nemmeno sciogliere tutte le<br />

briglie e lasciare i cavalli galoppare<br />

liberamente nella prateria.<br />

Diamine, anche lui doveva in<br />

qualche modo rendere conto, giustificare.<br />

La soluzione fu trovata<br />

ed ai quattro venne concessa l’opportunità<br />

di lavorare e di avere<br />

una chiesa a disposizione.<br />

Era nata la Comunità della Madonnina.<br />

Per interessamento di<br />

Don Leone che, a suo modo, era<br />

stato un anticipatore dei preti-operai perché<br />

era riuscito a costruire una chiesa raccogliendo<br />

la carta, trovarono ospitalità<br />

nella “corte de Baeardèla”, cioè Ca’ dei<br />

Sordi. Era una tipica corte agricola usata<br />

spesso come luogo di accoglienza di lavoratori<br />

stagionali, di girovaghi, o di gente<br />

che aveva bisogno di sistemazioni provvisorie<br />

o di emergenza.<br />

Ca’ dei Sordi diventò presto un punto di riferimento<br />

per chiunque fosse alla ricerca di<br />

qualcosa. Era il luogo d’incontro di sindacalisti,<br />

di studenti-lavoratori, di operai che<br />

avevano voglia di capire meglio i problemi<br />

della società, di donne che finalmente<br />

trovavano uno spazio per far sentire la loro<br />

voce. Tutto questo in un vero clima di<br />

amicizia, anche se talvolta le discussioni<br />

I Fedayn della<br />

Madonnina<br />

La sorprendente esperienza dei preti-operai a San Giovanni<br />

Arrivati nel 1973, hanno dato vita alla Comunità della Madonnina.<br />

Ca’ dei Sordi rasa al suolo, un brutto ricordo<br />

erano molto animate e sembravano baruffe.<br />

Naturalmente in paese giungeva l’eco<br />

di quello che succedeva ed i preti della<br />

Madonnina vennero subito soprannominati<br />

“i Fedayn”. L’arrivo in Ca’ dei Sordi<br />

di una famiglia di profughi cileni, fuggiti<br />

dalla dittatura di Pinochet, rafforzò nella<br />

gente la convinzione che in paese fossero<br />

arrivati dei rivoluzionari. I fedeli tradizionali,<br />

le pie donne, i basabànchi, spaventati,<br />

abbandonarono la Madonnina e si rifugiarono<br />

sotto l’ala protettiva della chiesa<br />

grande, ma il santuario tanto caro ai Lupatotini<br />

non rimase vuoto. Anzi, si riempì<br />

come mai si era visto prima. E si riempì di<br />

gente che non aveva mai frequentato la<br />

chiesa o che vi aveva messo piede solo in<br />

rare occasioni. Ed in chiesa, adesso, la gen-<br />

te poteva prendere in mano il<br />

microfono e parlare. All’inizio,<br />

con difficoltà perché non era facile<br />

per nessuno trovare il coraggio<br />

di parlare in pubblico ma,<br />

un po’ alla volta, la gente prese<br />

confidenza anche col microfono<br />

e cominciò ad esprimersi.<br />

Col passare del tempo, “i Fedayn”<br />

diventarono per il paese<br />

“i Butèi”, segno che non erano<br />

più visti<br />

come rivoluzionari, ma come<br />

tutti gli altri giovani, che indossavano<br />

la tuta e andavano a lavorare.<br />

Anche la corte di Ca’ dei Sordi<br />

non c’era più. Era stata abbattuta<br />

dai soliti speculatori che in<br />

questo paese sembrano averla sempre<br />

vinta. Intanto, Sergio e Piergiorgio avevano<br />

fatto altre scelte ed alla Madonnina<br />

erano rimasti soltanto Gigi e Corrado, oggi<br />

diventati quasi un’istituzione per il paese<br />

e comunque un punto di riferimento<br />

per il centinaio di famiglie che oggi partecipa<br />

alla Comunità.<br />

Sulla loro esperienza, ciascuno può pensare<br />

quello che gli pare, ma credo d’interpretare<br />

il parere di molti se dico che<br />

questo paese li deve ringraziare per quello<br />

che hanno fatto e che ancora stanno facendo.<br />

Se poi uno è cristiano e quindi crede<br />

o spera in Gesù Cristo, li deve ringraziare<br />

doppiamente perché questi “butèi”,<br />

preti lo sono davvero.<br />

Igino Maggiotto

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