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News - Eva Fischer

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<strong>Eva</strong> <strong>Fischer</strong>, l'arte che rinasce<br />

<strong>Eva</strong> <strong>Fischer</strong> e' l'ultima esponente della scuola romana, definizione che da sola la colloca di diritto nell'olimpo dei<br />

grandi. La sua casa è lo specchio della sua poliedrica arte. Perché <strong>Eva</strong> <strong>Fischer</strong> ha vissuto mille vite, tutte<br />

intensamente e ad ogni vita ha corrisposto un ciclo pittorico diverso<br />

Nel suo attico di Trastevere regnano incontrastate luce e arte. Luce che filtra dalle grandi vetrate e arte con l'A<br />

maiuscola che gli occhi faticano a catturare: molte delle sue tele gigantesche sovrastano i muri. Alcune, invece, sono<br />

appoggiate per terra, forzando gli angoli. Qualsiasi descrizione finirebbe per essere parziale e riduttiva.<br />

"Ogni quadro è un figlio. Quando faccio una mostra è come se fosse la prima. Non mi sono mai assuefatta alle<br />

emozioni. Il pathos e l'adrenalina sono immutate." Così esordisce la grande pittrice.<br />

E' sufficiente, poi, menzionare via Margutta perché <strong>Eva</strong> <strong>Fischer</strong>, come un fiume in piena, inizi a raccontare di<br />

sè : "Meravigliosi e irripetibili sono i ricordi di via Margutta, dopo la guerra. Vivemano nel culto della libertà e<br />

dell'autodeterminazione. Avevamo il desiderio irrefrenabile di raccontare tutto quello che ci era accaduto, dalle<br />

esperienze tragiche a quelle esaltanti: in tal modo ognuno di noi si arricchiva dei fermenti culturali più disparati. Non<br />

esistevano barriere ne' frontiere e quelle che c'erano le abbattevamo con il fuoco indomabile dell'arte. Si discuteva di<br />

tutto: c 'era una modernità in quegli anni di via Margutta che e' molto difficile spiegare a chi non ha avuto il privilegio<br />

di viverli. Io sono stata una privilegiata perché ho avuto la fortuna, appena arrivata a Roma nel 1946, di incontrare<br />

personaggi che hanno lasciato un segno indelebile nella storia: penso ad artisti come Amerigo Tot, Corrado Cagli,<br />

Massimo Campigli, Franco Gentilini, Mario Mafai, Gino Severini, Renato Guttuso che abitava proprio a via Margutta,<br />

a registi come Luchino Visconti, a scrittori come Carlo Levi, a musicisti come Franco Ferrara e Ildebrando Pizzetti, a<br />

politici come Roberto Tremelloni e Sandro Pertini e a tanti altri. Tutti erano ansiosi di sapere cosa accadeva<br />

all'estero. Ognuno di noi aveva una storia personale da condividere: una storia di vita spesso struggente, e<br />

molto spessa farcita delle emozioni travolgenti figlie della recente guerra. Il punto di incontro era la trattoria<br />

'Il re degli amici'. Ricordo che Giovanni, il proprietario, aveva diviso i tavoli dei politici da quelli di noi artisti che<br />

spesso pagavamo le cene con i nostri dipinti. Non esagero quando affermo che quella piccola trattoria ha costituito il<br />

fulcro vitale di una grande primavera culturale: molto spesso sedevano ai nostri tavoli anche grandissimi intellettuali e<br />

artisti stranieri . Due nomi su tutti: Roger Peyrefitte e Salvator Dali."<br />

Partiamo dal principio. Lei è nata nell'ex Jugoslavia, ma possiamo definirla cittadina del mondo.<br />

Sono nata a Daruvar in Croazia, ma ho vissuto la mia infanzia a Belgrado. Negli anni precedenti alla guerra,<br />

desiderosa di apprendere, mi sono trasferita per studiare in Francia, a Lione dove ho conseguito il diploma<br />

all'Accademia delle Belle Arti. Sono poi tornata a Belgrado nel 1940, proprio poco prima che la città fosse<br />

barbaramente annientata dai bombardamenti nazisti Una domenica mattina - ricordo ancora perfettamente la data, il<br />

6 marzo del 1941 - fummo svegliati da un boato terribile. Istintivamente accesi la radio apprendendo dalla voce<br />

tremante dello speaker che i tedeschi stavano bombardando la nostra città. Sembrava impossibile perché non<br />

eravamo in guerra: e invece lo eravamo senza nemmeno saperlo. Non ebbi nemmeno il tempo di realizzare ciò che<br />

stava accadendo quando dalla finestra vidi un palazzo bruciare e crollare. Non potrò mai dimenticare il terrore che ci<br />

travolse quel giorno. Fummo costretti a fuggire nelle campagne. La città era già un cumulo di macerie: una folla<br />

tumultuosa riversa per le strade in preda al panico che cercava la via della salvezza. Belgrado fu rasa al suolo: in<br />

due ore oltre ottantamila morti. Dopo una settimana i tedeschi fecero il loro ingresso in città. Ogni giorno si vedevano<br />

morti abbandonati per le strade che erano ormai attraversate da fiumi di sangue. Sono quelli ricordi atroci che non<br />

abbandoneranno mai chi li ha vissuti. Mio padre Leopoldo, che era il rabbino capo a Belgrado, fu deportato e ucciso<br />

mentre io, mia mamma e mio fratello fummo costretti a fuggire.<br />

Copyright 2012 L'Indro (www.lindro.it) Page 2/6

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