La Fotografia digitale volume 1 - ettore bianciardi
La Fotografia digitale volume 1 - ettore bianciardi
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0 – Presentazione<br />
Questo corso ha uno scopo semplice da enunciare, ma molto<br />
difficile da raggiungere: insegnare come fare una bella fotografia,<br />
o, che è lo stesso, trasformare scene emozionanti in fotografie<br />
altrettanto emozionanti.<br />
Ai tempi della fotografia analogica, quella che si faceva con le<br />
pellicole e lo sviluppo e stampa in laboratorio, succedeva<br />
frequentemente che il fotografo, davanti a scene paesaggistiche o<br />
umane di particolare bellezza, tirasse fuori immediatamente la<br />
macchina fotografica e scattasse, sicuro di aver imprigionato quella<br />
bellezza, quella emozione nella sua macchina fotografica.<br />
Tornato a casa, aspettava con ansia lo sviluppo e la stampa<br />
delle sue foto e molto spesso alla fine constatava che le sue foto<br />
non erano così belle come le scene alle quali aveva assistito; non<br />
comunicavano la stessa emozione e pertanto non suscitavano<br />
l’entusiasmo di coloro ai quali le mostrava.<br />
Oggi la fotografia <strong>digitale</strong> ha eliminato sicuramente quella lunga<br />
attesa prima di vedere le foto, che oggi sono visibili<br />
immediatamente dopo averle scattate, ma non ha eliminato la<br />
delusione di constatare che le proprie foto sono brutte, non tutte<br />
certo, ma la maggior parte.<br />
Ecco, questo corso prova ad insegnare come fare foto belle, o<br />
come trasformare foto bruttine in foto migliori.<br />
In questo la tecnica <strong>digitale</strong> aiuta e non poco, ma non fa<br />
miracoli.<br />
Il vero miracolo lo fa il fotografo con la sua sensibilità,<br />
scoprendo la vena artistica che è dentro di lui. Però è un processo<br />
lungo e faticoso, che richiede attenzione e partecipazione.<br />
Non vi chiederò di comprare macchine fotografiche costose,<br />
non sono sufficienti, ma neanche necessarie per fare belle foto,<br />
anzi certe volte credere che le potenzialità tecniche<br />
dell'apparecchiatura aiutino a fare belle foto o, peggio, credere che<br />
le facciano da sole, è non solo illusorio, ma anche<br />
controproducente.<br />
1
I soldi che ciascuno può spendere per una macchina fotografica<br />
vanno impiegati per acquistare alcune funzioni importanti per la<br />
buona riuscita di una foto, ma quasi sempre queste non sono le<br />
funzioni della macchina illustrate nella sua pubblicità.<br />
Ma c’è un’altra considerazione che va fatta, e che potrà<br />
sembrare scoraggiante: una foto può essere ‟tecnicamente<br />
perfetta” ovvero, perfettamente esposta, perfettamente inquadrata,<br />
con scelta perfetta di profondità di campo e tempo di esposizione,<br />
ma tutto questo non è sufficiente a fare una foto bella. Una foto<br />
tecnicamente perfetta può essere una foto brutta, che non<br />
trasmette emozioni.<br />
Il corso può essere idealmente diviso in quattro parti.<br />
I capitoli dal 1 al 11 spiegano come funziona una macchina<br />
fotografica <strong>digitale</strong>; i capitoli dal 12 al 17 insegnano come scattare<br />
una fotografia controllando tutti i parametri della macchina.<br />
Il cambiamento più vistoso, ma non il più importante, della<br />
tecnica <strong>digitale</strong> è le possibilità che questa ci offre di modificare con<br />
l’uso del computer le nostre foto: i capitoli dal 18 al 37 insegnano le<br />
principali tecniche, utilizzando due programmi simili nei risultati,<br />
molto diversi nel prezzo, costosissimo il primo Photoshop,<br />
completamente gratuito il secondo GIMP.<br />
L’ultima parte, costituita dai capitoli dal 38 al 40, analizza i modi<br />
con i quali il cervello umano legge una foto e dalla loro conoscenza<br />
trae utili considerazioni per fare una ‟bella fotografia”<br />
Un sublime fotografo, Henri Cartier Bresson diceva che<br />
fotografare è porre sulla stessa linea di mira l’occhio, il cuore e il<br />
cervello del fotografo. È esattamente così, e questo corso non<br />
nasconde la sua l’ambizione di insegnare a farlo.<br />
Ettore Bianciardi<br />
2
1 – <strong>La</strong> fotografia <strong>digitale</strong><br />
Credo che la prima cosa da spiegare iniziando un lungo<br />
discorso sulla fotografia <strong>digitale</strong>, sia proprio il nome: che cosa si<br />
intende esattamente per fotografia <strong>digitale</strong>?<br />
Sicuramente tutti sarete certi del significato della parola<br />
fotografia, mentre molti possono avere dei dubbi sul significato<br />
dell’aggettivo <strong>digitale</strong>.<br />
Posso togliere questi dubbi in maniera semplice e definitiva: il<br />
termine italiano <strong>digitale</strong> è una brutta ed affrettata traduzione dal<br />
termine inglese digital, che a sua volta proviene dal sostantivo<br />
digit, che, nella lingua inglese, significa cifra. Digital allora vuol dire<br />
fatto di cifre, ovvero in italiano numerico: tale traduzione, per<br />
quanto corretta, non è stata ritenuta abbastanza esotica,<br />
misteriosa ed evocatrice di chissà quali segreti, da essere adottata,<br />
ed è stata preferita la parola <strong>digitale</strong> che ha fatto prepotentemente<br />
il suo ingresso nel nostro vocabolario, ed è tuttora in gran parte<br />
malintesa dalle persone.<br />
Per fare un esempio semplice e convincente di oggetti digitali e<br />
quindi numerici, basterà guardare al proprio polso sinistro e<br />
scoprirne uno: l’orologio che, almeno nel 50% dei casi sarà<br />
<strong>digitale</strong>, come uno di quelli della figura seguente.<br />
Questi orologi indicano l’ora attraverso delle cifre, dei numeri:<br />
per questo sono numerici, o digitali, tutto qui. Sono differenti, ma<br />
solo in parte, dagli altri, quelli tradizionali, che indicano il tempo<br />
3
che scorre attraverso l’analogia con un qualcosa che come il<br />
tempo si muove in continuazione: le due lancette. Tali orologi si<br />
definiscono allora, ma il termine non è quasi mai usato, analogici.<br />
Analogico è anche, anzi lo era, il disco di vinile, nel quale la<br />
musica era riprodotta in analogia con un microsolco, nel quale<br />
scorreva la puntina; mentre numerico, e quindi <strong>digitale</strong>, è il CD, sul<br />
quale le note sono rappresentate da sequenze di numeri: si badi<br />
bene, nessuno dei due procedimenti garantisce, di per sé, una<br />
migliore qualità, per cui suono <strong>digitale</strong> non è per niente una<br />
garanzia di alta fedeltà.<br />
Va bene, ma una fotografia come fa ad essere <strong>digitale</strong>?<br />
Basta trasformare la foto con i suoi colori in un insieme di<br />
numeri: può sembrare una cosa impossibile, ma invece è<br />
semplice, anche se un po’ macchinoso; per questo lo lasceremo<br />
fare alle macchine, cioè ai computer (che si potrebbero chiamare<br />
calcolatori) che sono dentro a tutti gli oggetti della vita quotidiana,<br />
come i CD Player, gli orologi e appunto le macchine fotografiche. Il<br />
procedimento per fare ciò, che è alla base della comprensione di<br />
tutti i segreti della foto <strong>digitale</strong> sarà spiegato tra un po’; prima mi<br />
preme chiarire tutto sulla fotografia, <strong>digitale</strong> o analogica è lo<br />
stesso.<br />
Siamo certi di sapere che cosa è una fotografia?<br />
Certamente, penserete, magari sorridendo un po’ per la<br />
banalità della mia domanda, eppure ancora oggi, dopo quasi due<br />
4
secoli dalla sua invenzione, la fotografia è oggetto di discussioni<br />
sul suo significato: in sostanza come mai la fotografia suscita in<br />
tutte le persone una curiosità ed un’attenzione particolare,<br />
superiore alle volte a quella che può suscitare un dipinto?<br />
Una lunga schiera di persone, anche importanti e sedute su<br />
prestigiose cattedre accademiche, spiegano questo fatto<br />
semplicemente con la constatazione che mentre un dipinto è una<br />
rappresentazione della realtà, del mondo circostante, fatta da un<br />
artista, una fotografia è la realtà stessa, replicata per nostro conto<br />
da una macchina, e quindi osservare una foto è equivalente ad<br />
osservare la realtà, il mondo che ci circonda, anche se questo è<br />
immagazzinato sopra un foglio di carta. È proprio questa divertente<br />
particolarità che costituisce il motivo di interesse nell’osservare una<br />
fotografia.<br />
Facciamo subito un esempio<br />
5
Ecco una foto di Willie Ronis: una bella fetta di realtà, una via,<br />
una piazza. Non è forse come stare in quella via, quel giorno? E<br />
invece siamo a casa nostra, in poltrona e quelle persone<br />
raffigurate non ci possono vedere! E’ proprio questo il bello, il<br />
trucco, l’intrigo della foto.<br />
Opinione rispettabile, ma che non condivido affatto. Una<br />
fotografia è a mio parere, ma non soltanto mio, per vostra fortuna,<br />
una rappresentazione della realtà, del mondo circostante, come un<br />
quadro, come una statua, come, se vogliamo allargare il discorso,<br />
un romanzo, un saggio, un film, uno spettacolo teatrale, una<br />
musica, un balletto.<br />
Insomma la fotografia è un mezzo con il quale il fotografo<br />
comunica con il resto del mondo, parlandogli di qualcosa che lui<br />
vede, o che ha visto, e gliene parla in modo molto personale,<br />
intimo, tant’è che la sua descrizione di una parte di mondo, magari<br />
conosciutissima, è diversa da tutte le altre descrizioni e per questo<br />
degna di interesse.<br />
<strong>La</strong> fotografia è, in altre parole, un’espressione artistica, è arte.<br />
Sicuramente penseremo che quanto ho detto sopra sia<br />
verissimo se applicato alla pittura, basta pensare ad un quadro<br />
famoso. Per esempio il Duomo di Rouen di Claude Monet.<br />
6
Monet dipinse molti quadri con lo stesso soggetto: la facciata<br />
della cattedrale di Rouen; a chi gli chiedeva la ragione di tanta<br />
insistenza, rispondeva di non dipingere la cattedrale ma la luce che<br />
essa rifletteva e che era sempre diversa. Ecco, espresso al meglio,<br />
7
quanto detto in precedenza: la pittura è un modo di parlare con gli<br />
altri sottoponendo loro una rappresentazione, particolare e<br />
personale, della realtà circostante, ovviamente di un solo<br />
pezzettino di quella realtà.<br />
Questa rappresentazione, come tutte le rappresentazioni, è<br />
ottenuta tramite una operazione di astrazione: cioè il comunicatore,<br />
l’artista, osserva la realtà dentro alla sua mente ed al suo cuore e<br />
poi ne dà una rappresentazione, astraendo da tanti particolari, per<br />
lui inutili e insistendo invece in altri per lui fondamentali.<br />
Guardate ad esempio il rosso dentro ai portali: era così<br />
importante riprodurre quel rosso? Era veramente così dominante?<br />
Lo era per Monet, in quella mattina, doveva essere mezzogiorno o<br />
giù di lì, e ce lo ha trasmesso. E noi, fateci caso, guardiamo a<br />
lungo e con ammirazione questo quadro, proprio per quel rosso e<br />
poi, stando attenti, scopriamo anche del blu dietro le guglie e poi<br />
notiamo l’incredibile ricchissimo oro che sembra ornare la facciata<br />
del duomo di Rouen: in sostanza apprezziamo la rappresentazione<br />
particolare che Monet ci sta dando dell’oggetto.<br />
L’artista ha astratto, ha rappresentato la realtà, stabilendo un<br />
suo codice e noi ripercorriamo questo codice, ricostruiamo quella<br />
realtà, che è la realtà di Monet, e forse nostra, grazie a Monet, ma<br />
non è realtà vera, che infatti non esiste, e ammiriamo questo<br />
capolavoro di astrazione e sogniamo di poter essere anche noi<br />
così bravi.<br />
E’ quasi superfluo, a questo punto aggiungere che osservando<br />
il duomo di Rouen di Monet, osserviamo anche e soprattutto<br />
Monet, il suo animo, la sua mente. E’ proprio per questo che tutte<br />
le immagini del duomo di Rouen saranno differenti l’una dall’altra,<br />
persino quelle dello stesso artista, ed è questa, in ultima analisi, la<br />
vera ragione del nostro interesse: un particolare attimo dell’animo<br />
di Claude Monet.<br />
Ma la fotografia? E’ esattamente la stessa cosa! <strong>La</strong> fotografia è<br />
immagine come è immagine un quadro, e come un quadro la<br />
fotografia è astrazione, secondo un codice generato dall’artista, di<br />
8
una parte della realtà. Guardando una foto noi ripercorriamo il<br />
codice dell’artista, del fotografo e gioiamo e soffriamo con lui.<br />
Però una differenza c’è, è inutile negarlo: il quadro è fatto<br />
dall’artista, la foto è fatta dall’apparecchio fotografico, cioè da una<br />
macchina. Ecco allora – insorgeranno quei signori che sostengono<br />
la particolarità e la diversità della foto – che la fotografia è<br />
oggettività, è presentazione della realtà, è automatismo, tant’è vero<br />
che è prodotta da una macchina, non dall’uomo. E’ proprio questa<br />
la chiave di volta di tutto il ragionamento: la fotografia è prodotta<br />
dall’apparecchio fotografico, non dall’uomo.<br />
Sbagliato, sbagliato due volte: primo perché l’apparecchio<br />
fotografico è costruito dall’uomo e quindi, anche se con differenze<br />
tecniche rilevanti, è un po’ come il pennello del pittore, che<br />
nessuno è così matto di ritenere l’artefice del quadro, secondo<br />
perché il fotografo è essenziale nella produzione della foto, ovvero<br />
la foto stessa viene eseguita attraverso l’interazione dell’artista con<br />
un apparato che lui stesso ha progettato e con il quale adesso<br />
dialoga per creare la rappresentazione.<br />
Se non fosse così, le foto di uno stesso soggetto sarebbero<br />
tutte uguali e perciò poco interessanti, invece se andate a Rouen e<br />
fotografate la facciata del duomo e mostrate la vostra fotografia, se<br />
avrete scattato una ‟bella” fotografia, questa sarà differente da<br />
tutte le altre, e sarà ammirata da tutti.<br />
Ma allora, se concordiamo su quanto detto sopra, dobbiamo<br />
trovare le caratteristiche personali e artistiche nella foto che ho<br />
mostrato all’inizio: che cosa c’è di soggettivo in quella foto che può<br />
apparire come un’istantanea di umanità che cammina in una<br />
strada parigina?<br />
Osserviamola bene: che cosa di essa attrae la nostra<br />
attenzione? Le persone in primo piano, certo: i due giovani a<br />
sinistra, l’uomo con l’impermeabile ritratto goffamente solo per<br />
metà, i due che si scambiano effusioni in secondo piano; poi<br />
notiamo ancora altre persone, molte, ma lontane, quasi<br />
insignificanti, però sono dappertutto, sono alle finestre e ai balconi,<br />
guardano qualcosa che noi non vediamo, che l’artista non ci vuol<br />
9
mostrare.<br />
Certo sono diverse le espressioni dei due fidanzati e dell’uomo<br />
a destra da quella dei due giovani: i primi si sono incontrati per<br />
caso e si stanno salutando, o forse stanno per separarsi, o forse si<br />
sono detti un qualcosa di carino, chissà, ma certo stanno<br />
pensando a se stessi e basta. L’uomo con l’impermeabile invece è<br />
attratto dal fotografo, si chiede perché faccia quella foto, vorrebbe<br />
non entrare nella foto, ma guardare ciò che succede, infatti ci entra<br />
solo per metà, quasi a sottolineare la sua indecisione, e la metà<br />
che rimane dentro non ha un’espressione troppo intelligente o<br />
impegnata. Torniamo ai due ragazzi: nei loro volti appare la rabbia,<br />
l’insoddisfazione, la volontà di lottare, di ribellarsi, di combattere<br />
per cambiare il mondo, un mondo stretto, borghese, pieno di<br />
contraddizioni, pieno di ingiustizie; appare nei loro volti anche una<br />
paura di non farcela, di aver sbagliato qualcosa, di non riuscire<br />
neanche stavolta a lasciare il segno, c’è un senso di frustrazione e<br />
di avvilimento: sono, i due giovani, sicuramente due corpi estranei<br />
in quel pezzo di strada parigina. Che ne dite? Dando un’occhiata al<br />
titolo (che a qualcosa deve pur servire), Paris 1968, si ha la<br />
conferma che la foto è una meravigliosa sintesi del Maggio<br />
parigino, della rivolta degli studenti francesi contro tutto e tutti, che<br />
incendiò mezza Europa. Altro che foto oggettiva, altro che mera<br />
presentazione della realtà!<br />
Potrei ora sfidarvi a trovare foto che pensate siano, per così<br />
dire, mere presentazioni oggettive della realtà, e dimostrarvi invece<br />
che anch’esse sono messaggi, comunicazioni in codice dell’artista.<br />
Diamo per esempio un'occhiata alla foto seguente: Milano 1958 di<br />
Paolo Monti.<br />
10
Una strada di notte, si potrebbe dire, una strada di Milano, un<br />
lampione, una bicicletta, la porta di una trattoria, uno sfondo<br />
abbastanza illeggibile: tutto qui, che cosa ci può essere di<br />
soggettivo, qual’è il messaggio insomma di una foto come questa?<br />
<strong>La</strong> solitudine, è questo il messaggio, l’alienazione di una grande<br />
11
città al culmine di quel processo di immigrazione e di<br />
urbanizzazione che avvenne in quegli anni. Città spietata, dura,<br />
insensibile, inizio, per molti, di una vita diversa, forse più serena<br />
dal punto di vista dei bisogni immediati, ma anche più dura, più<br />
disumana dal punto di vista delle relazioni umane. Non siete<br />
d’accordo che la fotografia voglia dire questo?<br />
Ma vediamo come gli elementi della foto: strada, lampione,<br />
trattoria, bicicletta, sono stati utilizzati da Paolo Monti. <strong>La</strong> strada è<br />
la protagonista, occupa incredibilmente due terzi dell’immagine, è<br />
invasiva, brutta, squallida, anonima, senza anima. Il lampione si<br />
limita a metterne in risalto la struttura ed a proiettarci sopra l’ombra<br />
della bicicletta, unico mezzo di trasporto visibile e per di più<br />
lasciato lì, abbandonato forse. <strong>La</strong> trattoria è quasi un miraggio:<br />
luminosa, forse accogliente, ma probabilmente inaccessibile,<br />
chiusa, non si vede persona là dentro, anzi non si vede nessuna<br />
persona nella foto: la città è come vuota, svuotata di anima e di<br />
calore. <strong>La</strong> notte regna sovrana, lo sfondo appare altrettanto grigio,<br />
privo di umanità, illeggibile; forse sta anche piovendo.<br />
Non è così? Ho forse esagerato nella mia lettura della foto?<br />
Può darsi, forse voi ne avreste dato una lettura diversa, ma è<br />
questo il bello: come in un quadro o in un romanzo, ognuno ne dà<br />
un’interpretazione personale, magari originale anche per l’autore<br />
dell’opera: ognuno legge il cuore dell’artista attraverso il proprio<br />
cuore, questo è il vero scopo dell’arte.<br />
C’è un altro aspetto della fotografia da non sottovalutare, ed è<br />
la sua democraticità: la foto non richiede abilità manuale<br />
particolare, non necessita di particolare apprendistato o di<br />
particolari doti naturali, come ad esempio la pittura o la scultura.<br />
L’artista che c’è in ognuno di noi può venir fuori tranquillamente e<br />
facilmente con la fotografia; non è vero che solo pochi nascono<br />
artisti, come pensano molti; non è più questione di abilità<br />
intrinseca, basta sentire dentro di sé e la fotografia, in special<br />
modo quella <strong>digitale</strong>, potrà tirare fuori quelle sensazioni e disporle,<br />
astrattamente, in una immagine bidimensionale, da mostrare agli<br />
altri, per la loro gioia e per quella dell’artista.<br />
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2 – <strong>La</strong> camera oscura<br />
Adesso vogliamo capire come funziona una macchina<br />
fotografica <strong>digitale</strong>; ossia come avviene la formazione e la<br />
memorizzazione di una immagine.<br />
Ogni apparecchio fotografico, <strong>digitale</strong> o analogico, semplice o<br />
complicato, costoso o economico, è composto essenzialmente di<br />
due parti: la prima si occupa della formazione dell’immagine e la<br />
seconda si occupa della memorizzazione dell’immagine formata.<br />
Questa seconda parte è chiaramente differente nella macchina<br />
analogica rispetto a quella <strong>digitale</strong>, basandosi la prima su un<br />
processo fisico-chimico, nel quale la luce agisce su una emulsione<br />
presente sopra la pellicola, mentre nel secondo la formazione<br />
dell’immagine avviene attraverso un procedimento fisicoelettronico<br />
sopra un dispositivo chiamato CCD.<br />
<strong>La</strong> parte della macchina che forma l’immagine fotografica è<br />
invece uguale per le due tecnologie ed è chiamata camera oscura.<br />
Tale dispositivo è preesistente alle macchine fotografiche, e se ne<br />
ha notizia da almeno cinque secoli: infatti se ne faceva uso già nel<br />
1500.<br />
13
L’uso cui era destinata la camera oscura era già quello della<br />
formazione di immagini, la cui memorizzazione però era<br />
completamente manuale: l’immagine si formava su di una parete<br />
bianca all’interno di una vera e propria stanza, completamente<br />
chiusa salvo un minuscolo forellino, nella quale l’artista copiava a<br />
mano l’immagine della scena fuori che entrava dal minuscolo<br />
forellino.<br />
Ma come è possibile che un’immagine si formi dentro una<br />
stanza, in sostanza dentro una scatola solo per la presenza di un<br />
forellino in una delle sue pareti?<br />
Guardiamo questa ragazza: possiamo vedere sia la ragazza<br />
che la sua immagine nello specchio: ciò ci pare assolutamente<br />
naturale, non facciamo neanche molto caso al fatto che l'immagine<br />
nello specchio sia rovesciata.<br />
Se ora proviamo a togliere lo specchio che cosa succederà?<br />
Ci pare molto verosimile affermare che se non c’è lo specchio<br />
non ci sarà neanche l'immagine della ragazza.<br />
14
Dobbiamo allora pensare che sia lo specchio a generare<br />
l'immagine? Ciò è assurdo: lo specchio si limiterà a mandare verso<br />
di noi l'immagine della ragazza, ma non potrà certo crearla.<br />
Dobbiamo quindi pensare che l’immagine della ragazza sia<br />
presente anche sul muro di casa sua, anche quando lo specchio<br />
non c’è.<br />
15
Anzi di immagini, senza lo specchio, non ce n’è una sola, ma<br />
moltissime ed è proprio questa una delle ragioni per cui non<br />
vediamo niente, perché le varie immagini, tutte molto deboli, si<br />
mischiano tra di loro, confondendosi e dando un alone indefinito.<br />
<strong>La</strong> presenza dello specchio invece seleziona una ed una sola<br />
immagine, che manda direttamente al nostro occhio. Se ci<br />
muoviamo rispetto allo specchio, vedremo un’altra immagine della<br />
ragazza, praticamente identica alla prima, se la ragazza non si<br />
muove, ma in ogni caso lo specchio non crea l’immagine, come si<br />
potrebbe pensare, ma ne seleziona una ed una sola, dandoci una<br />
visione chiara e netta.<br />
<strong>La</strong> stessa cosa fa il forellino nella camera oscura, ovvero<br />
seleziona una ed una sola immagine e la proietta sulla parete<br />
opposta a quella che contiene il forellino.<br />
In tutti questi ragionamenti abbiamo supposto che i raggi<br />
luminosi che si propagano da un qualsiasi punto di un qualsiasi<br />
corpo illuminato, si propaghino in linea retta e si comportino più o<br />
meno come le palle di un biliardo, rimbalzando se trovano un<br />
ostacolo con un angolo di uscita uguale all’angolo di entrata,<br />
seguendo insomma le regole di quella che si chiama ottica<br />
geometrica.<br />
Vedremo che questa supposizione non è corretta, perché non è<br />
in grado di spiegare i fenomeni successivi che studieremo, ma per<br />
il momento ci dà una rappresentazione della luce completamente<br />
corretta.<br />
16
Il principio di costruzione ed il funzionamento della camera<br />
oscura è semplice anche se può apparire singolare. Basta disporre<br />
di una scatola a tenuta di luce, su una faccia della quale si sia fatto<br />
un minuscolo forellino. Si possono fare camere oscure come<br />
questa, costituita da una scatola di cartone.<br />
Attenzione però al forellino: questo non può essere fatto<br />
artigianalmente come la scatola, deve avere un diametro preciso,<br />
piccolo, ma non troppo piccolo, come vedremo nel seguito.<br />
Immaginiamo ora una camera oscura costituita da una scatola<br />
su una parete della quale abbiamo praticato un forellino delle<br />
dimensioni giuste.<br />
I raggi luminosi, provenienti da un punto luminoso della scena<br />
davanti alla camera oscura vanno a sbattere contro la parete<br />
frontale di essa. Solo uno, solo quello che si troverà a passare per<br />
il forellino, arriverà a formare un punto luminoso nella parete<br />
opposta della camera oscura.<br />
17
In questo modo per ogni punto luminoso della scena si avrà un<br />
solo punto luminoso sulla parete ed in tal modo tutta la scena<br />
inquadrata sarà riprodotta fedelmente sulla parete di fondo della<br />
camera oscura, ossia per ogni punto luminoso della scena<br />
inquadrata, si formerà sulla parete opposta della camera oscura un<br />
punto luminoso. Insomma tutta la scena inquadrata sarà riprodotta<br />
dentro la camera oscura in maniera nitida e non confusa.<br />
Però la scena riprodotta sarà molto poco intensa, cioè molto<br />
poco luminosa, perché la quantità di luce che penetra nella camera<br />
oscura è molto piccola, essendo limitata a quei raggi, uno per<br />
ciascun punto luminoso, che riescono a passare dal forellino.<br />
18
Per memorizzare le immagini ottenute da una camera oscura<br />
così semplice è sufficiente porre sopra la parete sulla quale si<br />
forma l’immagine una lastra fotografica e lasciarla impressionare<br />
dalla luce. Però saranno necessari lunghi, anzi lunghissimi tempi di<br />
posa, per cui si possono ottenere immagini solo di scene immobili;<br />
gli oggetti in movimento, come persone e automobili,<br />
semplicemente non verrebbero memorizzate.<br />
Però tutta la scena sarà a fuoco, insomma si otterrà una<br />
profondità di campo infinita, cosa che vedremo sarà impossibile<br />
ottenere con i vari tipi di macchina fotografica, anche con quelli più<br />
sofisticati e costosi<br />
Forse per questo esistono appassionati in tutto il mondo che si<br />
dilettano con questo tipo di camera oscura che lasciano di fronte<br />
alla scena per un tempo lungo per ottenere immagini, anche belle,<br />
e sicuramente emozionanti,.<br />
Ma si tratta di appassionati, mentre l’uso fotografico di tale<br />
mezzo è praticamente impossibile.<br />
19
Per rimediare al problema della poca luminosità della camera<br />
oscura con un solo forellino si potrebbe pensare di allargare il<br />
forellino, in modo da far entrare una maggiore quantità di luce.<br />
Non si otterrebbe però in tal modo un’immagine più intensa, ma<br />
si otterrebbero invece diverse immagini, tutte della stessa debole<br />
intensità della scena riprodotta ed ognuna parzialmente<br />
sovrapposta alle altre, in sostanza un’immagine confusa ed<br />
illeggibile, questo perché raggi di diversa direzione provenienti tutti<br />
dallo stesso punto luminoso della scena, andrebbero a formare,<br />
proprio per le loro diverse direzioni, differenti punti immagine sulla<br />
parete della camera oscura.<br />
L’ideale sarebbe utilizzare un foro più grande, che lasciasse<br />
passare molti più raggi da ogni punto luminoso dell’immagine, ma<br />
allo stesso tempo fare in modo che questi vari raggi non divergano<br />
tra loro ma convergano in un punto solo, si sovrappongano<br />
insomma, in modo di formare un punto luminoso piuttosto intenso.<br />
In effetti ciò è possibile utilizzando un semplice strumento<br />
ottico, scoperto già nel diciassettesimo secolo, che ha appunto il<br />
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potere di far convergere i vari raggi provenienti da un punto<br />
luminoso della scena in un solo punto luminoso dell’immagine: tale<br />
strumento è chiamato lente convergente, ed ha più o meno questa<br />
forma:<br />
In tal modo si ottiene una immagine nitida e molto luminosa.<br />
21
3 – <strong>La</strong> lente convergente<br />
Ma come fa la lente convergente ad allineare tutte le varie<br />
immagini dell’oggetto?<br />
I vari raggi che provengono dagli oggetti luminosi si propagano<br />
rettilineamente e si riflettono sugli oggetti che incontrano, se tali<br />
oggetti sono opachi, ma se sono trasparenti, come ad esempio gli<br />
oggetti di vetro, i raggi subiscono una doppia trasformazione: una<br />
parte di essi viene riflessa ed una parte penetra nell’oggetto e si<br />
propaga all’interno di esso, subendo però una deviazione. Tale<br />
fenomeno si chiama rifrazione e lo possiamo verificare<br />
semplicemente osservando un bastone immerso nell’acqua: esso<br />
ci appare come spezzato, perché i raggi di luce che penetrano<br />
nell’acqua vengono da questa rifratti.<br />
Il raggio incidente, se penetra in un mezzo più denso di quello<br />
da cui proviene (come nel caso vetro-aria), diminuisce l’angolo di<br />
incidenza, lo aumenta nel caso contrario (per esempio nel caso<br />
aria-vetro). Se il raggio luminoso si trova a dover attraversare tre<br />
mezzi diversi, subisce, con le stesse regole, due diverse rifrazioni,<br />
ad esempio la prima nel passaggio aria-vetro, la seconda nel<br />
passaggio vetro-aria. Si tenga anche conto che<br />
contemporaneamente al fenomeno della rifrazione, si ha anche il<br />
22
fenomeno della riflessione: per cui la luce rifratta è solo una parte<br />
della luce incidente.<br />
<strong>La</strong> lente convergente è un pezzo di vetro delimitato da due<br />
superfici sferiche, solitamente di raggio uguale. Tale<br />
conformazione fa sì che fa sì che i raggi provenienti da un punto<br />
luminoso della scena, la attraversino, convergendo in un solo<br />
punto dell’immagine.<br />
In particolare se i raggi di luce che la attraversano sono un<br />
fascio collimato, ovvero tutti i raggi sono paralleli tra loro, essi<br />
23
convergono in un punto detto fuoco, distante dal centro della lente<br />
di una quantità f detta focale della lente stessa.<br />
Se due fasci di raggi di luce collimati attraversano la lente, ma<br />
hanno due direzioni differenti, andranno a convergere in due fuochi<br />
diversi, ma tutti e due posti sempre alla stessa distanza f dal centro<br />
della lente. Quindi essi andranno a formare fuochi posti tutti nello<br />
stesso piano, detto piano focale, un piano perpendicolare all’asse<br />
della lente e distante dal centro di essa di una quantità pari alla<br />
focale stessa della lente f.<br />
24
Inoltre se un punto luminoso è posto nel fuoco i raggi che da<br />
esso giungono alla lente sono da questa rifratti in modo da farli<br />
uscire paralleli, formando cioè un fascio collimato.<br />
Supporre che il fascio di luce sia collimato equivale a supporre<br />
che il punto luminoso sia posto a distanza dalla lente molto grande<br />
rispetto alle dimensioni della lente e della sua focale, si dice in tal<br />
caso che il punto è all’infinito. Se invece il punto luminoso si trova<br />
ad una distanza relativamente piccola dalla lente, i raggi che da<br />
esso fuoriescono e vanno ad attraversare la lente non sono<br />
paralleli tra loro, ma comunque sono fatti convergere dalla lente in<br />
un solo fuoco, posto questa volta ad una distanza dalla lente<br />
maggiore della focale.<br />
Per calcolare la posizione di questo punto si può ricorrere ad<br />
una costruzione grafica semplice: dal punto luminoso si traccia la<br />
parallela all’asse ottico fino ad incontrare il centro della lente, da<br />
25
questo punto si traccia la retta che passa per il fuoco; poi si traccia<br />
la retta che dal punto luminoso passa dal fuoco opposto fino a<br />
raggiungere il centro della lente e da questo punto si traccia la<br />
parallela all’asse ottico; il punto d’incontro delle due rette è il punto<br />
immagine. Si noti anche che la retta che parte dal punto immagine<br />
e passa per il centro della lente, prosegue senza rifrazione e<br />
raggiunge anch’esso il punto immagine.<br />
Se invece di un punto immagine abbiamo un oggetto costituito<br />
di vari punti posti però tutti sullo stesso piano, l’immagine sarà<br />
formata da tanti punti posti anch’essi su uno stesso piano, detto<br />
piano di messa a fuoco.<br />
26
<strong>La</strong> lente convergente ha quindi la funzione di creare, a partire<br />
da un oggetto luminoso posto da una parte rispetto ad essa,<br />
un’immagine nitida, costituita cioè di tanti punti nitidi, dalla parte<br />
opposta.<br />
Le distanze dei punti immagine dalla lente e le distanze dei<br />
punti oggetto dalla lente sono legate dalla relazione, che include la<br />
distanza focale:<br />
1<br />
i<br />
+ 1<br />
o<br />
= 1<br />
f<br />
Dove o è la distanza dell’oggetto dalla lente, i la distanza<br />
dell’immagine e f la focale.<br />
Dalla precedenti figure si comprende anche che l’immagine di<br />
un oggetto non ha quasi mai le dimensioni dell’oggetto stesso:<br />
ovvero la lente convergente produce un ingrandimento o un<br />
rimpicciolimento dell’immagine stessa.<br />
27
L’ingrandimento di una lente segue la formula:<br />
I = h 1<br />
h =<br />
f 1<br />
f 1−o<br />
dove f1 è la focale della lente, o la distanza dell’oggetto dalla<br />
lente, h l’altezza dell’oggetto ed h1 l’altezza dell’immagine.<br />
In particolare più grande è la focale, maggiore sarà la<br />
dimensione dell’immagine.<br />
C’è un’altra cosa da tenere in considerazione, il cosiddetto<br />
angolo di campo. Esso è l’angolo sotto il quale la lente inquadra la<br />
scena. Osserviamo la figura seguente: l’oggetto nero viene<br />
ingrandito nell’oggetto rosso e in quello blu, a seconda che la<br />
focale della lente sia f1 o f2.; nei due casi si otterrà un’immagine di<br />
grandezza diversa, maggiore nel caso di f2 che è maggiore di f1.<br />
28
Ora se supponiamo di raccogliere l’immagine sopra un foglio di<br />
carta di dimensioni, per esempio tali da contenere tutta l’immagine<br />
blu, e poi spostiamo questo foglio di carta in modo da raccogliere<br />
l’immagine rossa, ci accorgiamo che esso non è sufficiente a<br />
contenerla tutta: in particolare vedremo che può raccogliere<br />
solamente l’immagine della parte di oggetto contrassegnata dal<br />
colore viola. <strong>La</strong> lente con focale maggiore cioè vede l’oggetto sotto<br />
un angolo più stretto, insomma non vede l’oggetto intero, ma solo<br />
una sua parte. Quindi, per riassumere, un focale più lunga<br />
ingrandisce l’immagine e diminuisce l’angolo di campo, una focale<br />
più corta rimpicciolisce l’immagine, ma aumenta l’angolo di campo.<br />
Questo comportamento fa sì che nel parlare comune si dica che<br />
una focale grande ‟avvicina” l’oggetto, mentre una focale piccola lo<br />
‟allontana”. Ovviamente l’oggetto rimane dove è, mentre la lente<br />
ingrandisce o rimpicciolisce la sua immagine.<br />
Notiamo invece un fatto molto importante: se una lente riceve i<br />
raggi luminosi da due punti che giacciono su diversi piani, a<br />
distanze diverse dalla lente, essa focalizza le due immagini su due<br />
piani diversi.<br />
29
Abbiamo parlato molto di luce, ma non ci siamo ancora chiesti<br />
che cosa essa sia. Sembrerebbe una domanda banale, della quale<br />
ognuno conosce la risposta e quindi perfettamente inutile. Non è<br />
così: la luce innanzitutto è quella cosa che rende possibile la<br />
visione: i nostri occhi sono sensibili alla luce, e l’apparecchio<br />
fotografico è anch’esso sensibile alla luce; si sostituisce ai nostri<br />
occhi per un momento, cattura la luce destinata ai nostri occhi e<br />
con essa forma un’immagine cioè un qualcosa che, se investita<br />
nuovamente dalla luce, produrrà una nuova sensazione visiva per i<br />
nostri occhi, una nuova immagine, legata in qualche modo<br />
all’immagine primitiva.<br />
<strong>La</strong> luce proviene per esempio dal sole, ma può provenire da<br />
altre fonti, per esempio dalla combustione del legno, del gas, del<br />
petrolio o di altro; può provenire da un processo di incandescenza<br />
sotto vuoto di un filamento, come nella lampadina, o da un<br />
processo più complicato come quello delle lampade al neon o di<br />
quelle alogene.<br />
Ma tutta questa luce da che cosa è composta? Come si<br />
trasmette per esempio dal sole ai nostri occhi? Ha bisogno di un<br />
qualche supporto, come aria o qualcos’altro? E quali leggi segue<br />
nella sua propagazione? Sono domande grosse, alle quali ad<br />
essere sinceri non c’è ancora una risposta definitiva. Per meglio<br />
30
dire si possono dare varie risposte, sempre più complicate, che<br />
vanno bene fino ad un certo punto e poi cadono in contraddizione.<br />
Per esempio i Greci antichi consideravano la luce proveniente<br />
dal Sole o da una torcia, come un lancio di piccoli oggetti, una<br />
specie di sassolini minuscoli che colpivano gli oggetti e da questi<br />
erano scagliati contro i nostri occhi nei quali provocavano l’effetto<br />
della vista. Ipotesi molto infantile, si potrebbe pensare, ma non<br />
troppo. Intanto noi stessi abbiamo supposto una natura della luce<br />
più o meno simile: abbiamo infatti parlato di raggi, abbiamo detto<br />
che più il foro della camera oscura è piccolo, meno luce penetra<br />
dentro di essa, e meno forte sarà l’immagine formata; abbiamo<br />
detto che la lente fa convergere questi raggi in un punto solo e<br />
quindi aumenta la densità di luce in quel punto. Tutto questo è<br />
molto vicino a considerare la luce una serie di ‟corpuscoli” lanciati<br />
in traiettorie rettilinee, come sassolini, però non sensibili alla forza<br />
di gravità. Insomma abbiamo sposato quella tesi degli antichi<br />
filosofi greci, anche se detta da loro ci pare un po’ ridicola.<br />
Questa teoria della luce si chiama corpuscolare ed è utilizzata<br />
ampiamente in tutta quella parte della fisica che si chiama ottica<br />
geometrica, che come detto abbiamo per ora adottata e va<br />
benissimo per spiegare la formazione delle immagini in campo<br />
fotografico; ma non è esatta, anzi è profondamente sbagliata.<br />
Mi spiego meglio, fornisce risultati in accordo con la pratica,<br />
sempre che non si guardi troppo per il sottile, altrimenti cade in<br />
profonde contraddizioni e si trova di fronte a fenomeni inspiegabili.<br />
Anzi molto presto dovremo cambiare un po’ la nostra teoria ed<br />
introdurre qualche complicazione per poter andare avanti.<br />
Introdurremo un’altra teoria detta ondulatoria che però non sarà<br />
neanche questa corretta fino in fondo, ma stavolta ci<br />
accontenteremo. Se volessimo proseguire dovremo passare alla<br />
teoria cosiddetta quantistica che, guarda caso, si riavvicina e di<br />
molto alla teoria corpuscolare.<br />
Seguitiamo però per il momento a considerare la luce come un<br />
insieme di raggi che fuoriescono da un punto luminoso e si<br />
espandono in ogni direzione.<br />
31
4 – L’obiettivo fotografico<br />
Cominciamo a costruire il nostro apparecchio fotografico:<br />
abbiamo detto che deve essere costituito da una camera oscura<br />
che formi l’immagine e da un altro apparato che conservi questa<br />
immagine. Potremo allora pensare ad un qualcosa del genere:<br />
Il contorno in nero è la nostra camera oscura con il suo forellino<br />
e sulla parete di fondo abbiamo posto il nostro apparato per la<br />
conservazione dell’immagine: è un apparato elettronico che si<br />
chiama CCD e del quale adesso non ci interessiamo; sappiamo<br />
solo che se la camera oscura provvede a formare su di esso<br />
un’immagine, questo la conserverà e vedremo a suo tempo in che<br />
modo.<br />
Ma sappiamo già che il nostro forellino, pur semplice ed<br />
economico, non riesce a fare molto: la luce che penetra all’interno<br />
è scarsa e l’immagine quasi non si vede. Sappiamo anche che non<br />
si può aumentare la grandezza del foro, pena la formazione di<br />
immagini multiple.<br />
32
Ma abbiamo appena scoperto che se allarghiamo il foro e<br />
poniamo su di esso una lente convergente, il problema di formare<br />
un’immagine forte è risolto:<br />
Magari le cose fossero così semplici! <strong>La</strong> nostra lente funziona,<br />
ma ha tanti difetti, chiamati, forse per farli apparire peggiori,<br />
aberrazioni: per esempio i raggi che passano nella parte periferica<br />
della lente subiscono delle deformazioni. Come si eliminano le<br />
aberrazioni? Ponendo un’altra lente che ha un’aberrazione<br />
anch’essa, ma opposta alla prima e che quindi la corregge. Almeno<br />
in parte: se non ci basta potremo aggiungere una terza lente e poi<br />
una quarta e poi altre, fino a quando ci potremo ritenere soddisfatti.<br />
Il risultato non sarà perfetto, ma almeno soddisfacente. Allora non<br />
avremo più una lente, ma un insieme di lenti, che si chiama<br />
obiettivo, parola che rimarca il fatto che molti considerano la<br />
fotografia una copia esatta della realtà. Invece non è così e non<br />
solo per le aberrazioni delle lenti.<br />
Un obiettivo potrebbe avere un aspetto del genere:<br />
33
L’obiettivo è allora un sistema di lenti, del quale il fabbricante,<br />
oltre a fornire le caratteristiche delle lenti che lo compongono,<br />
fornisce anche la lunghezza focale, ovvero la distanza alla quale<br />
l’obiettivo focalizza un fascio collimato, e questo facilita non poco<br />
le nostre considerazioni, perché in questo modo possiamo<br />
continuare a pensare il nostro apparecchio come una camera<br />
oscura dotata di una sola lente con una focale uguale a quella<br />
dell’obiettivo.<br />
34
Un obiettivo come quello schematizzato nella figura precedente<br />
ha però un gravissimo difetto: riesce a creare sul CCD immagini<br />
nitide solo di oggetti posti ad una certa distanza da esso: infatti<br />
essendo l’obiettivo a distanza fissa dal CCD, diciamo i , potrà<br />
focalizzare solo oggetti posti ad una distanza x da esso che<br />
verifichi la relazione:<br />
ovvero alla distanza:<br />
1<br />
i<br />
o =<br />
+ 1<br />
o<br />
= 1<br />
f<br />
f ×i<br />
f −i<br />
Ogni altro punto su un piano diverso non sarà focalizzato sul<br />
CCD ma davanti o dietro ad esso.<br />
35
Invece noi vogliamo essere in grado di focalizzare sul CCD i<br />
punti di un piano qualsiasi a nostra scelta, ovvero dovremo essere<br />
in grado di eseguire la cosiddetta messa a fuoco.<br />
Come possiamo fare ciò? Dobbiamo essere in grado di<br />
allontanare o avvicinare l’obiettivo dal CCD in modo da variare la<br />
grandezza o, automaticamente varierà la grandezza i ovvero la<br />
distanza dall’obiettivo del piano che sarà messo a fuoco.<br />
Per realizzare questa funzione gli obiettivi hanno una ghiera di<br />
messa a fuoco che consente appunto di allontanarli o avvicinarli al<br />
CCD.<br />
<strong>La</strong> figura seguente mostra una tipica ghiera di messa a fuoco di<br />
un obiettivo tradizionale.<br />
Le macchine digitali compatte non hanno questa ghiera di<br />
messa a fuoco, la manovra nel loro caso si esegue dal menu della<br />
macchina.<br />
Uno schema allora più veritiero di un obiettivo è il seguente:<br />
36
Adesso però dobbiamo pensare per un attimo anche alla<br />
conservazione dell’immagine, nel senso che la nostra fotocamera<br />
dovrà avere gli strumenti per poter anche immagazzinare<br />
l’immagine che l’obiettivo forma sul CCD.<br />
Solitamente si cade nell’errore di pensare la luce come una<br />
sorta di sostanza magica, capace di produrre immagini in un tempo<br />
infinitesimo: così si suppone che sia sufficiente l’esposizione<br />
istantanea di una pellicola sensibile, per immagazzinare su di essa<br />
l’immagine appena formata. Il CCD poi è un mistero tecnologico,<br />
sappiamo che è un componente elettronico, e assumiamo che<br />
abbia lo stesso comportamento di una pellicola tradizionale.<br />
E’ più o meno così, però in ambedue i casi occorre che la luce<br />
eserciti la sua azione per un tempo non infinitesimo, anche se<br />
spesso molto breve.<br />
In più dobbiamo controllare anche la quantità di luce che<br />
colpisce il CCD (o la pellicola) perché anche questa avrà la sua<br />
influenza sulla formazione dell’immagine .<br />
Infine dobbiamo tener conto della sensibilità del CCD, ovvero<br />
della sua capacità di reagire agli stimoli della luce. Insomma la luce<br />
deve svolgere un certo tipo di lavoro e bisogna assicurarci che ne<br />
37
arrivi abbastanza, che arrivi per un certo tempo e che il CCD abbia<br />
la giusta sensibilità.<br />
Questi tre parametri: quantità, tempo e sensibilità sono in stretta<br />
relazione tra loro e dai loro valori dipende la qualità della fotografia.<br />
Solitamente si usa fare un paragone con il riempimento di un<br />
recipiente per mezzo di un rubinetto. Se lo scopo è quello di<br />
riempire il recipiente, dovremo tenere in considerazione tre<br />
parametri: la capacità del recipiente, la quantità di acqua che esce<br />
dal rubinetto e il tempo durante il quale il rubinetto sta aperto.<br />
Sarà equivalente per il nostro scopo per esempio aprire a metà<br />
il rubinetto e tenerlo aperto per 20 secondi, oppure aprire del tutto<br />
il rubinetto, ma tenerlo aperto per soli 10 secondi. Il risultato sarà<br />
identico: il recipiente pieno fino all’orlo. Se però dovessimo usare<br />
un recipiente con capacità doppia, allora i valori precedenti vanno<br />
raddoppiati, per meglio dire va raddoppiato uno dei due e<br />
mantenuto costante l’altro, non importa quale.<br />
Ho riportato questo paragone perché è più intuibile, quando si<br />
parla di luce invece tutto è meno evidente, ma è la stessa cosa:<br />
l’apertura del rubinetto corrisponde a far entrare un flusso di luce<br />
38
più o meno grande, schermando per così dire l’obiettivo e<br />
costringendo la luce a passare solo in una zona delimitata di esso.<br />
Il tempo di esposizione è evidentemente il tempo in cui la luce può<br />
colpire il CCD e lavorare per materializzare la foto. <strong>La</strong> sensibilità<br />
del CCD invece è corrispondente alla capacità del recipiente.<br />
Volete un altro esempio? Bene, se dovete cuocere della carne<br />
in forno, dovete badare a tre parametri: la temperatura del forno, la<br />
durata della sosta della carne nel forno e la durezza della carne;<br />
rispettivamente equivalenti a quantità di luce, tempo e sensibilità.<br />
Adesso come si regolano questi tre parametri (nella macchina<br />
fotografica)?<br />
Cominciamo dalla sensibilità, che è quella più semplice da<br />
spiegare. Quando si usava la pellicola questa riportava sulla<br />
confezione la propria sensibilità: era espressa in unità normalizzate<br />
ISO, ed aveva valori da 25 ISO a 3200 ISO o anche maggiori; ogni<br />
volta che il valore raddoppiava, anche la sensibilità raddoppiava.<br />
Questa sensibilità era data dalla costituzione dell’emulsione: in<br />
particolare se i grani di sale d’argento erano più grandi anche la<br />
sensibilità aumentava.<br />
Con il CCD si usano le stesse unità ISO, solo che stavolta non<br />
è necessario cambiare il CCD, ma è sufficiente modificare la<br />
sensibilità, attraverso uno dei tanti menu presenti sull’apparecchio<br />
fotografico. Una scala di valori di sensibilità programmabili con una<br />
fotocamera <strong>digitale</strong> è la seguente :<br />
25 50 100 200 400 800<br />
Come detto passando da un valore a quello alla sua destra si<br />
raddoppia la sensibilità, andando a sinistra invece la si dimezza.<br />
Per regolare invece la quantità di luce, l’apparecchio fotografico<br />
è dotato di un dispositivo, molto elementare, chiamato diaframma,<br />
che di fatto riduce l’area di passaggio della luce che attraversa<br />
l’obiettivo. In generale il diaframma fa parte dello stesso obiettivo<br />
ed è regolabile con una sua ghiera, abbastanza simile a quella<br />
39
della messa a fuoco. <strong>La</strong> figura seguente mostra un diaframma<br />
reale di una fotocamera:<br />
Muovendo la ghiera si muovono le lamelle che aprono o<br />
chiudono la zona dove la luce può transitare. <strong>La</strong> figura seguente<br />
mostra invece due obiettivi, nei quali si riconoscono<br />
rispettivamente un diaframma molto aperto ed un altro molto<br />
chiuso:<br />
L’apertura del diaframma viene misurata in un modo che può<br />
apparire strano, ma non lo è: si misura il diametro del foro,<br />
40
praticamente circolare, nel quale passa la luce, ma non si esprime<br />
in millimetri, ma in frazioni della lunghezza focale. <strong>La</strong> ragione di<br />
questa scelta è molto semplice: in tal modo potremo parlare di<br />
apertura dell’obiettivo (cioè della grandezza del suo diaframma)<br />
indipendentemente dal tipo di obiettivo e dalla sua focale.<br />
È infatti evidente dalla figura seguente che per avere la stessa<br />
quantità di luce in ogni punto del CCD è necessario avere aperture<br />
maggiori per focali maggiori, in quanto una focale maggiore<br />
allontana il CCD dalla fonte di luce. Se non si misurasse l’apertura<br />
in frazioni di focale si dovrebbe dire per esempio, diametro di<br />
apertura 25 mm con una focale di 50 mm, oppure diametro di<br />
apertura di 50 mm con una focale di 100 mm; nei due casi,<br />
perfettamente equivalenti, invece si dirà apertura pari a f/2, cioè la<br />
metà della focale.<br />
Potrebbero apparire strani i valori che si usano per misurare le<br />
aperture. Sono valori standard stabiliti una volta per tutte e uguali<br />
in tutti gli apparecchi fotografici, almeno quelli tradizionali. Essi<br />
sono:<br />
41
1,4 2 2,8 4 5,6 8 11<br />
Come già detto questi numeri vanno intesi come divisori della<br />
focale, ovvero per esempio 8 significa che il diametro del foro di<br />
passaggio della luce è 1/8 della focale. Perché questi numeri?<br />
Facciamo per il momento caso che, se calcoliamo i quadrati di<br />
ciascuno di essi, otteniamo dei numeri che sono ognuno circa la<br />
metà del successivo:<br />
2 4 8 16 32 64 128<br />
Teniamo bene a mente questo fatto.<br />
Allora il nostro apparecchio fotografico avrà la struttura della<br />
figura seguente:<br />
42
In questa figura il diaframma è mostrato per ragioni di<br />
chiarezza, come un segmento rosso fuori dall’obiettivo, anche se è<br />
quasi sempre dentro ad esso.<br />
Quando il diaframma è molto chiuso la luce che arriva al<br />
CCD è molto debole, insomma si ritorna al caso della camera<br />
oscura con foro.<br />
Vediamo ora come è possibile regolare il tempo durante il quale<br />
il CCD è esposto alla luce, ossia il tempo di esposizione.<br />
Lo si fa con un altro meccanismo chiamato otturatore. Esso può<br />
essere realizzato in due modi diversi, o con lamelle, in questo<br />
simile al diaframma (otturatore centrale) oppure con una specie di<br />
saracinesca che scorre orizzontalmente (otturatore a tendina). <strong>La</strong><br />
figura seguente mostra i due schemi:<br />
43
Le figure seguenti mostrano invece le foto di due otturatori reali,<br />
il primo del tipo centrale.<br />
44
Il secondo a tendina.<br />
Il tempo di esposizione, il tempo cioè in cui l’otturatore rimane<br />
aperto si misura semplicemente in secondi, o per meglio dire in<br />
frazioni di secondo. Anche qui si hanno valori standardizzati che<br />
sono i seguenti:<br />
1/4 1/8 1/16 1/32 1/64 1/125 1/250 1/500<br />
Stavolta l’interpretazione è semplice, e ogni valore è la metà del<br />
precedente.<br />
Adesso abbiamo completato lo schema, molto teorico,<br />
della nostra macchina fotografica, che avrà questo aspetto quando<br />
la macchina è in riposo:<br />
45
E questo quando si sta scattando una foto e la luce penetra fino<br />
al CCD<br />
46
5 – <strong>La</strong> misurazione della luce<br />
Supponiamo adesso di voler fare una fotografia con la nostra<br />
camera oscura, dotata di obiettivo, messa a fuoco, diaframma ed<br />
otturatore, nonché di un qualcosa per regolare la sensibilità del<br />
CCD, qualcosa insomma equivalente al cambio della pellicola.<br />
Dobbiamo scoprire quale sia la quantità di luce necessaria per<br />
realizzare la foto: deve essere la quantità giusta, né poca, né<br />
troppa, perché altrimenti avremo nel primo caso una foto troppo<br />
scura (sottoesposta), e nel secondo una foto troppo chiara<br />
(sovraesposta).<br />
Come si fa? Quando analizzeremo una normale fotocamera<br />
<strong>digitale</strong>, vedremo che il problema è di facile soluzione, anzi il<br />
problema non esiste proprio, ci penserà la macchina stessa, ma<br />
adesso vogliamo scoprire come si può fare senza automatismi<br />
47
tecnici, anche perché non sempre questi automatismi realizzano<br />
esattamente quello che il fotografo vuole.<br />
Il problema è tutto nella valutazione della intensità della luce<br />
che colpisce la scena da ritrarre e viene riflessa fino al nostro<br />
obiettivo. I fotografi di una volta, quelli bravi, sapevano valutare ad<br />
occhio la intensità della luce ed impostare i valori di diaframma e di<br />
tempo della fotocamera, anche perché contavano molto sulla<br />
capacità della pellicola di minimizzare i loro errori. Se però<br />
vogliamo fare le cose in maniera rigorosa, non ci rimane che<br />
misurare la luce con uno strumento che si chiama esposimetro, ed<br />
ha più o meno l’aspetto seguente:<br />
In generale l’esposimetro dà la misura del valore luce della<br />
scena LV. Tale valore è un numero intero positivo o negativo:<br />
crescendo di un unità il valore della luce raddoppia, per esempio 3<br />
è il doppio di 2 e -1 è la metà di 0 e così via. Dal valore di luce si<br />
passa in maniera molto semplice al valore di esposizione o EV, che<br />
è lo stesso numero di LV ma aumentato o diminuito della quantità:<br />
48
dove S è la sensibilità del CCD in valori ISO. Sembra una cosa<br />
difficile ma non lo è affatto: EV è uguale a LV più o meno gli<br />
spostamenti che bisogna fare nella scala delle sensibilità per<br />
andare da 100 alla sensibilità del nostro CCD, ossia le volte che si<br />
deve raddoppiare 100 per arrivare alla sensibilità del nostro CCD.<br />
Per esempio se l’esposimetro ci fornisce LV = 4 e abbiamo una<br />
sensibilità di 400 ISO il valore di EV sarà:<br />
EV = LV +2<br />
perché per andare da 100 a 400 dobbiamo moltiplicare 100 per 2<br />
due volte<br />
Ma come faccio poi a scegliere i valori di diaframma e di tempo<br />
Semplice, con quest’altra formula:<br />
Dove T è il tempo di esposizione e A l'apertura del diaframma..<br />
Lo so che sembra complicatissimo, ma basta utilizzare la<br />
seguente tabella dei valori EV, in funzione dell'apertura (in<br />
verticale) e del tempo di esposizione (in orizzontale)<br />
49
1,4 2 2,8 4,0 5,6 8,0 11,0 16,0 22,0<br />
1/4 3 4 5 6 7 8 9 10 11<br />
1/8 4 5 6 7 8 9 10 11 12<br />
1/15 5 6 7 8 9 10 11 12 13<br />
1/30 6 7 8 9 10 11 12 13 14<br />
1/60 7 8 9 10 11 12 13 14 15<br />
1/125 8 9 10 11 12 13 14 15 16<br />
1/250 9 10 11 12 13 14 15 16 17<br />
1/500 10 11 12 13 14 15 16 17 18<br />
1/1000 11 12 13 14 15 16 17 18 19<br />
1/2000 12 13 14 15 16 17 18 19 20<br />
1/4000 13 14 15 16 17 18 19 20 21<br />
1/8000 14 15 16 17 18 19 20 21 22<br />
Osserviamola bene e noteremo qualcosa di molto<br />
interessante. Supponiamo ad esempio di aver ricevuto<br />
dall’esposimetro il valore EV = 12. <strong>La</strong> tabella ci dice chiaramente<br />
che possiamo utilizzare la seguente coppia di valori:<br />
diaframma = f/11; tempo= 1/30<br />
ma la stessa tabella ci dice che potremo utilizzare anche un’altra<br />
coppia, per esempio:<br />
diaframma= f/8; tempo = 1/60<br />
oppure:<br />
diaframma = f/5.6; tempo = 1/125<br />
50
o ancora :<br />
diaframma = f/4; tempo= 1/250<br />
e così via.<br />
Insomma ci sono tanti valori EV=12 nella tabella e ognuno di<br />
essi ci fornisce una coppia tempo-diaframma che produrrà, stiamo<br />
attenti, esattamente la stessa foto. Non voglio intendere una foto<br />
comunque accettabile dal punto di vista della luminosità, intendo<br />
dire proprio la stessa foto, indistinguibile dalle altre.<br />
Ciò costituisce il principio di reciprocità ossia: trovata una<br />
coppia diaframma-tempo corretta, questa è equivalente a tutte le<br />
coppie diaframma-tempo che differiscono dalla prima per aver<br />
variato di un certo numero di passi il diaframma e dello stesso<br />
numero di passi, ma nel senso opposto, il tempo di esposizione.<br />
Insomma se aumento il diaframma devo diminuire il tempo e se<br />
aumento il tempo devo diminuire il diaframma: in tal modo la foto<br />
rimarrà identica.<br />
Tale semplicità e facilità di cambiamento è fornita proprio dalla<br />
particolare scelta dei valori di diaframma e di tempo. Si pensi infatti<br />
che il valore di esposizione è proporzionale al tempo di<br />
esposizione e alla grandezza del fascio di luce che incide sul CCD.<br />
Ora questo fascio di luce è direttamente proporzionale all’area<br />
della sezione del fascio e quest’area è proporzionale al quadrato<br />
del diametro del fascio stesso. Ecco perché abbiamo scelto i valori<br />
del diaframma in modo tale che i loro quadrati, letti uno dopo<br />
l’altro, fossero ognuno il doppio del successivo. Allora andando da<br />
un valore di diaframma al successivo si dimezza l’area del fascio di<br />
luce, per cui per mantenere la situazione inalterata è necessario<br />
raddoppiare il tempo di esposizione. Se invece andiamo da un<br />
valore di diaframma al precedente, raddoppiamo il fascio di luce e<br />
quindi dobbiamo, per mantenere la situazione inalterata,<br />
dimezzare il tempo di esposizione.<br />
Tutto chiaro, no?<br />
51
Però a questo punto nasce spontanea una domanda: perché<br />
complicarsi la vita inutilmente? Perché, visto e considerato che<br />
dato un valore ad uno dei due parametri è possibile trovare il<br />
valore dell’altro che soddisfi le nostre esigenze, perché non si<br />
fanno macchine per esempio con diaframma fisso e la possibilità di<br />
modificare il tempo di esposizione in modo da trovare il valore EV<br />
necessario? Oppure perché non si fanno fotocamere con il tempo<br />
di esposizione fisso e la possibilità di variare il valore del<br />
diaframma, per ottenere l’EV desiderato? Sarebbe sicuramente<br />
una riduzione di complessità, senza compromettere in alcun modo<br />
il risultato finale della foto.<br />
E’ perfettamente vero, da questo punto di vista il discorso non<br />
fa una piega, ma dobbiamo ancora considerare un altro aspetto,<br />
finora trascurato.<br />
Abbiamo visto che un obiettivo, con la sua ghiera di messa a<br />
fuoco, riesce a focalizzare sul CCD un’immagine nitida di una<br />
scena su un particolare piano. Però tutti gli oggetti posti su piani<br />
diversi non saranno focalizzati su quel piano e per questa ragione<br />
nella foto quegli oggetti non saranno nitidi, ma sfocati.<br />
Infatti nella figura seguente si nota come gli oggetti del piano A<br />
vengano focalizzati in un piano diverso da quello nel quale<br />
vengono focalizzati gli oggetti del piano B. Il problema è che se<br />
facciamo coincidere il piano del CCD con il piano di messa a fuoco<br />
A, gli oggetti del piano B saranno sfocati, se invece facciamo<br />
andare il CCD sul piano dove focalizza il piano B, su di esso<br />
saranno sfocati gli oggetti del piano A.<br />
52
Si capisce chiaramente questo fatto notando che i raggi blu<br />
(provenienti da B) creano punti immagine molto grandi e quindi<br />
sfocati sul piano di messa a fuoco A e viceversa. Il problema tra<br />
l’altro non sembra abbia una soluzione, ed infatti non ce l’ha,<br />
dovremo trovare un compromesso.<br />
53
Cominciamo col notare un fatto: dobbiamo considerare anche e<br />
soprattutto i raggi che attraversano la lente (o meglio il nostro<br />
obiettivo) nelle zone lontane dal suo asse: infatti questi raggi sono<br />
quelli che focalizzano sul piano di messa a fuoco nella zona più<br />
lontana dal punto ove dovrebbe essere concentrato il fascio di<br />
raggi, ovvero sono questi raggi che stabiliscono la grandezza delle<br />
immagini. Queste immagini che sono cerchi invece di punti, come<br />
sarebbero se fossero correttamente focalizzati, sono detti cerchi<br />
di confusione.<br />
Se guardiamo il piano A si vede che mentre il punto rosso è<br />
perfettamente focalizzato (il CCD è sul piano di focalizzazione del<br />
piano A), il punto blu ha formato un fastidioso cerchio di confusione<br />
e non si capisce neanche più che l’oggetto rappresentato è un<br />
punto. Figuriamoci cosa succede se invece di un punto abbiamo<br />
una figura: vedremo solo un po’ di nebbia colorata.<br />
Ovviamente la situazione non cambia se andiamo a mettere il<br />
CCD sul piano di messa a fuoco B: abbiamo il problema opposto.<br />
Supponiamo adesso di chiudere molto il diaframma, ovvero di<br />
utilizzare solo la parte centrale della lente costringendo il CCD a<br />
ricevere solo i raggi luminosi che passano di lì.<br />
54
Anche stavolta i punti si sono trasformati in cerchi di<br />
confusione, ma sono molto più piccoli. Questo dipende dal fatto<br />
che i raggi luminosi sono costretti a passare da un foro piccolo e<br />
quindi non riescono ad aprirsi molto ed a formare quindi cerchi di<br />
confusione piuttosto evidenti.<br />
Se andiamo a vedere i piani di messa a fuoco A e B otteniamo<br />
queste situazioni:<br />
Come si vede stavolta la situazione è accettabile, i cerchi di<br />
confusione non sono molto grandi e l’occhio umano non li<br />
avvertirà. In sostanza allora la sfocatura dei piani non<br />
perfettamente focalizzati viene eliminata riducendo il diaframma e<br />
contando sulla imperfezione dell'occhio umano. <strong>La</strong> profondità dello<br />
spazio nel quale tutti gli oggetti sono focalizzati correttamente si<br />
chiama profondità di fuoco e, come abbiamo appena visto,<br />
aumenta con il diminuire del diaframma.<br />
Ecco dunque una buona ragione di conservare la possibilità di<br />
variare il diaframma.<br />
55
Ma, si osserverà a questo punto, se le cose stanno così, perché<br />
allora non impostare le fotocamere con un valore di diaframma<br />
fisso e molto piccolo, il minimo possibile e lasciare la regolazione<br />
dell’esposizione tramite il solo tempo?<br />
Anche stavolta non sarebbe una soluzione sempre valida,<br />
perché in molti casi, per esempio quando vogliamo fotografare un<br />
oggetto molto veloce, per evitare l’effetto di mosso, dobbiamo<br />
impostare un tempo molto veloce, e se avessimo il diaframma fisso<br />
molto probabilmente non riusciremmo a fare una foto abbastanza<br />
luminosa. Allora in questo caso dovremmo aumentare il<br />
diaframma, a costo di ridurre la profondità di fuoco.<br />
In maniera opposta, se volessimo invece fotografare qualche<br />
persona o qualche oggetto con l'effetto di "mosso", dovremmo<br />
impostare un tempo piuttosto lungo; allora se non avessimo la<br />
possibilità di ridurre l'apertura, saremmo costretti ad accettare una<br />
foto sovraesposta. Insomma in vari casi è necessario un<br />
compromesso tra diaframma e tempo di esposizione, e quindi è<br />
indispensabile avere la possibilità di regolare sia il tempo di<br />
esposizione con l'otturatore, sia l'apertura con il diaframma.<br />
Ricordiamo anche che esiste la possibilità di aumentare o<br />
diminuire il valore di sensibilità del CCD, cosa questa che ci<br />
conferisce un ulteriore grado di libertà.<br />
56
6 – Immagini vettoriali ed immagini bit-map<br />
Un’immagine <strong>digitale</strong> può essere di due tipi: vettoriale o bitmap.<br />
<strong>La</strong> differenza è sostanziale, addirittura filosofica. Prima di<br />
spiegarla diamo un'occhiata alle due teste di Paperino della figura<br />
seguente.<br />
A prima vista sembrano del tutto equivalenti: quella di sinistra è<br />
un’immagine bit-map, quella di destra un'immagine vettoriale.<br />
Per apprezzare le differenze proviamo ad ingrandire le foto ed<br />
osservarne alcuni particolari.<br />
Da questo particolare si nota chiaramente la differenza tra i due<br />
57
tipi di immagine. Il primo quello denominato bit-map è costituito da<br />
una serie di piccoli quadratini colorati, una specie di mosaico, che,<br />
se guardati con un ingrandimento non troppo spinto, simulano per<br />
l’occhio umano un'immagine continua. Il secondo è invece davvero<br />
un’immagine continua, nella quale l’ingrandimento ha il solo effetto<br />
appunto di ingrandire, mentre i contorni e i colori dell’immagine<br />
rimangono tali e quali a quelli dell’immagine in formato ridotto:<br />
insomma in questo ultimo caso si ha un vero e proprio<br />
ingrandimento fotografico, ma l’immagine non “sgrana”, come<br />
invece succede nelle fotografie su pellicola tradizionali: è come se<br />
l'immagine venisse ogni volta ridisegnata più in grande.<br />
Vediamo ancora due ingrandimenti più spinti delle due<br />
immagini.<br />
Si noti come l’immagine bit-map, quella a sinistra, mostri ancor<br />
di più la sua natura di mosaico, mentre quella vettoriale a destra<br />
sia ancora perfettamente ridisegnata e mostri tutti i particolari<br />
58
perfettamente ingranditi.<br />
Ma insistiamo ancora un po’ con questa immagine vettoriale,<br />
scopriamo che è possibile isolare un particolare di essa per<br />
esempio la parte più scura dell’occhio e ingrandirla quanto si vuole.<br />
<strong>La</strong> parte ingrandita ha conservato perfettamente la sua forma: è<br />
stata proprio ridisegnata più grande nelle sue giuste proporzioni.<br />
L’immagine bit-map invece, quando venga ingrandita mostra la sua<br />
‟grana”, svela insomma la sua costruzione.<br />
A questo punto non ci dovrebbero essere dubbi: useremo<br />
sempre immagini vettoriali.<br />
Invece in questo corso non ne parleremo affatto, ma faremo<br />
uso esclusivamente di immagini bit-map.<br />
E perché?<br />
Beh, è molto semplice: le macchine fotografiche sono capaci di<br />
produrre esclusivamente immagini del tipo bit-map. Le immagini<br />
vettoriali sono invece dei disegni, magari molto complicati, generati<br />
da disegnatori con l’aiuto del computer.<br />
Mi spiego meglio: le immagini vettoriali sono degli insiemi di<br />
curve geometriche definite matematicamente, con delle formule:<br />
una retta, un quadrato, un’ellisse, un arco di cerchio, una parabola,<br />
una curva del terzo, quarto grado e così via. Se si desidera<br />
59
ingrandirle, basta chiedere alla formula matematica di aumentare<br />
le dimensioni: fare un cerchio di raggio più grande, un quadrato di<br />
lato più grande e così via: molto semplice.<br />
E’ chiaro però che di una simile figura deve prima nascere il<br />
progetto, le formule matematiche che la definiscono, e poi sarà<br />
generata l’immagine: è questo quindi il modo di raffigurare un<br />
disegno fatto da una persona, ma non è possibile chiedere ad una<br />
macchina fotografica di calcolare, mentre scatto la foto, le formule<br />
che definiscono l'immagine di un paesaggio che sto osservando<br />
nel mirino!<br />
Insomma le immagini vettoriali sono immagini create a tavolino,<br />
mentre le immagini bit-map sono rappresentazioni di oggetti reali.<br />
Di un’immagine vettoriale si può sempre dare una<br />
rappresentazione bit-map, il processo si chiama "rasterizzazione";<br />
si può anche trasformare un’immagine bit-map in un’immagine<br />
vettoriale, ed il processo si chiama appunto "vettorializzazione",<br />
ma, attenzione, è un processo lungo e complicato, e non può<br />
essere certo eseguito da una macchina fotografica; d'altronde non<br />
sarebbe di alcuna utilità, in quanto non si aumenterebbe<br />
assolutamente la precisione dell’immagine che rimarrebbe quella<br />
dell'immagine bit-map.<br />
Insomma: sono due approcci diversi, e nella sostanza, ma per<br />
quanto riguarda la rappresentazione del reale non c’è altro che la<br />
tecnica bit-map, ed in questo caso è superiore, anche se a prima<br />
vista sembra il contrario.<br />
L’esempio iniziale è ovviamente a favore del vettoriale in quanto<br />
la cosa rappresentata, la testa di Paperino, è un disegno, fatto da<br />
Walt Disney o da chi per lui, ed è quindi molto facile tradurlo in<br />
cerchi, ellissi, curve; si tratta praticamente di ripercorrere il<br />
percorso della matita del disegnatore, che non può aver tracciato<br />
un disegno troppo complesso, neanche se è il più bravo pittore<br />
iperrealista del mondo. Alla fine anche lui si sarà dovuto<br />
accontentare di qualche linea e qualche colore.<br />
Proviamo ora ad analizzare le pennellate di Van Gogh in questo<br />
quadro famoso:<br />
60
Possiamo realisticamente pensare di seguire ogni singola<br />
pennellata e di sostituirla con una curva definita matematicamente<br />
che la imiti perfettamente? Beh, sarà sicuramente un impresa un<br />
po’ lunga e tormentata, ma ci possiamo riuscire.<br />
Ma se volessimo fare la stessa cosa con una scena reale, ne<br />
saremmo capaci? Potremo farlo per una scena come questa?<br />
61
No, impazziremmo, la realtà è troppo complicata per essere<br />
riprodotta con formule matematiche: qualunque rappresentazione<br />
di questo tipo sarebbe inferiore a quella ottenuta da una macchina<br />
fotografica.<br />
Potremo arrivare a dipingere un bel quadro, ma sarebbe una<br />
rappresentazione sicuramente meno soddisfacente di quella fatta<br />
con una rappresentazione bit-map, con la quale ci proponiamo<br />
solo di copiare tessera per tessera, pezzettino per pezzettino i<br />
colori della scena. Questo metodo, che all'apparenza appare<br />
grossolano, ha invece un vantaggio importante: siamo noi a<br />
decidere la precisione della rappresentazione, la sua<br />
verosimiglianza con il reale, in quanto possiamo decidere la<br />
grandezza delle tessere del mosaico ed il loro numero totale.<br />
Insomma per rappresentare la realtà il modo migliore è quello di<br />
non provare a riprodurla nei suoi disegni e nei suoi colori, ma di<br />
limitarsi ad una riproduzione meticolosa e minuziosa di ogni punto<br />
della realtà con un punto dell'immagine che abbia esattamente<br />
quel colore.<br />
62
7 – Digitalizzare un’immagine<br />
Supponiamo di vedere nel mirino della nostra macchina<br />
fotografica <strong>digitale</strong> questa scena:<br />
Ci piace, ed allora premiamo il pulsante di scatto, e la fotografia<br />
è fatta.<br />
Ma che cosa è successo dentro la macchina? Come si è<br />
formata l’immagine?<br />
È successo che il CCD della macchina ha eseguito una<br />
rappresentazione bit-map della scena inquadrata e l’ha<br />
immagazzinata nella memoria della stessa.<br />
Come fa?<br />
Come lo faremmo noi, a mano, se non avessimo nessuna<br />
abilità a disegnare o a dipingere: limitandoci a copiare<br />
63
passivamente la scena, punto per punto.<br />
Come alcuni pittori facevano una volta (e come molti fanno<br />
ancora se la scena da copiare è piuttosto complicata), prendiamo<br />
una griglia di metallo come questa, con 32 caselle orizzontali e 24<br />
caselle verticali:<br />
e supponiamo di guardare l’intera scena attraverso la griglia<br />
stessa:<br />
64
Poi disegniamo su un foglio di carta una griglia, più piccola, ma<br />
con lo stesso numero di caselle verticali ed orizzontali.<br />
65
Adesso andiamo a comprare una scatola di matite come<br />
queste:<br />
66
Bene a questo punto prendiamo il foglio di carta con la griglia e,<br />
osservando la scena attraverso la griglia, cominciamo a riempire la<br />
griglia di carta con i colori delle matite. Faremo così. Osserviamo la<br />
scena e concentriamoci sulla prima griglia, quella in alto a sinistra:<br />
notiamo il colore che ha e scegliamo la matita che è del colore più<br />
vicino a quello del quadratino nella scena. Con questo colore<br />
riempiamo il corrispondente quadratino della griglia di carta. Poi<br />
passiamo ad un altro quadratino, poi ad un altro ancora e così via,<br />
ripetendo sempre la stessa operazione. Potremo usare uno ed un<br />
solo colore per ogni quadratino; se osservando la scena vediamo<br />
più colori nello stesso quadratino, dovremo sceglierne uno, quello<br />
prevalente.<br />
Adesso associamo ad ogni matita della nostra scatola un<br />
numero: le matite sono 19 e ognuna avrà un numero dal 1 al 19.<br />
67
Allora, nel nostro disegno, invece di colorare le caselle, potremo<br />
tranquillamente scrivere, in ogni casella il numero del colore.<br />
68
In tal modo, possiamo trasformare un'immagine in una serie<br />
ordinata di numeri. Nel nostro caso, una volta terminato l’esame<br />
dei quadratini e stabilito per ognuno di essi un colore, ossia un<br />
numero, la nostra immagine sarà tradotta in una serie di numeri,<br />
uno per casella, esattamente 32 X 24 ossia 728 numeri. Questi<br />
numeri però potranno assumere solo i valori dall’ 1 al 19.<br />
Abbiamo fatto la prima digitalizzazione della nostra immagine.<br />
Quando però andremo a riprodurre l'immagine che la<br />
fotocamera avrà salvato, ci troveremo di fronte ad una cosa di<br />
questo genere:<br />
Mmmh, non assomiglia mica tanto alla nostra scena!<br />
Calma, non disperiamoci: proviamo a rimpicciolire la nostra<br />
rappresentazione, sì insomma, proviamo a farla diventare grande<br />
come un francobollo.<br />
69
Pare incredibile, eh? Eppure è la stessa immagine.<br />
Una rappresentazione bit-map è più o meno soddisfacente a<br />
seconda dell’uso che se ne deve fare.<br />
Ma andiamo avanti, se non siamo soddisfatti, dobbiamo<br />
migliorare la rappresentazione. Come si fa? Semplicissimo,<br />
prendiamo un’altra griglia stavolta più fitta, diciamo di 64 caselle<br />
orizzontali e di 48 caselle verticali e ripetiamo lo stesso<br />
procedimento: otterremo questa rappresentazione, migliore della<br />
precedente, ma non ancora soddisfacente:<br />
70
Niente paura, possiamo ancora migliorare, diamo solo<br />
un’occhiata al francobollo:<br />
Eh, niente male, vero? Per il francobollo ci siamo quasi, ma<br />
andiamo avanti. Proviamo ora con una griglia di 160 caselle<br />
orizzontali e di 120 caselle verticali e vediamo cosa succede:<br />
71
Beh va già benino, ma proseguiamo, adesso 320 X 240:<br />
72
Ci contentiamo? No! avanti ancora, adesso 800 X 600:<br />
73
Perfetto, no? Non sono soddisfatto, voglio fare un altro<br />
tentativo: 1600 X 1200:<br />
Adesso possiamo fermarci, perché ogni ulteriore passo in<br />
avanti non migliora la nostra rappresentazione, le ultime due sono<br />
identiche!<br />
74
Non è vero. Le ultime due sono identiche se viste in questo<br />
ingrandimento, ma proviamo ad ingrandirle un po’, guardando solo<br />
un particolare:<br />
Ecco, confrontando le due immagini si vede che aumentando<br />
l’ingrandimento, la rappresentazione con più caselle è migliore,<br />
mentre quella con meno caselle lascia intravedere la seghettatura<br />
delle caselle stesse.<br />
Bene, è il momento di dare alcune definizioni fondamentali. <strong>La</strong><br />
casella è l’elemento più piccolo di una immagine <strong>digitale</strong>,<br />
l’elemento minimo, sotto il quale non è possibile andare: per come<br />
lo abbiamo definito è un quadratino di colore uniforme, voglio dire<br />
che non ci sono sfumature di colore all’interno di una casella.<br />
<strong>La</strong> casella così definita, come unità fondamentale della foto<br />
<strong>digitale</strong>, si chiama pixel.<br />
Una foto è tanto più definita, ovvero mostra un numero<br />
maggiore di particolari, quanti più pixel la costituiscono: per<br />
esempio la prima rappresentazione che abbiamo fatto era di 32 x<br />
24 pixel ovvero aveva un totale di 768 pixel, l’ultima aveva 1600 X<br />
1200 pixel, ovvero un totale di 1.920.000 pixel, che si possono<br />
senza problemi arrotondare a 2 milioni di pixel, o come si dice<br />
comunemente 2 Megapixel. Con il prefisso Mega si intende infatti<br />
75
un numero molto prossimo a 1 milione (per l’esattezza 1.048.576).<br />
Il numero di pixel è la risoluzione dell’immagine. Attenzione:<br />
molti, sbagliando, dicono che la risoluzione è, per esempio, di 300<br />
pixel per pollice. Non è vero, quella è un’altra cosa, riguarda la<br />
stampa; la risoluzione di un’immagine è il suo numero totale di<br />
pixel.<br />
Quindi quanto più fedele vogliamo che sia la rappresentazione,<br />
ovvero quanti più particolari della scena vogliamo siano<br />
rappresentati nell’immagine, tanti più pixel dovremo utilizzare.<br />
Ma la veridicità di un’immagine dipende anche da un altro<br />
parametro, e cioè il numero di colori. Ogni pixel infatti assume un<br />
colore uniforme: ora, questo colore dovrà essere scelto tra un certo<br />
numero di colori presenti per la nostra rappresentazione, come, nel<br />
nostro esempio, il numero di matite colorate a disposizione.<br />
Il numero di colori è importante: infatti non servirà a nulla avere<br />
una grande risoluzione, se poi i colori sono pochi; è inutile cioè<br />
avere molti pixel, se poi siamo costretti a riempire vari pixel con lo<br />
stesso colore, è la stessa cosa che avere pixel più grandi e quindi<br />
risoluzione minore.<br />
76
Possiamo renderci conto dell’importanza di avere un numero<br />
elevato di colori osservando la foto seguente:<br />
Tutto sommato la foto sembra che abbia un numero non<br />
elevato di colori: giallo, rosa, azzurro, verde chiaro, verde più<br />
scuro, arancio, bianco, grigio, nero. Quanti sono: nove; forse ce ne<br />
dimentichiamo qualcuno, proviamo ad utilizzare sedici colori,<br />
dovrebbero essere sufficienti:<br />
77
Sì certo, la fotografia è leggibile, ma si sono perse<br />
completamente tutte le sfumature di colore che pure vi erano,<br />
anche se non ci avevamo fatto caso. Dovremo utilizzare un<br />
numero più elevato di colori, per esempio proviamo con 256,<br />
osservando stavolta un ingrandimento.<br />
78
Non è ancora per niente soddisfacente! E c’è di più: in questa,<br />
che è una simulazione, i 256 colori sono stati scelti tra quelli utili<br />
per la fotografia, se si cambiasse soggetto, per ottenere un effetto<br />
simile, dovremmo cambiare i 256 colori con altri più adatti al nuovo<br />
soggetto. In sostanza se si volessero utilizzare solo 256 colori per<br />
tutte le fotografie, allora la rappresentazione sarebbe notevolmente<br />
più povera.<br />
Sembrerà un’esagerazione, ma il numero di colori utilizzato<br />
normalmente nelle foto digitali, quello utilizzato per esempio nella<br />
foto iniziale è enorme: più di 16 milioni di colori (esattamente<br />
16.772.216)!<br />
E in certi casi non è considerato sufficiente.<br />
Questa è la natura della rappresentazione <strong>digitale</strong>, se ci si<br />
accontenta di risultati così e così, si ha bisogno solo di mezzi<br />
79
modesti, ma se si cerca una rappresentazione veramente ottimale,<br />
la richiesta di risorse sale esponenzialmente.<br />
<strong>La</strong> cosa però importante è che, qualunque sia la precisione che<br />
si vuole ottenere, è possibile trovare un modo per ottenerla, anche<br />
se questo sarà dispendioso. Non c’è insomma alcuna limitazione<br />
teorica alla precisione che si vuole ottenere.<br />
Non era così con la foto tradizionale, nella quale ci si doveva<br />
‟accontentare” delle caratteristiche delle pellicole, per quanto<br />
queste fossero di tutto rispetto, ma oltre non si poteva andare.<br />
Il numero totale di colori, tra i quali potremo scegliere quello da<br />
attribuire al singolo pixel, viene definito: profondità di colore.<br />
80
8 - Il CCD<br />
Abbiamo visto come sia possibile, in linea teoria, digitalizzare<br />
un’immagine. Si tratta semplicemente di dividerla in tanti quadratini<br />
e per ognuno di essi stabilire il colore, confrontandolo con una<br />
serie di colori a disposizione, e tradurre il colore di ogni quadratino<br />
in un numero che identifichi il colore stesso fra tutti quelli<br />
disponibili.<br />
Questa serie di numeri, ordinata, sarà capace di riprodurre<br />
l’immagine di partenza. Ovviamente più è alto il numero di<br />
quadratini, ovvero più piccoli sono i quadratini stessi, insomma più<br />
alta è la risoluzione, e più numerosi sono i colori a disposizione,<br />
insomma più alta è la profondità di colore, più la rappresentazione<br />
dell'immagine sarà accurata.<br />
Tutto ciò è abbastanza semplice da fare, anche se<br />
estremamente lungo e noioso, per un essere umano, ma come fa<br />
la macchina fotografica a dividere l’immagine in tanti quadratini e a<br />
capire che colore c’è in ognuno di essi?<br />
Il segreto sta in quel dispositivo elettronico che sostituisce, nelle<br />
fotocamere digitali, la pellicola tradizionale, ovvero quello che<br />
abbiamo chiamato CCD. Il nome è l’acronimo di Charge Coupled<br />
Device, e si riferisce al funzionamento del dispositivo stesso, che è<br />
molto sofisticato e del quale darò una descrizione molto<br />
semplificata al solo scopo di comprenderne il funzionamento.<br />
Tutto si basa su un dispositivo elettronico semplice e molto<br />
diffuso chiamato fotodiodo.<br />
81
Il fotodiodo è capace di trasformare l’energia luminosa<br />
proveniente da una sorgente luminosa in energia elettrica. È<br />
utilizzato frequentemente, per esempio negli automatismi che<br />
regolano l’apertura di cancelli: in quel caso l’interruzione del raggio<br />
luminoso viene avvertito dal fotodiodo, che cessa di fornire<br />
l’energia elettrica ad un circuito, che provvede allora ad aprire il<br />
cancello.<br />
Se collegassimo un fotodiodo ad una lampadina, questa<br />
sarebbe percorsa dalla corrente elettrica generata dal fotodiodo ed<br />
indotta dalla fonte luminosa e si illuminerebbe emettendo a sua<br />
volta energia luminosa, in tal modo si avrebbe una doppia<br />
conversione di energia: da luminosa a elettrica, e da elettrica a<br />
luminosa.<br />
82
<strong>La</strong> rappresentazione del fotodiodo nelle figure precedenti è<br />
quella di un fotodiodo utilizzato appunto per gli automatismi dei<br />
cancelli elettrici, ma nelle nostre fotocamere è presente un<br />
fotodiodo, anzi una grande quantità di fotodiodi, di natura<br />
completamente differente, fotodiodi integrati che hanno una<br />
struttura di questo tipo (fortemente ingrandita nella figura):<br />
83
Si tratta in sostanza di una barretta di silicio purissimo, che<br />
viene drogata opportunamente con droganti tipo n e tipo p in modo<br />
da realizzare una giunzione n-p che si comporta come un<br />
fotodiodo.<br />
Le dimensioni incredibilmente ridotte di questo dispositivo,<br />
permettono la creazione simultanea di milioni di fotodiodi identici in<br />
pochissimo spazio.<br />
Tale possibilità di ridurre incredibilmente le dimensioni di diodi e<br />
transistor integrati è la ragione dell’incredibile sviluppo<br />
dell’elettronica a partire dagli anni ‛70 del secolo scorso, che ha<br />
dato la possibilità di creare tutti i dispositivi elettronici (computer,<br />
telefonini, Ipod, Iphone, Ipad e via dicendo) dai quali oggi siamo<br />
circondati.<br />
Il CCD non è altro che l’insieme di un numero elevatissimo di<br />
fotodiodi, che coprono tutta la sua superficie e sui quali l’obiettivo<br />
della macchina fotografica focalizza l'immagine.<br />
Un CCD, in verità molto scarso, composto da 1200 fotodiodi,<br />
ovvero 30 file di 40 fotodiodi ciascuna, ha il seguente aspetto:<br />
84
Quando l’obiettivo focalizza sul CCD l’immagine che il fotografo<br />
vuole immortalare, ogni fotodiodo si interessa ad una sola zona<br />
dell’immagine.<br />
Se ogni fotodiodo è in grado di rilevare il colore di quella<br />
particolare area in cui sta lavorando, il gioco è fatto e il nostro CCD<br />
ci darà una rappresentazione dell’immagine.<br />
85
È evidente che tale rappresentazione non è sufficiente,<br />
dovremo per forza ricorrere ad una risoluzione maggiore, utilizzare<br />
CCD con qualche milione di pixel, invece che 1200.<br />
Purtroppo c’è un problema molto più grave: l’immagine<br />
catturata dal fotodiodo non assomiglia neppure lontanamente a<br />
quella sopra, ma a questa:<br />
86
Il problema, molto grave, è che il fotodiodo non è in grado di<br />
rilevare il colore. Non sto scherzando: il fotodiodo rileva<br />
esclusivamente la luminanza dell’immagine, cioè la sua maggiore<br />
o minore luminosità, qualunque sia il colore, al quale non è affatto<br />
sensibile.<br />
Il colore purtroppo sembra essere una materia tipica ed<br />
esclusiva del cervello umano e poco interessante per il resto<br />
dell’universo.<br />
A questo punto è indispensabile chiedersi che cosa sia<br />
realmente il colore. Non sarà però più sufficiente studiare la luce<br />
secondo le regole dell’ottica geometrica: questa non riesce a<br />
spiegare il colore.<br />
87
9 – Il colore<br />
<strong>La</strong> nuova definizione della luce è questa: la luce è un’onda<br />
elettromagnetica con lunghezza d’onda da 400 a 700 nanometri,<br />
ogni lunghezza d’onda corrisponde ad un colore diverso.<br />
Ovviamente tutto ciò necessita di qualche spiegazione.<br />
Innanzitutto che cosa è un’onda? Due tipi di onde sono molto<br />
comuni: le onde del mare e le onde sonore. Le onde<br />
elettromagnetiche sono della stessa natura.<br />
Guardiamo un’onda marina: in essa non c’è, come si potrebbe<br />
pensare, un trasporto orizzontale di acqua (salvo le onde sulla<br />
battigia), l’acqua ha solo un movimento verticale, si alza e si<br />
abbassa, come testimoniano i gabbiani, che dormono sull’acqua e<br />
si cullano con il dolce su è giù di essa, ma non rischiano di<br />
svegliarsi in un luogo diverso da quello in cui si erano<br />
addormentati.<br />
Tuttavia il movimento dell’onda, il suo andare su e giù si<br />
trasmette orizzontalmente, ovvero succede un fenomeno simile a<br />
quello degli spettatori che in uno stadio che fanno la cosiddetta<br />
‟ola”: essi si alzano e si siedono in sequenza, in modo che, visto<br />
dall’esterno, lo stadio sembra percorso da un’onda, e lo è, ma ogni<br />
spettatore rimane al proprio posto. Però l’informazione viaggia e fa<br />
il giro dello stadio o il giro dei sette mari: un naufrago in un’isola<br />
deserta potrebbe vedere l’onda sull’acqua a lui vicina e dedurne<br />
che qualcuno molto lontano ha generato quell’onda per lui.<br />
Lo stesso avviene per le onde sonore, se io urlo, l’aria vicina<br />
alla mia bocca si muove e preme sull’aria intorno, mettendola a<br />
sua volta in agitazione e così via fino all’aria intorno alle orecchie di<br />
una persona, magari lontana, provocando il movimento degli<br />
organi interni delle sue orecchie, i quali a loro volta stimolano i<br />
centri nervosi del suo cervello, così che alla fine questa persona<br />
può dire di aver ascoltato le mie parole. L’informazione ha dunque<br />
viaggiato, ma l’aria è rimasta ferma: parlando, non ho provocato<br />
nessun vento.<br />
Una cosa molto simile avviene con le onde elettromagnetiche,<br />
88
delle quali fa parte la luce: in questo caso si tratta di mettere in<br />
azione il campo elettromagnetico che, pur essendo invisibile, si<br />
propaga in modo analogo alle onde marine ed alle onde sonore e<br />
trasmette la sua informazione.<br />
Come è fatta un’onda? Più o meno così:<br />
Un qualcosa, aria, acqua o campo elettromagnetico si alza e si<br />
abbassa, con regolarità, ripetendo sempre lo stesso andamento.<br />
Un’onda può essere più alta o più bassa, si dice che varia la sua<br />
intensità, ovvero la sua forza: per esempio se urlo invece che<br />
parlare, l’onda che emetto sarà quella di colore blu invece che<br />
quella rossa, mentre se parlo sottovoce l’onda sarà quella di colore<br />
verde:<br />
Ma le onde hanno anche un’altra caratteristica molto<br />
89
importante: esse non solo possono variare di intensità, ma<br />
possono anche essere più fitte o più rade. Per esempio l’onda blu<br />
compie il suo cammino completo in metà tempo di quella gialla, pur<br />
avendo la stessa intensità<br />
mentre l’onda rossa compie un cammino completo nel tempo in cui<br />
la gialla ne compie due e la blu quattro.<br />
Si dice, in questo caso, che l’onda blu ha una lunghezza d’onda<br />
pari alla metà di quella gialla e che l’onda rossa ha una lunghezza<br />
90
d’onda pari al doppio di quella gialla ed al quadruplo di quella blu.<br />
<strong>La</strong> lunghezza d’onda è infatti la lunghezza di un cammino<br />
completo dell’onda, la distanza tra due punti successivi nei quali<br />
l’onda assume lo stesso valore:<br />
Inoltre se in un secondo l’onda si sposta di 5 lunghezze d’onda<br />
si dice che essa ha una frequenza di 5 Hertz. Come si può<br />
facilmente capire lunghezza d’onda λ e frequenza f sono legati tra<br />
di loro da una formula :<br />
λ x f = c<br />
dove c è la velocità dell’onda.<br />
Nel caso delle onde elettromagnetiche tale velocità è<br />
incredibilmente elevata e pari a qualcosa come 300.000 Km al<br />
secondo.<br />
Ciò ha sempre fatto pensare che la velocità di propagazione<br />
della luce, come di tutte le onde elettromagnetiche, sia infinita, ma<br />
non è assolutamente vero; fino a pochi mesi fa la velocità della<br />
91
luce era considerata la massima velocità possibile in natura, oggi<br />
alcuni esperimenti sembrano invece contraddire tale ipotesi, in<br />
ogni caso è una velocità non infinita.<br />
Il nostro mondo è sommerso dalle onde elettromagnetiche:<br />
l’unica differenza tra le varie onde è la loro frequenza o se si<br />
preferisce la loro lunghezza d’onda. Quindi tra la telefonata con i<br />
vostri amici al telefonino, il programma televisivo che preferite e la<br />
luce del sole, c’è solo una piccola e fondamentale differenza di<br />
lunghezza d’onda.<br />
Per meglio comprendere ciò si osservi il seguente diagramma:<br />
o se si preferisce l’analogo espresso in frequenze invece che in<br />
lunghezze d’onda:<br />
92
Insomma se il nostro telefonino fosse in grado di variare la<br />
lunghezza d’onda con la quale trasmette le nostre telefonate,<br />
saremmo in grado, variando la lunghezza d’onda verso l’alto, di<br />
vedere i programmi televisivi e, variandola verso il basso, di<br />
emettere stupendi colori, o addirittura fare la radiografia di chi ci<br />
sta intorno.<br />
Per quanto ci interessa al momento, ci basterà ricordare che la<br />
luce è un’onda elettromagnetica con la lunghezza d’onda<br />
compresa fra i 400 e i 700 nanometri (1 nanometro = 0,000000001<br />
metri).<br />
Possiamo dividere lo spazio fra 400 e 700 nanometri in cento<br />
pezzi ed otterremo cento colori diversi, o dividerlo in cento miliardi<br />
di pezzi ed otterremo cento miliardi di colori diversi.<br />
93
Ecco perché il numero di colori è infinito, o per meglio dire è<br />
tanto grande quanto lo vogliamo far essere.<br />
Ma come possiamo gestire allora una tale infinità di colori?<br />
Diciamo che tale infinità può essere assimilata ad uno spazio<br />
tridimensionale, cioè possiamo classificare i colori fissando i valori<br />
di tre soli parametri. Questi parametri possono essere di vario tipo.<br />
<strong>La</strong> prima classificazione, la più intuitiva e comune, anche se, è<br />
bene dirlo subito, non è una classificazione assoluta, è quella detta<br />
RGB (ovvero Red, Green, Blue; ossia Rosso, Verde e Blu).<br />
Se proiettiamo tre fasci di luce verso i nostri occhi e li facciamo<br />
incontrare, avremo come risultato la creazione di altri colori, il<br />
ciano, il magenta, il giallo e il bianco, che non è, come si potrebbe<br />
erroneamente pensare, l’assenza di colore, ma anzi, la<br />
contemporanea presenza dei tre colori suddetti, rosso, verde e blu,<br />
che si chiamano colori primari additivi, perché dalla loro<br />
mescolanza si possono ottenere tutti gli altri colori. Se non è<br />
presente alcun colore, quindi non c’è luce, c’è il buio e si forma il<br />
colore nero, che proprio un colore non è, ma è l’assenza di ogni<br />
colore.<br />
94
In questo caso ogni colore primario è stato utilizzato al<br />
massimo, ovvero come si dice, con saturazione massima.<br />
Se si usano saturazioni diverse, fino ad arrivare a saturazione 0<br />
ovvero al nero, si ottengono altri colori.<br />
Allora il numero di colori ottenibile è proporzionale al numero di<br />
rossi, di verdi e di blu che si usano, se per esempio, come accade<br />
nella maggior parte dei casi pratici, se si divide l’intervallo tra<br />
saturazione massima e saturazione 0 in 256 valori, ottengo 256<br />
valori di rosso, 256 di verde e 256 di blu, che danno un numero<br />
95
totale di combinazioni e quindi di colori pari a 256 x 256 x 256 =<br />
16.777.216.<br />
Invece il numero minimo di colori ottenibile è 8 e deriva dal fatto<br />
di considerare solo, per ogni colore primario, il colore pieno ed il<br />
nero, in tal modo si hanno 2 x 2 x 2 = 8 colori. Possiamo darne una<br />
rappresentazione grafica tridimensionale in questo modo:<br />
Se invece utilizziamo 4 valori per ogni colore primario avremo 4<br />
x 4 x 4 = 64 colori:<br />
96
Se invece ogni colore viene scomposto in 8 valori otterremo 8 x<br />
8 x 8 = 512 colori:<br />
97
Come si noterà, l’intervallo di ogni colore primario è sempre<br />
diviso per un multiplo di due: due, quattro, otto, sedici, trentadue,<br />
sessantaquattro, centoventotto e infine duecentocinquantasei nel<br />
caso pratico che è utilizzato quasi sempre.<br />
Ciò deriva dal fatto che il sistema di numerazione utilizzato nei<br />
computer è quello binario: due intervalli di rosso significa utilizzare<br />
un bit, quattro intervalli, utilizzarne due, otto, tre e così via fino a<br />
256 intervalli, ovvero otto bit.<br />
Per questo il numero di valori di un colore primario si chiama<br />
profondità di colore ed è espresso in bit. Nel capitolo seguente è<br />
approfondito il concetto di bit e di aritmetica binaria<br />
98
Il sistema RGB è molto usato per la sua semplicità ed<br />
anche per la sua intuibilità: tuttavia non è l’unico sistema e in più<br />
presenta il grosso difetto di essere un sistema non assoluto di<br />
definizione del colore. In sostanza il sistema RGB ci dà una ricetta<br />
per costruire un colore in base ad una precisa mescolanza di<br />
rosso, verde e blu, ma tralascia di definire questi tre colori primari.<br />
Un sistema invece che è assoluto è quello denominato <strong>La</strong>b,<br />
che però è molto meno intuitivo.<br />
In esso un colore è definito al solito da tre grandezze, la prima è<br />
L la luminanza che va da 0 (nero) a 100 (bianco). Tale parametro è<br />
molto interessante perché definisce il valore di grigio che un colore<br />
produce, allorché lo si fotografa in bianco e nero (attenzione,<br />
bianco e nero è un’espressione comune, ma errata, si dovrebbe<br />
dire scala di grigi). Poi ci sono due grandezze che definiscono la<br />
cromaticità dell’oggetto, e che variano da -120 a +120: esse sono a<br />
che definisce la cromaticità dal magenta (+120) al verde(-120) e b,<br />
che definisce la cromaticità dal blu (-120) al giallo (+120).<br />
Questo sistema è importante perché è assoluto, infatti i colori<br />
99
definiti da esso sono univoci e non dipendono dal dispositivo,<br />
come invece succede nel caso del RGB.<br />
Inoltre, come detto, il valore di luminanza è quello percepito<br />
dall’occhio umano quando la foto è in bianco e nero. Ciò ha una<br />
reale e fondata ragione psicologica, perché il meccanismo della<br />
visione è fatto in modo che il cervello riceva prima un’informazione<br />
di luminanza e poi, qualche attimo più tardi, le informazioni di<br />
cromaticità. In sostanza il cervello umano vede prima la scena in<br />
bianco e nero (scala di grigi e poi nota i colori. Forse questa è la<br />
ragione del successo della fotografia in bianco e nero, che però si<br />
dovrebbe sempre chiamare in scala di grigi.<br />
Per capirlo meglio è utile mostrare la stessa immagine: a colori,<br />
in scala di grigi ed in bianco e nero.<br />
Allora riprendiamo una foto già utilizzata che è a colori, o per<br />
essere più esatti, con una profondità di colore di 3X8=24 bits (o<br />
ancora con 256 valori per ogni colore primario):<br />
100
Vediamo la stessa foto in scala di grigi: conserva solo le<br />
informazioni di luminanza, nel senso specificato poco fa, è una foto<br />
con profondità di colore di 8 bits (o 256 colori, o meglio toni di<br />
grigio totali).<br />
Invece la foto in bianco e nero è un insieme di pixel o bianchi o<br />
neri, insomma è una foto in scala di grigi con profondità di colore di<br />
un solo bit (ossia 2 soli colori, il bianco ed il nero:<br />
101
Bene, ora abbiamo capito tutto della natura ondulatoria della<br />
luce e del colore, ma ci rimane da risolvere il problema di come far<br />
diventare il CCD sensibile al colore.<br />
Come si fa?<br />
In un modo semplice anche se potrà sembrare un po’<br />
artigianale.<br />
Basandosi sul fatto che i vari colori sono formati dalla<br />
mescolanza dei tre colori Rosso, Verde e Blu, si eseguono tre<br />
fotografie della stessa scena, ognuna con un solo tipo di luce, la<br />
rossa, la verde o la blu. Poi si mandano le tre foto in memoria e<br />
sarà compito del computer presente nella fotocamera di<br />
combinarle tra loro per ricostruire l’immagine a colori.<br />
102
Per fare ciò in un colpo solo (sarebbe impossibile chiedere al<br />
fotografo di scattare tre volte la stessa foto non muovendo la<br />
fotocamera), si deve costruire la fotocamera con tre CCD diversi,<br />
ognuno per un colore e preceduti da un filtro dello stesso colore, e<br />
un sistema ottico complicato che divida il fascio di luce proveniente<br />
dall’obiettivo in tre fasci uguali e li indirizzi ciascuno ad un CCD.<br />
In tal modo ogni CCD relativo ad un colore, registrerà<br />
un’immagine che sarà costituita o da quel colore o dal colore nero<br />
(assenza di colore).<br />
103
Le tre immagini poi saranno combinate dal computer della<br />
fotocamera che quindi ricomporrà l’immagine a colori per il<br />
fotografo.<br />
Un tale tipo di fotocamera però è molto costoso: di fatto si<br />
devono moltiplicare per tre i costi del CCD e poi il sistema di<br />
scomposizione del fascio di luce è molto delicato. Infatti questo<br />
sistema che viene utilizzato nelle videocamere di fascia elevata,<br />
non viene mai utilizzato nelle fotocamere, nelle quali si ricorre ad<br />
un sistema molto più semplice.<br />
In pratica si utilizza un solo CCD, i cui fotodiodi sono però<br />
schermati in modo da registrare ognuno un solo colore, o il rosso,<br />
o il verde, o il blu.<br />
104
Come si vede dalla figura precedente ogni fotodiodo è stato<br />
schermato con un filtro rosso o verde o blu. Nella pratica si usa<br />
uno schema di filtraggio diverso, in cui si ha un numero maggiore<br />
di fotodiodi verdi che rossi o blu, questo per una questione di<br />
psicologia della percezione, in quanto il cervello umano è molto più<br />
sensibile al colore verde che agli altri due, ma il funzionamento del<br />
CCD non cambia.<br />
Succede però che, in questo caso, la risoluzione vera del CCD<br />
è un terzo di quella dichiarata dal fabbricante. Infatti se per<br />
esempio il CCD ha 3 milioni di pixel, esso sarà però in grado di<br />
fornire solamente un milione di valori nei tre colori fondamentali.<br />
Se da una parte questo fa rivedere al ribasso la risoluzione di<br />
105
un CCD, dall’altra si deve notare che le risoluzioni dei moderni<br />
CCD diventano ogni giorno sempre più alte e quindi non ci sono<br />
problemi.<br />
106
10 – Un po’ di aritmetica<br />
Abbiamo spesso parlato di bit, di byte, e di quantità<br />
stranamente legate al numero 2 ed alle sue potenze: 4, 8, 16, 32,<br />
64, 128, 256, 512 e via dicendo.<br />
Cominciamo con un indovinello. Riuscite a capire il senso di<br />
questa frase:<br />
Le persone si dividono in 10 gruppi: quelle che conoscono il<br />
sistema binario e quelle che non lo conoscono.<br />
A prima vista sembra un’affermazione assurda, ma invece è<br />
verissima: la chiave di comprensione sta tutta nell’interpretazione<br />
di quel numero 10.<br />
Una cosa sono i numeri, un'altra la loro rappresentazione. Se<br />
per esempio io penso al concetto di ventisette pecore, trovo che<br />
c'è una certa somiglianza con il concetto di ventisette mele, ed è<br />
proprio questa indicazione di quantità: ventisette oggetti uguali.<br />
Scrivo ventisette in lettere proprio perché voglio sottolineare il<br />
concetto.<br />
Se voglio invece dare una rappresentazione matematica del<br />
concetto di ventisette, uso questa simbologia:<br />
Perché dico queste cose così ovvie? Perché non sono così<br />
ovvie. Non sempre il ventisette è rappresentato con 27. Per<br />
esempio gli arabi lo rappresentano così:<br />
٢٧<br />
Ma questa non è una differenza notevole, è solo una diversa<br />
lingua, che usa simboli differenti, ciascuno però collegato ad uno<br />
ed uno solo dei nostri simboli.<br />
Un modo invece differente di rappresentare il ventisette era<br />
27<br />
107
quello usato dai Romani:<br />
XXVII<br />
che non ha niente a che vedere con il nostro sistema, né con<br />
quello arabo, né con il prossimo che introdurremo.<br />
Il nostro sistema, chiamato sistema decimale, si basa<br />
sull'utilizzo di dieci cifre (digit, ricordate?) differenti che sono:<br />
0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9<br />
Con queste dieci cifre, con un particolare trucchetto che ci viene<br />
insegnato alle scuole elementari, riusciamo a rappresentare tutti i<br />
possibili ed immaginabili numeri, figuriamoci il ventisette. Come<br />
facciamo? Semplice, non diamo alle cifre solo un significato per la<br />
forma che hanno, ma anche un significato per la posizione nella<br />
quale le mettiamo. Questo vuol semplicemente dire che se<br />
abbiamo due cifre, quella di sinistra vale dieci volte quella di<br />
destra; se abbiamo tre cifre quella al centro vale dieci volte quella<br />
di destra, mentre quella a sinistra vale cento volte quella di destra<br />
e dieci volte quella centrale.<br />
E così via: possiamo scrivere tutti i numeri che vogliamo,<br />
quando le cifre non ci bastano, ne aggiungiamo una nuova a<br />
sinistra e gli diamo un valore dieci volte superiore all'ultima<br />
utilizzata.<br />
In questo modo con le dieci cifre semplici riusciamo a<br />
rappresentare tutti i numeri dallo zero al nove:<br />
zero 0<br />
uno 1<br />
due 2<br />
108
tre 3<br />
quattro 4<br />
cinque 5<br />
sei 6<br />
sette 7<br />
otto 8<br />
nove 9<br />
Dopo, per rappresentare i numeri dal dieci in poi aggiungiamo<br />
una cifra a sinistra con la convenzione che vale dieci volte la cifra<br />
che rappresenta, vale a dire che 2 significa venti, 5 cinquanta e<br />
così via:<br />
dieci 10<br />
undici 11<br />
venti 20<br />
ventisette 27<br />
trentasette 37<br />
quarantaquattro 44<br />
sessanta 60<br />
settantacinque 75<br />
ottantuno 81<br />
novantanove 99<br />
E così via, con due cifre possiamo rappresentare cento numeri,<br />
quelli dallo zero al novantanove. Se mettessimo tre cifre, potremo<br />
rappresentare mille numeri dallo zero al novecentonovantanove.<br />
Questo sistema, il decimale, è così in uso presso tutti (o quasi) i<br />
popoli della terra, che non ci facciamo più caso.<br />
Quando nacquero i primi computers ci si pose il problema di<br />
come rappresentarli dentro la pancia del computer stesso.<br />
I computer sono macchine elettriche e pertanto i numeri devono<br />
109
essere grandezze elettriche, per esempio correnti o tensioni, le<br />
quali dovranno assumere però (i computer sono digitali, quindi<br />
numerici e non analogici), solo alcuni valori.<br />
Rappresentare dieci cifre apparve un po' difficile, soprattutto era<br />
facile fare errori: il computer avrebbe dovuto distinguere tra dieci<br />
diversi livelli di tensione o di corrente, con la possibilità di fare<br />
errori.<br />
Se invece ci fossero state solo due cifre, la cosa sarebbe stata<br />
molto più semplice; ci sarebbero stati solo due livelli di corrente da<br />
valutare, per esempio: c’è corrente di qualsiasi valore? Allora è uno<br />
Non c’è corrente per niente? Allora è zero. Non si può sbagliare.<br />
Ma come sarebbe il mondo con un sistema non più decimale,<br />
ma duale, o come si chiama veramente, binario?<br />
Del tutto uguale al mondo decimale, solo ricordando che non<br />
esiste la cifra 2 e se si vuole rappresentare il numero due si<br />
devono usare due cifre. Con due cifre non andiamo però molto<br />
lontano, si possono rappresentare i numeri fino al tre, dopo ce ne<br />
vogliono tre con le quali si arriva al sette, poi quattro per arrivare al<br />
15 e così via:<br />
zero 0<br />
uno 1<br />
due 10<br />
tre 11<br />
quattro 100<br />
cinque 101<br />
sei 110<br />
sette 111<br />
otto 1000<br />
nove 1001<br />
110
dieci 1010<br />
undici 1011<br />
dodici 1100<br />
tredici 1101<br />
quattordici 1110<br />
quindici 1111<br />
Tutto qui, il resto è identico, basta ricordarsi che dopo l'1 non<br />
viene il 2 ma il 10 e via dicendo e se si vogliono fare delle addizioni<br />
ricordare che<br />
1+0 = 1<br />
ma che:<br />
1+1 dà 0 col riporto di 1, ovvero 10<br />
E così l’indovinello iniziale, se il numero è rappresentato in<br />
forma binaria, si deve leggere:<br />
Le persone si dividono in due (10) gruppi: quelle che<br />
conoscono il sistema binario e quelle che non lo conoscono.<br />
Il sistema binario è il sistema usato in tutti i computer del<br />
mondo: è il sistema con il quale la nostra macchina fotografica<br />
<strong>digitale</strong> immagazzina nella sua memoria le immagini che le<br />
abbiamo fatto scattare.<br />
Abbiamo visto che comunemente si usa una profondità di<br />
colore che prevede 256 livelli di rosso, e altrettanti di verde e di<br />
blu. In sostanza ogni pixel sarà rappresentato da una tripletta di<br />
111
numeri che possono assumere tutti i valori positivi da 0 a 255. Ma<br />
questo se si usa un sistema decimale. Invece i computer usano il<br />
sistema binario e i valori delle triplette dei pixel vanno da :<br />
00000000 ovvero zero<br />
a:<br />
11111111 ovvero 255<br />
Come si può notare servono 8 cifre per scrivere i possibili valori<br />
di un colore. Questo perché abbiamo fatto l'ipotesi che i colori<br />
siano 256, e 255 è il massimo numero che si può scrivere con 8<br />
cifre binarie.<br />
Ogni cifra binaria si chiama bit, acronimo di binary digit, cifra<br />
binaria<br />
È giusto allora dire che la nostra foto ha 24 bits di profondità<br />
colore, o, che è lo stesso, ha una profondità di 8 bits per ogni<br />
canale di colore.<br />
Una foto in scala di grigi con 256 toni di grigio ha invece una<br />
profondità colore di soli 8 bits totali.<br />
Una foto in bianco e nero, una reale foto in bianco e nero, ha<br />
una profondità di colore di 1 bit, e solo due colori, il bianco ed il<br />
nero.<br />
Il gruppo di 8 bit, si chiama byte.<br />
112
11 – <strong>La</strong> fotocamera <strong>digitale</strong><br />
Torniamo alla nostra fotocamera: abbiamo visto praticamente<br />
tutto quello che riguarda la parte ‟camera oscura”, ora vediamo la<br />
parte di essa che si occupa della cattura e della conservazione<br />
dell'immagine ossia quella dopo il CCD.<br />
Diamo quindi un'occhiata alla figura seguente, dove sulla<br />
sinistra vediamo l’obbiettivo e sulla destra il CCD con una serie di<br />
dispositivi dei quali adesso spiegherò la funzione.<br />
Ho già detto che ogni fotocamera <strong>digitale</strong> possiede un computer<br />
interno che dirige tutte le operazioni. Questo computer, non<br />
indicato nella figura, dopo ogni scatto deve leggere i valori di ogni<br />
fotodiodo e immagazzinarli nella memoria della macchina.<br />
Un momento però: il CCD ha rilevato l'intensità della luce (non il<br />
colore) di ogni singola sua cella, ma che cosa andiamo a mettere<br />
in memoria, una corrente? Come facciamo: una corrente è una<br />
grandezza analogica, può essere valutata qualitativamente, per<br />
113
esempio facendola passare per un amperometro, che darà come<br />
indicazione, lo spostamento di una lancetta, o facendola passare<br />
per il proprio corpo, ottenendo un'indicazione soggettiva, ma<br />
neanche troppo.<br />
In una memoria elettronica possono starci solo numeri, cifre, ed<br />
allora serve una conversione da una grandezza analogica,<br />
l’intensità della corrente.<br />
Questa conversione viene effettuata da un dispositivo chiamato<br />
appunto Convertitore analogico-<strong>digitale</strong>.<br />
Non starò qui a spiegare il funzionamento di un convertitore<br />
analogico <strong>digitale</strong>, andrei oltre lo scopo di questo corso; d’altronde<br />
questi dispositivi sono molto comuni, di dimensioni molto ridotte e<br />
costano ormai pochissimo, come tutti o quasi i componenti<br />
elettronici.<br />
Il convertitore analogico-<strong>digitale</strong> ha, funzionalmente, la<br />
seguente struttura:<br />
Il suo funzionamento è molto semplice: al suo ingresso riceve la<br />
corrente generata dai fotodiodi ed alla sua uscita fornisce una cifra<br />
binaria attraverso un numero di connettori pari al numero di bit<br />
della profondità di colore. Se, come nella stragrande maggioranza<br />
dei casi, la profondità di colore è di 8 bit il convertitore avrà otto<br />
114
connettori di uscita su ognuno dei quali esso farà uscire il valore<br />
corretto, ovvero un 1 (tensione prossima ai 5 volts) oppure 0<br />
(tensione prossima a 0 volts). leggendo questi bits, nel caso in<br />
figura 01011001, si avrà il valore dell'intensità del colore letto da<br />
quel fotodiodo, nel caso in figura 89.<br />
Naturalmente non ci sarà un convertitore per ogni fotodiodo, ma<br />
i valori dei vari fotodiodi verranno letti ad uno ad uno dal CCD e<br />
fatti ‘scorrere’ nel convertitore e prelevati ordinatamente all’uscita<br />
di esso. È proprio la capacità di ‛scorrimento’ del CCD a dare ad<br />
esso il suo nome.<br />
Per quanto riguarda la conversione, dobbiamo tener conto di<br />
una cosa molto importante. Il convertitore in pratica ‟approssima” il<br />
valore di una corrente, che può assumere tutti i valori, a un insieme<br />
di valori definiti. Per esempio, considerando per semplicità, un<br />
convertitore analogico <strong>digitale</strong> a 3 soli bit cioè capace di dare in<br />
uscita solo 8 valori, che chiameremo per comodità. 0, 1, 2, 3, 4, 5,<br />
6, 7 , il convertitore leggerà la corrente in ingresso e la confronterà<br />
con una sua tabella interna che assegnerà ad ogni corrente uno<br />
dei valori in uscita.<br />
115
Per esempio, sempre facendo riferimento alla figura, per tutti i<br />
valori di corrente da 110 a 120 mA il convertitore assegnerà in<br />
uscita il valore 3, per ogni valore da 140 a 150 mA assegnerà il<br />
valore 6 e per ogni valore superiore a 140 mA assegnerà sempre il<br />
valore 7, così come per ogni valore inferiore a 90 mA assegnerà<br />
sempre e comunque il valore 0. Ora bisogna stare molto attenti a<br />
far lavorare il convertitore nel campo della conversione, ovvero tra<br />
90 e 150 mA, perché sopra 150 mA e sotto 90 mA il convertitore<br />
continuerà a fornire rispettivamente i valori 7 e 0 anche se i valori<br />
in ingresso saranno diversi. Per esempio se in ingresso si presenta<br />
il valore 10 mA, il convertitore darà 0 come se si fosse presentato il<br />
valore 90 mA; e se in ingresso si presenta il valore 230 mA il<br />
convertitore darà in uscita il valore 7 come se in ingresso ci fosse il<br />
valore 150 mA.<br />
Questo fenomeno inevitabile si chiama saturazione, cioè il<br />
dispositivo non è più in grado di comportarsi correttamente e dà in<br />
uscita valori piatti. Tradotto in termini di colore questo significa<br />
semplicemente che se si costringe il CCD, e quindi il convertitore,<br />
a lavorare con valori troppo alti o troppo bassi, cioè con colori<br />
troppo chiari o troppo scuri, esso non potrà darci in uscita altro che<br />
il colore bianco o il colore nero, perdendo i veri colori che erano<br />
presenti nella scena.<br />
Adesso è possibile chiedere alla macchina fotografica di<br />
archiviare in memoria i dati: avremo un solo valore per ogni pixel e<br />
sarà il valore del colore rosso, verde o blu a seconda dei casi. I<br />
dati sono chiamati in questo caso di tipo RAW, cioè grezzi, così<br />
come escono dal CCD, o meglio dal convertitore analogico<strong>digitale</strong>.<br />
Attenzione: non tutte le fotocamere permettono di salvare i dati<br />
a questo punto ed in questo formato, ma molte costringono il<br />
fotografo a far subire una o due ulteriori elaborazioni dei dati delle<br />
proprie foto che quindi non sono più le autentiche viste dal CCD,<br />
116
ma sono elaborazioni di queste.<br />
<strong>La</strong> prima elaborazione che subiscono le foto è<br />
l’INTERPOLAZIONE. Che cosa significa? Significa che il computer<br />
della fotocamera cerca di ricostruire per ogni pixel i valori dei due<br />
colori non rilevati e riportare quindi il valore totale dei pixel pari al<br />
numero dei fotodiodi. Come? Vediamolo.<br />
Supponiamo che in una certa porzione del CCD i fotodiodi<br />
abbiano rilevato i valori scritti in figura, ognuno per un colore:<br />
Adesso, se per esempio soffermiamo la nostra attenzione sul<br />
pixel rosso in cui è stato rilevato il valore 150 e vogliamo trovare<br />
per questo pixel un valore anche per i colori verde e blu potremo<br />
procedere nel modo seguente<br />
117
<strong>La</strong>sciamo il valore del rosso uguale a 150, di questo siamo certi<br />
e non cambierà. Poi consideriamo i pixel vicini che hanno misurato<br />
i valori del blu: abbiamo un 160, un 200 ed un 180. Chiediamoci:<br />
se ci fosse stato un fotodiodo per il blu nel pixel che ha rilevato il<br />
rosso, quanto avrebbe potuto leggere? Non lo sappiamo, ma<br />
possiamo ragionevolmente supporre che avrebbe letto un valore<br />
intermedio tra i tre vicini e cioè la media di 200, 160 e 180 e cioè<br />
(200+160+180)/3 ovvero 180<br />
Possiamo allora assegnare a questo pixel il valore di 180 per il<br />
blu e dedicare la nostra attenzione al colore verde ed ai tre pixel<br />
vicini che lo hanno misurato effettivamente. Anche qui stessa<br />
procedura e otteniamo: (120+100+110)/3 ovvero 110. E così per<br />
quel particolare pixel abbiamo trovato tutti e tre i valori dei tre<br />
colori. Attenzione però, uno solo è stato misurato, gli altri due sono<br />
stati solo calcolati, anzi, se vogliamo... un po’ inventati!<br />
118
Possiamo allora ripetere il procedimento per tutti i pixel del CCD<br />
ed ottenere tre valori per ogni pixel, quindi triplicare l’uscita del<br />
CCD, ma ancora dobbiamo ricordare che solo un terzo di tali valori<br />
sono reali, gli altri sono calcolati dal computer della fotocamera<br />
A questo punto possiamo chiedere alla fotocamera di salvare i<br />
dati così interpolati: saranno di tipo TIFF. Generalmente questo è<br />
possibile con tutte le fotocamere.<br />
119
Ma c’è un’altra elaborazione che la fotocamera è in grado di<br />
fare e che solitamente fa se non glielo proibiamo. <strong>La</strong> successiva<br />
elaborazione è la COMPRESSIONE dei dati. Che cosa significa?<br />
I dati, dopo l’interpolazione, sono molto numerosi: proviamo a<br />
fare un calcolo approssimato. Se il CCD ha per esempio 10<br />
Megapixels, ovvero 10 milioni di pixel (valore molto comune dei<br />
CCD attuali), avremo 10 milioni di valori per tre colori, ovvero 30<br />
milioni di valori per i quali saranno necessari 30 milioni di bytes<br />
ovvero di unità di memoria. Se consideriamo che le memorie<br />
attualmente disponibili arrivano a 4 miliardi di bytes o spendendo<br />
un po’ di più a 8 o 16 miliardi di bytes, vediamo che possiamo nei<br />
tre casi immagazzinare circa 133 o 266 o al massimo 532 foto.<br />
Non poche, ma neanche troppe, bisognerebbe disporre di varie<br />
memorie e sostituirle, oppure scaricare spesso la memoria della<br />
fotocamera.<br />
Allora i fabbricanti hanno predisposto una compressione dei<br />
dati per far stare nella memoria un numero maggiore di foto. Tale<br />
compressione può essere più o meno spinta, per esempio può<br />
ridurre i dati di 4 volte o di 8 oppure addirittura di 16 volte. Allora,<br />
considerando la memoria di 4 Gbytes (4 miliardi di bytes), nei tre<br />
casi di compressione avremo posto per 532, o 1064, o addirittura<br />
2128 foto. Magnifico no?<br />
Ma le foto hanno la stessa qualità anche quando sono<br />
compresse?<br />
Ovviamente no. Più forte è la compressione, più la qualità<br />
peggiora. Questo perché la compressione cancella dei dati.<br />
Però attenzione: la compressione non cancella dei dati scelti a<br />
caso, ma solo quelli che sono ‟meno importanti”, o per meglio dire,<br />
quelli per i quali l’occhio umano è meno sensibile. Per questo gli<br />
algoritmi di compressione funzionano molto bene e le foto<br />
compresse sono sostanzialmente uguali alle foto originali.<br />
I dati immagazzinati dopo la compressione sono del tipo JPEG.<br />
120
Per fare un parallelo con la musica, possiamo dire che le<br />
immagini compresse JPEG hanno più o meno la stessa qualità<br />
della musica compressa MP3, musica che noi ascoltiamo<br />
comunemente, senza onestamente notare grandi differenze con la<br />
musica dei CD originali.<br />
Possiamo renderci conto degli effetti della compressione<br />
comparando due foto dello stesso soggetto, la prima fatta senza<br />
compressione (TIFF), la seconda fatta con forte compressione<br />
(JPEG).<br />
<strong>La</strong> foto a sinistra non è compressa, ed è composta da (circa)<br />
14.000.000 di bytes o, come si dice, da 14 Megabytes, 14 MB. <strong>La</strong><br />
foto a destra è invece fortemente compressa tanto che il suo<br />
"peso" è di soli 520.000 bytes, ovvero circa 0,5 MB.<br />
Come si può vedere non sembra esserci alcuna differenza.<br />
Ma noi vogliamo trovarla questa differenza, è impossibile che le<br />
due foto siano uguali: facciamo allora un forte ingrandimento della<br />
parte della foto del vaso di fiori contro il pannello bianco.<br />
121
Vedete la differenza?<br />
No?<br />
Stavolta la differenza si vede, ma non è quella tragedia che ci<br />
aspettavamo. Guardiamo i pixel al centro, quelli tra i due rametti<br />
rossastri, dovrebbero essere di colore uniforme, il colore dello<br />
sfondo. Nella foto di sinistra lo sono abbastanza, mentre nella foto<br />
di destra ci sono molti pixel un po', per così dire, fuori dal coro,<br />
sporchi, frutto di errori di approssimazione.<br />
Però, accidenti, per avere una foto, tutto sommato, un po' più<br />
verosimile, e solo ad una livello di ingrandimento tale da non poter<br />
più avere nessuna utilità pratica, noi dobbiamo sobbarcarci il peso<br />
di un numero di bytes 28 volte superiore a quello richiesto da una<br />
buona, anzi a questo punto ottima, approssimazione.<br />
Complimenti allora al sistema JPEG, parente prossimo del<br />
processo MPEG che, come già detto, dà altrettanto ottimi risultati<br />
nella compressione dei file audio.<br />
122
Un errore molto comune è quello di confondere la<br />
compressione con la bassa risoluzione. Qui l'errore è molto grave,<br />
in quanto la bassa risoluzione dà foto estremamente scadenti, e<br />
questo solo per risparmiare bytes, risparmio che stavolta è<br />
veramente suicida.<br />
Diamo un' occhiata per esempio allo stesso particolare della<br />
foto ottenuta con una risoluzione molto bassa, tale però da<br />
occupare lo stesso ordine di grandezza del numero di bytes<br />
necessario con la massima compressione:<br />
A destra abbiamo la foto con bassa risoluzione, a sinistra la foto<br />
con alta compressione. Il numero dei bytes necessari è lo stesso<br />
per le due foto, ma vedete che già a livello di un ingrandimento non<br />
spinto la differenza qualitativa è abissale.<br />
123
12 – Breve storia della macchina fotografica<br />
<strong>La</strong> fotocamera <strong>digitale</strong> che abbiamo tra le mani è il prodotto<br />
finale (per il momento) di un processo lungo, anche se si è svolto<br />
in un arco di tempo piuttosto breve, circa un secolo e mezzo.<br />
<strong>La</strong> macchina fotografica è nata grande e costosa: vi ricordate<br />
certi film con il gruppo di famiglia immobile davanti ad un signore<br />
(solitamente con i baffi) che manovrava una complessa<br />
apparecchiatura composta da una scatola di legno, un grosso<br />
obiettivo ed un panno sotto il quale il signore con i baffi ogni tanto<br />
scompariva?<br />
Quelle erano le prima macchine fotografiche, costituite<br />
essenzialmente da una camera oscura e da un obiettivo, e<br />
praticamente nient’altro.<br />
Esistono anche oggi, e vengono chiamate banchi ottici.<br />
124
Costose, ingombranti, scomode da usare, hanno un utilizzo<br />
quasi esclusivo in studio, anche se ci sono alcuni snob che le<br />
usano anche in esterno, suscitando la curiosità della gente.<br />
Producono lastre di grosso formato (fino al 20 X 25 cm), anch'esse<br />
costosissime.<br />
<strong>La</strong> rivoluzione avvenne nei primi anni del secolo scorso, quando<br />
nella mitica fabbrica ottica della Leitz di Wetzlar, per collaborare<br />
alla progettazione di cineprese professionali, arrivò Oskar Barnach<br />
dalla Zeiss di Jena (altro mito tedesco dell'ottica), il quale, per<br />
risolvere problemi di esposizione della pellicola cinematografica,<br />
creò una macchinetta semplice e portatile per impressionare<br />
singoli fotogrammi di pellicola, sui quali poi calcolare la giusta<br />
esposizione per tutta la pellicola cinematografica.<br />
Uomo intelligente, si rese conto che quella macchinetta che<br />
aveva costruito poteva, non solo servire di corredo alla<br />
cinematografia, ma diventare una vera e propria macchina<br />
fotografica, che poteva tra l'altro utilizzare la comune pellicola<br />
cinematografica, rinunciando alle lastre, con risultati qualitativi<br />
ottimali. Nacque in tal modo il mito della Leica:<br />
125
Potrà sembrare uno scherzo, ma da quel momento nacque non<br />
solo la fotografia moderna, e non solo il formato 35 mm, ma anche<br />
la professione del "fotografo tra la gente" e del fotoreporter<br />
moderno.<br />
<strong>La</strong> Leica, dopo varie evoluzioni, che però non ne hanno alterato<br />
le caratteristiche estetiche e la struttura spartana, è stata la<br />
compagna fedele di tanti maestri della fotografia, Henry Cartier<br />
Bresson in primis, ed oggi, nella versione <strong>digitale</strong>, pur sempre però<br />
nella sua estetica di allora, costituisce forse la fotocamera più chic<br />
e anche per questo più costosa.<br />
126
Il problema della Leica era quello del mirino: il fotografo non<br />
poteva essere sicuro di cosa stesse fotografando, perché vedeva<br />
la scena con un sistema ottico, il mirino, completamente differente<br />
da quello con il quale avrebbe scattato la foto.<br />
Per questo quasi contemporaneamente fu introdotto un sistema<br />
di doppio obiettivo, uno per inquadrare la scena e uno per scattare<br />
la foto.<br />
In tal modo il sistema ottico di puntamento era ancora separato<br />
da quello di ripresa, ma almeno i due sistemi erano identici.<br />
I meno giovani ricorderanno le mitiche fotocamere Rolleiflex,<br />
utilizzate da tutti i fotografi professionisti negli anni '50 e '60.<br />
Il problema del mirino era così risolto, ma solo parzialmente,<br />
dato che c'era ancora un po' di differenza tra le immagini dei due<br />
obiettivi, inoltre la pellicola non poteva essere la comune pellicola<br />
cinematografica 35 mm, ma la più costosa pellicola in rulli.<br />
Nel 1948, l'industria ottica tedesca, nella fattispecie la Carl<br />
Zeiss di Jena, pur provata dalla disfatta della seconda guerra<br />
mondiale, riesce a produrre una nuova fotocamera, la Contax S<br />
nella quale un solo obiettivo serviva sia per inquadrare la scena,<br />
127
sia per impressionare la pellicola, che era ancora la vecchia e cara<br />
pellicola 35 mm, prodotta in quantità industriale per l'industria del<br />
cinema e quindi ottenibile a basso costo.<br />
<strong>La</strong> cosa era resa possibile dalla precisione dell'industria ottica<br />
dell'epoca: un prisma ed uno specchio mobile facevano deviare la<br />
luce dalla scena prima sull'occhio del fotografo e al momento dello<br />
scatto, quando lo specchio si alzava, sulla pellicola.<br />
128
Tutte le macchine fotografiche, da allora, hanno questo schema<br />
di principio detto SLR (single lens reflex). In aggiunta questo<br />
sistema permette anche l'intercambiabilità dell'obiettivo, separato<br />
dal corpo macchina.<br />
Il fotografo ha così a disposizione una serie di obiettivi e quindi<br />
di focali, di ingrandimenti e di angoli di campo, tali da soddisfare in<br />
modo semplice tutte le sue esigenze. Insomma il fotografo ora, con<br />
una sola borsa, anche se a volte un po' pesante, si può portare a<br />
spasso dove vuole un completo e potente studio fotografico.<br />
Nel 1959 la giapponese Nikon lancia sul mercato una<br />
fotocamera SLR che diventerà un mito e l’aspirazione di tutti i<br />
fotografi del mondo, la Nikon F, che segnerà anche l’inizio del<br />
predominio giapponese nel mercato fotografico.<br />
<strong>La</strong> Nikon F avrà una lunga evoluzione in tanti modelli che<br />
conserveranno nel nome la lettera F della loro antenata.<br />
Le macchine SLR rimasero però piuttosto costose, adatte alle<br />
tasche di molti, ma non di tutti, non di quelli che volevano fare<br />
qualche scatto la domenica ai giardini con i figli.<br />
Continuarono allora a svilupparsi macchine economiche, simili<br />
strutturalmente alla Leica, ma molto meno pregiate, con mirino<br />
129
tradizionale detto, non so perché, galileiano: una pietra miliare in<br />
questo ambito fu la Kodak Instamatic che venne venduta in 50<br />
milioni di esemplari dal 1963 al 1970.<br />
All'inizio degli anni '70 l'elettronica fa progressi incredibili: la<br />
continua e straordinaria miniaturizzazione dei circuiti integrati<br />
permette lo sviluppo di sofisticati apparati elettronici: nasce il<br />
microprocessore che entrerà in tutti gli oggetti comuni e costituirà<br />
la base dei moderni personal computer, ed anche delle<br />
fotocamere, che diventano sempre più evolute tecnicamente e<br />
dotate di completi automatismi.<br />
Si affermano le ditte giapponesi, Nikon, Canon, Pentax, Minolta,<br />
ma resta tuttavia la dicotomia tra fotocamera economica, cioè tipo<br />
Instamatic e fotocamera professionale, tipo Nikon F<br />
130
E quando compare la prima fotocamera <strong>digitale</strong>?<br />
Se vogliamo essere precisi, ci sono tentativi e prototipi già negli<br />
anni ‛80 del secolo scorso, e più avanti compaiono macchine<br />
digitali ottenute semplicemente applicando un dorso <strong>digitale</strong> ad<br />
una macchina tradizionale. <strong>La</strong> prima vera e propria fotocamera<br />
<strong>digitale</strong>, progettata ex novo come macchina <strong>digitale</strong> e la Nikon D1,<br />
del 1999.<br />
Proprio alla fine del secolo la fotocamera <strong>digitale</strong> si impone su<br />
quelle tradizionali e si divide in due comparti: il primo è quello delle<br />
macchine SLR, che rimangono molto costose<br />
131
Il secondo comparto è quello delle macchine cosiddette<br />
compatte, nelle quali la tecnica <strong>digitale</strong> e la incessante<br />
miniaturizzazione dei circuiti elettronici permettono di ridurre<br />
drasticamente le dimensioni, e con esse i costi.<br />
Questa è la situazione dei giorni nostri, sempre però in continua<br />
evoluzione.<br />
Solitamente chi ha intenzione di comprare una macchina<br />
fotografica <strong>digitale</strong> si pone queste domande:<br />
Che macchina dovrei comprare, con i soldi che ho?<br />
Se ho pochi soldi farò brutte foto?<br />
Se posso spendere qualsiasi cifra, diventerò un artista famoso?<br />
<strong>La</strong> risposta alle ultime due domande è : no.<br />
<strong>La</strong> risposta, mia personalissima, alla prima è:<br />
Nella scelta della fotocamera utilizza il denaro a disposizione<br />
per acquistare tecnologia, ma dimentica la vecchia separazione<br />
categorica:<br />
132
Fotografo professionista, artista = alta qualità =SLR<br />
Fotografo domenicale = bassa qualità = compatta.<br />
Sono intervenuti alcuni fatti importanti che hanno rivoluzionato il<br />
panorama delle macchine fotografiche.<br />
Il primo fatto fondamentale è la diffusione e la miniaturizzazione<br />
degli obiettivi zoom, obiettivi cioè nei quali è possibile variare la<br />
focale e quindi trasformarli in obiettivi diversi.<br />
Se si osserva per esempio l'obiettivo della figura precedente,<br />
adatto ad una macchina SLR, si nota come in esso siano presenti<br />
due distinte ghiere di regolazione: la prima è quella per la messa a<br />
fuoco, la seconda è quella che varia la focale. Nell'obiettivo della<br />
figura questa può variare da 70mm a 200mm, quindi questo<br />
obiettivo può fungere sia da obiettivo normale, che da obiettivo<br />
tele.<br />
Il secondo fatto importante deriva dall'introduzione del <strong>digitale</strong>.<br />
Con esso il formato della "pellicola", del CCD insomma si è<br />
notevolmente ridotto, consentendo in tal modo la riduzione anche<br />
delle dimensioni degli obiettivi. In tal modo oggi è molto comune<br />
133
trovare zoom dotati di fattore di ingrandimento pari a 12 X, il che<br />
significa che tale obiettivo può fungere da grandangolo (28 mm)<br />
fino a forte tele (350 mm). Significa allora che non ho più bisogno<br />
di cambiare obiettivo per soddisfare tutte le mie esigenze, posso<br />
contentarmi di uno solo che sia capace di far tutto e posso fare a<br />
meno dell'intercambiabilità dell'ottica, uno dei pilastri del sistema<br />
SLR.<br />
L'altro pilastro del sistema SLR era la completa uguaglianza tra<br />
immagine vista e immagine fotografata. Adesso però il mirino di<br />
una fotocamera <strong>digitale</strong> è molto particolare.<br />
In sostanza il CCD non ci fa vedere la scena inquadrata, ci fa<br />
addirittura vedere come sarà la foto che stiamo scattando. Inoltre<br />
dopo scattato possiamo decidere se la foto ci piace o meno, ed in<br />
caso negativo liberarsene immediatamente e scattarne un’altra<br />
Ciò era fantascienza con la pellicola.<br />
Allora il consiglio è semplice: lasciamo perdere la macchina<br />
SLR (o reflex come si usa comunemente dire): il fatto di essere<br />
reflex non dà alcun vantaggio, i vantaggi sono invece dati dalle<br />
reali caratteristiche tecniche della fotocamera. Quali sono? Provo<br />
ad elencarle.<br />
1) Risoluzione, ovvero numero totale dei pixel: più è alto, più<br />
la nostra fotocamera farà foto dettagliate, più potremo ingrandire le<br />
nostre stampe senza timore di vedere seghettature, oggi costa<br />
poco stare sopra i 5 - 6 Megapixels e si possono facilmente<br />
raggiungere i 10 - 12 Megapixels.<br />
2) Potenza e luminosità dell'obiettivo. Controlliamo il fattore di<br />
zoom del nostro obiettivo, più è alto, più l'obiettivo è potente e in<br />
grado di risolverci tutti i problemi; e teniamo conto anche della sua<br />
luminosità. Che cosa si intende per luminosità? Semplice è la<br />
massima apertura ottenibile: teoricamente potrebbe essere 1, ma<br />
nella pratica può scendere fino a 5.6 o addirittura a 8. L'obiettivo<br />
della figura precedente ha una luminosità 2.8, eccellente, ma<br />
134
provate a chiederne il costo!<br />
3) Possibilità di scattare in modalità a priorità di tempi, a priorità<br />
di diaframmi e in modo manuale. Se vogliamo fare foto un po'<br />
diverse questa possibilità è fondamentale.<br />
4) Possibilità di salvare foto in formato RAW. Vedremo in<br />
seguito le meravigliose possibilità di elaborazione che questo<br />
formato ci consente.<br />
5) Sensibilità. Più è alta, più riusciremo a fare foto in situazioni<br />
di luce debole.<br />
6) Velocità di archiviazione delle foto, in gran parte dipendente<br />
dalla memoria della macchina. Vedremo che aspettare anche<br />
qualche secondo può farci perdere occasioni preziose.<br />
Basta: tutto il resto è molto meno importante: se c'è ed il prezzo<br />
non aumenta, lo prendiamo, se c'è da tirar fuori altri soldi,<br />
limitiamoci al modello base.<br />
Un'ultima considerazione: le fotocamere compatte si possono<br />
tenere facilmente in tasca, le reflex necessitano di un borsone,<br />
pesante ed ingombrante.<br />
Una bella foto può nascere improvvisamente e magari quel<br />
giorno la borsa pesava troppo e l'abbiamo lasciata a casa!<br />
Non cadiamo nel tranello di comprare una macchina<br />
ingombrante per fare bella figura! <strong>La</strong> bella figura si fa con belle<br />
foto, non con macchine ingombranti.<br />
135
13 – Come si scatta una bella fotografia<br />
Siamo di fronte ad una scena che ha attirato la nostra<br />
attenzione, che ci sta procurando una certa emozione. Abbiamo<br />
con noi la nostra fotocamera, semplice o complicata, costosa od<br />
economica, e proviamo a scattare una foto che racchiuda<br />
quell’emozione che stiamo provando. Quali sono le<br />
raccomandazioni per fare una bella foto? Quali cose dobbiamo<br />
tenere sotto controllo, prima e mentre scattiamo la foto?<br />
Prima di tutto l'inquadratura. E' fin troppo ovvio: dobbiamo<br />
decidere quello che entrerà dentro la fotografia.<br />
Questo è ovvio, ma è anche la cosa più importante, quella che<br />
decide al 95% se la nostra sarà o meno una "bella" foto. Anzi se<br />
vogliamo essere precisi, tutto il resto che dovremo tenere sotto<br />
controllo, sarà nient'altro che un complemento, un aiuto a questa<br />
prima ed importante fase della cattura di quell'immagine, di quella<br />
rappresentazione della realtà che vogliamo estendere ad altri.<br />
Poi dobbiamo stare attenti che la quantità di energia luminosa<br />
che colpirà il CCD sia quella giusta a fare la nostra foto: non può<br />
essere maggiore, non può essere minore, deve essere quella<br />
giusta.<br />
Poi dobbiamo preoccuparci della messa a fuoco, del fatto cioè<br />
che gli oggetti nella foto siano nitidi, che tutti i punti luminosi che<br />
costituiscono la scena da riprendere producano punti luminosi<br />
nell'immagine o che perlomeno se non producono proprio dei<br />
punti, si limitino a produrre cerchi (di confusione) di un diametro<br />
molto ridotto. Questo però non è sempre vero. Possiamo in molti<br />
casi desiderare che alcune parti dell'immagine siano sfocate.<br />
Vedremo in seguito quali e perché.<br />
Bisogna anche controllare che i soggetti che nella scena si<br />
stanno muovendo, non siano mossi all'interno della fotografia.<br />
136
Anche in questo caso però può darsi che invece si debba<br />
accertarsi del contrario: del fatto cioè che alcuni soggetti in<br />
movimento nella scena non risultino invece fermi anche nella<br />
fotografia.<br />
Inquadratura, esposizione, messa a fuoco e movimento, quattro<br />
controlli da fare mentre si scatta una foto. Ma quali strumenti<br />
abbiamo a disposizione per fare ciò?<br />
Anche se le moderne fotocamere sono piene di pulsanti e<br />
selettori, le cose che possiamo controllare sono solo:<br />
a) mirino<br />
b) ghiera dello zoom<br />
c) ghiera di messa a fuoco<br />
d) ghiera dei diaframmi<br />
e) sel<strong>ettore</strong> dei tempi.<br />
Non ci sono altri comandi in una fotocamera. Anzi, ad essere<br />
precisi, a parte i primi due, gli altri non sono sempre disponibili in<br />
molte fotocamere, specialmente in quelle compatte, e se lo sono,<br />
sono azionabili non con ghiere e selettori ma con il software del<br />
menu della fotocamera.<br />
Probabilmente qualcuno a questo punto si chiederà come sia<br />
stato possibile per lui o per lei scattare foto tutto sommato belle,<br />
senza neanche sapere dove fossero la ghiera dei diaframmi o il<br />
sel<strong>ettore</strong> dei tempi.<br />
<strong>La</strong> ragione sta nel fatto che questi, come la stragrande<br />
maggioranza delle persone, ha fatto lavorare la fotocamera nella<br />
modalità AUTOMATICO, nella quale la macchina pensa a tutte le<br />
regolazioni, persino alla messa a fuoco.<br />
Le moderne fotocamere lavorano infatti sempre in modalità<br />
automatica e solo alcune, molte ma non tutte, hanno la possibilità<br />
di poter lavorare in altri modi.<br />
I modi di operare di una fotocamera sono:<br />
137
1) AUTOMATICO o PROGRAMMA<br />
2) PRIORITÀ di DIAFRAMMI<br />
3) PRIORITÀ DI TEMPI<br />
4) MANUALE<br />
5) PLAYBACK<br />
Esistono poi altre modalità, per esempio la ripresa<br />
cinematografica, ma questo esula dal nostro campo di interesse.<br />
<strong>La</strong> modalità di PLAYBACK, presente in tutte le fotocamere, non<br />
consente di scattare foto, ma solo di rivedere quelle già scattate.<br />
Per passare da una modalità di funzionamento all'altra è<br />
necessario o agire su un sel<strong>ettore</strong> dedicato o entrare in uno dei<br />
tanti menu che ha una fotocamera <strong>digitale</strong>:<br />
Nella figura sopra si vede uno di questi selettori: esso presenta<br />
varie posizioni ognuna contraddistinta da una lettera:<br />
138
P significa Programma o modalità Automatica.<br />
A significa modalità a priorità di diaframmi<br />
S significa modalità a priorità di tempi<br />
M significa modalità manuale<br />
il simbolo con il triangolo significa modalità di PLAYBACK.<br />
Vediamo il funzionamento della fotocamera nelle varie modalità.<br />
In modalità AUTOMATICA, è la fotocamera stessa che sceglie<br />
un tempo di esposizione ed un'apertura del diaframma in grado di<br />
garantire che il CCD sia investito dalla energia luminosa<br />
necessaria e sufficiente a fare una fotografia correttamente<br />
esposta.<br />
<strong>La</strong> fotocamera fa scelte piuttosto conservative ed evita di<br />
assumersi qualsiasi tipo di rischio, poiché essa non può sapere<br />
che tipo di scena il suo proprietario sta inquadrando in quel<br />
momento.<br />
Per esempio è possibile che il soggetto inquadrato sia un<br />
soggetto in movimento, e magari anche veloce, per cui la<br />
fotocamera ritiene necessario impostare cautelativamente un<br />
tempo abbastanza veloce, ad esempio inferiore a 1/125 di<br />
secondo. In tal modo tutti i movimenti per così dire "normali"<br />
saranno "congelati" e si eviteranno foto mosse.<br />
Inoltre la fotocamera presume anche che il fotografo stia<br />
riprendendo una scena con una certa profondità di campo, ovvero<br />
che oltre al piano principale sul quale essa ha già esercitato la<br />
messa a fuoco, ne esistano altri più vicini e più lontani nei quali<br />
esistano soggetti importanti per i quali la messa a fuoco è<br />
necessaria, anzi indispensabile. Quindi imposterà un diaframma<br />
piuttosto chiuso, superiore almeno a f/8.<br />
Tutto ciò potrebbe avere come risultato un'esposizione piuttosto<br />
scarsa, qualora le condizioni di illuminazione siano scarse, ovvero<br />
il valore LV non sia abbastanza elevato. <strong>La</strong> fotocamera allora<br />
139
deciderà di utilizzare il flash, in modo da creare artificialmente<br />
l'illuminazione necessaria a riprendere la scena con le impostazioni<br />
di diaframma e di tempo abbastanza "sicure". Questo spiega<br />
perché molto spesso si notano lampi di flash inspiegabilmente<br />
anche a mezzogiorno.<br />
In modalità A PRIORITÀ DI DIAFRAMMI, invece la fotocamera<br />
accetta il valore di diaframma che il fotografo ha scelto e cerca un<br />
valore del tempo di esposizione tale da garantire la corretta<br />
esposizione della foto.<br />
Non sempre ciò è possibile, ad esempio se ci troviamo in una<br />
situazione di illuminazione piuttosto scarsa e il fotografo ha scelto<br />
un diaframma molto piccolo per garantire una buona profondità di<br />
campo; può succedere che la fotocamera sia costretta a scegliere<br />
un tempo abbastanza lungo in modo che, senza l'utilizzo di un<br />
cavalletto, la foto risulterà irrimediabilmente mossa.<br />
In generale il limite oltre il quale tale eventualità diviene<br />
altamente probabile è 1/8 di secondo: al di sotto di tale tempo è<br />
altamente consigliabile l'utilizzo di un cavalletto, o perlomeno si<br />
deve appoggiare la fotocamera da qualche parte<br />
Di solito la fotocamera indica tale pericolo con una<br />
segnalazione luminosa, per esempio facendo diventare di colore<br />
giallo o rosso l'indicazione del tempo sul display.<br />
Può anche succedere, ma è più rara, l'eventualità opposta,<br />
ovvero che il fotografo abbia impostato un diaframma piuttosto<br />
aperto per ridurre la profondità di campo e che l'illuminazione della<br />
scena sia particolarmente forte: in tal caso la fotocamera può non<br />
trovare un tempo di esposizione abbastanza veloce da combinare<br />
un'esposizione corretta.<br />
In tal caso la fotocamera segnalerà al fotografo la situazione,<br />
facendogli presente che qualora egli decidesse di scattare lo<br />
stesso la foto, questa risulterebbe sovraesposta. Alcune<br />
fotocamere indicano anche di quanti stop è la sovraesposizione.<br />
140
In modalità A PRIORITÀ DI TEMPI, la fotocamera accetta il<br />
valore di tempo di esposizione scelto dal fotografo e cerca un<br />
valore di diaframma tale da garantire la corretta esposizione della<br />
foto. Anche in questo caso non è infrequente il verificarsi di<br />
situazioni critiche per l'esposizione.<br />
Per esempio se il fotografo ha impostato un tempo piuttosto<br />
veloce per congelare un movimento rapido, quello di una macchina<br />
da corsa ad esempio, e se l'illuminazione è piuttosto bassa, può<br />
accadere che la fotocamera non riesca a trovare un diaframma<br />
così grande da compensare l'esposizione.<br />
Oppure può accadere il caso opposto, quello nel quale il<br />
fotografo abbia impostato un tempo decisamente lungo e<br />
l'illuminazione della scena sia abbastanza forte: in tal caso risulterà<br />
impossibile per la fotocamera trovare un valore di diaframma così<br />
piccolo da compensare l'esposizione. In ambedue i casi la<br />
fotocamera darà chiare indicazioni al fotografo che la foto risulterà<br />
inevitabilmente sottoesposta nel primo caso e sovraesposta nel<br />
secondo.<br />
In modalità MANUALE; la fotocamera accetta i valori di<br />
tempo e di diaframma scelti dal fotografo senza fare altro, se non<br />
segnalare al fotografo situazioni di sovra o sottoesposizione dovute<br />
alle sue scelte.<br />
141
14 - L'inquadratura<br />
Parliamo adesso della fase più importante, anzi della fase<br />
fondamentale della fotografia: la scelta del soggetto e della sua<br />
inquadratura.<br />
Il soggetto o i soggetti sono ovviamente le cose che vogliamo<br />
fotografare e l'inquadratura è la loro disposizione nel rettangolo<br />
che costituirà la foto stessa. Tale disposizione è di importanza<br />
fondamentale, perché è in grado di valorizzare o di rendere banali i<br />
soggetti della foto stessa.<br />
Queste cose possono sembrare banali, ma non lo sono affatto;<br />
anzi considerarle banali è la causa principale di tante foto brutte.<br />
E' più che evidente che la scelta dell'inquadratura si fa con<br />
quella parte della fotocamera che è detta il MIRINO. Però occorre<br />
subito dire che il mirino delle fotocamere digitali è molto diverso dai<br />
vecchi mirini delle fotocamere tradizionali. In esse un tipo di mirino<br />
molto in voga, specialmente in quelle economiche era quello detto<br />
galileiano, forse perché somigliava ad un piccolo cannocchiale con<br />
il quale l'occhio del fotografo inquadrava la scena che la<br />
fotocamera con una certa approssimazione avrebbe riprodotto.<br />
Tale mirino, semplice ed economico aveva però un difetto: la<br />
scena inquadrata differiva da quella fotografata, e la differenza si<br />
142
faceva particolarmente sentire quanto più il soggetto si avvicinava<br />
alla fotocamera. Ciò non impedì per esempio a Henry Cartier<br />
Bresson con la su Leica, anch'essa con mirino galileiano, a<br />
scattare capolavori fotografici.<br />
L'altro sistema è quello detto MIRINO REFLEX, che più che un<br />
sistema di mirino è un sistema di fotocamera. In esso ciò che<br />
l'obiettivo inquadra viene prima mandato all'occhio del fotografo e<br />
poi, tramite uno specchio alla pellicola o al CCD.<br />
Questo tipo di mirino è utilizzato sulle fotocamere digitali a<br />
sistema reflex, mentre per le fotocamere digitali compatte si utilizza<br />
un tipo di mirino completamente diverso, utilizzato per la verità<br />
anche dalle reflex digitali, per la sua maggiore versatilità.<br />
Si tratta di un display a cristalli liquidi, sul quale l'elettronica di<br />
bordo della fotocamera fa arrivare i pixel che il CCD sta<br />
generando.<br />
143
In questo caso si vede come la fotocamera abbia cambiato il<br />
suo comportamento rispetto al passato: una volta lavorava solo la<br />
parte ottica, la camera oscura insomma, mentre la parte di<br />
immagazzinamento dell'immagine lavorava solo nelle frazioni di<br />
secondo nelle quali l'otturatore era aperto; adesso invece si ha una<br />
riproduzione continua della scena e, solo al momento dello scatto,<br />
la sua registrazione in memoria.<br />
Lo schermo LCD è una vera e propria plancia di controllo della<br />
fotocamera, ove appare una quantità spesso esagerata e<br />
ridondante di informazioni.<br />
Ma adesso vogliamo concentrarci sull'immagine della scena,<br />
cioè trattare la composizione dell'immagine.<br />
E' questa la fase più creativa della foto ed ovviamente molto<br />
dipenderà dalla sensibilità e dalla creatività del fotografo e quindi<br />
l'argomento potrebbe non essere considerato in una trattazione<br />
tecnica. Ciò non è del tutto vero, in quanto vi sono alcuni criteri<br />
generali che è bene conoscere, magari per poi non utilizzare, ma<br />
sapendo anche in tal caso che cosa si sta facendo.<br />
Innanzitutto vediamo che tipo di formato possiamo avere da<br />
una fotocamera <strong>digitale</strong>, ovvero che rapporto ci sia tra la<br />
144
dimensione orizzontale e quella verticale della foto. Fino<br />
all'introduzione della foto <strong>digitale</strong>, il formato era fisso ed invariabile,<br />
uguale per tutti: la pellicola permetteva un fotogramma di 36 mm di<br />
larghezza e di 24 mm di altezza, il formato della foto era quindi<br />
stabilito dal rapporto 3:2. Le fotocamere digitali hanno invece<br />
introdotto un rapporto diverso, simile a quello dei televisori, 4:3.<br />
Recentemente, sempre come in alcuni televisori, è stato introdotto<br />
il formato 16:9.<br />
<strong>La</strong> seconda cosa di cui tener conto nella formazione<br />
dell'inquadratura è quella della scelta della giusta focale. In pratica<br />
ormai ogni fotocamera <strong>digitale</strong>, dalla più economica a quella più<br />
costosa, è dotata di un obiettivo zoom, ovvero di un obiettivo che<br />
può variare la sua focale, in molti casi anche in maniera<br />
eccezionale, per esempio di un fattore 12 o 16.<br />
Che cosa bisogna fare? Molto semplicemente: usare una focale<br />
che faccia sì che nell’inquadratura siano contenuti tutti i soggetti<br />
che ci interessano e siano esclusi quanto più possibile tutti gli altri.<br />
145
In tal modo saremo sicuri di aver utilizzato tutti i pixel disponibili<br />
per i soggetti di nostro interesse e di non averli sprecati per altre<br />
cose delle quali non ci interessiamo.<br />
Per esempio supponiamo di aver scattato la seguente foto con<br />
dimensioni in pixel di di 2460 x 1920, avremo quindi in totale 5<br />
Megapixel:<br />
Adesso che la guardiamo, ci rendiamo conto che il soggetto che<br />
ci interessa è solo l'edificio; il prato e gran parte del cielo sono<br />
inutili: immediatamente facciamo un taglio dell'immagine che ci<br />
presenta questa nuova inquadratura:<br />
146
Se andiamo a misurare i pixel che rimangono, vediamo che essi<br />
sono all'incirca 2 milioni: ciò vuol dire in parole povere che tre<br />
milioni di pixel sono stati cacciati via. Questo non costituisce certo<br />
una perdita economica, ma una forse più grave perdita di<br />
risoluzione della nostra foto: infatti se avessimo utilizzato (a patto<br />
ovviamente di avercela) una focale più lunga, atta cioè a contenere<br />
tutta l'immagine di nostro interesse e non altro, avremo adesso una<br />
foto con risoluzione 5 Megapixel, ed invece ci dobbiamo<br />
accontentare di una risoluzione di 2 Megapixel. Come abbiamo già<br />
visto ciò è molto grave dal punto di vista della qualità<br />
dell'immagine.<br />
Una regola da seguire nella composizione della foto è quella<br />
detta dei DUE TERZI In pratica si suppone di dividere con delle<br />
linee l'intera inquadratura in tre parti uguali verticali e in tre parti<br />
uguali orizzontali. L'incrocio delle quattro linee ci fornisce quattro<br />
punti notevoli: il soggetto o i soggetti principali vanno posti in uno<br />
di questi punti e non, come si tende a fare spesso, al centro<br />
147
dell'inquadratura.<br />
Ecco alcune foto scattate tenendo in mente questa regola:<br />
148
149
150
Un'altra regola è quella detta delle CORNICI e consiste nel<br />
cercare di inserire nell'inquadratura un qualche elemento che serva<br />
da "cornice" al soggetto principale in modo da dargli maggior<br />
risalto.<br />
<strong>La</strong> cornice, però, deve essere quanto più naturale possibile,<br />
meglio se non viene subito percepita come cornice.<br />
Ecco alcuni esempi di cornici ‟naturali”.<br />
151
152
Un'altra regola ancora è detta delle LINEE GUIDA e consiste<br />
nel ritrarre soggetti che siano fortemente caratterizzati da alcune<br />
linee, non importa in quali direzioni: in tal modo l'attenzione<br />
dell'osservatore viene "pilotata" e concentrata ove lo si voglia.<br />
153
Ma dopo queste regole, ormai classiche, mi permetto di<br />
suggerire io un paio di regole, ancora più semplici delle precedenti.<br />
<strong>La</strong> prima regola è questa. Fotografa il dettaglio: anche in un<br />
insieme poco interessante sappi distinguere il particolare<br />
interessante.<br />
154
155
156
Ed un’altra regola, ancora più importante è: quando fotografi<br />
guarda più la luce che il soggetto.<br />
157
158
159
Un ultimo consiglio, il più semplice, che forse suona un po’<br />
qualunquista: non sperare di fare una foto meravigliosa in un colpo<br />
solo o in un solo giorno; scatta sempre, scatta molto, ripeti la<br />
stessa inquadratura tante volte, variando un po’ l’esposizione; in<br />
ogni caso al posto di uno scatto, fanne due o tre, alla fine scegli e<br />
mostra solo ciò che ti piace. E così che fanno i grandi fotografi, ed<br />
oggi, con la foto <strong>digitale</strong>, non costa più niente...<br />
160
15 – Il controllo dell’esposizione<br />
Adesso però chiediamoci come riesce la fotocamera a calcolare<br />
il valore di luce LV, dal quale poi deduce la scelta del tempo di<br />
esposizione e/o del diaframma. Abbiamo visto che per fare ciò è<br />
necessario un esposimetro, ovvero uno strumento capace di<br />
misurare con esattezza il valore della luce LV.<br />
<strong>La</strong> fotocamera, essendo <strong>digitale</strong>, ha un esposimetro molto<br />
semplice: valuta LV dai valori che ciascuno dei fotodiodi rileva.<br />
Questa però è l'unica informazione che la fotocamera ha della<br />
luminosità della scena: non conosce altro, non ha le informazioni<br />
del fotografo, il quale invece si rende conto benissimo del tipo di<br />
scena che sta inquadrando.<br />
In sostanza il fotografo sa per esempio che sta inquadrando<br />
una scena all'aperto di sera, naturalmente con scarsa<br />
illuminazione, e vuole rappresentare quella scena esattamente<br />
come la vede. Invece la fotocamera rivela un certo valore di LV e si<br />
comporta di conseguenza: valore LV basso, quindi esposizione<br />
lunga e/o diaframma molto aperto.<br />
Il pericolo è proprio che la fotocamera faccia il suo mestiere con<br />
troppa professionalità e ci restituisca delle immagini "troppo"<br />
perfette.<br />
Per esempio se siamo al tramonto e vogliamo fotografare una<br />
scena come questa:<br />
161
è molto probabile che la fotocamera ci restituisca invece<br />
un’immagine come questa:<br />
162
<strong>La</strong> fotocamera ha svolto il suo lavoro alla perfezione, perché i<br />
suoi programmi interni sono stati impostati in modo tale da<br />
permettere al fotografo di fare foto perfette anche in condizioni di<br />
luce scarsa.<br />
Solo che il fotografo non sempre vuole foto perfette, il fotografo<br />
non vuole fotografare la realtà obiettivamente, ma vuol fotografare<br />
le proprie emozioni<br />
Si comprende allora come sia necessario in certe situazioni<br />
non basarsi esclusivamente sugli automatismi della fotocamera,<br />
ma intervenire con correzioni manuali. Il grosso vantaggio che ci<br />
dà la tecnica <strong>digitale</strong> è quello di vedere nel mirino non tanto la<br />
scena inquadrata, ma la scena vista dal CCD, ovvero in ultima<br />
analisi la fotografia che stiamo facendo. Ciò però non è sempre<br />
automatico ed è necessario conoscere bene la propria fotocamera<br />
e stabilire con essa una certa familiarità.<br />
Come se non bastasse, esiste il problema del pinguino.<br />
Intendiamoci il simpatico animale non ha nessuna colpa e neanche<br />
si immagina che esista un problema legato a lui. Il fatto è che il<br />
pinguino ha una livrea molto semplice, formata solo da due colori,<br />
il bianco ed il nero. Ed è proprio qui il problema: due colori così<br />
contrastanti sono difficile da fotografare.<br />
Se per esempio ci limitiamo a scattare in modo automatico,<br />
otteniamo questa foto:<br />
163
Come si vede una foto tecnicamente perfetta, ben bilanciata nei<br />
toni di grigio, ma non è assolutamente quello che volevamo; noi<br />
volevamo che il pinguino potesse orgogliosamente mostrare il nero<br />
della schiena ed il bianco della pancia, ed invece la foto ci mostra<br />
un grigio scuro ed un grigio chiaro.Come si può rimediare?<br />
Proviamo a sottoesporre:<br />
164
Sì certo: adesso il nero è un vero nero, però il bianco si ingrigito<br />
sempre di più, sembra che il pinguino abbia la pancia sporca e non<br />
siamo soddisfatti neanche di questa immagine.<br />
Proviamo allora a sovraesporre:<br />
Succede esattamente il contrario: ora la pancia è bella bianca,<br />
ma la schiena è grigia.<br />
Come si fa? Attenzione: quello che vogliamo è molto difficile da<br />
ottenere, perché non corrisponde alla visione ottica che abbiamo<br />
noi della scena, ma piuttosto alla visione della scena elaborata dal<br />
nostro cervello: ricordiamoci che l’uomo non vede con gli occhi ma<br />
col cervello.<br />
Ed allora che fare? Solo con la fotocamera non possiamo fare<br />
di più, dobbiamo cercare un compromesso, o scegliere una<br />
esposizione che più valorizzi il soggetto che ci interessa.<br />
Poi, elaborando la foto <strong>digitale</strong> con i metodi che vedremo più<br />
avanti, sarà anche possibile riprodurre il nostro pinguino così come<br />
crediamo di vederlo, o meglio come ci immaginiamo che debba<br />
165
essere. Ecco un grande vantaggio della foto <strong>digitale</strong>: la possibilità<br />
di modificare facilmente le foto.<br />
Ma per adesso limitiamoci alle tecniche di ripresa. C’è un modo<br />
molto veloce ed intuitivo per cambiare la luminosità della scena.<br />
Per esempio supponiamo di aver scattato questa foto,<br />
lasciando regolare l’esposizione alla fotocamera:<br />
Il parco, in primo piano, è decisamente buio, mentre il palazzo<br />
sullo sfondo è un po’ troppo chiaro.<br />
Supponiamo che ci interessi il palazzo. Allora puntiamo la<br />
fotocamera su di esso, premiamo il pulsante di scatto fin verso la<br />
metà della sua corsa. In tal modo la fotocamera calcolerà la giusta<br />
esposizione per il palazzo, poiché sta inquadrando solo quello. Poi,<br />
senza lasciare il pulsante, inquadriamo tutta la scena e premiamo il<br />
pulsante fino in fondo. Otteniamo questa foto:<br />
166
Certo il palazzo è perfettamente esposto, ma il parco è molto<br />
più buio. Supponiamo invece che ci interessi il parco. Ripetiamo<br />
allora la stessa cosa: inquadriamo solo il parco, premiamo il<br />
pulsante di scatto fino a metà, poi inquadriamo tutta la scena e<br />
scattiamo.<br />
167
Il parco è correttamente esposto, mentre il palazzo ed il cielo<br />
sono talmente sovraesposti da scomparire. È evidente la<br />
saturazione del CCD in quella zona, notiamo che è completamente<br />
bianca, senza alcuna zona meno chiara: è evidente che lì il CCD<br />
ha registrato ovunque valori sopra la sua soglia di sensibilità e<br />
quindi per tutti i punti ha assegnato lo stesso valore, il bianco<br />
massimo (255 se la profondità di colore è di 8 bits)<br />
Lo stesso risultato poteva essere ottenuto variando i valori di<br />
diaframma e/o di tempo di esposizione, ma sarebbe stato molto più<br />
complicato. Il metodo esposto invece è semplice ed immediato.<br />
Nelle fotocamere, salvo in quelle di bassissima fascia, è<br />
possibile variare il sistema di misurazione dell’esposizione.<br />
Il sistema di misurazione più comune, quello che la fotocamera<br />
adotta se non riceve istruzioni particolari è chiamato MATRIX. In<br />
esso tutta l'immagine viene divisa in una griglia di celle e di ogni<br />
cella viene misurato il valore LV e poi eseguita una media dei<br />
valori, che costituirà il valore di LV per determinare il diaframma ed<br />
il tempo di esposizione.<br />
Un’altra modalità di esposizione è detta SPOT: in essa la<br />
misurazione della luce viene eseguita solamente su una piccola<br />
parte della scena, solitamente quella centrale, indicata nella<br />
fotocamera da un quadrato. Tale modalità aiuta molto a scattare<br />
foto del tipo di quelle commentate in precedenza, ma attenzione: la<br />
fotocamera si disinteressa completamente di tutto ciò che non è<br />
compreso nella sua zona di interesse.<br />
Un altro tipo di misurazione, una specie di via di mezzo tra i due<br />
visti prima, è quello detto A PREFERENZA CENTRALE, nel quale<br />
come in quello MATRIX viene calcolata la media di tutti valori di LV<br />
delle varie zone dell'inquadratura, ma viene dato un peso maggiore<br />
a quelli delle zone centrali. Forse è questo il tipo di misurazione da<br />
preferire in generale.<br />
<strong>La</strong> scelta del tipo di misurazione dell'esposizione viene<br />
fatta solitamente attraverso un menu della fotocamera.<br />
168
16 – Il controllo della messa a fuoco<br />
Generalmente si è portati a pensare che tutti gli elementi di una<br />
foto debbano esser nitidi e quindi a fuoco. Sappiamo anche che<br />
questo, se da un punto di vista teorico è addirittura impossibile, da<br />
un punto di vista pratico è conseguibile con una certa<br />
approssimazione se si riesce a utilizzare solo diaframmi piuttosto<br />
piccoli.<br />
Comunque l'operazione di messa a fuoco, se eseguita<br />
manualmente, non è facile, dato che il fuoco deve essere<br />
controllato su uno schermo di dimensioni ridotte, specialmente<br />
nelle fotocamere di fascia bassa.<br />
Però tutte le fotocamere in commercio sono dotate di un<br />
dispositivo di messa a fuoco automatica, denominato<br />
AUTOFOCUS.<br />
L’autofocus presente su praticamente tutte le fotocamere digitali<br />
è detto passivo o a contrasto, per distinguerlo da un altro tipo,<br />
praticamente non usato sulle digitali, detto attivo, che emette<br />
ultrasuoni o raggi infrarossi per valutarne l'eco e da questa dedurre<br />
la distanza del soggetto.<br />
Gli autofocus passivi funzionano controllando il contrasto,<br />
ovvero la differenza in luminanza tra pixel, mentre eseguono<br />
manovre di focheggiatura avanti e indietro fino a raggiungere un<br />
massimo. E' ovvio infatti che un'immagine focalizzata presenta un<br />
contrasto nettamente superiore ad un'immagine sfocata.<br />
<strong>La</strong> figura seguente mostra come una fotocamera esegue la<br />
manovra di autofocus.<br />
169
Dapprima la fotocamera valuta il contrasto dell’immagine<br />
iniziale, mostrata nella prima finestra, poi sposta il fuoco in una<br />
direzione, per esempio avanti. Quindi valuta il fuoco in quella<br />
situazione, per esempio quello della finestra 2. Come si può notare<br />
il contrasto è maggiore del precedente, quindi la fotocamera ne<br />
deduce di aver focheggiato nella direzione giusta, pertanto sposta<br />
il fuoco avanti nella stessa direzione. Se avesse riscontrato un<br />
contrasto minore avrebbe focheggiato nella direzione opposta alla<br />
precedente. Adesso, finestra 3, il contrasto è ancora maggiore,<br />
quindi la fotocamera si convince sempre più di essere nella<br />
direzione giusta, pertanto avanza ancora un po’ in quella direzione.<br />
Siamo alla finestra 4 dove la fotocamera verifica che il contrasto è<br />
diminuito rispetto alla finestra 3. Ne deduce quindi che ha superato<br />
il massimo di contrasto, e pertanto retrocede un po’ fino a ritrovare,<br />
nella finestra 5, lo stesso contrasto che aveva nella finestra 3. A<br />
questo punto, accendendo una luce o emettendo un rumore,<br />
avverte il fotografo di aver terminato le operazioni di messa a<br />
fuoco.<br />
Attenzione però a non fidarsi troppo dell’autofocus.<br />
Innanzitutto bisogna attendere che esso abbia compiuto il suo<br />
lavoro: talvolta la cosa può durare qualche secondo; molti fotografi<br />
invece, appena vedono sullo schermo l'immagine che desiderano,<br />
scattano immediatamente convinti che l’autofocus abbia già<br />
lavorato: si ritrovano foto sfocate e ne danno la colpa alla<br />
170
fotocamera.<br />
Inoltre è necessario facilitare il compito all'autofocus, invece di<br />
renderglielo magari difficile, inquadrando almeno in una fase<br />
iniziale un elemento con un grosso contrasto in modo che esso<br />
possa agire al meglio.<br />
<strong>La</strong> foto seguente è stata scattata senza questa precauzione e la<br />
fotocamera ha messo a fuoco l'unico oggetto ad alto contrasto che<br />
ha trovato nell'inquadratura e che, purtroppo, non coincideva con il<br />
soggetto principale. In questo caso, forse, l'unico modo di<br />
procedere era quello di eseguire una messa a fuoco manuale,<br />
impostando il valore all'infinito, non essendo possibile trovare altri<br />
soggetti alla stessa distanza dell'aereo, che ovviamente procedeva<br />
ad una velocità troppo elevata per pensare di costituire il bersaglio<br />
di un autofocus.<br />
171
Molti autofocus hanno anche una luce di puntamento,<br />
solitamente rossa, per una messa a fuoco automatica anche in<br />
condizioni di scarsa visibilità, ovviamente su soggetti abbastanza<br />
vicini.<br />
Il fuoco manuale è soprattutto utilizzato quando si voglia<br />
sfocare deliberatamente una parte dell'immagine, ovvero quel<br />
soggetto che costituisce una presenza indesiderata<br />
nell'inquadratura e che, per questa ragione, toglie spazio, ma<br />
soprattutto importanza, al soggetto principale.<br />
Per utilizzare il fuoco manuale è necessario selezionarlo in<br />
alcune fotocamere tramite un cursore o in altre tramite un menu.<br />
Dopodiché, tramite un paio di pulsanti o un joystick a seconda<br />
delle fotocamere, sarà possibile mettere a fuoco soggetti vicini o<br />
soggetti lontani.<br />
E' bene dire subito che l'operazione non si presenta come una<br />
delle più semplici ed è molto più complicata nelle fotocamere<br />
compatte, che in quelle reflex, dove la ghiera di messa a fuoco è<br />
sull'obiettivo e quindi maneggevole e il fotografo può sfruttare<br />
appieno il mirino ottico.<br />
172
Bisogna inoltre rimarcare il fatto che è necessario impostare il<br />
diaframma ad un valore piuttosto aperto altrimenti la profondità di<br />
fuoco sarà così grande da non permettere manovre di sfocamento.<br />
Le due figure seguenti mostrano due diverse focheggiature per<br />
la stessa scena:<br />
Alcune fotocamere facilitano la messa a fuoco manuale, in<br />
quanto mostrano sul display la profondità di fuoco e un<br />
ingrandimento del particolare che si sta mettendo a fuoco in quel<br />
momento.<br />
173
In ogni caso la messa fuoco manuale non è agevole ed è un<br />
peccato rinunciare alla comodità dell'autofocus.<br />
Si veda per esempio la foto seguente: la statuetta in primo<br />
piano è a fuoco, mentre l'altra insieme allo sfondo è notevolmente<br />
sfocata. Ciò è stato ottenuto con una messa a fuoco manuale.<br />
E' però anche possibile utilizzare l'autofocus, imponendogli però<br />
di focalizzare in una sola particolare area, con la stessa procedura<br />
usata per la esposizione. Il risultato, visibile nella foto successiva,<br />
è nettamente migliore.<br />
174
Vedremo nel seguito che è possibile anche sfocare una parte<br />
della fotografia non al momento dello scatto, ma successivamente,<br />
elaborando la foto.<br />
Questa scelta offre addirittura una maggiore flessibilità rispetto<br />
allo sfocamento, per così dire ottico, nel quale si deve ovviamente<br />
rispettare le regole dell’ottica geometrica.<br />
175
17 – Fotografare il movimento<br />
Una foto mossa è per molti sinonimo di foto sbagliata, ed era<br />
addirittura un'ossessione per i fotografi del secolo scorso, quando<br />
non esistevano pellicole rapide, ed erano perciò richiesti lunghi<br />
tempi di posa.<br />
All'inizio della storia della fotografia non si riusciva proprio a<br />
fotografare qualcosa che non rimanesse immobile per un certo<br />
tempo.<br />
È famosa a questo riguardo la foto (o meglio il dagherrotipo) di<br />
Daguerre, che ci rappresenta mirabilmente il Boulevard du Temple<br />
a Parigi nel 1839, assolato ma incredibilmente senza ombra di vita.<br />
A dire il vero una persona c'era e c'è ancora, dentro al cerchio<br />
bianco: è l'unico che rimase fermo per tutto il tempo necessario<br />
176
alla lunga posa (il materiale sensibile era molto lento), stava<br />
facendosi pulire gli stivali da un lustrascarpe, del quale è rimasto<br />
un triangolo scuro, frutto del suo incessante movimento, ma<br />
concentrato in una piccola zona. Tutto il resto della popolazione a<br />
passeggio sul boulevard e delle automobili, poche, non ha lasciato<br />
traccia di sé, troppo veloci per la lastra di Daguerre: ci sono, ma<br />
dispersi nel grigio del viale, che senza di loro, senza il loro<br />
passaggio voglio dire, sarebbe stato solo un po' più chiaro.<br />
Il problema della lentezza (ovvero della scarsa sensibilità) del<br />
materiale fotografico continuò ad esistere per almeno un secolo:<br />
infatti sono caratteristiche le pose ieratiche e stereotipate delle<br />
persone in posa davanti alle macchine fotografiche:<br />
particolarmente incisive e belle quelle di August Sander che, da<br />
un'esigenza di riconoscimento imposta dal nemico vincitore nel<br />
1918, seppe trarre un censimento fotografico delle persone e dei<br />
mestieri di un villaggio tedesco e ci ha lasciato questi straordinari<br />
ritratti di persone che nella loro fissità assumono tratti insieme<br />
tragici e inguaribilmente romantici.<br />
177
Poi il tempo passò e la tecnica fotografica subì una grande<br />
evoluzione fino all'esplosione delle istantanee, che divennero un<br />
vero e proprio nuovo standard fotografico. Adesso il fotografo<br />
poteva andare tra la gente e scattare in tempo reale ritratti e<br />
vedute senza più paura di foto "mosse".<br />
Il futurismo, negli anni ‛10 e ‛20 del secolo scorso promosse il<br />
"Fotodinamismo": che rifiutava la staticità e la fissità dei ritratti<br />
fotografici, sostenendo che il movimento era parte naturale della<br />
vita e che quindi le foto dovessero almeno tentare di riprodurlo.<br />
Ecco due esempi famosi e straordinari di fotodinamismo.<br />
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Nonostante ciò le persone rimasero fedeli allo stereotipo che<br />
una foto mossa era una foto sbagliata e si continuarono a fare foto<br />
che venivano apertamente dichiarate foto ‟realiste” e che invece<br />
mostravano una staticità del tutto irreale.<br />
Oggi invece molti fotografi almeno provano a rappresentare il<br />
movimento, forse perché mentre una volta era molto comune fare<br />
foto mosse, adesso è difficilissimo farle: siamo alle prese, ed in<br />
modo drammatico con il problema opposto: ogni movimento viene<br />
congelato nel tempo e nello spazio dall'apparecchio fotografico.<br />
Eccone un esempio.<br />
<strong>La</strong> signora con la bici non doveva far parte della foto, ma se<br />
fosse stata ritratta mossa, avrebbe sicuramente rovinato meno al<br />
foto, forse le avrebbe conferito una certa vivacità, in fondo gli artisti<br />
di strada suonano tra la gente che passa; così fissa ed ieratica<br />
invece confonde completamente la lettura della foto.<br />
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Siamo al paradossale: il movimento, fenomeno mai attuale<br />
come in questi nostri frenetici anni, non può essere rappresentato<br />
in fotografia!<br />
No, non è proprio così, lo si può fare, il più è trovare un pubblico<br />
che lo apprezzi, che lo desideri, che lo voglia vedere. Allora sarà<br />
sufficiente scegliere la modalità A PRIORITÀ DI TEMPI e<br />
impostare un tempo abbastanza lungo, ma non troppo, mezzo<br />
secondo, un secondo e magicamente tutte le cose che passano e<br />
non si fermano assumeranno un aspetto mosso, effimero, diverso<br />
da quello delle pietre, dei muri, delle cose che rimangono, per<br />
giorni, per anni, per secoli.<br />
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In questo modo ciò che passa e non si ferma, ciò che è<br />
effimero, assume nella foto la sembianza di un fantasma, di un<br />
soffio di vento: c'è ma non lascia forma, solo una pennellata di<br />
colore, un lampo, un brivido, una sensazione passeggera.<br />
Una foto mossa, come una foto sfocata, non si può correggere,<br />
neanche con le più raffinate tecniche digitali, ma si può fare il<br />
contrario: sfocare una foto o muovere un soggetto dentro di essa.<br />
Più avanti vedremo queste tecniche in dettaglio, per ora basti<br />
vedere come il treno, congelato nella foto seguente, prenda<br />
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velocità nella successiva.<br />
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Indice del <strong>volume</strong> 1<br />
0 – Presentazione.....................................................................1<br />
1 – <strong>La</strong> fotografia <strong>digitale</strong>.........................................................3<br />
2 – <strong>La</strong> camera oscura.............................................................13<br />
3 – <strong>La</strong> lente convergente.......................................................22<br />
4 – L’obiettivo fotografico....................................................32<br />
5 – <strong>La</strong> misurazione della luce................................................47<br />
6 – Immagini vettoriali ed immagini bit-map.......................57<br />
7 – Digitalizzare un’immagine..............................................63<br />
8 - Il CCD..............................................................................81<br />
9 – Il colore...........................................................................88<br />
10 – Un po’ di aritmetica.....................................................107<br />
11 – <strong>La</strong> fotocamera <strong>digitale</strong>.................................................113<br />
12 – Breve storia della macchina fotografica......................124<br />
13 – Come si scatta una bella fotografia.............................136<br />
14 - L'inquadratura..............................................................142<br />
15 – Il controllo dell’esposizione........................................161<br />
16 – Il controllo della messa a fuoco..................................169<br />
17 – Fotografare il movimento............................................176<br />
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