Vincenzo Marinelli

gono, credo, in una unità di fondo, che definirei con la
formula: viaggio nell’isola della poesia, senza fuga dalla
realtà.
Non mi inscrivo nella vasta schiera dei poeti piagnucolosi;
non contribuisco agli abusati languori di tanta mole
del patrio far versi. Ma non saprei ritrovarmi neppure in
una poesia giocosa di pura evasione.
Il titolo della prima parte, Mecum facile, è una reminiscenza
di Fedro: “Mecum facile redeo in gratiam”, “facilmente
mi riconcilio con me stesso”. È una facilità relativa,
naturalmente. Se non vuol essere un autoinganno, è una
facilità che occorre conquistarsi sapendo guardare bene
dentro di sé, fino alle profondità dell’inconscio. Non ci è
dato ignorarle, come invece poteva permettersi Fedro
per l’ottima ragione che ai suoi tempi la psicanalisi non
c’era ancora.
Questa prima parte, ben s’intende dal titolo, è quella
di più larga presenza di toni intimistici. È un sé che rivendica
i suoi spazi e sa di poter fare buon affidamento sul
valore catartico della poesia, che per fortuna non è sottoposto
alla condizione che il suo autore si prenda troppo
sul serio.
È un sé che diffida, d’altronde, della possibilità di uno
splendido isolamento. Vive e vuol vivere non solo nel
tempo mentale ed emotivo, ma nel tempo segnato dal
calendario. L’isola della poesia come luogo di catarsi e di
consolazione, ma non di ripudio della realtà; luogo che
non ha da essere privo di collegamenti con la dimensione
pubblica e politica della vita sociale, per quanto … prosastica.
Con tanti saluti ad un certo estetismo di maniera.
Nella seconda parte, Minima moralia, sono lievitati,
vorrei dire, fermenti di cultura e vita morale. No, l’espressione
è troppo grossa. Provo a usare altre parole: si sono
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