capitolo 4.pdf - Confindustria
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4. STRUTTURA PRODUTTIVA,<br />
MERCATO DEL LAVORO, FISCALITÀ<br />
4.1 Le classifiche internazionali sulle imprese: risultati<br />
e limiti metodologici<br />
Opportune classifiche di insiemi qualificati di imprese possono essere<br />
utili per la descrizione delle caratteristiche del sistema produttivo di cui<br />
tali imprese fanno parte. Queste classifiche, sulla base di determinati pa-<br />
rametri quantitativi o eventualmente qualitativi, riferiti ad un certo perio-<br />
do temporale e ad un determinato ambito geografico o settoriale, ordinano<br />
le prime «n» aziende nell’ambito dell’insieme considerato. Oltre all’ovvio risultato<br />
di individuare le principali aziende rispetto al parametro scelto, le<br />
classifiche offrono alcune informazioni utili nell’analisi delle dinamiche imprenditoriali<br />
a livello aggregato. In particolare, vi sono tre prospettive di<br />
valutazione che possono essere sviluppate.<br />
Il primo è il valore aggregato registrato relativamente al parametro di<br />
ordinazione dall’universo di imprese classificate. Se (come normalmente accade)<br />
questo universo è costituito dalle «n» maggiori imprese (con «n» sufficientemente<br />
grande), questo dato costituisce un indicatore del rilievo che<br />
le grandi società hanno nel sistema economico (geografico o settoriale) a cui<br />
è riferita la classifica.<br />
In secondo luogo, l’universo delle prime «n» imprese può essere scomposto<br />
in funzione del paese di appartenenza di tali imprese, individuato<br />
dalla nazionalità degli azionisti che ne detengono la maggioranza. Si ottiene<br />
così una nuova classifica che ordina i paesi sulla base della presenza<br />
delle loro imprese (o del peso che esse hanno rispetto al parametro di misurazione)<br />
nell’universo considerato, indicando il rilievo di tali paesi nella<br />
struttura economica internazionale costituita dai maggiori gruppi produttivi.<br />
Il reale contenuto informativo di questo indicatore va considerato in<br />
relazione al rilievo che la nazionalità degli azionisti di maggioranza ha in<br />
società che, come quelle normalmente considerate nelle classifiche, sono caratterizzate<br />
da livelli molto elevati di investimenti produttivi internazionali<br />
e da azionisti di riferimento normalmente appartenenti a più nazioni.<br />
In particolare, va considerato che i gruppi con elevato indice di transnazionalità<br />
1 hanno un legame con il proprio paese di appartenenza che tende<br />
ad essere soprattutto di natura finanziaria; che la parte prevalente del<br />
valore aggiunto, dei fattori di vantaggio competitivo e delle esternalità (positive<br />
o negative) sono prodotte in altre aree geografiche; che, nei modelli<br />
organizzativi internazionali più avanzati, anche la governance del gruppo<br />
L’utilità delle<br />
«classifiche»<br />
tra imprese per<br />
interpretare<br />
i fenomeni<br />
imprenditoriali<br />
1<br />
L’indice di transnazionalità è dato dalla media di tre rapporti: il rapporto tra il volume<br />
di affari realizzato all’estero sul totale del volume di affari; il rapporto tra gli investimenti<br />
esteri rispetto al totale degli investimenti esteri; il rapporto tra i dipendenti operanti all’estero<br />
sul totale dei dipendenti. Pur con alcuni limiti intrinseci, fornisce un’indicazione del grado<br />
di apertura internazionale dell’impresa.<br />
119
tende ad essere parzialmente «diffusa» al di fuori della corporate e quindi<br />
del paese dove risiedono gli azionisti di maggioranza.<br />
La terza prospettiva di analisi considera ancora i sottoinsiemi di imprese<br />
costruiti sulla base del paese degli azionisti di maggioranza e deriva<br />
dalla lettura sistematica di più classifiche, ottenute sulla base di diversi<br />
parametri di misurazione. L’analisi delle differenze della presenza dei vari<br />
aggregati nazionali nelle diverse classifiche mostra fattori di specificità della<br />
struttura dei principali gruppi di ciascun paese, evidenziandone aree di<br />
forza o di debolezza relativa.<br />
I limiti<br />
I dati rilevati nelle classifiche delle «prime ‘n’ imprese» offrono, dundi<br />
utilizzazione que, diversi motivi di interesse e di applicazione. L’informazione fornita da<br />
delle<br />
questi dati presenta, però tre importanti limiti intrinseci. In primo luogo,<br />
«classifiche» per sua natura, una classifica offre una fotografia statica del modo in cui<br />
tra imprese il fenomeno che essa rappresenta si manifesta in un determinato momento.<br />
Essa risente, quindi, dei fattori congiunturali che intervengono nel periodo<br />
di tempo in cui viene registrata. Naturalmente, questo limite ha un<br />
rilievo tanto minore quanto più il criterio di classificazione ha natura strutturale<br />
ed è quindi scarsamente influenzato da elementi contingenti; oppure,<br />
ha una dimensione assoluta notevole, e quindi, l’impatto di fenomeni<br />
temporanei anche significativi è proporzionalmente contenuto. Nel caso delle<br />
grandezze economiche e finanziarie registrate dalle aziende su base annua,<br />
l’impatto di fattori esterni congiunturali è notoriamente rilevante e,<br />
per quanto detto, limita la significatività dell’informazione fornita dalla<br />
classifica basata sui dati di un solo periodo.<br />
Il secondo limite intrinseco che incontra l’interpretazione di un fenomeno<br />
attraverso l’ordinazione degli elementi che lo costituiscono consiste<br />
nella circostanza che tale classificazione è fortemente influenzata dalle modalità<br />
di misurazione. Il problema della misurazione riguarda in primo luogo,<br />
l’affidabilità del metodo di rilevazione dei dati; in secondo luogo, la qualità<br />
intrinseca del dato misurato. Questi due problemi risultano praticamente<br />
determinanti nel caso di criteri di classificazione di natura qualitativa.<br />
Infine, nel caso (normalmente di maggiore interesse) che l’universo<br />
analizzato comprenda soggetti appartenenti a paesi diversi, si manifesta il<br />
problema della confrontabilità di dati che fanno riferimento a metriche differenti,<br />
ovvero, la necessità di individuare un meccanismo di conversione<br />
«neutrale».<br />
La terza difficoltà di fondo delle classifiche delle principali imprese consiste<br />
nella mancanza di una rilevazione «ufficiale», eseguita, in maniera<br />
analoga a quanto avviene per le principali grandezze macroeconomiche, da<br />
organismi pubblici internazionali, sulla base di metodologie codificate e universalmente<br />
riconosciute. Le classifiche disponibili sono realizzate da soggetti<br />
privati normalmente operanti nel settore dell’informazione e della ricerca,<br />
con lo scopo essenziale non tanto di fornire una pura informazione<br />
statistica, quanto di arricchire la propria offerta commerciale.<br />
Una tassonomia Le classifiche disponibili possono essere distinte in funzione del paradelle<br />
classifiche metro di misurazione e del metodo di rilevazione dei dati (fig. 4-1).<br />
internazionali Per quanto riguarda il primo aspetto, si considerano da un lato, le clasdelle<br />
imprese sifiche basate su valori quantitativi e, dall’altro, quelle che fanno invece riferimento<br />
a grandezze qualitative.<br />
I principali parametri normalmente utilizzati per le classifiche «quan-<br />
120
Fig. 4-1 — Tassonomia delle classifiche internazionali delle imprese<br />
Classifiche quantitative<br />
basate sulla rilevazione<br />
di dati di bilancio<br />
o di mercato<br />
Classifiche quantitative<br />
basate su elaborazioni<br />
dei dati di bilancio<br />
o di mercato<br />
Classifiche qualitative<br />
basate su indagini<br />
specifiche<br />
• fatturato<br />
• valore di mercato<br />
• utile netto<br />
• assets investiti<br />
• n.ro dipendenti<br />
• Roe, Eps.<br />
• Tasso di crescita delle<br />
Pmi<br />
• Marchi globali<br />
• Marchi di maggior<br />
valore<br />
• Imprese «meglio gestite»<br />
• Imprese «più ammirate»<br />
• Imprese «più rispettate»<br />
- Business Week<br />
- Financial Times<br />
- Forbes<br />
- Fortune<br />
- Industry Week<br />
- AC Nielsen<br />
- Business Week - Interbrand<br />
- Growth Plus<br />
- Financial Times<br />
- Fortune<br />
- Industry Week<br />
- Reputation Instit.<br />
titative» sono: fatturato; valore di mercato; utile netto; assets investiti; numero<br />
di dipendenti. La combinazione dei valori di questi parametri permette,<br />
inoltre di calcolare alcuni fondamentali indicatori come il Roe, l’Eps,<br />
l’utile su attività investite.<br />
Le classifiche «qualitative» sono meno numerose e riguardano essenzialmente<br />
il grado di reputazione delle imprese; misurano la percezione che<br />
un determinato campione di soggetti «esperti» ha delle singole compagnie<br />
che compongono un insieme opportunamente costruito, per quanto riguarda<br />
i vari profili che ne determinano la qualità complessiva (condizioni di<br />
lavoro, trasparenza, innovatività, responsabilità sociale, valore dell’offerta).<br />
Alcune significative classifiche di questo genere sono:<br />
— «World’s Most Respected Companies», pubblicata da Financial Times.<br />
Basata su interviste ad un ampio campione di dirigenti aziendali e<br />
«business leaders» di settanta paesi, questa classifica identifica le imprese<br />
che riscuotono il maggior rispetto nell’ambito del mondo economico, prendendo<br />
in considerazione non solo le imprese quotate, ma anche quelle statali,<br />
le grandi sussidiarie e le principali imprese non quotate.<br />
— «America (Global)’s Most Admired Companies», pubblicata da Fortune.<br />
Anche questa classifica è basata su interviste e individua le compagnie<br />
considerate «migliori» a livello generale e nel proprio settore, relativamente<br />
ai seguenti parametri: innovatività; qualità del management: talento<br />
della forza lavoro; equilibrio e trasparenza finanziaria, utilizzazione<br />
degli assets, investimenti di lungo termine, responsabilità sociale, qualità<br />
dei prodotti e servizi.<br />
— «The World’s100 Best Managed Companies», pubblicata da Industry<br />
Week. È costruita sulla base della valutazione di una commissione stabile<br />
121
122<br />
di esperti che considera attentamente una insieme di caratteristiche delle<br />
imprese candidate ad entrare nella classifica.<br />
— «Surveys of Corporate Reputation», realizzata dal Reputation Institute<br />
in collaborazione con una serie di partner nazionali. Misura la reputazione<br />
internazionale delle migliori imprese dei vari paesi sulla base di<br />
studi realizzati in maniera specifica nei singoli paesi.<br />
Il metodo di rilevazione dei dati è il secondo criterio di distinzione delle<br />
varie classifiche. Tale criterio individua le ordinazioni basate su dati «ufficiali»,<br />
cioè direttamente rilevati dal bilancio aziendale, dal caso in cui i<br />
dati sono ottenuti da elaborazioni dei valori aziendali effettuate o dall’impresa<br />
stessa, o dall’organo di rilevazione, sulla base di una propria metodologia<br />
di analisi. È evidente che questo secondo criterio di distinzione delle<br />
classifiche riguarda solo quelle che utilizzano parametri quantitativi;<br />
quelle di natura qualitativa, infatti, non possono che essere basate su metodi<br />
«soggettivi» di acquisizione dei dati.<br />
Alcune importanti classifiche quantitative del primo tipo sono pubblicate<br />
dalle seguenti riviste:<br />
— Financial Times. Considera i primi 500 gruppi per valore di mercato<br />
in Europa e nel mondo. Dei gruppi selezionali fornisce anche altri dati<br />
economici e finanziari<br />
— Business Week. Analoga alla classifica Financial Times, salvo per il<br />
fatto di considerare il solo universo mondiale costituito dalle prime 1000<br />
compagnie.<br />
— Fortune. Ordina le prime 500 società per fatturato. fornisce anche i<br />
dati di altre grandezze economiche (utile, asset investititi, numero di dipendenti,<br />
indici).<br />
— Industry Week. Classifica le prime 1000 imprese in termini di ricavi<br />
nell’ambito dell’universo delle sole manifatturiere quotate nel mondo. Per<br />
le imprese comprese nella classifica, la pubblicazione fornisce anche una<br />
serie di indicatori di bilancio.<br />
— Forbes. Ordina le prime 500 imprese internazionali per fatturato.<br />
Vi sono alcune classifiche quantitative basate sugli stessi parametri<br />
delle precedenti, ma riferite ad universi particolari:<br />
— «Technology Fast 500», realizzata da Deloitte & Touche; considera le<br />
imprese americane nei settori ad alta tecnologia che hanno registrato i più<br />
alti tassi di crescita del fatturato da un esercizio al successivo.<br />
— «The Information Technology 100», pubblicata da Business Week: ordina<br />
rispetto a diversi parametri (ricavi, tasso di crescita dei ricavi e Roe)<br />
le prime 100 imprese nel mondo operanti nel settore Ict.<br />
— «The 300 Best Small Companies (World e Europe)», pubblicata da<br />
Forbes; ordina per valore di mercato imprese quotate di dimensioni minori.<br />
Per quanto riguarda le classifiche basate su dati quantitativi, ma elaborati<br />
dalle imprese o dai soggetti che effettuano la rilevazione si segnalano:<br />
— «The Best Global Brands», pubblicata da Business Week in collaborazione<br />
con Interbrand. Individua i primi 100 marchi nel mondo per valore<br />
economico, sulla base di una particolare metodologia di determinazione<br />
di tale valore.<br />
— «Global Brand Report», realizzata da AC Nielsen. Elenca i marchi<br />
che, in termini di composizione geografica del fatturato che generano, possono<br />
essere considerati «globali».
— «500 Fastest Growing Companies in Europe», realizzata da «Growth-<br />
Plus». Elenca le 500 imprese europee di piccole e medie dimensioni con<br />
maggior tasso di crescita dei ricavi e degli occupati in diversi intervalli temporali.<br />
In linea generale, le classifiche disponibili (sia qualitative che quantitative)<br />
fanno riferimento a tutto l’universo delle società quotate nel mondo<br />
(o in maniera distinta in Europa e negli Stati Uniti), ordinando le prime<br />
«n» rispetto ai parametri sopra indicati; in linea generale, «n» è pari a 500<br />
o, in alcuni casi a 1000. Normalmente, le classifiche sono pubblicate annualmente,<br />
facendo riferimento ai dati aziendali dell’esercizio precedente<br />
I limiti<br />
Le classifiche che ordinano le imprese in funzione di criteri qualitatiintrinseci<br />
delle vi (la reputazione, il grado di ammirazione degli stakeholders, ecc.) sono<br />
classifiche normalmente costruite attraverso indagini su un campione di dirigenti<br />
di natura aziendali, professionals, analisti e consulenti, realizzate da società specia-<br />
«qualitativa» lizzate per conto della rivista che le pubblica. Esse si propongono un obiettivo<br />
conoscitivo tanto ambizioso quanto complesso da realizzare. Una ricerca<br />
di questo genere, infatti, anche ipotizzando che sia condotta secondo<br />
corretti criteri di rilevazione statistica, risente inevitabilmente della limitatezza<br />
delle informazioni di cui dispongono i soggetti intervistati relativamente<br />
alle caratteristiche di tutte le aziende appartenenti all’universo in<br />
cui dovrebbero scegliere quelle qualitativamente migliori. Da questa condizione<br />
derivano diverse distorsioni; in primo luogo, l’opinione espressa è tendenzialmente<br />
il frutto di un’immagine percepita, di un’idea piuttosto generica<br />
e facilmente influenzata anche dalle tendenze o addirittura dalle «mode»<br />
del momento. In secondo luogo, la probabilità di entrare in classifica è<br />
direttamente correlata alla semplice notorietà dell’impresa, all’intensità della<br />
sua comunicazione esterna e al rilievo della sua presenza sul mercato.<br />
Infine, il limite di informazione disponibile ai soggetti intervistati riduce<br />
notevolmente la valenza di un sistema di analisi anche sofisticato dei fattori<br />
attraverso cui ordinare le singole imprese.<br />
Una conferma molto evidente di questi limiti è offerta proprio da quella<br />
che per ampiezza del campione intervistato è certamente una delle principali<br />
classifiche «qualitative» attualmente disponibili, che ordina le «America’s<br />
most admired companies». Nella classifica del febbraio 2000, il primo<br />
posto assoluto per quanto riguarda il «grado di innovatività» e quello<br />
relativo alla «qualità del management» era occupato da Enron; questa azienda,<br />
inoltre, risultava collocata al primo posto anche nella classifica generale<br />
relativa al suo settore.<br />
Le classifiche basate sui dati di bilancio e di mercato sono per loro na-<br />
tura più oggettive e affidabili. Ordinano soltanto le imprese quotate, sulla<br />
base dei dati ufficiali di bilancio o del prezzo di riferimento del titolo in<br />
borsa. La rilevazione di questi dati è affidata a soggetti esterni specializ-<br />
zati e normalmente distinti per macro-area geografica 2 . In considerazione<br />
del livello di diffusione, si ritiene opportuno approfondire l’analisi delle clas-<br />
Caratteristiche<br />
e limiti di tre<br />
principali<br />
classifiche<br />
di natura<br />
«quantitativa»<br />
2<br />
La classifica delle principali imprese del mondo per capitalizzazione pubblicata dal Financial<br />
Times utilizza fonti differenziate per area geografica. In particolare: Europa, Asia-Pacifico:<br />
Thomson Financial e Worldscope via Factset; America latina: Economatica; Europa<br />
orientale: Skate; Usa e Canada: Standard&Poor’s Compustat Service; Giappone: Tokio Keizai;<br />
Medio oriente: Bakheet Financial Advisors. La classifica di Business Week è basata su dati ed<br />
elaborazione fornite dalla Morgan Stanley Capital International. Fortune utilizza una serie di<br />
consulenti esterni, anch’essi specializzati per area geografica.<br />
123
sifiche redatte dalle seguenti tre importanti pubblicazioni economiche internazionali:<br />
Business Week (Bw), Financial Times (Ft) e Fortune (Fo). Si<br />
ricorda che la prima ordina le prime 1000 società per valore di mercato, la<br />
seconda le prime 500 rispetto allo stesso parametro e la terza, ancora le<br />
prime 500 ma rispetto al volume di affari.<br />
Queste tre classifiche mostrano diversi aspetti che le accomunano e ne<br />
caratterizzano il contenuto informativo; i principali tra questi aspetti comuni<br />
sono:<br />
— Le classifiche sono riferite all’universo costituito da imprese in tutte<br />
le possibili configurazioni societarie (singole società; gruppi; gruppi internazionali,<br />
gruppi conglomerati, holding finanziarie), e appartenenti a tutti<br />
i settori produttivi (industria, servizi, distribuzione, finanza, assicurazioni<br />
3 ).<br />
— Nel caso dei gruppi, sono considerati (quando disponibili), i valori<br />
consolidati. Tuttavia, non sono uniformati i criteri di consolidamento e le<br />
modalità di valutazione dei fenomeni intragruppo 4 .<br />
— I valori di bilancio dei parametri di classificazione sono sempre<br />
espressi in dollari; il tasso di cambio del dollaro con le altre valute nazionali<br />
è fissato arbitrariamente al valore di una certa data o di un certo periodo<br />
di tempo 5 .<br />
— Non sono effettuate operazioni sui dati economici e finanziari forniti<br />
dalle imprese per tenere conto delle differenze a livello nazionale delle<br />
regole e della pratica contabile e di bilancio.<br />
— Nelle classifiche basate sul valore di mercato (Ft e Bw), tale valore<br />
è calcolato sulla base del prezzo dell’azione registrato in un giorno determinato.<br />
In particolare, Ft moltiplica tale prezzo per il numero di azioni<br />
emesse (ma esclude dalla classifica le imprese con basso flottante 6 ); Bw,<br />
considera il numero totale di azioni (di tutte le tipologie) trattate sul mercato.<br />
Questi aspetti sottolineano, dunque, alcuni caratteri rilevanti di queste<br />
classifiche. In primo luogo, c’è la evidente (ma, del resto, difficilmente<br />
evitabile) distorsione causata dall’espressione di tutti i dati in un’unica moneta<br />
di conto (il dollaro): in particolare, i dati della classifica relativa al<br />
2000 7 risentono inevitabilmente della forza che la valuta americana ha avuto<br />
nel corso di quell’anno rispetto alle monete europee 8 e asiatiche. Inoltre,<br />
la posizione delle imprese nelle classifiche riferite al valore di mercato è<br />
decisamente influenzata da elementi estranei al reale valore economico dell’impresa:<br />
l’andamento generale della borsa in cui il titolo di tale impresa<br />
è quotato; fattori congiunturali di mercato che riguardano il titolo o anche<br />
il solo settore di appartenenza; la qualità della politica di portafoglio della<br />
3<br />
La classifica di Fortune è basata sul fatturato. Per le banche commerciali e le altre<br />
istituzioni finanziarie, il fatturato è determinato come somma delle entrate da interessi attivi<br />
e dei ricavi da servizi. Per le società di assicurazione, è prodotto dalla somma dei premi,<br />
dei ricavi da investimenti e degli utili/perdite da capitale, escludendo i depositi.<br />
4<br />
Ft considera il valore delle vendite sempre al netto di quelle intragruppo.<br />
5<br />
La classifica di Fo considera il valore medio del tasso di cambio del dollaro con la valuta<br />
di conto dell’impresa non statunitense durante l’anno fiscale di riferimento dei dati. Ft<br />
considera il valore medio del tasso di cambio nel mese di dicembre dell’esercizio a cui sono riferiti<br />
i valori utilizzati per la classifica. Bw utilizza il tasso dell’ultimo giorno utile di maggio<br />
dell’esercizio a cui è riferita la classifica.<br />
6<br />
In particolare, sono escluse le imprese in cui più dell’85% del capitale non è scambiato<br />
sul mercato.<br />
7<br />
L’ultima disponibile al momento della redazione di questo contributo.<br />
8<br />
Tra i paesi europei, un’ulteriore elemento di «distorsione valutaria» è costituito dal migliore<br />
andamento sul dollaro della sterlina inglese rispetto alle altre valute europee.<br />
124
corporate a beneficio della propria quotazione e di quella delle società controllate<br />
quotate.<br />
Il fatto di considerare tutte le configurazioni societarie in tutti i settori<br />
implica che queste classifiche mettano a confronto realtà in alcuni casi<br />
troppo disomogenee e finiscano per dare un’informazione poco significativa.<br />
Ad esempio nell’ordinazione in funzione del fatturato, il Giappone è al<br />
secondo posto per numero di imprese comprese tra le prime 500, con un<br />
fatturato complessivo pari al 21% del totale (contro il 39% degli Stati Uniti<br />
al primo posto e l’8% della Germania al terzo. Questa posizione di forza<br />
è facilmente spiegata dalla circostanza che un buon numero dei principali<br />
gruppi giapponesi (in particolare di quelli nei primi posti della classifica)<br />
sono trading companies che per loro natura realizzano elevati volumi di<br />
vendita 9 .<br />
Questo limite è, tuttavia, superato dal fatto che la classifica generale<br />
può essere facilmente scomposta in funzione dei settori di appartenenza<br />
delle imprese. In effetti, Fo oltre alla classifica di tutte le imprese, pubblica<br />
quelle per singola industria (distinguendo anche il comparto bancario,<br />
assicurativo e dei servizi finanziari).<br />
Il fatto che le classifiche comprendano tutti i tipi di gruppi aziendali<br />
pone un ulteriore limite al loro significato per quanto riguarda la comparazione<br />
delle diverse imprese. Questo limite non deriva solo dalla estrema<br />
eterogeneità degli «oggetti» che vengono comparati e classificati; è causato<br />
soprattutto dalle incertezze e dalla differenze metodologiche nella rilevazione<br />
del dato aggregato a livello di gruppo, sia esso riferito al valore di<br />
mercato, al fatturato, a profitto o ad altri parametri di valutazione.<br />
Infine, occorre osservare che per quanto sia costituito dai gruppi di maggiore<br />
dimensione, l’universo dei «primi 500» o dai «primi 1000» offre una<br />
rappresentazione molto parziale della struttura produttiva mondiale, anche<br />
di quella costituita dalle sole grandi società internazionali. A riguardo, si ricorda<br />
che l’ultimo gruppo considerato nella classifica Fo ha un fatturato di<br />
10,3 miliardi di dollari; mentre l’ultimo gruppo nella classifica Bw (estesa<br />
alle prime 1000) ha un valore di mercato di 4,21 miliardi di dollari.<br />
Nel loro insieme, questi limiti riducono in modo significativo l’utilizzabilità<br />
dei dati che emergono dalle classifiche come indicatori del grado di<br />
competitività delle varie imprese e dei sistemi economici cui appartengono;<br />
tuttavia non compromettono l’informazione circa il rilievo che queste hanno<br />
come fenomeno economico e produttivo nello scenario internazionale complessivo<br />
o di determinate industrie. I limiti osservati inducono, quindi, ad<br />
utilizzare le classifiche nella giusta prospettiva, senza voler trarre da esse<br />
informazioni che non possono (e probabilmente non vogliono) offrire.<br />
L’analisi<br />
Quest’ultima considerazione induce a ritenere che i risultati delle clascomparativa<br />
sifiche in esame (Bw, Ft e Fo) possano fornire un’informazione comunque<br />
dei risultati interessante circa la struttura produttiva internazionale, se considerati a<br />
delle classifiche livello di insiemi nazionali o «continentali» di imprese. Si è quindi procein<br />
chiave duto ad aggregare le aziende comprese in ciascuna delle tre classifiche in<br />
di aggregati relazione al paese di appartenenza e al continente. Questa operazione ha<br />
nazionali consentito da un lato di confrontare i risultati «macro» emergenti dalle tre<br />
e continentali classifiche e, dall’altro, di descrivere le performance rispetto a diversi pa-<br />
9<br />
Non è un caso che il peso delle imprese giapponesi rispetto ad altri parametri risulta<br />
molto inferiore: è solo il 6,5% del totale per quanto riguarda i profitti e l’11,3% per quanto<br />
concerne il numero di dipendenti.<br />
125
ametri dei principali sistemi economici mondiali, almeno per quanto riguarda<br />
la loro componente costituita dai gruppi di maggiori dimensioni.<br />
La comparazione Tutte le tre classifiche in esame ordinano le prime 500 compagnie nel<br />
tra i risultati mondo; Bw 10 e Ft, rispetto al valore di mercato; Fo in relazione al fatturaaggregati<br />
delle to. Al fine di confrontare i risultati ottenuti, le società e i relativi valori<br />
tre classifiche dei parametri di misurazione sono state raggruppate in tre insiemi, corrispondenti<br />
alle quattro macro-aree di possibile appartenenza: Europa, Stati<br />
Uniti, Giappone e «Resto del mondo». Con riferimento ai valori delle classifiche<br />
pubblicate nel 2001 e riferite ai risultati dell’esercizio 2000, è stato<br />
calcolato il peso percentuale di ciascuna macro-area per quanto riguarda il<br />
numero di imprese comprese in classifica e il valore totale del parametro<br />
di misurazione (tab. 4-1, 4-2).<br />
Si osserva che le classifiche Bw e Ft (che, ricordiamo, utilizzano lo stesso<br />
parametro di ordinazione) offrono risultati molto simili per quanto riguarda<br />
la presenza delle quattro macroaree geografiche misurata sia in termini<br />
di numero di società comprese tra le prime 500, sia in termini di valore<br />
di mercato totale di tali società. La comparabilità delle due classifiche<br />
è confermata da due ulteriori evidenze: in primo luogo, il valore di mercato<br />
totale delle prime 500 società mostra una differenza piuttosto contenuta<br />
(+8% per Ft): 19,41 milioni di milioni di dollari nel caso di Ft e 17,8 milioni<br />
di milioni di dollari nel caso di Bw.<br />
In secondo luogo, l’analisi delle prime 25 società rilevate nelle due classifiche<br />
mostra che 22 di queste (88%) rientrano in entrambi gli insiemi 11 ,<br />
e 8 società occupano addirittura la stessa posizione in entrambe le classifiche.<br />
Il totale degli scostamenti netti tra i valori registrati dalle 22 società<br />
che appartengono ad entrambi gli insiemi è pari al 4,2% del valore di mercato<br />
complessivo realizzato da tale insieme. In definitiva, nonostante uti-<br />
Tab. 4-1 — Numerosità delle imprese inserite nelle classifiche<br />
(Valori %)<br />
Europa Stati Uniti Giappone Resto del mondo<br />
Business Week 500 31 50 13 6<br />
Financial Time 500 31 48 12,8 8,2<br />
Fortune 500 31,2 37 20,8 11<br />
Tab. 4-2 — Peso rispetto al valore di mercato (Ft e Bw) e al fatturato (Fortune) delle imprese<br />
inserite nelle classifiche<br />
(Valori %)<br />
Europa Stati Uniti Giappone Resto del mondo<br />
Business Week 500 29,2 58 9,7 3,1<br />
Financial Time 500 29,5 56 9 5,5<br />
Fortune 500 32,2 39 20,8 8<br />
10<br />
La classifica di Bw è estesa alle prime 1000 società.<br />
11<br />
Si osserva che in due casi, Royal Dutch Shell e AOL Time Warner, l’assenza dei gruppi<br />
in entrambe le classifiche è dovuta al fatto che in un caso e non nell’altro sono stati considerati<br />
i valori di mercato dell’intero gruppo dopo la fusione.<br />
126
lizzino diversi tassi di cambio del dollaro con le altre valute e calcolino il<br />
prezzo del titolo in giornate diverse, le due classifiche offrono, a livello di<br />
grandi aggregati indicazioni fortemente allineate.<br />
I risultati che emergono dalla classifica di Fo costruita sulla base del<br />
fatturato, mostrano una situazione per alcuni aspetti profondamente diversa.<br />
Il peso dell’Europa non presenta differenze rilevanti: la numerosità<br />
delle imprese comprese è la stessa e il peso che i gruppi europei hanno in<br />
termini di fatturato è superiore di circa 3 punti percentuali rispetto al peso<br />
che esse hanno in termini di valore di mercato.<br />
Differenze molto significative si osservano, invece per quanto riguarda<br />
gli Stati Uniti, il Giappone e, proporzionalmente, il «Resto del mondo».<br />
La presenza delle società americane è preponderante sia in termini di fatturato<br />
che di valore di mercato; tuttavia, è nettamente superiore se valutata<br />
rispetto a questo secondo parametro. Le classifiche Ft e Bw indicano<br />
che l’aggregato delle imprese americane copre in media il 57% del valore<br />
di mercato totale e «solo» il 39% del fatturato totale.<br />
Con intensità analoga, si rileva una situazione contraria per le imprese<br />
giapponesi che realizzano quasi il 21% del fatturato totale ma rappresentano<br />
circa il 9% del valore di mercato complessivo. Anche le imprese del<br />
«resto del mondo» registrano un rilievo proporzionalmente molto superiore<br />
nella classifica ordinata per volume delle vendite: 8% contro poco più del<br />
4% nel caso del valore di mercato.<br />
La differenza tra gli aggregati determinati utilizzando valore di mercato<br />
e fatturato risulta significativa anche nell’insieme delle prime 25 compagnie.<br />
Solo 7 12 delle prime 25 per fatturato appartengono anche alle prime<br />
25 per valore di mercato (nella classifica Ft 13 ). Tuttavia, nelle prime sei<br />
per valore di mercato, ve ne sono tre (Exxon Mobil e Wal Mart) che sono<br />
tra le prime sei anche in ordine al fatturato.<br />
Le tendenze<br />
Le società comprese nelle tre classifiche possono essere raggruppate<br />
generali in funzione del paese di appartenenza; si ottiene così un dato della presenemergenti<br />
za dei vari Paesi nel sistema delle principali società del mondo (tab. 4-3,<br />
dai risultati 4-4, 4-5). L’analisi dei risultati che si ottengono offre alcune indicazioni di<br />
aggregati a<br />
livello di paese<br />
fondo abbastanza consolidate, che devono però essere valutate alla luce del-<br />
le considerazioni svolte in precedenza circa l’esatta rilevanza del «paese di<br />
origine» nell’economia di gruppi che hanno rilevanti quote di valore aggiunto<br />
e di investimenti al di fuori di tale paese. Si individuano comunque<br />
le seguenti tendenze generali.<br />
a) Il dominio delle imprese americane relativamente a valore di mercato,<br />
profittabilità e fatturato. Nella classifica Bw, le imprese americane rappresentano<br />
numericamente il 48,5% del totale delle prime 1000 e addirittura<br />
il 56% del valore di mercato totale; valori del tutto analoghi risultano<br />
dalla classifica delle prime 500 compagnie di Ft. La preponderanza dei<br />
gruppi di matrice statunitense appare ancora più pronunciata se si considerano<br />
gli insiemi dei gruppi maggiori nell’ambito di quelli complessivamente<br />
considerati: nel gruppo delle prime 25 di Ft, 17 sono statunitensi<br />
con un valore di mercato complessivo pari ad oltre il 77% del totale.<br />
Il dominio delle imprese americane risulta anche nella classifica relativa<br />
al grado di profittabilità. Sia nell’analisi Ft, che in quella Bw, l’insie-<br />
12<br />
Si tratta (in ordine di fatturato) di: Exxon Mobil; Wal-Mart Stores; Royal Dutch/Shell;<br />
BP; General Electric; Toyota Motors e Ibm.<br />
13<br />
Nella classifica Business Week, sono addirittura solo sei, poiché in questa classifica<br />
Royal Dutch è considerata separata da Shell.<br />
127
Tab. 4-3 — Distribuzione per paese di origine delle prime mille compagnie per valore di mercato<br />
(Valori in milioni di dollari)<br />
N. % %<br />
imprese Valore Valore<br />
Fat-<br />
Fatturato<br />
in di mercato mercato<br />
turato<br />
totale<br />
clas- totale sul sul<br />
sifica totale totale<br />
% %<br />
Profitti Profitti Asset Assets<br />
totali sul totali sul<br />
totale<br />
totale<br />
1 Usa 485 11.797.086 56,38 5.352.065 47,1 435.790 51,61 16.785.286 38,03<br />
2 Giappone 139 2.217.642 10,60 2.188.598 19,25 55.532 6,58 6.399.360 14,50<br />
3 Regno Unito 90 1.875.938 8,97 920.498 8,10 93.007 11,01 4.586.527 10,39<br />
4 Francia 49 1.024.367 4,90 711.482 6,26 39.148 4,64 2.542.512 5,76<br />
5 Germania 38 810.039 3,87 827.692 7,28 43.257 5,12 3.652.676 8,28<br />
6 Canada 36 382.801 1,83 190.572 1,68 16.207 1,92 1.310.620 2,97<br />
7 Italia 28 464.618 2,22 237.691 2,09 21.808 2,58 1.418.200 3,21<br />
8 Svizzera 20 563.751 2,69 199.342 1,75 28.514 3,38 1.787.674 4,05<br />
9 Olanda 19 473.209 2,26 338.666 2,98 38.507 4,56 1.921.497 4,35<br />
10 Svezia 17 182.713 0,87 83.555 0,74 10.287 1,22 623.660 1,41<br />
11 Australia 16 224.262 1,07 61.266 0,54 11.608 1,37 626.274 1,42<br />
12 Hong Kong 16 203.371 0,97 30.856 0,27 14.052 1,66 275.126 0,62<br />
13 Spagna 12 269.638 1,29 98.317 0,86 11.278 1,34 700.388 1,59<br />
14 Belgio 10 92.731 0,44 31.884 0,28 7.791 0,92 935.874 2,12<br />
15 Danimarca 7 64.004 0,31 8.869 0,08 2.002 0,24 168.832 0,38<br />
16 Finlandia 5 165.567 0,79 48.165 0,42 7.650 0,91 82.128 0,19<br />
17 Singapore 5 47.875 0,23 8.225 0,07 3.703 0,44 150.716 0,34<br />
18 Grecia 3 19.738 0,09 2.753 0,02 1.342 0,16 67.016 0,15<br />
19 Portogallo 3 26.300 0,13 6.195 0,05 1.322 0,16 74.049 0,17<br />
20 Norvegia 2 18.993 0,09 20.655 0,18 1.608 0,19 30.804 0,07<br />
Totali 1.000 20.924.643 100,0 11.367.346 100,0 844.413 100,0 44.139.219 100,0<br />
Fonte: Elaborazioni su dati Business Week, 2001.<br />
me di tali aziende realizza il 51% dei profitti; in quella di Fo, il 49% dei<br />
profitti. Come già osservato, meno accentuato è il primato rispetto al volume<br />
di affari.<br />
b) il valore di mercato delle imprese europee è fortemente concentrato<br />
in cinque paesi, tra i quali predomina nettamente il Regno Unito. Il 78%<br />
del valore di mercato totale delle imprese europee comprese nella classifica<br />
Ft è costituito da gruppi originari di cinque paesi: Regno Unito 14 , Francia,<br />
Germania, Italia e Svizzera. Il peso dei gruppi del Regno Unito è nettamente<br />
superiore a quello delle altre nazioni, poiché, da solo rappresenta<br />
il 33% del totale europeo in termini di fatturato e il 30% per quanto riguarda<br />
i profitti.<br />
Rispetto al fatturato, il sistema dei maggiori gruppi europei risulta<br />
ancora più concentrato. 106 dei 156 gruppi compresi nella classifica Fo<br />
14<br />
Tra le imprese di matrice inglese, ve ne sono 3 di proprietà anglo-olandese.<br />
128
Tab. 4-4 — Distribuzione per paese di appartenenza delle prime 500 imprese nel mondo per<br />
valore di mercato<br />
(Valori in milioni di dollari)<br />
Numero Market Capital Profitti Assets Dipendenti<br />
Usa 239 10.866.355,3 366.496,3 3.280.157,4 12.073.568<br />
Giappone 64 1.785.838,0 25.286,8 1.486.709,3 3.644.960<br />
Regno Unito 40 1.637.036,0 65.567,2 791.751,8 1.502.176<br />
Francia 28 960.826,6 36.898,0 164.518,0 690.591<br />
Germania 21 739.044,3 45.738,6 404.392,7 2.011.086<br />
Italia 15 426.037,4 12.387,6 112.992,0 357.343<br />
Canada 11 282.641,8 9.269,8 132.734,2 437.891<br />
Svizzera 11 584.566,4 29.093,6 134.665,2 603.133<br />
Olanda 10 305.655,6 28.497,8 78.249,0 406.602<br />
Australia 8 167.763,4 9.773,8 94.882,2 177.225<br />
Svezia 7 180.779,6 7.164,3 31.336,5 113.704<br />
Hong Kong 7 271.713,7 16.340,9 101.459,8 37.468<br />
Spagna 6 220.744,8 10.974,8 40.471,2 37.387<br />
Corea del Sud 4 74.412,2 4.365,2 86.861,8 n.d.<br />
Belgio 4 51.138,6 1.953,2 8.349,6 34.203<br />
Regno Unito/Olanda 3 282.949,9 13.767,7 126.039,2 418.900<br />
Brasile 3 50.099,4 6.915,8 35.621,5 n.d.<br />
Singapore 3 48.867,1 2.943,9 19.751,0 27.513<br />
Finlandia 2 211.644,0 4.927,7 19.422,8 58.708<br />
Irlanda 2 24.777,5 350,0 7.713,1 31.648<br />
Taiwan 2 47.573,6 1.060,4 9.152,5 10.912<br />
Danimarca 2 24.639,0 946,6 2.305,5 12.698<br />
Messico 1 40.619,1 2.765,4 13.777,0 n.d.<br />
Norvegia 1 11.050,2 1.551,4 8.061,9 n.d.<br />
Regno Unito/Australia 1 25.992,8 1.461,3 16.946,7 34.399<br />
Belgio/Olanda 1 39.368,1 2.505,1 13.755,4 62.881<br />
India 1 13.011,7 53,1 177,5 n.d.<br />
Portogallo 1 10.466,5 457,6 1.647,8 n.d.<br />
Sud Africa 1 11.023,8 554,8 7.897,6 n.d.<br />
Arabia 1 15.002,8 967,9 20.305,9 n.d.<br />
Totali 500 19.411.639,1 711.036,5 7.252.106,0 22.784.996<br />
Fonte: Elaborazioni su dati Financial Times, 2001.<br />
sono originari di tre paesi, Francia, Germania e Regno Unito. Da soli, essi<br />
rappresentano poco meno del 72% del fatturato totale delle imprese europee<br />
comprese nell’universo considerato. Se si considerano le imprese anche<br />
di Svizzera e Olanda, il fatturato complessivo arriva all’85% del totale.<br />
c) La discreta posizione dell’Italia in termini di valore di mercato non<br />
trova corrispondenza nel livello di profittabilità e di fatturato. Nella classi-<br />
129
Tab. 4-5 — La distribuzione per paese di appartenenza delle prime 500 imprese nel mondo<br />
per fatturato<br />
(Valori in milioni di dollari)<br />
% % % %<br />
Numero Ricavi sul Profitti sul Assets sul Dipendenti sul<br />
totale totale totale totale<br />
Usa 185 5.503.906,8 39,13 324.719 48,67 14.519.961 31,70 18.113.885 38,36<br />
Giappone 104 2.934.457,3 20,86 43.875,4 6,58 7.334.754 16,01 5.348.011 11,32<br />
Francia 37 1.006.623,4 7,16 41.202,6 6,18 3.560.559 7,77 4.502.529 9,53<br />
Germania 34 1.176.002,0 8,36 53.007,3 7,94 5.474.807 11,95 3.799.882 8,05<br />
Regno Unito 33 839.625,6 5,97 34.163,0 5,12 3.522.620 7,69 2.344.869 4,97<br />
Canada 15 221.887,1 1,58 9.633,2 1,44 1.671.731 3,65 1.032.625 2,19<br />
Cina 12 272.195,4 1,94 13.587,9 2,04 1.862.452 4,07 6.085.002 12,8<br />
Corea del Sud 11 278.921,5 1,98 9.383,5 1,41 237.057 0,52 331.192 0,70<br />
Svizzera 11 314.642,7 2,24 26.916,4 4,03 1.869.068 4,08 875.675 1,85<br />
Olanda 9 289.566,9 2,06 26.988,4 4,04 1.832.167 4,00 901.769 1,91<br />
Italia 8 253.140,0 1,80 11.280,6 1,69 1.004.680 2,19 770.696 1,63<br />
Australia 7 100.629,1 0,72 7.563,0 1,13 367.365 0,80 482.587 1,02<br />
Spagna 6 148.076,3 1,05 10.334,7 1,55 795.442 1,74 459.434 0,97<br />
Svezia 5 84.725,0 0,60 4.240,7 0,64 127.706 0,28 317.056 0,67<br />
Belgio 3 49.802,7 0,35 2.340,2 0,35 456.106 1,00 207.930 0,44<br />
Brasile 3 53.789,3 0,38 6.825,2 1,02 158.826 0,35 182.913 0,39<br />
Finlandia 2 40.102,4 0,29 4.965,6 0,74 38.692 0,08 102.074 0,22<br />
Messico 2 55.245,5 0,39 –1.457,1 0,22 86.276 0,19 210.464 0,45<br />
Norvegia 2 41.464,5 0,29 2.878,1 0,43 43.247 0,09 54.364 0,12<br />
Regno Unito/Olanda 2 193.119,6 1,37 13.740,2 2,0 176.613 0,39 351.000 0,74<br />
Russia 2 32.105,4 0,23 5.582,1 0,84 61.027 0,13 426.300 0,90<br />
Belgio/Olanda 1 43.830,9 0,31 2.557,7 0,38 411.289,6 0,90 62.881 0,13<br />
India 1 22.284,6 0,16 595,9 0,09 10.256 0,02 32.775 0,07<br />
Lussemburgo 1 12.228,6 0,09 410,0 0,06 14.299 0,03 48.940 0,10<br />
Malesia 1 19.303,1 0,14 4.339,0 0,65 36.590 0,08 23.450 0,05<br />
Singapore 1 12.109,7 0,09 –446,0 –0,07 7.582 0,02 70.000 0,15<br />
Sud Africa 1 11.495,2 0,08 767,3 0,12 69.351 0,15 41.466 0,09<br />
Venezuela 1 53.680,0 0,38 7.216,0 1,08 57.098,0 0,12 45.520 0,10<br />
Totali 500 14.064.960,6 100,0 667.210 100,0 45.807.623,6 100,0 47.225.289 100,0<br />
Fonte: Elaborazioni su dati Fortune 2001.<br />
fica Bw, sono compresi 28 gruppi italiani (quindici operanti nei settori industriali<br />
o dei servizi e 13 di natura bancaria-assicurativa) (tab. 4-6).<br />
Tre sono compresi nei primi cento e dodici nei primi cinquecento; nel<br />
complesso, quindi, la parte prevalente del campione è compresa nella seconda<br />
metà della classifica. A livello mondiale, la posizione delle società italiane<br />
è, dunque, relativamente più debole di quella che emerge considerando<br />
solo l’universo europeo. Relativamente ai profitti, i gruppi italiani registrano<br />
una performance decisamente peggiore anche rispetto a quelli eu-<br />
130
Tab. 4-6 — Le imprese italiane comprese nella classifica Business Week<br />
Posizione<br />
in classifica<br />
Società<br />
Valore di Mercato<br />
67 Telecom Italia 61.357<br />
84 Eni 51.440<br />
86 Tim 49.690<br />
127 Enel 38.594<br />
138 Assicurazioni Generali 35.515<br />
205 Intesa-Bci 23.440<br />
211 Unicredito Italiano 22.223<br />
247 San Paolo-Imi 18.959<br />
358 Olivetti 13.375<br />
396 Seat Pagine Gialle 12.115<br />
430 Mediaset 11.116<br />
435 Fiat Group 10.884<br />
501 Banca Fideuram 9.553<br />
537 Ras 8.926<br />
546 Banca Monte dei Paschi di Siena 8.734<br />
574 Alleanza Assicurazioni 8.338<br />
585 Finmeccanica 8.211<br />
606 Mediolanum 7.834<br />
618 Rolo Banca 1473 7.725<br />
656 Bipop-Carire 7.247<br />
657 Concessione e Costruzione Autostrade 7.233<br />
670 Mediobanca 7.072<br />
685 Banca Nazionale del Lavoro 6.888<br />
690 Luxottica Group 6.857<br />
769 Pirelli 5.942<br />
782 Edison 5.830<br />
880 Banca di Roma 5.112<br />
971 Montedison 4.409<br />
Fonte: Business Week (2001), valori in milioni di dollari.<br />
ropei. Il profitto medio dei 46 gruppi inseriti nella classifica dei primi 500<br />
gruppi europei (Ft) è di 376 milioni di dollari, rispetto ai 1.579 di quelle<br />
olandesi, 1.096 di quelle svizzere, 866 di quelle tedesche, 741 di quelle inglesi<br />
e 661 di quelle francesi.<br />
Nella classifica Fo per fatturato, sono comprese solo 8 gruppi italiani<br />
tra i primi 500 e solo 3 tra i primi 100 (tab.4-7). Il primo di tali<br />
gruppi è al quarantaseiesimo posto con un fatturato complessivo che è<br />
pari a circa un quarto di quello della prima assoluta della classifica<br />
(Exxon). Il volume di affari complessivo realizzato dall’aggregato italiano<br />
rappresenta circa l’1,8% del totale dell’universo considerato; il profitto<br />
delle nostre imprese registra una proporzione analoga rispetto al profitto<br />
totale.<br />
In conseguenza del criterio utilizzato per la definizione di queste<br />
131
Tab. 4-7 — Le imprese italiane nella classifica Fortune<br />
Posizione<br />
in classifica<br />
Società<br />
Ricavi<br />
46 Assicurazioni Generali 53.333<br />
47 Fiat 53.190<br />
69 Eni 45.139<br />
156 Olivetti 27.832<br />
196 Enel 23.142<br />
206 Intesa-Bci 22.512<br />
345 UniCredito Italiano 14.776<br />
392 Montedison 13.216<br />
Fonte: Fortune (2001), valori in milioni di dollari.<br />
classifiche, relativamente alla composizione dell’universo, i gruppi italiani<br />
che ne fanno parte hanno natura eterogenea. Vi sono gruppi privati<br />
industriali (Telecom, Tim, Olivetti, Mediaset ecc.); gruppi bancari<br />
(Unicredito, BancaIntesa, San Paolo - Imi, Banca Fideuram, Monte dei<br />
Paschi, ecc.) e assicurativi (Generali, Alleanza, Ras, ecc.). Sono anche compresi<br />
gruppi quotati in cui lo Stato o altri soggetti pubblici detengono<br />
ancora una quota rilevante del capitale (Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade).<br />
Non sono considerate le società private, pubbliche o ad azionariato<br />
misto che non sono quotate sul mercato; restano, quindi, escluse<br />
dall’universo tra le altre, società come Poste S.p.a., Gruppo Ferrovie dello<br />
Stato.<br />
d) Le imprese giapponesi hanno una posizione fortemente variabile<br />
in relazione al parametro di misurazione considerato. Il fatturato complessivo<br />
realizzato dalle società giapponesi rappresenta circa il 21% sul<br />
totale; il valore di mercato è invece il 9% (sul totale delle prime 500Ft)<br />
e 10,6% (sul totale delle prime 1000Bw). Il rilievo dell’aggregato giapponese<br />
è nettamente inferiore se considerato rispetto agli altri parametri:<br />
profitti (6,6%); assets investiti (16%); dipendenti (11,3%). Questo è<br />
spiegato in parte dal fatto che una quota consistente delle 104 imprese<br />
giapponesi che rientrano nella classifica delle più grandi per fatturato,<br />
è costituito da trading companies che realizzano elevati volumi di vendite<br />
caratterizzati da margini economici normalmente contenuti. La modesta<br />
quota di profitto è confermata anche negli aggregati individuati<br />
nelle altre due classifiche: 6,6% nella classifica Bw e 3,5% nella classifica<br />
Ft.<br />
e) Le imprese cinesi si affacciano in modo significativo nel club dei mega-gruppi,<br />
ma con una particolarità. Nella classifica Fo, sono comprese 12<br />
imprese cinesi che rappresentano quasi il 2% del fatturato totale (più dell’aggregato<br />
italiano), il 2% dei profitti, il 4% degli assets (quasi il doppio<br />
delle imprese italiane). Il numero di dipendenti di queste imprese è pari al<br />
13% del totale dei dipendenti dell’universo considerato: più dell’aggregato<br />
giapponese che è rappresentato da un numero di imprese quasi nove volte<br />
quello cinese, e pari al numero di dipendenti dei gruppi inglesi, tedeschi e<br />
francesi messi insieme.<br />
f) il grado di concentrazione del valore di mercato è crescente al cre-<br />
132
scere della dimensione delle imprese considerate. Le prime 1000 imprese ordinate<br />
dalla classifica Bw (tab. 4-8) sono state riordinate in insiemi costituiti<br />
da insiemi delle prime «n» imprese, con «n» progressivamente maggiore<br />
(le prime 25, le prime 100, le prime 250, le prime 500 e le prime 1000);<br />
di questi insiemi è stato calcolato il valore di mercato totale. Si osserva che<br />
metà dell’universo considerato costituita dalle società con maggiore valore<br />
di mercato copre oltre l’85% del valore di mercato totale delle prime 1000.<br />
Il primo decimo di imprese copre il 48% del valore totale. Il 2,5% dell’universo<br />
(le prime 25 imprese) rappresenta il 25% del valore di mercato totale<br />
delle 1000 imprese.<br />
Questa analisi conferma anche il dominio dei grandi gruppi americani.<br />
Infatti rispetto al peso che essi hanno nell’universo delle prime 1000<br />
(56,4%), si osserva una presenza significativamente maggiore nell’insieme<br />
delle prime 100 (65,8%), così come (anche se con intensità decrescente)<br />
nell’insieme delle prime 250 (60,3%) e delle prime 500 (57,9). Per le<br />
imprese giapponesi vale una situazione del tutto analoga e contraria. In<br />
termini di valore di mercato, il Giappone risulta, infatti rappresentato per<br />
il 10,6% nell’universo delle prime 1000 e solo per il 6,4% in quello delle<br />
prime 100.<br />
Tab. 4-8 — Concentrazione del valore di mercato<br />
(Valori assoluti in milioni di milioni di dollari)<br />
Prime 25 Prime 100 Prime 250 Prime 500 Prime 1000<br />
Valore di mercato totale 5,23 10,03 14,4 17,8 20,9<br />
% sul valore di mercato<br />
prime 1000 imprese 25% 48% 68,9% 85,2% 100%<br />
Fonte: Business Week.<br />
4.2 Produttività e New Economy in Europa e negli<br />
Stati Uniti<br />
Introduzione<br />
Per tutti gli anni Ottanta e sino alla metà degli anni Novanta l’Europa<br />
è cresciuta a ritmi inferiori a quelli degli Stati Uniti pur registrando<br />
una crescita della produttività del lavoro più elevata. Solo nella seconda<br />
metà degli anni Novanta la dinamica della produttività oraria degli Stati<br />
Uniti è accelerata sino a superare quella europea.<br />
Di seguito si propone una chiave di lettura dei fenomeni sin qui esposti,<br />
attraverso la scomposizione e l’analisi delle determinanti della produttività<br />
del lavoro, con particolare riguardo all’impatto della New Economy<br />
sulla crescita della produttività totale dei fattori.<br />
L’analisi mostra che il divario nei tassi di crescita della produttività,<br />
a vantaggio dell’Europa sino alla prima metà degli anni Novanta, è sostanzialmente<br />
il frutto di un diverso utilizzo dei fattori di produzione sulle<br />
due sponde dell’Atlantico, ossia della maggiore intensità di capitale fis-<br />
133
so nei paesi europei rispetto agli Stati Uniti. Questo mix fattoriale a favore<br />
del capitale appare tuttavia sub-ottimale dal punto di vista dell’efficienza<br />
produttiva. In altri termini, l’accumulazione di capitale è stata probabilmente<br />
eccessiva in Europa se confrontata con la dimensione della forza lavoro<br />
disoccupata, e con una crescita della produttività totale che è cresciuta<br />
meno rispetto agli Stati Uniti.<br />
Nella seconda metà degli anni Novanta, con l’affermazione su larga<br />
scala delle nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni<br />
(Ict), questo mix sub-ottimale di fattori sembra aver iniziato a giocare a<br />
sfavore anche della produttività del lavoro europea rispetto agli Stati Uniti.<br />
La minore capitalizzazione relativa del sistema produttivo americano<br />
e l’esistenza di un mercato del lavoro altamente flessibile (con la possibilità<br />
di reimpiegare il capitale umano in settori a più elevata produttività)<br />
ha infatti consentito una introduzione meno costosa delle nuove tecnologie,<br />
attraverso la sostituzione dei vecchi impianti e la creazione di<br />
nuove imprese.<br />
Le produttività dei singoli fattori produttivi e quella totale sono co-<br />
munemente considerate indicatori del grado di efficienza di un sistema eco-<br />
nomico poiché mettono in relazione l’output e gli input necessari per generarlo.<br />
In termini dinamici, la crescita della produttività è alla base dei<br />
miglioramenti nel reddito e nel benessere di un paese. Essa viene dunque<br />
utilizzata spesso per confrontare la performance economica tra i diversi pae-<br />
si. Il confronto però dipende dal modo in cui la produttività viene misurata.<br />
Concentrandoci sulla produttività del lavoro, la misura più semplice e<br />
più comunemente utilizzata del fattore lavoro è l’occupazione totale. Una<br />
misura più appropriata dell’ammontare di servizi produttivi generati dai<br />
lavoratori consiste tuttavia nel numero di ore effettivamente lavorate. I tassi<br />
di variazione del numero di persone occupate differiscono normalmente<br />
dai tassi di variazione delle ore totali lavorate. Infatti, queste ultime dipendono<br />
da variazioni dell’orario di lavoro per data occupazione, o da un<br />
utilizzo maggiore di lavoro part-time; inoltre, al contrario dell’occupazione<br />
totale (la cui dinamica è più strettamente legata alla struttura del mercato<br />
del lavoro), le ore lavorate variano maggiormente durante il ciclo economico<br />
con le variazioni della domanda di lavoro 1 .<br />
Se si misura la produttività in termini di ore lavorate, il tasso di crescita<br />
della produttività europea rispetto agli Stati Uniti è maggiore sino alla<br />
metà degli anni Novanta. Tra i paesi dell’Europa continentale, si nota<br />
come la produttività oraria sia rimasta elevata e si sia anche rafforzata tra<br />
il 1980 e il 1995 in Italia e Germania, mentre ha progressivamente rallentato<br />
in Francia, che partiva tra l’altro da livelli più elevati 2 (tab. 4-9 e<br />
4-10).<br />
Negli ultimi cinque anni, tuttavia, la crescita della produttività è sta-<br />
Produttività<br />
del lavoro<br />
negli<br />
Stati Uniti e<br />
in Europa:<br />
l’evidenza<br />
empirica<br />
1<br />
Seppure vi siano notevoli problemi di misurazione, una misura più accurata del fattore<br />
lavoro dovrebbe tenere conto anche della qualità. Infatti l’uso di misure di input di lavoro<br />
aggiustate per la qualità consente di attribuire una quota maggiore di crescita dell’output al<br />
fattore lavoro anziché al residuo. In altre parole, l’adozione di misure di input di lavoro aggiustate<br />
per la qualità consente di identificare meglio le fonti della crescita, distinguendo tra<br />
esternalità o spill-over — catturate dal residuo di produttività — ed effetti dell’investimento<br />
in capitale umano.<br />
2<br />
I confronti di produttività nei diversi paesi sono complicati dall’esigenza di costruire<br />
deflatori di Ppp adeguati (cfr. Schreyer P. e Pilat D., 2001).<br />
134
Tab. 4-9 — Produttività per ora lavorata<br />
(In % degli Stati Uniti)<br />
Francia Germania Italia Regno Unito Eu15 Giappone Stati Uniti<br />
1980 93 100 82 71 83 61 100<br />
1990 107 101 87 76 85 71 100<br />
1995 109 96 96 82 91 74 100<br />
2001 103 93 89 80 86 73 100<br />
Nota: Sino al 1990, i dati si riferiscono solo alla Germania dell’ovest. Valore aggiunto del totale economia in dollari<br />
Ppp 1996 sul totale delle ore lavorate.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />
Tab. 4-10 — Tassi di crescita della produttività per ora lavorata<br />
Francia Germania Italia Regno Unito Eu15 Giappone Stati Uniti<br />
1980-1985 3,1 2,0 2,0 2,2 2,4 2,3 1,4<br />
1985-1990 2,5 2,1 2,0 1,8 2,0 3,7 1,3<br />
1990-1995 1,6 2,1 2,6 2,2 2,0 2,3 1,1<br />
1995-2001 0,9 1,7 1,1 1,5 1,3 1,6 1,8<br />
1999 1,0 0,4 0,6 1,2 1,0 1,7 2,1<br />
2000 1,3 3,0 1,0 2,7 2,0 1,8 2,4<br />
2001 0,1 0,7 0,2 1,4 0,5 –0,3 1,9<br />
Nota: Cfr. nota tab. 4-9.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />
ta molto maggiore negli Stati Uniti (con l’eccezione di alcune piccole economie<br />
molto dinamiche come ad esempio l’Irlanda) rispetto ai paesi europei<br />
e al Giappone. Nel 2000, a fronte di una crescita del Pil del 4,1% la<br />
produttività oraria degli Stati Uniti è cresciuta del 2,4%, mentre nell’Unione<br />
Europea la produttività oraria è cresciuta del 2%. Nel 2001, nonostante<br />
la recessione, la produttività americana ha continuato a crescere a<br />
un ritmo superiore a quello della maggior parte dei paesi industrializzati:<br />
essa è stata pari all’1,9% contro una media dei paesi Ocse dello 0,9% e dell’Unione<br />
europea dello 0,5%, ovvero circa la metà della crescita realizzata<br />
tra il 1995 e il 2000.<br />
Poiché sino alla metà degli anni Novanta i guadagni di produttività in<br />
Europa non si sono tradotti in maggiore crescita economica analizziamo nel<br />
prosieguo le cause del «paradosso» del modello europeo rispetto a quello<br />
statunitense. A tal scopo, nel prossimo paragrafo effettuiamo un esercizio<br />
di growth accounting che ci consente di attribuire la crescita economica<br />
complessiva alla accumulazione dei fattori di produzione e alla dinamica<br />
della produttività totale dei fattori (dove quest’ultima fornisce una misura<br />
del progresso tecnico).<br />
135
Produttività La produttività del lavoro dipende dalla tecnologia — misurata dalla<br />
del lavoro, produttività totale dei fattori (Tfp) — e dalla dotazione media di capitale<br />
produttività per addetto (l’intensità di capitale) 3 .<br />
totale<br />
La tabella 4-11 riporta il calcolo dei tassi di crescita della produttività<br />
dei fattori e del lavoro del settore privato 4 ottenuto considerando le sue componenti.<br />
intensità<br />
L’analisi si concentra sull’arco temporale 1970-1999 relativamente al<br />
di capitale settore privato, a causa della mancanza di dati più recenti comparabili internazionalmente<br />
sullo stock di capitale e sulle capital income share 5 per<br />
il totale dell’economia. Nel periodo 1970-1980 la produttività del lavoro del<br />
Tab. 4-11 - Growth accounting e legami tra le misure di produttività<br />
Italia Germania Francia Regno Unito Stati Uniti Europa (b)<br />
Produttività del lavoro (a) 1970-80 3,3 3,1 3,3 2,2 0,9 3,0<br />
∆(Y/L) = ∆A/A + α∆(K/L) 1980-90 2,4 1,9 2,6 2,3 1,2 2,2<br />
1990-95 2,3 2,4 1,7 2,1 1,4 2,1<br />
1995-99 1,0 1,8 1,5 1,3 2,2 1,4<br />
Capital income share 1970-80 0,32 0,34 0,35 0,30 0,32 0,33<br />
(α) 1980-90 0,37 0,34 0,36 0,31 0,33 0,35<br />
1990-95 0,38 0,36 0,40 0,31 0,34 0,36<br />
1995-99 0,42 0,38 0,41 0,32 0,34 0,38<br />
Variazione dell’intensità 1970-80 3,7 4,9 2,9 1,7 1,5 3,5<br />
di capitale ∆(K/L) 1980-90 2,9 3,8 2,6 1,0 1,0 2,7<br />
1990-95 3,7 3,1 3,1 1,8 1,0 3,0<br />
1995-99 1,8 1,5 1,1 1,5 1,9 1,8<br />
Tfp 1970-80 2,1 1,4 2,3 1,7 0,4 1,8<br />
∆A/A 1980-90 1,3 0,6 1,6 2,0 0,9 1,3<br />
1990-95 0,9 1,3 0,5 1,5 1,0 1,0<br />
1995-99 0,2 1,2 1,0 0,9 1,6 0,8<br />
(a) Valore aggiunto per occupato nel settore privato.<br />
(b) Media ponderata dei seguenti paesi: Germania, Francia, Italia, Regno Unito.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse.<br />
3<br />
In termini formali, si consideri una funzione di produzione Y = AF(K, L) dove l’output<br />
Y è il valore aggiunto del settore privato, gli input considerati sono il lavoro L e i servizi<br />
del capitale K, e dove A misura il livello di tecnologia. Assumiamo che la produzione avvenga<br />
in un mercato perfettamente competitivo e che i rendimenti di scala siano costanti.<br />
L’approccio di «growth accounting» consente di identificare il contributo dei diversi input alla<br />
crescita del valore aggiunto complessivo. L’espressione che consente di calcolare tale contributo<br />
è la seguente:<br />
(1) ∆Y/Y = ∆A/A + α (∆K/K) + (1 – α) (∆L/L)<br />
dove ∆Y/Y, ∆A/A, ∆K/K, ∆L/L sono rispettivamente i tassi di crescita del valore aggiunto, del<br />
progresso tecnico (total factor productivity, Tfp), dei servizi del capitale e del lavoro.<br />
α = (Y – wL)/Y è la capital income share, ovvero la quota di reddito prodotto destinata<br />
alla remunerazione del capitale; wL è il costo totale del lavoro.<br />
La (1) può essere riscritta in questo modo:<br />
(2) ∆Y/Y – ∆L/L = ∆A/A + α (∆K/K – ∆L/L)<br />
La (2) indica che la crescita della produttività del lavoro (∆Y/Y – ∆L/L) dipende da due<br />
componenti: il tasso di crescita del progresso tecnologico (∆A/A) e il prodotto tra la capital income<br />
share e il tasso di crescita del rapporto capitale - lavoro (α (∆K/K – ∆L/L)).<br />
4<br />
Il valore aggiunto del settore privato, misurato al costo dei fattori, è ottenuto sommando<br />
i redditi corrisposti ai fattori produttivi, nonché gli utili non distribuiti delle imprese.<br />
Esso include i sussidi ed è al netto delle imposte indirette.<br />
5<br />
Per il calcolo dello stock di capitale e delle capital income share si rimanda al Rapporto<br />
del Csc di dicembre 2000.<br />
136
settore privato europeo cresceva al tasso medio del 2,9%, quella statunitense<br />
dello 0,9%. Questo risultato dipendeva in Europa dalla combinazione<br />
di un tasso di crescita elevato del progresso tecnico (1,8%) e da una forte<br />
crescita dell’intensità di capitale (3,5%). Tra i paesi europei, l’Italia e la<br />
Germania hanno avuto i tassi di crescita dell’intensità di capitale più elevati.<br />
Negli Stati Uniti, al contrario, il progresso tecnico non contribuiva significativamente<br />
alla crescita della produttività e l’intensità di capitale cresceva<br />
ad un tasso inferiore alla metà di quello europeo. Il Regno Unito si<br />
discosta dal modello continentale presentando caratteristiche di sviluppo<br />
molto più simili a quelle degli Stati Uniti.<br />
Le capital income share dei paesi dell’Europa continentale erano superiori<br />
a quella degli Stati Uniti. Elevate capital income share dipendono<br />
dall’uso intensivo del fattore capitale nei paesi europei. Come si è mostrato<br />
nel Rapporto Csc di dicembre 2000 l’elevata capital income share in Italia<br />
e in Europa non riflette una maggiore redditività del capitale nei paesi<br />
europei, ma il maggiore impiego relativo di questo fattore nell’attività di<br />
produzione del settore privato (tab. 4-12). La redditività del capitale in Italia<br />
e in Europa è invece, come mostrano i tassi di rendimento del capitale,<br />
stagnante nel medio-lungo periodo e sensibilmente inferiore ai livelli americani;<br />
un divario di redditività tra Stati Uniti e Europa che si è peraltro<br />
notevolmente ampliato negli ultimi anni.<br />
Nel periodo 1980-1995, il divario tra i tassi di crescita della produttività<br />
del lavoro di Europa e Stati Uniti inizia a diminuire grazie a una maggiore<br />
crescita della produttività totale dei fattori negli Stati Uniti, mentre<br />
quella europea si riduce. Nell’ultimo periodo 1995-1999 la produttività del<br />
lavoro negli Stati Uniti supera di gran lunga quella europea grazie al contributo<br />
della produttività totale, che fornisce una misura del progresso tecnico,<br />
e anche a una maggiore intensificazione del ritmo di accumulazione<br />
di capitale.<br />
Un’ampia letteratura ha recentemente evidenziato come gli andamenti<br />
della produttività del lavoro europea siano stati legati agli sviluppi nel<br />
mercato del lavoro (Daveri e Tabellini, 1998; Caballero e Hammour, 2000).<br />
A partire dagli anni Settanta differenze nei costi relativi dei fattori e successivamente<br />
nelle istituzioni del mercato del lavoro hanno generato un differenziale<br />
di crescita della produttività a favore dell’Europa poiché salari<br />
Tab. 4-12 — Intensità di capitale (1970=100) e redditività in Europa e negli Stati Uniti<br />
Francia Germania Italia Regno Unito Stati Uniti<br />
Intensità di capitale<br />
1970 100 100 100 100 100<br />
1980 137 161 138 119 115<br />
1990 173 233 174 131 126<br />
1999 211 209 225 152 137<br />
Roi<br />
1990 8,6 6,9 5,7 6,4 (a) 10,0<br />
1998 8,4 6,7 5,4 11,5 3,4<br />
Nota: Intensità di capitale ottenuta dal rapporto tra capitale fisso lordo e occupazione del settore privato. Roi del<br />
settore manifatturiero. (a) 1993 per il Regno Unito.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse; elaborazioni Csc (2000) su dati Bach.<br />
137
più elevati 6 hanno indotto le imprese a sostituire capitale a lavoro, sino al<br />
punto in cui la crescita della produttività fosse compatibile con quei livelli<br />
salariali. La ristrutturazione dei sistemi produttivi europei verso tecniche<br />
meno labour-intensive è stata la conseguenza prima degli shock salariali<br />
degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta in Europa, che non si sono<br />
verificati in analoga misura negli Stati Uniti (fig. 4-2) e successivamente<br />
delle rigidità del mercato del lavoro (anni Ottanta e Novanta).<br />
In presenza di una elevata sostituibilità tra fattori della produzione 7<br />
in Europa, gli shock salariali si sono tradotti in un calo più che proporzionale<br />
dell’impiego relativo del lavoro nei processi produttivi e, simmetricamente,<br />
in una crescita più che proporzionale nell’uso relativo del capitale.<br />
La figura 4-2 pone in relazione l’intensità di capitale con il costo relativo<br />
del lavoro rispetto al costo del capitale in Italia, Germania, Francia, Regno<br />
Unito e Stati Uniti nel 1970, 1980, 1990 e 1999. L’interpolazione dei dati<br />
in senso temporale evidenzia una netta contrapposizione tra i paesi dell’Europa<br />
continentale e Regno Unito e Stati Uniti: nei primi tre l’elasticità<br />
dell’intensità di capitale rispetto ai prezzi relativi dei fattori è molto più<br />
elevata.<br />
Oltre ai differenziali salariali, anche le rigidità del mercato del lavoro<br />
hanno contribuito ad una più veloce accumulazione del capitale (fig. 4-3).<br />
Le imprese dell’Europa continentale hanno così preferito operare con modalità<br />
più capital intensive, ed utilizzare risorse in outsourcing piuttosto<br />
che impiegare una maggiore forza-lavoro (cfr. Dornbush, 2001).<br />
Fig. 4-2 — Intensità di capitale e prezzi relativi dei fattori<br />
Nota: L’intensità di capitale (K/L) è ottenuta costruendo l’indice 1970=100 da valori misurata<br />
in milioni di dollari per occupato a Ppp 1995. I prezzi relativi dei fattori (w/r) sono ottenuti<br />
dividendo il costo del lavoro per dipendente per il costo del capitale. Per ognuno dei paesi<br />
è stato poi costruito l’indice 1970=100.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse.<br />
6<br />
Misurati al lordo delle imposte dirette e dei contributi sociali.<br />
7<br />
Secondo recenti verifiche empiriche, l’elasticità di sostituzione in Europa è superiore a<br />
1; cfr. Blanchard (1998).<br />
138
Fig. 4-3 — Intensità di capitale e rigidità del mercato del lavoro<br />
Nota: Vedi nota fig. 4-2; l’indicatore di rigidità del mercato del lavoro è calcolato dall’Ocse.<br />
Per l’intensità di capitale si sono fatte le medie del decennio Ottanta e Novanta.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse.<br />
La crescita del Pil in Europa è dunque avvenuta a spese dell’occupazione,<br />
mentre negli Stati Uniti la crescita si è accompagnata – almeno in<br />
parte – a un aumento più ridotto dell’intensità di capitale, con un guadagno<br />
di produttività inferiore ma con una maggiore creazione di occupazione.<br />
Il modello europeo non è risultato efficace perché ha accumulato un divario<br />
di crescita rispetto agli Stati Uniti di oltre 20 punti percentuali in<br />
trent’anni.<br />
Negli ultimi anni, vi è stato in Europa un progresso sul fronte occupazionale<br />
anche grazie ad alcuni mutamenti strutturali nel mercato<br />
del lavoro (riduzione del costo del lavoro sul segmento dei lavoratori unskilled;<br />
uso più estensivo di contratti di lavoro temporanei; miglioramenti<br />
sul fronte della formazione e della qualità del lavoro). Tuttavia, queste<br />
dinamiche del mercato del lavoro si sono associate ad una minore crescita<br />
della produttività media, sia a causa dell’aumento delle quote di occupazione<br />
dei lavoratori unskilled, sia per un probabile rallentamento<br />
della dinamica dell’intensità di capitale. Tuttavia, a controbilanciare il<br />
minor contributo dell’intensità di capitale non è intervenuta in Europa<br />
una più forte crescita della produttività totale dei fattori. Al contrario<br />
essa si è dimezzata. Questa debole performance della produttività europea<br />
nella seconda metà degli anni Novanta sembra dipendere almeno in<br />
parte da impedimenti strutturali alla crescita, particolarmente in aree<br />
quali le liberalizzazioni, l’integrazione dei mercati, la diffusione delle<br />
nuove tecnologie, l’innovazione e l’uso efficiente delle risorse umane, il<br />
cui contributo è essenziale per fare innalzare la produttività totale dei<br />
fattori (Tfp).<br />
Mentre, quindi, nella seconda metà degli anni Novanta, la produttività<br />
totale degli Stati Uniti è cresciuta più velocemente che in Europa, nello<br />
stesso periodo gli Stati Uniti hanno accelerato il ritmo degli investimenti<br />
(tab. 4-13).<br />
139
Tab. 4-13 — Investimenti privati non residenziali in % del Pil<br />
Italia Francia Germania Regno Unito Area euro Stati Uniti Giappone<br />
1965-1970 22,9 17,7 21,6 13,3 12,4 18,6<br />
1970-1980 20,8 18,3 19,6 13,4 13,4 20,3<br />
1980-1990 17,0 16,6 17,9 14,4 17,6 13,9 20,3<br />
1990-1995 16,6 16,3 20,0 14,5 17,6 13,5 21,9<br />
1995-2000 16,9 15,9 20,2 16,2 17,9 16,8 19,8<br />
2000 18,0 17,0 20,5 17,6 18,7 18,6 19,6<br />
2001 17,9 17,2 19,7 17,2 18,5 18,0 19,5<br />
Fonte: Ocse.<br />
Come si argomenterà nel prossimo paragrafo, gli investimenti in nuove<br />
tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni (Ict) e la diffusione<br />
della cosiddetta New Economy (una complessa interazione tra nuova tecnologia<br />
e nuove «regole» di funzionamento dei mercati) sono uno dei principali<br />
fattori che hanno consentito agli Stati Uniti di associare i miglioramenti<br />
di produttività ad elevati tassi di occupazione.<br />
Negli ultimi anni si è avuta una proliferazione di lavori empirici e teo-<br />
rici volti a dare conto degli effetti dell’Ict sulla crescita della produttività<br />
totale dei fattori negli Stati Uniti, e del ritardo tecnologico dell’Europa. Dal<br />
punto di vista quantitativo questa letteratura ha evidenziato i seguenti fatti<br />
stilizzati:<br />
1) la quota delle industrie produttrici di Ict sul totale del valore aggiunto<br />
è negli Stati Uniti più elevata rispetto all’Europa (rispettivamente<br />
7% tra il 1995-1998 negli Stati Uniti contro il 5% nella media dei paesi europei,<br />
4,5% in Italia; cfr. tab. 4-14);<br />
2) anche la quota sul totale del valore aggiunto delle industrie utilizzatrici<br />
di Ict è negli Stati Uniti maggiore rispetto all’Europa (28% contro<br />
una media europea del 26%);<br />
3) sia nei paesi europei che negli Stati Uniti la crescita dell’output e<br />
della produttività nei settori produttori di Ict è stata più elevata rispetto<br />
agli altri settori dell’economia (tab. 4-15).<br />
Una parte della spiegazione della maggiore crescita degli Stati Uniti<br />
risiede dunque nel fatto che una maggiore quota di Pil è rappresentata da<br />
quei settori che hanno avuto tassi di sviluppo maggiori. Una delle ragioni<br />
sottostanti ai maggiori tassi di sviluppo nei settori Ict è legata al fatto che<br />
i prodotti Ict sembrano essere associati a maggiore potenziale di apprendimento<br />
e a miglioramenti di produttività (Jorgenson, 2001).<br />
Secondo Jorgenson (2001) gli investimenti in Ict negli Stati Uniti sono<br />
iniziati già nella metà degli anni Settanta, ma solo dalla seconda metà<br />
degli anni Novanta si sono trasferiti in un maggiore tasso di crescita della<br />
produttività totale e del lavoro. Questo ritardo è dovuto al fatto che i costi<br />
di apprendimento associati alle nuove tecnologie sono elevati. Il processo<br />
di apprendimento ha natura «sociale», e dunque esiste un incentivo strategico<br />
per le imprese ad aspettare che qualcun altro adotti la nuova tecnologia<br />
per non incorrere nei costi di formazione del personale. Inoltre, le<br />
imprese attendono che il capitale vecchio diventi obsoleto prima di sosti-<br />
L’influenza<br />
dell’Ict sulla<br />
produttività<br />
totale<br />
140
Tab. 4-14 — Quota di Ict sul valore aggiunto<br />
Italia Francia Germania Regno Unito Stati Uniti<br />
1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995-<br />
1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998<br />
Industrie produttrici Ict 4,4 4,5 5,0 5,1 5,2 4,9 5,9 6,1 6,4 7,0<br />
30 - Macchine per ufficio e per il<br />
trattamento automatico delle<br />
informazioni 0,1 0,1 0,3 0,2 0,3 0,2 0,4 0,5 0,4 0,4<br />
32 - Apparecchi per le telecomunicazioni,<br />
registrazione e riproduzione del suono 0,6 0,5 0,5 0,5 0,6 0,4 0,6 0,8 1,2 1,4<br />
64 - Poste e telecomunicazioni 1,9 2,0 2,4 2,3 2,5 2,4 2,9 2,7 2,5 2,7<br />
72 - Computer e servizi collegati 1,4 1,4 1,3 1,4 1,0 1,2 1,2 1,5 1,6 1,8<br />
Industrie utilizzatrici di Ict 25,5 26,2 24,3 24,6 26,7 26,0 28,1 28,6 26,5 28,6<br />
22 - Stampa e editoria 0,9 0,9 1,1 1,0 1,1 1,0 1,8 1,8 1,2 1,1<br />
24 - Prodotti chimici e derivati 1,7 1,7 1,9 2,0 2,4 2,3 2,2 2,2 1,9 2,0<br />
31 - Macchine e apparecchiature<br />
elettriche 1,0 1,1 0,8 0,8 2,0 1,6 0,7 0,7 0,7 0,6<br />
33 - Strumenti medici, di precisione<br />
e ottici 0,5 0,4 0,6 0,6 0,8 0,7 0,6 0,6 0,8 0,7<br />
51 - Commercio all’ingrosso 6,9 6,8 4,1 4,1 5,0 4,8 6,0 6,1 4,4 4,4<br />
65 - Intermediazione finanziaria 5,3 4,8 4,1 3,7 4,0 3,7 4,3 3,7 3,5 3,9<br />
66 - Assicurazione e fondi pensione 0,5 0,7 0,9 1,0 1,6 1,8 1,3 1,5<br />
67 - Attività legate all’intermediazione<br />
finanziaria 0,6 0,6 0,5 0,5 0,6 0,6 1,6 2,0<br />
71 - Affitto di macchine e<br />
apparecchiature 0,8 0,9 1,0 0,9 1,5 1,6 0,8 0,9 0,8 0,9<br />
73 - Ricerca e Sviluppo 1,4 1,4 0,3 0,3 0,5 0,4 1,6 1,8<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />
tuirlo. Quest’ultima spiegazione è tanto più vera per i paesi dell’Europa<br />
continentale, i quali hanno accumulato molto più capitale rispetto agli Stati<br />
Uniti. Il bias tecnologico europeo a favore del capitale ha contribuito ad<br />
accrescere quella che è stata recentemente definita «sclerosi tecnologica» 8<br />
dell’Europa: la sovra-capitalizzazione in risposta alla forte regolamentazione<br />
del mercato del lavoro, ha comportato che unità di capitale «vecchie» sopravvivessero<br />
più a lungo di ciò che si sarebbe verificato in un contesto flessibile<br />
e funzionale a un utilizzo «ottimale» dei fattori di produzione; al contrario,<br />
negli Stati Uniti l’utilizzo di tecniche produttive meno capital intensive<br />
ha reso meno oneroso — e quindi facilitato — il rinnovo dello stock<br />
di capitale nella direzione di un crescente impiego di beni-capitali innovativi<br />
e tecnologicamente avanzati.<br />
Il deficit tecnologico europeo dipende inoltre da alcuni importanti problemi<br />
strutturali:<br />
1) le spese in ricerca e sviluppo, calcolate in rapporto al Pil, sono di<br />
circa il 20% più elevate negli Stati Uniti rispetto all’Europa.<br />
2) L’Europa, e soprattutto l’Italia, non hanno vantaggi comparati nella<br />
produzione di beni hi-tech, e tendono a de-specializzarsi nella produzio-<br />
8<br />
Caballero R. Hammour M., (2000).<br />
141
Tab. 4-15 — Produttività del lavoro nei settori produttori e utilizzatori di Ict<br />
Italia Francia Germania Regno Unito Stati Uniti<br />
1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995-<br />
1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998<br />
Industrie produttrici Ict 5,1 4,4 4,3 8,1 6,8 9,7 6,8 4,1 4,7 7,3<br />
30 - Macchine per ufficio e per il<br />
trattamento automatico delle<br />
informazioni 19,0 10,3 24,0 31,5 12,4 15,3 21,8 14,7 16,9 21,6<br />
32 - Apparecchi per le telecomunicazioni,<br />
registrazione e riproduzione del suono –0,7 0,5 20,7 20,5 7,7 6,0 12,9 –1,1 16,0 22,3<br />
64 - Poste e telecomunicazioni 9,1 8,6 3,1 6,4 8,1 13,0 6,5 8,8 5,4 3,9<br />
72 - Computer e servizi collegati 1,7 1,8 2,0 2,7 0,6 6,4 5,5 1,8 –0,7 0,4<br />
Industrie utilizzatrici di Ict 2,6 1,7 1,5 2,2 3,4 3,9 2,4 1,7 2,3 3,8<br />
22 - Stampa e editoria 2,4 2,6 1,0 1,9 1,6 3,3 0,7 –0,4 –2,5 –2,0<br />
24 - Prodotti chimici e derivati 3,5 1,2 6,7 7,2 8,8 5,5 7,8 1,6 3,5 1,0<br />
31 - Macchine e apparecchiature<br />
elettriche 7,8 8,5 6,6 3,1 1,3 –0,6 3,7 –1,5 8,6 16,2<br />
33 - Strumenti medici, di precisione<br />
e ottici 0,8 2,8 –1,4 5,0 2,5 3,2 0,0 –5,4 –2,2 –2,2<br />
51 - Commercio all’ingrosso 2,7 2,8 3,3 1,6 3,3 0,9 –0,7 –2,0 5,3 4,0<br />
65 - Intermediazione finanziaria 1,3 1,8 –2,0 4,0 1,4 7,5 2,1 3,7 1,4 6,5<br />
66 - Assicurazione e fondi pensione –0,4 –2,4 3,0 –3,2 1,5 1,5 3,5 –0,4<br />
67 - Attività legate all’intermediazione<br />
finanziaria 5,4 2,4 –1,8 2,8 1,4 0,4 3,4 6,9<br />
71 - Affitto di macchine e<br />
apparecchiature 1,9 1,2 –1,4 –0,4 0,9 6,9 5,9 5,5 –0,7 0,4<br />
73 - Ricerca e Sviluppo –1,1 0,3 0,6 0,2 3,4 –3,3 –0,7 0,4<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />
Tab. 4-16 — Contributi dell’Ict alla crescita del Pil<br />
Paese<br />
Periodo<br />
Contributi di:<br />
Crescita<br />
Apparecchiature della<br />
Apparecchiature<br />
Software di TFP<br />
IT<br />
Comunicazione<br />
Vijselaar & Albers, 2002 Area euro 1991-1995 0,26 0,05 0,06 1,24<br />
1996-1999 0,49 0,18 0,07 0,29<br />
Vijselaar & Albers, 2002 Italia 1991-1995 0,02 0,01 0,11 1,49<br />
1996-1999 0,04 0,10 0,11 0,18<br />
Vijselaar & Albers, 2002 Germania 1991-1995 0,09 0,06 0,02 1,52<br />
1996-1999 0,12 0,13 0,01 0,64<br />
Oliner & Sichel, 2001 Stati Uniti 1991-1995 0,25 0,25 0,07 0,92<br />
1996-1999 0,63 0,32 0,15 1,47<br />
Nota: Le elaborazioni dei due lavori si basano sulla nuova contabilità Usa; per il confronto occorre tenere conto del<br />
fatto che mentre Vijselaar e Albers (2002) stimano le componenti della crescita del Pil, Oliner e Sichel (2001) stimano<br />
la crescita dell’output del settore privato. Si noti come la crescita della TFP stimata in questi studi risulti<br />
molto simile a quella da noi calcolata per il settore privato (cfr. tab. 4-11).<br />
Fonte: Autori citati nella tabella.<br />
142
ne di questi beni. In particolare, la quota di import di Ict è in Italia più alta<br />
rispetto agli altri settori di beni strumentali (cfr. De Arcangelis, Jona,<br />
Manzocchi, 2001). In parte, la forte regolamentazione nel mercato del lavoro<br />
e dei beni costituisce un deterrente per la specializzazione in industrie<br />
hi-tech, e riduce gli incentivi al cambiamento tecnologico. Inoltre, gli elevati<br />
costi di licenziamento prevengono infatti la chiusura di industrie obsolete,<br />
mantenendo così risorse umane in settori a bassa produttività (cfr.<br />
Saint-Paul, 1997; 2001).<br />
Sebbene in Europa l’importanza dell’accumulazione di capitale di tipo<br />
Ict per la crescita sia andata aumentando negli ultimi anni, non si è ancora<br />
avuta una forte accelerazione della produttività totale e del tasso di<br />
crescita potenziale, al contrario di quanto accaduto negli Stati Uniti (tab.<br />
4-16).<br />
Bibliografia<br />
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and Factor Prices, Nber working paper n. 6566.<br />
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2001.<br />
Colecchia A., Schereyer P. (2001), ICT investment and economic growth in the 1990s:<br />
is the United States a unique case? A comparative study of nine Oecd countries,<br />
Oecd working paper n. 2001/7.<br />
Csc, (2000), Rapporto di previsioni macroeconomiche, dicembre 2000.<br />
Caballero, R., Hammour M., (2000), Institutions, Restructuring and Macroeconomic<br />
Performance, Nber working paper n. 7720, May 2000.<br />
Caballero, R., Hammour M., (2000), Creative destruction and development: institutions,<br />
crises and restructuring, Nber working paper n. 7849, August 2000.<br />
Daveri F. e Tabellini G., (1997), Unemployment, Growth and taxation in industrial<br />
countries, Cepr discussion paper n. 1684, August 1997.<br />
De Arcangelis G., Jona-Lasinio C., Manzocchi S., (2001), Sectoral Determinants and<br />
Dynamics of ICT Investment in Italy, mimeo.<br />
Dornbush R., (2001), World Economic Trends, December 2001.<br />
Gordon R., (2002), Technology and economic performance in the American economy,<br />
Cepr working paper n. 3213.<br />
Jorgenson D., (2001), Information Technology and the US economy, American Economic<br />
Review, vol.91/1 pag. 1-32.<br />
Oliner S., Sichel D., (2001), The Resurgence of Growth in the late 1990s: is information<br />
technology the story?, Journal of Economic Perspectives, vol. 14/4 pag.<br />
3-22.<br />
Saint-Paul, G., (1997), Is labour rigidity harming Europe’s Competitiveness? The Effect<br />
of job protection on the pattern of trade and welfare, European Economic<br />
Review, 41, 499-509.<br />
Saint-Paul G., (2001), Employment Protection, Innovation and International Specialization,<br />
European Economic Review.<br />
Schreyer P., Pilat D., (2001), Measuring Productivity, Oecd Economic Studies n. 33,<br />
2001/II, pag. 127-169.<br />
Scarpetta S., Bassanini A., Pilat D., Schreyer P., (2000), Economic Growth in the<br />
Oecd area: recent trends at the aggregate and sectoral level, Oecd working paper<br />
n. 248.<br />
Vijsellaar F., Albers R., (2002), New technologies and productivity growth in the euro<br />
area, Ecb working paper n. 122.<br />
143
4.3 Crescita e occupazione in Germania nella seconda<br />
metà degli anni Novanta<br />
Introduzione<br />
Nella seconda metà degli anni Novanta la Germania ha registrato tassi<br />
di sviluppo inferiori a quelli europei: il tasso di crescita medio del Pil tedesco<br />
è stato, infatti, dell’1,6%, contro il 2,8% degli altri paesi dell’area dell’euro<br />
(2,5% in Francia e 1,9% in Italia). Come è stato mostrato in un recente<br />
studio della Commissione europea (2002), sulla bassa crescita dell’economia<br />
tedesca pesano la debolezza degli investimenti in costruzioni e dei<br />
consumi delle famiglie. Nello stesso periodo l’evoluzione sfavorevole della<br />
domanda interna è stata solo in parte compensata dalla vivacità delle esportazioni<br />
tedesche che ha fatto seguito al graduale recupero di competitività<br />
di cambio e al redirezionamento dei flussi esportativi. Grazie anche alla<br />
specializzazione dell’export tedesco, orientato verso beni capitali, le esportazioni<br />
hanno finito per essere negli ultimi anni il vero motore della crescita<br />
tedesca.<br />
Come si mostrerà nel prosieguo di questa nota, mentre la crisi del settore<br />
delle costruzioni è direttamente legata alle scelte economiche successive<br />
alla riunificazione, la modesta performance dei consumi si lega, verosimilmente,<br />
ai bassi tassi di crescita dell’occupazione. Tra il 1996 e il 2000,<br />
infatti, l’occupazione tedesca è cresciuta complessivamente solo dell’1,5%,<br />
contro il 9,5% registrato dagli altri paesi dell’area dell’euro. Le difficoltà<br />
nel creare nuova occupazione dipendono, in modo particolare, dall’elevato<br />
costo del lavoro, dalla tassazione eccessiva e dalla rigidità dei meccanismi<br />
che regolano l’entrata e l’uscita dal mercato del lavoro. Mentre i problemi<br />
nel settore delle costruzioni saranno presumibilmente riassorbiti nei prossimi<br />
anni, quelli del mercato del lavoro richiedono riforme profonde dei meccanismi<br />
che regolano la domanda e l’offerta di lavoro.<br />
Le componenti La crisi del settore delle costruzioni è direttamente riconducibile alle<br />
della domanda politiche fiscali fortemente espansive condotte durante il processo di riunie<br />
la<br />
ficazione, che provocarono sovra-investimenti in costruzioni e un forte boom<br />
competitività iniziale, con un tasso di crescita del Pil che raggiunse tra il 1990 e il 1991<br />
estera<br />
il 5,2% (fig. 4-4). L’eccesso di offerta accumulato nel settore delle costruzioni<br />
sino al 1995 non sembra essere stato ancora riassorbito 1 : tra il 1996<br />
e il 2001 gli investimenti in costruzioni hanno rappresentato più di un terzo<br />
del differenziale sfavorevole di crescita della domanda interna tra la Germania<br />
e il resto dell’area dell’euro (tab. 4-17).<br />
L’altra componente della domanda interna che ha fortemente penalizzato<br />
il tasso di sviluppo dell’economia tedesca sono stati i consumi delle famiglie<br />
che, tra il 1996 e il 2001, hanno mediamente fornito un differenziale<br />
sfavorevole alla crescita tedesca pari allo 0,7% (tab. 4-17). L’andamento<br />
«deficitario» di questa componente è verosimilmente legato al malfunzionamento<br />
del mercato del lavoro.<br />
La domanda estera, pur fornendo un contributo alla crescita decisamente<br />
più alto in Germania, è riuscita solo in parte a compensare la performance<br />
deficitaria della domanda interna rispetto al resto d’Europa (il maggior contributo<br />
alla crescita di questa componente è stato, infatti, mediamente pari<br />
allo 0,4% e decisamente inferiore al minor contributo della domanda interna<br />
1<br />
Anche nei macchinari e attrezzature si registrò un forte sovra-investimento nel biennio<br />
1990-91 che ebbe ripercussioni negative già a partire dal 1992.<br />
144
Fig. 4-4 — Tassi di crescita medi annui della Germania e dell’area dell’euro<br />
(a)<br />
(a) Al netto della Germania.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Fmi.<br />
Tab. 4-17 — Differenziali medi dei contributi alla crescita (a) della Germania<br />
rispetto a Ue 11 (b)<br />
1992-95 1996-2001<br />
Pil 0,0 –1,2<br />
Domanda interna 0,8 –1,6<br />
Consumi delle famiglie 0,4 –0,7<br />
Investimenti fissi lordi 0,4 –0,8<br />
Costruzioni (b) 1,1 –0,6<br />
Macchinari e attrezzature (b) –0,7 –0,2<br />
Esportazioni nette –0,8 0,4<br />
Export –1,5 –0,3<br />
Import –0,7 –0,7<br />
(a) Delle componenti della domanda aggregata.<br />
(b) I contributi delle costruzioni e dei macchinari e attrezzature sono stati calcolati utilizzando<br />
i tassi di crescita di Francia, Italia, Olanda, Austria, Finlandia.<br />
Nota: Ue 11 si riferisce ai paesi dell’area dell’euro al netto della Germania.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />
pari all’1,6%; tab. 4-17). È utile rammentare, a questo proposito, che le politiche<br />
economiche tedesche durante l’Unificazione generarono un forte apprezzamento<br />
del marco sia in termini nominali che reali (tab. 4-18). La rivalutazione<br />
della moneta tedesca si è tradotta in una perdita di competitività<br />
dei prodotti tedeschi, come risulta evidente dalla dinamica delle quote<br />
di mercato (tab. 4-18). Sebbene la perdita di market share sia stata un fenomeno<br />
che ha riguardato altri paesi europei (come la Francia, l’Italia e il Regno<br />
Unito) e che è in parte riconducibile all’aumento dell’export dei paesi<br />
emergenti, essa è nel caso della Germania la più elevata in assoluto (e pari<br />
al 9%). Contestualmente si è prodotto un mutamento nella destinazione geografica<br />
delle esportazioni tedesche a favore dei paesi extra-euro.<br />
145
Tab. 4-18 — Andamento del cambio nominale e reale del marco rispetto alla moneta unica<br />
1988-91 1992-95 1996-99 2000-01 1992-01<br />
Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) cumulato del<br />
marco rispetto all’euro –1,3 –8,3 5,7 – –3,1<br />
Cambiamento cumulato dei prezzi dell’area euro<br />
rispetto a quelli tedeschi 3,7 0,3 4,9 –0,5 5,6<br />
Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) reale<br />
cumulato sui prezzi al consumo 2,4 –8,0 10,6 –0,5 2,5<br />
Cambiamento cumulato del Clup totale economia<br />
dell’area euro rispetto a quello tedesco n.d. –1,4 2,6 3,4 3,7<br />
Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) reale<br />
cumulato sul Clup totale economia n.d. –9,7 8,3 3,4 0,6<br />
Cambiamento cumulato del Clup manifatturiero<br />
dell’area euro rispetto a quello tedesco n.d. –2,9 0,7 1,7 0,1<br />
Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) reale<br />
cumulato sul Clup manifatturiero n.d. –11,2 6,4 1,7 –3,0<br />
Nota: Nella terza, quinta e settima riga valori positivi (negativi) indicano un miglioramento (peggioramento) della<br />
competitività di prezzo/costo della Germania rispetto all’area dell’euro.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Fmi e Commissione europea.<br />
Tra il 1996 e il 1999 si è assistito a un progressivo recupero della competitività<br />
di cambio tedesca rispetto ai paesi dell’area. Il deprezzamento in<br />
termini reali è stato rispettivamente del 10,6% (se calcolato sui prezzi al<br />
consumo) e dell’8,3% (se calcolato sul Clup; tab. 4-18). Il miglioramento della<br />
competitività di prezzo e di costo è dipesa da una dinamica più favorevole<br />
dell’inflazione e del Clup tedeschi, rispetto a quella media dell’area.<br />
Ciò si è tradotto in una minor perdita di quote di mercato rispetto alle maggiori<br />
economie dell’area (tab. 4-19).<br />
Tra il 2000 e il 2001 è proseguito il miglioramento della competitività<br />
di prezzo e di costo della Germania rispetto all’area dell’euro. La tabella 4-<br />
18 mostra che il gap di competitività accumulato nello scorso decennio nei<br />
confronti dell’Europa è stato recuperato 2 .<br />
Tab. 4-19 — Variazione totale percentuale delle quote di mercato (a)<br />
1992-95 1996-01<br />
Germania –9,0 –4,7<br />
Italia –3,6 –16,5<br />
Francia –9,0 –10,7<br />
Regno Unito –6,5 –6,5<br />
Olanda 2,6 –7,2<br />
Belgio 16,9 –9,4<br />
Spagna 4,6 4,8<br />
Irlanda 14,6 22,2<br />
(a) Rispetto al valore di inizio periodo.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Fmi.<br />
2<br />
Tuttavia, se per il calcolo del tasso di cambio reale viene utilizzato il Clup del settore<br />
manifatturiero, è possibile notare che il recupero del gap di competitività è stato solo parziale<br />
(tab. 4-18, riga 7). Infatti, come si vedrà meglio in seguito, questo settore è stato il più penalizzato<br />
dai costi delle riunificazione (aumenti salariali superiori alla produttività) e dal meccanismo<br />
distorsivo della contrattazione salariale. Ciononostante, anche in questo caso il recupero,<br />
seppure parziale, di competitività sembra fornire una spiegazione alla miglior dinamica<br />
delle esportazioni tedesche rispetto agli altri paesi europei negli ultimi anni.<br />
146
Il mercato<br />
del lavoro<br />
Si è detto che il cattivo funzionamento del mercato del lavoro tedesco<br />
è uno dei motivi principali della cattiva performance sia in termini di creazione<br />
di nuovi posti di lavoro sia, verosimilmente, della modesta dinamica<br />
dei consumi delle famiglie. In questo paragrafo si forniscono alcuni dati sulla<br />
crescita occupazionale e si riassumono le «rigidità» che caratterizzano il<br />
mercato del lavoro tedesco.<br />
La tabella 4-20 pone a confronto i tassi di crescita dell’occupazione sia<br />
della Germania unificata che della Germania occidentale e orientale con<br />
quelli dell’area dell’euro nell’ultimo decennio.<br />
Tra il 1992 e il 1995 la Germania unita registrò una caduta degli occupati<br />
(–3,4%) superiore a quella degli altri paesi europei (–2,4%). La contrazione<br />
del numero di occupati si verificò quasi interamente nei Länder<br />
orientali a causa della chiusura, ristrutturazione e riorganizzazione di impianti<br />
obsoleti 3 , nonché in conseguenza degli aumenti salariali superiori<br />
agli incrementi di produttività. Inoltre, l’iniziale elargizione di generosi sussidi<br />
di disoccupazione nei Länder orientali, accrescendo il salario di «riserva»<br />
delle persone in cerca di lavoro, forniva un forte disincentivo alla ricerca<br />
di lavoro.<br />
Tra il 1996 e il 2000, la dinamica occupazionale dei nuovi come dei<br />
vecchi Länder è stata nettamente peggiore di quella degli altri paesi dell’area<br />
dell’euro in tutti i settori economici; anche nel settore dei servizi, che<br />
ha registrato un tasso di crescita del valore aggiunto paragonabile a quello<br />
del resto dell’area, la Germania non è riuscita a incrementare l’occupazione<br />
con la stessa intensità (tab. 4-21).<br />
Tab. 4-20 — Tassi di crescita cumulati degli occupati (a)<br />
Germania Germania Ovest Germania Est Ue 11<br />
1992-1995 –3,4 –0,7 –13,4 –2,4 (b)<br />
1996-2000 1,5 2,5 –3,1 9,5<br />
(a) Tra i 15 e i 64 anni.<br />
(b) Non include i dati relativi all’Austria e alla Finlandia perché non disponibili.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />
Tab. 4-21 — Tassi di crescita cumulati degli occupati (a) e del valore aggiunto,<br />
1996-2000<br />
Settori<br />
Germania Ue 11<br />
Valore aggiunto Occupati Valore aggiunto Occupati<br />
Agricoltura 12,2 –15,0 8,5 –13,2<br />
Industria in senso stretto 5,8 –4,9 15,7 5,4<br />
Costruzioni –10,1 –7,6 8,6 14,3<br />
Servizi 15,9 6,5 15,2 12,5<br />
(a) Tra i 15 e i 64 anni.<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />
3<br />
La transizione da una economia pianificata a una di mercato richiese la ristrutturazione<br />
delle imprese orientali che generò una caduta dell’occupazione e un aumento dei salari.<br />
La crescita della produttività degli occupati nei Länder orientali non compensò l’aumento<br />
delle retribuzioni e ciò si tradusse in una forte perdita di redditività delle imprese dell’Est.<br />
147
Le difficoltà del mercato del lavoro tedesco sono riconducibili a tre grandi<br />
ordini di problemi: il costo del lavoro troppo elevato; la tassazione del lavoro<br />
eccessiva, nonché l’esistenza di sussidi alla disoccupazione elevati e di<br />
lunga durata; le rigidità del mercato del lavoro.<br />
Costo del<br />
L’elevato costo del lavoro, soprattutto nel settore manifatturiero, è<br />
lavoro<br />
in larga parte riconducibile al tipo di negoziazione salariale che differenzia<br />
a seconda del settore di appartenenza e non del grado di skill (fig. 4-5).<br />
Il particolare meccanismo di contrattazione, tenendo conto solo parzialmente<br />
del diverso grado di produttività che caratterizza le diverse qualifiche<br />
professionali, è tale da provocare un tasso di crescita dei salari dei<br />
lavoratori non qualificati sistematicamente superiore ai corrispondenti incrementi<br />
di produttività. Ciò si traduce in una sorta di circolo «vizioso» in<br />
cui la domanda di lavoro è rivolta solo ai lavoratori high skilled che vedono<br />
così aumentato il loro potere contrattuale. Allo stesso tempo i lavoratori<br />
meno qualificati hanno grosse difficoltà a trovare lavoro visto che i loro<br />
salari di ingresso non sono competitivi. Inoltre, la negoziazione salariale<br />
non tiene sufficientemente conto degli alti tassi di disoccupazione e della<br />
più bassa produttività del lavoro che caratterizzano, in modo particolare, le<br />
regioni orientali.<br />
Infine, se è vero che le imprese tedesche non possono permettersi di<br />
pagare ai lavoratori low-skilled salari in eccesso alla propria produttività,<br />
è anche vero che in Germania l’incentivo a migliorare la propria qualifica<br />
professionale è ridotto dal generoso sistema di benefici che rende poco conveniente<br />
passare dallo stato di disoccupato a quello di occupato.<br />
Effetti della<br />
La decisione di cercare lavoro dipende, tra l’altro, dall’alto grado di getassazione<br />
e nerosità dei sussidi alla disoccupazione e dalla tassazione dei redditi da ladei<br />
sussidi voro. La tabella 4-22 indica cosa succede ai redditi percepiti nel momento<br />
alla<br />
in cui uno dei due partner (di una famiglia con due figli) decide di passadisoccupazione<br />
re dallo stato di disoccupato (beneficiario di sussidi) a quello di occupato (a<br />
sulla<br />
tempo pieno o part-time), ovvero quanta parte delle maggiori retribuzioni<br />
propensione lorde (generate dall’aumento delle ore lavorate) viene persa per l’incremento<br />
a cercare della tassazione dei redditi da lavoro e per la perdita di sussidi. La comlavoro<br />
binazione di questi elementi evidenzia un maggiore disincentivo alla ricerca<br />
di lavoro in Germania rispetto all’Europa. Se, per esempio, in Germania<br />
il principal earner, il cui partner non è occupato, decide di lavorare a tempo<br />
pieno, l’80% della variazione del proprio reddito lordo viene persa (colonna<br />
1). Si osserva, inoltre, che in Germania non vi è convenienza alcuna per il<br />
principal earner nel passare dallo stato di disoccupato a quello di occupato<br />
part-time (colonna 2). Nel caso del secondary earner l’aliquota media effettiva<br />
derivante dal cambiamento dello stato occupazionale risulta pari al 50%<br />
circa in Germania, ovvero 16-19 punti percentuali in più della media dei paesi<br />
dell’Unione europea. La particolare combinazione degli effetti dei sussidi<br />
alla disoccupazione e della tassazione sui redditi da lavoro sembra, dunque,<br />
fornire maggiori disincentivi alla ricerca di occupazione in Germania.<br />
Rigidità del<br />
La tab. 4-23 mostra come alla fine degli anni Novanta la Germania sia<br />
mercato uno dei paesi europei con il più alto grado di regolamentazione nella nordel<br />
lavoro mativa sui rapporti di lavoro permanenti (che in Europa caratterizzano circa<br />
l’85% dell’occupazione dipendente; l’87% in Germania). Questo dato è<br />
tanto più grave se si considera che la Germania è l’unico paese dell’Ocse<br />
che, rispetto alla fine degli anni Ottanta, vede aumentare la regolamentazione<br />
in questa tipologia di contratti (cfr. par. 4.4).<br />
148
Fig. 4-5 — Costo del lavoro nel settore manifatturiero (a) (b), 2000<br />
(Germania = 100)<br />
(a) Operaio medio senza carichi di famiglia, in dollari PPP.<br />
(b) Retribuzioni lorde più contributi a carico del datore di lavoro.<br />
Fonte: Ocse, 2002.<br />
Tab. 4-22 — Aliquote medie effettive sui redditi addizionali percepiti con il nuovo stato occupazionale<br />
(a)<br />
Stato occupazionale<br />
Da disoccupato a Da disoccupato<br />
Principal earner occupato a tempo a occupato Occupato Occupato<br />
pieno<br />
part-time<br />
Da disoccupato a Da disoccupato<br />
Secondary earner Non occupato Non occupato occupato a tempo a occupato<br />
pieno<br />
part-time<br />
Austria 76 135 30 21<br />
Belgio 68 109 57 61<br />
Finlandia 88 117 36 23<br />
Francia 76 69 28 38<br />
Germania 80 115 51 50<br />
Grecia 54 104 30 30<br />
Irlanda 68 83 32 25<br />
Italia 63 84 33 25<br />
Olanda 89 90 39 37<br />
Spagna 78 77 21 19<br />
Regno Unito 72 93 28 20<br />
Unione europea 77 107 35 31<br />
(a) Le aliquote misurano quanta parte dell’aumento delle retribuzioni lorde, dovuto al nuovo stato occupazionale,<br />
viene perduta per la maggiore tassazione dei redditi percepiti e per il venir meno dei sussidi alla disoccupazione.<br />
Fonte: Ocse, Benefit System and Work incentives, 1999.<br />
149
Tab. 4-23 — Rigidità del mercato del lavoro in alcuni paesi europei<br />
(Grado di rigidità: 0 = basso; 6 = alto)<br />
Paesi<br />
Regolamentazione lavoratori<br />
Regolamentazione lavoratori<br />
permanenti<br />
temporanei<br />
Fine anni Ottanta Fine anni Novanta Fine anni Ottanta Fine anni Novanta<br />
Belgio 1,5 1,5 4,6 2,8<br />
Finlandia 2,7 2,1 1,9 1,9<br />
Francia 2,3 2,3 3,1 3,6<br />
Germania 2,7 2,8 3,8 2,3<br />
Italia 2,8 2,8 5,4 3,8<br />
Spagna 3,9 2,6 3,5 3,5<br />
Regno Unito 0,8 0,8 0,3 0,3<br />
Fonte: Ocse, Employment Outlook 1999.<br />
Bibliografia<br />
Commissione europea (2002), Directorate General for Economic and Financial Affairs,<br />
«Germany’s growth performance in the 1990’s», Economic Paper n. 170.<br />
Deutsche Bundesbank (2001), Appendix: the growth differential between Germany<br />
and France, Monthly report, August, pp. 21-27.<br />
Oecd (2001), Economic Survey: Germany.<br />
Wurzel E. (2001), The economic integration of Germany’s New Länder, Oecd working<br />
paper n. 307.<br />
4.4 Rigidità del mercato del lavoro e ammortizzatori<br />
sociali in Italia e in Europa<br />
Nonostante i progressi compiuti, l’Italia continua ad avere forti divari<br />
occupazionali rispetto ai principali paesi europei. Il tasso di occupazione,<br />
pari nel 2001 al 54,6% della popolazione in età da lavoro, è il più basso di<br />
tutti i paesi Ue e si colloca circa 10 punti al di sotto della media europea<br />
(64%). L’obiettivo stabilito al vertice europeo di Lisbona è un tasso di occupazione<br />
complessivo del 70% nella media dell’area (almeno il 60% per le<br />
donne) entro il 2010, con un target intermedio del 67% (57% per le donne)<br />
nel 2005.<br />
Anche la Commissione europea 1 , ha indicato il basso tasso di occupazione<br />
come uno degli aspetti più critici del mercato del lavoro italiano. Nell’invitare<br />
l’Italia a «continuare a rendere più flessibile il mercato del lavoro»,<br />
la Commissione europea ha anche sottolineato la contestuale esigenza<br />
di portare avanti con rapidità le riforme ancora in cantiere dei servizi pubblici<br />
all’impiego e degli ammortizzatori sociali, per poter combinare al me-<br />
1<br />
Cfr. Commissione delle Comunità europee, Raccomandazione del Consiglio riguardante<br />
l’attuazione delle politiche in materia di occupazione degli Stati membri, 12 settembre 2001,<br />
pag. 14. Questa posizione è stata inoltre recentemente ribadita dal Consiglio dell’Unione europea<br />
(cfr. Gazzetta ufficiale delle Comunità europee dell’1.3.2002).<br />
150
glio l’adattabilità del mercato del lavoro con la sicurezza dei lavoratori dentro<br />
e fuori il mercato stesso.<br />
Il recente dibattito europeo ha infatti messo in luce la necessità di accompagnare<br />
la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro con<br />
la creazione di un sistema di protezione sociale adeguato alle nuove esigenze<br />
di flessibilità. Esisterebbe una sorta di trade-off fra rigidità del mercato<br />
del lavoro e grado di protezione sociale del lavoratore nelle situazioni<br />
di disoccupazione. In Italia, ad esempio, l’elevata protezione dei lavoratori<br />
contro l’ipotesi di licenziamento si accompagna ad un’indennità di disoccupazione<br />
di ammontare non elevato e di breve durata. In Danimarca, dove<br />
il tasso di occupazione è pari al 76%, la maggiore flessibilità in uscita dal<br />
mercato del lavoro viene compensata da un esteso e relativamente generoso<br />
sistema di protezione sociale.<br />
La rigidità<br />
del mercato<br />
del lavoro<br />
e le sue<br />
determinanti<br />
In generale, un mercato del lavoro si configura come rigido quando la<br />
domanda e l’offerta di lavoro che lo caratterizzano non si adeguano (o si<br />
adeguano molto lentamente) alle fluttuazioni dell’economia. Nel dibattito<br />
corrente il concetto di rigidità del mercato del lavoro viene tuttavia spesso<br />
identificato con quello, più circoscritto, di rigidità dei rapporti di lavoro generata<br />
dalle istituzioni (derivanti sia dalle disposizioni legislative che dai<br />
contratti di lavoro) create a protezione dei lavoratori.<br />
Gli sviluppi teorici ed empirici più recenti 2 mostrano che normative<br />
stringenti a protezione del lavoro (employment protection legislation — Epl<br />
—) risultano mediamente correlate sia con il livello di occupazione osservato<br />
in ciascun paese che con la composizione demografica di occupati e disoccupati.<br />
In particolare, sembrerebbe esserci un legame inverso fra grado<br />
di protezione dei rapporti di lavoro e tasso di occupazione (fig. 4-6). Nei<br />
mercati del lavoro più regolamentati si riscontra inoltre mediamente una<br />
maggiore incidenza degli occupati indipendenti (cfr. par. 4.5), che può rappresentare,<br />
insieme al fenomeno del sommerso, un modo per sfuggire alle<br />
rigidità del sistema (cfr. Riquadro I lavoratori non coperti dall’art. 18 dello<br />
Statuto dei lavoratori).<br />
A partire dalla metà degli anni Novanta, l’Ocse ha cominciato ad elaborare<br />
una serie di indicatori per poter classificare i paesi membri in base<br />
al grado di regolamentazione del mercato del lavoro. La qualità di questi<br />
indicatori è stata migliorata nel tempo e la versione più aggiornata e qualitativamente<br />
migliore fa riferimento alla fine degli anni Novanta 3 .<br />
La figura 4-7 mostra come si posizionano i diversi paesi Ocse in base ad<br />
un indicatore generale di Epl, che tiene conto del grado di flessibilità dei rapporti<br />
di lavoro sia in entrata che in uscita. L’indice è il risultato della ponderazione<br />
di tre diverse componenti: i) la protezione dei lavoratori permanenti<br />
contro i licenziamenti (12 indici di base relativi a: procedure, notifiche<br />
e liquidazioni, difficoltà di licenziamento); ii) la regolamentazione delle forme<br />
di lavoro temporaneo (6 indici relativi a: contratti a termine, agenzie di<br />
lavoro interinale); iii) la regolamentazione dei licenziamenti collettivi.<br />
La combinazione dei diversi elementi porta alla definizione di un indice<br />
generale di Epl compreso fra 0 e 6 4 , sulla base del quale l’Italia si colloca ai<br />
2<br />
Per una rassegna esaustiva delle principali conclusioni raggiunte dalla letteratura teorica<br />
ed empirica negli ultimi anni, si veda Oecd, Employment Outlook 1999, pagg. 47-132.<br />
3<br />
Cfr. Oecd, Employment Outlook 1999, pp. 47-67.<br />
4<br />
Tutta la procedura seguita — dalla definizione degli indici di base, alla ponderazione<br />
effettuata per passare all’assegnazione del valore dell’indice finale — comporta naturalmente<br />
un certo grado di soggettività di cui occorre tener conto.<br />
151
Fig. 4-6 — Epl e tassi di occupazione nei paesi Ocse<br />
(a) Operaio medio senza carichi di famiglia, in dollari PPP.<br />
(b) Retribuzioni lorde più contributi a carico del datore di lavoro.<br />
Fonte: Oecd, Employment outlook, 1999 e 2001.<br />
Fig. 4-7 — Rigidità del mercato del lavoro<br />
(Range di rigidità 0 = bassa, 6 = alta)<br />
Fonte: Oecd, Employment outlook, 1999.<br />
152
primi posti, tra tutti i paesi Ocse, per il grado di protezione che il sistema accorda<br />
ai lavoratori, superata solamente da Portogallo e Grecia (fig. 4-6).<br />
Ordinamenti simili si ottengono anche andando a guardare gli indici di<br />
Epl più dettagliati, relativi a ciascuna delle tre componenti. La tabella 4-24<br />
mostra infatti come l’Italia presenti una grado di regolamentazione superiore<br />
alla media dei paesi Ocse sia per quanto riguarda la normativa sui singoli rapporti<br />
di lavoro (permanenti o temporanei), sia per quanto concerne la disciplina<br />
dei licenziamenti collettivi. Va in ogni caso notato come, tra la fine degli anni<br />
Ottanta e quella degli anni Novanta, il grado di rigidità relativo ai lavoratori<br />
temporanei sia diminuito in Italia in modo rilevante (circa 2 punti in un<br />
range che va da 0 a 6) grazie alla maggiore flessibilità introdotta nel periodo 5 .<br />
Risulta invece invariata la maggiore rigidità della normativa sui licenziamenti<br />
individuali dei lavoratori permanenti (2,8 in entrambi i perio-<br />
Tab. 4-24 — Le istituzioni a protezione dei lavoratori nei paesi Ocse<br />
(Range 0 = bassa; 6 = alta)<br />
Paesi<br />
Regolamentazione Regolamentazione Regolamentazione Indice<br />
lavoratori lavoratori licenziamenti generale<br />
permanenti temporanei collettivi di Epl<br />
Fine Fine Fine Fine Fine Fine<br />
anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90 anni ’90 anni ’90<br />
Austria 2,6 2,6 1,8 1,8 3,3 2,3<br />
Belgio 1,5 1,5 4,6 2,8 4,1 2,5<br />
Canada 0,9 0,9 0,3 0,3 3,4 1,1<br />
Corea n.d. 3,2 n.d. 2,1 1,9 2,5<br />
Danimarca 1,6 1,6 2,6 0,9 3,1 1,5<br />
Finlandia 2,7 2,1 1,9 1,9 2,4 2,1<br />
Francia 2,3 2,3 3,1 3,6 2,1 2,8<br />
Germania 2,7 2,8 3,8 2,3 3,1 2,6<br />
Giappone 2,7 2,7 n.d. 2,1 1,5 2,3<br />
Grecia 2,5 2,4 4,8 4,8 3,3 3,5<br />
Irlanda 1,6 1,6 0,3 0,3 2,1 1,1<br />
Italia 2,8 2,8 5,4 3,8 4,1 3,4<br />
Norvegia 2,4 2,4 3,5 2,8 2,8 2,6<br />
Olanda 3,1 3,1 2,4 1,2 2,8 2,2<br />
Portogallo 4,8 4,3 3,4 3,0 3,6 3,7<br />
Regno Unito 0,8 0,8 0,3 0,3 2,9 0,9<br />
Spagna 3,9 2,6 3,5 3,5 3,1 3,1<br />
Stati Uniti 0,2 0,2 0,3 0,3 2,9 0,7<br />
Svezia 2,8 2,8 4,1 1,6 4,5 2,6<br />
Fonte: Oecd, Employment Outlook 1999.<br />
5<br />
E tale riduzione dovrebbe proseguire anche nel prossimo futuro grazie alla recenti modifiche<br />
della normativa sui contratti a termine introdotta nello scorso mese di agosto in recepimento<br />
della direttiva Ue in materia.<br />
153
di considerati, preceduti solamente da Portogallo, Corea e Olanda). A questo<br />
riguardo, l’indicatore Ocse prende in considerazione separatamente tre<br />
aree principali di regolamentazione: i) il tipo di procedura burocratica necessaria<br />
per avviare il licenziamento individuale (si va dalla richiesta di un<br />
atto scritto motivato fino all’obbligo di coinvolgimento di un’autorità competente);<br />
ii) l’esistenza di un obbligo di preavviso e di buona uscita e il relativo<br />
ammontare; iii) le regole da seguire nel caso di licenziamento senza<br />
giusta causa. La normativa italiana risulta tra le più rigide per la maggior<br />
parte di questi aspetti (tab. 4-25), e soprattutto con riferimento alla normativa<br />
sul licenziamento ingiustificato.<br />
La disciplina La tutela del lavoratore ingiustamente licenziato è prevista in tutti gli<br />
dei licenziamenti ordinamenti giuridici dell’Unione europea, così come in Giappone e, in alindividuali<br />
cune ipotesi molto particolari, negli Stati Uniti 6 . L’esistenza di un motivo<br />
senza<br />
giusta causa<br />
per procedere al licenziamento è infatti ritenuta necessaria in tutti i pae-<br />
si considerati, con qualche eccezione in alcune fattispecie specifiche (solitamente<br />
i lavoratori nel periodo di prova). Limitando il confronto ai principali<br />
paesi europei, tutti gli ordinamenti vietano e considerano nullo innanzitutto<br />
ogni forma di licenziamento c.d. discriminatorio (sesso, razza, re-<br />
Tab. 4-25 — La rigidità della normativa sui licenziamenti individuali nell’area Ocse<br />
(Range 0 = bassa; 6 = alta)<br />
Paesi<br />
Inconvenienti Preavviso e Licenziamento<br />
burocratici buona uscita ingiustificato<br />
Indice generale<br />
licenziamenti<br />
individuali<br />
Fine Fine Fine Fine Fine Fine Fine Fine<br />
anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90<br />
Portogallo 4,0 3,5 5,0 5,0 5,5 4,5 4,8 4,3<br />
Norvegia 1,5 1,5 1,1 1,1 4,5 4,5 2,4 2,4<br />
Giappone 2,0 2,0 1,8 1,8 4,3 4,3 2,7 2,7<br />
Corea n.d. 3,8 n.d. 1,8 n.d 4,0 n.d 3,2<br />
Italia 1,5 1,5 2,9 2,9 4,0 4,0 2,8 2,8<br />
Svezia 3,0 3,0 1,7 1,6 3,8 3,8 2,8 2,8<br />
Germania 3,5 3,5 1,0 1,3 3,5 3,5 2,7 2,8<br />
Olanda 5,5 5,0 1,0 1,0 2,8 3,3 3,1 3,1<br />
Austria 2,5 2,5 2,0 2,0 3,3 3,3 2,6 2,6<br />
Spagna 4,8 2,0 3,1 2,6 3,8 3,3 3,9 2,6<br />
Francia 2,5 2,8 1,5 1,5 2,8 2,8 2,3 2,3<br />
Finlandia 4,8 2,8 1,9 1,4 1,5 2,3 2,7 2,1<br />
Danimarca 0,5 0,5 2,0 1,9 2,3 2,3 1,6 1,6<br />
Irlanda 2,0 2,0 0,8 0,8 2,0 2,0 1,6 1,6<br />
Canada 0,0 0,0 0,8 0,8 2,0 2,0 0,9 0,9<br />
Belgio 0,5 0,5 2,3 2,3 1,8 1,8 1,5 1,5<br />
Stati Uniti 0,0 0,0 0,0 0,0 0,5 0,5 0,2 0,2<br />
Regno Unito 1,0 1,0 1,1 1,1 0,3 0,3 0,8 0,8<br />
Fonte: Oecd, Employment Outlook 1999.<br />
6<br />
Negli Stati Uniti il licenziamento senza un particolare motivo è in linea generale ammissibile;<br />
nella pratica, tuttavia, questo principio viene attenuato dalla contrattazione collettiva,<br />
da leggi speciali per il pubblico impiego e dalla disciplina antidiscriminatoria (Equal Employment<br />
Opportunity principles).<br />
154
ligione, maternità, come pure lo svolgimento di attività sindacale). Al di fuori<br />
di questa ipotesi particolare, il riconoscimento della insussistenza di una<br />
causa «giusta» ai fini del licenziamento varia da paese a paese. Come illustra<br />
la tab. 4-26, si va da situazioni in cui l’incapacità del lavoratore o l’eccedenza<br />
di manodopera rappresentano una condizione sufficiente per giustificare<br />
il licenziamento, fino ai casi estremi in cui la capacità del lavora-<br />
Tab. 4-26 — La disciplina dei licenziamenti individuali senza giusta causa<br />
Paesi Cause di giustificazione Regime sanzionatorio<br />
Austria<br />
Danimarca<br />
Francia<br />
Germania<br />
Irlanda<br />
Italia<br />
Scarsa efficacia e competenza del lavoratore<br />
ma non in presenza di licenziamento<br />
socialmente ingiustificato (ovvero non deve<br />
colpire il lavoratore in modo comparativamente<br />
più sfavorevole rispetto agli altri<br />
lavoratori dell’azienda).<br />
Esigenze operative dell’impresa.<br />
Assenza di competenza del lavoratore. Eccedenza<br />
di manodopera.<br />
Inadempimento o incompetenza del lavoratore.<br />
Motivi economici legati all’organizzaznione<br />
del lavoro e altre esigenze d’impresa.<br />
Nell’ipotesi di eccedenza di manodopera,<br />
il datore di lavoro è tenuto a prendere<br />
in considerazione ipotesi alternative,<br />
offrire un programma di aggiornamento<br />
professionale, considerarli con priorità nel<br />
caso di nuove assunzioni.<br />
Incapacità o inidoneità fisica del lavoratore.<br />
Comportamenti scorretti sul lavoro.<br />
Motivi economici.<br />
Incompetenza e incapacità del lavoratore.<br />
Eccedenza di manodopera.<br />
Giusta causa ex art. 2119 cod. civile: in tutte<br />
le ipotesi in cui si verifica una causa che<br />
non consente la prosecuzione del rapporto.<br />
Giustificato motivo soggettivo ex art. 3 l.<br />
604/1996: notevole inadempimento del lavoratore,<br />
con obbligo di preavviso. Giustificato<br />
motivo oggettivo: ragioni tecniche,<br />
organizzative e della produzione, con obbligo<br />
di preavviso.<br />
In caso di licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro<br />
si considera come non interrotto e il lavoratore<br />
ha diritto alle retribuzioni arretrate (non è quindi necessario<br />
ordinare la reintegrazione). Nella pratica tuttavia<br />
tale opzione viene raramente scelta dal lavoratore<br />
che ha sempre la possibilità di ricevere in alternativa<br />
una indennità compensativa.<br />
Un ordine di reintegro è teoricamente possibile ma raro<br />
nella pratica. La possibilità è comunque esclusa in tutti<br />
i casi in cui venga dimostrata l’impossibilità per il datore<br />
di lavoro e il lavoratore di proseguire nella collaborazione.<br />
Il lavoratore ingiustamente licenziato riceve normalmente<br />
una somma a titolo di risarcimento che può<br />
arrivare fino ad un anno di retribuzione. Il pagamento<br />
della buona uscita avviene solo sotto certe ipotesi.<br />
La pronuncia di illegittimità del licenziamento può comportare<br />
da parte del giudice un ordine di reintegrazione<br />
del lavoratore nel posto di lavoro. Tuttavia il datore<br />
di lavoro può rifiutarsi di dar corso alla reintegrazione<br />
corrispondendo in via sostitutiva una indennità<br />
risarcitoria che va da un minimo di sei mesi fino ad un<br />
massimo di due anni. Per i lavoratori con meno di due<br />
anni di anzianità in imprese con meno di 11 dipendenti,<br />
il risarcimento avviene sulla base delle perdite effettivamente<br />
subite e senza un minimo stabilito.<br />
In caso di licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro<br />
si considera come non interrotto e il lavoratore<br />
ha diritto alle retribuzioni arretrate (non è quindi necessario<br />
ordinare la reintegrazione). Ciascuna delle<br />
parti può però chiedere la risoluzione del rapporto per<br />
inutilità della continuazione, attraverso il pagamento<br />
di una indennità — cumulativa della retribuzione —<br />
che può raggiungere al massimo 18 mensilità.<br />
L’autorità giudicante può stabilire a sua discrezione la<br />
reintegrazione, la collocazione in altro posto di lavoro o<br />
il risarcimento del danno per il lavoratore (massimo ammontare<br />
dell’indennità: 104 settimane). Non è richiesto<br />
il consenso del datore di lavoro per la reintegrazione.<br />
Unità produttive con almeno 16 dipendenti (più di 5<br />
in agricoltura) e comunque tutte le imprese con più di<br />
60: se il giudice attesta la illegittimità del licenziamento<br />
il lavoratore può chiedere la reintegrazione nel<br />
posto di lavoro (a cui si aggiungono al massimo 5 mensilità)<br />
oppure optare per una indennità risarcitoria di<br />
15 mesi di retribuzione.<br />
Per le imprese non incluse nell’ipotesi precedente: il datore<br />
di lavoro può optare fra reintegrazione e pagamento<br />
di una indennità risarcitoria variabile fra i 2,5 e i 6 mesi<br />
in funzione dell’anzianità aziendale del lavoratore e<br />
della dimensione dell’impresa. Il risarcimento può però<br />
arrivare fino a 10 e 14 mensilità rispettivamente per i<br />
lavoratori con anzianità superiore a 10 e 20 anni.<br />
155
segue tab. 4-26<br />
Paesi Cause di giustificazione Regime sanzionatorio<br />
Olanda<br />
Portogallo<br />
Regno Unito<br />
Spagna<br />
Cattiva condotta o inidoneità del lavoratore.<br />
Eccedenza di manodopera: in questo caso<br />
l’impresa è tenuta a provare, attraverso<br />
i dati finanziari, di aver preventivamente<br />
considerato tutte le possibili alternative<br />
al licenziamento e deve inoltre spiegare<br />
il criterio sulla base del quale sono<br />
stati selezionati i lavoratori da licenziare.<br />
Motivi disciplinari e, solo a partire dalla fine<br />
degli anni ’80, anche ragioni economiche<br />
o per incapacità o incompetenza del lavoratore.<br />
Il licenziamento per eccedenza di<br />
manodopera è però condizionato alla sussistenza<br />
di necessità gravi, mentre quello<br />
per incompetenza del lavoratore è possibile<br />
solo successivamente all’introduzione di<br />
nuove tecnologie e a condizione che il datore<br />
di lavoro abbia approntato adeguati<br />
corsi di aggiornamento professionale.<br />
Motivi inerenti il comportamento del lavoratore.<br />
Mancanza di capacità o di qualificazione<br />
(titoli) del dipendente relativamente<br />
all’attività per cui è stato assunto. Impossibilità<br />
di continuare il lavoro senza contravvenire<br />
alla legge. Motivi economici. Ogni altra<br />
ragione «sostanziale». Sono necessari<br />
due anni di anzianità aziendale affinchè si<br />
possa parlare di licenziamento ingiusto.<br />
Motivi disciplinari: assenza ripetuta e ingiustificata;<br />
violazione obblighi disciplina;<br />
offese; violazione buona fede; scarso rendimento.<br />
Motivi oggettivi: impossibilità sopravvenuta;<br />
inidoneità rispetto alla riorganizzazione<br />
aziendale; soppressione posto di lavoro;<br />
assenza prolungata.<br />
La risoluzione del contratto deve essere preventivamente<br />
autorizzata dall’autorità amministrativa competente.<br />
Si sta tuttavia recentemente assistendo a una<br />
progressiva erosione di tale procedura. Qualora invochi<br />
ragioni particolarmente gravi, l’imprenditore può infatti<br />
procedere al licenziamento anche senza attendere la<br />
prescritta autorizzazione e i più recenti orientamenti<br />
guirisprudenziali riconoscono alla parte datoriale la<br />
possibilità di liberarsi dal vincolo contrattuale corrispondendo<br />
semplicemente un’indennità risarcitoria.<br />
Il lavoratore può richiedere la reintegrazione nel posto<br />
di lavoro e ha diritto alla restituzione delle retribuzioni<br />
arretrate a partire dalla data di licenziamento.<br />
In via sostitutiva il lavoratore può tuttavia sempre<br />
optare per una indennità risarcitoria pari ad un mese<br />
di retribuzione di base per ogni anno di servizio,<br />
che non può però ma essere inferiore a 3 mensilità.<br />
Il tribunale può ordinare la reintegrazione, la riassunzione<br />
(in un impiego paragonabile) del lavoratore<br />
o una indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non è<br />
però obbligato ad accettare la reintegrazione. Esistono<br />
tre opzioni risarcitorie: i) basic award (fino a GBP<br />
6300), ii) compensatory award (fino a GBP 12000), iii)<br />
special award. In ogni caso il lavoratore ha diritto alle<br />
retribuzione arretrate.<br />
Dal 1997 il sistema spagnolo consente la quantificazione<br />
anticipata del costo del licenziamento illegittimo come<br />
strumento per incentivare i rapporti a tempo indeterninato.<br />
Il lavoratore ha diritto di richiedere la reintegrazione<br />
nel posto di lavoro, ma il datore di lavoro può<br />
opporre un rifiuto motivato corrispondendogli un’indennità<br />
pari a 45 giornate lavorative per ogni anno di anzianità<br />
(fino alla concorrenza di 42 mensilità), più gli arretrati.<br />
Per quanto riguarda i danni lamentati per mancata<br />
(o irregolare) reintegrazione, può essere determinata<br />
un’ulteriore indennità fino ad un massimo di 15 giorni<br />
per anno di lavoro, senza superare le 12 mensilità.<br />
Fonte: Oecd, Employment Outlook 1999; European commission, Termination of employment relationships, 1997.<br />
tore non può mai costituire motivo di licenziamento. In questo ambito l’Italia<br />
si colloca fra i paesi meno restrittivi, mentre all’interno dell’Unione<br />
europea requisiti più stringenti si ravvisano in Germania, Spagna e Portogallo.<br />
Nel confronto europeo, la maggiore rigidità della regolamentazione italiana<br />
in materia di licenziamento ingiustificato appare invece con riferimento<br />
al regime sanzionatorio. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970)<br />
stabilisce, per le imprese al di sopra di una certa soglia dimensionale 7 ,che,<br />
con la sentenza di illegittimità del licenziamento, il giudice ordini al datore<br />
7<br />
Si tratta delle unità produttive con più di 15 dipendenti (più di 5 per le imprese agricole),<br />
ovvero dei datori di lavoro (imprenditori o meno) con più di 15 dipendenti nell’ambito<br />
dello stesso Comune, ovvero ancora dei datori di lavoro che occupano complessivamente più<br />
di 60 dipendenti a prescindere dall’ubicazione.<br />
156
di lavoro interessato di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e di corrispondergli<br />
le retribuzioni arretrate non percepite. L’opzione della reintegrazione<br />
può essere sostituita dal pagamento di una indennità pari a 15 mensilità<br />
ma solo su richiesta del lavoratore.<br />
La possibilità di reintegrazione (o istituti analoghi) è prevista, almeno<br />
in via di principio, anche nella maggior parte degli altri paesi europei<br />
ma, a differenza del caso italiano, il datore di lavoro ha quasi sempre<br />
la facoltà di opporsi al reinserimento del lavoratore nel proprio organico<br />
per l’impossibilità della continuazione del rapporto. È il caso ad esempio<br />
della Germania in cui, nell’ipotesi di licenziamento ingiustificato, la<br />
tutela reale è in linea di principio garantita dal fatto che il rapporto di<br />
lavoro si considera come non interrotto e il lavoratore ha diritto a tutte<br />
le retribuzioni arretrate. Tuttavia, qualora non vi sia più interesse alla<br />
prosecuzione del rapporto di collaborazione sia il datore che il lavoratore<br />
possono optare per una indennità sostitutiva pari a 18 mensilità. Analogamente<br />
in Francia il giudice può stabilire la reintegrazione, ma entrambe<br />
le parti in causa possono rifiutarla. Gli unici paesi che, al pari dell’Italia,<br />
legano la possibilità del reintegro alla sola volontà del lavoratore sono<br />
l’Austria e il Portogallo.<br />
I LAVORATORI NON COPERTI DALL’ARTICOLO 18<br />
DELLO STATUTO DEI LAVORATORI<br />
Le classifiche dell’Ocse posizionano l’Italia tra i paesi più rigidi in materia di regolamentazione<br />
del mercato del lavoro. Nel contempo, l’Italia si caratterizza tradizionalmente nel confronto<br />
europeo per la forte incidenza dell’occupazione autonoma (circa il 27% dell’occupazione totale rispetto<br />
ad una media europea del 14%) e del lavoro nero (circa il 15% secondo le ultime stime dell’Istat)<br />
e per la prevalenza delle imprese di piccola dimensione. Tutti questi fenomeni possono essere,<br />
almeno in parte, interpretati come una risposta alla eccessiva rigidità del mercato del lavoro.<br />
Le normative a cui si fa normalmente riferimento per misurare il grado di rigidità dei rapporti<br />
di lavoro riguardano in modo pressochè esclusivo i lavoratori dipendenti a carattere permanente,<br />
occupati nelle imprese con più di 15 dipendenti; i c.d. insiders.<br />
Nella tavola seguente si è cercato di quantificare il fenomeno dell’occupazione non coperta dalle<br />
tutele dello Statuto dei lavoratori. In particolare si è cercato di individuare quella parte di occupazione<br />
che per legge (i dipendenti delle imprese fino a 15 dipendenti, i lavoratori temporanei<br />
così come i lavoratori delle associazioni di rappresentanza di interessi) o per natura intrinseca (i<br />
lavoratori autonomi e quelli irregolari) non rientra nell’area di applicazione dell’articolo 18.<br />
L’individuazione delle varie categorie non coperte da questa particolare norma richiede tuttavia<br />
la combinazione di informazioni non sempre omogenee in quanto desunte da basi statistiche<br />
differenti. In particolare è stato necessario ricorrere a tre fonti principali di dati: la contabilità nazionale<br />
che rappresenta l’unica base informativa per quantificare il peso dei lavoratori irregolari;<br />
l’indagine sulle forze di lavoro per calcolare il numero di occupati con contratto a termine; il censimento<br />
industria e servizi per individuare il numero di lavoratori nelle imprese con meno di 16<br />
dipendenti. L’eterogeneità delle fonti utilizzate comporta naturalmente un certo grado di cautela<br />
nel confronto dei vari aggregati. In primo luogo, la definizione di occupati della contabilità nazionale<br />
è diversa da quella adottata nelle forze di lavoro: mentre queste ultime rilevano esclusivamente<br />
la popolazione residente, la contabilità nazionale utilizza una definizione di occupati più ampia<br />
(c.d. occupati interni) che include tutte le persone, dipendenti ed indipendenti, che esercitano<br />
un’attività produttiva sul territorio nazionale a prescindere dalla propria residenza, inclusi i lavoratori<br />
in Cassa integrazione 8 . Ciò si traduce in un forte divario fra gli occupati (residenti) misurati<br />
dall’indagine sulle forze di lavoro (circa 21,5 milioni di lavoro nel 2001) e quelli stimati dalla<br />
contabilità nazionale (circa 23,5 milioni).<br />
8<br />
A differenza dell’indagine sulle forze di lavoro, l’occupazione di contabilità nazionale include anche gli<br />
occupati dimoranti in convivenze e i militari di leva.<br />
157
In secondo luogo, l’occupazione di contabilità nazionale viene misurata sia in termini di persone<br />
occupate che con riferimento alle c.d. unità di lavoro standard. Queste ultime sono ottenute<br />
attraverso la somma delle posizioni lavorative a tempo pieno e di quelle a tempo parziale (principali<br />
o secondarie) trasformate a tempo pieno e registrano di conseguenza anche i doppi lavori. Come<br />
si evince dalla tavola 1, per quasi tutti gli aggregati selezionati la differenza fra persone occupate<br />
e unità di lavoro non appare in genere molto rilevante; l’unica eccezione è rappresentata<br />
dall’occupazione autonoma regolare, per la quale le unità di lavoro risultano molto superiori (circa<br />
un milione di unità aggiuntive) al corrispondente numero di persone occupate. Questa evidenza<br />
suggerisce una forte presenza dei secondi lavori: ipotizzando che ciascun secondo lavoro prenda<br />
la forma di un’occupazione a tempo parziale, il milione di unità di lavoro in più si tradurrebbe<br />
in due milioni circa di lavoratori con una seconda occupazione di tipo autonomo.<br />
Tutti questi elementi di differenziazione di ordine metodologico vanno tenuti presenti nell’esame<br />
della tavola 1; i dati mostrano ad ogni modo con chiarezza che gli occupati al di fuori dell’area<br />
di protezione dello Statuto dei lavoratori rappresentano più della metà dei lavoratori complessivi.<br />
Si tratta di quasi 13,5 (14,5 in termini di unità di lavoro) milioni di persone su poco più<br />
di 23 milioni di occupati totali. Di questi: 5,5 milioni hanno un’occupazione autonoma regolare, 3,4<br />
milioni sono irregolari, quasi 3 milioni lavorano nelle imprese fino a 15 dipendenti, mentre circa<br />
1,5 milioni hanno un contratto a termine. L’area di protezione dell’art.18 riguarda quindi circa 9<br />
milioni di lavoratori, costituiti dai dipendenti pubblici e da quelli operanti nelle imprese oltre la<br />
soglia dei 15 dipendenti.<br />
Tab. 1 — Gli occupati non coperti dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori<br />
(Anno 2000)<br />
Unità di lavoro<br />
Persone occupate<br />
1) Occupati totali 23.494.600 23.129.200<br />
Non coperti dall’articolo 18:<br />
2) Lavoratori irregolari 3.538.000 3.404.270<br />
Dipendenti 2.960.000 2.830.000<br />
Indipendenti 578.000 574.270<br />
3) Lavoratori autonomi regolari 6.470.000 5.470.630<br />
4) Dipendenti delle imprese fino a 15 dipendenti (a) 2.900.000<br />
5) Lavoratori a termine (a) 1.530.000<br />
6) Altri (b) 45.400<br />
7) Totale (=2+3+4+5+6) 14.483.400 13.350.300<br />
8) In % occupazione totale (=7:1*100) 62% 58%<br />
9) Dipendenti Amministrazioni pubbliche (c) 3.536.800<br />
10) Dipendenti delle imprese > 15 dipendenti (a) 5.474.400<br />
(a) Non essendo disponibili le unità di lavoro, i dati si riferiscono solamente alle persone occupate.<br />
(b) Dipendenti di partiti politici, associazioni sindacali e di rappresentanza di interessi<br />
(c) Dati espressi solo in unità di lavoro. Sono inclusi i militari di leva.<br />
Fonte: Istat, Conti nazionali; Istat, Indagine forze di lavoro; Istat, Censimento intermedio industria e servizi<br />
1996; Istat, Indagine sul no-profit.<br />
Il trattamento di Nel confronto europeo, il sistema italiano di ammortizzatori sociali si<br />
disoccupazione caratterizza per la scarsa generosità e durata dei trattamenti mediamente<br />
in Italia previsti contro il rischio di disoccupazione. Secondo gli ultimi dati diffusi<br />
e nei principali da Eurostat, nel 1999 le prestazioni a protezione dei disoccupati ammonpaesi<br />
europei tavano in Italia allo 0,5% del Pil, rispetto ad una media europea dell’1,8%<br />
(2% nell’area euro) con l’Irlanda all’1,6, Francia e Germania rispettivamente<br />
158
al 2,1 e al 2,5, la Danimarca al 3,2% 9 . Al pari della maggior parte dei paesi<br />
europei, l’Italia possiede innanzitutto uno schema generale di base (l’Indennità<br />
di disoccupazione ordinaria con requisiti pieni), disponibile per tutti<br />
i lavoratori dipendenti che, avendo maturato una certa anzianità lavorativa<br />
e contributiva 10 , perdono involontariamente 11 il proprio posto di lavoro.<br />
Il meccanismo è sostanzialmente simile tra i diversi paesi, mentre forti<br />
discrepanze si registrano con riferimento all’ammontare concesso e alla<br />
durata del trattamento 12 . In Italia l’indennità ordinaria prevede la corresponsione<br />
del 40% dell’ultima retribuzione, per un periodo non superiore a<br />
180 giorni. Negli altri paesi europei (tab. 4-27 per i dettagli) l’entità e la<br />
durata del sussidio di disoccupazione sono mediamente superiori a quelle<br />
italiane e, soprattutto, tendono a differenziarsi sensibilmente in funzione<br />
dell’età e dell’anzianità contributiva del beneficiario. In quasi tutti i paesi<br />
considerati l’indennità ordinaria di disoccupazione viene finanziata attraverso<br />
un sistema contributivo a cui concorrono solitamente sia il lavoratore<br />
che il datore di lavoro (cfr. tab. 4-27 per le aliquote applicate da ciascun<br />
paese). In Italia l’indennità ordinaria viene finanziata esclusivamente con<br />
i contributi del datore di lavoro (1,61% del monte retributivo).<br />
Nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa nel settore<br />
industriale, trova inoltre applicazione la Cassa integrazione guadagni (ordinaria<br />
e straordinaria) che, a differenza del trattamento ordinario di disoccupazione,<br />
punta a prevenire la perdita del posto di lavoro attraverso l’integrazione<br />
del reddito dei lavoratori nei periodi congiunturali sfavorevoli (Cig<br />
ordinaria) o durante le fasi di ristrutturazione aziendale (Cig straordinaria).<br />
Questi due strumenti hanno generalmente incontrato il favore delle imprese<br />
13 ed hanno consentito di superare i processi di ristrutturazione degli anni<br />
Ottanta. I lavoratori che beneficiano del trattamento di Cassa integrazione<br />
restano formalmente occupati nell’impresa che ne ha ridotto o sospeso<br />
l’attività, sulla base del presupposto che nel frattempo vengano a ricrearsi<br />
le condizioni per il ripristino della prestazione lavorativa ordinaria. La gestione<br />
ordinaria della Cig è finanziata esclusivamente dai datori di lavoro<br />
con aliquote di contribuzione che si differenziano sulla base della dimensione<br />
aziendale: le imprese fino a 50 dipendenti versano un contributo dell’1,9%<br />
del proprio monte retributivo, mentre quelle di dimensione maggiore contribuiscono<br />
con il 2,2%. Il finanziamento della Cig straordinaria avviene invece<br />
con il contributo sia delle imprese (0,6%) che dei lavoratori (0,3%). Tenendo<br />
conto anche dei versamenti dovuti per il trattamento ordinario di disoccupazione<br />
(1,61%), l’aliquota contributiva complessiva a carico delle imprese<br />
di medio-grande dimensione è pari quindi al 4,41% 14 .<br />
9<br />
Cfr. Eurostat, Social protection; Expenditure and Receipts 1980-1999, Luxembourg,<br />
2001.<br />
10<br />
Per una panoramica dettagliata sul funzionamento dell’indennità di disoccupazione in<br />
Italia e nei principali paesi europei si veda la tab. 4-27.<br />
11<br />
L’esclusione dal trattamento di disoccupazione per i lavoratori che si dimettono volontariamente<br />
è stata introdotta in realtà solamente a partire dalla finanziaria del 2000.<br />
12<br />
Va inoltre ricordato che in molti paesi europei, il sussidio ordinario di disoccupazione<br />
(normalmente di tipo assicurativo) è accompagnato da un ulteriore strumento di assistenza ai<br />
disoccupati (finanziato dalla fiscalità generale) previsto per coloro che hanno superato il periodo<br />
massimo di corresponsione del sussidio ordinario e si trovano in condizioni di necessità.<br />
13<br />
La Cig straordinaria è stata estesa anche alle imprese commerciali con più di 50 dipendenti.<br />
14<br />
Per le imprese che si avvalgono effettivamente della Cig, è previsto inoltre un contributo<br />
addizionale pari all’8% (4% nelle imprese fino a 50 dipendenti) dell’integrazione salariale<br />
erogata nel caso di Cig ordinaria, e al 4,5% (3% nelle imprese fino a 50 dipendenti) nel caso<br />
di Cig straordinaria.<br />
159
Tab. 4-27 — Il trattamento di disoccupazione ordinaria nei principali paesi europei<br />
Paesi Copertura Finanziamento Condizioni di eligibilità Ammontare Durata<br />
Austria<br />
Danimarca<br />
Francia<br />
Germania<br />
Irlanda<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti<br />
Assicurato: 3%<br />
retribuzione.<br />
retribuiti, gli Datore di lavoro:<br />
apprendisti e i<br />
3% monte<br />
partecipanti a retributivo.<br />
corsi di riqualificazione.<br />
Governo: qua-<br />
Sono lunque deficit e<br />
esclusi i dipendenti<br />
pubblici.<br />
L’assicurazione<br />
non è però<br />
obbligatoria se<br />
si guadagnano<br />
meno di 289 euro<br />
al mese.<br />
assistenza<br />
emergenza.<br />
di<br />
Lavoratori dipendenti<br />
e autonomi,<br />
partecipanti<br />
a corsi<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti,<br />
inclusi gli<br />
apprendisti.<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti<br />
e gli apprendisti<br />
di almeno 16<br />
anni di età, fatta<br />
eccezione<br />
per i funzionari<br />
pubblici assunti<br />
prima del 6-<br />
4-1995 e le persone<br />
che guadagnano<br />
meno<br />
di 38 euro alla<br />
settimana.<br />
In linea di principio<br />
i sussidi<br />
sono pagati dallo<br />
Stato. Tuttavia<br />
i contributi<br />
degli assicurati<br />
di formazione<br />
da almeno 18<br />
mesi, reclute, (una aliquota<br />
membri del unica, fissata a<br />
Parlamento. cadenza annuale)<br />
e dei datori<br />
di lavoro coprono<br />
le spese<br />
statali, inclusi i<br />
prepensionamenti.<br />
Assicurato:<br />
2,10% per redditi<br />
mensili fino<br />
a 2.279 euro;<br />
2,60% per redditi<br />
fino a 9.116<br />
euro.<br />
Datore di lavoro:<br />
3,70% per<br />
entrambe le fasce<br />
di reddito.<br />
Assicurato:<br />
3,25%.<br />
Datore di lavoro:<br />
3,25%.<br />
Non esiste una<br />
aliquota specifica<br />
per l’indennità<br />
di disoccupazione,<br />
ma<br />
un’aliquota<br />
unica di contribuzione<br />
al sistema<br />
complessivo<br />
di protezione<br />
sociale.<br />
Contributi: 26 settimane di<br />
contribuzione negli ultimi<br />
12 mesi o, nel caso di prima<br />
richiesta, 52 settimane negli<br />
ultimi 24 mesi.<br />
Altri requisiti: registrazione<br />
all’ufficio di collocamento,<br />
disponibile al lavoro, stato<br />
di disoccupazione non dovuto<br />
a dimissioni, a cattiva<br />
condotta o al rifiuto di un offerta<br />
adeguata.<br />
Contributi: 52 settimane negli<br />
ultimi 3 anni.<br />
Altri requisiti: partecipazione<br />
al fondo disoccupazione<br />
da almeno 1 anno; essere disoccupati<br />
involontario; cercare<br />
attivamente lavoro;<br />
iscrizione collocamento; disponibilità<br />
al lavoro.<br />
Contributi: 4 mesi di assicurazione<br />
negli ultimi 8 mesi.<br />
Altri requisiti: disoccupato<br />
involontario e non stagionale;<br />
abile al lavoro e in cerca<br />
attivamente di un’occupazione;<br />
registrato al collocamento;<br />
< 60 anni (con alcune<br />
eccezioni).<br />
Contributi: almeno 12 mesi<br />
di contribuzione negli ultimi<br />
3 anni.<br />
Altri requisiti: essere sanza<br />
lavoro e alla ricerca di un’occupazione;<br />
essere registrato<br />
al collocamento come disoccupato.<br />
Contributi: 39 settimane.<br />
Altri requisiti: essere registrato<br />
come disoccupato; essere<br />
disponibili e abili al lavoro<br />
e ricercarlo attivamente.<br />
Tra il 40 e il 50% della<br />
retribuzione, a seconda<br />
del livello salariale.<br />
Sussidio minimo<br />
giornaliero: 4,25<br />
euro. Sussidio massimo<br />
giornaliero: 36 euro.<br />
90% retribuzione media<br />
degli ultimi 12 mesi,<br />
al di sotto di un<br />
massimale di 383 euro<br />
alla settimana. I<br />
giovani che hanno appena<br />
terminato corsi<br />
di formazione di almeno<br />
18 mesi o il servizio<br />
militare: fino al 314<br />
euro.<br />
40,4% del salario giornaliero<br />
+ 9,26 euro al<br />
giorno oppure il<br />
57,4% del salario giornaliero.<br />
Il tasso viene<br />
ridotto a cadenza quadrimestrale,<br />
ma viene<br />
comunque garantito<br />
un minimo di 16 euro<br />
al giorno (21 euro se ><br />
52 anni).<br />
Disoccupati con figli:<br />
67% retribuzione netta.<br />
Disoccupati senza figli:<br />
53% retribuzione<br />
netta.<br />
93 euro alla settimana.<br />
Dipende dal numero<br />
di contributi e dall’età,<br />
variando da un<br />
minimo di 20 ad un<br />
massimo di 52 settimane<br />
(209 se il disoccupato<br />
aderisce a speciali<br />
misure di formazione).<br />
La prima richiesta<br />
dura 1 anno; la seconda<br />
dura 3 anni ma obbliga<br />
il disoccupato a<br />
partecipare a varie<br />
misure di politica attiva.<br />
Per i disoccupati al<br />
di sotto dei 25 anni il<br />
sussidio è limitato a 6<br />
mesi la prima volta, a<br />
3,5 mesi la seconda.<br />
Si va da un minimo di<br />
4 mesi ad un massimo<br />
di 60, in funzione dell’età<br />
e dell’anzianità<br />
contributiva.<br />
Si va da un minimo di<br />
6 mesi ad un massimo<br />
di 32 in funzione dell’età<br />
e dell’anzianità<br />
contributiva.<br />
390 giorni. Se però il<br />
disoccupato ha 65 anni<br />
e ha pagato 156 settimane<br />
di contributi,<br />
riceve il sussidio fino<br />
al compimento dei 66<br />
anni (anno di pensionamento).<br />
160
Tab. 4-25 — La rigidità della normativa sui licenziamenti individuali nell’area Ocse<br />
(Range 0 = bassa; 6 = alta)<br />
Paesi Copertura Finanziamento Condizioni di eligibilità Ammontare Durata<br />
Italia<br />
Portogallo<br />
Regno Unito<br />
Spagna<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti<br />
non agricoli.<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti<br />
assicurati.<br />
Tutti i lavoratori<br />
dipendenti<br />
Lavoratori dipendenti<br />
nell’industria<br />
e nei<br />
servizi<br />
Assicurato:<br />
nessun contributo.<br />
Datore di lavoro:<br />
1,61%.<br />
Non esiste una<br />
aliquota specifica<br />
per l’indennità<br />
di disoccupazione,<br />
ma<br />
un’aliquota<br />
unica di contribuzione<br />
al sistema<br />
complessivo<br />
di protezione<br />
sociale.<br />
Non esiste una<br />
aliquota specifica<br />
per l’indennità<br />
di disoccupazione,<br />
ma<br />
un’aliquota<br />
unica di contribuzione<br />
al sistema<br />
complessivo<br />
di protezione<br />
sociale<br />
Assicurato:<br />
1,55%.<br />
Datore di lavoro:<br />
6%.<br />
Contributi: 2 anni di assicurazione<br />
e 52 settimane di<br />
contributi negli ultimi 2 anni.<br />
Altri requisiti: registrazione<br />
al collocamento.<br />
Contributi: almeno 540 giorni<br />
di lavoro retribuito nei 24<br />
mesi precedenti lo stato di<br />
disoccupazione.<br />
Altri requisiti: essere abile e<br />
disponibile al lavoro; essere<br />
registrato al collocamento;<br />
non essere titolare di pensione<br />
di invalidità o vecchiaia.<br />
Contributi: devono essere<br />
pagati in uno dei 2 anni fiscali<br />
precedenti la richiesta<br />
di indennità e per un ammontare<br />
pari ad almeno 25<br />
volte il minimo contributivo.<br />
Altri requisiti: disoccupazione<br />
involontaria; essere abile<br />
e disponibile al lavoro; essere<br />
attivamente alla ricerca<br />
di un lavoro; non aver lavorato<br />
per più di 16 ore settimanali;<br />
non essere uno studente<br />
full-time.<br />
Contributi: almeno 12 mesi<br />
nei 6 mesi precedenti lo stato<br />
legale di disoccupazione.<br />
Altri requisiti: disoccupazione<br />
involontaria; abilità e disponibilità<br />
al lavoro; disponibilità<br />
verso l’ufficio di collocamento;<br />
adesione ai sistemi<br />
di sicurezza sociale.<br />
40% ultima retribuzione<br />
al di sotto di un<br />
massimale di 745 (895<br />
euro) per i redditi inferiori<br />
(superiori) ai<br />
1611 euro.<br />
65% del salario di riferimento.<br />
18-24 anni: 65 euro a<br />
settimana. > 24 anni:<br />
82 euro.<br />
70% della retribuzione<br />
per i primi 180<br />
giorni e 60% successivamente<br />
180 giorni.<br />
Si va da un minimo di<br />
12 ad un massimo di<br />
30 mesi in funzione<br />
dell’età.<br />
182 giorni.<br />
Si va da un minimo di<br />
4 mesi ad un massimo<br />
di 2 anni a seconda<br />
dell’anzianità contributiva.<br />
Fonte: Missoc (Mutual Information System on Social Protection in the Eu Member States and the Eea).<br />
Nel caso di licenziamenti per riduzione del personale, cessazione di attività<br />
o estinzione del periodo di Cassa integrazione, i lavoratori dell’ industria<br />
(solo le imprese con almeno 16 dipendenti, fatta eccezione per quelle<br />
edili) e quelli appartenenti più in generale ad imprese commerciali con più<br />
di 200 dipendenti possono inoltre ricevere il Trattamento di mobilità (istituito<br />
nel 1991) che assicura agli aventi diritto un sussidio di entità doppia<br />
(80% dell’ultima retribuzione per il primo anno e 64% per il periodo successivo)<br />
rispetto all’indennità ordinaria con requisiti pieni (40%) e di durata molto<br />
più consistente (si può arrivare fino a quattro anni contro i nove mesi a<br />
cui, sotto speciali condizioni, può giungere l’indennità ordinaria) 15 . Trattamenti<br />
speciali esistono inoltre per gli operai agricoli ed edili.<br />
15<br />
L’introduzione della mobilità e la sua regolamentazione trovano però una giustificazione<br />
nella contestuale riforma dei licenziamenti collettivi.<br />
161
Va infine ricordata l’importante funzione di ammortizzatore sociale<br />
svolta dai prepensionamenti (che, insieme alla Cassa integrazione straordinaria,<br />
ha rappresentato lo strumento tipico con cui sono stato affrontate<br />
negli anni passati le eccedenze di manodopera) e dall’istituto del trattamento<br />
di fine rapporto. L’entità delle prestazioni e dei contributi per ciascuna<br />
delle politiche passive del lavoro è illustrata nella tab. 4-28; i dati si<br />
riferiscono al 2001.<br />
Il sistema italiano di tutela dei lavoratori contro il rischio della disoccupazione<br />
appare quindi molto frammentato, frutto di una stratificazione<br />
normativa in atto fin dal secondo dopoguerra. La protezione accordata non<br />
è infatti omogenea per tutti i lavoratori, differenziandosi al contrario per<br />
settore economico, dimensione d’impresa e situazione soggettiva del soggetto<br />
coinvolto (età, anzianità aziendale, qualifica professionale). L’insieme<br />
di istituti attualmente in vigore appare inoltre legato ad un assetto normativo<br />
del mercato del lavoro che, attraverso una normativa restrittiva dei<br />
licenziamenti, privilegia la protezione di coloro che, già avendo un’occupazione,<br />
rischiano di perderlo piuttosto di chi è fuori del mercato (giovani in<br />
cerca di prima occupazione o disoccupati di lungo periodo) e cerca di entrarvi,<br />
necessitando in questo caso di un mercato con molteplici opportunità<br />
d’ingresso e tempi brevi di ricerca. Si tratta infine di un complesso di<br />
regole incentrato sulla figura tradizionale del lavoratore stabile con contratto<br />
a tempo indeterminato che non prende in considerazione, se non marginalmente,<br />
le nuove forme di lavoro che sono andate diffondendosi a ritmi<br />
crescenti negli ultimi anni. Gli strumenti esistenti sono infatti accomunati<br />
dal fatto di restringere la concessione dei benefici solamente a coloro<br />
che sono stati occupati per un periodo non marginale di tempo (almeno due<br />
anni nel caso dell’indennità ordinaria con requisiti pieni) e hanno versato<br />
un certo numero di mesi di contribuzione 16 .<br />
Nel panorama europeo, le riforme introdotte nell’ultimo decennio in<br />
materia di ammortizzatori sociali hanno puntato innanzitutto a rendere più<br />
selettivi gli strumenti già esistenti di sostegno al reddito dei disoccupati<br />
attraverso criteri di eleggibilità più severi e meccanismi più forti di incentivazione<br />
del disoccupato a ricercare un nuovo lavoro. L’obiettivo è stato cercare<br />
di ridurre fortemente gli effetti disincentivanti sull’offerta di lavoro<br />
provocati spesso dall’esistenza di un sussidio. Parallelamente si è cercato<br />
di rendere più efficaci le politiche attive di sostegno alle persone in cerca<br />
di lavoro, sia migliorando il funzionamento degli uffici pubblici per l’impiego<br />
sia, soprattutto, attraverso programmi di formazione o riqualificazione<br />
professionale resi obbligatori per tutti i disoccupati (e opportunamente<br />
sanzionati in caso di inadempienza) 17 .<br />
Un esempio di successo a questo riguardo appare il caso danese. Oltre<br />
ad aver reso più selettivo il sistema di sussidi per i disoccupati e ad aver-<br />
16<br />
L’unica eccezione è rappresentata dall’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti,<br />
introdotta sul finire degli anni Ottanta proprio per garantire una qualche forma di sostegno<br />
anche a chi perde il proprio posto di lavoro ma non possiede ancora i requisiti «pieni» per<br />
la natura stagionale o comunque temporanea dell’occupazione precedentemente posseduta. In<br />
questo caso la concessione del trattamento è condizionata solamente all’aver avuto un’occupazione<br />
per un minimo di 78 giorni nell’anno precedente il licenziamento ma l’ammontare erogato<br />
è molto basso. I dati mostrano negli anni più recenti una tendenza all’aumento del ricorso<br />
a questa forma di sostegno al reddito, coerentemente con l’incremento avvenuto nelle<br />
forme di lavoro flessibile.<br />
17<br />
La promozione delle politiche attive nel mercato del lavoro costituisce d’altra parte<br />
uno dei pilastri fondamentali nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione per aumentare<br />
in modo consistente il tasso di occupazione nei paesi Ue.<br />
162
Tab. 4-28 — Politiche passive del lavoro: prestazioni e contributi per tipologia di trattamento<br />
2001<br />
(Valori assoluti in migliaia di euro)<br />
Spese complessive<br />
Entrate<br />
Trattamenti<br />
Copertura<br />
Prestazioni<br />
figurativa<br />
Contributi<br />
Saldo<br />
Cig ordinaria 260 145 2095 1690<br />
Cig straordinaria 344 189 764 231<br />
Cassa integrazione per i lavoratori agricoli (Cisoa) 9 0 27 18<br />
Indennità di mobilità 800 502 438 –864<br />
Indennità disoccupazione edile 116 60 62 –114<br />
Indennità disoccupazione non agricola requisiti<br />
pieni 666 628 2606 137<br />
Indennità disoccupazione non agricola requisiti<br />
ridotti 519 656<br />
Indennità disoccupazione agricola 1235 416 99 –1552<br />
Lavori socialmente utili 244 0 0 –244<br />
Prepensionamenti 791 35 0 –826<br />
Totale 4984 2631 6091 –1524<br />
Fonte: Ministero del lavoro, Rapporto di monitoraggio 2/2001.<br />
ne ridotto la durata complessiva, la Danimarca ha investito negli ultimi<br />
anni risorse crescenti nelle politiche attive del mercato del lavoro, soprattutto<br />
in direzione della formazione e riqualificazione delle persone in cerca<br />
di lavoro (circa il 50% delle politiche attive complessive; tab. 4-29). In<br />
Danimarca vige un sistema di c.d. lay-off nel mercato del lavoro, ovvero un<br />
meccanismo in base al quale le imprese possono sospendere temporaneamente<br />
l’attività di una parte del proprio organico nei periodi di congiuntura<br />
meno favorevole traslandone il costo corrispondente al sistema di ammortizzatori<br />
sociali. L’elevata flessibilità che in tal modo si ottiene sul mercato<br />
del lavoro viene però compensata da un sistema di tutela del lavora-<br />
Tab. 4-29 — Spesa per politiche del lavoro nei paesi Ue: anno 2000<br />
(In % del Pil)<br />
Paesi Spesa totale Spesa Spesa in politiche attive Tasso<br />
in politiche<br />
di<br />
passive di cui: formazione disoccupazione<br />
Austria 1,56 1,07 0,49 0,17 3,7<br />
Danimarca 4,51 2,96 1,54 0,84 4,4<br />
Finlandia 3,30 2,22 1,08 0,35 9,8<br />
Francia 3,12 1,76 1,36 0,28 9,3<br />
Germania 3,13 1,89 1,23 0,34 7,9<br />
Italia 1,45 0,63 0,64 0,05 10,6<br />
Olanda 3,65 2,08 1,57 0,30 2,8<br />
Regno Unito 0,94 0,58 0,37 0,05 5,4<br />
Spagna 2,32 1,34 0,98 0,29 14,0<br />
Svezia 2,72 1,34 1,38 0,31 5,9<br />
Fonte: Oecd, Employment Outlook, 2001; per l’Italia elaborazioni su dati Ministero del lavoro, Rapporto di monitoraggio<br />
2/2001. Eurostat per i tassi di disoccupazione.<br />
163
tore sospeso che non solo riceve un sostegno al reddito di entità rilevante<br />
ma, a differenza della Cassa integrazione italiana, viene inserito in programmi<br />
di job training 18 o in corsi di formazione e riqualificazione del personale.<br />
Si parla a questo proposito di flexicurity 19 e l’efficacia del sistema<br />
trova conferma in un tasso di occupazione che è tra i più alti in Europa<br />
(76%). Il sistema danese di protezione sociale è finanziato tuttavia da una<br />
pressione fiscale tra le più elevate in Europa e non è esente da problemi<br />
di squilibrio nell’utilizzo dei sussidi a livello settoriale (in particolare in<br />
agricoltura, nelle costruzioni e nel comparto alberghiero) 20 .<br />
Le prospettive di riforma del sistema italiano di ammortizzatori sociali<br />
devono quindi prendere in considerazione numerosi fattori. La maggiore<br />
flessibilità del mercato del lavoro richiede senza dubbio un trattamento di<br />
base contro la disoccupazione più ampio sia nell’entità che nella durata della<br />
prestazione, che assicuri un valido strumento di sostegno ad una platea<br />
più omogenea di beneficiari. Come è avvenuto negli altri paesi europei, l’erogazione<br />
dei sussidi deve però essere improntata a criteri di selettività che<br />
incentivino i disoccupati a rientrare nel minor tempo possibile nel mercato<br />
del lavoro anche attraverso attività di formazione che ne favoriscano il<br />
reinserimento lavorativo. L’estensione del sistema rende inoltre più acuto<br />
il problema di garantire una amministrazione efficiente delle maggiori risorse<br />
messe in campo per evitare sprechi e abusi. Una soluzione potrebbe<br />
essere affidare alle parti sociali interessate, su base settoriale, la gestione<br />
e il finanziamento delle prestazioni superiori a un dato livello minimo,<br />
creando così una contrapposizione di interessi che porti ad una amministrazione<br />
corretta delle risorse.<br />
4.5 Mercato del lavoro e lavoro autonomo in Italia<br />
In Italia, la struttura dell’occupazione è caratterizzata da un’elevata<br />
incidenza dell’occupazione indipendente o autonoma sul totale degli occupati.<br />
Specularmente, quindi, l’Italia è uno dei paesi con la più bassa quota<br />
di occupazione alle dipendenze. In Europa — escludendo paesi come Portogallo<br />
e Grecia, caratterizzati da un minor livello di sviluppo, nonché da<br />
una ancora estesa incidenza dell’occupazione nel settore agricolo 1 — la maggior<br />
parte dei paesi registra una quota di occupati autonomi mediamente<br />
intorno al 10% dell’occupazione totale; in Italia (fig. 4-8) tale quota supera<br />
il 24% (27% se misurata in termini di unità di lavoro standard). Si tratta<br />
peraltro di una costante storica. Anche quaranta anni fa l’Italia era, rispetto<br />
ai principali paesi Ocse, quello con la più bassa quota di lavoro dipendente<br />
(61% circa rispetto al 71% della Francia, il 77% della Germania e il 93%<br />
del Regno Unito; fig. 4-9).<br />
18<br />
Si tratta di una occupazione a tempo determinato nell’amministrazione statale o in<br />
un’impresa privata; in quest’ultimo caso il datore di lavoro riceve un sussidio a parziale copertura<br />
dei costi di assunzione. Il lavoratore percepisce una remunerazione, commisurata al<br />
settore di appartenenza nel caso di imprese private e pari al sussidio di disoccupazione nel<br />
caso di amministrazione pubblica.<br />
19<br />
Cfr. Auer - Cazes, Employment Stability in an Age of Flexibility, Ilo, Geneva, in corso<br />
di pubblicazione.<br />
20<br />
Si veda a questo proposito Auer (2000), Employment revival in Europe: Labour market<br />
success in Austria, Denmark, Ireland and the Netherlands, Ilo, Geneva.<br />
1<br />
Tradizionalmente l’agricoltura è un settore a elevata intensità di occupazione autonoma.<br />
164
Fig. 4-8 — Occupati indipendenti sul totale degli occupati<br />
Fonte: Ocse.<br />
Fig. 4-9 — Occupati dipendenti sul totale<br />
Fonte: Ocse.<br />
Nel corso degli anni Sessanta la quota di occupati dipendenti è<br />
sensibilmente cresciuta, e la differenza con gli altri paesi si è ridotta, so-<br />
prattutto per effetto della notevole diminuzione dell’occupazione nel setto-<br />
re agricolo, in gran parte realizzatasi in quegli anni. Tale tendenza si è poi<br />
sostanzialmente interrotta negli anni Settanta e il livello relativo dell’occupazione<br />
dipendente è rimasto molto inferiore a quello prevalente negli<br />
altri paesi industrializzati.<br />
Italia:<br />
un’elevata<br />
quota<br />
di lavoratori<br />
autonomi<br />
165
Caratteristiche<br />
La peculiarità del caso italiano risulta ancora più evidente considerando<br />
le quote del lavoro dipendente calcolate senza includere l’occupazione<br />
nell’agricoltura. Si conferma che l’Italia è un paese con una assai bassa<br />
quota relativa di occupati dipendenti e con una elevata incidenza dell’occupazione<br />
indipendente (fig. 4.10). È interessante il confronto con il Giappone,<br />
che all’inizio del periodo considerato aveva una struttura dell’occupazione<br />
assai simile alla nostra, ma in cui la tendenza alla riduzione della<br />
quota dell’occupazione autonoma non ha mai registrato cambiamenti. In<br />
notevole misura l’allargarsi della forbice tra Giappone e Italia è dipeso dalla<br />
diversa distribuzione settoriale dei lavoratori indipendenti: soprattutto<br />
nei settori extra agricoli in Italia, nell’agricoltura in Giappone.<br />
In Italia la quota di occupazione dipendente, semmai, è leggermente<br />
diminuita a partire dalla metà degli anni Settanta. In parte tale variazione<br />
è ancora dipesa da un mutamento della composizione dell’occupazione<br />
per settore di attività: in tale periodo l’occupazione nei servizi, settore (soprattutto<br />
in Italia) a elevata intensità di occupazione autonoma, è cresciuta<br />
assai più di quella degli altri settori. Inoltre, nell’ambito di alcuni settori,<br />
in particolare l’industria delle costruzioni, è cresciuta la quota di lavoratori<br />
indipendenti.<br />
Le rilevazioni delle forze di lavoro consentono anche di analizzare alcune<br />
caratteristiche socio-economiche di questo segmento dell’occupazione.<br />
Per quanto riguarda sesso e età non si rilevano difformità significative tra<br />
l’Italia e la media dei paesi europei. In generale, in tutti i paesi gli occupati<br />
indipendenti sono tendenzialmente maschi di età media e alta. Secondo<br />
vari autori 2 tale risultato confuterebbe l’ipotesi che la diffusione del lavoro<br />
autonomo riguardi prevalentemente i segmenti deboli e marginali del<br />
Fig. 4-10 — Quota dei dipendenti non agricoli nei principali paesi<br />
Fonte: Ocse.<br />
2<br />
Cfr. P. Barbieri, «Liberi di rischiare. Vecchi e nuovi lavoratori autonomi», Stato e Mercato,<br />
n. 2, 1999.<br />
166
mercato del lavoro, in prevalenza giovani e donne, esclusi dal mercato primario<br />
del lavoro garantito.<br />
Una prima differenza significativa sembra invece data dal livello di<br />
istruzione. La quota di lavoratori indipendenti con un titolo di studio inferiore<br />
o pari alla sola licenza media è 48,5% in Italia, contro valori assai più<br />
bassi in paesi come Germania, Regno Unito, Francia, Olanda (tab. 4-30).<br />
Tale quota è invece più alta in Spagna che in Italia; in Spagna, però la quota<br />
di lavoratori indipendenti con un titolo di studio equivalente alla laurea<br />
è più alta che in Italia. Soltanto il 13,8% degli occupati autonomi italiani<br />
possiede infatti un titolo di studio superiore.<br />
In tutti i paesi europei agricoltura, imprenditoria e artigianato sono<br />
professioni in cui naturalmente è massima la concentrazione di lavoratori<br />
indipendenti. Anche nella distribuzione per professione (tab. 4-31), tuttavia,<br />
si rileva la natura particolare che in Italia assume l’occupazione autonoma.<br />
In Italia infatti, risulta piuttosto elevata la quota sul totale dell’occupazione<br />
dei lavoratori indipendenti che svolgono attività di tipo libero<br />
professionale, tecnico-professionali, nel commercio e nei servizi. Relativamente<br />
elevata risulta anche la quota di professioni non qualificate svolte<br />
sotto forma di lavoro autonomo.<br />
Se si guarda alla distribuzione sul totale degli occupati indipendenti,<br />
in Italia l’occupazione autonoma si concentra, più che in altri paesi, nelle<br />
professioni connesse all’agricoltura, all’artigianato, al commercio e ai servizi.<br />
Tale distribuzione si definisce meglio se la si considera insieme a quella<br />
per branca di attività. La distribuzione settoriale del lavoro autonomo<br />
conferma che il settore dell’agricoltura è quello a maggiore intensità di occupati<br />
autonomi (tab. 4-32) e che tale caratteristica è comune a tutti i paesi<br />
qui considerati. Negli altri settori l’Italia presenta però notevoli differenze<br />
rispetto al resto dell’Europa. Oltre che in tradizionali settori come il<br />
commercio e i pubblici esercizi, in Italia la quota di occupazione indipen-<br />
Tab. 4-30 — Occupati indipendenti per classe di età, sesso e titolo di studio in Italia e in alcuni<br />
paesi europei - 2000<br />
(In % del totale degli occupati indipendenti)<br />
Classi età Danimarca Germania Spagna Francia Italia Olanda Finlandia Uk Ue-15<br />
15-24 1,5 1,6 3,7 1,4 3,2 4,3 1,8 3,5 2,8<br />
25-49 61,3 71,6 67,8 69,6 74,6 69,2 67,4 68,9 70,5<br />
50-59 37,2 26,8 28,5 29,1 22,2 26,5 30,8 27,6 26,6<br />
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />
Sesso<br />
Maschi 77,9 72,1 72,9 73,6 75,5 67,7 69,7 73,1 72,7<br />
Femmine 22,1 27,9 27,1 26,4 24,5 32,3 30,3 26,9 27,3<br />
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />
Titolo<br />
di studio<br />
Licenza<br />
media 17,3 8,9 63,4 24,4 48,5 23,7 28,2 12,0 33,5<br />
Diploma 57,9 44,9 16,5 47,8 37,8 45,9 47,3 51,2 38,0<br />
Laurea 24,9 46,2 20,1 27,8 13,8 30,4 24,5 27,5 24,3<br />
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />
167
Tab. 4-31 — Occupati indipendenti per professione in Italia e in alcuni paesi europei - 2000<br />
Professione<br />
Dani- Ger-<br />
Fin-<br />
Spagna Francia Italia Olanda<br />
marca mania landia<br />
Uk<br />
Ue-15<br />
In % occupati totali della<br />
professione<br />
Legislatori, imprenditori 43,4 47,4 78,5 40,3 42,5 36,7 42,7 15,5 39,4<br />
Professioni intellettuali 9,7 17,8 12,8 13,3 25,9 11,7 6,5 13,8 15,5<br />
Prefessioni tecniche intermedie 2,7 7,7 10,4 4,4 23,2 7,2 5,9 15,1 10,5<br />
Impiegati 0,0 1,1 2,4 0,0 3,2 1,3 0,0 2,3 1,6<br />
Professioni del commercio e servizi 2,2 5,3 7,6 2,1 36,1 4,3 7,2 2,6 9,8<br />
Agricoltori 58,6 40,2 65,7 53,6 64,7 5,5 64,7 53,3 58,3<br />
Artigiani 9,7 9,1 18,9 16,2 29,4 11,4 10,6 23,6 17,5<br />
Operatori di impianti e macchinari 1,7 3,1 15,0 2,4 11,3 5,2 5,7 9,8 7,3<br />
Professioni non qualificate 0,9 1,3 2,6 0,0 15,1 2,4 1,7 8,2 4,8<br />
Totale 8,2 10,1 18,2 10,1 24,2 9,6 12,9 11,3 14,1<br />
In % totale indipendenti<br />
Legislatori, imprenditori 38,7 27,0 33,9 29,7 7,6 42,8 31,6 20,8 23,5<br />
Professioni intellettuali 15,3 22,6 8,1 13,8 11,1 18,7 9,5 19,6 14,1<br />
Prefessioni tecniche intermedie 6,8 15,6 5,5 7,5 15,8 12,1 7,2 11,7 11,1<br />
Impiegati 0,0 1,4 1,3 0,0 1,8 1,5 0,0 3,3 1,5<br />
Professioni del commercio e servizi 4,1 6,0 5,9 2,6 23,6 5,2 6,6 3,5 9,4<br />
Agricoltori 18,5 8,3 17,1 22,4 8,6 1,0 28,9 4,7 14,2<br />
Artigiani 13,1 15,7 17,5 21,4 21,6 10,3 10,5 24,2 18,6<br />
Operatori di impianti e macchinari 1,4 2,3 8,8 2,5 4,4 3,1 3,9 6,6 4,5<br />
Professioni non qualificate 1,4 1,1 2,0 0,0 5,5 2,0 1,0 5,6 3,0<br />
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />
Tab. 4-32 — Occupati indipendenti per settore di attività, in Italia e in alcuni paesi europei<br />
- 2000<br />
Settore<br />
Dani- Ger-<br />
Fin-<br />
Spagna Francia Italia Olanda<br />
marca mania landia<br />
Uk<br />
Ue-15<br />
In % occupati totali del settore<br />
Agricoltura 45,5 32,6 49,0 53,8 47,3 45,0 62,6 43,9 51.3<br />
Industria 7,0 6,5 13,8 8,0 19,4 6,6 9,1 12,2 11.0<br />
Industria manifatturiera 4,1 4,4 11,1 4,6 14,7 4,1 6,2 4,7 7.3<br />
Costruzioni 15,4 12,9 19,6 18,7 35,5 13,4 19,0 31,2 21.7<br />
Servizi 6,7 11,0 17,0 8,3 24,8 8,9 9,8 10,4 13.0<br />
Commercio e riparazioni 9,5 13,1 28,8 14,0 43,9 10,3 16,0 11,1 20.6<br />
Alberghi e pubblici esercizi 10,3 21,2 25,3 20,7 32,7 11,5 12,8 9,7 21.2<br />
Trasporti e comunicazioni 5,5 7,8 21,3 4,4 17,0 5,8 12,6 11,1 10.6<br />
Credito e assicurazioni 0,0 9,7 6,0 3,7 13,3 3,7 3,2 6.8<br />
Servizi alle imprese 16,9 20,3 20,8 11,6 44,4 14,5 15,3 18,3 20.8<br />
Altri servizi 4,1 9,8 8,0 7,0 14,8 8,7 6,1 10,0 9.4<br />
Totale 8.2 10.1 18.2 10.1 24.2 9.6 12.9 11.3 14.1<br />
In % totale indipendenti<br />
Agricoltura 20,3 8,5 18,5 22,0 10,2 13,3 30,3 5,9 15,5<br />
Industria 21,6 21,6 23,3 20,8 25,4 12,9 19,7 27,2 22,5<br />
Industria manifatturiera 9,0 10,5 11,5 8,6 14,0 5,5 9,9 7,1 10,3<br />
Costruzioni 12,6 11,0 11,7 12,0 11,2 7,4 9,5 19,8 12,1<br />
Servizi 58,1 69,9 58,2 57,1 64,3 60,5 50,0 66,8 61,4<br />
Commercio e riparazioni 16,2 18,6 25,7 18,2 29,0 15,1 14,8 15,1 21,6<br />
Alberghi e pubblici esercizi 3,2 7,0 8,9 6,9 5,0 4,1 3,3 3,5 6,0<br />
Trasporti e comunicazioni 4,5 4,2 7,0 2,9 3,9 3,2 7,2 6,7 4,6<br />
Credito e assicurazioni 3,5 0,9 1,1 1,8 1,2 1,2 1,6<br />
Servizi alle imprese 18,9 16,1 8,0 10,7 13,0 16,5 11,8 17,9 12,8<br />
Altri servizi 14,4 20,4 7,7 17,1 11,4 19,9 12,5 22,0 14,6<br />
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />
168
dente sul totale degli occupati, rispetto agli altri paesi, è più alta nei servizi<br />
alle imprese (44%) nell’industria delle costruzioni (35,5%), nei servizi<br />
finanziari, nei trasporti, nell’industria manifatturiera.<br />
Un elemento caratterizzante della realtà italiana è inoltre rappresentato<br />
dalle collaborazioni coordinate e continuative, una modalità di lavoro<br />
che ha registrato una fortissima espansione negli ultimi anni e nel 2001<br />
riguardava circa 1,9 milioni di persone. Tale aggregato comprende figure<br />
diverse: dal giovane che collabora con un’unica impresa, di cui utilizza le<br />
strutture allo stesso modo dei dipendenti d’impresa, al professionista che<br />
serve una pluralità di clienti e adopera strutture proprie.<br />
Questa eterogeneità alimenta le vivaci polemiche sulla natura del lavoro<br />
parasubordinato: vi è chi vede nel rapporto di lavoro subordinato un<br />
rapporto di lavoro dipendente mascherato, al fine di ridurre le tutele a beneficio<br />
del lavoratore, e chi una particolare modalità del lavoro autonomo.<br />
Secondo il Censis 3 , queste caratteristiche e l’accentuarsi di alcune di<br />
esse possono anche essere interpretate come segnale di un cambiamento<br />
profondo della morfologia del lavoro, che riguarderebbe non solo i lavoratori<br />
indipendenti, ma anche i subordinati di fascia medio-alta. Dalla concezione<br />
del destino lavorativo come principalmente legato a sistemi collettivi<br />
sia per i contenuti del lavoro che per le tutele, si starebbe passando a<br />
una visione del lavoro come investimento personale, le cui dimensioni centrali<br />
sono autonomia, mobilità, responsabilità, relazioni, professionismo e<br />
competenze.<br />
Le competenze — definite come mix fra sapere, saper creare e saper progettare<br />
— diventano il principale fattore personale per l’accesso al mercato<br />
del lavoro e alle carriere. Si tratta di un processo che il Censis definisce individualizzazione<br />
del lavoro. Poiché i percorsi delle persone vengono determinati<br />
sulla base dele capacità di ciascuno di progettarli e di realizzarli, il<br />
lavoro dipendente diventa solo uno dei punti del percorso lavorativo, lungo il<br />
quale si alternano posizioni indipendenti e subordinate. Questo articolato universo<br />
del lavoro individuale, che come si è detto include anche alcuni strati<br />
di lavoro subordinato (dirigenti, collaboratori, professionisti subordinati, ecc.),<br />
rappresenterebbe oltre il 50% dell’occupazione italiana 4 .<br />
Più tradizionali sono invece le ipotesi avanzate dall’analisi economica<br />
per spiegare la diffusione del lavoro autonomo. Le argomentazioni più di-<br />
scusse sono: il cambiamento tecnologico che potrebbe aver favorito più le<br />
piccole imprese; l’aumento delle tasse sul reddito e le maggiori possibilità<br />
di elusione e di evasione degli obblighi fiscali offerti dall’occupazione indipendente;<br />
le rigidità salariali e la compressione dei differenziali salariale a<br />
sfavore dei lavoratori più qualificati, i più dotati di capitale umano e forse<br />
anche della motivazione a costituirsi come autoimprenditori; le normative<br />
sui prepensionamenti e il pensionamento di anzianità che hanno favorito i<br />
pensionamenti precoci e il passaggio da attività regolari di lavoro dipendente<br />
a attività in nero, avendo comunque la garanzia di una copertura assicurativa<br />
e reddituale di base.<br />
In generale, la maggior parte della letteratura economica vede nel ricorso<br />
al lavoro indipendente uno dei modi in cui un sistema economico può<br />
cercare di aggiustarsi a fronte di una eccessiva rigidità della regolamenta-<br />
Lavoro<br />
autonomo<br />
e flessibilità<br />
del mercato<br />
del lavoro<br />
3<br />
Censis, Gli italiani al lavoro: un’impresa individuale. Dossier, mimeo, Roma maggio<br />
2002.<br />
4<br />
Cfr. Censis, cit. pag. 7.<br />
169
zione economica, in particolare nel mercato del lavoro. La correlazione esistente<br />
tra i ranking dei paesi Ocse in base agli indicatori di rigidità del mercato<br />
del lavoro da un lato, e in base alla rispettiva quota di occupazione indipendente<br />
dall’altro sembra confermare tale ipotesi (fig. 4-11). Il lavoro dipendente<br />
raggiunge la massima incidenza proprio in quei paesi in cui la regolamentazione<br />
del mercato del lavoro e le protezioni del posto di lavoro sono<br />
meno stringenti (Stati Uniti e Nord Europa); il contrario si rileva nei paesi<br />
in cui ci sono maggiori protezioni per i lavoratori dipendenti (Spagna, Portogallo,<br />
Italia e Grecia), nei quali la percentuale di dipendenti sul totale degli<br />
occupati è, come si è visto, notevolmente inferiore (fig. 4-8).<br />
La maggior flessibilità del lavoro autonomo rispetto al lavoro dipendente<br />
va qualificata. Non vi è dubbio, ad esempio, che i guadagni degli indipendenti<br />
sono più direttamente collegati con gli andamenti del ciclo economico.<br />
Indagini campionarie e analisi statistiche mostrano però che gli indipendenti<br />
sarebbero meno disponibili dei dipendenti alla mobilità geografica<br />
e l’elemento di fisità sarebbe soprattutto costituito dalla rete di relazioni<br />
(con clienti, committenti ecc.) che molto spesso è un aspetto integrante<br />
di questo tipo di attività 5 .<br />
Il fatto che in molti paesi lo sviluppo del lavoro autonomo (e della pic-<br />
cola impresa; cfr. il par. 4.6) abbia costituito una via di uscita dai problemi<br />
posti da un eccessiva rigidità del mercato del lavoro non implica però, per<br />
tali paesi, un ulteriore crescita della quota di occupazione indipendente sarebbe<br />
un fatto di per sé positivo, una soluzione, ad esempio, per i problemi<br />
di basso potenziale di crescita in cui alcuni di essi, come l’Italia, si dibattono.<br />
In realtà, poco si sa sulla relazione tra occupazione autonoma e crescita<br />
economica aggregata.<br />
Lavoro<br />
autonomo e<br />
crescita<br />
economica<br />
Fig. 4-11 — Rigidità del mercato del lavoro e quota occupati indipendenti<br />
non agricoli 1998<br />
Fonte: Ocse.<br />
5<br />
Cfr. Cfr. D. Blanchflower, Self -Employment in Oecd Countries, Nber Working Paper<br />
Series, n. 7486, maggio 2000.<br />
170
Esaminando la correlazione tra la variazione della quota di occupazione<br />
indipendente e la crescita del Pil reale in 23 paesi Ocse (tra cui l’Italia)<br />
nel periodo 1966-96, Blanchflower 6 trova che aumenti di tale quota<br />
sono correlati a minori e non a più alti tassi di crescita del Pil. Questo risultato<br />
non esclude la possibilità che la relazione causale possa in realtà<br />
essere dalla crescita al tasso di occupazione autonoma. In altri termini, potrebbero<br />
essere le minori potenzialità di crescita (spiegate da altri fattori)<br />
a determinare la diminuzione relativa dell’occupazione dipendente e quindi<br />
la crescita dell’occupazione autonoma.<br />
L’esistenza di una correlazione negativa tra aumento dell’occupazione<br />
indipendente e crescita va quindi considerata come assolutamente preliminare,<br />
ma sottolinea un aspetto spesso trascurato. Il particolare sviluppo dell’occupazione<br />
indipendente in alcuni paesi può essere stato certamente una<br />
risposta obbligata a regolamentazioni distorsive e inefficienti; non è detto<br />
però che una risposta di questo tipo rimanga ottimale anche nel futuro.<br />
4.6 Dimensioni di impresa e flessibilità produttiva<br />
Gli anni Settanta hanno costituito, per l’Italia, uno spartiacque tra una<br />
fase dello sviluppo industriale in cui l’occupazione tendeva a concentrarsi<br />
nelle imprese di grande dimensione a una in cui il fenomeno si è invertito,<br />
ed è tornata a crescere la quota dell’occupazione nelle unità produttive<br />
minori. Con accentuazioni diverse, il fenomeno è comune anche ad altri paesi<br />
industriali, ma è stato particolarmente pronunciato in Italia 1 .<br />
I mutamenti che interessano le quote di occupazione sono documentati<br />
con riferimento a quattro grandi paesi industriali nelle figure 4-12 e 4-<br />
13. Da esse si ricava che il ridimensionamento che interessa la quota dell’occupazione<br />
delle grandi imprese dopo la metà degli anni Settanta presenta<br />
la massima intensità in Italia, il paese in cui il peso delle imprese<br />
di grande dimensione è minimo fin dall’inizio del periodo di riferimento. In<br />
Italia, infatti, la quota dell’occupazione concentrata nelle unità con più di<br />
500 addetti nell’arco dei venticinque anni considerati si dimezza. Una tendenza<br />
analoga, ma meno intensa si registra per la Francia e, in misura ancor<br />
meno accentuata, negli Stati Uniti. Il fenomeno appare sostanzialmente<br />
inesistente in Germania 2 . In tutti questi paesi, la quota di occupazione<br />
nelle grandi imprese era e rimane molto più alta che in Italia.<br />
Al di sotto della soglia dei 100 addetti il fenomeno presenta un profilo<br />
speculare a quello osservato al di sopra dei 500. In Italia si registra un<br />
notevole aumento (da poco meno del 50 a quasi il 70%) della quota di occupazione<br />
nelle imprese manifatturiere con meno di 100 addetti. Un incremento<br />
di tale quota si rileva anche in Francia; in Germania e Stati Uniti<br />
le variazioni appaiono invece di scarsa importanza.<br />
I cambiamenti che interessano le quote di occupazione non danno però<br />
informazioni in merito all’aumento o alla diminuzione del numero degli ad-<br />
6<br />
Cfr. Blanchflower, op. cit.<br />
1<br />
Su questo punto, e in merito all'evidenza discussa di seguito, cfr. F. Traù (a cura di),<br />
La questione dimensionale nell’industria italiana, Bologna, Il Mulino 1999.<br />
2<br />
Per la Germania — a causa della disomogeneità degli universi di rilevazione tra le diverse<br />
date per quanto riguarda le attività artigiane — vengono riportati per il 1977 due calcoli<br />
distinti, riferiti sia all’universo inclusivo degli artigiani sia a quello che li esclude.<br />
171
Fig. 4-12 — Quota dell’occupazione nelle imprese con più di 500 (1a), industria<br />
manifatturiera<br />
(a) La prima classe include gli artigiani.<br />
(b) La prima classe esclude gli artigiani.<br />
(c) Esclude i codici 353 e 354, include i codici 23 e 29.1.<br />
Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />
Fig. 4-13 — Quota dell’occupazione nelle imprese con meno di 100 addetti,<br />
industria manifatturiera<br />
(a) La prima classe include gli artigiani.<br />
(b) La prima classe esclude gli artigiani.<br />
(c) Esclude i codici 353 e 354, include i codici 23 e 29.1.<br />
Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />
detti concentrati in una data fascia di ampiezza delle imprese. In via generale,<br />
lo spostamento del peso dell’occupazione di un dato segmento dimensionale<br />
verso le imprese più piccole potrebbe semplicemente riflettere<br />
la maggiore intensità di un processo di downsizing che interessa — in misura<br />
più o meno pronunciata — imprese di tutte le dimensioni. Si avrebbe<br />
in questo caso soltanto una minore intensità, nelle imprese di dimensione<br />
172
medio-piccola, dello stesso fenomeno che investe le più grandi, senza alcuna<br />
differenza di segno. È dunque necessario considerare l’andamento dell’occupazione<br />
nelle diverse fasce dimensionali in termini assoluti.<br />
A questo proposito la fig. 4-14 indica che lo spostamento di occupazione<br />
tra i diversi intervalli dimensionali rivelato dall’andamento delle quote<br />
è il risultato di un comportamento asimmetrico delle imprese grandi rispetto<br />
a quelle piccole: in entrambe le fasi considerate il profilo delle quote<br />
riflette di fatto quello che accade nelle imprese maggiori, in cui l’occupazione<br />
prima aumenta, e poi scende. Nelle imprese più piccole il livello<br />
dell’occupazione appare invece nel complesso relativamente stabile, e comunque<br />
caratterizzato da oscillazioni molto contenute; il loro contributo all’occupazione<br />
è dunque sostanzialmente passivo: esse mantengono il livello<br />
dell’occupazione di cui dispongono, mentre le più grandi prima lo espandono<br />
e poi lo contraggono.<br />
Un’eccezione rilevante è rappresentata sotto questo specifico profilo<br />
dall’Italia, dove a partire dal 1971 l’occupazione delle imprese con meno di<br />
50 addetti cresce invece nettamente e l’occupazione nelle imprese medie e<br />
grandi scende assai più che negli altri paesi. In questo caso sembra effettivamente<br />
essersi realizzato uno spostamento di occupati dalle unità più<br />
Fig. 4-14 — Numero di occupati delle imprese per classe dimensionale<br />
(a) La prima classe include gli artigiani.<br />
(b) La prima classe esclude gli artigiani.<br />
(c) Esclude il codice 314.<br />
(d) Nel 1968 le prime due classi sono: 1-24, 25-50; sono esclusi i codici 353 e 354, il 1994 include i codici 23 e 29.1.<br />
Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />
173
grandi a quelle piccole. Un’altra eccezione è la Germania, in cui a differenza<br />
degli altri paesi non si registra alcuna sostanziale variazione del numero<br />
di occupati nelle varie classi dimensionali, se non per le imprese con<br />
meno di 20 addetti (fig. 4-14).<br />
La dinamica dell’occupazione all’interno dei diversi intervalli dimensionali<br />
è il risultato congiunto dei cambiamenti che interessano da un lato<br />
la dimensione media delle imprese, e dall’altro la loro numerosità. I due<br />
fenomeni sono rappresentati nelle figure 4-15 e 4-16. Dalla figure 4-13 si<br />
Fig. 4-15 — Confronti cross-country delle dimensioni medie delle imprese<br />
(a) Incluse imprese artigiane.<br />
(b) Escluse imprese artigiane.<br />
(c) Imprese con più di 10 addetti.<br />
Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />
Fig. 4-16 — Variazione % della numerosità delle imprese, totale manifatturiero<br />
Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />
174
icava che i paesi esaminati mostrano un aumento della dimensione media<br />
nel corso della prima fase, seguito da una flessione nella fase successiva;<br />
la figura 4-16 mostra invece che a questo andamento corrisponde una tendenza<br />
generale dello stock delle imprese a ridursi nel corso della prima fase,<br />
e ad accrescersi di nuovo nella seconda. Quindi è possibile individuare<br />
due distinti modelli di comportamento a seconda delle diverse fasi dello sviluppo<br />
industriale: fino agli anni Settanta la base industriale si espande attraverso<br />
un processo di concentrazione (diminuisce il numero delle imprese,<br />
e la loro dimensione media si accresce); nella fase successiva il meccanismo<br />
si inverte, e mentre il numero delle imprese torna a salire la loro dimensione<br />
media si riduce.<br />
In questo contesto, vi è una notevole peculiarità del caso italiano consistente<br />
nel fatto che la flessione della dimensione media osservabile dopo<br />
gli anni Settanta si realizza nonostante essa sia già considerevolmente inferiore<br />
a quella degli altri paesi all’inizio del periodo. Si può dunque dire<br />
che il sistema industriale italiano presenti una propensione maggiore degli<br />
altri paesi a ridimensionare la scala delle attività produttive. Esistono<br />
cioè da un lato fattori comuni, che spiegano perché i paesi industriali (ad<br />
alcuni dei quali si riferiscono i dati qui riportati) modificano il loro modello<br />
di industrializzazione spostando l’occupazione verso unità produttive di<br />
dimensione inferiore rispetto al passato; ed esistono fattori specifici, che riguardano<br />
il sistema industriale italiano in quanto tale.<br />
In generale, la tendenza a un aumento del peso economico delle imprese<br />
di dimensione piccola e media è il risultato di cambiamenti importanti<br />
che investono l’organizzazione delle attività produttive a livello internazionale.<br />
Questi cambiamenti, che cominciano a essere visibili all’inizio<br />
del decennio Settanta, ruotano attorno al fatto che un volume crescente<br />
di transazioni avviene, piuttosto che dentro i confini aziendali, attraverso<br />
scambi tra unità distinte. In altri termini la divisione del lavoro si realizza<br />
sempre meno all’interno dell’impresa, e sempre più mediante rapporti<br />
tra imprese diverse.<br />
Le ragioni di questo fenomeno sono più d’una. Tra esse si possono ricordare<br />
una maggior rigidità delle regole relative all’organizzazione del lavoro;<br />
l’irrompere nei processi produttivi di nuove tecnologie che hanno abbassato<br />
la dimensione efficiente minima di impianto; il carattere asimmetrico<br />
degli stessi shock petroliferi, che hanno penalizzato le produzioni più energy<br />
intensive (per lo più caratterizzate da elevata dimensione media delle imprese).<br />
Ma, soprattutto, la «rottura di paradigma» che viene consumata a partire<br />
dalla fine del decennio Sessanta affonda le sue radici nel notevole e progressivo<br />
aumento della pressione concorrenziale indotto dall’integrazione internazionale<br />
dei sistemi produttivi e dal parallelo esplodere dell’incertezza<br />
sui mercati finanziari conseguente alla crisi del sistema di Bretton Woods.<br />
Mentre il primo fattore spinge le imprese a concentrare le risorse sul<br />
core business, cedendo all’esterno le attività meno strategiche, la crisi del<br />
sistema finanziario internazionale nei primi anni Settanta fa esplodere l’incertezza,<br />
riducendo la prevedibilità dei rendimenti attesi e facendo salire<br />
la rischiosità degli investimenti di maggiore dimensione. Se la concorrenza<br />
contribuisce a ridimensionare il grado di diversificazione (di integrazione<br />
conglomerale) delle imprese, la «turbolenza» spinge verso un abbassamento<br />
dell’integrazione verticale, favorendo — attraverso la ricerca di minori<br />
costi fissi — una frantumazione delle attività per fase di produzione. Il numero<br />
delle imprese aumenta, la loro dimensione media si riduce.<br />
175
In Italia questo fenomeno presenta una particolare accentuazione, tanto<br />
più notevole in quanto l’Italia era già, all’inizio degli anni Settanta, il<br />
paese — tra quelli presi qui in considerazione — in cui la struttura industriale<br />
era più spostata verso la piccola dimensione.<br />
Un primo fattore da tenere presente a questo riguardo è il ritardo di<br />
sviluppo che l’Italia scontava, ancora alla fine degli anni Sessanta, rispetto<br />
al gruppo dei paesi di più antica industrializzazione. Questo ritardo si<br />
esprime in due caratteristiche, strettamente interrelate tra loro: la specializzazione<br />
in produzioni di tipo «tradizionale», e l’estesa presenza di microimprese<br />
di origine artigianale. Il processo di modernizzazione della struttura<br />
produttiva che aveva avviato l’Italia verso l’industrializzazione fin dai<br />
primi anni del dopoguerra, da questo punto di vista, non aveva assorbito<br />
che una quota complessivamente modesta dell’occupazione industriale (come<br />
le stesse tavole qui riportate indicano). Lo sviluppo della grande industria<br />
meccanica nel c.d. «triangolo» nord-occidentale e il tentativo di forzare<br />
attraverso l’impresa pubblica il processo di industrializzazione nel Mezzogiorno<br />
avevano sottratto alle produzioni più semplici una quota apprezzabile<br />
dei loro occupati, ma senza che questo si traducesse in un loro ridimensionamento<br />
significativo.<br />
Quando iniziano a propagarsi gli shock più sopra evocati che cominciano<br />
a mettere in crisi la produzione di grande scala, nell’industria italiana<br />
lo small business sector è ancora assai esteso; certamente molto più esteso<br />
di quanto non sia più nei paesi in cui il processo di industrializzazione<br />
si è realizzato più anticamente. Gli shock svolgono in questo contesto un<br />
ruolo asimmetrico: mentre penalizzano la grande impresa su cui si fondano<br />
le produzioni più «moderne», enfatizzano i vantaggi differenziali specifici<br />
(massimamente in termini di flessibilità) delle imprese minori, rendendole<br />
relativamente più competitive. L’effetto è quello di ampliare le opportunità<br />
di sviluppo dello small business sector che in Italia svolge ancora<br />
un ruolo importante. Dapprima attraverso il semplice trasferimento di<br />
fasi di produzione dalle grandi imprese a nuove picole unità che ad esse<br />
«subentrano» nel ruolo di produttori, e poi sempre più attraverso la creazione<br />
di mercati di input intermedi (che alimentano scambi tra piccole imprese<br />
per la realizzazione di un unico bene finale), si realizza così un processo<br />
di radicale riorganizzazione della struttura produttiva. Quello che per<br />
l’Italia era un fattore di «ritardo» diventa nelle nuove condizioni di contesto<br />
un fattore che contribuisce notevolmente all’adattamento dell’industria<br />
italiana agli shock degli anni settanta.<br />
Questi processi sono stati anche sostenuti dall’operare di istituzioni<br />
intermedie (ad esempio associazioni imprenditoriali, enti locali, consorzi<br />
di vario genere) che, in varie realtà locali, hanno saputo creare un sistema<br />
di esternalità appropriabili dalle imprese di dimensione ridotta 3 . Ciò<br />
ha contribuito al consolidarsi, all’interno di aree territoriali specifiche, di<br />
quei sistemi localizzati di impresa che vengono in generale compresi sotto<br />
il termine di distretti industriali, in cui risulta efficiente una articolazione<br />
dell’organizzazione industriale tra numerose imprese la cui dimensione,<br />
se considerate singolarmente, non necessariamente sarebbe ottimale.<br />
3<br />
Ci si riferisce al caso in cui le imprese più piccole non sono in grado di internalizzare<br />
i vantaggi derivanti dall’esistenza di beni pubblici indifferenziati. Cfr. su questo punto in particolare<br />
A. Arrrighetti e G. Seravalli, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano,<br />
Roma, Donzelli (1997).<br />
176
Questa interpretazione, su cui esiste una vastissima letteratura 4 , spiega<br />
in modo convincente una delle ragioni forse più importanti del consolidamento<br />
e dell’accrescimento dell’importanza della piccola impresa in Italia<br />
avvenuto tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Non spiega però l’intensità<br />
assunta da questo processo.<br />
In una certa misura, l’intensità assunta in Italia dalla riduzione del numero<br />
di occupati nella grande impresa è legata anche a un’altra caratteristica<br />
specifica dell’industria italiana, ossia la forte presenza dell’impresa pubblica<br />
impegnata in produzioni ad elevato contenuto tecnologico. Negli anni settanta,<br />
una quota rilevante del settore più «moderno» (e destinato a spostare<br />
verso l’alto il baricentro dimensionale dell’industria) subisce non solo gli effetti<br />
degli shock economici internazionali, ma anche i contraccolpi devastanti<br />
di una crescente preminenza degli obiettivi politici rispetto a quelli industriali,<br />
con la conseguente graduale perdita di qualsiasi logica di efficienza, finendo<br />
per dissipare una quota rilevante del suo potenziale di occupazione.<br />
La specificità italiana appare tuttavia legata soprattutto a quei fattori<br />
che contribuiscono a rendere la piccola dimensione non il semplice risultato<br />
di una scelta strategica da parte dell’impresa, ma piuttosto l’esito (subottimale)<br />
di condizionamenti allo svolgersi della sua attività. L’esistenza di<br />
condizionamenti di carattere istituzionale può cioè rappresentare un disincentivo<br />
all’espansione della scala delle attività anche direttamente.<br />
Varie analisi 5 sottolineano il ruolo degli aspetti istituzionali riguardo<br />
alle dimensioni delle imprese. Ad esempio le barriere all’entrata (come le<br />
barriere non tariffarie al commercio internazionale o regolamentazioni anti<br />
competitive in determinati settori), la centralizzazione dei processi contrattuali<br />
e la validità erga omnes degli accordi tendono a accrescere la quota<br />
delle grandi imprese, poiché in generale implicano costi maggiori per le<br />
piccole imprese. Per contro, pesanti oneri e adempimenti amministrativi,<br />
regole rigide concernenti i licenziamenti individuali e collettivi tendono a<br />
favorire la presenza di piccole imprese, soprattutto quanto l’obbligo a soddisfare<br />
determinate regole è graduato in base alla dimensione delle imprese.<br />
Secondo varie classifiche internazionali 6 sin dagli anni settanta l’Italia<br />
si è caratterizzata per l’esistenza di normative particolarmente rigide<br />
in materia di licenziamenti. Ciò suggerisce 7 che la combinazione di norme<br />
in materia di protezione del lavoro e le regolamentazioni amministrative<br />
abbiano avuto in Italia un ruolo notevole nel favorire una maggior presenza<br />
relativa della piccola impresa.<br />
Anche numerose indagini sottolineano il ruolo penalizzante svolto dalle<br />
normative che regolamentano l’attività di impresa riguardo al sottodimensionamento<br />
delle imprese italiane. Una indagine recentemente svolta<br />
presso il Csc 8 mostra che tra i fattori «esterni» all’impresa che gli operatori<br />
percepiscono come più vincolanti rispetto all’espansione dimensionale un<br />
ruolo molto rilevante è svolto dalla scarsa flessibilità del fattore lavoro, e<br />
4<br />
Cfr. tra gli altri G. Becattini (a cura di), Modelli locali di sviluppo, Bologna, Il Mulino<br />
1989, S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, Torino, Rosemberg&Seliier 1989, G.<br />
Garofoli, Modelli locali di sviluppo, Milano, F. Angeli 1991, e, più recentemente, F. Signorini<br />
(a cura di), Lo sviluppo locale, Roma, Donzelli 2000.<br />
5<br />
Cfr. ad es. G. Nicoletti, «Institutions, Economic Structure and Performance: Is Italy<br />
Doomed?», in Isae, Annual Report on Monitoring Italy, Roma, gennaio 2002, in particolare<br />
pag. 162 e ss. e i lavori ivi citati.<br />
6<br />
Oecd, Employment Outlook, June 1999, Oecd, Regulatory reform, Parigi 2001.<br />
7<br />
Cfr. Nicoletti op. cit.<br />
8<br />
La ricerca è stata realizzata nei primi mesi del 2001, in collaborazione con il Comitato<br />
Piccola Industria della <strong>Confindustria</strong> e la Doxa.<br />
177
più in generale dall’inefficienza e dai costi del sistema amministrativo (infrastrutture<br />
incluse).<br />
L’evidenza mostra che i sistemi di gestione delle relazioni industriali sono<br />
sempre più soggetti a rigidità procedurali man mano che la scala delle attività<br />
si espande, e che in ogni caso a dimensioni maggiori corrisponde una<br />
più diffusa presenza delle organizzazioni dei lavoratori nelle decisioni e negli<br />
obiettivi aziendali, così che sul piano della gestione del fattore lavoro esiste<br />
comunque un vantaggio differenziale nel «restare piccoli» 9 . Più specificamente,<br />
un’azione penalizzante è svolta dai criteri di regolamentazione del<br />
rapporto di lavoro di tipo subordinato, che presenta discontinuità pronunciate<br />
in coincidenza di alcune soglie dimensionali (oltre le quali il regime appare<br />
molto più vincolistico). L’insieme delle norme tende a rendere la transizione<br />
dimensionale costosa dal punto di vista degli oneri crescenti che l’impresa<br />
deve sostenere. Un ruolo specifico svolge in questo quadro la disciplina del<br />
licenziamento individuale per le imprese con più di quindici dipendenti, sia<br />
per i costi che comporta per le imprese, sia soprattutto per la situazione di<br />
incertezza in cui tende a collocarle, dal momento che la durata dei processi<br />
impone all’impresa un lungo periodo di conflittualità.<br />
Al di là dei problemi connessi con le svariate soglie dimensionali previste<br />
dalle più diverse normative, il punto centrale rimane il fatto che la<br />
deverticalizzazione della struttura produttiva, anche in imprese sopra la<br />
soglia di 15, è spesso una scelta che comunque consente un maggiore elevato<br />
grado di flessibilità, che si perderebbe se l’attività economica fosse svolta<br />
in unità più grandi e «visibili».<br />
Questi meccanismi sono in parte anche alla base della fortissima propensione<br />
al lavoro autonomo che caratterizza l’economia italiana, e che la<br />
differenzia ulteriormente rispetto all’economia degli altri paesi industrializzati.<br />
Unità all’interno delle quali potrebbe svolgersi un’unica attività produttiva<br />
vengono spesso smembrate in unità diverse proprio per mantenere<br />
l’impresa nel suo complesso al di sotto di soglie che comporterebbero un<br />
aumento degli oneri di gestione (intesi anche in senso organizzativo). Nella<br />
stessa prospettiva può essere inquadrata la stessa ampiezza delle dimensioni<br />
dell’economia sommersa (anch’essa eccezionalmente elevata nel<br />
caso italiano), che costituisce il meccanismo attraverso il quale molte imprese<br />
abbattono almeno una quota dei costi della regolazione (tab. 4-33).<br />
Tab. 4-33 — Indicatori di struttura dell’occupazione<br />
Paesi<br />
Quota occupazione Quota lavoratori autonomi<br />
Peso economia sommersa<br />
imprese < 100 addetti su totale occupazione<br />
Anni ’70 (%) Anni ’90 (%) (%) (% del Pil)<br />
Italia 49 69 26.5 27.2<br />
Germania 19 19 10.2 14.8<br />
Francia 20 30 9.6 14.8<br />
Stati Uniti 17 20 6.6 8.8<br />
(*) Settore manifatturiero.<br />
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat, Fmi e Censimenti nazionali.<br />
9<br />
Questo aspetto del problema rientra nel dibattito sull'argomento fin dai suoi inizi; cfr.<br />
ad esempio S. Brusco, Decentramento produttivo e divisione del lavoro, in A. Del Monte e M.<br />
Raffa (a cura di), Tecnologia e decentramento produttivo, Torino, Rosemberg & Sellier, 1977.<br />
178
Non vi è dubbio che lo sviluppo della piccola e media impresa ha costituto<br />
una risposta di successo ai problemi che l’economia italiana ha dovuto<br />
affrontare in questi anni, negli ultimi venti anni. La piccola impresa ha dimostrato<br />
grandi capacità di innovare, nei processi, nei prodotti; è stata capace<br />
di adeguare rapidamente i propri mercati di sbocco e in generale è un<br />
asse portante dell’export italiano. L’essere costretti dalle rigidità del sistema<br />
a rimanere piccoli, l’essere vincolati nella scelta della dimensione ottimale<br />
più adatta alle caratteristiche del proprio mercato e delle tecnologie non può<br />
però essere considerato un punto di forza. Le difficoltà dell’Italia nel competere<br />
nei settori ad alta tecnologia, la tendenziale perdita di quote di mercato<br />
e l’essere particolarmente esposti alla crescente concorrenza dei paesi emergenti<br />
dipendono anche dal fatto che la parte più estesa del nostro sistema<br />
produttivo è, date le inferiori dimensioni medie, svantaggiata nel fare grande<br />
ricerca, nell’accedere ai flussi di capitali disponibili sui mercati internazionali,<br />
ad affermarsi e rafforzarsi nei nuovi settori che richiedono investimenti<br />
a lungo termine in tecnologia, ricerca, capitale umano. Di qui l’importanza<br />
di politiche volte a sostenere positivamente lo sviluppo e la crescita<br />
delle piccole e medie imprese, ma soprattutto volte a rimuovere le cause sistemiche<br />
che hanno contribuito a distorcere il nostro sviluppo industriale.<br />
4.7 La riforma della tassazione dei redditi d’impresa<br />
in Italia<br />
Il disegno di legge delega per la riforma fiscale presentato dal governo<br />
nel dicembre scorso, e di cui qualche elemento era stato anticipato nei<br />
provvedimenti adottati nei primi 100 giorni, punta a riordinare in modo radicale<br />
e in tempi relativamente brevi il sistema tributario statale. A regime<br />
si avrebbero 5 imposte, ordinate in un unico codice: un’imposta sul reddito,<br />
un’imposta sulle società, un’imposta sul valore aggiunto, un’imposta<br />
sui servizi, le accise. È inoltre prevista la graduale eliminazione dell’Irap.<br />
La relazione tecnica valuta in 17 miliardi di euro la riduzione netta ex ante<br />
di gettito in conseguenza delle modifiche proposte per i cinque tributi<br />
prima elencati. Nessuna valutazione viene fatta sulla completa abolizione<br />
dell’Irap, il cui gettito (per la parte relativa al settore privato) nel 2000 è<br />
stato pari a circa 21 miliardi di euro (tab. 1).<br />
Dall’attuazione della riforma «non possono derivare oneri aggiuntivi<br />
per il bilancio dello Stato» (art. 9); qualora questo vincolo venga superato<br />
il Ministro dell’Economia, informato il Parlamento, dovrà prendere le opportune<br />
misure correttive. Inoltre, i decreti attuativi sono «sottoposti al vincolo<br />
della sostanziale invarianza dei saldi economici e finanziari netti dei<br />
singoli settori istituzionali». Una «apposita normativa transitoria escluderà<br />
inasprimenti fiscali, rispetto a regimi fiscali garantiti dalla legislazione pregressa».<br />
Non è chiaro se questa clausola di salvaguardia vada in generale<br />
intesa a tutela della posizione del singolo contribuente, o vada interpretata<br />
nell’ambito della citata invarianza dei saldi netti per settore istituzionale.<br />
Solo per l’imposta sul reddito delle persone fisiche viene esplicitamente<br />
affermato che «a parità di condizioni, il nuovo regime risulti sempre<br />
più favorevole od uguale, mai peggiore, del precedente».<br />
A livello di tassazione personale si prevedono due sole aliquote di im-<br />
posta sul reddito: 23% fino a 100.000 euro e 33% oltre. La base imponi-<br />
Imposta<br />
sul reddito<br />
179
ile viene ampliata includendo, parzialmente, gli utili percepiti e le plusvalenze<br />
per le partecipazioni societarie qualificate. La riduzione del numero<br />
degli scaglioni rispetto ai 5 attuali e l’innalzamento dell’aliquota minima<br />
(ora 18%) si accompagnerà ad un sistema di deduzioni concentrate<br />
sui redditi bassi e medi in modo da consentire di graduare il carico fiscale.<br />
Le deduzioni, che sostituiranno gradualmente le attuali detrazioni<br />
d’imposta, saranno commisurate alla dimensione della famiglia, ai carichi<br />
di lavoro e a spese meritorie (ad esempio attività svolta nel campo sociale,<br />
assistenziale e di promozione sociale e valorizzazione etica, culturale e scientifica).<br />
Sulla base della soglia di povertà, verrà identificato un livello di reddito<br />
minimo escluso da imposizione. Tali aspetti fondamentali non sono stati<br />
ancora dettagliati. La modulazione dell’attuazione della riforma è demandata<br />
alle leggi finanziarie annuali, che provvederanno alla quantificazione<br />
degli oneri e alla relativa copertura. La relazione tecnica indica in<br />
20,5 miliardi di euro (di cui 19,1 a carico dell’erario e 1,4 per l’addizionale<br />
regionale), la riduzione di prelievo a regime.<br />
Per i redditi di natura finanziaria è prevista la convergenza sul livello<br />
di tassazione dei titoli del debito pubblico (12,5%); attualmente su<br />
molte attività finanziarie (ad esempio depositi bancari e strumenti a breve)<br />
grava un’aliquota del 27%. Tutti i proventi finanziari saranno quindi<br />
soggetti ad un’imposta sostitutiva proporzionale sotto forma di ritenuta<br />
definitiva alla fonte, senza più distinzione tra le categorie dei redditi di<br />
capitale e redditi diversi. Nell’ipotesi di un andamento non brillante dei<br />
mercati borsistici, la perdita di gettito viene stimata in 1.888 milioni di<br />
euro.<br />
Iva, imposta<br />
sui servizi,<br />
accise<br />
Imposta<br />
sul reddito<br />
delle società<br />
e Irap<br />
L’obiettivo è avvicinare il più possibile l’Iva a un’imposta sui consumi<br />
finali, rivedendo in particolare i regimi speciali e le disposizioni in materia<br />
di indetraibilità. È inoltre prevista la possibilità di escludere dalla base imponibile<br />
fino all’1% della spesa per consumi a fronte di erogazioni con finalità<br />
etiche. Varie imposte sugli affari (registro, bollo, concessioni governative,<br />
imposte ipotecarie e altre) verranno accorpate in un’unica ‘imposta<br />
sui servizi’, unificando modalità di prelievo e caratteristiche dell’obbligazione<br />
fiscale. Per le accise l’obiettivo è di aumentarne il coordinamento con<br />
le imposte sui consumi.<br />
L’Irpeg viene sostituita dall’imposta sul reddito delle società (Ires) con<br />
aliquota, a regime, del 33%; in base alla legislazione vigente l’aliquota è<br />
36% per il 2002 e 35% a decorrere dal 2003. Viene abrogato il meccanismo<br />
Dit. Per le partecipazioni iscritte nelle immobilizzazioni è prevista l’esenzione<br />
delle plusvalenze realizzate da società di capitali con la cessione di<br />
partecipazioni sociali 1 e l’esclusione dalla formazione del reddito del 95%<br />
dei dividendi netti percepiti. All’esenzione delle plusvalenze corrisponde l’indeducibilità<br />
delle minusvalenze (da realizzo) e delle svalutazioni (di fine<br />
esercizio). Se le partecipazioni non sono iscritte tra le immobilizzazioni si<br />
applica il regime ordinario. Inoltre non è esente la cessione di partecipazioni<br />
di breve periodo e di partecipazioni in società di comodo (senza esercizio<br />
d’impresa). Scompare il credito d’imposta sui dividendi, che spetta attualmente<br />
al socio per le imposte già pagate dalla società, e si passa così<br />
1<br />
Si riferisce a partecipazioni in società sia di capitali che di persone, sia residenti che<br />
non, purché non in paradisi fiscali.<br />
180
da un sistema definito a piena imputazione al sistema classico di tassazione.<br />
La parziale indeducibilità degli interessi passivi è prevista nel caso in<br />
cui: i) essi derivino dal finanziamento dell’acquisto di partecipazioni; ii) si<br />
tratti di finanziamenti erogati o garantiti da soci «qualificati» che detengono<br />
almeno il 10% delle partecipazioni. Tali finanziamenti devono superare<br />
una certa soglia (da stabilire) in rapporto alla quota di patrimonio netto<br />
riferibile al socio (a condizione che gli interessi stessi non confluiscano<br />
in un reddito imponibile in Italia).<br />
È prevista la possibilità di optare per un consolidato di gruppo, con<br />
un vincolo di tre anni. Il gruppo è definito in base al requisito formale<br />
del controllo della maggioranza dei diritti di voto. Si prevede che, in linea<br />
con quanto già previsto in Francia e Usa, la società capogruppo possa<br />
presentare un’unica dichiarazione in cui dichiari un reddito imponibile<br />
dato come somma algebrica degli imponibili delle società del gruppo,<br />
opportunamente rettificati 2 . Nel consolidato domestico la capogruppo deve<br />
essere una società residente o con stabile organizzazione in Italia, e le<br />
controllate devono essere residenti. È previsto un regime facoltativo di<br />
neutralità fiscale per gli scambi intragruppo di beni che non producono<br />
ricavi. Sono previste limitazioni antielusive, ad esempio, per l’utilizzo di<br />
perdite. È considerata la possibilità del consolidato «mondiale», attualmente<br />
possibile solo in Danimarca e Francia, con l’inclusione delle società<br />
non residenti. Per l’onere e la complessità del meccanismo, sono previste<br />
cautele particolari.<br />
Le plusvalenze e i dividendi relativi a partecipazioni qualificate saranno<br />
parzialmente incluse nel reddito imponibile (al netto dei relativi costi)<br />
e soggette all’imposta progressiva sul reddito.<br />
È poi prevista la graduale eliminazione dell’Irap, da compensare, d’intesa<br />
con le Regioni, con compartecipazioni o trasferimenti. Non vi sono indicazioni<br />
sui tempi di attuazione; per quanto concerne le modalità, la norma<br />
precisa che è prioritaria la progressiva esclusione dalla base imponibile<br />
del costo del lavoro e di altri costi. Al riguardo, nella relazione tecnica si<br />
ipotizza che «in una prima fase di applicazione», venga reso deducibile il<br />
20% del costo del lavoro.<br />
La relazione tecnica valuta in 2.285 milioni di euro il maggior gettito<br />
della tassazione sui redditi di impresa e in 2.272 milioni di euro l’abbatti-<br />
mento del gettito Irap nell’ipotesi di deducibilità del 20% del costo del la-<br />
voro (tab. 4-34). Se queste valutazioni sono corrette il saldo netto degli aggravi<br />
e degli alleggerimenti di imposta sarebbe in prima approssimazione<br />
pari a zero.<br />
Non è però chiaro se la relazione tecnica tenga conto del fatto che non<br />
vi è completa simmetria tra aumento della tassazione sulle società e riduzione<br />
dell’Irap, dato che approssimativamente il 30% del gettito Irap viene<br />
da soggetti diversi dalle società di capitali.<br />
La condizione dell’invarianza del saldo per settore istituzionale sembrerebbe<br />
per un verso implicare spazi limitati di riduzione netta del prelievo<br />
fiscale complessivo sulle imprese. Nella relazione tecnica viene ribadito<br />
che le risorse aggiuntive derivanti dalla riforma dell’imposta sulle so-<br />
Effetti<br />
sulle imprese:<br />
il saldo<br />
complessivo<br />
2<br />
L’alternativa sarebbe seguire il metodo applicato in Germania e Regno Unito, dove viene<br />
consentito all’impresa di attribuire alle altre società del gruppo le proprie perdite di esercizio.<br />
181
Tab. 4-34 — Effetti della delega fiscale a regime<br />
(Milioni di euro)<br />
Imposta personale sul reddito (Art. 3 commi 1 (lett. A, b, c), 2, 3) –17.976<br />
Riforma della curva Irpef e delle detrazioni d’imposta –20.500<br />
Minore gettito erariale –19.100<br />
Minore gettito addizionale regionale –1.400<br />
Effetti indotti:<br />
Incremento Iva per i maggiori consumi +2.500<br />
Incremento sostitutiva sui risparmi +24,5<br />
Redditi di natura finanziaria (Art. 3, comma 1, lett. C) –2.240<br />
Passaggio dal criterio del maturato al criterio del realizzato –352<br />
Minori entrate di competenza relative alla quota dei depositi in possesso delle<br />
famiglie a) –1.548<br />
Perdita di gettito relativa alla quota dei depositi in possesso delle imprese a) –340<br />
Imposta sul reddito delle società (Art. 4) +2.285<br />
Consolidato nazionale +831<br />
Effetti sulle società non rientranti nel consolidato ed enti commerciali +2.081<br />
Riduzione aliquota al 33% –1.560<br />
Abolizione Dit su pregresso (con aliquota 33%) +1.286<br />
Eliminazione credito d’imposta sui dividendi +1.033<br />
Tassazione del 5% dei dividendi netti +72<br />
Indeducibilià delle minusvalenze da partecipazione +1.250<br />
Esenzione plusvalenze –710<br />
Pro rata indeducibilità interessi sostenuti da società che detengono partecipazioni<br />
immobilizzate +511<br />
Indeducibilità degli interessi passivi su finanziamenti da parte di soci 331<br />
Opzione per il regime di trasparenza fiscale –179<br />
Abolizione sostitutiva plusvalenze da cessione di aziende e di partecipazioni di controllo –533<br />
Tonnage Tax –47<br />
Imposta sul valore aggiunto (Art. 5) 590<br />
detraibilità del 10% dell’Iva relativa a tutti i beni indetraibili 590<br />
(al netto del recupero delle dirette)<br />
Istituzione dell’imposta sui servizi (Art. 6) b) —<br />
Accise (Art. 7) c)<br />
n.c.<br />
Totale a regime senza la riforma Irap –17.340<br />
Abolizione Irap (Art. 8) d) –20.700<br />
di cui: deducibilità del 20% del costo del lavoro a fini Irap –2.272<br />
Totale effetti finanziari con riforma Irap a regime –38.040<br />
a) I valori si riferiscono allo scenario con andamento di borsa non positivo. In caso di andamento positivo i valori<br />
diventano 1.478 e 325 rispettivamente.<br />
b) L’introduzione di questa nuova imposta si intende a parità di gettito con le imposte sostituite.<br />
c) Nella relazione tecnica non vengono quantificati i costi.<br />
d) il dato si riferisce al gettito Irap proveniente dal settore privato per il 2000; la riduzione che attiene al settore<br />
pubblico non incide sul saldo della Pa.<br />
Fonte: Relazione tecnica al dll. 2144, trasmessa alla Camera il 13 febbraio 2002, elaborazioni Csc.<br />
cietà dovranno servire a finanziare il costo della progressiva eliminazione<br />
dell’Irap e, per l’eventuale residuo, della riduzione della tassazione delle<br />
rendite finanziarie. Anche gli abbattimenti di base imponibile Irap aggiuntivi<br />
rispetto a quello del 20% del costo del lavoro vengono esplicitamente<br />
collegati agli aumenti di gettito dell’imposta sulle società conseguenti<br />
182
alle riforme proposte 3 . Peraltro, anche per l’Irap, così come per l’Irpef, la<br />
modulazione dell’attuazione della delega e quindi la specifica quantificazione<br />
degli oneri e l’indicazione della copertura sono demandate al Dpef e<br />
alle conseguenti leggi finanziarie annuali.<br />
Analisi micro<br />
L’indicatore<br />
utilizzato<br />
Per valutare l’impatto microeconomico di due degli aspetti salienti della<br />
riforma, la riduzione dell’aliquota Irpeg e l’eliminazione della Dit e dell’Irap,<br />
abbiamo utilizzato un modello economico-aziendale, simile come concezione<br />
a quello utilizzato dalla Commissione Ue 4 , che consente di calcolare<br />
la pressione fiscale, definita come aliquota media effettiva (Ame), a partire<br />
da un bilancio aziendale 5 . Il conto economico e lo stato patrimoniale<br />
sono stati redatti in base alla normativa civilistica italiana a cui, separatamente,<br />
si sono applicate le regole fiscali. Per lo sviluppo prospettico (10<br />
anni) del conto economico e dello stato patrimoniale ci si è basati su un’analisi<br />
strutturale dei bilanci delle imprese del campione Mediobanca 6 . I calcoli<br />
sono relativi a società non appartenenti ad un gruppo.<br />
Le aliquote medie effettive (Ame) sono definite come il rapporto tra la<br />
somma dei valori attuali delle imposte pagate dall’impresa nell’arco di vita<br />
dell’investimento e la somma dei valori attuali dei flussi della remunerazione<br />
del capitale, sia proprio che di terzi. La sensitività dei risultati rispetto<br />
ai metodi di finanziamento è stata condotta considerando alternativamente<br />
il caso in cui i nuovi investimenti siano finanziati al 100% con capitale<br />
proprio o con capitale di terzi (debito a medio/lungo termine al tasso<br />
del 5,5% o con debito a breve al tasso del 6,5%).<br />
A parità di rendimento dell’investimento, l’utile d’esercizio nel caso di<br />
finanziamento con capitale di terzi differisce da quello nel caso di finanziamento<br />
con capitale proprio esattamente dell’ammontare degli oneri finanziari<br />
pagati sul nuovo debito. Per poter comparare correttamente le due<br />
situazioni si è quindi considerata la remunerazione del capitale come somma<br />
del risultato d’esercizio prima delle imposte e interessi passivi maturati<br />
sul debito acceso per il finanziamento dei nuovi investimenti. In questo<br />
modo il peso del fisco viene valutato sul rendimento dell’investimento,<br />
indifferentemente dal fatto che tale rendimento vada a remunerare il capitale<br />
proprio o di debito. Infine, poiché nella pratica il finanziamento avviene<br />
sempre in parte con capitale proprio e in parte con capitale di terzi,<br />
3<br />
Cfr. Relazione tecnica al disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale, pag.<br />
45: «Tanto maggiori saranno questi effetti, tanto più elevata potrà essere la quota di risorse<br />
da destinare ad una più consistente riduzione dell’Irap, fino a un suo superamento».<br />
4<br />
Cfr. Commissione Ue, Toward an internal market without tax obstacles COM(582) 2001<br />
5<br />
La ricostruzione del bilancio di partenza è stata effettuata seguendo la metodologia<br />
di riclassificazione dei bilanci di Mediobanca. Nel caso specifico è stato però necessario avere<br />
molto più dettaglio sulla struttura dello stato patrimoniale, con riferimento alle immobilizzazioni<br />
tecniche. Nel bilancio da noi considerato abbiamo disaggregato: Terreni, Fabbricati<br />
industriali, Impianti e macchinari, Attrezzature industriali e commerciali, Altri beni<br />
materiali, Immobilizzazioni in corso e acconti. Nel conto economico una differenza rilevante<br />
rispetto alla classificazione di Mediobanca è che la posta relativa ai dividendi da partecipazioni<br />
(parte degli oneri finanziari) è comprensiva anche delle imposte versate dall’azienda<br />
partecipata.<br />
6<br />
Dal lato del conto economico il modello consente di variare: i tassi annuali di crescita<br />
dei ricavi; l’incidenza della struttura dei costi attinenti la gestione caratteristica (materie prime,<br />
lavoro etc.); il grado di ammortamento del capitale immobilizzato; l’incidenza della struttura<br />
dei costi attinenti la gestione patrimoniale e straordinaria; la modalità di utilizzo degli<br />
utili netti (autofinanziamento versus dividendi); dal lato dello stato patrimoniale: l’andamento<br />
dello stock di immobilizzazioni (nuovi investimenti, disinvestimenti); il grado di rotazione<br />
del capitale investito e della sua componente a più alta velocità di rinnovo.<br />
183
per il calcolo della media ponderata si è ipotizzato che la corporate finance<br />
sia al 50% con capitale proprio e per il restante 50% con debito.<br />
È altresì chiaro che il peso complessivo del fisco (e quindi l’analisi della<br />
neutralità del fisco rispetto ai metodi di finanziamento) richiederebbe<br />
una valutazione anche della tassazione dei redditi a livello personale. Se a<br />
livello personale le aliquote medie pagate sulle rendite finanziarie sono minori<br />
rispetto a quelle pagate sui profitti distribuiti, è evidente che aumenta<br />
il favore del fisco per il finanziamento tramite debito.<br />
In simulazione l’impresa effettua nel primo anno 7 un dato ammontare<br />
di investimenti in immobilizzazioni tecniche (sulla base di trend calcolati<br />
sui dati Mediobanca), mentre negli anni successivi limita la sua attività<br />
di investimento a mantenere costante lo stock di capitale iniziale (investimenti<br />
di rimpiazzo, pari alla quota di ammortamento dell’anno al netto<br />
della parte relativa agli investimenti del primo anno di analisi). In questo<br />
modo l’analisi è focalizzata sull’incidenza del fisco sui rendimenti dei<br />
nuovi investimenti.<br />
La prima simulazione effettuata si riferisce all’aliquota media che ri-<br />
sulta con la riduzione a 33% dell’aliquota nominale Irpeg. Il calcolo è stato<br />
fatto per casi di tipo, tenendo conto di due dimensioni assai rilevanti ai<br />
fini dei risultati: i) redditività, considerando tre diversi Roe rispettivamente<br />
pari a 16,0% 9,6% e 5,6% 8 ; ii) fonti di finanziamento dei nuovi investimenti<br />
(capitale, debiti a breve e a medio/lungo termine).<br />
Il range entro cui varia l’aliquota effettiva è compreso (tab. 4-35) tra<br />
il 29,5 e il 20,6% in funzione della redditività dell’impresa: quanto più alta<br />
la redditività, tanto più alta è l’aliquota media effettiva. Tale differenza<br />
dipende sia dalla presenza di deduzioni fiscali proporzionali al valore degli<br />
investimenti e non alla loro redditività, sia dal peso dato al finanziamento<br />
con capitale proprio rispetto a quello con capitale di terzi.<br />
Il significato dei risultati appare forse più chiaro se si analizzano separatamente<br />
i casi in cui il finanziamento avvenga al 100% con capitale<br />
proprio e poi con capitale di terzi. Nel primo caso, la modesta differenza<br />
tra aliquota legale e effettiva dipende dal fatto che gli ammortamenti anticipati<br />
riducono l’utile fiscale rispetto a quello civilistico 9 . Nel secondo, agli<br />
effetti degli ammortamenti anticipati, si sommano quelli, di gran lunga più<br />
consistenti, relativi alla deducibilità degli oneri finanziari. Il differenziale<br />
tra le aliquote medie, distinte in base al metodo di finanziamento, è pertanto<br />
molto ampio (circa 18 punti percentuali), soprattutto se vi è una bassa<br />
redditività dell’investimento.<br />
Nel caso, previsto dalla delega, di un limite alla deducibilità degli interessi<br />
passivi, la differenza tra la tassazione del capitale proprio e quella<br />
del capitale di terzi sarebbe più contenuta, ma vi sarebbe una convergenza<br />
delle aliquote effettive verso quelle pagate sul capitale proprio, che rap-<br />
Aliquota Irpeg<br />
al 33%<br />
7<br />
Si intende primo anno in relazione all’analisi non all’attività d’impresa.<br />
8<br />
Per poter confrontare i vari casi analizzati a parità di redditività è stato necessario fissare<br />
la redditività dell’impresa prima del pagamento delle imposte, si lascia variare la redditività<br />
dopo le imposte. Per cui il Roe (return on equity) preso a riferimento è dato come rapporto<br />
tra il risultato d’esercizio prima delle imposte e il patrimonio netto. Quest’ultimo è stato<br />
costruito come somma del capitale sociale più le riserve. Per i valori si è fatto riferimento<br />
a stime elaborate sui dati Mediobanca.<br />
9<br />
Solo nell’ipotesi in cui i mercati finanziari funzionino perfettamente, ovvero vi sia lo<br />
stesso rendimento del capitale proprio e del capitale di debito, diventa indifferente anticipare<br />
o posticipare un pagamento, come nel caso degli ammortamenti anticipati, in cui si posticipa.<br />
184
Tab. 4-35 — Aliquote medie effettive (1)<br />
(Valori percentuali)<br />
Metodi di finanziamento<br />
Alta redditività Media redditività Bassa reddività<br />
(Roe 16%) (Roe 9,6%) (Roe 5,6%)<br />
Con Irpeg a 33%<br />
Capitale proprio 31,7 30,4 29,9<br />
Debiti breve/termine 27,1 21,0 10,4<br />
Debiti medio lungo/termine 27,5 21,8 12,0<br />
Media ponderata (2) 29,5 25,9 20,6<br />
Irap e effetto deducibilità 20% (3)<br />
Alto valore aggiunto su risultato<br />
d’esercizio 30,6 (–5,1) 33,5 (–5,8) 38,5 (–6,8)<br />
Basso valore aggiunto su risultato<br />
d’esercizio 7,5 (–0,7) 7,5 (–0,7) 7,5 (–0,7)<br />
Con Irpeg a 35%, Dit al 19%<br />
Capitale proprio 26,5 20,4 18,6<br />
Debiti breve/termine 24,1 15,4 6,4<br />
Debiti medio lungo/termine 24,5 16,2 7,3<br />
Media ponderata (2) 25,4 18,1 12,7<br />
(1)<br />
Prelievo su utili più eventuale costo finanziamento dell’investimento. Si veda spiegazione<br />
nel testo.<br />
(2)<br />
Si considera che il finanziamento avvenga al 50% con apporti di capitale e debito.<br />
(3)<br />
In parentesi la diminuzione di aliquota media effettiva riferibile all’Irap nel caso di deducibilità<br />
del 20% del costo del lavoro.<br />
Fonte: Elaborazione Csc.<br />
presentano quindi un limite superiore. Su questo punto, la delega lascia indefiniti<br />
diversi elementi e non è quindi possibile fare una precisa simulazione<br />
quantitativa. In particolare la delega non esplicita i parametri in base<br />
ai quali dovrebbe scattare tale indeducibilità. La ratio della norma è<br />
quella di limitare comportamenti elusivi da parte dei soci non residenti,<br />
che finanzierebbe l’attività d’impresa preferibilmente tramite debito.<br />
Un confronto con l’attuale livello del carico fiscale è reso particolarmente<br />
incerto dalla frammentarietà che caratterizza in questo momento il<br />
sistema fiscale, frammentarietà inevitabile in una fase come l’attuale di<br />
transizione da un sistema a un altro. Si consideri infatti che nel 2002, le<br />
imprese possono utilizzare (in alternativa alla Dit) la Tremonti-bis, incentivo<br />
di natura temporanea su gli investimenti. La Dit, se utilizzata, viene<br />
comunque applicata ai soli incrementi patrimoniali maturati fino a giugno<br />
2001. Anche la rivalutazione dei cespiti aziendali effettuata nel 2001 avrebbe<br />
dovuto concorrere alla formazione del reddito assoggetabile alla Dit. Per<br />
il 2003, a legislazione vigente, la Dit dovrebbe essere considerata congelata<br />
e l’aliquota Irpeg dovrebbe passare da 36 a 35%.<br />
Si è quindi preferito considerare anche il caso in cui venga applicata<br />
un’aliquota Irpeg al 35% con il meccanismo Dit applicato sull’intero patrimonio<br />
netto (con aliquota al 19%). Si tratta cioè di un confronto tra due<br />
scenari a regime.<br />
Nei casi simulati, la Dit a regime comporta una differenza di tassazione<br />
tra investimenti finanziati con capitale proprio e quelli finanziati con<br />
del capitale di terzi al massimo di circa 11 punti percentuali. Dall’altro can-<br />
185
to la Dit, concedendo una deduzione dalla base imponibile simile per natura<br />
a quella concessa per gli oneri finanziari, estende al capitale proprio<br />
la stessa dipendenza delle aliquote dalla redditività: le aliquote variano dal<br />
25,4% al 12,7%. In questo scenario le aliquote medie ponderate risultano<br />
dai 4 agli 8 punti più basse che nello scenario precedente, la differenza tende<br />
a essere tanto più ampia quanto maggiore è la quota di finanziamento<br />
con capitale proprio. Per entrambi i casi sono state effettuate analisi di sensitività<br />
rispetto alla composizione del valore aggiunto, non riportate in tabella<br />
perché gli scostamenti sono modesti.<br />
Eliminazione<br />
Irap<br />
Per valutare di quanto diminuisce la pressione fiscale sul reddito di<br />
impresa nel caso di completa eliminazione dell’Irap si è costruito l’indicatore<br />
Irap esattamente come per il caso della tassazione dei redditi d’impresa,<br />
utilizzando di nuovo come denominatore la remunerazione del capitale<br />
proprio e di terzi. L’aliquota effettiva Irap così calcolata è sommabile<br />
con le altre relative all’Irpeg. L’indicazione che si ottiene rappresenta l’ammontare<br />
sottratto dalla remunerazione del capitale per il pagamento dell’Irap.<br />
Anche se formalmente l’Irap grava sul valore aggiunto netto, per la<br />
sua allocazione in bilancio (dopo l’utile di esercizio) e la sua indeducibilità<br />
dall’Irpeg nonchè per le modalità di pagamento viene percepita dai contribuenti<br />
come un’imposta sui redditi d’impresa. In parentesi è riportata anche<br />
la diminuzione di tale aliquota nel caso di deducibilità del costo del lavoro<br />
pari al 20% (tab. 4-35). Ad esempio, nel caso di alta redditività, di aliquota<br />
Irpeg al 33%, di impresa ad alta intensità di lavoro e di non eliminazione<br />
dell’Irap l’aliquota media ponderata riferita al reddito dell’investimento<br />
può essere stimata in 29,5 + 30,6 = 61,1; eliminando tutta l’Irap rimane<br />
il 29,5; con la deducibilità del 20% del costo del lavoro l’aliquota sarebbe<br />
29,5 + 30,6 – 5,1 = 56,0.<br />
Va sottolineato che la differenza tra la base imponibile Irap e il denominatore<br />
da noi utilizzato dipende sostanzialmente dal rapporto tra valore<br />
aggiunto e risultato d’esercizio. Da un’analisi dei dati Mediobanca si rileva<br />
che questo rapporto è molto variabile da settore a settore in dipendenza<br />
dell’intensità di capitale ma è anche molto variabile in dipendenza<br />
di fattori congiunturali, che hanno un impatto molto diverso sul valore aggiunto<br />
(meno sensibile al ciclo) e sul risultato d’esercizio.<br />
Per esemplificare la sensibilità dei risultati rispetto a questo parametro<br />
abbiamo considerato due diversi casi in cui il rapporto di base tra risultato<br />
d’esercizio e valore aggiunto è all’incirca pari a 2,5 (che poi varia<br />
in base alla redditività). Questo dato corrisponde, ad esempio, ai valori medi<br />
ottenuti nel periodo 1991-2000 per le imprese del settore energetico del<br />
campione Mediobanca. L’altro caso tipo è caratterizzato da un rapporto valore<br />
aggiunto su risultato d’esercizio pari circa a 6,5. Dai dati Mediobanca<br />
risulta che il valore medio sempre tra 1991-2000, per il settore manifatturiero,<br />
è stato circa 5,6. Nella nostra simulazione il carico relativo all’Irap<br />
varia da un massimo del 38,5% (imprese con un elevato rapporto valore aggiunto/risultato<br />
di esercizio e con una bassa redditività) ad un minimo di<br />
7,5% (imprese con un basso rapporto valore aggiunto risultato di esercizio);<br />
in quest’ultimo caso gli effetti legati alla redditività sono trascurabili. Come<br />
si è detto questi valori rappresentano la diminuzione di carico fiscale<br />
rapportato alla stessa base imponibile dell’imposta sulle società, nell’ipotesi<br />
di completa abrogazione dell’Irap.<br />
Si è inoltre evidenziato in parentesi di quanto diminuisce l’aliquota<br />
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Irap effettiva nel caso di deducibilità del 20% del costo del lavoro. Nei nostri<br />
casi tipo, la riduzione di aliquota media effettiva può variare da 0,7 a<br />
5-7 punti, secondo la struttura di bilancio delle imprese. Nella fase di transizione<br />
quindi la deducibilità del 20% del costo del lavoro a fini Irap potrebbe<br />
non coprire per tutte le imprese (in particolare per quelle con un<br />
elevato rapporto tra valore aggiunto e risultato di esercizio e con una bassa<br />
redditività) lo svantaggio dell’eliminazione della Dit. In linea di principio<br />
le riforme prefigurate dalla legge delega possono quindi portare a redistribuzioni<br />
anche sensibili del carico fiscale tra le imprese. Per un’analisi<br />
più precisa occorrerà pertanto attendere come sarà in concreto dettagliata<br />
la clausola di salvaguardia e come il Documento di programmazione<br />
economico-finanziaria e le prossime leggi finanziarie moduleranno i tempi<br />
e l’entità degli interventi sull’Irap.<br />
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Finito di stampare nel mese di giugno 2002<br />
dall’Industria Grafica Failli Fausto snc - Guidonia-Montecelio (Roma)