Fuoco amico - Breve storia di un "giornale"
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Finta <strong>di</strong> niente<br />
Io faccio finta <strong>di</strong> niente. Mi sono ricordato del colore dei ramarri<br />
fermi sui muretti dell’isola <strong>di</strong> Mozia. Ma faccio finta <strong>di</strong> niente.<br />
Mi sono ricordato delle collane <strong>di</strong> peperoncini rossi appese ai<br />
muri <strong>di</strong> tufo imbiancato della Puglia. Dei fichi d’In<strong>di</strong>a maturi.<br />
Dei papiri del Ciane a Siracusa. E faccio finta <strong>di</strong> niente. Mi è<br />
tornato in mente il piacere <strong>di</strong> fare <strong>un</strong> bagno nel mare, o in <strong>un</strong>a<br />
vasca da bagno. Niente, faccio finta <strong>di</strong> niente.<br />
R. mi ha detto che è tornata anche quest’anno la coppia <strong>di</strong> upupe<br />
nel nostro giar<strong>di</strong>no. “Ah, sì?” le ho detto. Come se niente<br />
fosse.<br />
In certi giorni arriva anche qui dentro il profumo dei tigli fioriti.<br />
Pisa è piena <strong>di</strong> tigli. Mi ricordo che i tigli ributtano sempre dal<br />
piede del tronco. Anche il profumo dei tigli, <strong>un</strong>a volta arrivato<br />
fin qui, ha qualcosa <strong>di</strong> storto. Starnutisco e faccio finta <strong>di</strong> niente.<br />
Abbiamo <strong>un</strong> campetto <strong>di</strong> calcio nuovo, grazie ai sindaci dei <strong>di</strong>ntorni.<br />
Ha <strong>un</strong>’erba sintetica, ci si gioca bene. Siamo così <strong>di</strong>sposti a<br />
farci ingannare che starnutiamo anche guardando l’erba sintetica.<br />
Forse si sarebbero fatte ingannare anche ron<strong>di</strong>ni e farfalle: l’erba<br />
è <strong>di</strong> plastica, ma ha <strong>un</strong> bel verde. Non sono venute, né ron<strong>di</strong>ni<br />
né farfalle. Ma facciamo finta <strong>di</strong> niente.<br />
C’è <strong>un</strong>a mostra sul ricamo e il cucito nell’arte contemporanea a<br />
Rovereto. Che volete che me ne importi, in questa situazione. O<br />
<strong>di</strong> Pina Bausch.<br />
Dei gelati <strong>di</strong> frutta, quelli buoni, non mi sono mai <strong>di</strong>menticato.<br />
Ma faccio finta <strong>di</strong> niente.<br />
Mi sono ricordato invece ora <strong>di</strong> certe passeggiate in centro, appena<br />
prima dell’alba, ci sono solo io e <strong>un</strong> camion della monnezza.<br />
Mi sono ricordato <strong>di</strong> Francesco che sta zitto e pensieroso, e pi<br />
chiede: “È vero che se <strong>un</strong>o muore va in cielo su <strong>un</strong>a nuvoletta?”.<br />
Poi ho fatto il conto: Francesco è grande, ormai. Chissà dove<br />
pensa adesso che vada <strong>un</strong>o, quando muore.<br />
Di tutte le cose che stasera mi tornano in mente (niente <strong>di</strong> sentimentale,<br />
è solo perché mi ero seduto a scrivere la pagina settimanale,<br />
e non avevo deciso su che cosa) mi ritrovo a pensare<br />
che forse fu l’ultima volta. L’ultima volta a Venezia, la tazzina <strong>di</strong><br />
porcellana, il gelato <strong>di</strong> limone, <strong>un</strong> bagno nella vasca, non <strong>di</strong>co<br />
nel mare, e il cespuglio <strong>di</strong> lillà. L’ultima volta Giovanni Bellini e<br />
Francesco, e il mio bravo cane. Dopo tutto, non mi fa <strong>un</strong>a grande<br />
impressione. Mi sono abituato a far finta <strong>di</strong> niente. Può essere<br />
ad<strong>di</strong>rittura <strong>un</strong> vantaggio, sapere come sono andate le cose<br />
l’ultima volta.<br />
Adesso che ci penso, da tanto tempo non sento più la mancanza<br />
della notte. Si arrangi il cielo stellato. Anche lui non sente la mia<br />
mancanza. Fa finta <strong>di</strong> niente.<br />
Maddalena aspetta <strong>un</strong> bambino. Ehi, Maddalena, non faccio<br />
mica finta <strong>di</strong> niente. Qui dentro, e dentro <strong>di</strong> me, io faccio le veci<br />
del padre <strong>di</strong> Maddalena.<br />
Il governo russo ha messo in guar<strong>di</strong>a quello italiano dalle mie<br />
provocazioni antirusse. A San Pietroburgo si sono detti tutti<br />
d’accordo nella lotta contro il terrorismo. Dentro <strong>di</strong> sé devono<br />
aver <strong>di</strong>stinto il terrorismo ceceno dal terrore contro i ceceni. Le<br />
<strong>di</strong>stinzioni sono importanti. Ho calcolato che <strong>di</strong> tutte le città dei<br />
romanzi, cioè le città più importanti per la nostra vita, San Pietroburgo<br />
è la più importante. È lì che l’assessore <strong>di</strong> collegio Ko-<br />
32 ● AGORÀ 10 settembre 2003<br />
valèv vede scendere dalla carrozza il proprio naso. È lì che il<br />
principe Myskin va a conoscere le figlie del generale Epancin. È<br />
lì che Oblomov piange ascoltando Olga che canta Casta <strong>di</strong>va.<br />
Quando ho letto la strampalata protesta del governo russo mi<br />
sono messo a commemorare l’ultima volta della mia vita in cui<br />
vi<strong>di</strong> la Russia. Io sono filorusso, filoamericano, e amo molto la<br />
gente e i monti della Cecenia. Però faccio finta <strong>di</strong> niente.<br />
Una volta trovai nella Terra del fuoco le tracce <strong>di</strong> <strong>un</strong> antico cimitero<br />
<strong>di</strong> fort<strong>un</strong>a <strong>di</strong> cui, nel viavai <strong>di</strong> quella popolazione, si era<br />
persa la memoria. Chissà se sapranno ritrovarlo, anche senza <strong>di</strong><br />
me. Lì il vento e le intemperie sono forti, e le ossa dei sepolti si<br />
confondono con le ossa della risacca e con le ossa dell’asado.<br />
Del resto, faccio finta <strong>di</strong> niente.<br />
Mi sono ricordato dell’aurora boreale, dei bombardamenti sopra<br />
la città asse<strong>di</strong>ata, <strong>di</strong> <strong>un</strong>a volpe bianca che trattiene il respiro<br />
guardandomi mentre trattengo il respiro guardandola. Mi sono<br />
ricordato il profumo della lavanda, davanti alla mia porta <strong>di</strong> casa,<br />
e nei sacchetti <strong>di</strong> spigo infilati nella biancheria. Oggi era l<strong>un</strong>edì,<br />
“Cambio <strong>di</strong> lenzuola”. Che vuoi che me ne importi, dell’aurora<br />
boreale e delle lenzuola odorose.<br />
C’è, nel nostro cortile, all’angolo fra due muri <strong>di</strong> cemento, a<br />
quattro o cinque metri <strong>di</strong> altezza, <strong>un</strong>a fessura stretta nella quale<br />
ogni anno risp<strong>un</strong>ta <strong>un</strong>a pianta erbacea (non so quale, mi <strong>di</strong>spiace,<br />
<strong>un</strong>a cicoria) e riesce a fare <strong>un</strong> fuoco d'artificio <strong>di</strong> fiori gialli:<br />
così, senza terra, con l'acqua che capita, appesa a <strong>un</strong> muro sgretolato.<br />
Non vale niente. Ma non faccio finta <strong>di</strong> niente. L’aspetto<br />
con apprensione, a ogni nuova primavera, e quando vedo che ce<br />
l’ha fatta <strong>di</strong> nuovo, anche ora ce l’ha fatta, inalbera già il suo<br />
fiore ignaro, chiamo gli altri a congratularsi. È come quegli alberi<br />
che il vento della Patagonia storce da <strong>un</strong>a parte, e perciò si chiamano<br />
alberi ban<strong>di</strong>era. È la nostra verdura ban<strong>di</strong>era. Noi non<br />
possiamo vedere né tigli né barche a vela né aurore boreali e<br />
cani lupo. Ma voi non potete vedere la nostra verdura muraria.<br />
E fate pure finta <strong>di</strong> niente.<br />
Adriano Sofri, “Panorama”, 12 giugno 2003<br />
Ho imbarazzo a vedere firmare non tanto <strong>un</strong>a richiesta <strong>di</strong> grazia<br />
quanto <strong>un</strong>a rimozione del passato. Forse bisognerebbe (tutti i<br />
firmatari, non Sofri) vedere Gemma Calabresi, ragazza <strong>di</strong> ventiquattro<br />
anni incinta del terzo figlio, che, impazzita dal dolore,<br />
arriva all’obitorio in mezzo ai fischi e agli insulti dei giovani rivoluzionari.<br />
Vedere il figlio Mario che da bimbo sogna <strong>di</strong> avere in<br />
regalo la scala più alta del mondo per raggi<strong>un</strong>gere in cielo il padre.<br />
Vedere più <strong>di</strong> quin<strong>di</strong>ci anni dopo la famiglia Calabresi in<br />
trib<strong>un</strong>ale ancora <strong>di</strong>leggiata da <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> rivoluzionari cresciuti e<br />
<strong>di</strong>venuti giornalisti o opinionisti. Questo e altro occorrerebbe<br />
rivedere, senza l’alibi - ancora invocato in tante <strong>di</strong>scussioni private<br />
(e solo in quelle) - delle violenze dello Stato e della società<br />
<strong>di</strong> allora. Occorrerebbe guardarsi dentro tutti insieme, in ciò che<br />
tutti sappiamo e in ciò che non tutti sappiamo. Oserei <strong>di</strong>re: bisognerebbe<br />
non liberarsi del fantasma <strong>di</strong> Sofri in carcere grazie a<br />
<strong>un</strong>a firma ma con quella firma assumerlo collettivamente, al <strong>di</strong> là<br />
dei singoli fatti ai quali ciasc<strong>un</strong>o ha o non ha partecipato.<br />
Nando Dalla Chiesa, “l’Unità”, 23 luglio 2003