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rivista 01/02 2009 - Unuci

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Corrispondenza<br />

La Redazione ringrazia i Lettori per l’interesse dimostrato per questa Rubrica, e invita i Soci Collaboratori ad inviare<br />

i loro scritti all’indirizzo E-MAIL: <strong>rivista</strong>.unuci.org.<br />

Solo i pezzi di interesse generale e rispondenti ai requisiti richiesti - max. due cartelle di 30 righe ciascuna - saranno<br />

valutati per la eventuale pubblicazione.<br />

Falciato da ordigno infame - e...<br />

già era la pace!<br />

Riportiamo l’elaborato del S.Ten. Vasc. Ernani Andreatta<br />

vincitore del 1° premio del 6° concorso narrativa<br />

2008 Ten. Vasc. Luigi Risso MAVM sul tema:<br />

“Gli eroismi: ieri e oggi”.<br />

Era il 24 Luglio 1945 e la guerra era finita da poco. Al<br />

tempo di questi miei ricordi avevo dieci anni, ma l’episodio<br />

che sto per raccontare è ancora nitido nella mia<br />

mente. Silvio Santini, soprannominato “Muneggia”<br />

(perché originario di Moneglia) era un pescatore del<br />

quartiere degli Scogli, situato all’estremo ponente di<br />

Chiavari. Santini era andato a pesca col figlio piccolo,<br />

Elio di nove anni, e si era seduto sul grande scoglio del<br />

Gruppo del Sale, caratteristico per la sua forma e posizionato<br />

tra Chiavari e Zoagli. Buttavano su e giù la lenza<br />

ed avevano quasi riempito il secchiello di pesci da<br />

scoglio, ottimi per la zuppa, perché a quel tempo il mare,<br />

ricchissimo di pesci, spesso dava i frutti desiderati.<br />

Poco al largo c’era un peschereccio di Santa Margherita<br />

Ligure, che invece di spostarsi lentamente con le reti<br />

era sempre fermo, quasi fosse ancorato. Ad un tratto<br />

l’attenzione di Santini e di suo figlio fu attratta dal richiamo<br />

di uno di bordo che, con gesti e grida chiedeva<br />

aiuto per ricuperare le reti che si erano impigliate sul<br />

fondo. Santini, vista la chiara richiesta di aiuto non<br />

esitò a buttarsi in mare per raggiungere a nuoto il peschereccio<br />

in difficoltà.<br />

A posteriori, si disse che Silvio Santini sapesse, ancor<br />

prima di arrivare a bordo, che non era uno scoglio a<br />

trattenere le reti sul fondo, perché conosceva bene quei<br />

fondali, e sicuramente intuì che si trattava di qualcosa<br />

d’altro... tuttavia fu pronto a “dare una mano”. Per risalire<br />

alle motivazioni che spinsero il Santini a compiere<br />

questo gesto e capirne i risvolti psicologici e umani, ripercorro<br />

qualche tratto della storia del rione Scogli.<br />

Dai primi decenni dell’ottocento si cominciarono a costruire<br />

e a varare velieri maestosi e non si può tacere<br />

che la loro costruzione, portata avanti senza l’ausilio<br />

dell’energia elettrica e dei perfezionati macchinari<br />

odierni, era il risultato della grande abilità e delle<br />

straordinarie capacità delle maestranze e delle fatiche<br />

di quelli che dovevano modellare il legno soltanto con<br />

la forza delle loro braccia e col solo aiuto dei piccoli<br />

UNUCI 1/2<br />

Gennaio/Febbraio <strong>2009</strong><br />

utensili di allora: pialle, ascie, seghe, sgorbie ecc.. Il<br />

cantiere al tempo era ubicato esattamente al centro di<br />

Piazza Gagliardo e questa spianata antistante le case<br />

si popolava di segantini, maestri d’ascia, calafati, chiodatori<br />

o semplici apprendisti e di legname naturalmente,<br />

che si trovava sparso dappertutto. E così l’attuale<br />

Piazza Gagliardo, era comunemente chiamata “Ciassa<br />

di Barchi”. I Barchi, in gergo, erano appunto i grandi<br />

velieri del tempo. I titolari del cantiere navale, prima<br />

Francesco Gotuzzo detto “Mastro Checco” poi Luigi, il<br />

figlio, ed Eugenio il nipote detto “Mario”, permettevano<br />

che le donne del rione raccogliessero gli scarti del<br />

legname adoperato per le costruzioni, la cosiddetta<br />

“buscaglia” con la quale era possibile cucinare e scaldarsi.<br />

In pratica, da decine e decine d’anni si era formata<br />

una tradizione, un uso: le donne, la sera, non appena<br />

uscivano gli operai, entravano nel cantiere per<br />

raccogliere questi scarti nei loro capienti grembiuli.<br />

Questa consuetudine non consentiva l’uso di carretti o<br />

ceste o altri contenitori: si doveva portare a casa soltanto<br />

quello che si poteva “stivare” dentro al grembiule.<br />

Naturalmente, per scaldarsi e cucinare, c’erano anche<br />

altre fonti di approvvigionamento come il taglio di<br />

qualche albero nei boschi o nella pineta circostante o<br />

la raccolta della “ramaglia” che a seguito dei violenti<br />

temporali invernali il fiume Entella o il torrente Rupinaro,<br />

portavano in mare e che le onde spingevano sulle<br />

spiagge. Poi, verso gli anni 1930/35, le costruzioni navali<br />

di grandi velieri finirono e il quartiere degli Scogli<br />

si trasformò quasi per incanto in borgo di pescatori, a<br />

parte qualche figlio di maestro d’ascia o calafato che<br />

diventò piccolo artigiano nella costruzione di gozzi o<br />

“lancette” o qualche altro che cercò fortuna all’estero.<br />

Nelle persone del rione rimase questa radice del grande<br />

valore umano che era la solidarietà, anche tra “padrone<br />

e operai” o, in termini attuali, “imprenditore e<br />

collaboratori”. Il tempo scorreva lento ma insesorabile<br />

e talvolta capitava nelle famiglie che qualcuno si ammalasse<br />

di polmonite che a quei tempi era una malattia<br />

spesso letale dato che la famosa pennicillina arrivò<br />

dopo la fine della guerra. L’unico modo per curare la<br />

polmonite era quello di somministrare all’infermo un<br />

“impiastro”, notte e giorno, in continuazione. Ciò rendeva<br />

necessario che al capezzale del malato si alternassero<br />

più persone e per molti giorni, ma tutte le<br />

donne e gli uomini del quartiere prestavano volonta-

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