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La Fotografia digitale volume 1 - ettore bianciardi

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0 – Presentazione<br />

Questo corso ha uno scopo semplice da enunciare, ma molto<br />

difficile da raggiungere: insegnare come fare una bella fotografia,<br />

o, che è lo stesso, trasformare scene emozionanti in fotografie<br />

altrettanto emozionanti.<br />

Ai tempi della fotografia analogica, quella che si faceva con le<br />

pellicole e lo sviluppo e stampa in laboratorio, succedeva<br />

frequentemente che il fotografo, davanti a scene paesaggistiche o<br />

umane di particolare bellezza, tirasse fuori immediatamente la<br />

macchina fotografica e scattasse, sicuro di aver imprigionato quella<br />

bellezza, quella emozione nella sua macchina fotografica.<br />

Tornato a casa, aspettava con ansia lo sviluppo e la stampa<br />

delle sue foto e molto spesso alla fine constatava che le sue foto<br />

non erano così belle come le scene alle quali aveva assistito; non<br />

comunicavano la stessa emozione e pertanto non suscitavano<br />

l’entusiasmo di coloro ai quali le mostrava.<br />

Oggi la fotografia <strong>digitale</strong> ha eliminato sicuramente quella lunga<br />

attesa prima di vedere le foto, che oggi sono visibili<br />

immediatamente dopo averle scattate, ma non ha eliminato la<br />

delusione di constatare che le proprie foto sono brutte, non tutte<br />

certo, ma la maggior parte.<br />

Ecco, questo corso prova ad insegnare come fare foto belle, o<br />

come trasformare foto bruttine in foto migliori.<br />

In questo la tecnica <strong>digitale</strong> aiuta e non poco, ma non fa<br />

miracoli.<br />

Il vero miracolo lo fa il fotografo con la sua sensibilità,<br />

scoprendo la vena artistica che è dentro di lui. Però è un processo<br />

lungo e faticoso, che richiede attenzione e partecipazione.<br />

Non vi chiederò di comprare macchine fotografiche costose,<br />

non sono sufficienti, ma neanche necessarie per fare belle foto,<br />

anzi certe volte credere che le potenzialità tecniche<br />

dell'apparecchiatura aiutino a fare belle foto o, peggio, credere che<br />

le facciano da sole, è non solo illusorio, ma anche<br />

controproducente.<br />

1


I soldi che ciascuno può spendere per una macchina fotografica<br />

vanno impiegati per acquistare alcune funzioni importanti per la<br />

buona riuscita di una foto, ma quasi sempre queste non sono le<br />

funzioni della macchina illustrate nella sua pubblicità.<br />

Ma c’è un’altra considerazione che va fatta, e che potrà<br />

sembrare scoraggiante: una foto può essere ‟tecnicamente<br />

perfetta” ovvero, perfettamente esposta, perfettamente inquadrata,<br />

con scelta perfetta di profondità di campo e tempo di esposizione,<br />

ma tutto questo non è sufficiente a fare una foto bella. Una foto<br />

tecnicamente perfetta può essere una foto brutta, che non<br />

trasmette emozioni.<br />

Il corso può essere idealmente diviso in quattro parti.<br />

I capitoli dal 1 al 11 spiegano come funziona una macchina<br />

fotografica <strong>digitale</strong>; i capitoli dal 12 al 17 insegnano come scattare<br />

una fotografia controllando tutti i parametri della macchina.<br />

Il cambiamento più vistoso, ma non il più importante, della<br />

tecnica <strong>digitale</strong> è le possibilità che questa ci offre di modificare con<br />

l’uso del computer le nostre foto: i capitoli dal 18 al 37 insegnano le<br />

principali tecniche, utilizzando due programmi simili nei risultati,<br />

molto diversi nel prezzo, costosissimo il primo Photoshop,<br />

completamente gratuito il secondo GIMP.<br />

L’ultima parte, costituita dai capitoli dal 38 al 40, analizza i modi<br />

con i quali il cervello umano legge una foto e dalla loro conoscenza<br />

trae utili considerazioni per fare una ‟bella fotografia”<br />

Un sublime fotografo, Henri Cartier Bresson diceva che<br />

fotografare è porre sulla stessa linea di mira l’occhio, il cuore e il<br />

cervello del fotografo. È esattamente così, e questo corso non<br />

nasconde la sua l’ambizione di insegnare a farlo.<br />

Ettore Bianciardi<br />

2


1 – <strong>La</strong> fotografia <strong>digitale</strong><br />

Credo che la prima cosa da spiegare iniziando un lungo<br />

discorso sulla fotografia <strong>digitale</strong>, sia proprio il nome: che cosa si<br />

intende esattamente per fotografia <strong>digitale</strong>?<br />

Sicuramente tutti sarete certi del significato della parola<br />

fotografia, mentre molti possono avere dei dubbi sul significato<br />

dell’aggettivo <strong>digitale</strong>.<br />

Posso togliere questi dubbi in maniera semplice e definitiva: il<br />

termine italiano <strong>digitale</strong> è una brutta ed affrettata traduzione dal<br />

termine inglese digital, che a sua volta proviene dal sostantivo<br />

digit, che, nella lingua inglese, significa cifra. Digital allora vuol dire<br />

fatto di cifre, ovvero in italiano numerico: tale traduzione, per<br />

quanto corretta, non è stata ritenuta abbastanza esotica,<br />

misteriosa ed evocatrice di chissà quali segreti, da essere adottata,<br />

ed è stata preferita la parola <strong>digitale</strong> che ha fatto prepotentemente<br />

il suo ingresso nel nostro vocabolario, ed è tuttora in gran parte<br />

malintesa dalle persone.<br />

Per fare un esempio semplice e convincente di oggetti digitali e<br />

quindi numerici, basterà guardare al proprio polso sinistro e<br />

scoprirne uno: l’orologio che, almeno nel 50% dei casi sarà<br />

<strong>digitale</strong>, come uno di quelli della figura seguente.<br />

Questi orologi indicano l’ora attraverso delle cifre, dei numeri:<br />

per questo sono numerici, o digitali, tutto qui. Sono differenti, ma<br />

solo in parte, dagli altri, quelli tradizionali, che indicano il tempo<br />

3


che scorre attraverso l’analogia con un qualcosa che come il<br />

tempo si muove in continuazione: le due lancette. Tali orologi si<br />

definiscono allora, ma il termine non è quasi mai usato, analogici.<br />

Analogico è anche, anzi lo era, il disco di vinile, nel quale la<br />

musica era riprodotta in analogia con un microsolco, nel quale<br />

scorreva la puntina; mentre numerico, e quindi <strong>digitale</strong>, è il CD, sul<br />

quale le note sono rappresentate da sequenze di numeri: si badi<br />

bene, nessuno dei due procedimenti garantisce, di per sé, una<br />

migliore qualità, per cui suono <strong>digitale</strong> non è per niente una<br />

garanzia di alta fedeltà.<br />

Va bene, ma una fotografia come fa ad essere <strong>digitale</strong>?<br />

Basta trasformare la foto con i suoi colori in un insieme di<br />

numeri: può sembrare una cosa impossibile, ma invece è<br />

semplice, anche se un po’ macchinoso; per questo lo lasceremo<br />

fare alle macchine, cioè ai computer (che si potrebbero chiamare<br />

calcolatori) che sono dentro a tutti gli oggetti della vita quotidiana,<br />

come i CD Player, gli orologi e appunto le macchine fotografiche. Il<br />

procedimento per fare ciò, che è alla base della comprensione di<br />

tutti i segreti della foto <strong>digitale</strong> sarà spiegato tra un po’; prima mi<br />

preme chiarire tutto sulla fotografia, <strong>digitale</strong> o analogica è lo<br />

stesso.<br />

Siamo certi di sapere che cosa è una fotografia?<br />

Certamente, penserete, magari sorridendo un po’ per la<br />

banalità della mia domanda, eppure ancora oggi, dopo quasi due<br />

4


secoli dalla sua invenzione, la fotografia è oggetto di discussioni<br />

sul suo significato: in sostanza come mai la fotografia suscita in<br />

tutte le persone una curiosità ed un’attenzione particolare,<br />

superiore alle volte a quella che può suscitare un dipinto?<br />

Una lunga schiera di persone, anche importanti e sedute su<br />

prestigiose cattedre accademiche, spiegano questo fatto<br />

semplicemente con la constatazione che mentre un dipinto è una<br />

rappresentazione della realtà, del mondo circostante, fatta da un<br />

artista, una fotografia è la realtà stessa, replicata per nostro conto<br />

da una macchina, e quindi osservare una foto è equivalente ad<br />

osservare la realtà, il mondo che ci circonda, anche se questo è<br />

immagazzinato sopra un foglio di carta. È proprio questa divertente<br />

particolarità che costituisce il motivo di interesse nell’osservare una<br />

fotografia.<br />

Facciamo subito un esempio<br />

5


Ecco una foto di Willie Ronis: una bella fetta di realtà, una via,<br />

una piazza. Non è forse come stare in quella via, quel giorno? E<br />

invece siamo a casa nostra, in poltrona e quelle persone<br />

raffigurate non ci possono vedere! E’ proprio questo il bello, il<br />

trucco, l’intrigo della foto.<br />

Opinione rispettabile, ma che non condivido affatto. Una<br />

fotografia è a mio parere, ma non soltanto mio, per vostra fortuna,<br />

una rappresentazione della realtà, del mondo circostante, come un<br />

quadro, come una statua, come, se vogliamo allargare il discorso,<br />

un romanzo, un saggio, un film, uno spettacolo teatrale, una<br />

musica, un balletto.<br />

Insomma la fotografia è un mezzo con il quale il fotografo<br />

comunica con il resto del mondo, parlandogli di qualcosa che lui<br />

vede, o che ha visto, e gliene parla in modo molto personale,<br />

intimo, tant’è che la sua descrizione di una parte di mondo, magari<br />

conosciutissima, è diversa da tutte le altre descrizioni e per questo<br />

degna di interesse.<br />

<strong>La</strong> fotografia è, in altre parole, un’espressione artistica, è arte.<br />

Sicuramente penseremo che quanto ho detto sopra sia<br />

verissimo se applicato alla pittura, basta pensare ad un quadro<br />

famoso. Per esempio il Duomo di Rouen di Claude Monet.<br />

6


Monet dipinse molti quadri con lo stesso soggetto: la facciata<br />

della cattedrale di Rouen; a chi gli chiedeva la ragione di tanta<br />

insistenza, rispondeva di non dipingere la cattedrale ma la luce che<br />

essa rifletteva e che era sempre diversa. Ecco, espresso al meglio,<br />

7


quanto detto in precedenza: la pittura è un modo di parlare con gli<br />

altri sottoponendo loro una rappresentazione, particolare e<br />

personale, della realtà circostante, ovviamente di un solo<br />

pezzettino di quella realtà.<br />

Questa rappresentazione, come tutte le rappresentazioni, è<br />

ottenuta tramite una operazione di astrazione: cioè il comunicatore,<br />

l’artista, osserva la realtà dentro alla sua mente ed al suo cuore e<br />

poi ne dà una rappresentazione, astraendo da tanti particolari, per<br />

lui inutili e insistendo invece in altri per lui fondamentali.<br />

Guardate ad esempio il rosso dentro ai portali: era così<br />

importante riprodurre quel rosso? Era veramente così dominante?<br />

Lo era per Monet, in quella mattina, doveva essere mezzogiorno o<br />

giù di lì, e ce lo ha trasmesso. E noi, fateci caso, guardiamo a<br />

lungo e con ammirazione questo quadro, proprio per quel rosso e<br />

poi, stando attenti, scopriamo anche del blu dietro le guglie e poi<br />

notiamo l’incredibile ricchissimo oro che sembra ornare la facciata<br />

del duomo di Rouen: in sostanza apprezziamo la rappresentazione<br />

particolare che Monet ci sta dando dell’oggetto.<br />

L’artista ha astratto, ha rappresentato la realtà, stabilendo un<br />

suo codice e noi ripercorriamo questo codice, ricostruiamo quella<br />

realtà, che è la realtà di Monet, e forse nostra, grazie a Monet, ma<br />

non è realtà vera, che infatti non esiste, e ammiriamo questo<br />

capolavoro di astrazione e sogniamo di poter essere anche noi<br />

così bravi.<br />

E’ quasi superfluo, a questo punto aggiungere che osservando<br />

il duomo di Rouen di Monet, osserviamo anche e soprattutto<br />

Monet, il suo animo, la sua mente. E’ proprio per questo che tutte<br />

le immagini del duomo di Rouen saranno differenti l’una dall’altra,<br />

persino quelle dello stesso artista, ed è questa, in ultima analisi, la<br />

vera ragione del nostro interesse: un particolare attimo dell’animo<br />

di Claude Monet.<br />

Ma la fotografia? E’ esattamente la stessa cosa! <strong>La</strong> fotografia è<br />

immagine come è immagine un quadro, e come un quadro la<br />

fotografia è astrazione, secondo un codice generato dall’artista, di<br />

8


una parte della realtà. Guardando una foto noi ripercorriamo il<br />

codice dell’artista, del fotografo e gioiamo e soffriamo con lui.<br />

Però una differenza c’è, è inutile negarlo: il quadro è fatto<br />

dall’artista, la foto è fatta dall’apparecchio fotografico, cioè da una<br />

macchina. Ecco allora – insorgeranno quei signori che sostengono<br />

la particolarità e la diversità della foto – che la fotografia è<br />

oggettività, è presentazione della realtà, è automatismo, tant’è vero<br />

che è prodotta da una macchina, non dall’uomo. E’ proprio questa<br />

la chiave di volta di tutto il ragionamento: la fotografia è prodotta<br />

dall’apparecchio fotografico, non dall’uomo.<br />

Sbagliato, sbagliato due volte: primo perché l’apparecchio<br />

fotografico è costruito dall’uomo e quindi, anche se con differenze<br />

tecniche rilevanti, è un po’ come il pennello del pittore, che<br />

nessuno è così matto di ritenere l’artefice del quadro, secondo<br />

perché il fotografo è essenziale nella produzione della foto, ovvero<br />

la foto stessa viene eseguita attraverso l’interazione dell’artista con<br />

un apparato che lui stesso ha progettato e con il quale adesso<br />

dialoga per creare la rappresentazione.<br />

Se non fosse così, le foto di uno stesso soggetto sarebbero<br />

tutte uguali e perciò poco interessanti, invece se andate a Rouen e<br />

fotografate la facciata del duomo e mostrate la vostra fotografia, se<br />

avrete scattato una ‟bella” fotografia, questa sarà differente da<br />

tutte le altre, e sarà ammirata da tutti.<br />

Ma allora, se concordiamo su quanto detto sopra, dobbiamo<br />

trovare le caratteristiche personali e artistiche nella foto che ho<br />

mostrato all’inizio: che cosa c’è di soggettivo in quella foto che può<br />

apparire come un’istantanea di umanità che cammina in una<br />

strada parigina?<br />

Osserviamola bene: che cosa di essa attrae la nostra<br />

attenzione? Le persone in primo piano, certo: i due giovani a<br />

sinistra, l’uomo con l’impermeabile ritratto goffamente solo per<br />

metà, i due che si scambiano effusioni in secondo piano; poi<br />

notiamo ancora altre persone, molte, ma lontane, quasi<br />

insignificanti, però sono dappertutto, sono alle finestre e ai balconi,<br />

guardano qualcosa che noi non vediamo, che l’artista non ci vuol<br />

9


mostrare.<br />

Certo sono diverse le espressioni dei due fidanzati e dell’uomo<br />

a destra da quella dei due giovani: i primi si sono incontrati per<br />

caso e si stanno salutando, o forse stanno per separarsi, o forse si<br />

sono detti un qualcosa di carino, chissà, ma certo stanno<br />

pensando a se stessi e basta. L’uomo con l’impermeabile invece è<br />

attratto dal fotografo, si chiede perché faccia quella foto, vorrebbe<br />

non entrare nella foto, ma guardare ciò che succede, infatti ci entra<br />

solo per metà, quasi a sottolineare la sua indecisione, e la metà<br />

che rimane dentro non ha un’espressione troppo intelligente o<br />

impegnata. Torniamo ai due ragazzi: nei loro volti appare la rabbia,<br />

l’insoddisfazione, la volontà di lottare, di ribellarsi, di combattere<br />

per cambiare il mondo, un mondo stretto, borghese, pieno di<br />

contraddizioni, pieno di ingiustizie; appare nei loro volti anche una<br />

paura di non farcela, di aver sbagliato qualcosa, di non riuscire<br />

neanche stavolta a lasciare il segno, c’è un senso di frustrazione e<br />

di avvilimento: sono, i due giovani, sicuramente due corpi estranei<br />

in quel pezzo di strada parigina. Che ne dite? Dando un’occhiata al<br />

titolo (che a qualcosa deve pur servire), Paris 1968, si ha la<br />

conferma che la foto è una meravigliosa sintesi del Maggio<br />

parigino, della rivolta degli studenti francesi contro tutto e tutti, che<br />

incendiò mezza Europa. Altro che foto oggettiva, altro che mera<br />

presentazione della realtà!<br />

Potrei ora sfidarvi a trovare foto che pensate siano, per così<br />

dire, mere presentazioni oggettive della realtà, e dimostrarvi invece<br />

che anch’esse sono messaggi, comunicazioni in codice dell’artista.<br />

Diamo per esempio un'occhiata alla foto seguente: Milano 1958 di<br />

Paolo Monti.<br />

10


Una strada di notte, si potrebbe dire, una strada di Milano, un<br />

lampione, una bicicletta, la porta di una trattoria, uno sfondo<br />

abbastanza illeggibile: tutto qui, che cosa ci può essere di<br />

soggettivo, qual’è il messaggio insomma di una foto come questa?<br />

<strong>La</strong> solitudine, è questo il messaggio, l’alienazione di una grande<br />

11


città al culmine di quel processo di immigrazione e di<br />

urbanizzazione che avvenne in quegli anni. Città spietata, dura,<br />

insensibile, inizio, per molti, di una vita diversa, forse più serena<br />

dal punto di vista dei bisogni immediati, ma anche più dura, più<br />

disumana dal punto di vista delle relazioni umane. Non siete<br />

d’accordo che la fotografia voglia dire questo?<br />

Ma vediamo come gli elementi della foto: strada, lampione,<br />

trattoria, bicicletta, sono stati utilizzati da Paolo Monti. <strong>La</strong> strada è<br />

la protagonista, occupa incredibilmente due terzi dell’immagine, è<br />

invasiva, brutta, squallida, anonima, senza anima. Il lampione si<br />

limita a metterne in risalto la struttura ed a proiettarci sopra l’ombra<br />

della bicicletta, unico mezzo di trasporto visibile e per di più<br />

lasciato lì, abbandonato forse. <strong>La</strong> trattoria è quasi un miraggio:<br />

luminosa, forse accogliente, ma probabilmente inaccessibile,<br />

chiusa, non si vede persona là dentro, anzi non si vede nessuna<br />

persona nella foto: la città è come vuota, svuotata di anima e di<br />

calore. <strong>La</strong> notte regna sovrana, lo sfondo appare altrettanto grigio,<br />

privo di umanità, illeggibile; forse sta anche piovendo.<br />

Non è così? Ho forse esagerato nella mia lettura della foto?<br />

Può darsi, forse voi ne avreste dato una lettura diversa, ma è<br />

questo il bello: come in un quadro o in un romanzo, ognuno ne dà<br />

un’interpretazione personale, magari originale anche per l’autore<br />

dell’opera: ognuno legge il cuore dell’artista attraverso il proprio<br />

cuore, questo è il vero scopo dell’arte.<br />

C’è un altro aspetto della fotografia da non sottovalutare, ed è<br />

la sua democraticità: la foto non richiede abilità manuale<br />

particolare, non necessita di particolare apprendistato o di<br />

particolari doti naturali, come ad esempio la pittura o la scultura.<br />

L’artista che c’è in ognuno di noi può venir fuori tranquillamente e<br />

facilmente con la fotografia; non è vero che solo pochi nascono<br />

artisti, come pensano molti; non è più questione di abilità<br />

intrinseca, basta sentire dentro di sé e la fotografia, in special<br />

modo quella <strong>digitale</strong>, potrà tirare fuori quelle sensazioni e disporle,<br />

astrattamente, in una immagine bidimensionale, da mostrare agli<br />

altri, per la loro gioia e per quella dell’artista.<br />

12


2 – <strong>La</strong> camera oscura<br />

Adesso vogliamo capire come funziona una macchina<br />

fotografica <strong>digitale</strong>; ossia come avviene la formazione e la<br />

memorizzazione di una immagine.<br />

Ogni apparecchio fotografico, <strong>digitale</strong> o analogico, semplice o<br />

complicato, costoso o economico, è composto essenzialmente di<br />

due parti: la prima si occupa della formazione dell’immagine e la<br />

seconda si occupa della memorizzazione dell’immagine formata.<br />

Questa seconda parte è chiaramente differente nella macchina<br />

analogica rispetto a quella <strong>digitale</strong>, basandosi la prima su un<br />

processo fisico-chimico, nel quale la luce agisce su una emulsione<br />

presente sopra la pellicola, mentre nel secondo la formazione<br />

dell’immagine avviene attraverso un procedimento fisicoelettronico<br />

sopra un dispositivo chiamato CCD.<br />

<strong>La</strong> parte della macchina che forma l’immagine fotografica è<br />

invece uguale per le due tecnologie ed è chiamata camera oscura.<br />

Tale dispositivo è preesistente alle macchine fotografiche, e se ne<br />

ha notizia da almeno cinque secoli: infatti se ne faceva uso già nel<br />

1500.<br />

13


L’uso cui era destinata la camera oscura era già quello della<br />

formazione di immagini, la cui memorizzazione però era<br />

completamente manuale: l’immagine si formava su di una parete<br />

bianca all’interno di una vera e propria stanza, completamente<br />

chiusa salvo un minuscolo forellino, nella quale l’artista copiava a<br />

mano l’immagine della scena fuori che entrava dal minuscolo<br />

forellino.<br />

Ma come è possibile che un’immagine si formi dentro una<br />

stanza, in sostanza dentro una scatola solo per la presenza di un<br />

forellino in una delle sue pareti?<br />

Guardiamo questa ragazza: possiamo vedere sia la ragazza<br />

che la sua immagine nello specchio: ciò ci pare assolutamente<br />

naturale, non facciamo neanche molto caso al fatto che l'immagine<br />

nello specchio sia rovesciata.<br />

Se ora proviamo a togliere lo specchio che cosa succederà?<br />

Ci pare molto verosimile affermare che se non c’è lo specchio<br />

non ci sarà neanche l'immagine della ragazza.<br />

14


Dobbiamo allora pensare che sia lo specchio a generare<br />

l'immagine? Ciò è assurdo: lo specchio si limiterà a mandare verso<br />

di noi l'immagine della ragazza, ma non potrà certo crearla.<br />

Dobbiamo quindi pensare che l’immagine della ragazza sia<br />

presente anche sul muro di casa sua, anche quando lo specchio<br />

non c’è.<br />

15


Anzi di immagini, senza lo specchio, non ce n’è una sola, ma<br />

moltissime ed è proprio questa una delle ragioni per cui non<br />

vediamo niente, perché le varie immagini, tutte molto deboli, si<br />

mischiano tra di loro, confondendosi e dando un alone indefinito.<br />

<strong>La</strong> presenza dello specchio invece seleziona una ed una sola<br />

immagine, che manda direttamente al nostro occhio. Se ci<br />

muoviamo rispetto allo specchio, vedremo un’altra immagine della<br />

ragazza, praticamente identica alla prima, se la ragazza non si<br />

muove, ma in ogni caso lo specchio non crea l’immagine, come si<br />

potrebbe pensare, ma ne seleziona una ed una sola, dandoci una<br />

visione chiara e netta.<br />

<strong>La</strong> stessa cosa fa il forellino nella camera oscura, ovvero<br />

seleziona una ed una sola immagine e la proietta sulla parete<br />

opposta a quella che contiene il forellino.<br />

In tutti questi ragionamenti abbiamo supposto che i raggi<br />

luminosi che si propagano da un qualsiasi punto di un qualsiasi<br />

corpo illuminato, si propaghino in linea retta e si comportino più o<br />

meno come le palle di un biliardo, rimbalzando se trovano un<br />

ostacolo con un angolo di uscita uguale all’angolo di entrata,<br />

seguendo insomma le regole di quella che si chiama ottica<br />

geometrica.<br />

Vedremo che questa supposizione non è corretta, perché non è<br />

in grado di spiegare i fenomeni successivi che studieremo, ma per<br />

il momento ci dà una rappresentazione della luce completamente<br />

corretta.<br />

16


Il principio di costruzione ed il funzionamento della camera<br />

oscura è semplice anche se può apparire singolare. Basta disporre<br />

di una scatola a tenuta di luce, su una faccia della quale si sia fatto<br />

un minuscolo forellino. Si possono fare camere oscure come<br />

questa, costituita da una scatola di cartone.<br />

Attenzione però al forellino: questo non può essere fatto<br />

artigianalmente come la scatola, deve avere un diametro preciso,<br />

piccolo, ma non troppo piccolo, come vedremo nel seguito.<br />

Immaginiamo ora una camera oscura costituita da una scatola<br />

su una parete della quale abbiamo praticato un forellino delle<br />

dimensioni giuste.<br />

I raggi luminosi, provenienti da un punto luminoso della scena<br />

davanti alla camera oscura vanno a sbattere contro la parete<br />

frontale di essa. Solo uno, solo quello che si troverà a passare per<br />

il forellino, arriverà a formare un punto luminoso nella parete<br />

opposta della camera oscura.<br />

17


In questo modo per ogni punto luminoso della scena si avrà un<br />

solo punto luminoso sulla parete ed in tal modo tutta la scena<br />

inquadrata sarà riprodotta fedelmente sulla parete di fondo della<br />

camera oscura, ossia per ogni punto luminoso della scena<br />

inquadrata, si formerà sulla parete opposta della camera oscura un<br />

punto luminoso. Insomma tutta la scena inquadrata sarà riprodotta<br />

dentro la camera oscura in maniera nitida e non confusa.<br />

Però la scena riprodotta sarà molto poco intensa, cioè molto<br />

poco luminosa, perché la quantità di luce che penetra nella camera<br />

oscura è molto piccola, essendo limitata a quei raggi, uno per<br />

ciascun punto luminoso, che riescono a passare dal forellino.<br />

18


Per memorizzare le immagini ottenute da una camera oscura<br />

così semplice è sufficiente porre sopra la parete sulla quale si<br />

forma l’immagine una lastra fotografica e lasciarla impressionare<br />

dalla luce. Però saranno necessari lunghi, anzi lunghissimi tempi di<br />

posa, per cui si possono ottenere immagini solo di scene immobili;<br />

gli oggetti in movimento, come persone e automobili,<br />

semplicemente non verrebbero memorizzate.<br />

Però tutta la scena sarà a fuoco, insomma si otterrà una<br />

profondità di campo infinita, cosa che vedremo sarà impossibile<br />

ottenere con i vari tipi di macchina fotografica, anche con quelli più<br />

sofisticati e costosi<br />

Forse per questo esistono appassionati in tutto il mondo che si<br />

dilettano con questo tipo di camera oscura che lasciano di fronte<br />

alla scena per un tempo lungo per ottenere immagini, anche belle,<br />

e sicuramente emozionanti,.<br />

Ma si tratta di appassionati, mentre l’uso fotografico di tale<br />

mezzo è praticamente impossibile.<br />

19


Per rimediare al problema della poca luminosità della camera<br />

oscura con un solo forellino si potrebbe pensare di allargare il<br />

forellino, in modo da far entrare una maggiore quantità di luce.<br />

Non si otterrebbe però in tal modo un’immagine più intensa, ma<br />

si otterrebbero invece diverse immagini, tutte della stessa debole<br />

intensità della scena riprodotta ed ognuna parzialmente<br />

sovrapposta alle altre, in sostanza un’immagine confusa ed<br />

illeggibile, questo perché raggi di diversa direzione provenienti tutti<br />

dallo stesso punto luminoso della scena, andrebbero a formare,<br />

proprio per le loro diverse direzioni, differenti punti immagine sulla<br />

parete della camera oscura.<br />

L’ideale sarebbe utilizzare un foro più grande, che lasciasse<br />

passare molti più raggi da ogni punto luminoso dell’immagine, ma<br />

allo stesso tempo fare in modo che questi vari raggi non divergano<br />

tra loro ma convergano in un punto solo, si sovrappongano<br />

insomma, in modo di formare un punto luminoso piuttosto intenso.<br />

In effetti ciò è possibile utilizzando un semplice strumento<br />

ottico, scoperto già nel diciassettesimo secolo, che ha appunto il<br />

20


potere di far convergere i vari raggi provenienti da un punto<br />

luminoso della scena in un solo punto luminoso dell’immagine: tale<br />

strumento è chiamato lente convergente, ed ha più o meno questa<br />

forma:<br />

In tal modo si ottiene una immagine nitida e molto luminosa.<br />

21


3 – <strong>La</strong> lente convergente<br />

Ma come fa la lente convergente ad allineare tutte le varie<br />

immagini dell’oggetto?<br />

I vari raggi che provengono dagli oggetti luminosi si propagano<br />

rettilineamente e si riflettono sugli oggetti che incontrano, se tali<br />

oggetti sono opachi, ma se sono trasparenti, come ad esempio gli<br />

oggetti di vetro, i raggi subiscono una doppia trasformazione: una<br />

parte di essi viene riflessa ed una parte penetra nell’oggetto e si<br />

propaga all’interno di esso, subendo però una deviazione. Tale<br />

fenomeno si chiama rifrazione e lo possiamo verificare<br />

semplicemente osservando un bastone immerso nell’acqua: esso<br />

ci appare come spezzato, perché i raggi di luce che penetrano<br />

nell’acqua vengono da questa rifratti.<br />

Il raggio incidente, se penetra in un mezzo più denso di quello<br />

da cui proviene (come nel caso vetro-aria), diminuisce l’angolo di<br />

incidenza, lo aumenta nel caso contrario (per esempio nel caso<br />

aria-vetro). Se il raggio luminoso si trova a dover attraversare tre<br />

mezzi diversi, subisce, con le stesse regole, due diverse rifrazioni,<br />

ad esempio la prima nel passaggio aria-vetro, la seconda nel<br />

passaggio vetro-aria. Si tenga anche conto che<br />

contemporaneamente al fenomeno della rifrazione, si ha anche il<br />

22


fenomeno della riflessione: per cui la luce rifratta è solo una parte<br />

della luce incidente.<br />

<strong>La</strong> lente convergente è un pezzo di vetro delimitato da due<br />

superfici sferiche, solitamente di raggio uguale. Tale<br />

conformazione fa sì che fa sì che i raggi provenienti da un punto<br />

luminoso della scena, la attraversino, convergendo in un solo<br />

punto dell’immagine.<br />

In particolare se i raggi di luce che la attraversano sono un<br />

fascio collimato, ovvero tutti i raggi sono paralleli tra loro, essi<br />

23


convergono in un punto detto fuoco, distante dal centro della lente<br />

di una quantità f detta focale della lente stessa.<br />

Se due fasci di raggi di luce collimati attraversano la lente, ma<br />

hanno due direzioni differenti, andranno a convergere in due fuochi<br />

diversi, ma tutti e due posti sempre alla stessa distanza f dal centro<br />

della lente. Quindi essi andranno a formare fuochi posti tutti nello<br />

stesso piano, detto piano focale, un piano perpendicolare all’asse<br />

della lente e distante dal centro di essa di una quantità pari alla<br />

focale stessa della lente f.<br />

24


Inoltre se un punto luminoso è posto nel fuoco i raggi che da<br />

esso giungono alla lente sono da questa rifratti in modo da farli<br />

uscire paralleli, formando cioè un fascio collimato.<br />

Supporre che il fascio di luce sia collimato equivale a supporre<br />

che il punto luminoso sia posto a distanza dalla lente molto grande<br />

rispetto alle dimensioni della lente e della sua focale, si dice in tal<br />

caso che il punto è all’infinito. Se invece il punto luminoso si trova<br />

ad una distanza relativamente piccola dalla lente, i raggi che da<br />

esso fuoriescono e vanno ad attraversare la lente non sono<br />

paralleli tra loro, ma comunque sono fatti convergere dalla lente in<br />

un solo fuoco, posto questa volta ad una distanza dalla lente<br />

maggiore della focale.<br />

Per calcolare la posizione di questo punto si può ricorrere ad<br />

una costruzione grafica semplice: dal punto luminoso si traccia la<br />

parallela all’asse ottico fino ad incontrare il centro della lente, da<br />

25


questo punto si traccia la retta che passa per il fuoco; poi si traccia<br />

la retta che dal punto luminoso passa dal fuoco opposto fino a<br />

raggiungere il centro della lente e da questo punto si traccia la<br />

parallela all’asse ottico; il punto d’incontro delle due rette è il punto<br />

immagine. Si noti anche che la retta che parte dal punto immagine<br />

e passa per il centro della lente, prosegue senza rifrazione e<br />

raggiunge anch’esso il punto immagine.<br />

Se invece di un punto immagine abbiamo un oggetto costituito<br />

di vari punti posti però tutti sullo stesso piano, l’immagine sarà<br />

formata da tanti punti posti anch’essi su uno stesso piano, detto<br />

piano di messa a fuoco.<br />

26


<strong>La</strong> lente convergente ha quindi la funzione di creare, a partire<br />

da un oggetto luminoso posto da una parte rispetto ad essa,<br />

un’immagine nitida, costituita cioè di tanti punti nitidi, dalla parte<br />

opposta.<br />

Le distanze dei punti immagine dalla lente e le distanze dei<br />

punti oggetto dalla lente sono legate dalla relazione, che include la<br />

distanza focale:<br />

1<br />

i<br />

+ 1<br />

o<br />

= 1<br />

f<br />

Dove o è la distanza dell’oggetto dalla lente, i la distanza<br />

dell’immagine e f la focale.<br />

Dalla precedenti figure si comprende anche che l’immagine di<br />

un oggetto non ha quasi mai le dimensioni dell’oggetto stesso:<br />

ovvero la lente convergente produce un ingrandimento o un<br />

rimpicciolimento dell’immagine stessa.<br />

27


L’ingrandimento di una lente segue la formula:<br />

I = h 1<br />

h =<br />

f 1<br />

f 1−o<br />

dove f1 è la focale della lente, o la distanza dell’oggetto dalla<br />

lente, h l’altezza dell’oggetto ed h1 l’altezza dell’immagine.<br />

In particolare più grande è la focale, maggiore sarà la<br />

dimensione dell’immagine.<br />

C’è un’altra cosa da tenere in considerazione, il cosiddetto<br />

angolo di campo. Esso è l’angolo sotto il quale la lente inquadra la<br />

scena. Osserviamo la figura seguente: l’oggetto nero viene<br />

ingrandito nell’oggetto rosso e in quello blu, a seconda che la<br />

focale della lente sia f1 o f2.; nei due casi si otterrà un’immagine di<br />

grandezza diversa, maggiore nel caso di f2 che è maggiore di f1.<br />

28


Ora se supponiamo di raccogliere l’immagine sopra un foglio di<br />

carta di dimensioni, per esempio tali da contenere tutta l’immagine<br />

blu, e poi spostiamo questo foglio di carta in modo da raccogliere<br />

l’immagine rossa, ci accorgiamo che esso non è sufficiente a<br />

contenerla tutta: in particolare vedremo che può raccogliere<br />

solamente l’immagine della parte di oggetto contrassegnata dal<br />

colore viola. <strong>La</strong> lente con focale maggiore cioè vede l’oggetto sotto<br />

un angolo più stretto, insomma non vede l’oggetto intero, ma solo<br />

una sua parte. Quindi, per riassumere, un focale più lunga<br />

ingrandisce l’immagine e diminuisce l’angolo di campo, una focale<br />

più corta rimpicciolisce l’immagine, ma aumenta l’angolo di campo.<br />

Questo comportamento fa sì che nel parlare comune si dica che<br />

una focale grande ‟avvicina” l’oggetto, mentre una focale piccola lo<br />

‟allontana”. Ovviamente l’oggetto rimane dove è, mentre la lente<br />

ingrandisce o rimpicciolisce la sua immagine.<br />

Notiamo invece un fatto molto importante: se una lente riceve i<br />

raggi luminosi da due punti che giacciono su diversi piani, a<br />

distanze diverse dalla lente, essa focalizza le due immagini su due<br />

piani diversi.<br />

29


Abbiamo parlato molto di luce, ma non ci siamo ancora chiesti<br />

che cosa essa sia. Sembrerebbe una domanda banale, della quale<br />

ognuno conosce la risposta e quindi perfettamente inutile. Non è<br />

così: la luce innanzitutto è quella cosa che rende possibile la<br />

visione: i nostri occhi sono sensibili alla luce, e l’apparecchio<br />

fotografico è anch’esso sensibile alla luce; si sostituisce ai nostri<br />

occhi per un momento, cattura la luce destinata ai nostri occhi e<br />

con essa forma un’immagine cioè un qualcosa che, se investita<br />

nuovamente dalla luce, produrrà una nuova sensazione visiva per i<br />

nostri occhi, una nuova immagine, legata in qualche modo<br />

all’immagine primitiva.<br />

<strong>La</strong> luce proviene per esempio dal sole, ma può provenire da<br />

altre fonti, per esempio dalla combustione del legno, del gas, del<br />

petrolio o di altro; può provenire da un processo di incandescenza<br />

sotto vuoto di un filamento, come nella lampadina, o da un<br />

processo più complicato come quello delle lampade al neon o di<br />

quelle alogene.<br />

Ma tutta questa luce da che cosa è composta? Come si<br />

trasmette per esempio dal sole ai nostri occhi? Ha bisogno di un<br />

qualche supporto, come aria o qualcos’altro? E quali leggi segue<br />

nella sua propagazione? Sono domande grosse, alle quali ad<br />

essere sinceri non c’è ancora una risposta definitiva. Per meglio<br />

30


dire si possono dare varie risposte, sempre più complicate, che<br />

vanno bene fino ad un certo punto e poi cadono in contraddizione.<br />

Per esempio i Greci antichi consideravano la luce proveniente<br />

dal Sole o da una torcia, come un lancio di piccoli oggetti, una<br />

specie di sassolini minuscoli che colpivano gli oggetti e da questi<br />

erano scagliati contro i nostri occhi nei quali provocavano l’effetto<br />

della vista. Ipotesi molto infantile, si potrebbe pensare, ma non<br />

troppo. Intanto noi stessi abbiamo supposto una natura della luce<br />

più o meno simile: abbiamo infatti parlato di raggi, abbiamo detto<br />

che più il foro della camera oscura è piccolo, meno luce penetra<br />

dentro di essa, e meno forte sarà l’immagine formata; abbiamo<br />

detto che la lente fa convergere questi raggi in un punto solo e<br />

quindi aumenta la densità di luce in quel punto. Tutto questo è<br />

molto vicino a considerare la luce una serie di ‟corpuscoli” lanciati<br />

in traiettorie rettilinee, come sassolini, però non sensibili alla forza<br />

di gravità. Insomma abbiamo sposato quella tesi degli antichi<br />

filosofi greci, anche se detta da loro ci pare un po’ ridicola.<br />

Questa teoria della luce si chiama corpuscolare ed è utilizzata<br />

ampiamente in tutta quella parte della fisica che si chiama ottica<br />

geometrica, che come detto abbiamo per ora adottata e va<br />

benissimo per spiegare la formazione delle immagini in campo<br />

fotografico; ma non è esatta, anzi è profondamente sbagliata.<br />

Mi spiego meglio, fornisce risultati in accordo con la pratica,<br />

sempre che non si guardi troppo per il sottile, altrimenti cade in<br />

profonde contraddizioni e si trova di fronte a fenomeni inspiegabili.<br />

Anzi molto presto dovremo cambiare un po’ la nostra teoria ed<br />

introdurre qualche complicazione per poter andare avanti.<br />

Introdurremo un’altra teoria detta ondulatoria che però non sarà<br />

neanche questa corretta fino in fondo, ma stavolta ci<br />

accontenteremo. Se volessimo proseguire dovremo passare alla<br />

teoria cosiddetta quantistica che, guarda caso, si riavvicina e di<br />

molto alla teoria corpuscolare.<br />

Seguitiamo però per il momento a considerare la luce come un<br />

insieme di raggi che fuoriescono da un punto luminoso e si<br />

espandono in ogni direzione.<br />

31


4 – L’obiettivo fotografico<br />

Cominciamo a costruire il nostro apparecchio fotografico:<br />

abbiamo detto che deve essere costituito da una camera oscura<br />

che formi l’immagine e da un altro apparato che conservi questa<br />

immagine. Potremo allora pensare ad un qualcosa del genere:<br />

Il contorno in nero è la nostra camera oscura con il suo forellino<br />

e sulla parete di fondo abbiamo posto il nostro apparato per la<br />

conservazione dell’immagine: è un apparato elettronico che si<br />

chiama CCD e del quale adesso non ci interessiamo; sappiamo<br />

solo che se la camera oscura provvede a formare su di esso<br />

un’immagine, questo la conserverà e vedremo a suo tempo in che<br />

modo.<br />

Ma sappiamo già che il nostro forellino, pur semplice ed<br />

economico, non riesce a fare molto: la luce che penetra all’interno<br />

è scarsa e l’immagine quasi non si vede. Sappiamo anche che non<br />

si può aumentare la grandezza del foro, pena la formazione di<br />

immagini multiple.<br />

32


Ma abbiamo appena scoperto che se allarghiamo il foro e<br />

poniamo su di esso una lente convergente, il problema di formare<br />

un’immagine forte è risolto:<br />

Magari le cose fossero così semplici! <strong>La</strong> nostra lente funziona,<br />

ma ha tanti difetti, chiamati, forse per farli apparire peggiori,<br />

aberrazioni: per esempio i raggi che passano nella parte periferica<br />

della lente subiscono delle deformazioni. Come si eliminano le<br />

aberrazioni? Ponendo un’altra lente che ha un’aberrazione<br />

anch’essa, ma opposta alla prima e che quindi la corregge. Almeno<br />

in parte: se non ci basta potremo aggiungere una terza lente e poi<br />

una quarta e poi altre, fino a quando ci potremo ritenere soddisfatti.<br />

Il risultato non sarà perfetto, ma almeno soddisfacente. Allora non<br />

avremo più una lente, ma un insieme di lenti, che si chiama<br />

obiettivo, parola che rimarca il fatto che molti considerano la<br />

fotografia una copia esatta della realtà. Invece non è così e non<br />

solo per le aberrazioni delle lenti.<br />

Un obiettivo potrebbe avere un aspetto del genere:<br />

33


L’obiettivo è allora un sistema di lenti, del quale il fabbricante,<br />

oltre a fornire le caratteristiche delle lenti che lo compongono,<br />

fornisce anche la lunghezza focale, ovvero la distanza alla quale<br />

l’obiettivo focalizza un fascio collimato, e questo facilita non poco<br />

le nostre considerazioni, perché in questo modo possiamo<br />

continuare a pensare il nostro apparecchio come una camera<br />

oscura dotata di una sola lente con una focale uguale a quella<br />

dell’obiettivo.<br />

34


Un obiettivo come quello schematizzato nella figura precedente<br />

ha però un gravissimo difetto: riesce a creare sul CCD immagini<br />

nitide solo di oggetti posti ad una certa distanza da esso: infatti<br />

essendo l’obiettivo a distanza fissa dal CCD, diciamo i , potrà<br />

focalizzare solo oggetti posti ad una distanza x da esso che<br />

verifichi la relazione:<br />

ovvero alla distanza:<br />

1<br />

i<br />

o =<br />

+ 1<br />

o<br />

= 1<br />

f<br />

f ×i<br />

f −i<br />

Ogni altro punto su un piano diverso non sarà focalizzato sul<br />

CCD ma davanti o dietro ad esso.<br />

35


Invece noi vogliamo essere in grado di focalizzare sul CCD i<br />

punti di un piano qualsiasi a nostra scelta, ovvero dovremo essere<br />

in grado di eseguire la cosiddetta messa a fuoco.<br />

Come possiamo fare ciò? Dobbiamo essere in grado di<br />

allontanare o avvicinare l’obiettivo dal CCD in modo da variare la<br />

grandezza o, automaticamente varierà la grandezza i ovvero la<br />

distanza dall’obiettivo del piano che sarà messo a fuoco.<br />

Per realizzare questa funzione gli obiettivi hanno una ghiera di<br />

messa a fuoco che consente appunto di allontanarli o avvicinarli al<br />

CCD.<br />

<strong>La</strong> figura seguente mostra una tipica ghiera di messa a fuoco di<br />

un obiettivo tradizionale.<br />

Le macchine digitali compatte non hanno questa ghiera di<br />

messa a fuoco, la manovra nel loro caso si esegue dal menu della<br />

macchina.<br />

Uno schema allora più veritiero di un obiettivo è il seguente:<br />

36


Adesso però dobbiamo pensare per un attimo anche alla<br />

conservazione dell’immagine, nel senso che la nostra fotocamera<br />

dovrà avere gli strumenti per poter anche immagazzinare<br />

l’immagine che l’obiettivo forma sul CCD.<br />

Solitamente si cade nell’errore di pensare la luce come una<br />

sorta di sostanza magica, capace di produrre immagini in un tempo<br />

infinitesimo: così si suppone che sia sufficiente l’esposizione<br />

istantanea di una pellicola sensibile, per immagazzinare su di essa<br />

l’immagine appena formata. Il CCD poi è un mistero tecnologico,<br />

sappiamo che è un componente elettronico, e assumiamo che<br />

abbia lo stesso comportamento di una pellicola tradizionale.<br />

E’ più o meno così, però in ambedue i casi occorre che la luce<br />

eserciti la sua azione per un tempo non infinitesimo, anche se<br />

spesso molto breve.<br />

In più dobbiamo controllare anche la quantità di luce che<br />

colpisce il CCD (o la pellicola) perché anche questa avrà la sua<br />

influenza sulla formazione dell’immagine .<br />

Infine dobbiamo tener conto della sensibilità del CCD, ovvero<br />

della sua capacità di reagire agli stimoli della luce. Insomma la luce<br />

deve svolgere un certo tipo di lavoro e bisogna assicurarci che ne<br />

37


arrivi abbastanza, che arrivi per un certo tempo e che il CCD abbia<br />

la giusta sensibilità.<br />

Questi tre parametri: quantità, tempo e sensibilità sono in stretta<br />

relazione tra loro e dai loro valori dipende la qualità della fotografia.<br />

Solitamente si usa fare un paragone con il riempimento di un<br />

recipiente per mezzo di un rubinetto. Se lo scopo è quello di<br />

riempire il recipiente, dovremo tenere in considerazione tre<br />

parametri: la capacità del recipiente, la quantità di acqua che esce<br />

dal rubinetto e il tempo durante il quale il rubinetto sta aperto.<br />

Sarà equivalente per il nostro scopo per esempio aprire a metà<br />

il rubinetto e tenerlo aperto per 20 secondi, oppure aprire del tutto<br />

il rubinetto, ma tenerlo aperto per soli 10 secondi. Il risultato sarà<br />

identico: il recipiente pieno fino all’orlo. Se però dovessimo usare<br />

un recipiente con capacità doppia, allora i valori precedenti vanno<br />

raddoppiati, per meglio dire va raddoppiato uno dei due e<br />

mantenuto costante l’altro, non importa quale.<br />

Ho riportato questo paragone perché è più intuibile, quando si<br />

parla di luce invece tutto è meno evidente, ma è la stessa cosa:<br />

l’apertura del rubinetto corrisponde a far entrare un flusso di luce<br />

38


più o meno grande, schermando per così dire l’obiettivo e<br />

costringendo la luce a passare solo in una zona delimitata di esso.<br />

Il tempo di esposizione è evidentemente il tempo in cui la luce può<br />

colpire il CCD e lavorare per materializzare la foto. <strong>La</strong> sensibilità<br />

del CCD invece è corrispondente alla capacità del recipiente.<br />

Volete un altro esempio? Bene, se dovete cuocere della carne<br />

in forno, dovete badare a tre parametri: la temperatura del forno, la<br />

durata della sosta della carne nel forno e la durezza della carne;<br />

rispettivamente equivalenti a quantità di luce, tempo e sensibilità.<br />

Adesso come si regolano questi tre parametri (nella macchina<br />

fotografica)?<br />

Cominciamo dalla sensibilità, che è quella più semplice da<br />

spiegare. Quando si usava la pellicola questa riportava sulla<br />

confezione la propria sensibilità: era espressa in unità normalizzate<br />

ISO, ed aveva valori da 25 ISO a 3200 ISO o anche maggiori; ogni<br />

volta che il valore raddoppiava, anche la sensibilità raddoppiava.<br />

Questa sensibilità era data dalla costituzione dell’emulsione: in<br />

particolare se i grani di sale d’argento erano più grandi anche la<br />

sensibilità aumentava.<br />

Con il CCD si usano le stesse unità ISO, solo che stavolta non<br />

è necessario cambiare il CCD, ma è sufficiente modificare la<br />

sensibilità, attraverso uno dei tanti menu presenti sull’apparecchio<br />

fotografico. Una scala di valori di sensibilità programmabili con una<br />

fotocamera <strong>digitale</strong> è la seguente :<br />

25 50 100 200 400 800<br />

Come detto passando da un valore a quello alla sua destra si<br />

raddoppia la sensibilità, andando a sinistra invece la si dimezza.<br />

Per regolare invece la quantità di luce, l’apparecchio fotografico<br />

è dotato di un dispositivo, molto elementare, chiamato diaframma,<br />

che di fatto riduce l’area di passaggio della luce che attraversa<br />

l’obiettivo. In generale il diaframma fa parte dello stesso obiettivo<br />

ed è regolabile con una sua ghiera, abbastanza simile a quella<br />

39


della messa a fuoco. <strong>La</strong> figura seguente mostra un diaframma<br />

reale di una fotocamera:<br />

Muovendo la ghiera si muovono le lamelle che aprono o<br />

chiudono la zona dove la luce può transitare. <strong>La</strong> figura seguente<br />

mostra invece due obiettivi, nei quali si riconoscono<br />

rispettivamente un diaframma molto aperto ed un altro molto<br />

chiuso:<br />

L’apertura del diaframma viene misurata in un modo che può<br />

apparire strano, ma non lo è: si misura il diametro del foro,<br />

40


praticamente circolare, nel quale passa la luce, ma non si esprime<br />

in millimetri, ma in frazioni della lunghezza focale. <strong>La</strong> ragione di<br />

questa scelta è molto semplice: in tal modo potremo parlare di<br />

apertura dell’obiettivo (cioè della grandezza del suo diaframma)<br />

indipendentemente dal tipo di obiettivo e dalla sua focale.<br />

È infatti evidente dalla figura seguente che per avere la stessa<br />

quantità di luce in ogni punto del CCD è necessario avere aperture<br />

maggiori per focali maggiori, in quanto una focale maggiore<br />

allontana il CCD dalla fonte di luce. Se non si misurasse l’apertura<br />

in frazioni di focale si dovrebbe dire per esempio, diametro di<br />

apertura 25 mm con una focale di 50 mm, oppure diametro di<br />

apertura di 50 mm con una focale di 100 mm; nei due casi,<br />

perfettamente equivalenti, invece si dirà apertura pari a f/2, cioè la<br />

metà della focale.<br />

Potrebbero apparire strani i valori che si usano per misurare le<br />

aperture. Sono valori standard stabiliti una volta per tutte e uguali<br />

in tutti gli apparecchi fotografici, almeno quelli tradizionali. Essi<br />

sono:<br />

41


1,4 2 2,8 4 5,6 8 11<br />

Come già detto questi numeri vanno intesi come divisori della<br />

focale, ovvero per esempio 8 significa che il diametro del foro di<br />

passaggio della luce è 1/8 della focale. Perché questi numeri?<br />

Facciamo per il momento caso che, se calcoliamo i quadrati di<br />

ciascuno di essi, otteniamo dei numeri che sono ognuno circa la<br />

metà del successivo:<br />

2 4 8 16 32 64 128<br />

Teniamo bene a mente questo fatto.<br />

Allora il nostro apparecchio fotografico avrà la struttura della<br />

figura seguente:<br />

42


In questa figura il diaframma è mostrato per ragioni di<br />

chiarezza, come un segmento rosso fuori dall’obiettivo, anche se è<br />

quasi sempre dentro ad esso.<br />

Quando il diaframma è molto chiuso la luce che arriva al<br />

CCD è molto debole, insomma si ritorna al caso della camera<br />

oscura con foro.<br />

Vediamo ora come è possibile regolare il tempo durante il quale<br />

il CCD è esposto alla luce, ossia il tempo di esposizione.<br />

Lo si fa con un altro meccanismo chiamato otturatore. Esso può<br />

essere realizzato in due modi diversi, o con lamelle, in questo<br />

simile al diaframma (otturatore centrale) oppure con una specie di<br />

saracinesca che scorre orizzontalmente (otturatore a tendina). <strong>La</strong><br />

figura seguente mostra i due schemi:<br />

43


Le figure seguenti mostrano invece le foto di due otturatori reali,<br />

il primo del tipo centrale.<br />

44


Il secondo a tendina.<br />

Il tempo di esposizione, il tempo cioè in cui l’otturatore rimane<br />

aperto si misura semplicemente in secondi, o per meglio dire in<br />

frazioni di secondo. Anche qui si hanno valori standardizzati che<br />

sono i seguenti:<br />

1/4 1/8 1/16 1/32 1/64 1/125 1/250 1/500<br />

Stavolta l’interpretazione è semplice, e ogni valore è la metà del<br />

precedente.<br />

Adesso abbiamo completato lo schema, molto teorico,<br />

della nostra macchina fotografica, che avrà questo aspetto quando<br />

la macchina è in riposo:<br />

45


E questo quando si sta scattando una foto e la luce penetra fino<br />

al CCD<br />

46


5 – <strong>La</strong> misurazione della luce<br />

Supponiamo adesso di voler fare una fotografia con la nostra<br />

camera oscura, dotata di obiettivo, messa a fuoco, diaframma ed<br />

otturatore, nonché di un qualcosa per regolare la sensibilità del<br />

CCD, qualcosa insomma equivalente al cambio della pellicola.<br />

Dobbiamo scoprire quale sia la quantità di luce necessaria per<br />

realizzare la foto: deve essere la quantità giusta, né poca, né<br />

troppa, perché altrimenti avremo nel primo caso una foto troppo<br />

scura (sottoesposta), e nel secondo una foto troppo chiara<br />

(sovraesposta).<br />

Come si fa? Quando analizzeremo una normale fotocamera<br />

<strong>digitale</strong>, vedremo che il problema è di facile soluzione, anzi il<br />

problema non esiste proprio, ci penserà la macchina stessa, ma<br />

adesso vogliamo scoprire come si può fare senza automatismi<br />

47


tecnici, anche perché non sempre questi automatismi realizzano<br />

esattamente quello che il fotografo vuole.<br />

Il problema è tutto nella valutazione della intensità della luce<br />

che colpisce la scena da ritrarre e viene riflessa fino al nostro<br />

obiettivo. I fotografi di una volta, quelli bravi, sapevano valutare ad<br />

occhio la intensità della luce ed impostare i valori di diaframma e di<br />

tempo della fotocamera, anche perché contavano molto sulla<br />

capacità della pellicola di minimizzare i loro errori. Se però<br />

vogliamo fare le cose in maniera rigorosa, non ci rimane che<br />

misurare la luce con uno strumento che si chiama esposimetro, ed<br />

ha più o meno l’aspetto seguente:<br />

In generale l’esposimetro dà la misura del valore luce della<br />

scena LV. Tale valore è un numero intero positivo o negativo:<br />

crescendo di un unità il valore della luce raddoppia, per esempio 3<br />

è il doppio di 2 e -1 è la metà di 0 e così via. Dal valore di luce si<br />

passa in maniera molto semplice al valore di esposizione o EV, che<br />

è lo stesso numero di LV ma aumentato o diminuito della quantità:<br />

48


dove S è la sensibilità del CCD in valori ISO. Sembra una cosa<br />

difficile ma non lo è affatto: EV è uguale a LV più o meno gli<br />

spostamenti che bisogna fare nella scala delle sensibilità per<br />

andare da 100 alla sensibilità del nostro CCD, ossia le volte che si<br />

deve raddoppiare 100 per arrivare alla sensibilità del nostro CCD.<br />

Per esempio se l’esposimetro ci fornisce LV = 4 e abbiamo una<br />

sensibilità di 400 ISO il valore di EV sarà:<br />

EV = LV +2<br />

perché per andare da 100 a 400 dobbiamo moltiplicare 100 per 2<br />

due volte<br />

Ma come faccio poi a scegliere i valori di diaframma e di tempo<br />

Semplice, con quest’altra formula:<br />

Dove T è il tempo di esposizione e A l'apertura del diaframma..<br />

Lo so che sembra complicatissimo, ma basta utilizzare la<br />

seguente tabella dei valori EV, in funzione dell'apertura (in<br />

verticale) e del tempo di esposizione (in orizzontale)<br />

49


1,4 2 2,8 4,0 5,6 8,0 11,0 16,0 22,0<br />

1/4 3 4 5 6 7 8 9 10 11<br />

1/8 4 5 6 7 8 9 10 11 12<br />

1/15 5 6 7 8 9 10 11 12 13<br />

1/30 6 7 8 9 10 11 12 13 14<br />

1/60 7 8 9 10 11 12 13 14 15<br />

1/125 8 9 10 11 12 13 14 15 16<br />

1/250 9 10 11 12 13 14 15 16 17<br />

1/500 10 11 12 13 14 15 16 17 18<br />

1/1000 11 12 13 14 15 16 17 18 19<br />

1/2000 12 13 14 15 16 17 18 19 20<br />

1/4000 13 14 15 16 17 18 19 20 21<br />

1/8000 14 15 16 17 18 19 20 21 22<br />

Osserviamola bene e noteremo qualcosa di molto<br />

interessante. Supponiamo ad esempio di aver ricevuto<br />

dall’esposimetro il valore EV = 12. <strong>La</strong> tabella ci dice chiaramente<br />

che possiamo utilizzare la seguente coppia di valori:<br />

diaframma = f/11; tempo= 1/30<br />

ma la stessa tabella ci dice che potremo utilizzare anche un’altra<br />

coppia, per esempio:<br />

diaframma= f/8; tempo = 1/60<br />

oppure:<br />

diaframma = f/5.6; tempo = 1/125<br />

50


o ancora :<br />

diaframma = f/4; tempo= 1/250<br />

e così via.<br />

Insomma ci sono tanti valori EV=12 nella tabella e ognuno di<br />

essi ci fornisce una coppia tempo-diaframma che produrrà, stiamo<br />

attenti, esattamente la stessa foto. Non voglio intendere una foto<br />

comunque accettabile dal punto di vista della luminosità, intendo<br />

dire proprio la stessa foto, indistinguibile dalle altre.<br />

Ciò costituisce il principio di reciprocità ossia: trovata una<br />

coppia diaframma-tempo corretta, questa è equivalente a tutte le<br />

coppie diaframma-tempo che differiscono dalla prima per aver<br />

variato di un certo numero di passi il diaframma e dello stesso<br />

numero di passi, ma nel senso opposto, il tempo di esposizione.<br />

Insomma se aumento il diaframma devo diminuire il tempo e se<br />

aumento il tempo devo diminuire il diaframma: in tal modo la foto<br />

rimarrà identica.<br />

Tale semplicità e facilità di cambiamento è fornita proprio dalla<br />

particolare scelta dei valori di diaframma e di tempo. Si pensi infatti<br />

che il valore di esposizione è proporzionale al tempo di<br />

esposizione e alla grandezza del fascio di luce che incide sul CCD.<br />

Ora questo fascio di luce è direttamente proporzionale all’area<br />

della sezione del fascio e quest’area è proporzionale al quadrato<br />

del diametro del fascio stesso. Ecco perché abbiamo scelto i valori<br />

del diaframma in modo tale che i loro quadrati, letti uno dopo<br />

l’altro, fossero ognuno il doppio del successivo. Allora andando da<br />

un valore di diaframma al successivo si dimezza l’area del fascio di<br />

luce, per cui per mantenere la situazione inalterata è necessario<br />

raddoppiare il tempo di esposizione. Se invece andiamo da un<br />

valore di diaframma al precedente, raddoppiamo il fascio di luce e<br />

quindi dobbiamo, per mantenere la situazione inalterata,<br />

dimezzare il tempo di esposizione.<br />

Tutto chiaro, no?<br />

51


Però a questo punto nasce spontanea una domanda: perché<br />

complicarsi la vita inutilmente? Perché, visto e considerato che<br />

dato un valore ad uno dei due parametri è possibile trovare il<br />

valore dell’altro che soddisfi le nostre esigenze, perché non si<br />

fanno macchine per esempio con diaframma fisso e la possibilità di<br />

modificare il tempo di esposizione in modo da trovare il valore EV<br />

necessario? Oppure perché non si fanno fotocamere con il tempo<br />

di esposizione fisso e la possibilità di variare il valore del<br />

diaframma, per ottenere l’EV desiderato? Sarebbe sicuramente<br />

una riduzione di complessità, senza compromettere in alcun modo<br />

il risultato finale della foto.<br />

E’ perfettamente vero, da questo punto di vista il discorso non<br />

fa una piega, ma dobbiamo ancora considerare un altro aspetto,<br />

finora trascurato.<br />

Abbiamo visto che un obiettivo, con la sua ghiera di messa a<br />

fuoco, riesce a focalizzare sul CCD un’immagine nitida di una<br />

scena su un particolare piano. Però tutti gli oggetti posti su piani<br />

diversi non saranno focalizzati su quel piano e per questa ragione<br />

nella foto quegli oggetti non saranno nitidi, ma sfocati.<br />

Infatti nella figura seguente si nota come gli oggetti del piano A<br />

vengano focalizzati in un piano diverso da quello nel quale<br />

vengono focalizzati gli oggetti del piano B. Il problema è che se<br />

facciamo coincidere il piano del CCD con il piano di messa a fuoco<br />

A, gli oggetti del piano B saranno sfocati, se invece facciamo<br />

andare il CCD sul piano dove focalizza il piano B, su di esso<br />

saranno sfocati gli oggetti del piano A.<br />

52


Si capisce chiaramente questo fatto notando che i raggi blu<br />

(provenienti da B) creano punti immagine molto grandi e quindi<br />

sfocati sul piano di messa a fuoco A e viceversa. Il problema tra<br />

l’altro non sembra abbia una soluzione, ed infatti non ce l’ha,<br />

dovremo trovare un compromesso.<br />

53


Cominciamo col notare un fatto: dobbiamo considerare anche e<br />

soprattutto i raggi che attraversano la lente (o meglio il nostro<br />

obiettivo) nelle zone lontane dal suo asse: infatti questi raggi sono<br />

quelli che focalizzano sul piano di messa a fuoco nella zona più<br />

lontana dal punto ove dovrebbe essere concentrato il fascio di<br />

raggi, ovvero sono questi raggi che stabiliscono la grandezza delle<br />

immagini. Queste immagini che sono cerchi invece di punti, come<br />

sarebbero se fossero correttamente focalizzati, sono detti cerchi<br />

di confusione.<br />

Se guardiamo il piano A si vede che mentre il punto rosso è<br />

perfettamente focalizzato (il CCD è sul piano di focalizzazione del<br />

piano A), il punto blu ha formato un fastidioso cerchio di confusione<br />

e non si capisce neanche più che l’oggetto rappresentato è un<br />

punto. Figuriamoci cosa succede se invece di un punto abbiamo<br />

una figura: vedremo solo un po’ di nebbia colorata.<br />

Ovviamente la situazione non cambia se andiamo a mettere il<br />

CCD sul piano di messa a fuoco B: abbiamo il problema opposto.<br />

Supponiamo adesso di chiudere molto il diaframma, ovvero di<br />

utilizzare solo la parte centrale della lente costringendo il CCD a<br />

ricevere solo i raggi luminosi che passano di lì.<br />

54


Anche stavolta i punti si sono trasformati in cerchi di<br />

confusione, ma sono molto più piccoli. Questo dipende dal fatto<br />

che i raggi luminosi sono costretti a passare da un foro piccolo e<br />

quindi non riescono ad aprirsi molto ed a formare quindi cerchi di<br />

confusione piuttosto evidenti.<br />

Se andiamo a vedere i piani di messa a fuoco A e B otteniamo<br />

queste situazioni:<br />

Come si vede stavolta la situazione è accettabile, i cerchi di<br />

confusione non sono molto grandi e l’occhio umano non li<br />

avvertirà. In sostanza allora la sfocatura dei piani non<br />

perfettamente focalizzati viene eliminata riducendo il diaframma e<br />

contando sulla imperfezione dell'occhio umano. <strong>La</strong> profondità dello<br />

spazio nel quale tutti gli oggetti sono focalizzati correttamente si<br />

chiama profondità di fuoco e, come abbiamo appena visto,<br />

aumenta con il diminuire del diaframma.<br />

Ecco dunque una buona ragione di conservare la possibilità di<br />

variare il diaframma.<br />

55


Ma, si osserverà a questo punto, se le cose stanno così, perché<br />

allora non impostare le fotocamere con un valore di diaframma<br />

fisso e molto piccolo, il minimo possibile e lasciare la regolazione<br />

dell’esposizione tramite il solo tempo?<br />

Anche stavolta non sarebbe una soluzione sempre valida,<br />

perché in molti casi, per esempio quando vogliamo fotografare un<br />

oggetto molto veloce, per evitare l’effetto di mosso, dobbiamo<br />

impostare un tempo molto veloce, e se avessimo il diaframma fisso<br />

molto probabilmente non riusciremmo a fare una foto abbastanza<br />

luminosa. Allora in questo caso dovremmo aumentare il<br />

diaframma, a costo di ridurre la profondità di fuoco.<br />

In maniera opposta, se volessimo invece fotografare qualche<br />

persona o qualche oggetto con l'effetto di "mosso", dovremmo<br />

impostare un tempo piuttosto lungo; allora se non avessimo la<br />

possibilità di ridurre l'apertura, saremmo costretti ad accettare una<br />

foto sovraesposta. Insomma in vari casi è necessario un<br />

compromesso tra diaframma e tempo di esposizione, e quindi è<br />

indispensabile avere la possibilità di regolare sia il tempo di<br />

esposizione con l'otturatore, sia l'apertura con il diaframma.<br />

Ricordiamo anche che esiste la possibilità di aumentare o<br />

diminuire il valore di sensibilità del CCD, cosa questa che ci<br />

conferisce un ulteriore grado di libertà.<br />

56


6 – Immagini vettoriali ed immagini bit-map<br />

Un’immagine <strong>digitale</strong> può essere di due tipi: vettoriale o bitmap.<br />

<strong>La</strong> differenza è sostanziale, addirittura filosofica. Prima di<br />

spiegarla diamo un'occhiata alle due teste di Paperino della figura<br />

seguente.<br />

A prima vista sembrano del tutto equivalenti: quella di sinistra è<br />

un’immagine bit-map, quella di destra un'immagine vettoriale.<br />

Per apprezzare le differenze proviamo ad ingrandire le foto ed<br />

osservarne alcuni particolari.<br />

Da questo particolare si nota chiaramente la differenza tra i due<br />

57


tipi di immagine. Il primo quello denominato bit-map è costituito da<br />

una serie di piccoli quadratini colorati, una specie di mosaico, che,<br />

se guardati con un ingrandimento non troppo spinto, simulano per<br />

l’occhio umano un'immagine continua. Il secondo è invece davvero<br />

un’immagine continua, nella quale l’ingrandimento ha il solo effetto<br />

appunto di ingrandire, mentre i contorni e i colori dell’immagine<br />

rimangono tali e quali a quelli dell’immagine in formato ridotto:<br />

insomma in questo ultimo caso si ha un vero e proprio<br />

ingrandimento fotografico, ma l’immagine non “sgrana”, come<br />

invece succede nelle fotografie su pellicola tradizionali: è come se<br />

l'immagine venisse ogni volta ridisegnata più in grande.<br />

Vediamo ancora due ingrandimenti più spinti delle due<br />

immagini.<br />

Si noti come l’immagine bit-map, quella a sinistra, mostri ancor<br />

di più la sua natura di mosaico, mentre quella vettoriale a destra<br />

sia ancora perfettamente ridisegnata e mostri tutti i particolari<br />

58


perfettamente ingranditi.<br />

Ma insistiamo ancora un po’ con questa immagine vettoriale,<br />

scopriamo che è possibile isolare un particolare di essa per<br />

esempio la parte più scura dell’occhio e ingrandirla quanto si vuole.<br />

<strong>La</strong> parte ingrandita ha conservato perfettamente la sua forma: è<br />

stata proprio ridisegnata più grande nelle sue giuste proporzioni.<br />

L’immagine bit-map invece, quando venga ingrandita mostra la sua<br />

‟grana”, svela insomma la sua costruzione.<br />

A questo punto non ci dovrebbero essere dubbi: useremo<br />

sempre immagini vettoriali.<br />

Invece in questo corso non ne parleremo affatto, ma faremo<br />

uso esclusivamente di immagini bit-map.<br />

E perché?<br />

Beh, è molto semplice: le macchine fotografiche sono capaci di<br />

produrre esclusivamente immagini del tipo bit-map. Le immagini<br />

vettoriali sono invece dei disegni, magari molto complicati, generati<br />

da disegnatori con l’aiuto del computer.<br />

Mi spiego meglio: le immagini vettoriali sono degli insiemi di<br />

curve geometriche definite matematicamente, con delle formule:<br />

una retta, un quadrato, un’ellisse, un arco di cerchio, una parabola,<br />

una curva del terzo, quarto grado e così via. Se si desidera<br />

59


ingrandirle, basta chiedere alla formula matematica di aumentare<br />

le dimensioni: fare un cerchio di raggio più grande, un quadrato di<br />

lato più grande e così via: molto semplice.<br />

E’ chiaro però che di una simile figura deve prima nascere il<br />

progetto, le formule matematiche che la definiscono, e poi sarà<br />

generata l’immagine: è questo quindi il modo di raffigurare un<br />

disegno fatto da una persona, ma non è possibile chiedere ad una<br />

macchina fotografica di calcolare, mentre scatto la foto, le formule<br />

che definiscono l'immagine di un paesaggio che sto osservando<br />

nel mirino!<br />

Insomma le immagini vettoriali sono immagini create a tavolino,<br />

mentre le immagini bit-map sono rappresentazioni di oggetti reali.<br />

Di un’immagine vettoriale si può sempre dare una<br />

rappresentazione bit-map, il processo si chiama "rasterizzazione";<br />

si può anche trasformare un’immagine bit-map in un’immagine<br />

vettoriale, ed il processo si chiama appunto "vettorializzazione",<br />

ma, attenzione, è un processo lungo e complicato, e non può<br />

essere certo eseguito da una macchina fotografica; d'altronde non<br />

sarebbe di alcuna utilità, in quanto non si aumenterebbe<br />

assolutamente la precisione dell’immagine che rimarrebbe quella<br />

dell'immagine bit-map.<br />

Insomma: sono due approcci diversi, e nella sostanza, ma per<br />

quanto riguarda la rappresentazione del reale non c’è altro che la<br />

tecnica bit-map, ed in questo caso è superiore, anche se a prima<br />

vista sembra il contrario.<br />

L’esempio iniziale è ovviamente a favore del vettoriale in quanto<br />

la cosa rappresentata, la testa di Paperino, è un disegno, fatto da<br />

Walt Disney o da chi per lui, ed è quindi molto facile tradurlo in<br />

cerchi, ellissi, curve; si tratta praticamente di ripercorrere il<br />

percorso della matita del disegnatore, che non può aver tracciato<br />

un disegno troppo complesso, neanche se è il più bravo pittore<br />

iperrealista del mondo. Alla fine anche lui si sarà dovuto<br />

accontentare di qualche linea e qualche colore.<br />

Proviamo ora ad analizzare le pennellate di Van Gogh in questo<br />

quadro famoso:<br />

60


Possiamo realisticamente pensare di seguire ogni singola<br />

pennellata e di sostituirla con una curva definita matematicamente<br />

che la imiti perfettamente? Beh, sarà sicuramente un impresa un<br />

po’ lunga e tormentata, ma ci possiamo riuscire.<br />

Ma se volessimo fare la stessa cosa con una scena reale, ne<br />

saremmo capaci? Potremo farlo per una scena come questa?<br />

61


No, impazziremmo, la realtà è troppo complicata per essere<br />

riprodotta con formule matematiche: qualunque rappresentazione<br />

di questo tipo sarebbe inferiore a quella ottenuta da una macchina<br />

fotografica.<br />

Potremo arrivare a dipingere un bel quadro, ma sarebbe una<br />

rappresentazione sicuramente meno soddisfacente di quella fatta<br />

con una rappresentazione bit-map, con la quale ci proponiamo<br />

solo di copiare tessera per tessera, pezzettino per pezzettino i<br />

colori della scena. Questo metodo, che all'apparenza appare<br />

grossolano, ha invece un vantaggio importante: siamo noi a<br />

decidere la precisione della rappresentazione, la sua<br />

verosimiglianza con il reale, in quanto possiamo decidere la<br />

grandezza delle tessere del mosaico ed il loro numero totale.<br />

Insomma per rappresentare la realtà il modo migliore è quello di<br />

non provare a riprodurla nei suoi disegni e nei suoi colori, ma di<br />

limitarsi ad una riproduzione meticolosa e minuziosa di ogni punto<br />

della realtà con un punto dell'immagine che abbia esattamente<br />

quel colore.<br />

62


7 – Digitalizzare un’immagine<br />

Supponiamo di vedere nel mirino della nostra macchina<br />

fotografica <strong>digitale</strong> questa scena:<br />

Ci piace, ed allora premiamo il pulsante di scatto, e la fotografia<br />

è fatta.<br />

Ma che cosa è successo dentro la macchina? Come si è<br />

formata l’immagine?<br />

È successo che il CCD della macchina ha eseguito una<br />

rappresentazione bit-map della scena inquadrata e l’ha<br />

immagazzinata nella memoria della stessa.<br />

Come fa?<br />

Come lo faremmo noi, a mano, se non avessimo nessuna<br />

abilità a disegnare o a dipingere: limitandoci a copiare<br />

63


passivamente la scena, punto per punto.<br />

Come alcuni pittori facevano una volta (e come molti fanno<br />

ancora se la scena da copiare è piuttosto complicata), prendiamo<br />

una griglia di metallo come questa, con 32 caselle orizzontali e 24<br />

caselle verticali:<br />

e supponiamo di guardare l’intera scena attraverso la griglia<br />

stessa:<br />

64


Poi disegniamo su un foglio di carta una griglia, più piccola, ma<br />

con lo stesso numero di caselle verticali ed orizzontali.<br />

65


Adesso andiamo a comprare una scatola di matite come<br />

queste:<br />

66


Bene a questo punto prendiamo il foglio di carta con la griglia e,<br />

osservando la scena attraverso la griglia, cominciamo a riempire la<br />

griglia di carta con i colori delle matite. Faremo così. Osserviamo la<br />

scena e concentriamoci sulla prima griglia, quella in alto a sinistra:<br />

notiamo il colore che ha e scegliamo la matita che è del colore più<br />

vicino a quello del quadratino nella scena. Con questo colore<br />

riempiamo il corrispondente quadratino della griglia di carta. Poi<br />

passiamo ad un altro quadratino, poi ad un altro ancora e così via,<br />

ripetendo sempre la stessa operazione. Potremo usare uno ed un<br />

solo colore per ogni quadratino; se osservando la scena vediamo<br />

più colori nello stesso quadratino, dovremo sceglierne uno, quello<br />

prevalente.<br />

Adesso associamo ad ogni matita della nostra scatola un<br />

numero: le matite sono 19 e ognuna avrà un numero dal 1 al 19.<br />

67


Allora, nel nostro disegno, invece di colorare le caselle, potremo<br />

tranquillamente scrivere, in ogni casella il numero del colore.<br />

68


In tal modo, possiamo trasformare un'immagine in una serie<br />

ordinata di numeri. Nel nostro caso, una volta terminato l’esame<br />

dei quadratini e stabilito per ognuno di essi un colore, ossia un<br />

numero, la nostra immagine sarà tradotta in una serie di numeri,<br />

uno per casella, esattamente 32 X 24 ossia 728 numeri. Questi<br />

numeri però potranno assumere solo i valori dall’ 1 al 19.<br />

Abbiamo fatto la prima digitalizzazione della nostra immagine.<br />

Quando però andremo a riprodurre l'immagine che la<br />

fotocamera avrà salvato, ci troveremo di fronte ad una cosa di<br />

questo genere:<br />

Mmmh, non assomiglia mica tanto alla nostra scena!<br />

Calma, non disperiamoci: proviamo a rimpicciolire la nostra<br />

rappresentazione, sì insomma, proviamo a farla diventare grande<br />

come un francobollo.<br />

69


Pare incredibile, eh? Eppure è la stessa immagine.<br />

Una rappresentazione bit-map è più o meno soddisfacente a<br />

seconda dell’uso che se ne deve fare.<br />

Ma andiamo avanti, se non siamo soddisfatti, dobbiamo<br />

migliorare la rappresentazione. Come si fa? Semplicissimo,<br />

prendiamo un’altra griglia stavolta più fitta, diciamo di 64 caselle<br />

orizzontali e di 48 caselle verticali e ripetiamo lo stesso<br />

procedimento: otterremo questa rappresentazione, migliore della<br />

precedente, ma non ancora soddisfacente:<br />

70


Niente paura, possiamo ancora migliorare, diamo solo<br />

un’occhiata al francobollo:<br />

Eh, niente male, vero? Per il francobollo ci siamo quasi, ma<br />

andiamo avanti. Proviamo ora con una griglia di 160 caselle<br />

orizzontali e di 120 caselle verticali e vediamo cosa succede:<br />

71


Beh va già benino, ma proseguiamo, adesso 320 X 240:<br />

72


Ci contentiamo? No! avanti ancora, adesso 800 X 600:<br />

73


Perfetto, no? Non sono soddisfatto, voglio fare un altro<br />

tentativo: 1600 X 1200:<br />

Adesso possiamo fermarci, perché ogni ulteriore passo in<br />

avanti non migliora la nostra rappresentazione, le ultime due sono<br />

identiche!<br />

74


Non è vero. Le ultime due sono identiche se viste in questo<br />

ingrandimento, ma proviamo ad ingrandirle un po’, guardando solo<br />

un particolare:<br />

Ecco, confrontando le due immagini si vede che aumentando<br />

l’ingrandimento, la rappresentazione con più caselle è migliore,<br />

mentre quella con meno caselle lascia intravedere la seghettatura<br />

delle caselle stesse.<br />

Bene, è il momento di dare alcune definizioni fondamentali. <strong>La</strong><br />

casella è l’elemento più piccolo di una immagine <strong>digitale</strong>,<br />

l’elemento minimo, sotto il quale non è possibile andare: per come<br />

lo abbiamo definito è un quadratino di colore uniforme, voglio dire<br />

che non ci sono sfumature di colore all’interno di una casella.<br />

<strong>La</strong> casella così definita, come unità fondamentale della foto<br />

<strong>digitale</strong>, si chiama pixel.<br />

Una foto è tanto più definita, ovvero mostra un numero<br />

maggiore di particolari, quanti più pixel la costituiscono: per<br />

esempio la prima rappresentazione che abbiamo fatto era di 32 x<br />

24 pixel ovvero aveva un totale di 768 pixel, l’ultima aveva 1600 X<br />

1200 pixel, ovvero un totale di 1.920.000 pixel, che si possono<br />

senza problemi arrotondare a 2 milioni di pixel, o come si dice<br />

comunemente 2 Megapixel. Con il prefisso Mega si intende infatti<br />

75


un numero molto prossimo a 1 milione (per l’esattezza 1.048.576).<br />

Il numero di pixel è la risoluzione dell’immagine. Attenzione:<br />

molti, sbagliando, dicono che la risoluzione è, per esempio, di 300<br />

pixel per pollice. Non è vero, quella è un’altra cosa, riguarda la<br />

stampa; la risoluzione di un’immagine è il suo numero totale di<br />

pixel.<br />

Quindi quanto più fedele vogliamo che sia la rappresentazione,<br />

ovvero quanti più particolari della scena vogliamo siano<br />

rappresentati nell’immagine, tanti più pixel dovremo utilizzare.<br />

Ma la veridicità di un’immagine dipende anche da un altro<br />

parametro, e cioè il numero di colori. Ogni pixel infatti assume un<br />

colore uniforme: ora, questo colore dovrà essere scelto tra un certo<br />

numero di colori presenti per la nostra rappresentazione, come, nel<br />

nostro esempio, il numero di matite colorate a disposizione.<br />

Il numero di colori è importante: infatti non servirà a nulla avere<br />

una grande risoluzione, se poi i colori sono pochi; è inutile cioè<br />

avere molti pixel, se poi siamo costretti a riempire vari pixel con lo<br />

stesso colore, è la stessa cosa che avere pixel più grandi e quindi<br />

risoluzione minore.<br />

76


Possiamo renderci conto dell’importanza di avere un numero<br />

elevato di colori osservando la foto seguente:<br />

Tutto sommato la foto sembra che abbia un numero non<br />

elevato di colori: giallo, rosa, azzurro, verde chiaro, verde più<br />

scuro, arancio, bianco, grigio, nero. Quanti sono: nove; forse ce ne<br />

dimentichiamo qualcuno, proviamo ad utilizzare sedici colori,<br />

dovrebbero essere sufficienti:<br />

77


Sì certo, la fotografia è leggibile, ma si sono perse<br />

completamente tutte le sfumature di colore che pure vi erano,<br />

anche se non ci avevamo fatto caso. Dovremo utilizzare un<br />

numero più elevato di colori, per esempio proviamo con 256,<br />

osservando stavolta un ingrandimento.<br />

78


Non è ancora per niente soddisfacente! E c’è di più: in questa,<br />

che è una simulazione, i 256 colori sono stati scelti tra quelli utili<br />

per la fotografia, se si cambiasse soggetto, per ottenere un effetto<br />

simile, dovremmo cambiare i 256 colori con altri più adatti al nuovo<br />

soggetto. In sostanza se si volessero utilizzare solo 256 colori per<br />

tutte le fotografie, allora la rappresentazione sarebbe notevolmente<br />

più povera.<br />

Sembrerà un’esagerazione, ma il numero di colori utilizzato<br />

normalmente nelle foto digitali, quello utilizzato per esempio nella<br />

foto iniziale è enorme: più di 16 milioni di colori (esattamente<br />

16.772.216)!<br />

E in certi casi non è considerato sufficiente.<br />

Questa è la natura della rappresentazione <strong>digitale</strong>, se ci si<br />

accontenta di risultati così e così, si ha bisogno solo di mezzi<br />

79


modesti, ma se si cerca una rappresentazione veramente ottimale,<br />

la richiesta di risorse sale esponenzialmente.<br />

<strong>La</strong> cosa però importante è che, qualunque sia la precisione che<br />

si vuole ottenere, è possibile trovare un modo per ottenerla, anche<br />

se questo sarà dispendioso. Non c’è insomma alcuna limitazione<br />

teorica alla precisione che si vuole ottenere.<br />

Non era così con la foto tradizionale, nella quale ci si doveva<br />

‟accontentare” delle caratteristiche delle pellicole, per quanto<br />

queste fossero di tutto rispetto, ma oltre non si poteva andare.<br />

Il numero totale di colori, tra i quali potremo scegliere quello da<br />

attribuire al singolo pixel, viene definito: profondità di colore.<br />

80


8 - Il CCD<br />

Abbiamo visto come sia possibile, in linea teoria, digitalizzare<br />

un’immagine. Si tratta semplicemente di dividerla in tanti quadratini<br />

e per ognuno di essi stabilire il colore, confrontandolo con una<br />

serie di colori a disposizione, e tradurre il colore di ogni quadratino<br />

in un numero che identifichi il colore stesso fra tutti quelli<br />

disponibili.<br />

Questa serie di numeri, ordinata, sarà capace di riprodurre<br />

l’immagine di partenza. Ovviamente più è alto il numero di<br />

quadratini, ovvero più piccoli sono i quadratini stessi, insomma più<br />

alta è la risoluzione, e più numerosi sono i colori a disposizione,<br />

insomma più alta è la profondità di colore, più la rappresentazione<br />

dell'immagine sarà accurata.<br />

Tutto ciò è abbastanza semplice da fare, anche se<br />

estremamente lungo e noioso, per un essere umano, ma come fa<br />

la macchina fotografica a dividere l’immagine in tanti quadratini e a<br />

capire che colore c’è in ognuno di essi?<br />

Il segreto sta in quel dispositivo elettronico che sostituisce, nelle<br />

fotocamere digitali, la pellicola tradizionale, ovvero quello che<br />

abbiamo chiamato CCD. Il nome è l’acronimo di Charge Coupled<br />

Device, e si riferisce al funzionamento del dispositivo stesso, che è<br />

molto sofisticato e del quale darò una descrizione molto<br />

semplificata al solo scopo di comprenderne il funzionamento.<br />

Tutto si basa su un dispositivo elettronico semplice e molto<br />

diffuso chiamato fotodiodo.<br />

81


Il fotodiodo è capace di trasformare l’energia luminosa<br />

proveniente da una sorgente luminosa in energia elettrica. È<br />

utilizzato frequentemente, per esempio negli automatismi che<br />

regolano l’apertura di cancelli: in quel caso l’interruzione del raggio<br />

luminoso viene avvertito dal fotodiodo, che cessa di fornire<br />

l’energia elettrica ad un circuito, che provvede allora ad aprire il<br />

cancello.<br />

Se collegassimo un fotodiodo ad una lampadina, questa<br />

sarebbe percorsa dalla corrente elettrica generata dal fotodiodo ed<br />

indotta dalla fonte luminosa e si illuminerebbe emettendo a sua<br />

volta energia luminosa, in tal modo si avrebbe una doppia<br />

conversione di energia: da luminosa a elettrica, e da elettrica a<br />

luminosa.<br />

82


<strong>La</strong> rappresentazione del fotodiodo nelle figure precedenti è<br />

quella di un fotodiodo utilizzato appunto per gli automatismi dei<br />

cancelli elettrici, ma nelle nostre fotocamere è presente un<br />

fotodiodo, anzi una grande quantità di fotodiodi, di natura<br />

completamente differente, fotodiodi integrati che hanno una<br />

struttura di questo tipo (fortemente ingrandita nella figura):<br />

83


Si tratta in sostanza di una barretta di silicio purissimo, che<br />

viene drogata opportunamente con droganti tipo n e tipo p in modo<br />

da realizzare una giunzione n-p che si comporta come un<br />

fotodiodo.<br />

Le dimensioni incredibilmente ridotte di questo dispositivo,<br />

permettono la creazione simultanea di milioni di fotodiodi identici in<br />

pochissimo spazio.<br />

Tale possibilità di ridurre incredibilmente le dimensioni di diodi e<br />

transistor integrati è la ragione dell’incredibile sviluppo<br />

dell’elettronica a partire dagli anni ‛70 del secolo scorso, che ha<br />

dato la possibilità di creare tutti i dispositivi elettronici (computer,<br />

telefonini, Ipod, Iphone, Ipad e via dicendo) dai quali oggi siamo<br />

circondati.<br />

Il CCD non è altro che l’insieme di un numero elevatissimo di<br />

fotodiodi, che coprono tutta la sua superficie e sui quali l’obiettivo<br />

della macchina fotografica focalizza l'immagine.<br />

Un CCD, in verità molto scarso, composto da 1200 fotodiodi,<br />

ovvero 30 file di 40 fotodiodi ciascuna, ha il seguente aspetto:<br />

84


Quando l’obiettivo focalizza sul CCD l’immagine che il fotografo<br />

vuole immortalare, ogni fotodiodo si interessa ad una sola zona<br />

dell’immagine.<br />

Se ogni fotodiodo è in grado di rilevare il colore di quella<br />

particolare area in cui sta lavorando, il gioco è fatto e il nostro CCD<br />

ci darà una rappresentazione dell’immagine.<br />

85


È evidente che tale rappresentazione non è sufficiente,<br />

dovremo per forza ricorrere ad una risoluzione maggiore, utilizzare<br />

CCD con qualche milione di pixel, invece che 1200.<br />

Purtroppo c’è un problema molto più grave: l’immagine<br />

catturata dal fotodiodo non assomiglia neppure lontanamente a<br />

quella sopra, ma a questa:<br />

86


Il problema, molto grave, è che il fotodiodo non è in grado di<br />

rilevare il colore. Non sto scherzando: il fotodiodo rileva<br />

esclusivamente la luminanza dell’immagine, cioè la sua maggiore<br />

o minore luminosità, qualunque sia il colore, al quale non è affatto<br />

sensibile.<br />

Il colore purtroppo sembra essere una materia tipica ed<br />

esclusiva del cervello umano e poco interessante per il resto<br />

dell’universo.<br />

A questo punto è indispensabile chiedersi che cosa sia<br />

realmente il colore. Non sarà però più sufficiente studiare la luce<br />

secondo le regole dell’ottica geometrica: questa non riesce a<br />

spiegare il colore.<br />

87


9 – Il colore<br />

<strong>La</strong> nuova definizione della luce è questa: la luce è un’onda<br />

elettromagnetica con lunghezza d’onda da 400 a 700 nanometri,<br />

ogni lunghezza d’onda corrisponde ad un colore diverso.<br />

Ovviamente tutto ciò necessita di qualche spiegazione.<br />

Innanzitutto che cosa è un’onda? Due tipi di onde sono molto<br />

comuni: le onde del mare e le onde sonore. Le onde<br />

elettromagnetiche sono della stessa natura.<br />

Guardiamo un’onda marina: in essa non c’è, come si potrebbe<br />

pensare, un trasporto orizzontale di acqua (salvo le onde sulla<br />

battigia), l’acqua ha solo un movimento verticale, si alza e si<br />

abbassa, come testimoniano i gabbiani, che dormono sull’acqua e<br />

si cullano con il dolce su è giù di essa, ma non rischiano di<br />

svegliarsi in un luogo diverso da quello in cui si erano<br />

addormentati.<br />

Tuttavia il movimento dell’onda, il suo andare su e giù si<br />

trasmette orizzontalmente, ovvero succede un fenomeno simile a<br />

quello degli spettatori che in uno stadio che fanno la cosiddetta<br />

‟ola”: essi si alzano e si siedono in sequenza, in modo che, visto<br />

dall’esterno, lo stadio sembra percorso da un’onda, e lo è, ma ogni<br />

spettatore rimane al proprio posto. Però l’informazione viaggia e fa<br />

il giro dello stadio o il giro dei sette mari: un naufrago in un’isola<br />

deserta potrebbe vedere l’onda sull’acqua a lui vicina e dedurne<br />

che qualcuno molto lontano ha generato quell’onda per lui.<br />

Lo stesso avviene per le onde sonore, se io urlo, l’aria vicina<br />

alla mia bocca si muove e preme sull’aria intorno, mettendola a<br />

sua volta in agitazione e così via fino all’aria intorno alle orecchie di<br />

una persona, magari lontana, provocando il movimento degli<br />

organi interni delle sue orecchie, i quali a loro volta stimolano i<br />

centri nervosi del suo cervello, così che alla fine questa persona<br />

può dire di aver ascoltato le mie parole. L’informazione ha dunque<br />

viaggiato, ma l’aria è rimasta ferma: parlando, non ho provocato<br />

nessun vento.<br />

Una cosa molto simile avviene con le onde elettromagnetiche,<br />

88


delle quali fa parte la luce: in questo caso si tratta di mettere in<br />

azione il campo elettromagnetico che, pur essendo invisibile, si<br />

propaga in modo analogo alle onde marine ed alle onde sonore e<br />

trasmette la sua informazione.<br />

Come è fatta un’onda? Più o meno così:<br />

Un qualcosa, aria, acqua o campo elettromagnetico si alza e si<br />

abbassa, con regolarità, ripetendo sempre lo stesso andamento.<br />

Un’onda può essere più alta o più bassa, si dice che varia la sua<br />

intensità, ovvero la sua forza: per esempio se urlo invece che<br />

parlare, l’onda che emetto sarà quella di colore blu invece che<br />

quella rossa, mentre se parlo sottovoce l’onda sarà quella di colore<br />

verde:<br />

Ma le onde hanno anche un’altra caratteristica molto<br />

89


importante: esse non solo possono variare di intensità, ma<br />

possono anche essere più fitte o più rade. Per esempio l’onda blu<br />

compie il suo cammino completo in metà tempo di quella gialla, pur<br />

avendo la stessa intensità<br />

mentre l’onda rossa compie un cammino completo nel tempo in cui<br />

la gialla ne compie due e la blu quattro.<br />

Si dice, in questo caso, che l’onda blu ha una lunghezza d’onda<br />

pari alla metà di quella gialla e che l’onda rossa ha una lunghezza<br />

90


d’onda pari al doppio di quella gialla ed al quadruplo di quella blu.<br />

<strong>La</strong> lunghezza d’onda è infatti la lunghezza di un cammino<br />

completo dell’onda, la distanza tra due punti successivi nei quali<br />

l’onda assume lo stesso valore:<br />

Inoltre se in un secondo l’onda si sposta di 5 lunghezze d’onda<br />

si dice che essa ha una frequenza di 5 Hertz. Come si può<br />

facilmente capire lunghezza d’onda λ e frequenza f sono legati tra<br />

di loro da una formula :<br />

λ x f = c<br />

dove c è la velocità dell’onda.<br />

Nel caso delle onde elettromagnetiche tale velocità è<br />

incredibilmente elevata e pari a qualcosa come 300.000 Km al<br />

secondo.<br />

Ciò ha sempre fatto pensare che la velocità di propagazione<br />

della luce, come di tutte le onde elettromagnetiche, sia infinita, ma<br />

non è assolutamente vero; fino a pochi mesi fa la velocità della<br />

91


luce era considerata la massima velocità possibile in natura, oggi<br />

alcuni esperimenti sembrano invece contraddire tale ipotesi, in<br />

ogni caso è una velocità non infinita.<br />

Il nostro mondo è sommerso dalle onde elettromagnetiche:<br />

l’unica differenza tra le varie onde è la loro frequenza o se si<br />

preferisce la loro lunghezza d’onda. Quindi tra la telefonata con i<br />

vostri amici al telefonino, il programma televisivo che preferite e la<br />

luce del sole, c’è solo una piccola e fondamentale differenza di<br />

lunghezza d’onda.<br />

Per meglio comprendere ciò si osservi il seguente diagramma:<br />

o se si preferisce l’analogo espresso in frequenze invece che in<br />

lunghezze d’onda:<br />

92


Insomma se il nostro telefonino fosse in grado di variare la<br />

lunghezza d’onda con la quale trasmette le nostre telefonate,<br />

saremmo in grado, variando la lunghezza d’onda verso l’alto, di<br />

vedere i programmi televisivi e, variandola verso il basso, di<br />

emettere stupendi colori, o addirittura fare la radiografia di chi ci<br />

sta intorno.<br />

Per quanto ci interessa al momento, ci basterà ricordare che la<br />

luce è un’onda elettromagnetica con la lunghezza d’onda<br />

compresa fra i 400 e i 700 nanometri (1 nanometro = 0,000000001<br />

metri).<br />

Possiamo dividere lo spazio fra 400 e 700 nanometri in cento<br />

pezzi ed otterremo cento colori diversi, o dividerlo in cento miliardi<br />

di pezzi ed otterremo cento miliardi di colori diversi.<br />

93


Ecco perché il numero di colori è infinito, o per meglio dire è<br />

tanto grande quanto lo vogliamo far essere.<br />

Ma come possiamo gestire allora una tale infinità di colori?<br />

Diciamo che tale infinità può essere assimilata ad uno spazio<br />

tridimensionale, cioè possiamo classificare i colori fissando i valori<br />

di tre soli parametri. Questi parametri possono essere di vario tipo.<br />

<strong>La</strong> prima classificazione, la più intuitiva e comune, anche se, è<br />

bene dirlo subito, non è una classificazione assoluta, è quella detta<br />

RGB (ovvero Red, Green, Blue; ossia Rosso, Verde e Blu).<br />

Se proiettiamo tre fasci di luce verso i nostri occhi e li facciamo<br />

incontrare, avremo come risultato la creazione di altri colori, il<br />

ciano, il magenta, il giallo e il bianco, che non è, come si potrebbe<br />

erroneamente pensare, l’assenza di colore, ma anzi, la<br />

contemporanea presenza dei tre colori suddetti, rosso, verde e blu,<br />

che si chiamano colori primari additivi, perché dalla loro<br />

mescolanza si possono ottenere tutti gli altri colori. Se non è<br />

presente alcun colore, quindi non c’è luce, c’è il buio e si forma il<br />

colore nero, che proprio un colore non è, ma è l’assenza di ogni<br />

colore.<br />

94


In questo caso ogni colore primario è stato utilizzato al<br />

massimo, ovvero come si dice, con saturazione massima.<br />

Se si usano saturazioni diverse, fino ad arrivare a saturazione 0<br />

ovvero al nero, si ottengono altri colori.<br />

Allora il numero di colori ottenibile è proporzionale al numero di<br />

rossi, di verdi e di blu che si usano, se per esempio, come accade<br />

nella maggior parte dei casi pratici, se si divide l’intervallo tra<br />

saturazione massima e saturazione 0 in 256 valori, ottengo 256<br />

valori di rosso, 256 di verde e 256 di blu, che danno un numero<br />

95


totale di combinazioni e quindi di colori pari a 256 x 256 x 256 =<br />

16.777.216.<br />

Invece il numero minimo di colori ottenibile è 8 e deriva dal fatto<br />

di considerare solo, per ogni colore primario, il colore pieno ed il<br />

nero, in tal modo si hanno 2 x 2 x 2 = 8 colori. Possiamo darne una<br />

rappresentazione grafica tridimensionale in questo modo:<br />

Se invece utilizziamo 4 valori per ogni colore primario avremo 4<br />

x 4 x 4 = 64 colori:<br />

96


Se invece ogni colore viene scomposto in 8 valori otterremo 8 x<br />

8 x 8 = 512 colori:<br />

97


Come si noterà, l’intervallo di ogni colore primario è sempre<br />

diviso per un multiplo di due: due, quattro, otto, sedici, trentadue,<br />

sessantaquattro, centoventotto e infine duecentocinquantasei nel<br />

caso pratico che è utilizzato quasi sempre.<br />

Ciò deriva dal fatto che il sistema di numerazione utilizzato nei<br />

computer è quello binario: due intervalli di rosso significa utilizzare<br />

un bit, quattro intervalli, utilizzarne due, otto, tre e così via fino a<br />

256 intervalli, ovvero otto bit.<br />

Per questo il numero di valori di un colore primario si chiama<br />

profondità di colore ed è espresso in bit. Nel capitolo seguente è<br />

approfondito il concetto di bit e di aritmetica binaria<br />

98


Il sistema RGB è molto usato per la sua semplicità ed<br />

anche per la sua intuibilità: tuttavia non è l’unico sistema e in più<br />

presenta il grosso difetto di essere un sistema non assoluto di<br />

definizione del colore. In sostanza il sistema RGB ci dà una ricetta<br />

per costruire un colore in base ad una precisa mescolanza di<br />

rosso, verde e blu, ma tralascia di definire questi tre colori primari.<br />

Un sistema invece che è assoluto è quello denominato <strong>La</strong>b,<br />

che però è molto meno intuitivo.<br />

In esso un colore è definito al solito da tre grandezze, la prima è<br />

L la luminanza che va da 0 (nero) a 100 (bianco). Tale parametro è<br />

molto interessante perché definisce il valore di grigio che un colore<br />

produce, allorché lo si fotografa in bianco e nero (attenzione,<br />

bianco e nero è un’espressione comune, ma errata, si dovrebbe<br />

dire scala di grigi). Poi ci sono due grandezze che definiscono la<br />

cromaticità dell’oggetto, e che variano da -120 a +120: esse sono a<br />

che definisce la cromaticità dal magenta (+120) al verde(-120) e b,<br />

che definisce la cromaticità dal blu (-120) al giallo (+120).<br />

Questo sistema è importante perché è assoluto, infatti i colori<br />

99


definiti da esso sono univoci e non dipendono dal dispositivo,<br />

come invece succede nel caso del RGB.<br />

Inoltre, come detto, il valore di luminanza è quello percepito<br />

dall’occhio umano quando la foto è in bianco e nero. Ciò ha una<br />

reale e fondata ragione psicologica, perché il meccanismo della<br />

visione è fatto in modo che il cervello riceva prima un’informazione<br />

di luminanza e poi, qualche attimo più tardi, le informazioni di<br />

cromaticità. In sostanza il cervello umano vede prima la scena in<br />

bianco e nero (scala di grigi e poi nota i colori. Forse questa è la<br />

ragione del successo della fotografia in bianco e nero, che però si<br />

dovrebbe sempre chiamare in scala di grigi.<br />

Per capirlo meglio è utile mostrare la stessa immagine: a colori,<br />

in scala di grigi ed in bianco e nero.<br />

Allora riprendiamo una foto già utilizzata che è a colori, o per<br />

essere più esatti, con una profondità di colore di 3X8=24 bits (o<br />

ancora con 256 valori per ogni colore primario):<br />

100


Vediamo la stessa foto in scala di grigi: conserva solo le<br />

informazioni di luminanza, nel senso specificato poco fa, è una foto<br />

con profondità di colore di 8 bits (o 256 colori, o meglio toni di<br />

grigio totali).<br />

Invece la foto in bianco e nero è un insieme di pixel o bianchi o<br />

neri, insomma è una foto in scala di grigi con profondità di colore di<br />

un solo bit (ossia 2 soli colori, il bianco ed il nero:<br />

101


Bene, ora abbiamo capito tutto della natura ondulatoria della<br />

luce e del colore, ma ci rimane da risolvere il problema di come far<br />

diventare il CCD sensibile al colore.<br />

Come si fa?<br />

In un modo semplice anche se potrà sembrare un po’<br />

artigianale.<br />

Basandosi sul fatto che i vari colori sono formati dalla<br />

mescolanza dei tre colori Rosso, Verde e Blu, si eseguono tre<br />

fotografie della stessa scena, ognuna con un solo tipo di luce, la<br />

rossa, la verde o la blu. Poi si mandano le tre foto in memoria e<br />

sarà compito del computer presente nella fotocamera di<br />

combinarle tra loro per ricostruire l’immagine a colori.<br />

102


Per fare ciò in un colpo solo (sarebbe impossibile chiedere al<br />

fotografo di scattare tre volte la stessa foto non muovendo la<br />

fotocamera), si deve costruire la fotocamera con tre CCD diversi,<br />

ognuno per un colore e preceduti da un filtro dello stesso colore, e<br />

un sistema ottico complicato che divida il fascio di luce proveniente<br />

dall’obiettivo in tre fasci uguali e li indirizzi ciascuno ad un CCD.<br />

In tal modo ogni CCD relativo ad un colore, registrerà<br />

un’immagine che sarà costituita o da quel colore o dal colore nero<br />

(assenza di colore).<br />

103


Le tre immagini poi saranno combinate dal computer della<br />

fotocamera che quindi ricomporrà l’immagine a colori per il<br />

fotografo.<br />

Un tale tipo di fotocamera però è molto costoso: di fatto si<br />

devono moltiplicare per tre i costi del CCD e poi il sistema di<br />

scomposizione del fascio di luce è molto delicato. Infatti questo<br />

sistema che viene utilizzato nelle videocamere di fascia elevata,<br />

non viene mai utilizzato nelle fotocamere, nelle quali si ricorre ad<br />

un sistema molto più semplice.<br />

In pratica si utilizza un solo CCD, i cui fotodiodi sono però<br />

schermati in modo da registrare ognuno un solo colore, o il rosso,<br />

o il verde, o il blu.<br />

104


Come si vede dalla figura precedente ogni fotodiodo è stato<br />

schermato con un filtro rosso o verde o blu. Nella pratica si usa<br />

uno schema di filtraggio diverso, in cui si ha un numero maggiore<br />

di fotodiodi verdi che rossi o blu, questo per una questione di<br />

psicologia della percezione, in quanto il cervello umano è molto più<br />

sensibile al colore verde che agli altri due, ma il funzionamento del<br />

CCD non cambia.<br />

Succede però che, in questo caso, la risoluzione vera del CCD<br />

è un terzo di quella dichiarata dal fabbricante. Infatti se per<br />

esempio il CCD ha 3 milioni di pixel, esso sarà però in grado di<br />

fornire solamente un milione di valori nei tre colori fondamentali.<br />

Se da una parte questo fa rivedere al ribasso la risoluzione di<br />

105


un CCD, dall’altra si deve notare che le risoluzioni dei moderni<br />

CCD diventano ogni giorno sempre più alte e quindi non ci sono<br />

problemi.<br />

106


10 – Un po’ di aritmetica<br />

Abbiamo spesso parlato di bit, di byte, e di quantità<br />

stranamente legate al numero 2 ed alle sue potenze: 4, 8, 16, 32,<br />

64, 128, 256, 512 e via dicendo.<br />

Cominciamo con un indovinello. Riuscite a capire il senso di<br />

questa frase:<br />

Le persone si dividono in 10 gruppi: quelle che conoscono il<br />

sistema binario e quelle che non lo conoscono.<br />

A prima vista sembra un’affermazione assurda, ma invece è<br />

verissima: la chiave di comprensione sta tutta nell’interpretazione<br />

di quel numero 10.<br />

Una cosa sono i numeri, un'altra la loro rappresentazione. Se<br />

per esempio io penso al concetto di ventisette pecore, trovo che<br />

c'è una certa somiglianza con il concetto di ventisette mele, ed è<br />

proprio questa indicazione di quantità: ventisette oggetti uguali.<br />

Scrivo ventisette in lettere proprio perché voglio sottolineare il<br />

concetto.<br />

Se voglio invece dare una rappresentazione matematica del<br />

concetto di ventisette, uso questa simbologia:<br />

Perché dico queste cose così ovvie? Perché non sono così<br />

ovvie. Non sempre il ventisette è rappresentato con 27. Per<br />

esempio gli arabi lo rappresentano così:<br />

٢٧<br />

Ma questa non è una differenza notevole, è solo una diversa<br />

lingua, che usa simboli differenti, ciascuno però collegato ad uno<br />

ed uno solo dei nostri simboli.<br />

Un modo invece differente di rappresentare il ventisette era<br />

27<br />

107


quello usato dai Romani:<br />

XXVII<br />

che non ha niente a che vedere con il nostro sistema, né con<br />

quello arabo, né con il prossimo che introdurremo.<br />

Il nostro sistema, chiamato sistema decimale, si basa<br />

sull'utilizzo di dieci cifre (digit, ricordate?) differenti che sono:<br />

0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9<br />

Con queste dieci cifre, con un particolare trucchetto che ci viene<br />

insegnato alle scuole elementari, riusciamo a rappresentare tutti i<br />

possibili ed immaginabili numeri, figuriamoci il ventisette. Come<br />

facciamo? Semplice, non diamo alle cifre solo un significato per la<br />

forma che hanno, ma anche un significato per la posizione nella<br />

quale le mettiamo. Questo vuol semplicemente dire che se<br />

abbiamo due cifre, quella di sinistra vale dieci volte quella di<br />

destra; se abbiamo tre cifre quella al centro vale dieci volte quella<br />

di destra, mentre quella a sinistra vale cento volte quella di destra<br />

e dieci volte quella centrale.<br />

E così via: possiamo scrivere tutti i numeri che vogliamo,<br />

quando le cifre non ci bastano, ne aggiungiamo una nuova a<br />

sinistra e gli diamo un valore dieci volte superiore all'ultima<br />

utilizzata.<br />

In questo modo con le dieci cifre semplici riusciamo a<br />

rappresentare tutti i numeri dallo zero al nove:<br />

zero 0<br />

uno 1<br />

due 2<br />

108


tre 3<br />

quattro 4<br />

cinque 5<br />

sei 6<br />

sette 7<br />

otto 8<br />

nove 9<br />

Dopo, per rappresentare i numeri dal dieci in poi aggiungiamo<br />

una cifra a sinistra con la convenzione che vale dieci volte la cifra<br />

che rappresenta, vale a dire che 2 significa venti, 5 cinquanta e<br />

così via:<br />

dieci 10<br />

undici 11<br />

venti 20<br />

ventisette 27<br />

trentasette 37<br />

quarantaquattro 44<br />

sessanta 60<br />

settantacinque 75<br />

ottantuno 81<br />

novantanove 99<br />

E così via, con due cifre possiamo rappresentare cento numeri,<br />

quelli dallo zero al novantanove. Se mettessimo tre cifre, potremo<br />

rappresentare mille numeri dallo zero al novecentonovantanove.<br />

Questo sistema, il decimale, è così in uso presso tutti (o quasi) i<br />

popoli della terra, che non ci facciamo più caso.<br />

Quando nacquero i primi computers ci si pose il problema di<br />

come rappresentarli dentro la pancia del computer stesso.<br />

I computer sono macchine elettriche e pertanto i numeri devono<br />

109


essere grandezze elettriche, per esempio correnti o tensioni, le<br />

quali dovranno assumere però (i computer sono digitali, quindi<br />

numerici e non analogici), solo alcuni valori.<br />

Rappresentare dieci cifre apparve un po' difficile, soprattutto era<br />

facile fare errori: il computer avrebbe dovuto distinguere tra dieci<br />

diversi livelli di tensione o di corrente, con la possibilità di fare<br />

errori.<br />

Se invece ci fossero state solo due cifre, la cosa sarebbe stata<br />

molto più semplice; ci sarebbero stati solo due livelli di corrente da<br />

valutare, per esempio: c’è corrente di qualsiasi valore? Allora è uno<br />

Non c’è corrente per niente? Allora è zero. Non si può sbagliare.<br />

Ma come sarebbe il mondo con un sistema non più decimale,<br />

ma duale, o come si chiama veramente, binario?<br />

Del tutto uguale al mondo decimale, solo ricordando che non<br />

esiste la cifra 2 e se si vuole rappresentare il numero due si<br />

devono usare due cifre. Con due cifre non andiamo però molto<br />

lontano, si possono rappresentare i numeri fino al tre, dopo ce ne<br />

vogliono tre con le quali si arriva al sette, poi quattro per arrivare al<br />

15 e così via:<br />

zero 0<br />

uno 1<br />

due 10<br />

tre 11<br />

quattro 100<br />

cinque 101<br />

sei 110<br />

sette 111<br />

otto 1000<br />

nove 1001<br />

110


dieci 1010<br />

undici 1011<br />

dodici 1100<br />

tredici 1101<br />

quattordici 1110<br />

quindici 1111<br />

Tutto qui, il resto è identico, basta ricordarsi che dopo l'1 non<br />

viene il 2 ma il 10 e via dicendo e se si vogliono fare delle addizioni<br />

ricordare che<br />

1+0 = 1<br />

ma che:<br />

1+1 dà 0 col riporto di 1, ovvero 10<br />

E così l’indovinello iniziale, se il numero è rappresentato in<br />

forma binaria, si deve leggere:<br />

Le persone si dividono in due (10) gruppi: quelle che<br />

conoscono il sistema binario e quelle che non lo conoscono.<br />

Il sistema binario è il sistema usato in tutti i computer del<br />

mondo: è il sistema con il quale la nostra macchina fotografica<br />

<strong>digitale</strong> immagazzina nella sua memoria le immagini che le<br />

abbiamo fatto scattare.<br />

Abbiamo visto che comunemente si usa una profondità di<br />

colore che prevede 256 livelli di rosso, e altrettanti di verde e di<br />

blu. In sostanza ogni pixel sarà rappresentato da una tripletta di<br />

111


numeri che possono assumere tutti i valori positivi da 0 a 255. Ma<br />

questo se si usa un sistema decimale. Invece i computer usano il<br />

sistema binario e i valori delle triplette dei pixel vanno da :<br />

00000000 ovvero zero<br />

a:<br />

11111111 ovvero 255<br />

Come si può notare servono 8 cifre per scrivere i possibili valori<br />

di un colore. Questo perché abbiamo fatto l'ipotesi che i colori<br />

siano 256, e 255 è il massimo numero che si può scrivere con 8<br />

cifre binarie.<br />

Ogni cifra binaria si chiama bit, acronimo di binary digit, cifra<br />

binaria<br />

È giusto allora dire che la nostra foto ha 24 bits di profondità<br />

colore, o, che è lo stesso, ha una profondità di 8 bits per ogni<br />

canale di colore.<br />

Una foto in scala di grigi con 256 toni di grigio ha invece una<br />

profondità colore di soli 8 bits totali.<br />

Una foto in bianco e nero, una reale foto in bianco e nero, ha<br />

una profondità di colore di 1 bit, e solo due colori, il bianco ed il<br />

nero.<br />

Il gruppo di 8 bit, si chiama byte.<br />

112


11 – <strong>La</strong> fotocamera <strong>digitale</strong><br />

Torniamo alla nostra fotocamera: abbiamo visto praticamente<br />

tutto quello che riguarda la parte ‟camera oscura”, ora vediamo la<br />

parte di essa che si occupa della cattura e della conservazione<br />

dell'immagine ossia quella dopo il CCD.<br />

Diamo quindi un'occhiata alla figura seguente, dove sulla<br />

sinistra vediamo l’obbiettivo e sulla destra il CCD con una serie di<br />

dispositivi dei quali adesso spiegherò la funzione.<br />

Ho già detto che ogni fotocamera <strong>digitale</strong> possiede un computer<br />

interno che dirige tutte le operazioni. Questo computer, non<br />

indicato nella figura, dopo ogni scatto deve leggere i valori di ogni<br />

fotodiodo e immagazzinarli nella memoria della macchina.<br />

Un momento però: il CCD ha rilevato l'intensità della luce (non il<br />

colore) di ogni singola sua cella, ma che cosa andiamo a mettere<br />

in memoria, una corrente? Come facciamo: una corrente è una<br />

grandezza analogica, può essere valutata qualitativamente, per<br />

113


esempio facendola passare per un amperometro, che darà come<br />

indicazione, lo spostamento di una lancetta, o facendola passare<br />

per il proprio corpo, ottenendo un'indicazione soggettiva, ma<br />

neanche troppo.<br />

In una memoria elettronica possono starci solo numeri, cifre, ed<br />

allora serve una conversione da una grandezza analogica,<br />

l’intensità della corrente.<br />

Questa conversione viene effettuata da un dispositivo chiamato<br />

appunto Convertitore analogico-<strong>digitale</strong>.<br />

Non starò qui a spiegare il funzionamento di un convertitore<br />

analogico <strong>digitale</strong>, andrei oltre lo scopo di questo corso; d’altronde<br />

questi dispositivi sono molto comuni, di dimensioni molto ridotte e<br />

costano ormai pochissimo, come tutti o quasi i componenti<br />

elettronici.<br />

Il convertitore analogico-<strong>digitale</strong> ha, funzionalmente, la<br />

seguente struttura:<br />

Il suo funzionamento è molto semplice: al suo ingresso riceve la<br />

corrente generata dai fotodiodi ed alla sua uscita fornisce una cifra<br />

binaria attraverso un numero di connettori pari al numero di bit<br />

della profondità di colore. Se, come nella stragrande maggioranza<br />

dei casi, la profondità di colore è di 8 bit il convertitore avrà otto<br />

114


connettori di uscita su ognuno dei quali esso farà uscire il valore<br />

corretto, ovvero un 1 (tensione prossima ai 5 volts) oppure 0<br />

(tensione prossima a 0 volts). leggendo questi bits, nel caso in<br />

figura 01011001, si avrà il valore dell'intensità del colore letto da<br />

quel fotodiodo, nel caso in figura 89.<br />

Naturalmente non ci sarà un convertitore per ogni fotodiodo, ma<br />

i valori dei vari fotodiodi verranno letti ad uno ad uno dal CCD e<br />

fatti ‘scorrere’ nel convertitore e prelevati ordinatamente all’uscita<br />

di esso. È proprio la capacità di ‛scorrimento’ del CCD a dare ad<br />

esso il suo nome.<br />

Per quanto riguarda la conversione, dobbiamo tener conto di<br />

una cosa molto importante. Il convertitore in pratica ‟approssima” il<br />

valore di una corrente, che può assumere tutti i valori, a un insieme<br />

di valori definiti. Per esempio, considerando per semplicità, un<br />

convertitore analogico <strong>digitale</strong> a 3 soli bit cioè capace di dare in<br />

uscita solo 8 valori, che chiameremo per comodità. 0, 1, 2, 3, 4, 5,<br />

6, 7 , il convertitore leggerà la corrente in ingresso e la confronterà<br />

con una sua tabella interna che assegnerà ad ogni corrente uno<br />

dei valori in uscita.<br />

115


Per esempio, sempre facendo riferimento alla figura, per tutti i<br />

valori di corrente da 110 a 120 mA il convertitore assegnerà in<br />

uscita il valore 3, per ogni valore da 140 a 150 mA assegnerà il<br />

valore 6 e per ogni valore superiore a 140 mA assegnerà sempre il<br />

valore 7, così come per ogni valore inferiore a 90 mA assegnerà<br />

sempre e comunque il valore 0. Ora bisogna stare molto attenti a<br />

far lavorare il convertitore nel campo della conversione, ovvero tra<br />

90 e 150 mA, perché sopra 150 mA e sotto 90 mA il convertitore<br />

continuerà a fornire rispettivamente i valori 7 e 0 anche se i valori<br />

in ingresso saranno diversi. Per esempio se in ingresso si presenta<br />

il valore 10 mA, il convertitore darà 0 come se si fosse presentato il<br />

valore 90 mA; e se in ingresso si presenta il valore 230 mA il<br />

convertitore darà in uscita il valore 7 come se in ingresso ci fosse il<br />

valore 150 mA.<br />

Questo fenomeno inevitabile si chiama saturazione, cioè il<br />

dispositivo non è più in grado di comportarsi correttamente e dà in<br />

uscita valori piatti. Tradotto in termini di colore questo significa<br />

semplicemente che se si costringe il CCD, e quindi il convertitore,<br />

a lavorare con valori troppo alti o troppo bassi, cioè con colori<br />

troppo chiari o troppo scuri, esso non potrà darci in uscita altro che<br />

il colore bianco o il colore nero, perdendo i veri colori che erano<br />

presenti nella scena.<br />

Adesso è possibile chiedere alla macchina fotografica di<br />

archiviare in memoria i dati: avremo un solo valore per ogni pixel e<br />

sarà il valore del colore rosso, verde o blu a seconda dei casi. I<br />

dati sono chiamati in questo caso di tipo RAW, cioè grezzi, così<br />

come escono dal CCD, o meglio dal convertitore analogico<strong>digitale</strong>.<br />

Attenzione: non tutte le fotocamere permettono di salvare i dati<br />

a questo punto ed in questo formato, ma molte costringono il<br />

fotografo a far subire una o due ulteriori elaborazioni dei dati delle<br />

proprie foto che quindi non sono più le autentiche viste dal CCD,<br />

116


ma sono elaborazioni di queste.<br />

<strong>La</strong> prima elaborazione che subiscono le foto è<br />

l’INTERPOLAZIONE. Che cosa significa? Significa che il computer<br />

della fotocamera cerca di ricostruire per ogni pixel i valori dei due<br />

colori non rilevati e riportare quindi il valore totale dei pixel pari al<br />

numero dei fotodiodi. Come? Vediamolo.<br />

Supponiamo che in una certa porzione del CCD i fotodiodi<br />

abbiano rilevato i valori scritti in figura, ognuno per un colore:<br />

Adesso, se per esempio soffermiamo la nostra attenzione sul<br />

pixel rosso in cui è stato rilevato il valore 150 e vogliamo trovare<br />

per questo pixel un valore anche per i colori verde e blu potremo<br />

procedere nel modo seguente<br />

117


<strong>La</strong>sciamo il valore del rosso uguale a 150, di questo siamo certi<br />

e non cambierà. Poi consideriamo i pixel vicini che hanno misurato<br />

i valori del blu: abbiamo un 160, un 200 ed un 180. Chiediamoci:<br />

se ci fosse stato un fotodiodo per il blu nel pixel che ha rilevato il<br />

rosso, quanto avrebbe potuto leggere? Non lo sappiamo, ma<br />

possiamo ragionevolmente supporre che avrebbe letto un valore<br />

intermedio tra i tre vicini e cioè la media di 200, 160 e 180 e cioè<br />

(200+160+180)/3 ovvero 180<br />

Possiamo allora assegnare a questo pixel il valore di 180 per il<br />

blu e dedicare la nostra attenzione al colore verde ed ai tre pixel<br />

vicini che lo hanno misurato effettivamente. Anche qui stessa<br />

procedura e otteniamo: (120+100+110)/3 ovvero 110. E così per<br />

quel particolare pixel abbiamo trovato tutti e tre i valori dei tre<br />

colori. Attenzione però, uno solo è stato misurato, gli altri due sono<br />

stati solo calcolati, anzi, se vogliamo... un po’ inventati!<br />

118


Possiamo allora ripetere il procedimento per tutti i pixel del CCD<br />

ed ottenere tre valori per ogni pixel, quindi triplicare l’uscita del<br />

CCD, ma ancora dobbiamo ricordare che solo un terzo di tali valori<br />

sono reali, gli altri sono calcolati dal computer della fotocamera<br />

A questo punto possiamo chiedere alla fotocamera di salvare i<br />

dati così interpolati: saranno di tipo TIFF. Generalmente questo è<br />

possibile con tutte le fotocamere.<br />

119


Ma c’è un’altra elaborazione che la fotocamera è in grado di<br />

fare e che solitamente fa se non glielo proibiamo. <strong>La</strong> successiva<br />

elaborazione è la COMPRESSIONE dei dati. Che cosa significa?<br />

I dati, dopo l’interpolazione, sono molto numerosi: proviamo a<br />

fare un calcolo approssimato. Se il CCD ha per esempio 10<br />

Megapixels, ovvero 10 milioni di pixel (valore molto comune dei<br />

CCD attuali), avremo 10 milioni di valori per tre colori, ovvero 30<br />

milioni di valori per i quali saranno necessari 30 milioni di bytes<br />

ovvero di unità di memoria. Se consideriamo che le memorie<br />

attualmente disponibili arrivano a 4 miliardi di bytes o spendendo<br />

un po’ di più a 8 o 16 miliardi di bytes, vediamo che possiamo nei<br />

tre casi immagazzinare circa 133 o 266 o al massimo 532 foto.<br />

Non poche, ma neanche troppe, bisognerebbe disporre di varie<br />

memorie e sostituirle, oppure scaricare spesso la memoria della<br />

fotocamera.<br />

Allora i fabbricanti hanno predisposto una compressione dei<br />

dati per far stare nella memoria un numero maggiore di foto. Tale<br />

compressione può essere più o meno spinta, per esempio può<br />

ridurre i dati di 4 volte o di 8 oppure addirittura di 16 volte. Allora,<br />

considerando la memoria di 4 Gbytes (4 miliardi di bytes), nei tre<br />

casi di compressione avremo posto per 532, o 1064, o addirittura<br />

2128 foto. Magnifico no?<br />

Ma le foto hanno la stessa qualità anche quando sono<br />

compresse?<br />

Ovviamente no. Più forte è la compressione, più la qualità<br />

peggiora. Questo perché la compressione cancella dei dati.<br />

Però attenzione: la compressione non cancella dei dati scelti a<br />

caso, ma solo quelli che sono ‟meno importanti”, o per meglio dire,<br />

quelli per i quali l’occhio umano è meno sensibile. Per questo gli<br />

algoritmi di compressione funzionano molto bene e le foto<br />

compresse sono sostanzialmente uguali alle foto originali.<br />

I dati immagazzinati dopo la compressione sono del tipo JPEG.<br />

120


Per fare un parallelo con la musica, possiamo dire che le<br />

immagini compresse JPEG hanno più o meno la stessa qualità<br />

della musica compressa MP3, musica che noi ascoltiamo<br />

comunemente, senza onestamente notare grandi differenze con la<br />

musica dei CD originali.<br />

Possiamo renderci conto degli effetti della compressione<br />

comparando due foto dello stesso soggetto, la prima fatta senza<br />

compressione (TIFF), la seconda fatta con forte compressione<br />

(JPEG).<br />

<strong>La</strong> foto a sinistra non è compressa, ed è composta da (circa)<br />

14.000.000 di bytes o, come si dice, da 14 Megabytes, 14 MB. <strong>La</strong><br />

foto a destra è invece fortemente compressa tanto che il suo<br />

"peso" è di soli 520.000 bytes, ovvero circa 0,5 MB.<br />

Come si può vedere non sembra esserci alcuna differenza.<br />

Ma noi vogliamo trovarla questa differenza, è impossibile che le<br />

due foto siano uguali: facciamo allora un forte ingrandimento della<br />

parte della foto del vaso di fiori contro il pannello bianco.<br />

121


Vedete la differenza?<br />

No?<br />

Stavolta la differenza si vede, ma non è quella tragedia che ci<br />

aspettavamo. Guardiamo i pixel al centro, quelli tra i due rametti<br />

rossastri, dovrebbero essere di colore uniforme, il colore dello<br />

sfondo. Nella foto di sinistra lo sono abbastanza, mentre nella foto<br />

di destra ci sono molti pixel un po', per così dire, fuori dal coro,<br />

sporchi, frutto di errori di approssimazione.<br />

Però, accidenti, per avere una foto, tutto sommato, un po' più<br />

verosimile, e solo ad una livello di ingrandimento tale da non poter<br />

più avere nessuna utilità pratica, noi dobbiamo sobbarcarci il peso<br />

di un numero di bytes 28 volte superiore a quello richiesto da una<br />

buona, anzi a questo punto ottima, approssimazione.<br />

Complimenti allora al sistema JPEG, parente prossimo del<br />

processo MPEG che, come già detto, dà altrettanto ottimi risultati<br />

nella compressione dei file audio.<br />

122


Un errore molto comune è quello di confondere la<br />

compressione con la bassa risoluzione. Qui l'errore è molto grave,<br />

in quanto la bassa risoluzione dà foto estremamente scadenti, e<br />

questo solo per risparmiare bytes, risparmio che stavolta è<br />

veramente suicida.<br />

Diamo un' occhiata per esempio allo stesso particolare della<br />

foto ottenuta con una risoluzione molto bassa, tale però da<br />

occupare lo stesso ordine di grandezza del numero di bytes<br />

necessario con la massima compressione:<br />

A destra abbiamo la foto con bassa risoluzione, a sinistra la foto<br />

con alta compressione. Il numero dei bytes necessari è lo stesso<br />

per le due foto, ma vedete che già a livello di un ingrandimento non<br />

spinto la differenza qualitativa è abissale.<br />

123


12 – Breve storia della macchina fotografica<br />

<strong>La</strong> fotocamera <strong>digitale</strong> che abbiamo tra le mani è il prodotto<br />

finale (per il momento) di un processo lungo, anche se si è svolto<br />

in un arco di tempo piuttosto breve, circa un secolo e mezzo.<br />

<strong>La</strong> macchina fotografica è nata grande e costosa: vi ricordate<br />

certi film con il gruppo di famiglia immobile davanti ad un signore<br />

(solitamente con i baffi) che manovrava una complessa<br />

apparecchiatura composta da una scatola di legno, un grosso<br />

obiettivo ed un panno sotto il quale il signore con i baffi ogni tanto<br />

scompariva?<br />

Quelle erano le prima macchine fotografiche, costituite<br />

essenzialmente da una camera oscura e da un obiettivo, e<br />

praticamente nient’altro.<br />

Esistono anche oggi, e vengono chiamate banchi ottici.<br />

124


Costose, ingombranti, scomode da usare, hanno un utilizzo<br />

quasi esclusivo in studio, anche se ci sono alcuni snob che le<br />

usano anche in esterno, suscitando la curiosità della gente.<br />

Producono lastre di grosso formato (fino al 20 X 25 cm), anch'esse<br />

costosissime.<br />

<strong>La</strong> rivoluzione avvenne nei primi anni del secolo scorso, quando<br />

nella mitica fabbrica ottica della Leitz di Wetzlar, per collaborare<br />

alla progettazione di cineprese professionali, arrivò Oskar Barnach<br />

dalla Zeiss di Jena (altro mito tedesco dell'ottica), il quale, per<br />

risolvere problemi di esposizione della pellicola cinematografica,<br />

creò una macchinetta semplice e portatile per impressionare<br />

singoli fotogrammi di pellicola, sui quali poi calcolare la giusta<br />

esposizione per tutta la pellicola cinematografica.<br />

Uomo intelligente, si rese conto che quella macchinetta che<br />

aveva costruito poteva, non solo servire di corredo alla<br />

cinematografia, ma diventare una vera e propria macchina<br />

fotografica, che poteva tra l'altro utilizzare la comune pellicola<br />

cinematografica, rinunciando alle lastre, con risultati qualitativi<br />

ottimali. Nacque in tal modo il mito della Leica:<br />

125


Potrà sembrare uno scherzo, ma da quel momento nacque non<br />

solo la fotografia moderna, e non solo il formato 35 mm, ma anche<br />

la professione del "fotografo tra la gente" e del fotoreporter<br />

moderno.<br />

<strong>La</strong> Leica, dopo varie evoluzioni, che però non ne hanno alterato<br />

le caratteristiche estetiche e la struttura spartana, è stata la<br />

compagna fedele di tanti maestri della fotografia, Henry Cartier<br />

Bresson in primis, ed oggi, nella versione <strong>digitale</strong>, pur sempre però<br />

nella sua estetica di allora, costituisce forse la fotocamera più chic<br />

e anche per questo più costosa.<br />

126


Il problema della Leica era quello del mirino: il fotografo non<br />

poteva essere sicuro di cosa stesse fotografando, perché vedeva<br />

la scena con un sistema ottico, il mirino, completamente differente<br />

da quello con il quale avrebbe scattato la foto.<br />

Per questo quasi contemporaneamente fu introdotto un sistema<br />

di doppio obiettivo, uno per inquadrare la scena e uno per scattare<br />

la foto.<br />

In tal modo il sistema ottico di puntamento era ancora separato<br />

da quello di ripresa, ma almeno i due sistemi erano identici.<br />

I meno giovani ricorderanno le mitiche fotocamere Rolleiflex,<br />

utilizzate da tutti i fotografi professionisti negli anni '50 e '60.<br />

Il problema del mirino era così risolto, ma solo parzialmente,<br />

dato che c'era ancora un po' di differenza tra le immagini dei due<br />

obiettivi, inoltre la pellicola non poteva essere la comune pellicola<br />

cinematografica 35 mm, ma la più costosa pellicola in rulli.<br />

Nel 1948, l'industria ottica tedesca, nella fattispecie la Carl<br />

Zeiss di Jena, pur provata dalla disfatta della seconda guerra<br />

mondiale, riesce a produrre una nuova fotocamera, la Contax S<br />

nella quale un solo obiettivo serviva sia per inquadrare la scena,<br />

127


sia per impressionare la pellicola, che era ancora la vecchia e cara<br />

pellicola 35 mm, prodotta in quantità industriale per l'industria del<br />

cinema e quindi ottenibile a basso costo.<br />

<strong>La</strong> cosa era resa possibile dalla precisione dell'industria ottica<br />

dell'epoca: un prisma ed uno specchio mobile facevano deviare la<br />

luce dalla scena prima sull'occhio del fotografo e al momento dello<br />

scatto, quando lo specchio si alzava, sulla pellicola.<br />

128


Tutte le macchine fotografiche, da allora, hanno questo schema<br />

di principio detto SLR (single lens reflex). In aggiunta questo<br />

sistema permette anche l'intercambiabilità dell'obiettivo, separato<br />

dal corpo macchina.<br />

Il fotografo ha così a disposizione una serie di obiettivi e quindi<br />

di focali, di ingrandimenti e di angoli di campo, tali da soddisfare in<br />

modo semplice tutte le sue esigenze. Insomma il fotografo ora, con<br />

una sola borsa, anche se a volte un po' pesante, si può portare a<br />

spasso dove vuole un completo e potente studio fotografico.<br />

Nel 1959 la giapponese Nikon lancia sul mercato una<br />

fotocamera SLR che diventerà un mito e l’aspirazione di tutti i<br />

fotografi del mondo, la Nikon F, che segnerà anche l’inizio del<br />

predominio giapponese nel mercato fotografico.<br />

<strong>La</strong> Nikon F avrà una lunga evoluzione in tanti modelli che<br />

conserveranno nel nome la lettera F della loro antenata.<br />

Le macchine SLR rimasero però piuttosto costose, adatte alle<br />

tasche di molti, ma non di tutti, non di quelli che volevano fare<br />

qualche scatto la domenica ai giardini con i figli.<br />

Continuarono allora a svilupparsi macchine economiche, simili<br />

strutturalmente alla Leica, ma molto meno pregiate, con mirino<br />

129


tradizionale detto, non so perché, galileiano: una pietra miliare in<br />

questo ambito fu la Kodak Instamatic che venne venduta in 50<br />

milioni di esemplari dal 1963 al 1970.<br />

All'inizio degli anni '70 l'elettronica fa progressi incredibili: la<br />

continua e straordinaria miniaturizzazione dei circuiti integrati<br />

permette lo sviluppo di sofisticati apparati elettronici: nasce il<br />

microprocessore che entrerà in tutti gli oggetti comuni e costituirà<br />

la base dei moderni personal computer, ed anche delle<br />

fotocamere, che diventano sempre più evolute tecnicamente e<br />

dotate di completi automatismi.<br />

Si affermano le ditte giapponesi, Nikon, Canon, Pentax, Minolta,<br />

ma resta tuttavia la dicotomia tra fotocamera economica, cioè tipo<br />

Instamatic e fotocamera professionale, tipo Nikon F<br />

130


E quando compare la prima fotocamera <strong>digitale</strong>?<br />

Se vogliamo essere precisi, ci sono tentativi e prototipi già negli<br />

anni ‛80 del secolo scorso, e più avanti compaiono macchine<br />

digitali ottenute semplicemente applicando un dorso <strong>digitale</strong> ad<br />

una macchina tradizionale. <strong>La</strong> prima vera e propria fotocamera<br />

<strong>digitale</strong>, progettata ex novo come macchina <strong>digitale</strong> e la Nikon D1,<br />

del 1999.<br />

Proprio alla fine del secolo la fotocamera <strong>digitale</strong> si impone su<br />

quelle tradizionali e si divide in due comparti: il primo è quello delle<br />

macchine SLR, che rimangono molto costose<br />

131


Il secondo comparto è quello delle macchine cosiddette<br />

compatte, nelle quali la tecnica <strong>digitale</strong> e la incessante<br />

miniaturizzazione dei circuiti elettronici permettono di ridurre<br />

drasticamente le dimensioni, e con esse i costi.<br />

Questa è la situazione dei giorni nostri, sempre però in continua<br />

evoluzione.<br />

Solitamente chi ha intenzione di comprare una macchina<br />

fotografica <strong>digitale</strong> si pone queste domande:<br />

Che macchina dovrei comprare, con i soldi che ho?<br />

Se ho pochi soldi farò brutte foto?<br />

Se posso spendere qualsiasi cifra, diventerò un artista famoso?<br />

<strong>La</strong> risposta alle ultime due domande è : no.<br />

<strong>La</strong> risposta, mia personalissima, alla prima è:<br />

Nella scelta della fotocamera utilizza il denaro a disposizione<br />

per acquistare tecnologia, ma dimentica la vecchia separazione<br />

categorica:<br />

132


Fotografo professionista, artista = alta qualità =SLR<br />

Fotografo domenicale = bassa qualità = compatta.<br />

Sono intervenuti alcuni fatti importanti che hanno rivoluzionato il<br />

panorama delle macchine fotografiche.<br />

Il primo fatto fondamentale è la diffusione e la miniaturizzazione<br />

degli obiettivi zoom, obiettivi cioè nei quali è possibile variare la<br />

focale e quindi trasformarli in obiettivi diversi.<br />

Se si osserva per esempio l'obiettivo della figura precedente,<br />

adatto ad una macchina SLR, si nota come in esso siano presenti<br />

due distinte ghiere di regolazione: la prima è quella per la messa a<br />

fuoco, la seconda è quella che varia la focale. Nell'obiettivo della<br />

figura questa può variare da 70mm a 200mm, quindi questo<br />

obiettivo può fungere sia da obiettivo normale, che da obiettivo<br />

tele.<br />

Il secondo fatto importante deriva dall'introduzione del <strong>digitale</strong>.<br />

Con esso il formato della "pellicola", del CCD insomma si è<br />

notevolmente ridotto, consentendo in tal modo la riduzione anche<br />

delle dimensioni degli obiettivi. In tal modo oggi è molto comune<br />

133


trovare zoom dotati di fattore di ingrandimento pari a 12 X, il che<br />

significa che tale obiettivo può fungere da grandangolo (28 mm)<br />

fino a forte tele (350 mm). Significa allora che non ho più bisogno<br />

di cambiare obiettivo per soddisfare tutte le mie esigenze, posso<br />

contentarmi di uno solo che sia capace di far tutto e posso fare a<br />

meno dell'intercambiabilità dell'ottica, uno dei pilastri del sistema<br />

SLR.<br />

L'altro pilastro del sistema SLR era la completa uguaglianza tra<br />

immagine vista e immagine fotografata. Adesso però il mirino di<br />

una fotocamera <strong>digitale</strong> è molto particolare.<br />

In sostanza il CCD non ci fa vedere la scena inquadrata, ci fa<br />

addirittura vedere come sarà la foto che stiamo scattando. Inoltre<br />

dopo scattato possiamo decidere se la foto ci piace o meno, ed in<br />

caso negativo liberarsene immediatamente e scattarne un’altra<br />

Ciò era fantascienza con la pellicola.<br />

Allora il consiglio è semplice: lasciamo perdere la macchina<br />

SLR (o reflex come si usa comunemente dire): il fatto di essere<br />

reflex non dà alcun vantaggio, i vantaggi sono invece dati dalle<br />

reali caratteristiche tecniche della fotocamera. Quali sono? Provo<br />

ad elencarle.<br />

1) Risoluzione, ovvero numero totale dei pixel: più è alto, più<br />

la nostra fotocamera farà foto dettagliate, più potremo ingrandire le<br />

nostre stampe senza timore di vedere seghettature, oggi costa<br />

poco stare sopra i 5 - 6 Megapixels e si possono facilmente<br />

raggiungere i 10 - 12 Megapixels.<br />

2) Potenza e luminosità dell'obiettivo. Controlliamo il fattore di<br />

zoom del nostro obiettivo, più è alto, più l'obiettivo è potente e in<br />

grado di risolverci tutti i problemi; e teniamo conto anche della sua<br />

luminosità. Che cosa si intende per luminosità? Semplice è la<br />

massima apertura ottenibile: teoricamente potrebbe essere 1, ma<br />

nella pratica può scendere fino a 5.6 o addirittura a 8. L'obiettivo<br />

della figura precedente ha una luminosità 2.8, eccellente, ma<br />

134


provate a chiederne il costo!<br />

3) Possibilità di scattare in modalità a priorità di tempi, a priorità<br />

di diaframmi e in modo manuale. Se vogliamo fare foto un po'<br />

diverse questa possibilità è fondamentale.<br />

4) Possibilità di salvare foto in formato RAW. Vedremo in<br />

seguito le meravigliose possibilità di elaborazione che questo<br />

formato ci consente.<br />

5) Sensibilità. Più è alta, più riusciremo a fare foto in situazioni<br />

di luce debole.<br />

6) Velocità di archiviazione delle foto, in gran parte dipendente<br />

dalla memoria della macchina. Vedremo che aspettare anche<br />

qualche secondo può farci perdere occasioni preziose.<br />

Basta: tutto il resto è molto meno importante: se c'è ed il prezzo<br />

non aumenta, lo prendiamo, se c'è da tirar fuori altri soldi,<br />

limitiamoci al modello base.<br />

Un'ultima considerazione: le fotocamere compatte si possono<br />

tenere facilmente in tasca, le reflex necessitano di un borsone,<br />

pesante ed ingombrante.<br />

Una bella foto può nascere improvvisamente e magari quel<br />

giorno la borsa pesava troppo e l'abbiamo lasciata a casa!<br />

Non cadiamo nel tranello di comprare una macchina<br />

ingombrante per fare bella figura! <strong>La</strong> bella figura si fa con belle<br />

foto, non con macchine ingombranti.<br />

135


13 – Come si scatta una bella fotografia<br />

Siamo di fronte ad una scena che ha attirato la nostra<br />

attenzione, che ci sta procurando una certa emozione. Abbiamo<br />

con noi la nostra fotocamera, semplice o complicata, costosa od<br />

economica, e proviamo a scattare una foto che racchiuda<br />

quell’emozione che stiamo provando. Quali sono le<br />

raccomandazioni per fare una bella foto? Quali cose dobbiamo<br />

tenere sotto controllo, prima e mentre scattiamo la foto?<br />

Prima di tutto l'inquadratura. E' fin troppo ovvio: dobbiamo<br />

decidere quello che entrerà dentro la fotografia.<br />

Questo è ovvio, ma è anche la cosa più importante, quella che<br />

decide al 95% se la nostra sarà o meno una "bella" foto. Anzi se<br />

vogliamo essere precisi, tutto il resto che dovremo tenere sotto<br />

controllo, sarà nient'altro che un complemento, un aiuto a questa<br />

prima ed importante fase della cattura di quell'immagine, di quella<br />

rappresentazione della realtà che vogliamo estendere ad altri.<br />

Poi dobbiamo stare attenti che la quantità di energia luminosa<br />

che colpirà il CCD sia quella giusta a fare la nostra foto: non può<br />

essere maggiore, non può essere minore, deve essere quella<br />

giusta.<br />

Poi dobbiamo preoccuparci della messa a fuoco, del fatto cioè<br />

che gli oggetti nella foto siano nitidi, che tutti i punti luminosi che<br />

costituiscono la scena da riprendere producano punti luminosi<br />

nell'immagine o che perlomeno se non producono proprio dei<br />

punti, si limitino a produrre cerchi (di confusione) di un diametro<br />

molto ridotto. Questo però non è sempre vero. Possiamo in molti<br />

casi desiderare che alcune parti dell'immagine siano sfocate.<br />

Vedremo in seguito quali e perché.<br />

Bisogna anche controllare che i soggetti che nella scena si<br />

stanno muovendo, non siano mossi all'interno della fotografia.<br />

136


Anche in questo caso però può darsi che invece si debba<br />

accertarsi del contrario: del fatto cioè che alcuni soggetti in<br />

movimento nella scena non risultino invece fermi anche nella<br />

fotografia.<br />

Inquadratura, esposizione, messa a fuoco e movimento, quattro<br />

controlli da fare mentre si scatta una foto. Ma quali strumenti<br />

abbiamo a disposizione per fare ciò?<br />

Anche se le moderne fotocamere sono piene di pulsanti e<br />

selettori, le cose che possiamo controllare sono solo:<br />

a) mirino<br />

b) ghiera dello zoom<br />

c) ghiera di messa a fuoco<br />

d) ghiera dei diaframmi<br />

e) sel<strong>ettore</strong> dei tempi.<br />

Non ci sono altri comandi in una fotocamera. Anzi, ad essere<br />

precisi, a parte i primi due, gli altri non sono sempre disponibili in<br />

molte fotocamere, specialmente in quelle compatte, e se lo sono,<br />

sono azionabili non con ghiere e selettori ma con il software del<br />

menu della fotocamera.<br />

Probabilmente qualcuno a questo punto si chiederà come sia<br />

stato possibile per lui o per lei scattare foto tutto sommato belle,<br />

senza neanche sapere dove fossero la ghiera dei diaframmi o il<br />

sel<strong>ettore</strong> dei tempi.<br />

<strong>La</strong> ragione sta nel fatto che questi, come la stragrande<br />

maggioranza delle persone, ha fatto lavorare la fotocamera nella<br />

modalità AUTOMATICO, nella quale la macchina pensa a tutte le<br />

regolazioni, persino alla messa a fuoco.<br />

Le moderne fotocamere lavorano infatti sempre in modalità<br />

automatica e solo alcune, molte ma non tutte, hanno la possibilità<br />

di poter lavorare in altri modi.<br />

I modi di operare di una fotocamera sono:<br />

137


1) AUTOMATICO o PROGRAMMA<br />

2) PRIORITÀ di DIAFRAMMI<br />

3) PRIORITÀ DI TEMPI<br />

4) MANUALE<br />

5) PLAYBACK<br />

Esistono poi altre modalità, per esempio la ripresa<br />

cinematografica, ma questo esula dal nostro campo di interesse.<br />

<strong>La</strong> modalità di PLAYBACK, presente in tutte le fotocamere, non<br />

consente di scattare foto, ma solo di rivedere quelle già scattate.<br />

Per passare da una modalità di funzionamento all'altra è<br />

necessario o agire su un sel<strong>ettore</strong> dedicato o entrare in uno dei<br />

tanti menu che ha una fotocamera <strong>digitale</strong>:<br />

Nella figura sopra si vede uno di questi selettori: esso presenta<br />

varie posizioni ognuna contraddistinta da una lettera:<br />

138


P significa Programma o modalità Automatica.<br />

A significa modalità a priorità di diaframmi<br />

S significa modalità a priorità di tempi<br />

M significa modalità manuale<br />

il simbolo con il triangolo significa modalità di PLAYBACK.<br />

Vediamo il funzionamento della fotocamera nelle varie modalità.<br />

In modalità AUTOMATICA, è la fotocamera stessa che sceglie<br />

un tempo di esposizione ed un'apertura del diaframma in grado di<br />

garantire che il CCD sia investito dalla energia luminosa<br />

necessaria e sufficiente a fare una fotografia correttamente<br />

esposta.<br />

<strong>La</strong> fotocamera fa scelte piuttosto conservative ed evita di<br />

assumersi qualsiasi tipo di rischio, poiché essa non può sapere<br />

che tipo di scena il suo proprietario sta inquadrando in quel<br />

momento.<br />

Per esempio è possibile che il soggetto inquadrato sia un<br />

soggetto in movimento, e magari anche veloce, per cui la<br />

fotocamera ritiene necessario impostare cautelativamente un<br />

tempo abbastanza veloce, ad esempio inferiore a 1/125 di<br />

secondo. In tal modo tutti i movimenti per così dire "normali"<br />

saranno "congelati" e si eviteranno foto mosse.<br />

Inoltre la fotocamera presume anche che il fotografo stia<br />

riprendendo una scena con una certa profondità di campo, ovvero<br />

che oltre al piano principale sul quale essa ha già esercitato la<br />

messa a fuoco, ne esistano altri più vicini e più lontani nei quali<br />

esistano soggetti importanti per i quali la messa a fuoco è<br />

necessaria, anzi indispensabile. Quindi imposterà un diaframma<br />

piuttosto chiuso, superiore almeno a f/8.<br />

Tutto ciò potrebbe avere come risultato un'esposizione piuttosto<br />

scarsa, qualora le condizioni di illuminazione siano scarse, ovvero<br />

il valore LV non sia abbastanza elevato. <strong>La</strong> fotocamera allora<br />

139


deciderà di utilizzare il flash, in modo da creare artificialmente<br />

l'illuminazione necessaria a riprendere la scena con le impostazioni<br />

di diaframma e di tempo abbastanza "sicure". Questo spiega<br />

perché molto spesso si notano lampi di flash inspiegabilmente<br />

anche a mezzogiorno.<br />

In modalità A PRIORITÀ DI DIAFRAMMI, invece la fotocamera<br />

accetta il valore di diaframma che il fotografo ha scelto e cerca un<br />

valore del tempo di esposizione tale da garantire la corretta<br />

esposizione della foto.<br />

Non sempre ciò è possibile, ad esempio se ci troviamo in una<br />

situazione di illuminazione piuttosto scarsa e il fotografo ha scelto<br />

un diaframma molto piccolo per garantire una buona profondità di<br />

campo; può succedere che la fotocamera sia costretta a scegliere<br />

un tempo abbastanza lungo in modo che, senza l'utilizzo di un<br />

cavalletto, la foto risulterà irrimediabilmente mossa.<br />

In generale il limite oltre il quale tale eventualità diviene<br />

altamente probabile è 1/8 di secondo: al di sotto di tale tempo è<br />

altamente consigliabile l'utilizzo di un cavalletto, o perlomeno si<br />

deve appoggiare la fotocamera da qualche parte<br />

Di solito la fotocamera indica tale pericolo con una<br />

segnalazione luminosa, per esempio facendo diventare di colore<br />

giallo o rosso l'indicazione del tempo sul display.<br />

Può anche succedere, ma è più rara, l'eventualità opposta,<br />

ovvero che il fotografo abbia impostato un diaframma piuttosto<br />

aperto per ridurre la profondità di campo e che l'illuminazione della<br />

scena sia particolarmente forte: in tal caso la fotocamera può non<br />

trovare un tempo di esposizione abbastanza veloce da combinare<br />

un'esposizione corretta.<br />

In tal caso la fotocamera segnalerà al fotografo la situazione,<br />

facendogli presente che qualora egli decidesse di scattare lo<br />

stesso la foto, questa risulterebbe sovraesposta. Alcune<br />

fotocamere indicano anche di quanti stop è la sovraesposizione.<br />

140


In modalità A PRIORITÀ DI TEMPI, la fotocamera accetta il<br />

valore di tempo di esposizione scelto dal fotografo e cerca un<br />

valore di diaframma tale da garantire la corretta esposizione della<br />

foto. Anche in questo caso non è infrequente il verificarsi di<br />

situazioni critiche per l'esposizione.<br />

Per esempio se il fotografo ha impostato un tempo piuttosto<br />

veloce per congelare un movimento rapido, quello di una macchina<br />

da corsa ad esempio, e se l'illuminazione è piuttosto bassa, può<br />

accadere che la fotocamera non riesca a trovare un diaframma<br />

così grande da compensare l'esposizione.<br />

Oppure può accadere il caso opposto, quello nel quale il<br />

fotografo abbia impostato un tempo decisamente lungo e<br />

l'illuminazione della scena sia abbastanza forte: in tal caso risulterà<br />

impossibile per la fotocamera trovare un valore di diaframma così<br />

piccolo da compensare l'esposizione. In ambedue i casi la<br />

fotocamera darà chiare indicazioni al fotografo che la foto risulterà<br />

inevitabilmente sottoesposta nel primo caso e sovraesposta nel<br />

secondo.<br />

In modalità MANUALE; la fotocamera accetta i valori di<br />

tempo e di diaframma scelti dal fotografo senza fare altro, se non<br />

segnalare al fotografo situazioni di sovra o sottoesposizione dovute<br />

alle sue scelte.<br />

141


14 - L'inquadratura<br />

Parliamo adesso della fase più importante, anzi della fase<br />

fondamentale della fotografia: la scelta del soggetto e della sua<br />

inquadratura.<br />

Il soggetto o i soggetti sono ovviamente le cose che vogliamo<br />

fotografare e l'inquadratura è la loro disposizione nel rettangolo<br />

che costituirà la foto stessa. Tale disposizione è di importanza<br />

fondamentale, perché è in grado di valorizzare o di rendere banali i<br />

soggetti della foto stessa.<br />

Queste cose possono sembrare banali, ma non lo sono affatto;<br />

anzi considerarle banali è la causa principale di tante foto brutte.<br />

E' più che evidente che la scelta dell'inquadratura si fa con<br />

quella parte della fotocamera che è detta il MIRINO. Però occorre<br />

subito dire che il mirino delle fotocamere digitali è molto diverso dai<br />

vecchi mirini delle fotocamere tradizionali. In esse un tipo di mirino<br />

molto in voga, specialmente in quelle economiche era quello detto<br />

galileiano, forse perché somigliava ad un piccolo cannocchiale con<br />

il quale l'occhio del fotografo inquadrava la scena che la<br />

fotocamera con una certa approssimazione avrebbe riprodotto.<br />

Tale mirino, semplice ed economico aveva però un difetto: la<br />

scena inquadrata differiva da quella fotografata, e la differenza si<br />

142


faceva particolarmente sentire quanto più il soggetto si avvicinava<br />

alla fotocamera. Ciò non impedì per esempio a Henry Cartier<br />

Bresson con la su Leica, anch'essa con mirino galileiano, a<br />

scattare capolavori fotografici.<br />

L'altro sistema è quello detto MIRINO REFLEX, che più che un<br />

sistema di mirino è un sistema di fotocamera. In esso ciò che<br />

l'obiettivo inquadra viene prima mandato all'occhio del fotografo e<br />

poi, tramite uno specchio alla pellicola o al CCD.<br />

Questo tipo di mirino è utilizzato sulle fotocamere digitali a<br />

sistema reflex, mentre per le fotocamere digitali compatte si utilizza<br />

un tipo di mirino completamente diverso, utilizzato per la verità<br />

anche dalle reflex digitali, per la sua maggiore versatilità.<br />

Si tratta di un display a cristalli liquidi, sul quale l'elettronica di<br />

bordo della fotocamera fa arrivare i pixel che il CCD sta<br />

generando.<br />

143


In questo caso si vede come la fotocamera abbia cambiato il<br />

suo comportamento rispetto al passato: una volta lavorava solo la<br />

parte ottica, la camera oscura insomma, mentre la parte di<br />

immagazzinamento dell'immagine lavorava solo nelle frazioni di<br />

secondo nelle quali l'otturatore era aperto; adesso invece si ha una<br />

riproduzione continua della scena e, solo al momento dello scatto,<br />

la sua registrazione in memoria.<br />

Lo schermo LCD è una vera e propria plancia di controllo della<br />

fotocamera, ove appare una quantità spesso esagerata e<br />

ridondante di informazioni.<br />

Ma adesso vogliamo concentrarci sull'immagine della scena,<br />

cioè trattare la composizione dell'immagine.<br />

E' questa la fase più creativa della foto ed ovviamente molto<br />

dipenderà dalla sensibilità e dalla creatività del fotografo e quindi<br />

l'argomento potrebbe non essere considerato in una trattazione<br />

tecnica. Ciò non è del tutto vero, in quanto vi sono alcuni criteri<br />

generali che è bene conoscere, magari per poi non utilizzare, ma<br />

sapendo anche in tal caso che cosa si sta facendo.<br />

Innanzitutto vediamo che tipo di formato possiamo avere da<br />

una fotocamera <strong>digitale</strong>, ovvero che rapporto ci sia tra la<br />

144


dimensione orizzontale e quella verticale della foto. Fino<br />

all'introduzione della foto <strong>digitale</strong>, il formato era fisso ed invariabile,<br />

uguale per tutti: la pellicola permetteva un fotogramma di 36 mm di<br />

larghezza e di 24 mm di altezza, il formato della foto era quindi<br />

stabilito dal rapporto 3:2. Le fotocamere digitali hanno invece<br />

introdotto un rapporto diverso, simile a quello dei televisori, 4:3.<br />

Recentemente, sempre come in alcuni televisori, è stato introdotto<br />

il formato 16:9.<br />

<strong>La</strong> seconda cosa di cui tener conto nella formazione<br />

dell'inquadratura è quella della scelta della giusta focale. In pratica<br />

ormai ogni fotocamera <strong>digitale</strong>, dalla più economica a quella più<br />

costosa, è dotata di un obiettivo zoom, ovvero di un obiettivo che<br />

può variare la sua focale, in molti casi anche in maniera<br />

eccezionale, per esempio di un fattore 12 o 16.<br />

Che cosa bisogna fare? Molto semplicemente: usare una focale<br />

che faccia sì che nell’inquadratura siano contenuti tutti i soggetti<br />

che ci interessano e siano esclusi quanto più possibile tutti gli altri.<br />

145


In tal modo saremo sicuri di aver utilizzato tutti i pixel disponibili<br />

per i soggetti di nostro interesse e di non averli sprecati per altre<br />

cose delle quali non ci interessiamo.<br />

Per esempio supponiamo di aver scattato la seguente foto con<br />

dimensioni in pixel di di 2460 x 1920, avremo quindi in totale 5<br />

Megapixel:<br />

Adesso che la guardiamo, ci rendiamo conto che il soggetto che<br />

ci interessa è solo l'edificio; il prato e gran parte del cielo sono<br />

inutili: immediatamente facciamo un taglio dell'immagine che ci<br />

presenta questa nuova inquadratura:<br />

146


Se andiamo a misurare i pixel che rimangono, vediamo che essi<br />

sono all'incirca 2 milioni: ciò vuol dire in parole povere che tre<br />

milioni di pixel sono stati cacciati via. Questo non costituisce certo<br />

una perdita economica, ma una forse più grave perdita di<br />

risoluzione della nostra foto: infatti se avessimo utilizzato (a patto<br />

ovviamente di avercela) una focale più lunga, atta cioè a contenere<br />

tutta l'immagine di nostro interesse e non altro, avremo adesso una<br />

foto con risoluzione 5 Megapixel, ed invece ci dobbiamo<br />

accontentare di una risoluzione di 2 Megapixel. Come abbiamo già<br />

visto ciò è molto grave dal punto di vista della qualità<br />

dell'immagine.<br />

Una regola da seguire nella composizione della foto è quella<br />

detta dei DUE TERZI In pratica si suppone di dividere con delle<br />

linee l'intera inquadratura in tre parti uguali verticali e in tre parti<br />

uguali orizzontali. L'incrocio delle quattro linee ci fornisce quattro<br />

punti notevoli: il soggetto o i soggetti principali vanno posti in uno<br />

di questi punti e non, come si tende a fare spesso, al centro<br />

147


dell'inquadratura.<br />

Ecco alcune foto scattate tenendo in mente questa regola:<br />

148


149


150


Un'altra regola è quella detta delle CORNICI e consiste nel<br />

cercare di inserire nell'inquadratura un qualche elemento che serva<br />

da "cornice" al soggetto principale in modo da dargli maggior<br />

risalto.<br />

<strong>La</strong> cornice, però, deve essere quanto più naturale possibile,<br />

meglio se non viene subito percepita come cornice.<br />

Ecco alcuni esempi di cornici ‟naturali”.<br />

151


152


Un'altra regola ancora è detta delle LINEE GUIDA e consiste<br />

nel ritrarre soggetti che siano fortemente caratterizzati da alcune<br />

linee, non importa in quali direzioni: in tal modo l'attenzione<br />

dell'osservatore viene "pilotata" e concentrata ove lo si voglia.<br />

153


Ma dopo queste regole, ormai classiche, mi permetto di<br />

suggerire io un paio di regole, ancora più semplici delle precedenti.<br />

<strong>La</strong> prima regola è questa. Fotografa il dettaglio: anche in un<br />

insieme poco interessante sappi distinguere il particolare<br />

interessante.<br />

154


155


156


Ed un’altra regola, ancora più importante è: quando fotografi<br />

guarda più la luce che il soggetto.<br />

157


158


159


Un ultimo consiglio, il più semplice, che forse suona un po’<br />

qualunquista: non sperare di fare una foto meravigliosa in un colpo<br />

solo o in un solo giorno; scatta sempre, scatta molto, ripeti la<br />

stessa inquadratura tante volte, variando un po’ l’esposizione; in<br />

ogni caso al posto di uno scatto, fanne due o tre, alla fine scegli e<br />

mostra solo ciò che ti piace. E così che fanno i grandi fotografi, ed<br />

oggi, con la foto <strong>digitale</strong>, non costa più niente...<br />

160


15 – Il controllo dell’esposizione<br />

Adesso però chiediamoci come riesce la fotocamera a calcolare<br />

il valore di luce LV, dal quale poi deduce la scelta del tempo di<br />

esposizione e/o del diaframma. Abbiamo visto che per fare ciò è<br />

necessario un esposimetro, ovvero uno strumento capace di<br />

misurare con esattezza il valore della luce LV.<br />

<strong>La</strong> fotocamera, essendo <strong>digitale</strong>, ha un esposimetro molto<br />

semplice: valuta LV dai valori che ciascuno dei fotodiodi rileva.<br />

Questa però è l'unica informazione che la fotocamera ha della<br />

luminosità della scena: non conosce altro, non ha le informazioni<br />

del fotografo, il quale invece si rende conto benissimo del tipo di<br />

scena che sta inquadrando.<br />

In sostanza il fotografo sa per esempio che sta inquadrando<br />

una scena all'aperto di sera, naturalmente con scarsa<br />

illuminazione, e vuole rappresentare quella scena esattamente<br />

come la vede. Invece la fotocamera rivela un certo valore di LV e si<br />

comporta di conseguenza: valore LV basso, quindi esposizione<br />

lunga e/o diaframma molto aperto.<br />

Il pericolo è proprio che la fotocamera faccia il suo mestiere con<br />

troppa professionalità e ci restituisca delle immagini "troppo"<br />

perfette.<br />

Per esempio se siamo al tramonto e vogliamo fotografare una<br />

scena come questa:<br />

161


è molto probabile che la fotocamera ci restituisca invece<br />

un’immagine come questa:<br />

162


<strong>La</strong> fotocamera ha svolto il suo lavoro alla perfezione, perché i<br />

suoi programmi interni sono stati impostati in modo tale da<br />

permettere al fotografo di fare foto perfette anche in condizioni di<br />

luce scarsa.<br />

Solo che il fotografo non sempre vuole foto perfette, il fotografo<br />

non vuole fotografare la realtà obiettivamente, ma vuol fotografare<br />

le proprie emozioni<br />

Si comprende allora come sia necessario in certe situazioni<br />

non basarsi esclusivamente sugli automatismi della fotocamera,<br />

ma intervenire con correzioni manuali. Il grosso vantaggio che ci<br />

dà la tecnica <strong>digitale</strong> è quello di vedere nel mirino non tanto la<br />

scena inquadrata, ma la scena vista dal CCD, ovvero in ultima<br />

analisi la fotografia che stiamo facendo. Ciò però non è sempre<br />

automatico ed è necessario conoscere bene la propria fotocamera<br />

e stabilire con essa una certa familiarità.<br />

Come se non bastasse, esiste il problema del pinguino.<br />

Intendiamoci il simpatico animale non ha nessuna colpa e neanche<br />

si immagina che esista un problema legato a lui. Il fatto è che il<br />

pinguino ha una livrea molto semplice, formata solo da due colori,<br />

il bianco ed il nero. Ed è proprio qui il problema: due colori così<br />

contrastanti sono difficile da fotografare.<br />

Se per esempio ci limitiamo a scattare in modo automatico,<br />

otteniamo questa foto:<br />

163


Come si vede una foto tecnicamente perfetta, ben bilanciata nei<br />

toni di grigio, ma non è assolutamente quello che volevamo; noi<br />

volevamo che il pinguino potesse orgogliosamente mostrare il nero<br />

della schiena ed il bianco della pancia, ed invece la foto ci mostra<br />

un grigio scuro ed un grigio chiaro.Come si può rimediare?<br />

Proviamo a sottoesporre:<br />

164


Sì certo: adesso il nero è un vero nero, però il bianco si ingrigito<br />

sempre di più, sembra che il pinguino abbia la pancia sporca e non<br />

siamo soddisfatti neanche di questa immagine.<br />

Proviamo allora a sovraesporre:<br />

Succede esattamente il contrario: ora la pancia è bella bianca,<br />

ma la schiena è grigia.<br />

Come si fa? Attenzione: quello che vogliamo è molto difficile da<br />

ottenere, perché non corrisponde alla visione ottica che abbiamo<br />

noi della scena, ma piuttosto alla visione della scena elaborata dal<br />

nostro cervello: ricordiamoci che l’uomo non vede con gli occhi ma<br />

col cervello.<br />

Ed allora che fare? Solo con la fotocamera non possiamo fare<br />

di più, dobbiamo cercare un compromesso, o scegliere una<br />

esposizione che più valorizzi il soggetto che ci interessa.<br />

Poi, elaborando la foto <strong>digitale</strong> con i metodi che vedremo più<br />

avanti, sarà anche possibile riprodurre il nostro pinguino così come<br />

crediamo di vederlo, o meglio come ci immaginiamo che debba<br />

165


essere. Ecco un grande vantaggio della foto <strong>digitale</strong>: la possibilità<br />

di modificare facilmente le foto.<br />

Ma per adesso limitiamoci alle tecniche di ripresa. C’è un modo<br />

molto veloce ed intuitivo per cambiare la luminosità della scena.<br />

Per esempio supponiamo di aver scattato questa foto,<br />

lasciando regolare l’esposizione alla fotocamera:<br />

Il parco, in primo piano, è decisamente buio, mentre il palazzo<br />

sullo sfondo è un po’ troppo chiaro.<br />

Supponiamo che ci interessi il palazzo. Allora puntiamo la<br />

fotocamera su di esso, premiamo il pulsante di scatto fin verso la<br />

metà della sua corsa. In tal modo la fotocamera calcolerà la giusta<br />

esposizione per il palazzo, poiché sta inquadrando solo quello. Poi,<br />

senza lasciare il pulsante, inquadriamo tutta la scena e premiamo il<br />

pulsante fino in fondo. Otteniamo questa foto:<br />

166


Certo il palazzo è perfettamente esposto, ma il parco è molto<br />

più buio. Supponiamo invece che ci interessi il parco. Ripetiamo<br />

allora la stessa cosa: inquadriamo solo il parco, premiamo il<br />

pulsante di scatto fino a metà, poi inquadriamo tutta la scena e<br />

scattiamo.<br />

167


Il parco è correttamente esposto, mentre il palazzo ed il cielo<br />

sono talmente sovraesposti da scomparire. È evidente la<br />

saturazione del CCD in quella zona, notiamo che è completamente<br />

bianca, senza alcuna zona meno chiara: è evidente che lì il CCD<br />

ha registrato ovunque valori sopra la sua soglia di sensibilità e<br />

quindi per tutti i punti ha assegnato lo stesso valore, il bianco<br />

massimo (255 se la profondità di colore è di 8 bits)<br />

Lo stesso risultato poteva essere ottenuto variando i valori di<br />

diaframma e/o di tempo di esposizione, ma sarebbe stato molto più<br />

complicato. Il metodo esposto invece è semplice ed immediato.<br />

Nelle fotocamere, salvo in quelle di bassissima fascia, è<br />

possibile variare il sistema di misurazione dell’esposizione.<br />

Il sistema di misurazione più comune, quello che la fotocamera<br />

adotta se non riceve istruzioni particolari è chiamato MATRIX. In<br />

esso tutta l'immagine viene divisa in una griglia di celle e di ogni<br />

cella viene misurato il valore LV e poi eseguita una media dei<br />

valori, che costituirà il valore di LV per determinare il diaframma ed<br />

il tempo di esposizione.<br />

Un’altra modalità di esposizione è detta SPOT: in essa la<br />

misurazione della luce viene eseguita solamente su una piccola<br />

parte della scena, solitamente quella centrale, indicata nella<br />

fotocamera da un quadrato. Tale modalità aiuta molto a scattare<br />

foto del tipo di quelle commentate in precedenza, ma attenzione: la<br />

fotocamera si disinteressa completamente di tutto ciò che non è<br />

compreso nella sua zona di interesse.<br />

Un altro tipo di misurazione, una specie di via di mezzo tra i due<br />

visti prima, è quello detto A PREFERENZA CENTRALE, nel quale<br />

come in quello MATRIX viene calcolata la media di tutti valori di LV<br />

delle varie zone dell'inquadratura, ma viene dato un peso maggiore<br />

a quelli delle zone centrali. Forse è questo il tipo di misurazione da<br />

preferire in generale.<br />

<strong>La</strong> scelta del tipo di misurazione dell'esposizione viene<br />

fatta solitamente attraverso un menu della fotocamera.<br />

168


16 – Il controllo della messa a fuoco<br />

Generalmente si è portati a pensare che tutti gli elementi di una<br />

foto debbano esser nitidi e quindi a fuoco. Sappiamo anche che<br />

questo, se da un punto di vista teorico è addirittura impossibile, da<br />

un punto di vista pratico è conseguibile con una certa<br />

approssimazione se si riesce a utilizzare solo diaframmi piuttosto<br />

piccoli.<br />

Comunque l'operazione di messa a fuoco, se eseguita<br />

manualmente, non è facile, dato che il fuoco deve essere<br />

controllato su uno schermo di dimensioni ridotte, specialmente<br />

nelle fotocamere di fascia bassa.<br />

Però tutte le fotocamere in commercio sono dotate di un<br />

dispositivo di messa a fuoco automatica, denominato<br />

AUTOFOCUS.<br />

L’autofocus presente su praticamente tutte le fotocamere digitali<br />

è detto passivo o a contrasto, per distinguerlo da un altro tipo,<br />

praticamente non usato sulle digitali, detto attivo, che emette<br />

ultrasuoni o raggi infrarossi per valutarne l'eco e da questa dedurre<br />

la distanza del soggetto.<br />

Gli autofocus passivi funzionano controllando il contrasto,<br />

ovvero la differenza in luminanza tra pixel, mentre eseguono<br />

manovre di focheggiatura avanti e indietro fino a raggiungere un<br />

massimo. E' ovvio infatti che un'immagine focalizzata presenta un<br />

contrasto nettamente superiore ad un'immagine sfocata.<br />

<strong>La</strong> figura seguente mostra come una fotocamera esegue la<br />

manovra di autofocus.<br />

169


Dapprima la fotocamera valuta il contrasto dell’immagine<br />

iniziale, mostrata nella prima finestra, poi sposta il fuoco in una<br />

direzione, per esempio avanti. Quindi valuta il fuoco in quella<br />

situazione, per esempio quello della finestra 2. Come si può notare<br />

il contrasto è maggiore del precedente, quindi la fotocamera ne<br />

deduce di aver focheggiato nella direzione giusta, pertanto sposta<br />

il fuoco avanti nella stessa direzione. Se avesse riscontrato un<br />

contrasto minore avrebbe focheggiato nella direzione opposta alla<br />

precedente. Adesso, finestra 3, il contrasto è ancora maggiore,<br />

quindi la fotocamera si convince sempre più di essere nella<br />

direzione giusta, pertanto avanza ancora un po’ in quella direzione.<br />

Siamo alla finestra 4 dove la fotocamera verifica che il contrasto è<br />

diminuito rispetto alla finestra 3. Ne deduce quindi che ha superato<br />

il massimo di contrasto, e pertanto retrocede un po’ fino a ritrovare,<br />

nella finestra 5, lo stesso contrasto che aveva nella finestra 3. A<br />

questo punto, accendendo una luce o emettendo un rumore,<br />

avverte il fotografo di aver terminato le operazioni di messa a<br />

fuoco.<br />

Attenzione però a non fidarsi troppo dell’autofocus.<br />

Innanzitutto bisogna attendere che esso abbia compiuto il suo<br />

lavoro: talvolta la cosa può durare qualche secondo; molti fotografi<br />

invece, appena vedono sullo schermo l'immagine che desiderano,<br />

scattano immediatamente convinti che l’autofocus abbia già<br />

lavorato: si ritrovano foto sfocate e ne danno la colpa alla<br />

170


fotocamera.<br />

Inoltre è necessario facilitare il compito all'autofocus, invece di<br />

renderglielo magari difficile, inquadrando almeno in una fase<br />

iniziale un elemento con un grosso contrasto in modo che esso<br />

possa agire al meglio.<br />

<strong>La</strong> foto seguente è stata scattata senza questa precauzione e la<br />

fotocamera ha messo a fuoco l'unico oggetto ad alto contrasto che<br />

ha trovato nell'inquadratura e che, purtroppo, non coincideva con il<br />

soggetto principale. In questo caso, forse, l'unico modo di<br />

procedere era quello di eseguire una messa a fuoco manuale,<br />

impostando il valore all'infinito, non essendo possibile trovare altri<br />

soggetti alla stessa distanza dell'aereo, che ovviamente procedeva<br />

ad una velocità troppo elevata per pensare di costituire il bersaglio<br />

di un autofocus.<br />

171


Molti autofocus hanno anche una luce di puntamento,<br />

solitamente rossa, per una messa a fuoco automatica anche in<br />

condizioni di scarsa visibilità, ovviamente su soggetti abbastanza<br />

vicini.<br />

Il fuoco manuale è soprattutto utilizzato quando si voglia<br />

sfocare deliberatamente una parte dell'immagine, ovvero quel<br />

soggetto che costituisce una presenza indesiderata<br />

nell'inquadratura e che, per questa ragione, toglie spazio, ma<br />

soprattutto importanza, al soggetto principale.<br />

Per utilizzare il fuoco manuale è necessario selezionarlo in<br />

alcune fotocamere tramite un cursore o in altre tramite un menu.<br />

Dopodiché, tramite un paio di pulsanti o un joystick a seconda<br />

delle fotocamere, sarà possibile mettere a fuoco soggetti vicini o<br />

soggetti lontani.<br />

E' bene dire subito che l'operazione non si presenta come una<br />

delle più semplici ed è molto più complicata nelle fotocamere<br />

compatte, che in quelle reflex, dove la ghiera di messa a fuoco è<br />

sull'obiettivo e quindi maneggevole e il fotografo può sfruttare<br />

appieno il mirino ottico.<br />

172


Bisogna inoltre rimarcare il fatto che è necessario impostare il<br />

diaframma ad un valore piuttosto aperto altrimenti la profondità di<br />

fuoco sarà così grande da non permettere manovre di sfocamento.<br />

Le due figure seguenti mostrano due diverse focheggiature per<br />

la stessa scena:<br />

Alcune fotocamere facilitano la messa a fuoco manuale, in<br />

quanto mostrano sul display la profondità di fuoco e un<br />

ingrandimento del particolare che si sta mettendo a fuoco in quel<br />

momento.<br />

173


In ogni caso la messa fuoco manuale non è agevole ed è un<br />

peccato rinunciare alla comodità dell'autofocus.<br />

Si veda per esempio la foto seguente: la statuetta in primo<br />

piano è a fuoco, mentre l'altra insieme allo sfondo è notevolmente<br />

sfocata. Ciò è stato ottenuto con una messa a fuoco manuale.<br />

E' però anche possibile utilizzare l'autofocus, imponendogli però<br />

di focalizzare in una sola particolare area, con la stessa procedura<br />

usata per la esposizione. Il risultato, visibile nella foto successiva,<br />

è nettamente migliore.<br />

174


Vedremo nel seguito che è possibile anche sfocare una parte<br />

della fotografia non al momento dello scatto, ma successivamente,<br />

elaborando la foto.<br />

Questa scelta offre addirittura una maggiore flessibilità rispetto<br />

allo sfocamento, per così dire ottico, nel quale si deve ovviamente<br />

rispettare le regole dell’ottica geometrica.<br />

175


17 – Fotografare il movimento<br />

Una foto mossa è per molti sinonimo di foto sbagliata, ed era<br />

addirittura un'ossessione per i fotografi del secolo scorso, quando<br />

non esistevano pellicole rapide, ed erano perciò richiesti lunghi<br />

tempi di posa.<br />

All'inizio della storia della fotografia non si riusciva proprio a<br />

fotografare qualcosa che non rimanesse immobile per un certo<br />

tempo.<br />

È famosa a questo riguardo la foto (o meglio il dagherrotipo) di<br />

Daguerre, che ci rappresenta mirabilmente il Boulevard du Temple<br />

a Parigi nel 1839, assolato ma incredibilmente senza ombra di vita.<br />

A dire il vero una persona c'era e c'è ancora, dentro al cerchio<br />

bianco: è l'unico che rimase fermo per tutto il tempo necessario<br />

176


alla lunga posa (il materiale sensibile era molto lento), stava<br />

facendosi pulire gli stivali da un lustrascarpe, del quale è rimasto<br />

un triangolo scuro, frutto del suo incessante movimento, ma<br />

concentrato in una piccola zona. Tutto il resto della popolazione a<br />

passeggio sul boulevard e delle automobili, poche, non ha lasciato<br />

traccia di sé, troppo veloci per la lastra di Daguerre: ci sono, ma<br />

dispersi nel grigio del viale, che senza di loro, senza il loro<br />

passaggio voglio dire, sarebbe stato solo un po' più chiaro.<br />

Il problema della lentezza (ovvero della scarsa sensibilità) del<br />

materiale fotografico continuò ad esistere per almeno un secolo:<br />

infatti sono caratteristiche le pose ieratiche e stereotipate delle<br />

persone in posa davanti alle macchine fotografiche:<br />

particolarmente incisive e belle quelle di August Sander che, da<br />

un'esigenza di riconoscimento imposta dal nemico vincitore nel<br />

1918, seppe trarre un censimento fotografico delle persone e dei<br />

mestieri di un villaggio tedesco e ci ha lasciato questi straordinari<br />

ritratti di persone che nella loro fissità assumono tratti insieme<br />

tragici e inguaribilmente romantici.<br />

177


Poi il tempo passò e la tecnica fotografica subì una grande<br />

evoluzione fino all'esplosione delle istantanee, che divennero un<br />

vero e proprio nuovo standard fotografico. Adesso il fotografo<br />

poteva andare tra la gente e scattare in tempo reale ritratti e<br />

vedute senza più paura di foto "mosse".<br />

Il futurismo, negli anni ‛10 e ‛20 del secolo scorso promosse il<br />

"Fotodinamismo": che rifiutava la staticità e la fissità dei ritratti<br />

fotografici, sostenendo che il movimento era parte naturale della<br />

vita e che quindi le foto dovessero almeno tentare di riprodurlo.<br />

Ecco due esempi famosi e straordinari di fotodinamismo.<br />

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Nonostante ciò le persone rimasero fedeli allo stereotipo che<br />

una foto mossa era una foto sbagliata e si continuarono a fare foto<br />

che venivano apertamente dichiarate foto ‟realiste” e che invece<br />

mostravano una staticità del tutto irreale.<br />

Oggi invece molti fotografi almeno provano a rappresentare il<br />

movimento, forse perché mentre una volta era molto comune fare<br />

foto mosse, adesso è difficilissimo farle: siamo alle prese, ed in<br />

modo drammatico con il problema opposto: ogni movimento viene<br />

congelato nel tempo e nello spazio dall'apparecchio fotografico.<br />

Eccone un esempio.<br />

<strong>La</strong> signora con la bici non doveva far parte della foto, ma se<br />

fosse stata ritratta mossa, avrebbe sicuramente rovinato meno al<br />

foto, forse le avrebbe conferito una certa vivacità, in fondo gli artisti<br />

di strada suonano tra la gente che passa; così fissa ed ieratica<br />

invece confonde completamente la lettura della foto.<br />

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Siamo al paradossale: il movimento, fenomeno mai attuale<br />

come in questi nostri frenetici anni, non può essere rappresentato<br />

in fotografia!<br />

No, non è proprio così, lo si può fare, il più è trovare un pubblico<br />

che lo apprezzi, che lo desideri, che lo voglia vedere. Allora sarà<br />

sufficiente scegliere la modalità A PRIORITÀ DI TEMPI e<br />

impostare un tempo abbastanza lungo, ma non troppo, mezzo<br />

secondo, un secondo e magicamente tutte le cose che passano e<br />

non si fermano assumeranno un aspetto mosso, effimero, diverso<br />

da quello delle pietre, dei muri, delle cose che rimangono, per<br />

giorni, per anni, per secoli.<br />

181


182


In questo modo ciò che passa e non si ferma, ciò che è<br />

effimero, assume nella foto la sembianza di un fantasma, di un<br />

soffio di vento: c'è ma non lascia forma, solo una pennellata di<br />

colore, un lampo, un brivido, una sensazione passeggera.<br />

Una foto mossa, come una foto sfocata, non si può correggere,<br />

neanche con le più raffinate tecniche digitali, ma si può fare il<br />

contrario: sfocare una foto o muovere un soggetto dentro di essa.<br />

Più avanti vedremo queste tecniche in dettaglio, per ora basti<br />

vedere come il treno, congelato nella foto seguente, prenda<br />

183


velocità nella successiva.<br />

184


Indice del <strong>volume</strong> 1<br />

0 – Presentazione.....................................................................1<br />

1 – <strong>La</strong> fotografia <strong>digitale</strong>.........................................................3<br />

2 – <strong>La</strong> camera oscura.............................................................13<br />

3 – <strong>La</strong> lente convergente.......................................................22<br />

4 – L’obiettivo fotografico....................................................32<br />

5 – <strong>La</strong> misurazione della luce................................................47<br />

6 – Immagini vettoriali ed immagini bit-map.......................57<br />

7 – Digitalizzare un’immagine..............................................63<br />

8 - Il CCD..............................................................................81<br />

9 – Il colore...........................................................................88<br />

10 – Un po’ di aritmetica.....................................................107<br />

11 – <strong>La</strong> fotocamera <strong>digitale</strong>.................................................113<br />

12 – Breve storia della macchina fotografica......................124<br />

13 – Come si scatta una bella fotografia.............................136<br />

14 - L'inquadratura..............................................................142<br />

15 – Il controllo dell’esposizione........................................161<br />

16 – Il controllo della messa a fuoco..................................169<br />

17 – Fotografare il movimento............................................176<br />

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