Sul mio sguardo grava il cielo e mi sembra di provare, o forse spero ...

Sul mio sguardo grava il cielo
e mi sembra di provare,
o forse spero,
che della mia esistenza
si disperda nell’aria il sussurro,
che rimanga sopra a girare,
che,
anche dopo che me ne sarò
andato,
resti lassù, in alto, senza più
cadere.

(Che dare?
Se non parole
in punta d’ali
scosse dal vento
nel volo dei sogni?)
Solo ricco
delle tracce che scopro,
dell’odore di verde
che m’impegna
i pensieri,
del fluire
che percorre
la pelle
e la nutre,
io mi lascio
fiorire
e falciare
se puoi darmi
attenzione,
posso darti
l’amore.

Ti sento,
immerso nel bosco
il rumore
è fatto di luce e di ombre,
è un contrasto
che rimane in attesa
di un trillo, una nota
da cui risuonare,
aderire alla pelle
e nel sottofondo,
che appena rasenta
le foglie,
ti sento.
Tutt’attorno
il cielo si scioglie
dai rami
e comincia a seguirti,
a schivare il fitto
che stringe,
gli agguati del vento,
mi abbasso e rialzo,
scarto improvviso,
ad ogni senso
che avverto
io vivo.
Il bosco finisce
ed il suono si apre,
è un ronzare di api
più vasto dell’erba
che arruffa e nell’aria
s’affanna,
sei l’ebbrezza
che mi passa d’intorno,
che tira i capelli
e riempie i polmoni,
sei nel sole,
che cala
per venirmi vicino,
tanto grande
che se poggio
l’orecchio
ti sento.
L’orizzonte
trasuda di miele
al tramonto.

Il mondo che provo è carne insoddisfatta,
tesa allo spirito,
che trae piacere
dall’intensità dell’attenzione
verso ogni stimolo che mi aiuti a capire.

Seguivo il fiume nel tuo canto,
l’amore, lento di alghe,
fluiva, fluiva,
rincorreva la luna
sulle squame di un salto.
Ho chiuso gli occhi
mentre mi immergevi,
ho chiuso gli occhi
mentre, col palmo delle mani,
mi purificavi.

Che fortuna
scoprirsi
così pieno d’amore,
tanto bene
da bastare e avanzare
per te,
che dell’aria
scandisci il tormento,
che, coi gesti,
percuoti l’attesa
che provo
nel vento.
Che fortuna
potersi abbracciare,
contenere lo spazio
in un solo contatto
e lasciarsi posare,
stretti stretti,
fino al centro
del sole.

Osceno
è un desiderio
che si spieghi
nel possesso
del tuo,
del mio,
che neghi lo sguardo
al fango incrostato
in pieghe di baracche,
che sputano fame
e infanzia
nell’occhio di pozza
fisso
all’azzurro del cielo.
Errore,
orrore profondo.

Ora, del vento apprezzo il silenzio, lo spazio sgombro
che lascia la folata e, nel sottofondo che rimane
sulla pelle, sento premere le voci delle anime in pena,
di spiriti indistinti scomparsi nella solitudine d’angolo,
nell’accenno di un saluto.
Com’è facile fargli male, ferirli di sciocchezze,
accanirsi nei luoghi comuni della loro diversità
ma per loro è normale, sono abituati a sopportare,
la violenza non è che una consuetudine
che subiscono per farsi accettare.
Eppure è da questi piccoli soli che non emettono luce,
l’indifferenza, per convogliarli dentro,
che bruciano
al proprio interno,
che sento irradiarsi
forte la vita,
perché chi non
ha realtà può solo
sognare, perché
chi si sente negato
trae gioia dai
minimi eventi,
li pervade di sé
per sopravvivere.
Può sembrare
impossibile ma è
a loro che voglio
somigliare, voglio
il rifiuto su di me,
per essere debole, senza più pelle né carne,
un tentativo dall’equilibrio sensibile e delicato,
che come è sfiorato si ritrae, per poi,
piano piano, tornare a provare emozioni.
Come è facile farmi male, così facile che inquieta,
il mio silenzio è un pianto muto, il mio silenzio è l’attimo
che precede l’urlo, il mio silenzio è una reazione
dirompente che carica l’aria di elettricità,
che grava pesante; il tuono è già tutt’intorno
e rimbalza in ogni dove, e finalmente esce,
e finalmente è, esiste, è amore.

Uno di più,
ancora uno,
uno di più,
che si apre la pelle
per mostrarsi
selvaggio
e sceglie la vita
e il sudore
per correre forte,
fiato, tendini e ritmo,
il pulsare,
che arde la gola
e percuote la terra,
ancora un passo,
ancora uno,
uno di più.

Un’onda
ormai pigra
si posa
ai miei piedi,
si distende
a lambire
una vita
e la porta con sé,
come s’agita
e dispiega le pinne
nel cercare
il futuro,
ne protegge
il pulsare
e la voce,
che mi porto
alle labbra
per scandire
parole
e viaggi
e scoperte
e più oltre
l’amore.
Un’onda
è passata
e già ne arriva
un’altra,
io mi chino
a spiegargli
del mare
e gli parlo
di te.

Il mio essere diafano
rapito dalle correnti,
il mio essere
più denso dell’acqua
ed in essa sparso.
Io
che ho conosciuto
il fiorire del corallo,
io
che percepisco
il taglio nel profondo,
le linee di deriva spumeggianti,
io sento
il mio essere di vita,
che ha nutrito
e si è nutrito
di forme perfette,
deformarsi ai tuoi piedi,
morire.

Come acqua che scorre
è il viaggio
a cui mi abbandono
e lascio portare
e se prima ero il solo
ora non più.
E se prima era il fiume
adesso è il mare.

Ci sono luoghi nel mare
dove le correnti si perdono
ed il tempo passato
sta ancora avvenendo.
Acque in cui la bonaccia
è un colore più denso,
che arriva dal basso
e fa le barche leggere.
Sono luoghi di passione,
quando l’onda s’acquatta
e si lascia guardare,
così trasparente
da richiamare alla luce
un improvviso guizzare
di forme, un riflesso
che da sopra si spande.

Ogni cosa ha un suo verso,
tende ad una forma,
ad uno stato,
ha una natura d’equilibrio
che la rende semplice,
pura.
Così è l’animo
se libero.
Se ti siedi sul bordo
ed ascolti,
senza confronto, senza altro,
puoi sentire le montagne
alle spalle
formarsi
per poi rotolare,
puoi sentire la folla
gridare e scordare
in un unico fiato
ma l’acqua
davanti
ti mostra la strada
ed il tempo che resta
per provare ad essere tutto
e non rimanere che niente.

Noi non possiamo giustificare le nostre azioni prendendo
ad alibi la natura,
la violenza degli atti che regolano il rapporto tra predatori
e prede, perché ogni volta che il sangue ricaccia la sete,
ogni volta che l’immobilità si fa tremore, la vita sopravvive
alla fisicità degli istanti, la vita ringhia e scalcia per non
impoverirsi, evolve e si perpetua nella progenie.
Di questa crudezza, di questa molteplicità, di questo infinito
confronto che attinge al sacrificio individuale per garantire
l’esistenza, l’uomo non è parte. Con la sua intelligenza,
con la sua incredibile capacità di adattamento, l’uomo
si è affrancato dall’affanno e inconsciamente ha espanso
il tempo, ne ha fatto uno spazio per la mente, dove è
il pensiero non il corpo ad evolvere.
Il nostro futuro ha in sé una domanda interiore, che si chiede
se non ci possa essere la possibilità,
la speranza, di bandire del tutto
la violenza, se questo obiettivo non
si possa riversare su ogni singola
esistenza, sull’intimo rapporto che
abbiamo col creato.
Il desiderio mi nasce da dentro,
lo nutro con la percezione di esistere,
con la vita che ho attorno; mi chiedo
se non sia lo stesso per ogni essere,
se la continua interazione con l’ambiente non crei
al contempo e per tutti coscienza ed emozione.
Se è così, mi riempio di rispetto, se è così, quando un piccolo,
insignificante passero si posa sulla cima di un albero,
i miei occhi non lo seguono per caso, perché ciò che attrae,
nell’ondeggiare del ramo, è il piacere appagante che prova
nel trovarsi lassù, in alto, a spaziare sul mondo.
Se è così, non è solo l’istinto a regolare i comportamenti,
ma anche i sentimenti e tra tutti gli esseri è l’uomo il solo
che li sappia volutamente usare per crearne di nuovi.
Con le sue mani l’uomo sa riprodurre la bellezza, ha il privilegio
di poter creare un incanto immortale non regolato dai geni
ma dalla passione. Eppure è l’uomo l’unico essere malvagio,
l’unico che sappia elaborare pensieri distruttivi, ideologie
ai cui riti aderire, l’unico che si ammassi nella guerra.

Il bambino nel ghiaccio
è sospeso
in un vago torpore,
si tiene raccolto
ma continua
a tremare,
non resiste
al denso contatto
col vuoto.
È solo,
solo lui
se n’è accorto
quando il mondo
l’ha perso.
Il bambino nel ghiaccio
ha paura,
prova un peso
nella parte più fonda
del cuore,
come un crampo
che serra i pensieri,
una colpa
di cui sconta la pena.
Io ci penso,
so che c’è
e la notte
è un cristallo,
è un lenzuolo di gelo.
Io di notte gli parlo
con parole
di una lingua lontana
ma che sento
da dentro,
un legame
che abbraccia e riscalda,
che attraversa il destino
fino a farci toccare.