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capitolo 4.pdf - Confindustria

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4. STRUTTURA PRODUTTIVA,<br />

MERCATO DEL LAVORO, FISCALITÀ<br />

4.1 Le classifiche internazionali sulle imprese: risultati<br />

e limiti metodologici<br />

Opportune classifiche di insiemi qualificati di imprese possono essere<br />

utili per la descrizione delle caratteristiche del sistema produttivo di cui<br />

tali imprese fanno parte. Queste classifiche, sulla base di determinati pa-<br />

rametri quantitativi o eventualmente qualitativi, riferiti ad un certo perio-<br />

do temporale e ad un determinato ambito geografico o settoriale, ordinano<br />

le prime «n» aziende nell’ambito dell’insieme considerato. Oltre all’ovvio risultato<br />

di individuare le principali aziende rispetto al parametro scelto, le<br />

classifiche offrono alcune informazioni utili nell’analisi delle dinamiche imprenditoriali<br />

a livello aggregato. In particolare, vi sono tre prospettive di<br />

valutazione che possono essere sviluppate.<br />

Il primo è il valore aggregato registrato relativamente al parametro di<br />

ordinazione dall’universo di imprese classificate. Se (come normalmente accade)<br />

questo universo è costituito dalle «n» maggiori imprese (con «n» sufficientemente<br />

grande), questo dato costituisce un indicatore del rilievo che<br />

le grandi società hanno nel sistema economico (geografico o settoriale) a cui<br />

è riferita la classifica.<br />

In secondo luogo, l’universo delle prime «n» imprese può essere scomposto<br />

in funzione del paese di appartenenza di tali imprese, individuato<br />

dalla nazionalità degli azionisti che ne detengono la maggioranza. Si ottiene<br />

così una nuova classifica che ordina i paesi sulla base della presenza<br />

delle loro imprese (o del peso che esse hanno rispetto al parametro di misurazione)<br />

nell’universo considerato, indicando il rilievo di tali paesi nella<br />

struttura economica internazionale costituita dai maggiori gruppi produttivi.<br />

Il reale contenuto informativo di questo indicatore va considerato in<br />

relazione al rilievo che la nazionalità degli azionisti di maggioranza ha in<br />

società che, come quelle normalmente considerate nelle classifiche, sono caratterizzate<br />

da livelli molto elevati di investimenti produttivi internazionali<br />

e da azionisti di riferimento normalmente appartenenti a più nazioni.<br />

In particolare, va considerato che i gruppi con elevato indice di transnazionalità<br />

1 hanno un legame con il proprio paese di appartenenza che tende<br />

ad essere soprattutto di natura finanziaria; che la parte prevalente del<br />

valore aggiunto, dei fattori di vantaggio competitivo e delle esternalità (positive<br />

o negative) sono prodotte in altre aree geografiche; che, nei modelli<br />

organizzativi internazionali più avanzati, anche la governance del gruppo<br />

L’utilità delle<br />

«classifiche»<br />

tra imprese per<br />

interpretare<br />

i fenomeni<br />

imprenditoriali<br />

1<br />

L’indice di transnazionalità è dato dalla media di tre rapporti: il rapporto tra il volume<br />

di affari realizzato all’estero sul totale del volume di affari; il rapporto tra gli investimenti<br />

esteri rispetto al totale degli investimenti esteri; il rapporto tra i dipendenti operanti all’estero<br />

sul totale dei dipendenti. Pur con alcuni limiti intrinseci, fornisce un’indicazione del grado<br />

di apertura internazionale dell’impresa.<br />

119


tende ad essere parzialmente «diffusa» al di fuori della corporate e quindi<br />

del paese dove risiedono gli azionisti di maggioranza.<br />

La terza prospettiva di analisi considera ancora i sottoinsiemi di imprese<br />

costruiti sulla base del paese degli azionisti di maggioranza e deriva<br />

dalla lettura sistematica di più classifiche, ottenute sulla base di diversi<br />

parametri di misurazione. L’analisi delle differenze della presenza dei vari<br />

aggregati nazionali nelle diverse classifiche mostra fattori di specificità della<br />

struttura dei principali gruppi di ciascun paese, evidenziandone aree di<br />

forza o di debolezza relativa.<br />

I limiti<br />

I dati rilevati nelle classifiche delle «prime ‘n’ imprese» offrono, dundi<br />

utilizzazione que, diversi motivi di interesse e di applicazione. L’informazione fornita da<br />

delle<br />

questi dati presenta, però tre importanti limiti intrinseci. In primo luogo,<br />

«classifiche» per sua natura, una classifica offre una fotografia statica del modo in cui<br />

tra imprese il fenomeno che essa rappresenta si manifesta in un determinato momento.<br />

Essa risente, quindi, dei fattori congiunturali che intervengono nel periodo<br />

di tempo in cui viene registrata. Naturalmente, questo limite ha un<br />

rilievo tanto minore quanto più il criterio di classificazione ha natura strutturale<br />

ed è quindi scarsamente influenzato da elementi contingenti; oppure,<br />

ha una dimensione assoluta notevole, e quindi, l’impatto di fenomeni<br />

temporanei anche significativi è proporzionalmente contenuto. Nel caso delle<br />

grandezze economiche e finanziarie registrate dalle aziende su base annua,<br />

l’impatto di fattori esterni congiunturali è notoriamente rilevante e,<br />

per quanto detto, limita la significatività dell’informazione fornita dalla<br />

classifica basata sui dati di un solo periodo.<br />

Il secondo limite intrinseco che incontra l’interpretazione di un fenomeno<br />

attraverso l’ordinazione degli elementi che lo costituiscono consiste<br />

nella circostanza che tale classificazione è fortemente influenzata dalle modalità<br />

di misurazione. Il problema della misurazione riguarda in primo luogo,<br />

l’affidabilità del metodo di rilevazione dei dati; in secondo luogo, la qualità<br />

intrinseca del dato misurato. Questi due problemi risultano praticamente<br />

determinanti nel caso di criteri di classificazione di natura qualitativa.<br />

Infine, nel caso (normalmente di maggiore interesse) che l’universo<br />

analizzato comprenda soggetti appartenenti a paesi diversi, si manifesta il<br />

problema della confrontabilità di dati che fanno riferimento a metriche differenti,<br />

ovvero, la necessità di individuare un meccanismo di conversione<br />

«neutrale».<br />

La terza difficoltà di fondo delle classifiche delle principali imprese consiste<br />

nella mancanza di una rilevazione «ufficiale», eseguita, in maniera<br />

analoga a quanto avviene per le principali grandezze macroeconomiche, da<br />

organismi pubblici internazionali, sulla base di metodologie codificate e universalmente<br />

riconosciute. Le classifiche disponibili sono realizzate da soggetti<br />

privati normalmente operanti nel settore dell’informazione e della ricerca,<br />

con lo scopo essenziale non tanto di fornire una pura informazione<br />

statistica, quanto di arricchire la propria offerta commerciale.<br />

Una tassonomia Le classifiche disponibili possono essere distinte in funzione del paradelle<br />

classifiche metro di misurazione e del metodo di rilevazione dei dati (fig. 4-1).<br />

internazionali Per quanto riguarda il primo aspetto, si considerano da un lato, le clasdelle<br />

imprese sifiche basate su valori quantitativi e, dall’altro, quelle che fanno invece riferimento<br />

a grandezze qualitative.<br />

I principali parametri normalmente utilizzati per le classifiche «quan-<br />

120


Fig. 4-1 — Tassonomia delle classifiche internazionali delle imprese<br />

Classifiche quantitative<br />

basate sulla rilevazione<br />

di dati di bilancio<br />

o di mercato<br />

Classifiche quantitative<br />

basate su elaborazioni<br />

dei dati di bilancio<br />

o di mercato<br />

Classifiche qualitative<br />

basate su indagini<br />

specifiche<br />

• fatturato<br />

• valore di mercato<br />

• utile netto<br />

• assets investiti<br />

• n.ro dipendenti<br />

• Roe, Eps.<br />

• Tasso di crescita delle<br />

Pmi<br />

• Marchi globali<br />

• Marchi di maggior<br />

valore<br />

• Imprese «meglio gestite»<br />

• Imprese «più ammirate»<br />

• Imprese «più rispettate»<br />

- Business Week<br />

- Financial Times<br />

- Forbes<br />

- Fortune<br />

- Industry Week<br />

- AC Nielsen<br />

- Business Week - Interbrand<br />

- Growth Plus<br />

- Financial Times<br />

- Fortune<br />

- Industry Week<br />

- Reputation Instit.<br />

titative» sono: fatturato; valore di mercato; utile netto; assets investiti; numero<br />

di dipendenti. La combinazione dei valori di questi parametri permette,<br />

inoltre di calcolare alcuni fondamentali indicatori come il Roe, l’Eps,<br />

l’utile su attività investite.<br />

Le classifiche «qualitative» sono meno numerose e riguardano essenzialmente<br />

il grado di reputazione delle imprese; misurano la percezione che<br />

un determinato campione di soggetti «esperti» ha delle singole compagnie<br />

che compongono un insieme opportunamente costruito, per quanto riguarda<br />

i vari profili che ne determinano la qualità complessiva (condizioni di<br />

lavoro, trasparenza, innovatività, responsabilità sociale, valore dell’offerta).<br />

Alcune significative classifiche di questo genere sono:<br />

— «World’s Most Respected Companies», pubblicata da Financial Times.<br />

Basata su interviste ad un ampio campione di dirigenti aziendali e<br />

«business leaders» di settanta paesi, questa classifica identifica le imprese<br />

che riscuotono il maggior rispetto nell’ambito del mondo economico, prendendo<br />

in considerazione non solo le imprese quotate, ma anche quelle statali,<br />

le grandi sussidiarie e le principali imprese non quotate.<br />

— «America (Global)’s Most Admired Companies», pubblicata da Fortune.<br />

Anche questa classifica è basata su interviste e individua le compagnie<br />

considerate «migliori» a livello generale e nel proprio settore, relativamente<br />

ai seguenti parametri: innovatività; qualità del management: talento<br />

della forza lavoro; equilibrio e trasparenza finanziaria, utilizzazione<br />

degli assets, investimenti di lungo termine, responsabilità sociale, qualità<br />

dei prodotti e servizi.<br />

— «The World’s100 Best Managed Companies», pubblicata da Industry<br />

Week. È costruita sulla base della valutazione di una commissione stabile<br />

121


122<br />

di esperti che considera attentamente una insieme di caratteristiche delle<br />

imprese candidate ad entrare nella classifica.<br />

— «Surveys of Corporate Reputation», realizzata dal Reputation Institute<br />

in collaborazione con una serie di partner nazionali. Misura la reputazione<br />

internazionale delle migliori imprese dei vari paesi sulla base di<br />

studi realizzati in maniera specifica nei singoli paesi.<br />

Il metodo di rilevazione dei dati è il secondo criterio di distinzione delle<br />

varie classifiche. Tale criterio individua le ordinazioni basate su dati «ufficiali»,<br />

cioè direttamente rilevati dal bilancio aziendale, dal caso in cui i<br />

dati sono ottenuti da elaborazioni dei valori aziendali effettuate o dall’impresa<br />

stessa, o dall’organo di rilevazione, sulla base di una propria metodologia<br />

di analisi. È evidente che questo secondo criterio di distinzione delle<br />

classifiche riguarda solo quelle che utilizzano parametri quantitativi;<br />

quelle di natura qualitativa, infatti, non possono che essere basate su metodi<br />

«soggettivi» di acquisizione dei dati.<br />

Alcune importanti classifiche quantitative del primo tipo sono pubblicate<br />

dalle seguenti riviste:<br />

— Financial Times. Considera i primi 500 gruppi per valore di mercato<br />

in Europa e nel mondo. Dei gruppi selezionali fornisce anche altri dati<br />

economici e finanziari<br />

— Business Week. Analoga alla classifica Financial Times, salvo per il<br />

fatto di considerare il solo universo mondiale costituito dalle prime 1000<br />

compagnie.<br />

— Fortune. Ordina le prime 500 società per fatturato. fornisce anche i<br />

dati di altre grandezze economiche (utile, asset investititi, numero di dipendenti,<br />

indici).<br />

— Industry Week. Classifica le prime 1000 imprese in termini di ricavi<br />

nell’ambito dell’universo delle sole manifatturiere quotate nel mondo. Per<br />

le imprese comprese nella classifica, la pubblicazione fornisce anche una<br />

serie di indicatori di bilancio.<br />

— Forbes. Ordina le prime 500 imprese internazionali per fatturato.<br />

Vi sono alcune classifiche quantitative basate sugli stessi parametri<br />

delle precedenti, ma riferite ad universi particolari:<br />

— «Technology Fast 500», realizzata da Deloitte & Touche; considera le<br />

imprese americane nei settori ad alta tecnologia che hanno registrato i più<br />

alti tassi di crescita del fatturato da un esercizio al successivo.<br />

— «The Information Technology 100», pubblicata da Business Week: ordina<br />

rispetto a diversi parametri (ricavi, tasso di crescita dei ricavi e Roe)<br />

le prime 100 imprese nel mondo operanti nel settore Ict.<br />

— «The 300 Best Small Companies (World e Europe)», pubblicata da<br />

Forbes; ordina per valore di mercato imprese quotate di dimensioni minori.<br />

Per quanto riguarda le classifiche basate su dati quantitativi, ma elaborati<br />

dalle imprese o dai soggetti che effettuano la rilevazione si segnalano:<br />

— «The Best Global Brands», pubblicata da Business Week in collaborazione<br />

con Interbrand. Individua i primi 100 marchi nel mondo per valore<br />

economico, sulla base di una particolare metodologia di determinazione<br />

di tale valore.<br />

— «Global Brand Report», realizzata da AC Nielsen. Elenca i marchi<br />

che, in termini di composizione geografica del fatturato che generano, possono<br />

essere considerati «globali».


— «500 Fastest Growing Companies in Europe», realizzata da «Growth-<br />

Plus». Elenca le 500 imprese europee di piccole e medie dimensioni con<br />

maggior tasso di crescita dei ricavi e degli occupati in diversi intervalli temporali.<br />

In linea generale, le classifiche disponibili (sia qualitative che quantitative)<br />

fanno riferimento a tutto l’universo delle società quotate nel mondo<br />

(o in maniera distinta in Europa e negli Stati Uniti), ordinando le prime<br />

«n» rispetto ai parametri sopra indicati; in linea generale, «n» è pari a 500<br />

o, in alcuni casi a 1000. Normalmente, le classifiche sono pubblicate annualmente,<br />

facendo riferimento ai dati aziendali dell’esercizio precedente<br />

I limiti<br />

Le classifiche che ordinano le imprese in funzione di criteri qualitatiintrinseci<br />

delle vi (la reputazione, il grado di ammirazione degli stakeholders, ecc.) sono<br />

classifiche normalmente costruite attraverso indagini su un campione di dirigenti<br />

di natura aziendali, professionals, analisti e consulenti, realizzate da società specia-<br />

«qualitativa» lizzate per conto della rivista che le pubblica. Esse si propongono un obiettivo<br />

conoscitivo tanto ambizioso quanto complesso da realizzare. Una ricerca<br />

di questo genere, infatti, anche ipotizzando che sia condotta secondo<br />

corretti criteri di rilevazione statistica, risente inevitabilmente della limitatezza<br />

delle informazioni di cui dispongono i soggetti intervistati relativamente<br />

alle caratteristiche di tutte le aziende appartenenti all’universo in<br />

cui dovrebbero scegliere quelle qualitativamente migliori. Da questa condizione<br />

derivano diverse distorsioni; in primo luogo, l’opinione espressa è tendenzialmente<br />

il frutto di un’immagine percepita, di un’idea piuttosto generica<br />

e facilmente influenzata anche dalle tendenze o addirittura dalle «mode»<br />

del momento. In secondo luogo, la probabilità di entrare in classifica è<br />

direttamente correlata alla semplice notorietà dell’impresa, all’intensità della<br />

sua comunicazione esterna e al rilievo della sua presenza sul mercato.<br />

Infine, il limite di informazione disponibile ai soggetti intervistati riduce<br />

notevolmente la valenza di un sistema di analisi anche sofisticato dei fattori<br />

attraverso cui ordinare le singole imprese.<br />

Una conferma molto evidente di questi limiti è offerta proprio da quella<br />

che per ampiezza del campione intervistato è certamente una delle principali<br />

classifiche «qualitative» attualmente disponibili, che ordina le «America’s<br />

most admired companies». Nella classifica del febbraio 2000, il primo<br />

posto assoluto per quanto riguarda il «grado di innovatività» e quello<br />

relativo alla «qualità del management» era occupato da Enron; questa azienda,<br />

inoltre, risultava collocata al primo posto anche nella classifica generale<br />

relativa al suo settore.<br />

Le classifiche basate sui dati di bilancio e di mercato sono per loro na-<br />

tura più oggettive e affidabili. Ordinano soltanto le imprese quotate, sulla<br />

base dei dati ufficiali di bilancio o del prezzo di riferimento del titolo in<br />

borsa. La rilevazione di questi dati è affidata a soggetti esterni specializ-<br />

zati e normalmente distinti per macro-area geografica 2 . In considerazione<br />

del livello di diffusione, si ritiene opportuno approfondire l’analisi delle clas-<br />

Caratteristiche<br />

e limiti di tre<br />

principali<br />

classifiche<br />

di natura<br />

«quantitativa»<br />

2<br />

La classifica delle principali imprese del mondo per capitalizzazione pubblicata dal Financial<br />

Times utilizza fonti differenziate per area geografica. In particolare: Europa, Asia-Pacifico:<br />

Thomson Financial e Worldscope via Factset; America latina: Economatica; Europa<br />

orientale: Skate; Usa e Canada: Standard&Poor’s Compustat Service; Giappone: Tokio Keizai;<br />

Medio oriente: Bakheet Financial Advisors. La classifica di Business Week è basata su dati ed<br />

elaborazione fornite dalla Morgan Stanley Capital International. Fortune utilizza una serie di<br />

consulenti esterni, anch’essi specializzati per area geografica.<br />

123


sifiche redatte dalle seguenti tre importanti pubblicazioni economiche internazionali:<br />

Business Week (Bw), Financial Times (Ft) e Fortune (Fo). Si<br />

ricorda che la prima ordina le prime 1000 società per valore di mercato, la<br />

seconda le prime 500 rispetto allo stesso parametro e la terza, ancora le<br />

prime 500 ma rispetto al volume di affari.<br />

Queste tre classifiche mostrano diversi aspetti che le accomunano e ne<br />

caratterizzano il contenuto informativo; i principali tra questi aspetti comuni<br />

sono:<br />

— Le classifiche sono riferite all’universo costituito da imprese in tutte<br />

le possibili configurazioni societarie (singole società; gruppi; gruppi internazionali,<br />

gruppi conglomerati, holding finanziarie), e appartenenti a tutti<br />

i settori produttivi (industria, servizi, distribuzione, finanza, assicurazioni<br />

3 ).<br />

— Nel caso dei gruppi, sono considerati (quando disponibili), i valori<br />

consolidati. Tuttavia, non sono uniformati i criteri di consolidamento e le<br />

modalità di valutazione dei fenomeni intragruppo 4 .<br />

— I valori di bilancio dei parametri di classificazione sono sempre<br />

espressi in dollari; il tasso di cambio del dollaro con le altre valute nazionali<br />

è fissato arbitrariamente al valore di una certa data o di un certo periodo<br />

di tempo 5 .<br />

— Non sono effettuate operazioni sui dati economici e finanziari forniti<br />

dalle imprese per tenere conto delle differenze a livello nazionale delle<br />

regole e della pratica contabile e di bilancio.<br />

— Nelle classifiche basate sul valore di mercato (Ft e Bw), tale valore<br />

è calcolato sulla base del prezzo dell’azione registrato in un giorno determinato.<br />

In particolare, Ft moltiplica tale prezzo per il numero di azioni<br />

emesse (ma esclude dalla classifica le imprese con basso flottante 6 ); Bw,<br />

considera il numero totale di azioni (di tutte le tipologie) trattate sul mercato.<br />

Questi aspetti sottolineano, dunque, alcuni caratteri rilevanti di queste<br />

classifiche. In primo luogo, c’è la evidente (ma, del resto, difficilmente<br />

evitabile) distorsione causata dall’espressione di tutti i dati in un’unica moneta<br />

di conto (il dollaro): in particolare, i dati della classifica relativa al<br />

2000 7 risentono inevitabilmente della forza che la valuta americana ha avuto<br />

nel corso di quell’anno rispetto alle monete europee 8 e asiatiche. Inoltre,<br />

la posizione delle imprese nelle classifiche riferite al valore di mercato è<br />

decisamente influenzata da elementi estranei al reale valore economico dell’impresa:<br />

l’andamento generale della borsa in cui il titolo di tale impresa<br />

è quotato; fattori congiunturali di mercato che riguardano il titolo o anche<br />

il solo settore di appartenenza; la qualità della politica di portafoglio della<br />

3<br />

La classifica di Fortune è basata sul fatturato. Per le banche commerciali e le altre<br />

istituzioni finanziarie, il fatturato è determinato come somma delle entrate da interessi attivi<br />

e dei ricavi da servizi. Per le società di assicurazione, è prodotto dalla somma dei premi,<br />

dei ricavi da investimenti e degli utili/perdite da capitale, escludendo i depositi.<br />

4<br />

Ft considera il valore delle vendite sempre al netto di quelle intragruppo.<br />

5<br />

La classifica di Fo considera il valore medio del tasso di cambio del dollaro con la valuta<br />

di conto dell’impresa non statunitense durante l’anno fiscale di riferimento dei dati. Ft<br />

considera il valore medio del tasso di cambio nel mese di dicembre dell’esercizio a cui sono riferiti<br />

i valori utilizzati per la classifica. Bw utilizza il tasso dell’ultimo giorno utile di maggio<br />

dell’esercizio a cui è riferita la classifica.<br />

6<br />

In particolare, sono escluse le imprese in cui più dell’85% del capitale non è scambiato<br />

sul mercato.<br />

7<br />

L’ultima disponibile al momento della redazione di questo contributo.<br />

8<br />

Tra i paesi europei, un’ulteriore elemento di «distorsione valutaria» è costituito dal migliore<br />

andamento sul dollaro della sterlina inglese rispetto alle altre valute europee.<br />

124


corporate a beneficio della propria quotazione e di quella delle società controllate<br />

quotate.<br />

Il fatto di considerare tutte le configurazioni societarie in tutti i settori<br />

implica che queste classifiche mettano a confronto realtà in alcuni casi<br />

troppo disomogenee e finiscano per dare un’informazione poco significativa.<br />

Ad esempio nell’ordinazione in funzione del fatturato, il Giappone è al<br />

secondo posto per numero di imprese comprese tra le prime 500, con un<br />

fatturato complessivo pari al 21% del totale (contro il 39% degli Stati Uniti<br />

al primo posto e l’8% della Germania al terzo. Questa posizione di forza<br />

è facilmente spiegata dalla circostanza che un buon numero dei principali<br />

gruppi giapponesi (in particolare di quelli nei primi posti della classifica)<br />

sono trading companies che per loro natura realizzano elevati volumi di<br />

vendita 9 .<br />

Questo limite è, tuttavia, superato dal fatto che la classifica generale<br />

può essere facilmente scomposta in funzione dei settori di appartenenza<br />

delle imprese. In effetti, Fo oltre alla classifica di tutte le imprese, pubblica<br />

quelle per singola industria (distinguendo anche il comparto bancario,<br />

assicurativo e dei servizi finanziari).<br />

Il fatto che le classifiche comprendano tutti i tipi di gruppi aziendali<br />

pone un ulteriore limite al loro significato per quanto riguarda la comparazione<br />

delle diverse imprese. Questo limite non deriva solo dalla estrema<br />

eterogeneità degli «oggetti» che vengono comparati e classificati; è causato<br />

soprattutto dalle incertezze e dalla differenze metodologiche nella rilevazione<br />

del dato aggregato a livello di gruppo, sia esso riferito al valore di<br />

mercato, al fatturato, a profitto o ad altri parametri di valutazione.<br />

Infine, occorre osservare che per quanto sia costituito dai gruppi di maggiore<br />

dimensione, l’universo dei «primi 500» o dai «primi 1000» offre una<br />

rappresentazione molto parziale della struttura produttiva mondiale, anche<br />

di quella costituita dalle sole grandi società internazionali. A riguardo, si ricorda<br />

che l’ultimo gruppo considerato nella classifica Fo ha un fatturato di<br />

10,3 miliardi di dollari; mentre l’ultimo gruppo nella classifica Bw (estesa<br />

alle prime 1000) ha un valore di mercato di 4,21 miliardi di dollari.<br />

Nel loro insieme, questi limiti riducono in modo significativo l’utilizzabilità<br />

dei dati che emergono dalle classifiche come indicatori del grado di<br />

competitività delle varie imprese e dei sistemi economici cui appartengono;<br />

tuttavia non compromettono l’informazione circa il rilievo che queste hanno<br />

come fenomeno economico e produttivo nello scenario internazionale complessivo<br />

o di determinate industrie. I limiti osservati inducono, quindi, ad<br />

utilizzare le classifiche nella giusta prospettiva, senza voler trarre da esse<br />

informazioni che non possono (e probabilmente non vogliono) offrire.<br />

L’analisi<br />

Quest’ultima considerazione induce a ritenere che i risultati delle clascomparativa<br />

sifiche in esame (Bw, Ft e Fo) possano fornire un’informazione comunque<br />

dei risultati interessante circa la struttura produttiva internazionale, se considerati a<br />

delle classifiche livello di insiemi nazionali o «continentali» di imprese. Si è quindi procein<br />

chiave duto ad aggregare le aziende comprese in ciascuna delle tre classifiche in<br />

di aggregati relazione al paese di appartenenza e al continente. Questa operazione ha<br />

nazionali consentito da un lato di confrontare i risultati «macro» emergenti dalle tre<br />

e continentali classifiche e, dall’altro, di descrivere le performance rispetto a diversi pa-<br />

9<br />

Non è un caso che il peso delle imprese giapponesi rispetto ad altri parametri risulta<br />

molto inferiore: è solo il 6,5% del totale per quanto riguarda i profitti e l’11,3% per quanto<br />

concerne il numero di dipendenti.<br />

125


ametri dei principali sistemi economici mondiali, almeno per quanto riguarda<br />

la loro componente costituita dai gruppi di maggiori dimensioni.<br />

La comparazione Tutte le tre classifiche in esame ordinano le prime 500 compagnie nel<br />

tra i risultati mondo; Bw 10 e Ft, rispetto al valore di mercato; Fo in relazione al fatturaaggregati<br />

delle to. Al fine di confrontare i risultati ottenuti, le società e i relativi valori<br />

tre classifiche dei parametri di misurazione sono state raggruppate in tre insiemi, corrispondenti<br />

alle quattro macro-aree di possibile appartenenza: Europa, Stati<br />

Uniti, Giappone e «Resto del mondo». Con riferimento ai valori delle classifiche<br />

pubblicate nel 2001 e riferite ai risultati dell’esercizio 2000, è stato<br />

calcolato il peso percentuale di ciascuna macro-area per quanto riguarda il<br />

numero di imprese comprese in classifica e il valore totale del parametro<br />

di misurazione (tab. 4-1, 4-2).<br />

Si osserva che le classifiche Bw e Ft (che, ricordiamo, utilizzano lo stesso<br />

parametro di ordinazione) offrono risultati molto simili per quanto riguarda<br />

la presenza delle quattro macroaree geografiche misurata sia in termini<br />

di numero di società comprese tra le prime 500, sia in termini di valore<br />

di mercato totale di tali società. La comparabilità delle due classifiche<br />

è confermata da due ulteriori evidenze: in primo luogo, il valore di mercato<br />

totale delle prime 500 società mostra una differenza piuttosto contenuta<br />

(+8% per Ft): 19,41 milioni di milioni di dollari nel caso di Ft e 17,8 milioni<br />

di milioni di dollari nel caso di Bw.<br />

In secondo luogo, l’analisi delle prime 25 società rilevate nelle due classifiche<br />

mostra che 22 di queste (88%) rientrano in entrambi gli insiemi 11 ,<br />

e 8 società occupano addirittura la stessa posizione in entrambe le classifiche.<br />

Il totale degli scostamenti netti tra i valori registrati dalle 22 società<br />

che appartengono ad entrambi gli insiemi è pari al 4,2% del valore di mercato<br />

complessivo realizzato da tale insieme. In definitiva, nonostante uti-<br />

Tab. 4-1 — Numerosità delle imprese inserite nelle classifiche<br />

(Valori %)<br />

Europa Stati Uniti Giappone Resto del mondo<br />

Business Week 500 31 50 13 6<br />

Financial Time 500 31 48 12,8 8,2<br />

Fortune 500 31,2 37 20,8 11<br />

Tab. 4-2 — Peso rispetto al valore di mercato (Ft e Bw) e al fatturato (Fortune) delle imprese<br />

inserite nelle classifiche<br />

(Valori %)<br />

Europa Stati Uniti Giappone Resto del mondo<br />

Business Week 500 29,2 58 9,7 3,1<br />

Financial Time 500 29,5 56 9 5,5<br />

Fortune 500 32,2 39 20,8 8<br />

10<br />

La classifica di Bw è estesa alle prime 1000 società.<br />

11<br />

Si osserva che in due casi, Royal Dutch Shell e AOL Time Warner, l’assenza dei gruppi<br />

in entrambe le classifiche è dovuta al fatto che in un caso e non nell’altro sono stati considerati<br />

i valori di mercato dell’intero gruppo dopo la fusione.<br />

126


lizzino diversi tassi di cambio del dollaro con le altre valute e calcolino il<br />

prezzo del titolo in giornate diverse, le due classifiche offrono, a livello di<br />

grandi aggregati indicazioni fortemente allineate.<br />

I risultati che emergono dalla classifica di Fo costruita sulla base del<br />

fatturato, mostrano una situazione per alcuni aspetti profondamente diversa.<br />

Il peso dell’Europa non presenta differenze rilevanti: la numerosità<br />

delle imprese comprese è la stessa e il peso che i gruppi europei hanno in<br />

termini di fatturato è superiore di circa 3 punti percentuali rispetto al peso<br />

che esse hanno in termini di valore di mercato.<br />

Differenze molto significative si osservano, invece per quanto riguarda<br />

gli Stati Uniti, il Giappone e, proporzionalmente, il «Resto del mondo».<br />

La presenza delle società americane è preponderante sia in termini di fatturato<br />

che di valore di mercato; tuttavia, è nettamente superiore se valutata<br />

rispetto a questo secondo parametro. Le classifiche Ft e Bw indicano<br />

che l’aggregato delle imprese americane copre in media il 57% del valore<br />

di mercato totale e «solo» il 39% del fatturato totale.<br />

Con intensità analoga, si rileva una situazione contraria per le imprese<br />

giapponesi che realizzano quasi il 21% del fatturato totale ma rappresentano<br />

circa il 9% del valore di mercato complessivo. Anche le imprese del<br />

«resto del mondo» registrano un rilievo proporzionalmente molto superiore<br />

nella classifica ordinata per volume delle vendite: 8% contro poco più del<br />

4% nel caso del valore di mercato.<br />

La differenza tra gli aggregati determinati utilizzando valore di mercato<br />

e fatturato risulta significativa anche nell’insieme delle prime 25 compagnie.<br />

Solo 7 12 delle prime 25 per fatturato appartengono anche alle prime<br />

25 per valore di mercato (nella classifica Ft 13 ). Tuttavia, nelle prime sei<br />

per valore di mercato, ve ne sono tre (Exxon Mobil e Wal Mart) che sono<br />

tra le prime sei anche in ordine al fatturato.<br />

Le tendenze<br />

Le società comprese nelle tre classifiche possono essere raggruppate<br />

generali in funzione del paese di appartenenza; si ottiene così un dato della presenemergenti<br />

za dei vari Paesi nel sistema delle principali società del mondo (tab. 4-3,<br />

dai risultati 4-4, 4-5). L’analisi dei risultati che si ottengono offre alcune indicazioni di<br />

aggregati a<br />

livello di paese<br />

fondo abbastanza consolidate, che devono però essere valutate alla luce del-<br />

le considerazioni svolte in precedenza circa l’esatta rilevanza del «paese di<br />

origine» nell’economia di gruppi che hanno rilevanti quote di valore aggiunto<br />

e di investimenti al di fuori di tale paese. Si individuano comunque<br />

le seguenti tendenze generali.<br />

a) Il dominio delle imprese americane relativamente a valore di mercato,<br />

profittabilità e fatturato. Nella classifica Bw, le imprese americane rappresentano<br />

numericamente il 48,5% del totale delle prime 1000 e addirittura<br />

il 56% del valore di mercato totale; valori del tutto analoghi risultano<br />

dalla classifica delle prime 500 compagnie di Ft. La preponderanza dei<br />

gruppi di matrice statunitense appare ancora più pronunciata se si considerano<br />

gli insiemi dei gruppi maggiori nell’ambito di quelli complessivamente<br />

considerati: nel gruppo delle prime 25 di Ft, 17 sono statunitensi<br />

con un valore di mercato complessivo pari ad oltre il 77% del totale.<br />

Il dominio delle imprese americane risulta anche nella classifica relativa<br />

al grado di profittabilità. Sia nell’analisi Ft, che in quella Bw, l’insie-<br />

12<br />

Si tratta (in ordine di fatturato) di: Exxon Mobil; Wal-Mart Stores; Royal Dutch/Shell;<br />

BP; General Electric; Toyota Motors e Ibm.<br />

13<br />

Nella classifica Business Week, sono addirittura solo sei, poiché in questa classifica<br />

Royal Dutch è considerata separata da Shell.<br />

127


Tab. 4-3 — Distribuzione per paese di origine delle prime mille compagnie per valore di mercato<br />

(Valori in milioni di dollari)<br />

N. % %<br />

imprese Valore Valore<br />

Fat-<br />

Fatturato<br />

in di mercato mercato<br />

turato<br />

totale<br />

clas- totale sul sul<br />

sifica totale totale<br />

% %<br />

Profitti Profitti Asset Assets<br />

totali sul totali sul<br />

totale<br />

totale<br />

1 Usa 485 11.797.086 56,38 5.352.065 47,1 435.790 51,61 16.785.286 38,03<br />

2 Giappone 139 2.217.642 10,60 2.188.598 19,25 55.532 6,58 6.399.360 14,50<br />

3 Regno Unito 90 1.875.938 8,97 920.498 8,10 93.007 11,01 4.586.527 10,39<br />

4 Francia 49 1.024.367 4,90 711.482 6,26 39.148 4,64 2.542.512 5,76<br />

5 Germania 38 810.039 3,87 827.692 7,28 43.257 5,12 3.652.676 8,28<br />

6 Canada 36 382.801 1,83 190.572 1,68 16.207 1,92 1.310.620 2,97<br />

7 Italia 28 464.618 2,22 237.691 2,09 21.808 2,58 1.418.200 3,21<br />

8 Svizzera 20 563.751 2,69 199.342 1,75 28.514 3,38 1.787.674 4,05<br />

9 Olanda 19 473.209 2,26 338.666 2,98 38.507 4,56 1.921.497 4,35<br />

10 Svezia 17 182.713 0,87 83.555 0,74 10.287 1,22 623.660 1,41<br />

11 Australia 16 224.262 1,07 61.266 0,54 11.608 1,37 626.274 1,42<br />

12 Hong Kong 16 203.371 0,97 30.856 0,27 14.052 1,66 275.126 0,62<br />

13 Spagna 12 269.638 1,29 98.317 0,86 11.278 1,34 700.388 1,59<br />

14 Belgio 10 92.731 0,44 31.884 0,28 7.791 0,92 935.874 2,12<br />

15 Danimarca 7 64.004 0,31 8.869 0,08 2.002 0,24 168.832 0,38<br />

16 Finlandia 5 165.567 0,79 48.165 0,42 7.650 0,91 82.128 0,19<br />

17 Singapore 5 47.875 0,23 8.225 0,07 3.703 0,44 150.716 0,34<br />

18 Grecia 3 19.738 0,09 2.753 0,02 1.342 0,16 67.016 0,15<br />

19 Portogallo 3 26.300 0,13 6.195 0,05 1.322 0,16 74.049 0,17<br />

20 Norvegia 2 18.993 0,09 20.655 0,18 1.608 0,19 30.804 0,07<br />

Totali 1.000 20.924.643 100,0 11.367.346 100,0 844.413 100,0 44.139.219 100,0<br />

Fonte: Elaborazioni su dati Business Week, 2001.<br />

me di tali aziende realizza il 51% dei profitti; in quella di Fo, il 49% dei<br />

profitti. Come già osservato, meno accentuato è il primato rispetto al volume<br />

di affari.<br />

b) il valore di mercato delle imprese europee è fortemente concentrato<br />

in cinque paesi, tra i quali predomina nettamente il Regno Unito. Il 78%<br />

del valore di mercato totale delle imprese europee comprese nella classifica<br />

Ft è costituito da gruppi originari di cinque paesi: Regno Unito 14 , Francia,<br />

Germania, Italia e Svizzera. Il peso dei gruppi del Regno Unito è nettamente<br />

superiore a quello delle altre nazioni, poiché, da solo rappresenta<br />

il 33% del totale europeo in termini di fatturato e il 30% per quanto riguarda<br />

i profitti.<br />

Rispetto al fatturato, il sistema dei maggiori gruppi europei risulta<br />

ancora più concentrato. 106 dei 156 gruppi compresi nella classifica Fo<br />

14<br />

Tra le imprese di matrice inglese, ve ne sono 3 di proprietà anglo-olandese.<br />

128


Tab. 4-4 — Distribuzione per paese di appartenenza delle prime 500 imprese nel mondo per<br />

valore di mercato<br />

(Valori in milioni di dollari)<br />

Numero Market Capital Profitti Assets Dipendenti<br />

Usa 239 10.866.355,3 366.496,3 3.280.157,4 12.073.568<br />

Giappone 64 1.785.838,0 25.286,8 1.486.709,3 3.644.960<br />

Regno Unito 40 1.637.036,0 65.567,2 791.751,8 1.502.176<br />

Francia 28 960.826,6 36.898,0 164.518,0 690.591<br />

Germania 21 739.044,3 45.738,6 404.392,7 2.011.086<br />

Italia 15 426.037,4 12.387,6 112.992,0 357.343<br />

Canada 11 282.641,8 9.269,8 132.734,2 437.891<br />

Svizzera 11 584.566,4 29.093,6 134.665,2 603.133<br />

Olanda 10 305.655,6 28.497,8 78.249,0 406.602<br />

Australia 8 167.763,4 9.773,8 94.882,2 177.225<br />

Svezia 7 180.779,6 7.164,3 31.336,5 113.704<br />

Hong Kong 7 271.713,7 16.340,9 101.459,8 37.468<br />

Spagna 6 220.744,8 10.974,8 40.471,2 37.387<br />

Corea del Sud 4 74.412,2 4.365,2 86.861,8 n.d.<br />

Belgio 4 51.138,6 1.953,2 8.349,6 34.203<br />

Regno Unito/Olanda 3 282.949,9 13.767,7 126.039,2 418.900<br />

Brasile 3 50.099,4 6.915,8 35.621,5 n.d.<br />

Singapore 3 48.867,1 2.943,9 19.751,0 27.513<br />

Finlandia 2 211.644,0 4.927,7 19.422,8 58.708<br />

Irlanda 2 24.777,5 350,0 7.713,1 31.648<br />

Taiwan 2 47.573,6 1.060,4 9.152,5 10.912<br />

Danimarca 2 24.639,0 946,6 2.305,5 12.698<br />

Messico 1 40.619,1 2.765,4 13.777,0 n.d.<br />

Norvegia 1 11.050,2 1.551,4 8.061,9 n.d.<br />

Regno Unito/Australia 1 25.992,8 1.461,3 16.946,7 34.399<br />

Belgio/Olanda 1 39.368,1 2.505,1 13.755,4 62.881<br />

India 1 13.011,7 53,1 177,5 n.d.<br />

Portogallo 1 10.466,5 457,6 1.647,8 n.d.<br />

Sud Africa 1 11.023,8 554,8 7.897,6 n.d.<br />

Arabia 1 15.002,8 967,9 20.305,9 n.d.<br />

Totali 500 19.411.639,1 711.036,5 7.252.106,0 22.784.996<br />

Fonte: Elaborazioni su dati Financial Times, 2001.<br />

sono originari di tre paesi, Francia, Germania e Regno Unito. Da soli, essi<br />

rappresentano poco meno del 72% del fatturato totale delle imprese europee<br />

comprese nell’universo considerato. Se si considerano le imprese anche<br />

di Svizzera e Olanda, il fatturato complessivo arriva all’85% del totale.<br />

c) La discreta posizione dell’Italia in termini di valore di mercato non<br />

trova corrispondenza nel livello di profittabilità e di fatturato. Nella classi-<br />

129


Tab. 4-5 — La distribuzione per paese di appartenenza delle prime 500 imprese nel mondo<br />

per fatturato<br />

(Valori in milioni di dollari)<br />

% % % %<br />

Numero Ricavi sul Profitti sul Assets sul Dipendenti sul<br />

totale totale totale totale<br />

Usa 185 5.503.906,8 39,13 324.719 48,67 14.519.961 31,70 18.113.885 38,36<br />

Giappone 104 2.934.457,3 20,86 43.875,4 6,58 7.334.754 16,01 5.348.011 11,32<br />

Francia 37 1.006.623,4 7,16 41.202,6 6,18 3.560.559 7,77 4.502.529 9,53<br />

Germania 34 1.176.002,0 8,36 53.007,3 7,94 5.474.807 11,95 3.799.882 8,05<br />

Regno Unito 33 839.625,6 5,97 34.163,0 5,12 3.522.620 7,69 2.344.869 4,97<br />

Canada 15 221.887,1 1,58 9.633,2 1,44 1.671.731 3,65 1.032.625 2,19<br />

Cina 12 272.195,4 1,94 13.587,9 2,04 1.862.452 4,07 6.085.002 12,8<br />

Corea del Sud 11 278.921,5 1,98 9.383,5 1,41 237.057 0,52 331.192 0,70<br />

Svizzera 11 314.642,7 2,24 26.916,4 4,03 1.869.068 4,08 875.675 1,85<br />

Olanda 9 289.566,9 2,06 26.988,4 4,04 1.832.167 4,00 901.769 1,91<br />

Italia 8 253.140,0 1,80 11.280,6 1,69 1.004.680 2,19 770.696 1,63<br />

Australia 7 100.629,1 0,72 7.563,0 1,13 367.365 0,80 482.587 1,02<br />

Spagna 6 148.076,3 1,05 10.334,7 1,55 795.442 1,74 459.434 0,97<br />

Svezia 5 84.725,0 0,60 4.240,7 0,64 127.706 0,28 317.056 0,67<br />

Belgio 3 49.802,7 0,35 2.340,2 0,35 456.106 1,00 207.930 0,44<br />

Brasile 3 53.789,3 0,38 6.825,2 1,02 158.826 0,35 182.913 0,39<br />

Finlandia 2 40.102,4 0,29 4.965,6 0,74 38.692 0,08 102.074 0,22<br />

Messico 2 55.245,5 0,39 –1.457,1 0,22 86.276 0,19 210.464 0,45<br />

Norvegia 2 41.464,5 0,29 2.878,1 0,43 43.247 0,09 54.364 0,12<br />

Regno Unito/Olanda 2 193.119,6 1,37 13.740,2 2,0 176.613 0,39 351.000 0,74<br />

Russia 2 32.105,4 0,23 5.582,1 0,84 61.027 0,13 426.300 0,90<br />

Belgio/Olanda 1 43.830,9 0,31 2.557,7 0,38 411.289,6 0,90 62.881 0,13<br />

India 1 22.284,6 0,16 595,9 0,09 10.256 0,02 32.775 0,07<br />

Lussemburgo 1 12.228,6 0,09 410,0 0,06 14.299 0,03 48.940 0,10<br />

Malesia 1 19.303,1 0,14 4.339,0 0,65 36.590 0,08 23.450 0,05<br />

Singapore 1 12.109,7 0,09 –446,0 –0,07 7.582 0,02 70.000 0,15<br />

Sud Africa 1 11.495,2 0,08 767,3 0,12 69.351 0,15 41.466 0,09<br />

Venezuela 1 53.680,0 0,38 7.216,0 1,08 57.098,0 0,12 45.520 0,10<br />

Totali 500 14.064.960,6 100,0 667.210 100,0 45.807.623,6 100,0 47.225.289 100,0<br />

Fonte: Elaborazioni su dati Fortune 2001.<br />

fica Bw, sono compresi 28 gruppi italiani (quindici operanti nei settori industriali<br />

o dei servizi e 13 di natura bancaria-assicurativa) (tab. 4-6).<br />

Tre sono compresi nei primi cento e dodici nei primi cinquecento; nel<br />

complesso, quindi, la parte prevalente del campione è compresa nella seconda<br />

metà della classifica. A livello mondiale, la posizione delle società italiane<br />

è, dunque, relativamente più debole di quella che emerge considerando<br />

solo l’universo europeo. Relativamente ai profitti, i gruppi italiani registrano<br />

una performance decisamente peggiore anche rispetto a quelli eu-<br />

130


Tab. 4-6 — Le imprese italiane comprese nella classifica Business Week<br />

Posizione<br />

in classifica<br />

Società<br />

Valore di Mercato<br />

67 Telecom Italia 61.357<br />

84 Eni 51.440<br />

86 Tim 49.690<br />

127 Enel 38.594<br />

138 Assicurazioni Generali 35.515<br />

205 Intesa-Bci 23.440<br />

211 Unicredito Italiano 22.223<br />

247 San Paolo-Imi 18.959<br />

358 Olivetti 13.375<br />

396 Seat Pagine Gialle 12.115<br />

430 Mediaset 11.116<br />

435 Fiat Group 10.884<br />

501 Banca Fideuram 9.553<br />

537 Ras 8.926<br />

546 Banca Monte dei Paschi di Siena 8.734<br />

574 Alleanza Assicurazioni 8.338<br />

585 Finmeccanica 8.211<br />

606 Mediolanum 7.834<br />

618 Rolo Banca 1473 7.725<br />

656 Bipop-Carire 7.247<br />

657 Concessione e Costruzione Autostrade 7.233<br />

670 Mediobanca 7.072<br />

685 Banca Nazionale del Lavoro 6.888<br />

690 Luxottica Group 6.857<br />

769 Pirelli 5.942<br />

782 Edison 5.830<br />

880 Banca di Roma 5.112<br />

971 Montedison 4.409<br />

Fonte: Business Week (2001), valori in milioni di dollari.<br />

ropei. Il profitto medio dei 46 gruppi inseriti nella classifica dei primi 500<br />

gruppi europei (Ft) è di 376 milioni di dollari, rispetto ai 1.579 di quelle<br />

olandesi, 1.096 di quelle svizzere, 866 di quelle tedesche, 741 di quelle inglesi<br />

e 661 di quelle francesi.<br />

Nella classifica Fo per fatturato, sono comprese solo 8 gruppi italiani<br />

tra i primi 500 e solo 3 tra i primi 100 (tab.4-7). Il primo di tali<br />

gruppi è al quarantaseiesimo posto con un fatturato complessivo che è<br />

pari a circa un quarto di quello della prima assoluta della classifica<br />

(Exxon). Il volume di affari complessivo realizzato dall’aggregato italiano<br />

rappresenta circa l’1,8% del totale dell’universo considerato; il profitto<br />

delle nostre imprese registra una proporzione analoga rispetto al profitto<br />

totale.<br />

In conseguenza del criterio utilizzato per la definizione di queste<br />

131


Tab. 4-7 — Le imprese italiane nella classifica Fortune<br />

Posizione<br />

in classifica<br />

Società<br />

Ricavi<br />

46 Assicurazioni Generali 53.333<br />

47 Fiat 53.190<br />

69 Eni 45.139<br />

156 Olivetti 27.832<br />

196 Enel 23.142<br />

206 Intesa-Bci 22.512<br />

345 UniCredito Italiano 14.776<br />

392 Montedison 13.216<br />

Fonte: Fortune (2001), valori in milioni di dollari.<br />

classifiche, relativamente alla composizione dell’universo, i gruppi italiani<br />

che ne fanno parte hanno natura eterogenea. Vi sono gruppi privati<br />

industriali (Telecom, Tim, Olivetti, Mediaset ecc.); gruppi bancari<br />

(Unicredito, BancaIntesa, San Paolo - Imi, Banca Fideuram, Monte dei<br />

Paschi, ecc.) e assicurativi (Generali, Alleanza, Ras, ecc.). Sono anche compresi<br />

gruppi quotati in cui lo Stato o altri soggetti pubblici detengono<br />

ancora una quota rilevante del capitale (Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade).<br />

Non sono considerate le società private, pubbliche o ad azionariato<br />

misto che non sono quotate sul mercato; restano, quindi, escluse<br />

dall’universo tra le altre, società come Poste S.p.a., Gruppo Ferrovie dello<br />

Stato.<br />

d) Le imprese giapponesi hanno una posizione fortemente variabile<br />

in relazione al parametro di misurazione considerato. Il fatturato complessivo<br />

realizzato dalle società giapponesi rappresenta circa il 21% sul<br />

totale; il valore di mercato è invece il 9% (sul totale delle prime 500Ft)<br />

e 10,6% (sul totale delle prime 1000Bw). Il rilievo dell’aggregato giapponese<br />

è nettamente inferiore se considerato rispetto agli altri parametri:<br />

profitti (6,6%); assets investiti (16%); dipendenti (11,3%). Questo è<br />

spiegato in parte dal fatto che una quota consistente delle 104 imprese<br />

giapponesi che rientrano nella classifica delle più grandi per fatturato,<br />

è costituito da trading companies che realizzano elevati volumi di vendite<br />

caratterizzati da margini economici normalmente contenuti. La modesta<br />

quota di profitto è confermata anche negli aggregati individuati<br />

nelle altre due classifiche: 6,6% nella classifica Bw e 3,5% nella classifica<br />

Ft.<br />

e) Le imprese cinesi si affacciano in modo significativo nel club dei mega-gruppi,<br />

ma con una particolarità. Nella classifica Fo, sono comprese 12<br />

imprese cinesi che rappresentano quasi il 2% del fatturato totale (più dell’aggregato<br />

italiano), il 2% dei profitti, il 4% degli assets (quasi il doppio<br />

delle imprese italiane). Il numero di dipendenti di queste imprese è pari al<br />

13% del totale dei dipendenti dell’universo considerato: più dell’aggregato<br />

giapponese che è rappresentato da un numero di imprese quasi nove volte<br />

quello cinese, e pari al numero di dipendenti dei gruppi inglesi, tedeschi e<br />

francesi messi insieme.<br />

f) il grado di concentrazione del valore di mercato è crescente al cre-<br />

132


scere della dimensione delle imprese considerate. Le prime 1000 imprese ordinate<br />

dalla classifica Bw (tab. 4-8) sono state riordinate in insiemi costituiti<br />

da insiemi delle prime «n» imprese, con «n» progressivamente maggiore<br />

(le prime 25, le prime 100, le prime 250, le prime 500 e le prime 1000);<br />

di questi insiemi è stato calcolato il valore di mercato totale. Si osserva che<br />

metà dell’universo considerato costituita dalle società con maggiore valore<br />

di mercato copre oltre l’85% del valore di mercato totale delle prime 1000.<br />

Il primo decimo di imprese copre il 48% del valore totale. Il 2,5% dell’universo<br />

(le prime 25 imprese) rappresenta il 25% del valore di mercato totale<br />

delle 1000 imprese.<br />

Questa analisi conferma anche il dominio dei grandi gruppi americani.<br />

Infatti rispetto al peso che essi hanno nell’universo delle prime 1000<br />

(56,4%), si osserva una presenza significativamente maggiore nell’insieme<br />

delle prime 100 (65,8%), così come (anche se con intensità decrescente)<br />

nell’insieme delle prime 250 (60,3%) e delle prime 500 (57,9). Per le<br />

imprese giapponesi vale una situazione del tutto analoga e contraria. In<br />

termini di valore di mercato, il Giappone risulta, infatti rappresentato per<br />

il 10,6% nell’universo delle prime 1000 e solo per il 6,4% in quello delle<br />

prime 100.<br />

Tab. 4-8 — Concentrazione del valore di mercato<br />

(Valori assoluti in milioni di milioni di dollari)<br />

Prime 25 Prime 100 Prime 250 Prime 500 Prime 1000<br />

Valore di mercato totale 5,23 10,03 14,4 17,8 20,9<br />

% sul valore di mercato<br />

prime 1000 imprese 25% 48% 68,9% 85,2% 100%<br />

Fonte: Business Week.<br />

4.2 Produttività e New Economy in Europa e negli<br />

Stati Uniti<br />

Introduzione<br />

Per tutti gli anni Ottanta e sino alla metà degli anni Novanta l’Europa<br />

è cresciuta a ritmi inferiori a quelli degli Stati Uniti pur registrando<br />

una crescita della produttività del lavoro più elevata. Solo nella seconda<br />

metà degli anni Novanta la dinamica della produttività oraria degli Stati<br />

Uniti è accelerata sino a superare quella europea.<br />

Di seguito si propone una chiave di lettura dei fenomeni sin qui esposti,<br />

attraverso la scomposizione e l’analisi delle determinanti della produttività<br />

del lavoro, con particolare riguardo all’impatto della New Economy<br />

sulla crescita della produttività totale dei fattori.<br />

L’analisi mostra che il divario nei tassi di crescita della produttività,<br />

a vantaggio dell’Europa sino alla prima metà degli anni Novanta, è sostanzialmente<br />

il frutto di un diverso utilizzo dei fattori di produzione sulle<br />

due sponde dell’Atlantico, ossia della maggiore intensità di capitale fis-<br />

133


so nei paesi europei rispetto agli Stati Uniti. Questo mix fattoriale a favore<br />

del capitale appare tuttavia sub-ottimale dal punto di vista dell’efficienza<br />

produttiva. In altri termini, l’accumulazione di capitale è stata probabilmente<br />

eccessiva in Europa se confrontata con la dimensione della forza lavoro<br />

disoccupata, e con una crescita della produttività totale che è cresciuta<br />

meno rispetto agli Stati Uniti.<br />

Nella seconda metà degli anni Novanta, con l’affermazione su larga<br />

scala delle nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni<br />

(Ict), questo mix sub-ottimale di fattori sembra aver iniziato a giocare a<br />

sfavore anche della produttività del lavoro europea rispetto agli Stati Uniti.<br />

La minore capitalizzazione relativa del sistema produttivo americano<br />

e l’esistenza di un mercato del lavoro altamente flessibile (con la possibilità<br />

di reimpiegare il capitale umano in settori a più elevata produttività)<br />

ha infatti consentito una introduzione meno costosa delle nuove tecnologie,<br />

attraverso la sostituzione dei vecchi impianti e la creazione di<br />

nuove imprese.<br />

Le produttività dei singoli fattori produttivi e quella totale sono co-<br />

munemente considerate indicatori del grado di efficienza di un sistema eco-<br />

nomico poiché mettono in relazione l’output e gli input necessari per generarlo.<br />

In termini dinamici, la crescita della produttività è alla base dei<br />

miglioramenti nel reddito e nel benessere di un paese. Essa viene dunque<br />

utilizzata spesso per confrontare la performance economica tra i diversi pae-<br />

si. Il confronto però dipende dal modo in cui la produttività viene misurata.<br />

Concentrandoci sulla produttività del lavoro, la misura più semplice e<br />

più comunemente utilizzata del fattore lavoro è l’occupazione totale. Una<br />

misura più appropriata dell’ammontare di servizi produttivi generati dai<br />

lavoratori consiste tuttavia nel numero di ore effettivamente lavorate. I tassi<br />

di variazione del numero di persone occupate differiscono normalmente<br />

dai tassi di variazione delle ore totali lavorate. Infatti, queste ultime dipendono<br />

da variazioni dell’orario di lavoro per data occupazione, o da un<br />

utilizzo maggiore di lavoro part-time; inoltre, al contrario dell’occupazione<br />

totale (la cui dinamica è più strettamente legata alla struttura del mercato<br />

del lavoro), le ore lavorate variano maggiormente durante il ciclo economico<br />

con le variazioni della domanda di lavoro 1 .<br />

Se si misura la produttività in termini di ore lavorate, il tasso di crescita<br />

della produttività europea rispetto agli Stati Uniti è maggiore sino alla<br />

metà degli anni Novanta. Tra i paesi dell’Europa continentale, si nota<br />

come la produttività oraria sia rimasta elevata e si sia anche rafforzata tra<br />

il 1980 e il 1995 in Italia e Germania, mentre ha progressivamente rallentato<br />

in Francia, che partiva tra l’altro da livelli più elevati 2 (tab. 4-9 e<br />

4-10).<br />

Negli ultimi cinque anni, tuttavia, la crescita della produttività è sta-<br />

Produttività<br />

del lavoro<br />

negli<br />

Stati Uniti e<br />

in Europa:<br />

l’evidenza<br />

empirica<br />

1<br />

Seppure vi siano notevoli problemi di misurazione, una misura più accurata del fattore<br />

lavoro dovrebbe tenere conto anche della qualità. Infatti l’uso di misure di input di lavoro<br />

aggiustate per la qualità consente di attribuire una quota maggiore di crescita dell’output al<br />

fattore lavoro anziché al residuo. In altre parole, l’adozione di misure di input di lavoro aggiustate<br />

per la qualità consente di identificare meglio le fonti della crescita, distinguendo tra<br />

esternalità o spill-over — catturate dal residuo di produttività — ed effetti dell’investimento<br />

in capitale umano.<br />

2<br />

I confronti di produttività nei diversi paesi sono complicati dall’esigenza di costruire<br />

deflatori di Ppp adeguati (cfr. Schreyer P. e Pilat D., 2001).<br />

134


Tab. 4-9 — Produttività per ora lavorata<br />

(In % degli Stati Uniti)<br />

Francia Germania Italia Regno Unito Eu15 Giappone Stati Uniti<br />

1980 93 100 82 71 83 61 100<br />

1990 107 101 87 76 85 71 100<br />

1995 109 96 96 82 91 74 100<br />

2001 103 93 89 80 86 73 100<br />

Nota: Sino al 1990, i dati si riferiscono solo alla Germania dell’ovest. Valore aggiunto del totale economia in dollari<br />

Ppp 1996 sul totale delle ore lavorate.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />

Tab. 4-10 — Tassi di crescita della produttività per ora lavorata<br />

Francia Germania Italia Regno Unito Eu15 Giappone Stati Uniti<br />

1980-1985 3,1 2,0 2,0 2,2 2,4 2,3 1,4<br />

1985-1990 2,5 2,1 2,0 1,8 2,0 3,7 1,3<br />

1990-1995 1,6 2,1 2,6 2,2 2,0 2,3 1,1<br />

1995-2001 0,9 1,7 1,1 1,5 1,3 1,6 1,8<br />

1999 1,0 0,4 0,6 1,2 1,0 1,7 2,1<br />

2000 1,3 3,0 1,0 2,7 2,0 1,8 2,4<br />

2001 0,1 0,7 0,2 1,4 0,5 –0,3 1,9<br />

Nota: Cfr. nota tab. 4-9.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />

ta molto maggiore negli Stati Uniti (con l’eccezione di alcune piccole economie<br />

molto dinamiche come ad esempio l’Irlanda) rispetto ai paesi europei<br />

e al Giappone. Nel 2000, a fronte di una crescita del Pil del 4,1% la<br />

produttività oraria degli Stati Uniti è cresciuta del 2,4%, mentre nell’Unione<br />

Europea la produttività oraria è cresciuta del 2%. Nel 2001, nonostante<br />

la recessione, la produttività americana ha continuato a crescere a<br />

un ritmo superiore a quello della maggior parte dei paesi industrializzati:<br />

essa è stata pari all’1,9% contro una media dei paesi Ocse dello 0,9% e dell’Unione<br />

europea dello 0,5%, ovvero circa la metà della crescita realizzata<br />

tra il 1995 e il 2000.<br />

Poiché sino alla metà degli anni Novanta i guadagni di produttività in<br />

Europa non si sono tradotti in maggiore crescita economica analizziamo nel<br />

prosieguo le cause del «paradosso» del modello europeo rispetto a quello<br />

statunitense. A tal scopo, nel prossimo paragrafo effettuiamo un esercizio<br />

di growth accounting che ci consente di attribuire la crescita economica<br />

complessiva alla accumulazione dei fattori di produzione e alla dinamica<br />

della produttività totale dei fattori (dove quest’ultima fornisce una misura<br />

del progresso tecnico).<br />

135


Produttività La produttività del lavoro dipende dalla tecnologia — misurata dalla<br />

del lavoro, produttività totale dei fattori (Tfp) — e dalla dotazione media di capitale<br />

produttività per addetto (l’intensità di capitale) 3 .<br />

totale<br />

La tabella 4-11 riporta il calcolo dei tassi di crescita della produttività<br />

dei fattori e del lavoro del settore privato 4 ottenuto considerando le sue componenti.<br />

intensità<br />

L’analisi si concentra sull’arco temporale 1970-1999 relativamente al<br />

di capitale settore privato, a causa della mancanza di dati più recenti comparabili internazionalmente<br />

sullo stock di capitale e sulle capital income share 5 per<br />

il totale dell’economia. Nel periodo 1970-1980 la produttività del lavoro del<br />

Tab. 4-11 - Growth accounting e legami tra le misure di produttività<br />

Italia Germania Francia Regno Unito Stati Uniti Europa (b)<br />

Produttività del lavoro (a) 1970-80 3,3 3,1 3,3 2,2 0,9 3,0<br />

∆(Y/L) = ∆A/A + α∆(K/L) 1980-90 2,4 1,9 2,6 2,3 1,2 2,2<br />

1990-95 2,3 2,4 1,7 2,1 1,4 2,1<br />

1995-99 1,0 1,8 1,5 1,3 2,2 1,4<br />

Capital income share 1970-80 0,32 0,34 0,35 0,30 0,32 0,33<br />

(α) 1980-90 0,37 0,34 0,36 0,31 0,33 0,35<br />

1990-95 0,38 0,36 0,40 0,31 0,34 0,36<br />

1995-99 0,42 0,38 0,41 0,32 0,34 0,38<br />

Variazione dell’intensità 1970-80 3,7 4,9 2,9 1,7 1,5 3,5<br />

di capitale ∆(K/L) 1980-90 2,9 3,8 2,6 1,0 1,0 2,7<br />

1990-95 3,7 3,1 3,1 1,8 1,0 3,0<br />

1995-99 1,8 1,5 1,1 1,5 1,9 1,8<br />

Tfp 1970-80 2,1 1,4 2,3 1,7 0,4 1,8<br />

∆A/A 1980-90 1,3 0,6 1,6 2,0 0,9 1,3<br />

1990-95 0,9 1,3 0,5 1,5 1,0 1,0<br />

1995-99 0,2 1,2 1,0 0,9 1,6 0,8<br />

(a) Valore aggiunto per occupato nel settore privato.<br />

(b) Media ponderata dei seguenti paesi: Germania, Francia, Italia, Regno Unito.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse.<br />

3<br />

In termini formali, si consideri una funzione di produzione Y = AF(K, L) dove l’output<br />

Y è il valore aggiunto del settore privato, gli input considerati sono il lavoro L e i servizi<br />

del capitale K, e dove A misura il livello di tecnologia. Assumiamo che la produzione avvenga<br />

in un mercato perfettamente competitivo e che i rendimenti di scala siano costanti.<br />

L’approccio di «growth accounting» consente di identificare il contributo dei diversi input alla<br />

crescita del valore aggiunto complessivo. L’espressione che consente di calcolare tale contributo<br />

è la seguente:<br />

(1) ∆Y/Y = ∆A/A + α (∆K/K) + (1 – α) (∆L/L)<br />

dove ∆Y/Y, ∆A/A, ∆K/K, ∆L/L sono rispettivamente i tassi di crescita del valore aggiunto, del<br />

progresso tecnico (total factor productivity, Tfp), dei servizi del capitale e del lavoro.<br />

α = (Y – wL)/Y è la capital income share, ovvero la quota di reddito prodotto destinata<br />

alla remunerazione del capitale; wL è il costo totale del lavoro.<br />

La (1) può essere riscritta in questo modo:<br />

(2) ∆Y/Y – ∆L/L = ∆A/A + α (∆K/K – ∆L/L)<br />

La (2) indica che la crescita della produttività del lavoro (∆Y/Y – ∆L/L) dipende da due<br />

componenti: il tasso di crescita del progresso tecnologico (∆A/A) e il prodotto tra la capital income<br />

share e il tasso di crescita del rapporto capitale - lavoro (α (∆K/K – ∆L/L)).<br />

4<br />

Il valore aggiunto del settore privato, misurato al costo dei fattori, è ottenuto sommando<br />

i redditi corrisposti ai fattori produttivi, nonché gli utili non distribuiti delle imprese.<br />

Esso include i sussidi ed è al netto delle imposte indirette.<br />

5<br />

Per il calcolo dello stock di capitale e delle capital income share si rimanda al Rapporto<br />

del Csc di dicembre 2000.<br />

136


settore privato europeo cresceva al tasso medio del 2,9%, quella statunitense<br />

dello 0,9%. Questo risultato dipendeva in Europa dalla combinazione<br />

di un tasso di crescita elevato del progresso tecnico (1,8%) e da una forte<br />

crescita dell’intensità di capitale (3,5%). Tra i paesi europei, l’Italia e la<br />

Germania hanno avuto i tassi di crescita dell’intensità di capitale più elevati.<br />

Negli Stati Uniti, al contrario, il progresso tecnico non contribuiva significativamente<br />

alla crescita della produttività e l’intensità di capitale cresceva<br />

ad un tasso inferiore alla metà di quello europeo. Il Regno Unito si<br />

discosta dal modello continentale presentando caratteristiche di sviluppo<br />

molto più simili a quelle degli Stati Uniti.<br />

Le capital income share dei paesi dell’Europa continentale erano superiori<br />

a quella degli Stati Uniti. Elevate capital income share dipendono<br />

dall’uso intensivo del fattore capitale nei paesi europei. Come si è mostrato<br />

nel Rapporto Csc di dicembre 2000 l’elevata capital income share in Italia<br />

e in Europa non riflette una maggiore redditività del capitale nei paesi<br />

europei, ma il maggiore impiego relativo di questo fattore nell’attività di<br />

produzione del settore privato (tab. 4-12). La redditività del capitale in Italia<br />

e in Europa è invece, come mostrano i tassi di rendimento del capitale,<br />

stagnante nel medio-lungo periodo e sensibilmente inferiore ai livelli americani;<br />

un divario di redditività tra Stati Uniti e Europa che si è peraltro<br />

notevolmente ampliato negli ultimi anni.<br />

Nel periodo 1980-1995, il divario tra i tassi di crescita della produttività<br />

del lavoro di Europa e Stati Uniti inizia a diminuire grazie a una maggiore<br />

crescita della produttività totale dei fattori negli Stati Uniti, mentre<br />

quella europea si riduce. Nell’ultimo periodo 1995-1999 la produttività del<br />

lavoro negli Stati Uniti supera di gran lunga quella europea grazie al contributo<br />

della produttività totale, che fornisce una misura del progresso tecnico,<br />

e anche a una maggiore intensificazione del ritmo di accumulazione<br />

di capitale.<br />

Un’ampia letteratura ha recentemente evidenziato come gli andamenti<br />

della produttività del lavoro europea siano stati legati agli sviluppi nel<br />

mercato del lavoro (Daveri e Tabellini, 1998; Caballero e Hammour, 2000).<br />

A partire dagli anni Settanta differenze nei costi relativi dei fattori e successivamente<br />

nelle istituzioni del mercato del lavoro hanno generato un differenziale<br />

di crescita della produttività a favore dell’Europa poiché salari<br />

Tab. 4-12 — Intensità di capitale (1970=100) e redditività in Europa e negli Stati Uniti<br />

Francia Germania Italia Regno Unito Stati Uniti<br />

Intensità di capitale<br />

1970 100 100 100 100 100<br />

1980 137 161 138 119 115<br />

1990 173 233 174 131 126<br />

1999 211 209 225 152 137<br />

Roi<br />

1990 8,6 6,9 5,7 6,4 (a) 10,0<br />

1998 8,4 6,7 5,4 11,5 3,4<br />

Nota: Intensità di capitale ottenuta dal rapporto tra capitale fisso lordo e occupazione del settore privato. Roi del<br />

settore manifatturiero. (a) 1993 per il Regno Unito.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse; elaborazioni Csc (2000) su dati Bach.<br />

137


più elevati 6 hanno indotto le imprese a sostituire capitale a lavoro, sino al<br />

punto in cui la crescita della produttività fosse compatibile con quei livelli<br />

salariali. La ristrutturazione dei sistemi produttivi europei verso tecniche<br />

meno labour-intensive è stata la conseguenza prima degli shock salariali<br />

degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta in Europa, che non si sono<br />

verificati in analoga misura negli Stati Uniti (fig. 4-2) e successivamente<br />

delle rigidità del mercato del lavoro (anni Ottanta e Novanta).<br />

In presenza di una elevata sostituibilità tra fattori della produzione 7<br />

in Europa, gli shock salariali si sono tradotti in un calo più che proporzionale<br />

dell’impiego relativo del lavoro nei processi produttivi e, simmetricamente,<br />

in una crescita più che proporzionale nell’uso relativo del capitale.<br />

La figura 4-2 pone in relazione l’intensità di capitale con il costo relativo<br />

del lavoro rispetto al costo del capitale in Italia, Germania, Francia, Regno<br />

Unito e Stati Uniti nel 1970, 1980, 1990 e 1999. L’interpolazione dei dati<br />

in senso temporale evidenzia una netta contrapposizione tra i paesi dell’Europa<br />

continentale e Regno Unito e Stati Uniti: nei primi tre l’elasticità<br />

dell’intensità di capitale rispetto ai prezzi relativi dei fattori è molto più<br />

elevata.<br />

Oltre ai differenziali salariali, anche le rigidità del mercato del lavoro<br />

hanno contribuito ad una più veloce accumulazione del capitale (fig. 4-3).<br />

Le imprese dell’Europa continentale hanno così preferito operare con modalità<br />

più capital intensive, ed utilizzare risorse in outsourcing piuttosto<br />

che impiegare una maggiore forza-lavoro (cfr. Dornbush, 2001).<br />

Fig. 4-2 — Intensità di capitale e prezzi relativi dei fattori<br />

Nota: L’intensità di capitale (K/L) è ottenuta costruendo l’indice 1970=100 da valori misurata<br />

in milioni di dollari per occupato a Ppp 1995. I prezzi relativi dei fattori (w/r) sono ottenuti<br />

dividendo il costo del lavoro per dipendente per il costo del capitale. Per ognuno dei paesi<br />

è stato poi costruito l’indice 1970=100.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse.<br />

6<br />

Misurati al lordo delle imposte dirette e dei contributi sociali.<br />

7<br />

Secondo recenti verifiche empiriche, l’elasticità di sostituzione in Europa è superiore a<br />

1; cfr. Blanchard (1998).<br />

138


Fig. 4-3 — Intensità di capitale e rigidità del mercato del lavoro<br />

Nota: Vedi nota fig. 4-2; l’indicatore di rigidità del mercato del lavoro è calcolato dall’Ocse.<br />

Per l’intensità di capitale si sono fatte le medie del decennio Ottanta e Novanta.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ocse.<br />

La crescita del Pil in Europa è dunque avvenuta a spese dell’occupazione,<br />

mentre negli Stati Uniti la crescita si è accompagnata – almeno in<br />

parte – a un aumento più ridotto dell’intensità di capitale, con un guadagno<br />

di produttività inferiore ma con una maggiore creazione di occupazione.<br />

Il modello europeo non è risultato efficace perché ha accumulato un divario<br />

di crescita rispetto agli Stati Uniti di oltre 20 punti percentuali in<br />

trent’anni.<br />

Negli ultimi anni, vi è stato in Europa un progresso sul fronte occupazionale<br />

anche grazie ad alcuni mutamenti strutturali nel mercato<br />

del lavoro (riduzione del costo del lavoro sul segmento dei lavoratori unskilled;<br />

uso più estensivo di contratti di lavoro temporanei; miglioramenti<br />

sul fronte della formazione e della qualità del lavoro). Tuttavia, queste<br />

dinamiche del mercato del lavoro si sono associate ad una minore crescita<br />

della produttività media, sia a causa dell’aumento delle quote di occupazione<br />

dei lavoratori unskilled, sia per un probabile rallentamento<br />

della dinamica dell’intensità di capitale. Tuttavia, a controbilanciare il<br />

minor contributo dell’intensità di capitale non è intervenuta in Europa<br />

una più forte crescita della produttività totale dei fattori. Al contrario<br />

essa si è dimezzata. Questa debole performance della produttività europea<br />

nella seconda metà degli anni Novanta sembra dipendere almeno in<br />

parte da impedimenti strutturali alla crescita, particolarmente in aree<br />

quali le liberalizzazioni, l’integrazione dei mercati, la diffusione delle<br />

nuove tecnologie, l’innovazione e l’uso efficiente delle risorse umane, il<br />

cui contributo è essenziale per fare innalzare la produttività totale dei<br />

fattori (Tfp).<br />

Mentre, quindi, nella seconda metà degli anni Novanta, la produttività<br />

totale degli Stati Uniti è cresciuta più velocemente che in Europa, nello<br />

stesso periodo gli Stati Uniti hanno accelerato il ritmo degli investimenti<br />

(tab. 4-13).<br />

139


Tab. 4-13 — Investimenti privati non residenziali in % del Pil<br />

Italia Francia Germania Regno Unito Area euro Stati Uniti Giappone<br />

1965-1970 22,9 17,7 21,6 13,3 12,4 18,6<br />

1970-1980 20,8 18,3 19,6 13,4 13,4 20,3<br />

1980-1990 17,0 16,6 17,9 14,4 17,6 13,9 20,3<br />

1990-1995 16,6 16,3 20,0 14,5 17,6 13,5 21,9<br />

1995-2000 16,9 15,9 20,2 16,2 17,9 16,8 19,8<br />

2000 18,0 17,0 20,5 17,6 18,7 18,6 19,6<br />

2001 17,9 17,2 19,7 17,2 18,5 18,0 19,5<br />

Fonte: Ocse.<br />

Come si argomenterà nel prossimo paragrafo, gli investimenti in nuove<br />

tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni (Ict) e la diffusione<br />

della cosiddetta New Economy (una complessa interazione tra nuova tecnologia<br />

e nuove «regole» di funzionamento dei mercati) sono uno dei principali<br />

fattori che hanno consentito agli Stati Uniti di associare i miglioramenti<br />

di produttività ad elevati tassi di occupazione.<br />

Negli ultimi anni si è avuta una proliferazione di lavori empirici e teo-<br />

rici volti a dare conto degli effetti dell’Ict sulla crescita della produttività<br />

totale dei fattori negli Stati Uniti, e del ritardo tecnologico dell’Europa. Dal<br />

punto di vista quantitativo questa letteratura ha evidenziato i seguenti fatti<br />

stilizzati:<br />

1) la quota delle industrie produttrici di Ict sul totale del valore aggiunto<br />

è negli Stati Uniti più elevata rispetto all’Europa (rispettivamente<br />

7% tra il 1995-1998 negli Stati Uniti contro il 5% nella media dei paesi europei,<br />

4,5% in Italia; cfr. tab. 4-14);<br />

2) anche la quota sul totale del valore aggiunto delle industrie utilizzatrici<br />

di Ict è negli Stati Uniti maggiore rispetto all’Europa (28% contro<br />

una media europea del 26%);<br />

3) sia nei paesi europei che negli Stati Uniti la crescita dell’output e<br />

della produttività nei settori produttori di Ict è stata più elevata rispetto<br />

agli altri settori dell’economia (tab. 4-15).<br />

Una parte della spiegazione della maggiore crescita degli Stati Uniti<br />

risiede dunque nel fatto che una maggiore quota di Pil è rappresentata da<br />

quei settori che hanno avuto tassi di sviluppo maggiori. Una delle ragioni<br />

sottostanti ai maggiori tassi di sviluppo nei settori Ict è legata al fatto che<br />

i prodotti Ict sembrano essere associati a maggiore potenziale di apprendimento<br />

e a miglioramenti di produttività (Jorgenson, 2001).<br />

Secondo Jorgenson (2001) gli investimenti in Ict negli Stati Uniti sono<br />

iniziati già nella metà degli anni Settanta, ma solo dalla seconda metà<br />

degli anni Novanta si sono trasferiti in un maggiore tasso di crescita della<br />

produttività totale e del lavoro. Questo ritardo è dovuto al fatto che i costi<br />

di apprendimento associati alle nuove tecnologie sono elevati. Il processo<br />

di apprendimento ha natura «sociale», e dunque esiste un incentivo strategico<br />

per le imprese ad aspettare che qualcun altro adotti la nuova tecnologia<br />

per non incorrere nei costi di formazione del personale. Inoltre, le<br />

imprese attendono che il capitale vecchio diventi obsoleto prima di sosti-<br />

L’influenza<br />

dell’Ict sulla<br />

produttività<br />

totale<br />

140


Tab. 4-14 — Quota di Ict sul valore aggiunto<br />

Italia Francia Germania Regno Unito Stati Uniti<br />

1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995-<br />

1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998<br />

Industrie produttrici Ict 4,4 4,5 5,0 5,1 5,2 4,9 5,9 6,1 6,4 7,0<br />

30 - Macchine per ufficio e per il<br />

trattamento automatico delle<br />

informazioni 0,1 0,1 0,3 0,2 0,3 0,2 0,4 0,5 0,4 0,4<br />

32 - Apparecchi per le telecomunicazioni,<br />

registrazione e riproduzione del suono 0,6 0,5 0,5 0,5 0,6 0,4 0,6 0,8 1,2 1,4<br />

64 - Poste e telecomunicazioni 1,9 2,0 2,4 2,3 2,5 2,4 2,9 2,7 2,5 2,7<br />

72 - Computer e servizi collegati 1,4 1,4 1,3 1,4 1,0 1,2 1,2 1,5 1,6 1,8<br />

Industrie utilizzatrici di Ict 25,5 26,2 24,3 24,6 26,7 26,0 28,1 28,6 26,5 28,6<br />

22 - Stampa e editoria 0,9 0,9 1,1 1,0 1,1 1,0 1,8 1,8 1,2 1,1<br />

24 - Prodotti chimici e derivati 1,7 1,7 1,9 2,0 2,4 2,3 2,2 2,2 1,9 2,0<br />

31 - Macchine e apparecchiature<br />

elettriche 1,0 1,1 0,8 0,8 2,0 1,6 0,7 0,7 0,7 0,6<br />

33 - Strumenti medici, di precisione<br />

e ottici 0,5 0,4 0,6 0,6 0,8 0,7 0,6 0,6 0,8 0,7<br />

51 - Commercio all’ingrosso 6,9 6,8 4,1 4,1 5,0 4,8 6,0 6,1 4,4 4,4<br />

65 - Intermediazione finanziaria 5,3 4,8 4,1 3,7 4,0 3,7 4,3 3,7 3,5 3,9<br />

66 - Assicurazione e fondi pensione 0,5 0,7 0,9 1,0 1,6 1,8 1,3 1,5<br />

67 - Attività legate all’intermediazione<br />

finanziaria 0,6 0,6 0,5 0,5 0,6 0,6 1,6 2,0<br />

71 - Affitto di macchine e<br />

apparecchiature 0,8 0,9 1,0 0,9 1,5 1,6 0,8 0,9 0,8 0,9<br />

73 - Ricerca e Sviluppo 1,4 1,4 0,3 0,3 0,5 0,4 1,6 1,8<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />

tuirlo. Quest’ultima spiegazione è tanto più vera per i paesi dell’Europa<br />

continentale, i quali hanno accumulato molto più capitale rispetto agli Stati<br />

Uniti. Il bias tecnologico europeo a favore del capitale ha contribuito ad<br />

accrescere quella che è stata recentemente definita «sclerosi tecnologica» 8<br />

dell’Europa: la sovra-capitalizzazione in risposta alla forte regolamentazione<br />

del mercato del lavoro, ha comportato che unità di capitale «vecchie» sopravvivessero<br />

più a lungo di ciò che si sarebbe verificato in un contesto flessibile<br />

e funzionale a un utilizzo «ottimale» dei fattori di produzione; al contrario,<br />

negli Stati Uniti l’utilizzo di tecniche produttive meno capital intensive<br />

ha reso meno oneroso — e quindi facilitato — il rinnovo dello stock<br />

di capitale nella direzione di un crescente impiego di beni-capitali innovativi<br />

e tecnologicamente avanzati.<br />

Il deficit tecnologico europeo dipende inoltre da alcuni importanti problemi<br />

strutturali:<br />

1) le spese in ricerca e sviluppo, calcolate in rapporto al Pil, sono di<br />

circa il 20% più elevate negli Stati Uniti rispetto all’Europa.<br />

2) L’Europa, e soprattutto l’Italia, non hanno vantaggi comparati nella<br />

produzione di beni hi-tech, e tendono a de-specializzarsi nella produzio-<br />

8<br />

Caballero R. Hammour M., (2000).<br />

141


Tab. 4-15 — Produttività del lavoro nei settori produttori e utilizzatori di Ict<br />

Italia Francia Germania Regno Unito Stati Uniti<br />

1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995- 1991- 1995-<br />

1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998 1995 1998<br />

Industrie produttrici Ict 5,1 4,4 4,3 8,1 6,8 9,7 6,8 4,1 4,7 7,3<br />

30 - Macchine per ufficio e per il<br />

trattamento automatico delle<br />

informazioni 19,0 10,3 24,0 31,5 12,4 15,3 21,8 14,7 16,9 21,6<br />

32 - Apparecchi per le telecomunicazioni,<br />

registrazione e riproduzione del suono –0,7 0,5 20,7 20,5 7,7 6,0 12,9 –1,1 16,0 22,3<br />

64 - Poste e telecomunicazioni 9,1 8,6 3,1 6,4 8,1 13,0 6,5 8,8 5,4 3,9<br />

72 - Computer e servizi collegati 1,7 1,8 2,0 2,7 0,6 6,4 5,5 1,8 –0,7 0,4<br />

Industrie utilizzatrici di Ict 2,6 1,7 1,5 2,2 3,4 3,9 2,4 1,7 2,3 3,8<br />

22 - Stampa e editoria 2,4 2,6 1,0 1,9 1,6 3,3 0,7 –0,4 –2,5 –2,0<br />

24 - Prodotti chimici e derivati 3,5 1,2 6,7 7,2 8,8 5,5 7,8 1,6 3,5 1,0<br />

31 - Macchine e apparecchiature<br />

elettriche 7,8 8,5 6,6 3,1 1,3 –0,6 3,7 –1,5 8,6 16,2<br />

33 - Strumenti medici, di precisione<br />

e ottici 0,8 2,8 –1,4 5,0 2,5 3,2 0,0 –5,4 –2,2 –2,2<br />

51 - Commercio all’ingrosso 2,7 2,8 3,3 1,6 3,3 0,9 –0,7 –2,0 5,3 4,0<br />

65 - Intermediazione finanziaria 1,3 1,8 –2,0 4,0 1,4 7,5 2,1 3,7 1,4 6,5<br />

66 - Assicurazione e fondi pensione –0,4 –2,4 3,0 –3,2 1,5 1,5 3,5 –0,4<br />

67 - Attività legate all’intermediazione<br />

finanziaria 5,4 2,4 –1,8 2,8 1,4 0,4 3,4 6,9<br />

71 - Affitto di macchine e<br />

apparecchiature 1,9 1,2 –1,4 –0,4 0,9 6,9 5,9 5,5 –0,7 0,4<br />

73 - Ricerca e Sviluppo –1,1 0,3 0,6 0,2 3,4 –3,3 –0,7 0,4<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati dell’Università di Groningen.<br />

Tab. 4-16 — Contributi dell’Ict alla crescita del Pil<br />

Paese<br />

Periodo<br />

Contributi di:<br />

Crescita<br />

Apparecchiature della<br />

Apparecchiature<br />

Software di TFP<br />

IT<br />

Comunicazione<br />

Vijselaar & Albers, 2002 Area euro 1991-1995 0,26 0,05 0,06 1,24<br />

1996-1999 0,49 0,18 0,07 0,29<br />

Vijselaar & Albers, 2002 Italia 1991-1995 0,02 0,01 0,11 1,49<br />

1996-1999 0,04 0,10 0,11 0,18<br />

Vijselaar & Albers, 2002 Germania 1991-1995 0,09 0,06 0,02 1,52<br />

1996-1999 0,12 0,13 0,01 0,64<br />

Oliner & Sichel, 2001 Stati Uniti 1991-1995 0,25 0,25 0,07 0,92<br />

1996-1999 0,63 0,32 0,15 1,47<br />

Nota: Le elaborazioni dei due lavori si basano sulla nuova contabilità Usa; per il confronto occorre tenere conto del<br />

fatto che mentre Vijselaar e Albers (2002) stimano le componenti della crescita del Pil, Oliner e Sichel (2001) stimano<br />

la crescita dell’output del settore privato. Si noti come la crescita della TFP stimata in questi studi risulti<br />

molto simile a quella da noi calcolata per il settore privato (cfr. tab. 4-11).<br />

Fonte: Autori citati nella tabella.<br />

142


ne di questi beni. In particolare, la quota di import di Ict è in Italia più alta<br />

rispetto agli altri settori di beni strumentali (cfr. De Arcangelis, Jona,<br />

Manzocchi, 2001). In parte, la forte regolamentazione nel mercato del lavoro<br />

e dei beni costituisce un deterrente per la specializzazione in industrie<br />

hi-tech, e riduce gli incentivi al cambiamento tecnologico. Inoltre, gli elevati<br />

costi di licenziamento prevengono infatti la chiusura di industrie obsolete,<br />

mantenendo così risorse umane in settori a bassa produttività (cfr.<br />

Saint-Paul, 1997; 2001).<br />

Sebbene in Europa l’importanza dell’accumulazione di capitale di tipo<br />

Ict per la crescita sia andata aumentando negli ultimi anni, non si è ancora<br />

avuta una forte accelerazione della produttività totale e del tasso di<br />

crescita potenziale, al contrario di quanto accaduto negli Stati Uniti (tab.<br />

4-16).<br />

Bibliografia<br />

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and Factor Prices, Nber working paper n. 6566.<br />

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2001.<br />

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is the United States a unique case? A comparative study of nine Oecd countries,<br />

Oecd working paper n. 2001/7.<br />

Csc, (2000), Rapporto di previsioni macroeconomiche, dicembre 2000.<br />

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Performance, Nber working paper n. 7720, May 2000.<br />

Caballero, R., Hammour M., (2000), Creative destruction and development: institutions,<br />

crises and restructuring, Nber working paper n. 7849, August 2000.<br />

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countries, Cepr discussion paper n. 1684, August 1997.<br />

De Arcangelis G., Jona-Lasinio C., Manzocchi S., (2001), Sectoral Determinants and<br />

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Cepr working paper n. 3213.<br />

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Review, vol.91/1 pag. 1-32.<br />

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3-22.<br />

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of job protection on the pattern of trade and welfare, European Economic<br />

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Saint-Paul G., (2001), Employment Protection, Innovation and International Specialization,<br />

European Economic Review.<br />

Schreyer P., Pilat D., (2001), Measuring Productivity, Oecd Economic Studies n. 33,<br />

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Scarpetta S., Bassanini A., Pilat D., Schreyer P., (2000), Economic Growth in the<br />

Oecd area: recent trends at the aggregate and sectoral level, Oecd working paper<br />

n. 248.<br />

Vijsellaar F., Albers R., (2002), New technologies and productivity growth in the euro<br />

area, Ecb working paper n. 122.<br />

143


4.3 Crescita e occupazione in Germania nella seconda<br />

metà degli anni Novanta<br />

Introduzione<br />

Nella seconda metà degli anni Novanta la Germania ha registrato tassi<br />

di sviluppo inferiori a quelli europei: il tasso di crescita medio del Pil tedesco<br />

è stato, infatti, dell’1,6%, contro il 2,8% degli altri paesi dell’area dell’euro<br />

(2,5% in Francia e 1,9% in Italia). Come è stato mostrato in un recente<br />

studio della Commissione europea (2002), sulla bassa crescita dell’economia<br />

tedesca pesano la debolezza degli investimenti in costruzioni e dei<br />

consumi delle famiglie. Nello stesso periodo l’evoluzione sfavorevole della<br />

domanda interna è stata solo in parte compensata dalla vivacità delle esportazioni<br />

tedesche che ha fatto seguito al graduale recupero di competitività<br />

di cambio e al redirezionamento dei flussi esportativi. Grazie anche alla<br />

specializzazione dell’export tedesco, orientato verso beni capitali, le esportazioni<br />

hanno finito per essere negli ultimi anni il vero motore della crescita<br />

tedesca.<br />

Come si mostrerà nel prosieguo di questa nota, mentre la crisi del settore<br />

delle costruzioni è direttamente legata alle scelte economiche successive<br />

alla riunificazione, la modesta performance dei consumi si lega, verosimilmente,<br />

ai bassi tassi di crescita dell’occupazione. Tra il 1996 e il 2000,<br />

infatti, l’occupazione tedesca è cresciuta complessivamente solo dell’1,5%,<br />

contro il 9,5% registrato dagli altri paesi dell’area dell’euro. Le difficoltà<br />

nel creare nuova occupazione dipendono, in modo particolare, dall’elevato<br />

costo del lavoro, dalla tassazione eccessiva e dalla rigidità dei meccanismi<br />

che regolano l’entrata e l’uscita dal mercato del lavoro. Mentre i problemi<br />

nel settore delle costruzioni saranno presumibilmente riassorbiti nei prossimi<br />

anni, quelli del mercato del lavoro richiedono riforme profonde dei meccanismi<br />

che regolano la domanda e l’offerta di lavoro.<br />

Le componenti La crisi del settore delle costruzioni è direttamente riconducibile alle<br />

della domanda politiche fiscali fortemente espansive condotte durante il processo di riunie<br />

la<br />

ficazione, che provocarono sovra-investimenti in costruzioni e un forte boom<br />

competitività iniziale, con un tasso di crescita del Pil che raggiunse tra il 1990 e il 1991<br />

estera<br />

il 5,2% (fig. 4-4). L’eccesso di offerta accumulato nel settore delle costruzioni<br />

sino al 1995 non sembra essere stato ancora riassorbito 1 : tra il 1996<br />

e il 2001 gli investimenti in costruzioni hanno rappresentato più di un terzo<br />

del differenziale sfavorevole di crescita della domanda interna tra la Germania<br />

e il resto dell’area dell’euro (tab. 4-17).<br />

L’altra componente della domanda interna che ha fortemente penalizzato<br />

il tasso di sviluppo dell’economia tedesca sono stati i consumi delle famiglie<br />

che, tra il 1996 e il 2001, hanno mediamente fornito un differenziale<br />

sfavorevole alla crescita tedesca pari allo 0,7% (tab. 4-17). L’andamento<br />

«deficitario» di questa componente è verosimilmente legato al malfunzionamento<br />

del mercato del lavoro.<br />

La domanda estera, pur fornendo un contributo alla crescita decisamente<br />

più alto in Germania, è riuscita solo in parte a compensare la performance<br />

deficitaria della domanda interna rispetto al resto d’Europa (il maggior contributo<br />

alla crescita di questa componente è stato, infatti, mediamente pari<br />

allo 0,4% e decisamente inferiore al minor contributo della domanda interna<br />

1<br />

Anche nei macchinari e attrezzature si registrò un forte sovra-investimento nel biennio<br />

1990-91 che ebbe ripercussioni negative già a partire dal 1992.<br />

144


Fig. 4-4 — Tassi di crescita medi annui della Germania e dell’area dell’euro<br />

(a)<br />

(a) Al netto della Germania.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Fmi.<br />

Tab. 4-17 — Differenziali medi dei contributi alla crescita (a) della Germania<br />

rispetto a Ue 11 (b)<br />

1992-95 1996-2001<br />

Pil 0,0 –1,2<br />

Domanda interna 0,8 –1,6<br />

Consumi delle famiglie 0,4 –0,7<br />

Investimenti fissi lordi 0,4 –0,8<br />

Costruzioni (b) 1,1 –0,6<br />

Macchinari e attrezzature (b) –0,7 –0,2<br />

Esportazioni nette –0,8 0,4<br />

Export –1,5 –0,3<br />

Import –0,7 –0,7<br />

(a) Delle componenti della domanda aggregata.<br />

(b) I contributi delle costruzioni e dei macchinari e attrezzature sono stati calcolati utilizzando<br />

i tassi di crescita di Francia, Italia, Olanda, Austria, Finlandia.<br />

Nota: Ue 11 si riferisce ai paesi dell’area dell’euro al netto della Germania.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />

pari all’1,6%; tab. 4-17). È utile rammentare, a questo proposito, che le politiche<br />

economiche tedesche durante l’Unificazione generarono un forte apprezzamento<br />

del marco sia in termini nominali che reali (tab. 4-18). La rivalutazione<br />

della moneta tedesca si è tradotta in una perdita di competitività<br />

dei prodotti tedeschi, come risulta evidente dalla dinamica delle quote<br />

di mercato (tab. 4-18). Sebbene la perdita di market share sia stata un fenomeno<br />

che ha riguardato altri paesi europei (come la Francia, l’Italia e il Regno<br />

Unito) e che è in parte riconducibile all’aumento dell’export dei paesi<br />

emergenti, essa è nel caso della Germania la più elevata in assoluto (e pari<br />

al 9%). Contestualmente si è prodotto un mutamento nella destinazione geografica<br />

delle esportazioni tedesche a favore dei paesi extra-euro.<br />

145


Tab. 4-18 — Andamento del cambio nominale e reale del marco rispetto alla moneta unica<br />

1988-91 1992-95 1996-99 2000-01 1992-01<br />

Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) cumulato del<br />

marco rispetto all’euro –1,3 –8,3 5,7 – –3,1<br />

Cambiamento cumulato dei prezzi dell’area euro<br />

rispetto a quelli tedeschi 3,7 0,3 4,9 –0,5 5,6<br />

Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) reale<br />

cumulato sui prezzi al consumo 2,4 –8,0 10,6 –0,5 2,5<br />

Cambiamento cumulato del Clup totale economia<br />

dell’area euro rispetto a quello tedesco n.d. –1,4 2,6 3,4 3,7<br />

Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) reale<br />

cumulato sul Clup totale economia n.d. –9,7 8,3 3,4 0,6<br />

Cambiamento cumulato del Clup manifatturiero<br />

dell’area euro rispetto a quello tedesco n.d. –2,9 0,7 1,7 0,1<br />

Deprezzamento (+) / apprezzamento (–) reale<br />

cumulato sul Clup manifatturiero n.d. –11,2 6,4 1,7 –3,0<br />

Nota: Nella terza, quinta e settima riga valori positivi (negativi) indicano un miglioramento (peggioramento) della<br />

competitività di prezzo/costo della Germania rispetto all’area dell’euro.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Fmi e Commissione europea.<br />

Tra il 1996 e il 1999 si è assistito a un progressivo recupero della competitività<br />

di cambio tedesca rispetto ai paesi dell’area. Il deprezzamento in<br />

termini reali è stato rispettivamente del 10,6% (se calcolato sui prezzi al<br />

consumo) e dell’8,3% (se calcolato sul Clup; tab. 4-18). Il miglioramento della<br />

competitività di prezzo e di costo è dipesa da una dinamica più favorevole<br />

dell’inflazione e del Clup tedeschi, rispetto a quella media dell’area.<br />

Ciò si è tradotto in una minor perdita di quote di mercato rispetto alle maggiori<br />

economie dell’area (tab. 4-19).<br />

Tra il 2000 e il 2001 è proseguito il miglioramento della competitività<br />

di prezzo e di costo della Germania rispetto all’area dell’euro. La tabella 4-<br />

18 mostra che il gap di competitività accumulato nello scorso decennio nei<br />

confronti dell’Europa è stato recuperato 2 .<br />

Tab. 4-19 — Variazione totale percentuale delle quote di mercato (a)<br />

1992-95 1996-01<br />

Germania –9,0 –4,7<br />

Italia –3,6 –16,5<br />

Francia –9,0 –10,7<br />

Regno Unito –6,5 –6,5<br />

Olanda 2,6 –7,2<br />

Belgio 16,9 –9,4<br />

Spagna 4,6 4,8<br />

Irlanda 14,6 22,2<br />

(a) Rispetto al valore di inizio periodo.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Fmi.<br />

2<br />

Tuttavia, se per il calcolo del tasso di cambio reale viene utilizzato il Clup del settore<br />

manifatturiero, è possibile notare che il recupero del gap di competitività è stato solo parziale<br />

(tab. 4-18, riga 7). Infatti, come si vedrà meglio in seguito, questo settore è stato il più penalizzato<br />

dai costi delle riunificazione (aumenti salariali superiori alla produttività) e dal meccanismo<br />

distorsivo della contrattazione salariale. Ciononostante, anche in questo caso il recupero,<br />

seppure parziale, di competitività sembra fornire una spiegazione alla miglior dinamica<br />

delle esportazioni tedesche rispetto agli altri paesi europei negli ultimi anni.<br />

146


Il mercato<br />

del lavoro<br />

Si è detto che il cattivo funzionamento del mercato del lavoro tedesco<br />

è uno dei motivi principali della cattiva performance sia in termini di creazione<br />

di nuovi posti di lavoro sia, verosimilmente, della modesta dinamica<br />

dei consumi delle famiglie. In questo paragrafo si forniscono alcuni dati sulla<br />

crescita occupazionale e si riassumono le «rigidità» che caratterizzano il<br />

mercato del lavoro tedesco.<br />

La tabella 4-20 pone a confronto i tassi di crescita dell’occupazione sia<br />

della Germania unificata che della Germania occidentale e orientale con<br />

quelli dell’area dell’euro nell’ultimo decennio.<br />

Tra il 1992 e il 1995 la Germania unita registrò una caduta degli occupati<br />

(–3,4%) superiore a quella degli altri paesi europei (–2,4%). La contrazione<br />

del numero di occupati si verificò quasi interamente nei Länder<br />

orientali a causa della chiusura, ristrutturazione e riorganizzazione di impianti<br />

obsoleti 3 , nonché in conseguenza degli aumenti salariali superiori<br />

agli incrementi di produttività. Inoltre, l’iniziale elargizione di generosi sussidi<br />

di disoccupazione nei Länder orientali, accrescendo il salario di «riserva»<br />

delle persone in cerca di lavoro, forniva un forte disincentivo alla ricerca<br />

di lavoro.<br />

Tra il 1996 e il 2000, la dinamica occupazionale dei nuovi come dei<br />

vecchi Länder è stata nettamente peggiore di quella degli altri paesi dell’area<br />

dell’euro in tutti i settori economici; anche nel settore dei servizi, che<br />

ha registrato un tasso di crescita del valore aggiunto paragonabile a quello<br />

del resto dell’area, la Germania non è riuscita a incrementare l’occupazione<br />

con la stessa intensità (tab. 4-21).<br />

Tab. 4-20 — Tassi di crescita cumulati degli occupati (a)<br />

Germania Germania Ovest Germania Est Ue 11<br />

1992-1995 –3,4 –0,7 –13,4 –2,4 (b)<br />

1996-2000 1,5 2,5 –3,1 9,5<br />

(a) Tra i 15 e i 64 anni.<br />

(b) Non include i dati relativi all’Austria e alla Finlandia perché non disponibili.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />

Tab. 4-21 — Tassi di crescita cumulati degli occupati (a) e del valore aggiunto,<br />

1996-2000<br />

Settori<br />

Germania Ue 11<br />

Valore aggiunto Occupati Valore aggiunto Occupati<br />

Agricoltura 12,2 –15,0 8,5 –13,2<br />

Industria in senso stretto 5,8 –4,9 15,7 5,4<br />

Costruzioni –10,1 –7,6 8,6 14,3<br />

Servizi 15,9 6,5 15,2 12,5<br />

(a) Tra i 15 e i 64 anni.<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />

3<br />

La transizione da una economia pianificata a una di mercato richiese la ristrutturazione<br />

delle imprese orientali che generò una caduta dell’occupazione e un aumento dei salari.<br />

La crescita della produttività degli occupati nei Länder orientali non compensò l’aumento<br />

delle retribuzioni e ciò si tradusse in una forte perdita di redditività delle imprese dell’Est.<br />

147


Le difficoltà del mercato del lavoro tedesco sono riconducibili a tre grandi<br />

ordini di problemi: il costo del lavoro troppo elevato; la tassazione del lavoro<br />

eccessiva, nonché l’esistenza di sussidi alla disoccupazione elevati e di<br />

lunga durata; le rigidità del mercato del lavoro.<br />

Costo del<br />

L’elevato costo del lavoro, soprattutto nel settore manifatturiero, è<br />

lavoro<br />

in larga parte riconducibile al tipo di negoziazione salariale che differenzia<br />

a seconda del settore di appartenenza e non del grado di skill (fig. 4-5).<br />

Il particolare meccanismo di contrattazione, tenendo conto solo parzialmente<br />

del diverso grado di produttività che caratterizza le diverse qualifiche<br />

professionali, è tale da provocare un tasso di crescita dei salari dei<br />

lavoratori non qualificati sistematicamente superiore ai corrispondenti incrementi<br />

di produttività. Ciò si traduce in una sorta di circolo «vizioso» in<br />

cui la domanda di lavoro è rivolta solo ai lavoratori high skilled che vedono<br />

così aumentato il loro potere contrattuale. Allo stesso tempo i lavoratori<br />

meno qualificati hanno grosse difficoltà a trovare lavoro visto che i loro<br />

salari di ingresso non sono competitivi. Inoltre, la negoziazione salariale<br />

non tiene sufficientemente conto degli alti tassi di disoccupazione e della<br />

più bassa produttività del lavoro che caratterizzano, in modo particolare, le<br />

regioni orientali.<br />

Infine, se è vero che le imprese tedesche non possono permettersi di<br />

pagare ai lavoratori low-skilled salari in eccesso alla propria produttività,<br />

è anche vero che in Germania l’incentivo a migliorare la propria qualifica<br />

professionale è ridotto dal generoso sistema di benefici che rende poco conveniente<br />

passare dallo stato di disoccupato a quello di occupato.<br />

Effetti della<br />

La decisione di cercare lavoro dipende, tra l’altro, dall’alto grado di getassazione<br />

e nerosità dei sussidi alla disoccupazione e dalla tassazione dei redditi da ladei<br />

sussidi voro. La tabella 4-22 indica cosa succede ai redditi percepiti nel momento<br />

alla<br />

in cui uno dei due partner (di una famiglia con due figli) decide di passadisoccupazione<br />

re dallo stato di disoccupato (beneficiario di sussidi) a quello di occupato (a<br />

sulla<br />

tempo pieno o part-time), ovvero quanta parte delle maggiori retribuzioni<br />

propensione lorde (generate dall’aumento delle ore lavorate) viene persa per l’incremento<br />

a cercare della tassazione dei redditi da lavoro e per la perdita di sussidi. La comlavoro<br />

binazione di questi elementi evidenzia un maggiore disincentivo alla ricerca<br />

di lavoro in Germania rispetto all’Europa. Se, per esempio, in Germania<br />

il principal earner, il cui partner non è occupato, decide di lavorare a tempo<br />

pieno, l’80% della variazione del proprio reddito lordo viene persa (colonna<br />

1). Si osserva, inoltre, che in Germania non vi è convenienza alcuna per il<br />

principal earner nel passare dallo stato di disoccupato a quello di occupato<br />

part-time (colonna 2). Nel caso del secondary earner l’aliquota media effettiva<br />

derivante dal cambiamento dello stato occupazionale risulta pari al 50%<br />

circa in Germania, ovvero 16-19 punti percentuali in più della media dei paesi<br />

dell’Unione europea. La particolare combinazione degli effetti dei sussidi<br />

alla disoccupazione e della tassazione sui redditi da lavoro sembra, dunque,<br />

fornire maggiori disincentivi alla ricerca di occupazione in Germania.<br />

Rigidità del<br />

La tab. 4-23 mostra come alla fine degli anni Novanta la Germania sia<br />

mercato uno dei paesi europei con il più alto grado di regolamentazione nella nordel<br />

lavoro mativa sui rapporti di lavoro permanenti (che in Europa caratterizzano circa<br />

l’85% dell’occupazione dipendente; l’87% in Germania). Questo dato è<br />

tanto più grave se si considera che la Germania è l’unico paese dell’Ocse<br />

che, rispetto alla fine degli anni Ottanta, vede aumentare la regolamentazione<br />

in questa tipologia di contratti (cfr. par. 4.4).<br />

148


Fig. 4-5 — Costo del lavoro nel settore manifatturiero (a) (b), 2000<br />

(Germania = 100)<br />

(a) Operaio medio senza carichi di famiglia, in dollari PPP.<br />

(b) Retribuzioni lorde più contributi a carico del datore di lavoro.<br />

Fonte: Ocse, 2002.<br />

Tab. 4-22 — Aliquote medie effettive sui redditi addizionali percepiti con il nuovo stato occupazionale<br />

(a)<br />

Stato occupazionale<br />

Da disoccupato a Da disoccupato<br />

Principal earner occupato a tempo a occupato Occupato Occupato<br />

pieno<br />

part-time<br />

Da disoccupato a Da disoccupato<br />

Secondary earner Non occupato Non occupato occupato a tempo a occupato<br />

pieno<br />

part-time<br />

Austria 76 135 30 21<br />

Belgio 68 109 57 61<br />

Finlandia 88 117 36 23<br />

Francia 76 69 28 38<br />

Germania 80 115 51 50<br />

Grecia 54 104 30 30<br />

Irlanda 68 83 32 25<br />

Italia 63 84 33 25<br />

Olanda 89 90 39 37<br />

Spagna 78 77 21 19<br />

Regno Unito 72 93 28 20<br />

Unione europea 77 107 35 31<br />

(a) Le aliquote misurano quanta parte dell’aumento delle retribuzioni lorde, dovuto al nuovo stato occupazionale,<br />

viene perduta per la maggiore tassazione dei redditi percepiti e per il venir meno dei sussidi alla disoccupazione.<br />

Fonte: Ocse, Benefit System and Work incentives, 1999.<br />

149


Tab. 4-23 — Rigidità del mercato del lavoro in alcuni paesi europei<br />

(Grado di rigidità: 0 = basso; 6 = alto)<br />

Paesi<br />

Regolamentazione lavoratori<br />

Regolamentazione lavoratori<br />

permanenti<br />

temporanei<br />

Fine anni Ottanta Fine anni Novanta Fine anni Ottanta Fine anni Novanta<br />

Belgio 1,5 1,5 4,6 2,8<br />

Finlandia 2,7 2,1 1,9 1,9<br />

Francia 2,3 2,3 3,1 3,6<br />

Germania 2,7 2,8 3,8 2,3<br />

Italia 2,8 2,8 5,4 3,8<br />

Spagna 3,9 2,6 3,5 3,5<br />

Regno Unito 0,8 0,8 0,3 0,3<br />

Fonte: Ocse, Employment Outlook 1999.<br />

Bibliografia<br />

Commissione europea (2002), Directorate General for Economic and Financial Affairs,<br />

«Germany’s growth performance in the 1990’s», Economic Paper n. 170.<br />

Deutsche Bundesbank (2001), Appendix: the growth differential between Germany<br />

and France, Monthly report, August, pp. 21-27.<br />

Oecd (2001), Economic Survey: Germany.<br />

Wurzel E. (2001), The economic integration of Germany’s New Länder, Oecd working<br />

paper n. 307.<br />

4.4 Rigidità del mercato del lavoro e ammortizzatori<br />

sociali in Italia e in Europa<br />

Nonostante i progressi compiuti, l’Italia continua ad avere forti divari<br />

occupazionali rispetto ai principali paesi europei. Il tasso di occupazione,<br />

pari nel 2001 al 54,6% della popolazione in età da lavoro, è il più basso di<br />

tutti i paesi Ue e si colloca circa 10 punti al di sotto della media europea<br />

(64%). L’obiettivo stabilito al vertice europeo di Lisbona è un tasso di occupazione<br />

complessivo del 70% nella media dell’area (almeno il 60% per le<br />

donne) entro il 2010, con un target intermedio del 67% (57% per le donne)<br />

nel 2005.<br />

Anche la Commissione europea 1 , ha indicato il basso tasso di occupazione<br />

come uno degli aspetti più critici del mercato del lavoro italiano. Nell’invitare<br />

l’Italia a «continuare a rendere più flessibile il mercato del lavoro»,<br />

la Commissione europea ha anche sottolineato la contestuale esigenza<br />

di portare avanti con rapidità le riforme ancora in cantiere dei servizi pubblici<br />

all’impiego e degli ammortizzatori sociali, per poter combinare al me-<br />

1<br />

Cfr. Commissione delle Comunità europee, Raccomandazione del Consiglio riguardante<br />

l’attuazione delle politiche in materia di occupazione degli Stati membri, 12 settembre 2001,<br />

pag. 14. Questa posizione è stata inoltre recentemente ribadita dal Consiglio dell’Unione europea<br />

(cfr. Gazzetta ufficiale delle Comunità europee dell’1.3.2002).<br />

150


glio l’adattabilità del mercato del lavoro con la sicurezza dei lavoratori dentro<br />

e fuori il mercato stesso.<br />

Il recente dibattito europeo ha infatti messo in luce la necessità di accompagnare<br />

la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro con<br />

la creazione di un sistema di protezione sociale adeguato alle nuove esigenze<br />

di flessibilità. Esisterebbe una sorta di trade-off fra rigidità del mercato<br />

del lavoro e grado di protezione sociale del lavoratore nelle situazioni<br />

di disoccupazione. In Italia, ad esempio, l’elevata protezione dei lavoratori<br />

contro l’ipotesi di licenziamento si accompagna ad un’indennità di disoccupazione<br />

di ammontare non elevato e di breve durata. In Danimarca, dove<br />

il tasso di occupazione è pari al 76%, la maggiore flessibilità in uscita dal<br />

mercato del lavoro viene compensata da un esteso e relativamente generoso<br />

sistema di protezione sociale.<br />

La rigidità<br />

del mercato<br />

del lavoro<br />

e le sue<br />

determinanti<br />

In generale, un mercato del lavoro si configura come rigido quando la<br />

domanda e l’offerta di lavoro che lo caratterizzano non si adeguano (o si<br />

adeguano molto lentamente) alle fluttuazioni dell’economia. Nel dibattito<br />

corrente il concetto di rigidità del mercato del lavoro viene tuttavia spesso<br />

identificato con quello, più circoscritto, di rigidità dei rapporti di lavoro generata<br />

dalle istituzioni (derivanti sia dalle disposizioni legislative che dai<br />

contratti di lavoro) create a protezione dei lavoratori.<br />

Gli sviluppi teorici ed empirici più recenti 2 mostrano che normative<br />

stringenti a protezione del lavoro (employment protection legislation — Epl<br />

—) risultano mediamente correlate sia con il livello di occupazione osservato<br />

in ciascun paese che con la composizione demografica di occupati e disoccupati.<br />

In particolare, sembrerebbe esserci un legame inverso fra grado<br />

di protezione dei rapporti di lavoro e tasso di occupazione (fig. 4-6). Nei<br />

mercati del lavoro più regolamentati si riscontra inoltre mediamente una<br />

maggiore incidenza degli occupati indipendenti (cfr. par. 4.5), che può rappresentare,<br />

insieme al fenomeno del sommerso, un modo per sfuggire alle<br />

rigidità del sistema (cfr. Riquadro I lavoratori non coperti dall’art. 18 dello<br />

Statuto dei lavoratori).<br />

A partire dalla metà degli anni Novanta, l’Ocse ha cominciato ad elaborare<br />

una serie di indicatori per poter classificare i paesi membri in base<br />

al grado di regolamentazione del mercato del lavoro. La qualità di questi<br />

indicatori è stata migliorata nel tempo e la versione più aggiornata e qualitativamente<br />

migliore fa riferimento alla fine degli anni Novanta 3 .<br />

La figura 4-7 mostra come si posizionano i diversi paesi Ocse in base ad<br />

un indicatore generale di Epl, che tiene conto del grado di flessibilità dei rapporti<br />

di lavoro sia in entrata che in uscita. L’indice è il risultato della ponderazione<br />

di tre diverse componenti: i) la protezione dei lavoratori permanenti<br />

contro i licenziamenti (12 indici di base relativi a: procedure, notifiche<br />

e liquidazioni, difficoltà di licenziamento); ii) la regolamentazione delle forme<br />

di lavoro temporaneo (6 indici relativi a: contratti a termine, agenzie di<br />

lavoro interinale); iii) la regolamentazione dei licenziamenti collettivi.<br />

La combinazione dei diversi elementi porta alla definizione di un indice<br />

generale di Epl compreso fra 0 e 6 4 , sulla base del quale l’Italia si colloca ai<br />

2<br />

Per una rassegna esaustiva delle principali conclusioni raggiunte dalla letteratura teorica<br />

ed empirica negli ultimi anni, si veda Oecd, Employment Outlook 1999, pagg. 47-132.<br />

3<br />

Cfr. Oecd, Employment Outlook 1999, pp. 47-67.<br />

4<br />

Tutta la procedura seguita — dalla definizione degli indici di base, alla ponderazione<br />

effettuata per passare all’assegnazione del valore dell’indice finale — comporta naturalmente<br />

un certo grado di soggettività di cui occorre tener conto.<br />

151


Fig. 4-6 — Epl e tassi di occupazione nei paesi Ocse<br />

(a) Operaio medio senza carichi di famiglia, in dollari PPP.<br />

(b) Retribuzioni lorde più contributi a carico del datore di lavoro.<br />

Fonte: Oecd, Employment outlook, 1999 e 2001.<br />

Fig. 4-7 — Rigidità del mercato del lavoro<br />

(Range di rigidità 0 = bassa, 6 = alta)<br />

Fonte: Oecd, Employment outlook, 1999.<br />

152


primi posti, tra tutti i paesi Ocse, per il grado di protezione che il sistema accorda<br />

ai lavoratori, superata solamente da Portogallo e Grecia (fig. 4-6).<br />

Ordinamenti simili si ottengono anche andando a guardare gli indici di<br />

Epl più dettagliati, relativi a ciascuna delle tre componenti. La tabella 4-24<br />

mostra infatti come l’Italia presenti una grado di regolamentazione superiore<br />

alla media dei paesi Ocse sia per quanto riguarda la normativa sui singoli rapporti<br />

di lavoro (permanenti o temporanei), sia per quanto concerne la disciplina<br />

dei licenziamenti collettivi. Va in ogni caso notato come, tra la fine degli anni<br />

Ottanta e quella degli anni Novanta, il grado di rigidità relativo ai lavoratori<br />

temporanei sia diminuito in Italia in modo rilevante (circa 2 punti in un<br />

range che va da 0 a 6) grazie alla maggiore flessibilità introdotta nel periodo 5 .<br />

Risulta invece invariata la maggiore rigidità della normativa sui licenziamenti<br />

individuali dei lavoratori permanenti (2,8 in entrambi i perio-<br />

Tab. 4-24 — Le istituzioni a protezione dei lavoratori nei paesi Ocse<br />

(Range 0 = bassa; 6 = alta)<br />

Paesi<br />

Regolamentazione Regolamentazione Regolamentazione Indice<br />

lavoratori lavoratori licenziamenti generale<br />

permanenti temporanei collettivi di Epl<br />

Fine Fine Fine Fine Fine Fine<br />

anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90 anni ’90 anni ’90<br />

Austria 2,6 2,6 1,8 1,8 3,3 2,3<br />

Belgio 1,5 1,5 4,6 2,8 4,1 2,5<br />

Canada 0,9 0,9 0,3 0,3 3,4 1,1<br />

Corea n.d. 3,2 n.d. 2,1 1,9 2,5<br />

Danimarca 1,6 1,6 2,6 0,9 3,1 1,5<br />

Finlandia 2,7 2,1 1,9 1,9 2,4 2,1<br />

Francia 2,3 2,3 3,1 3,6 2,1 2,8<br />

Germania 2,7 2,8 3,8 2,3 3,1 2,6<br />

Giappone 2,7 2,7 n.d. 2,1 1,5 2,3<br />

Grecia 2,5 2,4 4,8 4,8 3,3 3,5<br />

Irlanda 1,6 1,6 0,3 0,3 2,1 1,1<br />

Italia 2,8 2,8 5,4 3,8 4,1 3,4<br />

Norvegia 2,4 2,4 3,5 2,8 2,8 2,6<br />

Olanda 3,1 3,1 2,4 1,2 2,8 2,2<br />

Portogallo 4,8 4,3 3,4 3,0 3,6 3,7<br />

Regno Unito 0,8 0,8 0,3 0,3 2,9 0,9<br />

Spagna 3,9 2,6 3,5 3,5 3,1 3,1<br />

Stati Uniti 0,2 0,2 0,3 0,3 2,9 0,7<br />

Svezia 2,8 2,8 4,1 1,6 4,5 2,6<br />

Fonte: Oecd, Employment Outlook 1999.<br />

5<br />

E tale riduzione dovrebbe proseguire anche nel prossimo futuro grazie alla recenti modifiche<br />

della normativa sui contratti a termine introdotta nello scorso mese di agosto in recepimento<br />

della direttiva Ue in materia.<br />

153


di considerati, preceduti solamente da Portogallo, Corea e Olanda). A questo<br />

riguardo, l’indicatore Ocse prende in considerazione separatamente tre<br />

aree principali di regolamentazione: i) il tipo di procedura burocratica necessaria<br />

per avviare il licenziamento individuale (si va dalla richiesta di un<br />

atto scritto motivato fino all’obbligo di coinvolgimento di un’autorità competente);<br />

ii) l’esistenza di un obbligo di preavviso e di buona uscita e il relativo<br />

ammontare; iii) le regole da seguire nel caso di licenziamento senza<br />

giusta causa. La normativa italiana risulta tra le più rigide per la maggior<br />

parte di questi aspetti (tab. 4-25), e soprattutto con riferimento alla normativa<br />

sul licenziamento ingiustificato.<br />

La disciplina La tutela del lavoratore ingiustamente licenziato è prevista in tutti gli<br />

dei licenziamenti ordinamenti giuridici dell’Unione europea, così come in Giappone e, in alindividuali<br />

cune ipotesi molto particolari, negli Stati Uniti 6 . L’esistenza di un motivo<br />

senza<br />

giusta causa<br />

per procedere al licenziamento è infatti ritenuta necessaria in tutti i pae-<br />

si considerati, con qualche eccezione in alcune fattispecie specifiche (solitamente<br />

i lavoratori nel periodo di prova). Limitando il confronto ai principali<br />

paesi europei, tutti gli ordinamenti vietano e considerano nullo innanzitutto<br />

ogni forma di licenziamento c.d. discriminatorio (sesso, razza, re-<br />

Tab. 4-25 — La rigidità della normativa sui licenziamenti individuali nell’area Ocse<br />

(Range 0 = bassa; 6 = alta)<br />

Paesi<br />

Inconvenienti Preavviso e Licenziamento<br />

burocratici buona uscita ingiustificato<br />

Indice generale<br />

licenziamenti<br />

individuali<br />

Fine Fine Fine Fine Fine Fine Fine Fine<br />

anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90 anni ’80 anni ’90<br />

Portogallo 4,0 3,5 5,0 5,0 5,5 4,5 4,8 4,3<br />

Norvegia 1,5 1,5 1,1 1,1 4,5 4,5 2,4 2,4<br />

Giappone 2,0 2,0 1,8 1,8 4,3 4,3 2,7 2,7<br />

Corea n.d. 3,8 n.d. 1,8 n.d 4,0 n.d 3,2<br />

Italia 1,5 1,5 2,9 2,9 4,0 4,0 2,8 2,8<br />

Svezia 3,0 3,0 1,7 1,6 3,8 3,8 2,8 2,8<br />

Germania 3,5 3,5 1,0 1,3 3,5 3,5 2,7 2,8<br />

Olanda 5,5 5,0 1,0 1,0 2,8 3,3 3,1 3,1<br />

Austria 2,5 2,5 2,0 2,0 3,3 3,3 2,6 2,6<br />

Spagna 4,8 2,0 3,1 2,6 3,8 3,3 3,9 2,6<br />

Francia 2,5 2,8 1,5 1,5 2,8 2,8 2,3 2,3<br />

Finlandia 4,8 2,8 1,9 1,4 1,5 2,3 2,7 2,1<br />

Danimarca 0,5 0,5 2,0 1,9 2,3 2,3 1,6 1,6<br />

Irlanda 2,0 2,0 0,8 0,8 2,0 2,0 1,6 1,6<br />

Canada 0,0 0,0 0,8 0,8 2,0 2,0 0,9 0,9<br />

Belgio 0,5 0,5 2,3 2,3 1,8 1,8 1,5 1,5<br />

Stati Uniti 0,0 0,0 0,0 0,0 0,5 0,5 0,2 0,2<br />

Regno Unito 1,0 1,0 1,1 1,1 0,3 0,3 0,8 0,8<br />

Fonte: Oecd, Employment Outlook 1999.<br />

6<br />

Negli Stati Uniti il licenziamento senza un particolare motivo è in linea generale ammissibile;<br />

nella pratica, tuttavia, questo principio viene attenuato dalla contrattazione collettiva,<br />

da leggi speciali per il pubblico impiego e dalla disciplina antidiscriminatoria (Equal Employment<br />

Opportunity principles).<br />

154


ligione, maternità, come pure lo svolgimento di attività sindacale). Al di fuori<br />

di questa ipotesi particolare, il riconoscimento della insussistenza di una<br />

causa «giusta» ai fini del licenziamento varia da paese a paese. Come illustra<br />

la tab. 4-26, si va da situazioni in cui l’incapacità del lavoratore o l’eccedenza<br />

di manodopera rappresentano una condizione sufficiente per giustificare<br />

il licenziamento, fino ai casi estremi in cui la capacità del lavora-<br />

Tab. 4-26 — La disciplina dei licenziamenti individuali senza giusta causa<br />

Paesi Cause di giustificazione Regime sanzionatorio<br />

Austria<br />

Danimarca<br />

Francia<br />

Germania<br />

Irlanda<br />

Italia<br />

Scarsa efficacia e competenza del lavoratore<br />

ma non in presenza di licenziamento<br />

socialmente ingiustificato (ovvero non deve<br />

colpire il lavoratore in modo comparativamente<br />

più sfavorevole rispetto agli altri<br />

lavoratori dell’azienda).<br />

Esigenze operative dell’impresa.<br />

Assenza di competenza del lavoratore. Eccedenza<br />

di manodopera.<br />

Inadempimento o incompetenza del lavoratore.<br />

Motivi economici legati all’organizzaznione<br />

del lavoro e altre esigenze d’impresa.<br />

Nell’ipotesi di eccedenza di manodopera,<br />

il datore di lavoro è tenuto a prendere<br />

in considerazione ipotesi alternative,<br />

offrire un programma di aggiornamento<br />

professionale, considerarli con priorità nel<br />

caso di nuove assunzioni.<br />

Incapacità o inidoneità fisica del lavoratore.<br />

Comportamenti scorretti sul lavoro.<br />

Motivi economici.<br />

Incompetenza e incapacità del lavoratore.<br />

Eccedenza di manodopera.<br />

Giusta causa ex art. 2119 cod. civile: in tutte<br />

le ipotesi in cui si verifica una causa che<br />

non consente la prosecuzione del rapporto.<br />

Giustificato motivo soggettivo ex art. 3 l.<br />

604/1996: notevole inadempimento del lavoratore,<br />

con obbligo di preavviso. Giustificato<br />

motivo oggettivo: ragioni tecniche,<br />

organizzative e della produzione, con obbligo<br />

di preavviso.<br />

In caso di licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro<br />

si considera come non interrotto e il lavoratore<br />

ha diritto alle retribuzioni arretrate (non è quindi necessario<br />

ordinare la reintegrazione). Nella pratica tuttavia<br />

tale opzione viene raramente scelta dal lavoratore<br />

che ha sempre la possibilità di ricevere in alternativa<br />

una indennità compensativa.<br />

Un ordine di reintegro è teoricamente possibile ma raro<br />

nella pratica. La possibilità è comunque esclusa in tutti<br />

i casi in cui venga dimostrata l’impossibilità per il datore<br />

di lavoro e il lavoratore di proseguire nella collaborazione.<br />

Il lavoratore ingiustamente licenziato riceve normalmente<br />

una somma a titolo di risarcimento che può<br />

arrivare fino ad un anno di retribuzione. Il pagamento<br />

della buona uscita avviene solo sotto certe ipotesi.<br />

La pronuncia di illegittimità del licenziamento può comportare<br />

da parte del giudice un ordine di reintegrazione<br />

del lavoratore nel posto di lavoro. Tuttavia il datore<br />

di lavoro può rifiutarsi di dar corso alla reintegrazione<br />

corrispondendo in via sostitutiva una indennità<br />

risarcitoria che va da un minimo di sei mesi fino ad un<br />

massimo di due anni. Per i lavoratori con meno di due<br />

anni di anzianità in imprese con meno di 11 dipendenti,<br />

il risarcimento avviene sulla base delle perdite effettivamente<br />

subite e senza un minimo stabilito.<br />

In caso di licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro<br />

si considera come non interrotto e il lavoratore<br />

ha diritto alle retribuzioni arretrate (non è quindi necessario<br />

ordinare la reintegrazione). Ciascuna delle<br />

parti può però chiedere la risoluzione del rapporto per<br />

inutilità della continuazione, attraverso il pagamento<br />

di una indennità — cumulativa della retribuzione —<br />

che può raggiungere al massimo 18 mensilità.<br />

L’autorità giudicante può stabilire a sua discrezione la<br />

reintegrazione, la collocazione in altro posto di lavoro o<br />

il risarcimento del danno per il lavoratore (massimo ammontare<br />

dell’indennità: 104 settimane). Non è richiesto<br />

il consenso del datore di lavoro per la reintegrazione.<br />

Unità produttive con almeno 16 dipendenti (più di 5<br />

in agricoltura) e comunque tutte le imprese con più di<br />

60: se il giudice attesta la illegittimità del licenziamento<br />

il lavoratore può chiedere la reintegrazione nel<br />

posto di lavoro (a cui si aggiungono al massimo 5 mensilità)<br />

oppure optare per una indennità risarcitoria di<br />

15 mesi di retribuzione.<br />

Per le imprese non incluse nell’ipotesi precedente: il datore<br />

di lavoro può optare fra reintegrazione e pagamento<br />

di una indennità risarcitoria variabile fra i 2,5 e i 6 mesi<br />

in funzione dell’anzianità aziendale del lavoratore e<br />

della dimensione dell’impresa. Il risarcimento può però<br />

arrivare fino a 10 e 14 mensilità rispettivamente per i<br />

lavoratori con anzianità superiore a 10 e 20 anni.<br />

155


segue tab. 4-26<br />

Paesi Cause di giustificazione Regime sanzionatorio<br />

Olanda<br />

Portogallo<br />

Regno Unito<br />

Spagna<br />

Cattiva condotta o inidoneità del lavoratore.<br />

Eccedenza di manodopera: in questo caso<br />

l’impresa è tenuta a provare, attraverso<br />

i dati finanziari, di aver preventivamente<br />

considerato tutte le possibili alternative<br />

al licenziamento e deve inoltre spiegare<br />

il criterio sulla base del quale sono<br />

stati selezionati i lavoratori da licenziare.<br />

Motivi disciplinari e, solo a partire dalla fine<br />

degli anni ’80, anche ragioni economiche<br />

o per incapacità o incompetenza del lavoratore.<br />

Il licenziamento per eccedenza di<br />

manodopera è però condizionato alla sussistenza<br />

di necessità gravi, mentre quello<br />

per incompetenza del lavoratore è possibile<br />

solo successivamente all’introduzione di<br />

nuove tecnologie e a condizione che il datore<br />

di lavoro abbia approntato adeguati<br />

corsi di aggiornamento professionale.<br />

Motivi inerenti il comportamento del lavoratore.<br />

Mancanza di capacità o di qualificazione<br />

(titoli) del dipendente relativamente<br />

all’attività per cui è stato assunto. Impossibilità<br />

di continuare il lavoro senza contravvenire<br />

alla legge. Motivi economici. Ogni altra<br />

ragione «sostanziale». Sono necessari<br />

due anni di anzianità aziendale affinchè si<br />

possa parlare di licenziamento ingiusto.<br />

Motivi disciplinari: assenza ripetuta e ingiustificata;<br />

violazione obblighi disciplina;<br />

offese; violazione buona fede; scarso rendimento.<br />

Motivi oggettivi: impossibilità sopravvenuta;<br />

inidoneità rispetto alla riorganizzazione<br />

aziendale; soppressione posto di lavoro;<br />

assenza prolungata.<br />

La risoluzione del contratto deve essere preventivamente<br />

autorizzata dall’autorità amministrativa competente.<br />

Si sta tuttavia recentemente assistendo a una<br />

progressiva erosione di tale procedura. Qualora invochi<br />

ragioni particolarmente gravi, l’imprenditore può infatti<br />

procedere al licenziamento anche senza attendere la<br />

prescritta autorizzazione e i più recenti orientamenti<br />

guirisprudenziali riconoscono alla parte datoriale la<br />

possibilità di liberarsi dal vincolo contrattuale corrispondendo<br />

semplicemente un’indennità risarcitoria.<br />

Il lavoratore può richiedere la reintegrazione nel posto<br />

di lavoro e ha diritto alla restituzione delle retribuzioni<br />

arretrate a partire dalla data di licenziamento.<br />

In via sostitutiva il lavoratore può tuttavia sempre<br />

optare per una indennità risarcitoria pari ad un mese<br />

di retribuzione di base per ogni anno di servizio,<br />

che non può però ma essere inferiore a 3 mensilità.<br />

Il tribunale può ordinare la reintegrazione, la riassunzione<br />

(in un impiego paragonabile) del lavoratore<br />

o una indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non è<br />

però obbligato ad accettare la reintegrazione. Esistono<br />

tre opzioni risarcitorie: i) basic award (fino a GBP<br />

6300), ii) compensatory award (fino a GBP 12000), iii)<br />

special award. In ogni caso il lavoratore ha diritto alle<br />

retribuzione arretrate.<br />

Dal 1997 il sistema spagnolo consente la quantificazione<br />

anticipata del costo del licenziamento illegittimo come<br />

strumento per incentivare i rapporti a tempo indeterninato.<br />

Il lavoratore ha diritto di richiedere la reintegrazione<br />

nel posto di lavoro, ma il datore di lavoro può<br />

opporre un rifiuto motivato corrispondendogli un’indennità<br />

pari a 45 giornate lavorative per ogni anno di anzianità<br />

(fino alla concorrenza di 42 mensilità), più gli arretrati.<br />

Per quanto riguarda i danni lamentati per mancata<br />

(o irregolare) reintegrazione, può essere determinata<br />

un’ulteriore indennità fino ad un massimo di 15 giorni<br />

per anno di lavoro, senza superare le 12 mensilità.<br />

Fonte: Oecd, Employment Outlook 1999; European commission, Termination of employment relationships, 1997.<br />

tore non può mai costituire motivo di licenziamento. In questo ambito l’Italia<br />

si colloca fra i paesi meno restrittivi, mentre all’interno dell’Unione<br />

europea requisiti più stringenti si ravvisano in Germania, Spagna e Portogallo.<br />

Nel confronto europeo, la maggiore rigidità della regolamentazione italiana<br />

in materia di licenziamento ingiustificato appare invece con riferimento<br />

al regime sanzionatorio. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970)<br />

stabilisce, per le imprese al di sopra di una certa soglia dimensionale 7 ,che,<br />

con la sentenza di illegittimità del licenziamento, il giudice ordini al datore<br />

7<br />

Si tratta delle unità produttive con più di 15 dipendenti (più di 5 per le imprese agricole),<br />

ovvero dei datori di lavoro (imprenditori o meno) con più di 15 dipendenti nell’ambito<br />

dello stesso Comune, ovvero ancora dei datori di lavoro che occupano complessivamente più<br />

di 60 dipendenti a prescindere dall’ubicazione.<br />

156


di lavoro interessato di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e di corrispondergli<br />

le retribuzioni arretrate non percepite. L’opzione della reintegrazione<br />

può essere sostituita dal pagamento di una indennità pari a 15 mensilità<br />

ma solo su richiesta del lavoratore.<br />

La possibilità di reintegrazione (o istituti analoghi) è prevista, almeno<br />

in via di principio, anche nella maggior parte degli altri paesi europei<br />

ma, a differenza del caso italiano, il datore di lavoro ha quasi sempre<br />

la facoltà di opporsi al reinserimento del lavoratore nel proprio organico<br />

per l’impossibilità della continuazione del rapporto. È il caso ad esempio<br />

della Germania in cui, nell’ipotesi di licenziamento ingiustificato, la<br />

tutela reale è in linea di principio garantita dal fatto che il rapporto di<br />

lavoro si considera come non interrotto e il lavoratore ha diritto a tutte<br />

le retribuzioni arretrate. Tuttavia, qualora non vi sia più interesse alla<br />

prosecuzione del rapporto di collaborazione sia il datore che il lavoratore<br />

possono optare per una indennità sostitutiva pari a 18 mensilità. Analogamente<br />

in Francia il giudice può stabilire la reintegrazione, ma entrambe<br />

le parti in causa possono rifiutarla. Gli unici paesi che, al pari dell’Italia,<br />

legano la possibilità del reintegro alla sola volontà del lavoratore sono<br />

l’Austria e il Portogallo.<br />

I LAVORATORI NON COPERTI DALL’ARTICOLO 18<br />

DELLO STATUTO DEI LAVORATORI<br />

Le classifiche dell’Ocse posizionano l’Italia tra i paesi più rigidi in materia di regolamentazione<br />

del mercato del lavoro. Nel contempo, l’Italia si caratterizza tradizionalmente nel confronto<br />

europeo per la forte incidenza dell’occupazione autonoma (circa il 27% dell’occupazione totale rispetto<br />

ad una media europea del 14%) e del lavoro nero (circa il 15% secondo le ultime stime dell’Istat)<br />

e per la prevalenza delle imprese di piccola dimensione. Tutti questi fenomeni possono essere,<br />

almeno in parte, interpretati come una risposta alla eccessiva rigidità del mercato del lavoro.<br />

Le normative a cui si fa normalmente riferimento per misurare il grado di rigidità dei rapporti<br />

di lavoro riguardano in modo pressochè esclusivo i lavoratori dipendenti a carattere permanente,<br />

occupati nelle imprese con più di 15 dipendenti; i c.d. insiders.<br />

Nella tavola seguente si è cercato di quantificare il fenomeno dell’occupazione non coperta dalle<br />

tutele dello Statuto dei lavoratori. In particolare si è cercato di individuare quella parte di occupazione<br />

che per legge (i dipendenti delle imprese fino a 15 dipendenti, i lavoratori temporanei<br />

così come i lavoratori delle associazioni di rappresentanza di interessi) o per natura intrinseca (i<br />

lavoratori autonomi e quelli irregolari) non rientra nell’area di applicazione dell’articolo 18.<br />

L’individuazione delle varie categorie non coperte da questa particolare norma richiede tuttavia<br />

la combinazione di informazioni non sempre omogenee in quanto desunte da basi statistiche<br />

differenti. In particolare è stato necessario ricorrere a tre fonti principali di dati: la contabilità nazionale<br />

che rappresenta l’unica base informativa per quantificare il peso dei lavoratori irregolari;<br />

l’indagine sulle forze di lavoro per calcolare il numero di occupati con contratto a termine; il censimento<br />

industria e servizi per individuare il numero di lavoratori nelle imprese con meno di 16<br />

dipendenti. L’eterogeneità delle fonti utilizzate comporta naturalmente un certo grado di cautela<br />

nel confronto dei vari aggregati. In primo luogo, la definizione di occupati della contabilità nazionale<br />

è diversa da quella adottata nelle forze di lavoro: mentre queste ultime rilevano esclusivamente<br />

la popolazione residente, la contabilità nazionale utilizza una definizione di occupati più ampia<br />

(c.d. occupati interni) che include tutte le persone, dipendenti ed indipendenti, che esercitano<br />

un’attività produttiva sul territorio nazionale a prescindere dalla propria residenza, inclusi i lavoratori<br />

in Cassa integrazione 8 . Ciò si traduce in un forte divario fra gli occupati (residenti) misurati<br />

dall’indagine sulle forze di lavoro (circa 21,5 milioni di lavoro nel 2001) e quelli stimati dalla<br />

contabilità nazionale (circa 23,5 milioni).<br />

8<br />

A differenza dell’indagine sulle forze di lavoro, l’occupazione di contabilità nazionale include anche gli<br />

occupati dimoranti in convivenze e i militari di leva.<br />

157


In secondo luogo, l’occupazione di contabilità nazionale viene misurata sia in termini di persone<br />

occupate che con riferimento alle c.d. unità di lavoro standard. Queste ultime sono ottenute<br />

attraverso la somma delle posizioni lavorative a tempo pieno e di quelle a tempo parziale (principali<br />

o secondarie) trasformate a tempo pieno e registrano di conseguenza anche i doppi lavori. Come<br />

si evince dalla tavola 1, per quasi tutti gli aggregati selezionati la differenza fra persone occupate<br />

e unità di lavoro non appare in genere molto rilevante; l’unica eccezione è rappresentata<br />

dall’occupazione autonoma regolare, per la quale le unità di lavoro risultano molto superiori (circa<br />

un milione di unità aggiuntive) al corrispondente numero di persone occupate. Questa evidenza<br />

suggerisce una forte presenza dei secondi lavori: ipotizzando che ciascun secondo lavoro prenda<br />

la forma di un’occupazione a tempo parziale, il milione di unità di lavoro in più si tradurrebbe<br />

in due milioni circa di lavoratori con una seconda occupazione di tipo autonomo.<br />

Tutti questi elementi di differenziazione di ordine metodologico vanno tenuti presenti nell’esame<br />

della tavola 1; i dati mostrano ad ogni modo con chiarezza che gli occupati al di fuori dell’area<br />

di protezione dello Statuto dei lavoratori rappresentano più della metà dei lavoratori complessivi.<br />

Si tratta di quasi 13,5 (14,5 in termini di unità di lavoro) milioni di persone su poco più<br />

di 23 milioni di occupati totali. Di questi: 5,5 milioni hanno un’occupazione autonoma regolare, 3,4<br />

milioni sono irregolari, quasi 3 milioni lavorano nelle imprese fino a 15 dipendenti, mentre circa<br />

1,5 milioni hanno un contratto a termine. L’area di protezione dell’art.18 riguarda quindi circa 9<br />

milioni di lavoratori, costituiti dai dipendenti pubblici e da quelli operanti nelle imprese oltre la<br />

soglia dei 15 dipendenti.<br />

Tab. 1 — Gli occupati non coperti dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori<br />

(Anno 2000)<br />

Unità di lavoro<br />

Persone occupate<br />

1) Occupati totali 23.494.600 23.129.200<br />

Non coperti dall’articolo 18:<br />

2) Lavoratori irregolari 3.538.000 3.404.270<br />

Dipendenti 2.960.000 2.830.000<br />

Indipendenti 578.000 574.270<br />

3) Lavoratori autonomi regolari 6.470.000 5.470.630<br />

4) Dipendenti delle imprese fino a 15 dipendenti (a) 2.900.000<br />

5) Lavoratori a termine (a) 1.530.000<br />

6) Altri (b) 45.400<br />

7) Totale (=2+3+4+5+6) 14.483.400 13.350.300<br />

8) In % occupazione totale (=7:1*100) 62% 58%<br />

9) Dipendenti Amministrazioni pubbliche (c) 3.536.800<br />

10) Dipendenti delle imprese > 15 dipendenti (a) 5.474.400<br />

(a) Non essendo disponibili le unità di lavoro, i dati si riferiscono solamente alle persone occupate.<br />

(b) Dipendenti di partiti politici, associazioni sindacali e di rappresentanza di interessi<br />

(c) Dati espressi solo in unità di lavoro. Sono inclusi i militari di leva.<br />

Fonte: Istat, Conti nazionali; Istat, Indagine forze di lavoro; Istat, Censimento intermedio industria e servizi<br />

1996; Istat, Indagine sul no-profit.<br />

Il trattamento di Nel confronto europeo, il sistema italiano di ammortizzatori sociali si<br />

disoccupazione caratterizza per la scarsa generosità e durata dei trattamenti mediamente<br />

in Italia previsti contro il rischio di disoccupazione. Secondo gli ultimi dati diffusi<br />

e nei principali da Eurostat, nel 1999 le prestazioni a protezione dei disoccupati ammonpaesi<br />

europei tavano in Italia allo 0,5% del Pil, rispetto ad una media europea dell’1,8%<br />

(2% nell’area euro) con l’Irlanda all’1,6, Francia e Germania rispettivamente<br />

158


al 2,1 e al 2,5, la Danimarca al 3,2% 9 . Al pari della maggior parte dei paesi<br />

europei, l’Italia possiede innanzitutto uno schema generale di base (l’Indennità<br />

di disoccupazione ordinaria con requisiti pieni), disponibile per tutti<br />

i lavoratori dipendenti che, avendo maturato una certa anzianità lavorativa<br />

e contributiva 10 , perdono involontariamente 11 il proprio posto di lavoro.<br />

Il meccanismo è sostanzialmente simile tra i diversi paesi, mentre forti<br />

discrepanze si registrano con riferimento all’ammontare concesso e alla<br />

durata del trattamento 12 . In Italia l’indennità ordinaria prevede la corresponsione<br />

del 40% dell’ultima retribuzione, per un periodo non superiore a<br />

180 giorni. Negli altri paesi europei (tab. 4-27 per i dettagli) l’entità e la<br />

durata del sussidio di disoccupazione sono mediamente superiori a quelle<br />

italiane e, soprattutto, tendono a differenziarsi sensibilmente in funzione<br />

dell’età e dell’anzianità contributiva del beneficiario. In quasi tutti i paesi<br />

considerati l’indennità ordinaria di disoccupazione viene finanziata attraverso<br />

un sistema contributivo a cui concorrono solitamente sia il lavoratore<br />

che il datore di lavoro (cfr. tab. 4-27 per le aliquote applicate da ciascun<br />

paese). In Italia l’indennità ordinaria viene finanziata esclusivamente con<br />

i contributi del datore di lavoro (1,61% del monte retributivo).<br />

Nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa nel settore<br />

industriale, trova inoltre applicazione la Cassa integrazione guadagni (ordinaria<br />

e straordinaria) che, a differenza del trattamento ordinario di disoccupazione,<br />

punta a prevenire la perdita del posto di lavoro attraverso l’integrazione<br />

del reddito dei lavoratori nei periodi congiunturali sfavorevoli (Cig<br />

ordinaria) o durante le fasi di ristrutturazione aziendale (Cig straordinaria).<br />

Questi due strumenti hanno generalmente incontrato il favore delle imprese<br />

13 ed hanno consentito di superare i processi di ristrutturazione degli anni<br />

Ottanta. I lavoratori che beneficiano del trattamento di Cassa integrazione<br />

restano formalmente occupati nell’impresa che ne ha ridotto o sospeso<br />

l’attività, sulla base del presupposto che nel frattempo vengano a ricrearsi<br />

le condizioni per il ripristino della prestazione lavorativa ordinaria. La gestione<br />

ordinaria della Cig è finanziata esclusivamente dai datori di lavoro<br />

con aliquote di contribuzione che si differenziano sulla base della dimensione<br />

aziendale: le imprese fino a 50 dipendenti versano un contributo dell’1,9%<br />

del proprio monte retributivo, mentre quelle di dimensione maggiore contribuiscono<br />

con il 2,2%. Il finanziamento della Cig straordinaria avviene invece<br />

con il contributo sia delle imprese (0,6%) che dei lavoratori (0,3%). Tenendo<br />

conto anche dei versamenti dovuti per il trattamento ordinario di disoccupazione<br />

(1,61%), l’aliquota contributiva complessiva a carico delle imprese<br />

di medio-grande dimensione è pari quindi al 4,41% 14 .<br />

9<br />

Cfr. Eurostat, Social protection; Expenditure and Receipts 1980-1999, Luxembourg,<br />

2001.<br />

10<br />

Per una panoramica dettagliata sul funzionamento dell’indennità di disoccupazione in<br />

Italia e nei principali paesi europei si veda la tab. 4-27.<br />

11<br />

L’esclusione dal trattamento di disoccupazione per i lavoratori che si dimettono volontariamente<br />

è stata introdotta in realtà solamente a partire dalla finanziaria del 2000.<br />

12<br />

Va inoltre ricordato che in molti paesi europei, il sussidio ordinario di disoccupazione<br />

(normalmente di tipo assicurativo) è accompagnato da un ulteriore strumento di assistenza ai<br />

disoccupati (finanziato dalla fiscalità generale) previsto per coloro che hanno superato il periodo<br />

massimo di corresponsione del sussidio ordinario e si trovano in condizioni di necessità.<br />

13<br />

La Cig straordinaria è stata estesa anche alle imprese commerciali con più di 50 dipendenti.<br />

14<br />

Per le imprese che si avvalgono effettivamente della Cig, è previsto inoltre un contributo<br />

addizionale pari all’8% (4% nelle imprese fino a 50 dipendenti) dell’integrazione salariale<br />

erogata nel caso di Cig ordinaria, e al 4,5% (3% nelle imprese fino a 50 dipendenti) nel caso<br />

di Cig straordinaria.<br />

159


Tab. 4-27 — Il trattamento di disoccupazione ordinaria nei principali paesi europei<br />

Paesi Copertura Finanziamento Condizioni di eligibilità Ammontare Durata<br />

Austria<br />

Danimarca<br />

Francia<br />

Germania<br />

Irlanda<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti<br />

Assicurato: 3%<br />

retribuzione.<br />

retribuiti, gli Datore di lavoro:<br />

apprendisti e i<br />

3% monte<br />

partecipanti a retributivo.<br />

corsi di riqualificazione.<br />

Governo: qua-<br />

Sono lunque deficit e<br />

esclusi i dipendenti<br />

pubblici.<br />

L’assicurazione<br />

non è però<br />

obbligatoria se<br />

si guadagnano<br />

meno di 289 euro<br />

al mese.<br />

assistenza<br />

emergenza.<br />

di<br />

Lavoratori dipendenti<br />

e autonomi,<br />

partecipanti<br />

a corsi<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti,<br />

inclusi gli<br />

apprendisti.<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti<br />

e gli apprendisti<br />

di almeno 16<br />

anni di età, fatta<br />

eccezione<br />

per i funzionari<br />

pubblici assunti<br />

prima del 6-<br />

4-1995 e le persone<br />

che guadagnano<br />

meno<br />

di 38 euro alla<br />

settimana.<br />

In linea di principio<br />

i sussidi<br />

sono pagati dallo<br />

Stato. Tuttavia<br />

i contributi<br />

degli assicurati<br />

di formazione<br />

da almeno 18<br />

mesi, reclute, (una aliquota<br />

membri del unica, fissata a<br />

Parlamento. cadenza annuale)<br />

e dei datori<br />

di lavoro coprono<br />

le spese<br />

statali, inclusi i<br />

prepensionamenti.<br />

Assicurato:<br />

2,10% per redditi<br />

mensili fino<br />

a 2.279 euro;<br />

2,60% per redditi<br />

fino a 9.116<br />

euro.<br />

Datore di lavoro:<br />

3,70% per<br />

entrambe le fasce<br />

di reddito.<br />

Assicurato:<br />

3,25%.<br />

Datore di lavoro:<br />

3,25%.<br />

Non esiste una<br />

aliquota specifica<br />

per l’indennità<br />

di disoccupazione,<br />

ma<br />

un’aliquota<br />

unica di contribuzione<br />

al sistema<br />

complessivo<br />

di protezione<br />

sociale.<br />

Contributi: 26 settimane di<br />

contribuzione negli ultimi<br />

12 mesi o, nel caso di prima<br />

richiesta, 52 settimane negli<br />

ultimi 24 mesi.<br />

Altri requisiti: registrazione<br />

all’ufficio di collocamento,<br />

disponibile al lavoro, stato<br />

di disoccupazione non dovuto<br />

a dimissioni, a cattiva<br />

condotta o al rifiuto di un offerta<br />

adeguata.<br />

Contributi: 52 settimane negli<br />

ultimi 3 anni.<br />

Altri requisiti: partecipazione<br />

al fondo disoccupazione<br />

da almeno 1 anno; essere disoccupati<br />

involontario; cercare<br />

attivamente lavoro;<br />

iscrizione collocamento; disponibilità<br />

al lavoro.<br />

Contributi: 4 mesi di assicurazione<br />

negli ultimi 8 mesi.<br />

Altri requisiti: disoccupato<br />

involontario e non stagionale;<br />

abile al lavoro e in cerca<br />

attivamente di un’occupazione;<br />

registrato al collocamento;<br />

< 60 anni (con alcune<br />

eccezioni).<br />

Contributi: almeno 12 mesi<br />

di contribuzione negli ultimi<br />

3 anni.<br />

Altri requisiti: essere sanza<br />

lavoro e alla ricerca di un’occupazione;<br />

essere registrato<br />

al collocamento come disoccupato.<br />

Contributi: 39 settimane.<br />

Altri requisiti: essere registrato<br />

come disoccupato; essere<br />

disponibili e abili al lavoro<br />

e ricercarlo attivamente.<br />

Tra il 40 e il 50% della<br />

retribuzione, a seconda<br />

del livello salariale.<br />

Sussidio minimo<br />

giornaliero: 4,25<br />

euro. Sussidio massimo<br />

giornaliero: 36 euro.<br />

90% retribuzione media<br />

degli ultimi 12 mesi,<br />

al di sotto di un<br />

massimale di 383 euro<br />

alla settimana. I<br />

giovani che hanno appena<br />

terminato corsi<br />

di formazione di almeno<br />

18 mesi o il servizio<br />

militare: fino al 314<br />

euro.<br />

40,4% del salario giornaliero<br />

+ 9,26 euro al<br />

giorno oppure il<br />

57,4% del salario giornaliero.<br />

Il tasso viene<br />

ridotto a cadenza quadrimestrale,<br />

ma viene<br />

comunque garantito<br />

un minimo di 16 euro<br />

al giorno (21 euro se ><br />

52 anni).<br />

Disoccupati con figli:<br />

67% retribuzione netta.<br />

Disoccupati senza figli:<br />

53% retribuzione<br />

netta.<br />

93 euro alla settimana.<br />

Dipende dal numero<br />

di contributi e dall’età,<br />

variando da un<br />

minimo di 20 ad un<br />

massimo di 52 settimane<br />

(209 se il disoccupato<br />

aderisce a speciali<br />

misure di formazione).<br />

La prima richiesta<br />

dura 1 anno; la seconda<br />

dura 3 anni ma obbliga<br />

il disoccupato a<br />

partecipare a varie<br />

misure di politica attiva.<br />

Per i disoccupati al<br />

di sotto dei 25 anni il<br />

sussidio è limitato a 6<br />

mesi la prima volta, a<br />

3,5 mesi la seconda.<br />

Si va da un minimo di<br />

4 mesi ad un massimo<br />

di 60, in funzione dell’età<br />

e dell’anzianità<br />

contributiva.<br />

Si va da un minimo di<br />

6 mesi ad un massimo<br />

di 32 in funzione dell’età<br />

e dell’anzianità<br />

contributiva.<br />

390 giorni. Se però il<br />

disoccupato ha 65 anni<br />

e ha pagato 156 settimane<br />

di contributi,<br />

riceve il sussidio fino<br />

al compimento dei 66<br />

anni (anno di pensionamento).<br />

160


Tab. 4-25 — La rigidità della normativa sui licenziamenti individuali nell’area Ocse<br />

(Range 0 = bassa; 6 = alta)<br />

Paesi Copertura Finanziamento Condizioni di eligibilità Ammontare Durata<br />

Italia<br />

Portogallo<br />

Regno Unito<br />

Spagna<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti<br />

non agricoli.<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti<br />

assicurati.<br />

Tutti i lavoratori<br />

dipendenti<br />

Lavoratori dipendenti<br />

nell’industria<br />

e nei<br />

servizi<br />

Assicurato:<br />

nessun contributo.<br />

Datore di lavoro:<br />

1,61%.<br />

Non esiste una<br />

aliquota specifica<br />

per l’indennità<br />

di disoccupazione,<br />

ma<br />

un’aliquota<br />

unica di contribuzione<br />

al sistema<br />

complessivo<br />

di protezione<br />

sociale.<br />

Non esiste una<br />

aliquota specifica<br />

per l’indennità<br />

di disoccupazione,<br />

ma<br />

un’aliquota<br />

unica di contribuzione<br />

al sistema<br />

complessivo<br />

di protezione<br />

sociale<br />

Assicurato:<br />

1,55%.<br />

Datore di lavoro:<br />

6%.<br />

Contributi: 2 anni di assicurazione<br />

e 52 settimane di<br />

contributi negli ultimi 2 anni.<br />

Altri requisiti: registrazione<br />

al collocamento.<br />

Contributi: almeno 540 giorni<br />

di lavoro retribuito nei 24<br />

mesi precedenti lo stato di<br />

disoccupazione.<br />

Altri requisiti: essere abile e<br />

disponibile al lavoro; essere<br />

registrato al collocamento;<br />

non essere titolare di pensione<br />

di invalidità o vecchiaia.<br />

Contributi: devono essere<br />

pagati in uno dei 2 anni fiscali<br />

precedenti la richiesta<br />

di indennità e per un ammontare<br />

pari ad almeno 25<br />

volte il minimo contributivo.<br />

Altri requisiti: disoccupazione<br />

involontaria; essere abile<br />

e disponibile al lavoro; essere<br />

attivamente alla ricerca<br />

di un lavoro; non aver lavorato<br />

per più di 16 ore settimanali;<br />

non essere uno studente<br />

full-time.<br />

Contributi: almeno 12 mesi<br />

nei 6 mesi precedenti lo stato<br />

legale di disoccupazione.<br />

Altri requisiti: disoccupazione<br />

involontaria; abilità e disponibilità<br />

al lavoro; disponibilità<br />

verso l’ufficio di collocamento;<br />

adesione ai sistemi<br />

di sicurezza sociale.<br />

40% ultima retribuzione<br />

al di sotto di un<br />

massimale di 745 (895<br />

euro) per i redditi inferiori<br />

(superiori) ai<br />

1611 euro.<br />

65% del salario di riferimento.<br />

18-24 anni: 65 euro a<br />

settimana. > 24 anni:<br />

82 euro.<br />

70% della retribuzione<br />

per i primi 180<br />

giorni e 60% successivamente<br />

180 giorni.<br />

Si va da un minimo di<br />

12 ad un massimo di<br />

30 mesi in funzione<br />

dell’età.<br />

182 giorni.<br />

Si va da un minimo di<br />

4 mesi ad un massimo<br />

di 2 anni a seconda<br />

dell’anzianità contributiva.<br />

Fonte: Missoc (Mutual Information System on Social Protection in the Eu Member States and the Eea).<br />

Nel caso di licenziamenti per riduzione del personale, cessazione di attività<br />

o estinzione del periodo di Cassa integrazione, i lavoratori dell’ industria<br />

(solo le imprese con almeno 16 dipendenti, fatta eccezione per quelle<br />

edili) e quelli appartenenti più in generale ad imprese commerciali con più<br />

di 200 dipendenti possono inoltre ricevere il Trattamento di mobilità (istituito<br />

nel 1991) che assicura agli aventi diritto un sussidio di entità doppia<br />

(80% dell’ultima retribuzione per il primo anno e 64% per il periodo successivo)<br />

rispetto all’indennità ordinaria con requisiti pieni (40%) e di durata molto<br />

più consistente (si può arrivare fino a quattro anni contro i nove mesi a<br />

cui, sotto speciali condizioni, può giungere l’indennità ordinaria) 15 . Trattamenti<br />

speciali esistono inoltre per gli operai agricoli ed edili.<br />

15<br />

L’introduzione della mobilità e la sua regolamentazione trovano però una giustificazione<br />

nella contestuale riforma dei licenziamenti collettivi.<br />

161


Va infine ricordata l’importante funzione di ammortizzatore sociale<br />

svolta dai prepensionamenti (che, insieme alla Cassa integrazione straordinaria,<br />

ha rappresentato lo strumento tipico con cui sono stato affrontate<br />

negli anni passati le eccedenze di manodopera) e dall’istituto del trattamento<br />

di fine rapporto. L’entità delle prestazioni e dei contributi per ciascuna<br />

delle politiche passive del lavoro è illustrata nella tab. 4-28; i dati si<br />

riferiscono al 2001.<br />

Il sistema italiano di tutela dei lavoratori contro il rischio della disoccupazione<br />

appare quindi molto frammentato, frutto di una stratificazione<br />

normativa in atto fin dal secondo dopoguerra. La protezione accordata non<br />

è infatti omogenea per tutti i lavoratori, differenziandosi al contrario per<br />

settore economico, dimensione d’impresa e situazione soggettiva del soggetto<br />

coinvolto (età, anzianità aziendale, qualifica professionale). L’insieme<br />

di istituti attualmente in vigore appare inoltre legato ad un assetto normativo<br />

del mercato del lavoro che, attraverso una normativa restrittiva dei<br />

licenziamenti, privilegia la protezione di coloro che, già avendo un’occupazione,<br />

rischiano di perderlo piuttosto di chi è fuori del mercato (giovani in<br />

cerca di prima occupazione o disoccupati di lungo periodo) e cerca di entrarvi,<br />

necessitando in questo caso di un mercato con molteplici opportunità<br />

d’ingresso e tempi brevi di ricerca. Si tratta infine di un complesso di<br />

regole incentrato sulla figura tradizionale del lavoratore stabile con contratto<br />

a tempo indeterminato che non prende in considerazione, se non marginalmente,<br />

le nuove forme di lavoro che sono andate diffondendosi a ritmi<br />

crescenti negli ultimi anni. Gli strumenti esistenti sono infatti accomunati<br />

dal fatto di restringere la concessione dei benefici solamente a coloro<br />

che sono stati occupati per un periodo non marginale di tempo (almeno due<br />

anni nel caso dell’indennità ordinaria con requisiti pieni) e hanno versato<br />

un certo numero di mesi di contribuzione 16 .<br />

Nel panorama europeo, le riforme introdotte nell’ultimo decennio in<br />

materia di ammortizzatori sociali hanno puntato innanzitutto a rendere più<br />

selettivi gli strumenti già esistenti di sostegno al reddito dei disoccupati<br />

attraverso criteri di eleggibilità più severi e meccanismi più forti di incentivazione<br />

del disoccupato a ricercare un nuovo lavoro. L’obiettivo è stato cercare<br />

di ridurre fortemente gli effetti disincentivanti sull’offerta di lavoro<br />

provocati spesso dall’esistenza di un sussidio. Parallelamente si è cercato<br />

di rendere più efficaci le politiche attive di sostegno alle persone in cerca<br />

di lavoro, sia migliorando il funzionamento degli uffici pubblici per l’impiego<br />

sia, soprattutto, attraverso programmi di formazione o riqualificazione<br />

professionale resi obbligatori per tutti i disoccupati (e opportunamente<br />

sanzionati in caso di inadempienza) 17 .<br />

Un esempio di successo a questo riguardo appare il caso danese. Oltre<br />

ad aver reso più selettivo il sistema di sussidi per i disoccupati e ad aver-<br />

16<br />

L’unica eccezione è rappresentata dall’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti,<br />

introdotta sul finire degli anni Ottanta proprio per garantire una qualche forma di sostegno<br />

anche a chi perde il proprio posto di lavoro ma non possiede ancora i requisiti «pieni» per<br />

la natura stagionale o comunque temporanea dell’occupazione precedentemente posseduta. In<br />

questo caso la concessione del trattamento è condizionata solamente all’aver avuto un’occupazione<br />

per un minimo di 78 giorni nell’anno precedente il licenziamento ma l’ammontare erogato<br />

è molto basso. I dati mostrano negli anni più recenti una tendenza all’aumento del ricorso<br />

a questa forma di sostegno al reddito, coerentemente con l’incremento avvenuto nelle<br />

forme di lavoro flessibile.<br />

17<br />

La promozione delle politiche attive nel mercato del lavoro costituisce d’altra parte<br />

uno dei pilastri fondamentali nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione per aumentare<br />

in modo consistente il tasso di occupazione nei paesi Ue.<br />

162


Tab. 4-28 — Politiche passive del lavoro: prestazioni e contributi per tipologia di trattamento<br />

2001<br />

(Valori assoluti in migliaia di euro)<br />

Spese complessive<br />

Entrate<br />

Trattamenti<br />

Copertura<br />

Prestazioni<br />

figurativa<br />

Contributi<br />

Saldo<br />

Cig ordinaria 260 145 2095 1690<br />

Cig straordinaria 344 189 764 231<br />

Cassa integrazione per i lavoratori agricoli (Cisoa) 9 0 27 18<br />

Indennità di mobilità 800 502 438 –864<br />

Indennità disoccupazione edile 116 60 62 –114<br />

Indennità disoccupazione non agricola requisiti<br />

pieni 666 628 2606 137<br />

Indennità disoccupazione non agricola requisiti<br />

ridotti 519 656<br />

Indennità disoccupazione agricola 1235 416 99 –1552<br />

Lavori socialmente utili 244 0 0 –244<br />

Prepensionamenti 791 35 0 –826<br />

Totale 4984 2631 6091 –1524<br />

Fonte: Ministero del lavoro, Rapporto di monitoraggio 2/2001.<br />

ne ridotto la durata complessiva, la Danimarca ha investito negli ultimi<br />

anni risorse crescenti nelle politiche attive del mercato del lavoro, soprattutto<br />

in direzione della formazione e riqualificazione delle persone in cerca<br />

di lavoro (circa il 50% delle politiche attive complessive; tab. 4-29). In<br />

Danimarca vige un sistema di c.d. lay-off nel mercato del lavoro, ovvero un<br />

meccanismo in base al quale le imprese possono sospendere temporaneamente<br />

l’attività di una parte del proprio organico nei periodi di congiuntura<br />

meno favorevole traslandone il costo corrispondente al sistema di ammortizzatori<br />

sociali. L’elevata flessibilità che in tal modo si ottiene sul mercato<br />

del lavoro viene però compensata da un sistema di tutela del lavora-<br />

Tab. 4-29 — Spesa per politiche del lavoro nei paesi Ue: anno 2000<br />

(In % del Pil)<br />

Paesi Spesa totale Spesa Spesa in politiche attive Tasso<br />

in politiche<br />

di<br />

passive di cui: formazione disoccupazione<br />

Austria 1,56 1,07 0,49 0,17 3,7<br />

Danimarca 4,51 2,96 1,54 0,84 4,4<br />

Finlandia 3,30 2,22 1,08 0,35 9,8<br />

Francia 3,12 1,76 1,36 0,28 9,3<br />

Germania 3,13 1,89 1,23 0,34 7,9<br />

Italia 1,45 0,63 0,64 0,05 10,6<br />

Olanda 3,65 2,08 1,57 0,30 2,8<br />

Regno Unito 0,94 0,58 0,37 0,05 5,4<br />

Spagna 2,32 1,34 0,98 0,29 14,0<br />

Svezia 2,72 1,34 1,38 0,31 5,9<br />

Fonte: Oecd, Employment Outlook, 2001; per l’Italia elaborazioni su dati Ministero del lavoro, Rapporto di monitoraggio<br />

2/2001. Eurostat per i tassi di disoccupazione.<br />

163


tore sospeso che non solo riceve un sostegno al reddito di entità rilevante<br />

ma, a differenza della Cassa integrazione italiana, viene inserito in programmi<br />

di job training 18 o in corsi di formazione e riqualificazione del personale.<br />

Si parla a questo proposito di flexicurity 19 e l’efficacia del sistema<br />

trova conferma in un tasso di occupazione che è tra i più alti in Europa<br />

(76%). Il sistema danese di protezione sociale è finanziato tuttavia da una<br />

pressione fiscale tra le più elevate in Europa e non è esente da problemi<br />

di squilibrio nell’utilizzo dei sussidi a livello settoriale (in particolare in<br />

agricoltura, nelle costruzioni e nel comparto alberghiero) 20 .<br />

Le prospettive di riforma del sistema italiano di ammortizzatori sociali<br />

devono quindi prendere in considerazione numerosi fattori. La maggiore<br />

flessibilità del mercato del lavoro richiede senza dubbio un trattamento di<br />

base contro la disoccupazione più ampio sia nell’entità che nella durata della<br />

prestazione, che assicuri un valido strumento di sostegno ad una platea<br />

più omogenea di beneficiari. Come è avvenuto negli altri paesi europei, l’erogazione<br />

dei sussidi deve però essere improntata a criteri di selettività che<br />

incentivino i disoccupati a rientrare nel minor tempo possibile nel mercato<br />

del lavoro anche attraverso attività di formazione che ne favoriscano il<br />

reinserimento lavorativo. L’estensione del sistema rende inoltre più acuto<br />

il problema di garantire una amministrazione efficiente delle maggiori risorse<br />

messe in campo per evitare sprechi e abusi. Una soluzione potrebbe<br />

essere affidare alle parti sociali interessate, su base settoriale, la gestione<br />

e il finanziamento delle prestazioni superiori a un dato livello minimo,<br />

creando così una contrapposizione di interessi che porti ad una amministrazione<br />

corretta delle risorse.<br />

4.5 Mercato del lavoro e lavoro autonomo in Italia<br />

In Italia, la struttura dell’occupazione è caratterizzata da un’elevata<br />

incidenza dell’occupazione indipendente o autonoma sul totale degli occupati.<br />

Specularmente, quindi, l’Italia è uno dei paesi con la più bassa quota<br />

di occupazione alle dipendenze. In Europa — escludendo paesi come Portogallo<br />

e Grecia, caratterizzati da un minor livello di sviluppo, nonché da<br />

una ancora estesa incidenza dell’occupazione nel settore agricolo 1 — la maggior<br />

parte dei paesi registra una quota di occupati autonomi mediamente<br />

intorno al 10% dell’occupazione totale; in Italia (fig. 4-8) tale quota supera<br />

il 24% (27% se misurata in termini di unità di lavoro standard). Si tratta<br />

peraltro di una costante storica. Anche quaranta anni fa l’Italia era, rispetto<br />

ai principali paesi Ocse, quello con la più bassa quota di lavoro dipendente<br />

(61% circa rispetto al 71% della Francia, il 77% della Germania e il 93%<br />

del Regno Unito; fig. 4-9).<br />

18<br />

Si tratta di una occupazione a tempo determinato nell’amministrazione statale o in<br />

un’impresa privata; in quest’ultimo caso il datore di lavoro riceve un sussidio a parziale copertura<br />

dei costi di assunzione. Il lavoratore percepisce una remunerazione, commisurata al<br />

settore di appartenenza nel caso di imprese private e pari al sussidio di disoccupazione nel<br />

caso di amministrazione pubblica.<br />

19<br />

Cfr. Auer - Cazes, Employment Stability in an Age of Flexibility, Ilo, Geneva, in corso<br />

di pubblicazione.<br />

20<br />

Si veda a questo proposito Auer (2000), Employment revival in Europe: Labour market<br />

success in Austria, Denmark, Ireland and the Netherlands, Ilo, Geneva.<br />

1<br />

Tradizionalmente l’agricoltura è un settore a elevata intensità di occupazione autonoma.<br />

164


Fig. 4-8 — Occupati indipendenti sul totale degli occupati<br />

Fonte: Ocse.<br />

Fig. 4-9 — Occupati dipendenti sul totale<br />

Fonte: Ocse.<br />

Nel corso degli anni Sessanta la quota di occupati dipendenti è<br />

sensibilmente cresciuta, e la differenza con gli altri paesi si è ridotta, so-<br />

prattutto per effetto della notevole diminuzione dell’occupazione nel setto-<br />

re agricolo, in gran parte realizzatasi in quegli anni. Tale tendenza si è poi<br />

sostanzialmente interrotta negli anni Settanta e il livello relativo dell’occupazione<br />

dipendente è rimasto molto inferiore a quello prevalente negli<br />

altri paesi industrializzati.<br />

Italia:<br />

un’elevata<br />

quota<br />

di lavoratori<br />

autonomi<br />

165


Caratteristiche<br />

La peculiarità del caso italiano risulta ancora più evidente considerando<br />

le quote del lavoro dipendente calcolate senza includere l’occupazione<br />

nell’agricoltura. Si conferma che l’Italia è un paese con una assai bassa<br />

quota relativa di occupati dipendenti e con una elevata incidenza dell’occupazione<br />

indipendente (fig. 4.10). È interessante il confronto con il Giappone,<br />

che all’inizio del periodo considerato aveva una struttura dell’occupazione<br />

assai simile alla nostra, ma in cui la tendenza alla riduzione della<br />

quota dell’occupazione autonoma non ha mai registrato cambiamenti. In<br />

notevole misura l’allargarsi della forbice tra Giappone e Italia è dipeso dalla<br />

diversa distribuzione settoriale dei lavoratori indipendenti: soprattutto<br />

nei settori extra agricoli in Italia, nell’agricoltura in Giappone.<br />

In Italia la quota di occupazione dipendente, semmai, è leggermente<br />

diminuita a partire dalla metà degli anni Settanta. In parte tale variazione<br />

è ancora dipesa da un mutamento della composizione dell’occupazione<br />

per settore di attività: in tale periodo l’occupazione nei servizi, settore (soprattutto<br />

in Italia) a elevata intensità di occupazione autonoma, è cresciuta<br />

assai più di quella degli altri settori. Inoltre, nell’ambito di alcuni settori,<br />

in particolare l’industria delle costruzioni, è cresciuta la quota di lavoratori<br />

indipendenti.<br />

Le rilevazioni delle forze di lavoro consentono anche di analizzare alcune<br />

caratteristiche socio-economiche di questo segmento dell’occupazione.<br />

Per quanto riguarda sesso e età non si rilevano difformità significative tra<br />

l’Italia e la media dei paesi europei. In generale, in tutti i paesi gli occupati<br />

indipendenti sono tendenzialmente maschi di età media e alta. Secondo<br />

vari autori 2 tale risultato confuterebbe l’ipotesi che la diffusione del lavoro<br />

autonomo riguardi prevalentemente i segmenti deboli e marginali del<br />

Fig. 4-10 — Quota dei dipendenti non agricoli nei principali paesi<br />

Fonte: Ocse.<br />

2<br />

Cfr. P. Barbieri, «Liberi di rischiare. Vecchi e nuovi lavoratori autonomi», Stato e Mercato,<br />

n. 2, 1999.<br />

166


mercato del lavoro, in prevalenza giovani e donne, esclusi dal mercato primario<br />

del lavoro garantito.<br />

Una prima differenza significativa sembra invece data dal livello di<br />

istruzione. La quota di lavoratori indipendenti con un titolo di studio inferiore<br />

o pari alla sola licenza media è 48,5% in Italia, contro valori assai più<br />

bassi in paesi come Germania, Regno Unito, Francia, Olanda (tab. 4-30).<br />

Tale quota è invece più alta in Spagna che in Italia; in Spagna, però la quota<br />

di lavoratori indipendenti con un titolo di studio equivalente alla laurea<br />

è più alta che in Italia. Soltanto il 13,8% degli occupati autonomi italiani<br />

possiede infatti un titolo di studio superiore.<br />

In tutti i paesi europei agricoltura, imprenditoria e artigianato sono<br />

professioni in cui naturalmente è massima la concentrazione di lavoratori<br />

indipendenti. Anche nella distribuzione per professione (tab. 4-31), tuttavia,<br />

si rileva la natura particolare che in Italia assume l’occupazione autonoma.<br />

In Italia infatti, risulta piuttosto elevata la quota sul totale dell’occupazione<br />

dei lavoratori indipendenti che svolgono attività di tipo libero<br />

professionale, tecnico-professionali, nel commercio e nei servizi. Relativamente<br />

elevata risulta anche la quota di professioni non qualificate svolte<br />

sotto forma di lavoro autonomo.<br />

Se si guarda alla distribuzione sul totale degli occupati indipendenti,<br />

in Italia l’occupazione autonoma si concentra, più che in altri paesi, nelle<br />

professioni connesse all’agricoltura, all’artigianato, al commercio e ai servizi.<br />

Tale distribuzione si definisce meglio se la si considera insieme a quella<br />

per branca di attività. La distribuzione settoriale del lavoro autonomo<br />

conferma che il settore dell’agricoltura è quello a maggiore intensità di occupati<br />

autonomi (tab. 4-32) e che tale caratteristica è comune a tutti i paesi<br />

qui considerati. Negli altri settori l’Italia presenta però notevoli differenze<br />

rispetto al resto dell’Europa. Oltre che in tradizionali settori come il<br />

commercio e i pubblici esercizi, in Italia la quota di occupazione indipen-<br />

Tab. 4-30 — Occupati indipendenti per classe di età, sesso e titolo di studio in Italia e in alcuni<br />

paesi europei - 2000<br />

(In % del totale degli occupati indipendenti)<br />

Classi età Danimarca Germania Spagna Francia Italia Olanda Finlandia Uk Ue-15<br />

15-24 1,5 1,6 3,7 1,4 3,2 4,3 1,8 3,5 2,8<br />

25-49 61,3 71,6 67,8 69,6 74,6 69,2 67,4 68,9 70,5<br />

50-59 37,2 26,8 28,5 29,1 22,2 26,5 30,8 27,6 26,6<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Sesso<br />

Maschi 77,9 72,1 72,9 73,6 75,5 67,7 69,7 73,1 72,7<br />

Femmine 22,1 27,9 27,1 26,4 24,5 32,3 30,3 26,9 27,3<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Titolo<br />

di studio<br />

Licenza<br />

media 17,3 8,9 63,4 24,4 48,5 23,7 28,2 12,0 33,5<br />

Diploma 57,9 44,9 16,5 47,8 37,8 45,9 47,3 51,2 38,0<br />

Laurea 24,9 46,2 20,1 27,8 13,8 30,4 24,5 27,5 24,3<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />

167


Tab. 4-31 — Occupati indipendenti per professione in Italia e in alcuni paesi europei - 2000<br />

Professione<br />

Dani- Ger-<br />

Fin-<br />

Spagna Francia Italia Olanda<br />

marca mania landia<br />

Uk<br />

Ue-15<br />

In % occupati totali della<br />

professione<br />

Legislatori, imprenditori 43,4 47,4 78,5 40,3 42,5 36,7 42,7 15,5 39,4<br />

Professioni intellettuali 9,7 17,8 12,8 13,3 25,9 11,7 6,5 13,8 15,5<br />

Prefessioni tecniche intermedie 2,7 7,7 10,4 4,4 23,2 7,2 5,9 15,1 10,5<br />

Impiegati 0,0 1,1 2,4 0,0 3,2 1,3 0,0 2,3 1,6<br />

Professioni del commercio e servizi 2,2 5,3 7,6 2,1 36,1 4,3 7,2 2,6 9,8<br />

Agricoltori 58,6 40,2 65,7 53,6 64,7 5,5 64,7 53,3 58,3<br />

Artigiani 9,7 9,1 18,9 16,2 29,4 11,4 10,6 23,6 17,5<br />

Operatori di impianti e macchinari 1,7 3,1 15,0 2,4 11,3 5,2 5,7 9,8 7,3<br />

Professioni non qualificate 0,9 1,3 2,6 0,0 15,1 2,4 1,7 8,2 4,8<br />

Totale 8,2 10,1 18,2 10,1 24,2 9,6 12,9 11,3 14,1<br />

In % totale indipendenti<br />

Legislatori, imprenditori 38,7 27,0 33,9 29,7 7,6 42,8 31,6 20,8 23,5<br />

Professioni intellettuali 15,3 22,6 8,1 13,8 11,1 18,7 9,5 19,6 14,1<br />

Prefessioni tecniche intermedie 6,8 15,6 5,5 7,5 15,8 12,1 7,2 11,7 11,1<br />

Impiegati 0,0 1,4 1,3 0,0 1,8 1,5 0,0 3,3 1,5<br />

Professioni del commercio e servizi 4,1 6,0 5,9 2,6 23,6 5,2 6,6 3,5 9,4<br />

Agricoltori 18,5 8,3 17,1 22,4 8,6 1,0 28,9 4,7 14,2<br />

Artigiani 13,1 15,7 17,5 21,4 21,6 10,3 10,5 24,2 18,6<br />

Operatori di impianti e macchinari 1,4 2,3 8,8 2,5 4,4 3,1 3,9 6,6 4,5<br />

Professioni non qualificate 1,4 1,1 2,0 0,0 5,5 2,0 1,0 5,6 3,0<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />

Tab. 4-32 — Occupati indipendenti per settore di attività, in Italia e in alcuni paesi europei<br />

- 2000<br />

Settore<br />

Dani- Ger-<br />

Fin-<br />

Spagna Francia Italia Olanda<br />

marca mania landia<br />

Uk<br />

Ue-15<br />

In % occupati totali del settore<br />

Agricoltura 45,5 32,6 49,0 53,8 47,3 45,0 62,6 43,9 51.3<br />

Industria 7,0 6,5 13,8 8,0 19,4 6,6 9,1 12,2 11.0<br />

Industria manifatturiera 4,1 4,4 11,1 4,6 14,7 4,1 6,2 4,7 7.3<br />

Costruzioni 15,4 12,9 19,6 18,7 35,5 13,4 19,0 31,2 21.7<br />

Servizi 6,7 11,0 17,0 8,3 24,8 8,9 9,8 10,4 13.0<br />

Commercio e riparazioni 9,5 13,1 28,8 14,0 43,9 10,3 16,0 11,1 20.6<br />

Alberghi e pubblici esercizi 10,3 21,2 25,3 20,7 32,7 11,5 12,8 9,7 21.2<br />

Trasporti e comunicazioni 5,5 7,8 21,3 4,4 17,0 5,8 12,6 11,1 10.6<br />

Credito e assicurazioni 0,0 9,7 6,0 3,7 13,3 3,7 3,2 6.8<br />

Servizi alle imprese 16,9 20,3 20,8 11,6 44,4 14,5 15,3 18,3 20.8<br />

Altri servizi 4,1 9,8 8,0 7,0 14,8 8,7 6,1 10,0 9.4<br />

Totale 8.2 10.1 18.2 10.1 24.2 9.6 12.9 11.3 14.1<br />

In % totale indipendenti<br />

Agricoltura 20,3 8,5 18,5 22,0 10,2 13,3 30,3 5,9 15,5<br />

Industria 21,6 21,6 23,3 20,8 25,4 12,9 19,7 27,2 22,5<br />

Industria manifatturiera 9,0 10,5 11,5 8,6 14,0 5,5 9,9 7,1 10,3<br />

Costruzioni 12,6 11,0 11,7 12,0 11,2 7,4 9,5 19,8 12,1<br />

Servizi 58,1 69,9 58,2 57,1 64,3 60,5 50,0 66,8 61,4<br />

Commercio e riparazioni 16,2 18,6 25,7 18,2 29,0 15,1 14,8 15,1 21,6<br />

Alberghi e pubblici esercizi 3,2 7,0 8,9 6,9 5,0 4,1 3,3 3,5 6,0<br />

Trasporti e comunicazioni 4,5 4,2 7,0 2,9 3,9 3,2 7,2 6,7 4,6<br />

Credito e assicurazioni 3,5 0,9 1,1 1,8 1,2 1,2 1,6<br />

Servizi alle imprese 18,9 16,1 8,0 10,7 13,0 16,5 11,8 17,9 12,8<br />

Altri servizi 14,4 20,4 7,7 17,1 11,4 19,9 12,5 22,0 14,6<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.<br />

168


dente sul totale degli occupati, rispetto agli altri paesi, è più alta nei servizi<br />

alle imprese (44%) nell’industria delle costruzioni (35,5%), nei servizi<br />

finanziari, nei trasporti, nell’industria manifatturiera.<br />

Un elemento caratterizzante della realtà italiana è inoltre rappresentato<br />

dalle collaborazioni coordinate e continuative, una modalità di lavoro<br />

che ha registrato una fortissima espansione negli ultimi anni e nel 2001<br />

riguardava circa 1,9 milioni di persone. Tale aggregato comprende figure<br />

diverse: dal giovane che collabora con un’unica impresa, di cui utilizza le<br />

strutture allo stesso modo dei dipendenti d’impresa, al professionista che<br />

serve una pluralità di clienti e adopera strutture proprie.<br />

Questa eterogeneità alimenta le vivaci polemiche sulla natura del lavoro<br />

parasubordinato: vi è chi vede nel rapporto di lavoro subordinato un<br />

rapporto di lavoro dipendente mascherato, al fine di ridurre le tutele a beneficio<br />

del lavoratore, e chi una particolare modalità del lavoro autonomo.<br />

Secondo il Censis 3 , queste caratteristiche e l’accentuarsi di alcune di<br />

esse possono anche essere interpretate come segnale di un cambiamento<br />

profondo della morfologia del lavoro, che riguarderebbe non solo i lavoratori<br />

indipendenti, ma anche i subordinati di fascia medio-alta. Dalla concezione<br />

del destino lavorativo come principalmente legato a sistemi collettivi<br />

sia per i contenuti del lavoro che per le tutele, si starebbe passando a<br />

una visione del lavoro come investimento personale, le cui dimensioni centrali<br />

sono autonomia, mobilità, responsabilità, relazioni, professionismo e<br />

competenze.<br />

Le competenze — definite come mix fra sapere, saper creare e saper progettare<br />

— diventano il principale fattore personale per l’accesso al mercato<br />

del lavoro e alle carriere. Si tratta di un processo che il Censis definisce individualizzazione<br />

del lavoro. Poiché i percorsi delle persone vengono determinati<br />

sulla base dele capacità di ciascuno di progettarli e di realizzarli, il<br />

lavoro dipendente diventa solo uno dei punti del percorso lavorativo, lungo il<br />

quale si alternano posizioni indipendenti e subordinate. Questo articolato universo<br />

del lavoro individuale, che come si è detto include anche alcuni strati<br />

di lavoro subordinato (dirigenti, collaboratori, professionisti subordinati, ecc.),<br />

rappresenterebbe oltre il 50% dell’occupazione italiana 4 .<br />

Più tradizionali sono invece le ipotesi avanzate dall’analisi economica<br />

per spiegare la diffusione del lavoro autonomo. Le argomentazioni più di-<br />

scusse sono: il cambiamento tecnologico che potrebbe aver favorito più le<br />

piccole imprese; l’aumento delle tasse sul reddito e le maggiori possibilità<br />

di elusione e di evasione degli obblighi fiscali offerti dall’occupazione indipendente;<br />

le rigidità salariali e la compressione dei differenziali salariale a<br />

sfavore dei lavoratori più qualificati, i più dotati di capitale umano e forse<br />

anche della motivazione a costituirsi come autoimprenditori; le normative<br />

sui prepensionamenti e il pensionamento di anzianità che hanno favorito i<br />

pensionamenti precoci e il passaggio da attività regolari di lavoro dipendente<br />

a attività in nero, avendo comunque la garanzia di una copertura assicurativa<br />

e reddituale di base.<br />

In generale, la maggior parte della letteratura economica vede nel ricorso<br />

al lavoro indipendente uno dei modi in cui un sistema economico può<br />

cercare di aggiustarsi a fronte di una eccessiva rigidità della regolamenta-<br />

Lavoro<br />

autonomo<br />

e flessibilità<br />

del mercato<br />

del lavoro<br />

3<br />

Censis, Gli italiani al lavoro: un’impresa individuale. Dossier, mimeo, Roma maggio<br />

2002.<br />

4<br />

Cfr. Censis, cit. pag. 7.<br />

169


zione economica, in particolare nel mercato del lavoro. La correlazione esistente<br />

tra i ranking dei paesi Ocse in base agli indicatori di rigidità del mercato<br />

del lavoro da un lato, e in base alla rispettiva quota di occupazione indipendente<br />

dall’altro sembra confermare tale ipotesi (fig. 4-11). Il lavoro dipendente<br />

raggiunge la massima incidenza proprio in quei paesi in cui la regolamentazione<br />

del mercato del lavoro e le protezioni del posto di lavoro sono<br />

meno stringenti (Stati Uniti e Nord Europa); il contrario si rileva nei paesi<br />

in cui ci sono maggiori protezioni per i lavoratori dipendenti (Spagna, Portogallo,<br />

Italia e Grecia), nei quali la percentuale di dipendenti sul totale degli<br />

occupati è, come si è visto, notevolmente inferiore (fig. 4-8).<br />

La maggior flessibilità del lavoro autonomo rispetto al lavoro dipendente<br />

va qualificata. Non vi è dubbio, ad esempio, che i guadagni degli indipendenti<br />

sono più direttamente collegati con gli andamenti del ciclo economico.<br />

Indagini campionarie e analisi statistiche mostrano però che gli indipendenti<br />

sarebbero meno disponibili dei dipendenti alla mobilità geografica<br />

e l’elemento di fisità sarebbe soprattutto costituito dalla rete di relazioni<br />

(con clienti, committenti ecc.) che molto spesso è un aspetto integrante<br />

di questo tipo di attività 5 .<br />

Il fatto che in molti paesi lo sviluppo del lavoro autonomo (e della pic-<br />

cola impresa; cfr. il par. 4.6) abbia costituito una via di uscita dai problemi<br />

posti da un eccessiva rigidità del mercato del lavoro non implica però, per<br />

tali paesi, un ulteriore crescita della quota di occupazione indipendente sarebbe<br />

un fatto di per sé positivo, una soluzione, ad esempio, per i problemi<br />

di basso potenziale di crescita in cui alcuni di essi, come l’Italia, si dibattono.<br />

In realtà, poco si sa sulla relazione tra occupazione autonoma e crescita<br />

economica aggregata.<br />

Lavoro<br />

autonomo e<br />

crescita<br />

economica<br />

Fig. 4-11 — Rigidità del mercato del lavoro e quota occupati indipendenti<br />

non agricoli 1998<br />

Fonte: Ocse.<br />

5<br />

Cfr. Cfr. D. Blanchflower, Self -Employment in Oecd Countries, Nber Working Paper<br />

Series, n. 7486, maggio 2000.<br />

170


Esaminando la correlazione tra la variazione della quota di occupazione<br />

indipendente e la crescita del Pil reale in 23 paesi Ocse (tra cui l’Italia)<br />

nel periodo 1966-96, Blanchflower 6 trova che aumenti di tale quota<br />

sono correlati a minori e non a più alti tassi di crescita del Pil. Questo risultato<br />

non esclude la possibilità che la relazione causale possa in realtà<br />

essere dalla crescita al tasso di occupazione autonoma. In altri termini, potrebbero<br />

essere le minori potenzialità di crescita (spiegate da altri fattori)<br />

a determinare la diminuzione relativa dell’occupazione dipendente e quindi<br />

la crescita dell’occupazione autonoma.<br />

L’esistenza di una correlazione negativa tra aumento dell’occupazione<br />

indipendente e crescita va quindi considerata come assolutamente preliminare,<br />

ma sottolinea un aspetto spesso trascurato. Il particolare sviluppo dell’occupazione<br />

indipendente in alcuni paesi può essere stato certamente una<br />

risposta obbligata a regolamentazioni distorsive e inefficienti; non è detto<br />

però che una risposta di questo tipo rimanga ottimale anche nel futuro.<br />

4.6 Dimensioni di impresa e flessibilità produttiva<br />

Gli anni Settanta hanno costituito, per l’Italia, uno spartiacque tra una<br />

fase dello sviluppo industriale in cui l’occupazione tendeva a concentrarsi<br />

nelle imprese di grande dimensione a una in cui il fenomeno si è invertito,<br />

ed è tornata a crescere la quota dell’occupazione nelle unità produttive<br />

minori. Con accentuazioni diverse, il fenomeno è comune anche ad altri paesi<br />

industriali, ma è stato particolarmente pronunciato in Italia 1 .<br />

I mutamenti che interessano le quote di occupazione sono documentati<br />

con riferimento a quattro grandi paesi industriali nelle figure 4-12 e 4-<br />

13. Da esse si ricava che il ridimensionamento che interessa la quota dell’occupazione<br />

delle grandi imprese dopo la metà degli anni Settanta presenta<br />

la massima intensità in Italia, il paese in cui il peso delle imprese<br />

di grande dimensione è minimo fin dall’inizio del periodo di riferimento. In<br />

Italia, infatti, la quota dell’occupazione concentrata nelle unità con più di<br />

500 addetti nell’arco dei venticinque anni considerati si dimezza. Una tendenza<br />

analoga, ma meno intensa si registra per la Francia e, in misura ancor<br />

meno accentuata, negli Stati Uniti. Il fenomeno appare sostanzialmente<br />

inesistente in Germania 2 . In tutti questi paesi, la quota di occupazione<br />

nelle grandi imprese era e rimane molto più alta che in Italia.<br />

Al di sotto della soglia dei 100 addetti il fenomeno presenta un profilo<br />

speculare a quello osservato al di sopra dei 500. In Italia si registra un<br />

notevole aumento (da poco meno del 50 a quasi il 70%) della quota di occupazione<br />

nelle imprese manifatturiere con meno di 100 addetti. Un incremento<br />

di tale quota si rileva anche in Francia; in Germania e Stati Uniti<br />

le variazioni appaiono invece di scarsa importanza.<br />

I cambiamenti che interessano le quote di occupazione non danno però<br />

informazioni in merito all’aumento o alla diminuzione del numero degli ad-<br />

6<br />

Cfr. Blanchflower, op. cit.<br />

1<br />

Su questo punto, e in merito all'evidenza discussa di seguito, cfr. F. Traù (a cura di),<br />

La questione dimensionale nell’industria italiana, Bologna, Il Mulino 1999.<br />

2<br />

Per la Germania — a causa della disomogeneità degli universi di rilevazione tra le diverse<br />

date per quanto riguarda le attività artigiane — vengono riportati per il 1977 due calcoli<br />

distinti, riferiti sia all’universo inclusivo degli artigiani sia a quello che li esclude.<br />

171


Fig. 4-12 — Quota dell’occupazione nelle imprese con più di 500 (1a), industria<br />

manifatturiera<br />

(a) La prima classe include gli artigiani.<br />

(b) La prima classe esclude gli artigiani.<br />

(c) Esclude i codici 353 e 354, include i codici 23 e 29.1.<br />

Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />

Fig. 4-13 — Quota dell’occupazione nelle imprese con meno di 100 addetti,<br />

industria manifatturiera<br />

(a) La prima classe include gli artigiani.<br />

(b) La prima classe esclude gli artigiani.<br />

(c) Esclude i codici 353 e 354, include i codici 23 e 29.1.<br />

Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />

detti concentrati in una data fascia di ampiezza delle imprese. In via generale,<br />

lo spostamento del peso dell’occupazione di un dato segmento dimensionale<br />

verso le imprese più piccole potrebbe semplicemente riflettere<br />

la maggiore intensità di un processo di downsizing che interessa — in misura<br />

più o meno pronunciata — imprese di tutte le dimensioni. Si avrebbe<br />

in questo caso soltanto una minore intensità, nelle imprese di dimensione<br />

172


medio-piccola, dello stesso fenomeno che investe le più grandi, senza alcuna<br />

differenza di segno. È dunque necessario considerare l’andamento dell’occupazione<br />

nelle diverse fasce dimensionali in termini assoluti.<br />

A questo proposito la fig. 4-14 indica che lo spostamento di occupazione<br />

tra i diversi intervalli dimensionali rivelato dall’andamento delle quote<br />

è il risultato di un comportamento asimmetrico delle imprese grandi rispetto<br />

a quelle piccole: in entrambe le fasi considerate il profilo delle quote<br />

riflette di fatto quello che accade nelle imprese maggiori, in cui l’occupazione<br />

prima aumenta, e poi scende. Nelle imprese più piccole il livello<br />

dell’occupazione appare invece nel complesso relativamente stabile, e comunque<br />

caratterizzato da oscillazioni molto contenute; il loro contributo all’occupazione<br />

è dunque sostanzialmente passivo: esse mantengono il livello<br />

dell’occupazione di cui dispongono, mentre le più grandi prima lo espandono<br />

e poi lo contraggono.<br />

Un’eccezione rilevante è rappresentata sotto questo specifico profilo<br />

dall’Italia, dove a partire dal 1971 l’occupazione delle imprese con meno di<br />

50 addetti cresce invece nettamente e l’occupazione nelle imprese medie e<br />

grandi scende assai più che negli altri paesi. In questo caso sembra effettivamente<br />

essersi realizzato uno spostamento di occupati dalle unità più<br />

Fig. 4-14 — Numero di occupati delle imprese per classe dimensionale<br />

(a) La prima classe include gli artigiani.<br />

(b) La prima classe esclude gli artigiani.<br />

(c) Esclude il codice 314.<br />

(d) Nel 1968 le prime due classi sono: 1-24, 25-50; sono esclusi i codici 353 e 354, il 1994 include i codici 23 e 29.1.<br />

Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />

173


grandi a quelle piccole. Un’altra eccezione è la Germania, in cui a differenza<br />

degli altri paesi non si registra alcuna sostanziale variazione del numero<br />

di occupati nelle varie classi dimensionali, se non per le imprese con<br />

meno di 20 addetti (fig. 4-14).<br />

La dinamica dell’occupazione all’interno dei diversi intervalli dimensionali<br />

è il risultato congiunto dei cambiamenti che interessano da un lato<br />

la dimensione media delle imprese, e dall’altro la loro numerosità. I due<br />

fenomeni sono rappresentati nelle figure 4-15 e 4-16. Dalla figure 4-13 si<br />

Fig. 4-15 — Confronti cross-country delle dimensioni medie delle imprese<br />

(a) Incluse imprese artigiane.<br />

(b) Escluse imprese artigiane.<br />

(c) Imprese con più di 10 addetti.<br />

Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />

Fig. 4-16 — Variazione % della numerosità delle imprese, totale manifatturiero<br />

Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001).<br />

174


icava che i paesi esaminati mostrano un aumento della dimensione media<br />

nel corso della prima fase, seguito da una flessione nella fase successiva;<br />

la figura 4-16 mostra invece che a questo andamento corrisponde una tendenza<br />

generale dello stock delle imprese a ridursi nel corso della prima fase,<br />

e ad accrescersi di nuovo nella seconda. Quindi è possibile individuare<br />

due distinti modelli di comportamento a seconda delle diverse fasi dello sviluppo<br />

industriale: fino agli anni Settanta la base industriale si espande attraverso<br />

un processo di concentrazione (diminuisce il numero delle imprese,<br />

e la loro dimensione media si accresce); nella fase successiva il meccanismo<br />

si inverte, e mentre il numero delle imprese torna a salire la loro dimensione<br />

media si riduce.<br />

In questo contesto, vi è una notevole peculiarità del caso italiano consistente<br />

nel fatto che la flessione della dimensione media osservabile dopo<br />

gli anni Settanta si realizza nonostante essa sia già considerevolmente inferiore<br />

a quella degli altri paesi all’inizio del periodo. Si può dunque dire<br />

che il sistema industriale italiano presenti una propensione maggiore degli<br />

altri paesi a ridimensionare la scala delle attività produttive. Esistono<br />

cioè da un lato fattori comuni, che spiegano perché i paesi industriali (ad<br />

alcuni dei quali si riferiscono i dati qui riportati) modificano il loro modello<br />

di industrializzazione spostando l’occupazione verso unità produttive di<br />

dimensione inferiore rispetto al passato; ed esistono fattori specifici, che riguardano<br />

il sistema industriale italiano in quanto tale.<br />

In generale, la tendenza a un aumento del peso economico delle imprese<br />

di dimensione piccola e media è il risultato di cambiamenti importanti<br />

che investono l’organizzazione delle attività produttive a livello internazionale.<br />

Questi cambiamenti, che cominciano a essere visibili all’inizio<br />

del decennio Settanta, ruotano attorno al fatto che un volume crescente<br />

di transazioni avviene, piuttosto che dentro i confini aziendali, attraverso<br />

scambi tra unità distinte. In altri termini la divisione del lavoro si realizza<br />

sempre meno all’interno dell’impresa, e sempre più mediante rapporti<br />

tra imprese diverse.<br />

Le ragioni di questo fenomeno sono più d’una. Tra esse si possono ricordare<br />

una maggior rigidità delle regole relative all’organizzazione del lavoro;<br />

l’irrompere nei processi produttivi di nuove tecnologie che hanno abbassato<br />

la dimensione efficiente minima di impianto; il carattere asimmetrico<br />

degli stessi shock petroliferi, che hanno penalizzato le produzioni più energy<br />

intensive (per lo più caratterizzate da elevata dimensione media delle imprese).<br />

Ma, soprattutto, la «rottura di paradigma» che viene consumata a partire<br />

dalla fine del decennio Sessanta affonda le sue radici nel notevole e progressivo<br />

aumento della pressione concorrenziale indotto dall’integrazione internazionale<br />

dei sistemi produttivi e dal parallelo esplodere dell’incertezza<br />

sui mercati finanziari conseguente alla crisi del sistema di Bretton Woods.<br />

Mentre il primo fattore spinge le imprese a concentrare le risorse sul<br />

core business, cedendo all’esterno le attività meno strategiche, la crisi del<br />

sistema finanziario internazionale nei primi anni Settanta fa esplodere l’incertezza,<br />

riducendo la prevedibilità dei rendimenti attesi e facendo salire<br />

la rischiosità degli investimenti di maggiore dimensione. Se la concorrenza<br />

contribuisce a ridimensionare il grado di diversificazione (di integrazione<br />

conglomerale) delle imprese, la «turbolenza» spinge verso un abbassamento<br />

dell’integrazione verticale, favorendo — attraverso la ricerca di minori<br />

costi fissi — una frantumazione delle attività per fase di produzione. Il numero<br />

delle imprese aumenta, la loro dimensione media si riduce.<br />

175


In Italia questo fenomeno presenta una particolare accentuazione, tanto<br />

più notevole in quanto l’Italia era già, all’inizio degli anni Settanta, il<br />

paese — tra quelli presi qui in considerazione — in cui la struttura industriale<br />

era più spostata verso la piccola dimensione.<br />

Un primo fattore da tenere presente a questo riguardo è il ritardo di<br />

sviluppo che l’Italia scontava, ancora alla fine degli anni Sessanta, rispetto<br />

al gruppo dei paesi di più antica industrializzazione. Questo ritardo si<br />

esprime in due caratteristiche, strettamente interrelate tra loro: la specializzazione<br />

in produzioni di tipo «tradizionale», e l’estesa presenza di microimprese<br />

di origine artigianale. Il processo di modernizzazione della struttura<br />

produttiva che aveva avviato l’Italia verso l’industrializzazione fin dai<br />

primi anni del dopoguerra, da questo punto di vista, non aveva assorbito<br />

che una quota complessivamente modesta dell’occupazione industriale (come<br />

le stesse tavole qui riportate indicano). Lo sviluppo della grande industria<br />

meccanica nel c.d. «triangolo» nord-occidentale e il tentativo di forzare<br />

attraverso l’impresa pubblica il processo di industrializzazione nel Mezzogiorno<br />

avevano sottratto alle produzioni più semplici una quota apprezzabile<br />

dei loro occupati, ma senza che questo si traducesse in un loro ridimensionamento<br />

significativo.<br />

Quando iniziano a propagarsi gli shock più sopra evocati che cominciano<br />

a mettere in crisi la produzione di grande scala, nell’industria italiana<br />

lo small business sector è ancora assai esteso; certamente molto più esteso<br />

di quanto non sia più nei paesi in cui il processo di industrializzazione<br />

si è realizzato più anticamente. Gli shock svolgono in questo contesto un<br />

ruolo asimmetrico: mentre penalizzano la grande impresa su cui si fondano<br />

le produzioni più «moderne», enfatizzano i vantaggi differenziali specifici<br />

(massimamente in termini di flessibilità) delle imprese minori, rendendole<br />

relativamente più competitive. L’effetto è quello di ampliare le opportunità<br />

di sviluppo dello small business sector che in Italia svolge ancora<br />

un ruolo importante. Dapprima attraverso il semplice trasferimento di<br />

fasi di produzione dalle grandi imprese a nuove picole unità che ad esse<br />

«subentrano» nel ruolo di produttori, e poi sempre più attraverso la creazione<br />

di mercati di input intermedi (che alimentano scambi tra piccole imprese<br />

per la realizzazione di un unico bene finale), si realizza così un processo<br />

di radicale riorganizzazione della struttura produttiva. Quello che per<br />

l’Italia era un fattore di «ritardo» diventa nelle nuove condizioni di contesto<br />

un fattore che contribuisce notevolmente all’adattamento dell’industria<br />

italiana agli shock degli anni settanta.<br />

Questi processi sono stati anche sostenuti dall’operare di istituzioni<br />

intermedie (ad esempio associazioni imprenditoriali, enti locali, consorzi<br />

di vario genere) che, in varie realtà locali, hanno saputo creare un sistema<br />

di esternalità appropriabili dalle imprese di dimensione ridotta 3 . Ciò<br />

ha contribuito al consolidarsi, all’interno di aree territoriali specifiche, di<br />

quei sistemi localizzati di impresa che vengono in generale compresi sotto<br />

il termine di distretti industriali, in cui risulta efficiente una articolazione<br />

dell’organizzazione industriale tra numerose imprese la cui dimensione,<br />

se considerate singolarmente, non necessariamente sarebbe ottimale.<br />

3<br />

Ci si riferisce al caso in cui le imprese più piccole non sono in grado di internalizzare<br />

i vantaggi derivanti dall’esistenza di beni pubblici indifferenziati. Cfr. su questo punto in particolare<br />

A. Arrrighetti e G. Seravalli, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano,<br />

Roma, Donzelli (1997).<br />

176


Questa interpretazione, su cui esiste una vastissima letteratura 4 , spiega<br />

in modo convincente una delle ragioni forse più importanti del consolidamento<br />

e dell’accrescimento dell’importanza della piccola impresa in Italia<br />

avvenuto tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Non spiega però l’intensità<br />

assunta da questo processo.<br />

In una certa misura, l’intensità assunta in Italia dalla riduzione del numero<br />

di occupati nella grande impresa è legata anche a un’altra caratteristica<br />

specifica dell’industria italiana, ossia la forte presenza dell’impresa pubblica<br />

impegnata in produzioni ad elevato contenuto tecnologico. Negli anni settanta,<br />

una quota rilevante del settore più «moderno» (e destinato a spostare<br />

verso l’alto il baricentro dimensionale dell’industria) subisce non solo gli effetti<br />

degli shock economici internazionali, ma anche i contraccolpi devastanti<br />

di una crescente preminenza degli obiettivi politici rispetto a quelli industriali,<br />

con la conseguente graduale perdita di qualsiasi logica di efficienza, finendo<br />

per dissipare una quota rilevante del suo potenziale di occupazione.<br />

La specificità italiana appare tuttavia legata soprattutto a quei fattori<br />

che contribuiscono a rendere la piccola dimensione non il semplice risultato<br />

di una scelta strategica da parte dell’impresa, ma piuttosto l’esito (subottimale)<br />

di condizionamenti allo svolgersi della sua attività. L’esistenza di<br />

condizionamenti di carattere istituzionale può cioè rappresentare un disincentivo<br />

all’espansione della scala delle attività anche direttamente.<br />

Varie analisi 5 sottolineano il ruolo degli aspetti istituzionali riguardo<br />

alle dimensioni delle imprese. Ad esempio le barriere all’entrata (come le<br />

barriere non tariffarie al commercio internazionale o regolamentazioni anti<br />

competitive in determinati settori), la centralizzazione dei processi contrattuali<br />

e la validità erga omnes degli accordi tendono a accrescere la quota<br />

delle grandi imprese, poiché in generale implicano costi maggiori per le<br />

piccole imprese. Per contro, pesanti oneri e adempimenti amministrativi,<br />

regole rigide concernenti i licenziamenti individuali e collettivi tendono a<br />

favorire la presenza di piccole imprese, soprattutto quanto l’obbligo a soddisfare<br />

determinate regole è graduato in base alla dimensione delle imprese.<br />

Secondo varie classifiche internazionali 6 sin dagli anni settanta l’Italia<br />

si è caratterizzata per l’esistenza di normative particolarmente rigide<br />

in materia di licenziamenti. Ciò suggerisce 7 che la combinazione di norme<br />

in materia di protezione del lavoro e le regolamentazioni amministrative<br />

abbiano avuto in Italia un ruolo notevole nel favorire una maggior presenza<br />

relativa della piccola impresa.<br />

Anche numerose indagini sottolineano il ruolo penalizzante svolto dalle<br />

normative che regolamentano l’attività di impresa riguardo al sottodimensionamento<br />

delle imprese italiane. Una indagine recentemente svolta<br />

presso il Csc 8 mostra che tra i fattori «esterni» all’impresa che gli operatori<br />

percepiscono come più vincolanti rispetto all’espansione dimensionale un<br />

ruolo molto rilevante è svolto dalla scarsa flessibilità del fattore lavoro, e<br />

4<br />

Cfr. tra gli altri G. Becattini (a cura di), Modelli locali di sviluppo, Bologna, Il Mulino<br />

1989, S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, Torino, Rosemberg&Seliier 1989, G.<br />

Garofoli, Modelli locali di sviluppo, Milano, F. Angeli 1991, e, più recentemente, F. Signorini<br />

(a cura di), Lo sviluppo locale, Roma, Donzelli 2000.<br />

5<br />

Cfr. ad es. G. Nicoletti, «Institutions, Economic Structure and Performance: Is Italy<br />

Doomed?», in Isae, Annual Report on Monitoring Italy, Roma, gennaio 2002, in particolare<br />

pag. 162 e ss. e i lavori ivi citati.<br />

6<br />

Oecd, Employment Outlook, June 1999, Oecd, Regulatory reform, Parigi 2001.<br />

7<br />

Cfr. Nicoletti op. cit.<br />

8<br />

La ricerca è stata realizzata nei primi mesi del 2001, in collaborazione con il Comitato<br />

Piccola Industria della <strong>Confindustria</strong> e la Doxa.<br />

177


più in generale dall’inefficienza e dai costi del sistema amministrativo (infrastrutture<br />

incluse).<br />

L’evidenza mostra che i sistemi di gestione delle relazioni industriali sono<br />

sempre più soggetti a rigidità procedurali man mano che la scala delle attività<br />

si espande, e che in ogni caso a dimensioni maggiori corrisponde una<br />

più diffusa presenza delle organizzazioni dei lavoratori nelle decisioni e negli<br />

obiettivi aziendali, così che sul piano della gestione del fattore lavoro esiste<br />

comunque un vantaggio differenziale nel «restare piccoli» 9 . Più specificamente,<br />

un’azione penalizzante è svolta dai criteri di regolamentazione del<br />

rapporto di lavoro di tipo subordinato, che presenta discontinuità pronunciate<br />

in coincidenza di alcune soglie dimensionali (oltre le quali il regime appare<br />

molto più vincolistico). L’insieme delle norme tende a rendere la transizione<br />

dimensionale costosa dal punto di vista degli oneri crescenti che l’impresa<br />

deve sostenere. Un ruolo specifico svolge in questo quadro la disciplina del<br />

licenziamento individuale per le imprese con più di quindici dipendenti, sia<br />

per i costi che comporta per le imprese, sia soprattutto per la situazione di<br />

incertezza in cui tende a collocarle, dal momento che la durata dei processi<br />

impone all’impresa un lungo periodo di conflittualità.<br />

Al di là dei problemi connessi con le svariate soglie dimensionali previste<br />

dalle più diverse normative, il punto centrale rimane il fatto che la<br />

deverticalizzazione della struttura produttiva, anche in imprese sopra la<br />

soglia di 15, è spesso una scelta che comunque consente un maggiore elevato<br />

grado di flessibilità, che si perderebbe se l’attività economica fosse svolta<br />

in unità più grandi e «visibili».<br />

Questi meccanismi sono in parte anche alla base della fortissima propensione<br />

al lavoro autonomo che caratterizza l’economia italiana, e che la<br />

differenzia ulteriormente rispetto all’economia degli altri paesi industrializzati.<br />

Unità all’interno delle quali potrebbe svolgersi un’unica attività produttiva<br />

vengono spesso smembrate in unità diverse proprio per mantenere<br />

l’impresa nel suo complesso al di sotto di soglie che comporterebbero un<br />

aumento degli oneri di gestione (intesi anche in senso organizzativo). Nella<br />

stessa prospettiva può essere inquadrata la stessa ampiezza delle dimensioni<br />

dell’economia sommersa (anch’essa eccezionalmente elevata nel<br />

caso italiano), che costituisce il meccanismo attraverso il quale molte imprese<br />

abbattono almeno una quota dei costi della regolazione (tab. 4-33).<br />

Tab. 4-33 — Indicatori di struttura dell’occupazione<br />

Paesi<br />

Quota occupazione Quota lavoratori autonomi<br />

Peso economia sommersa<br />

imprese < 100 addetti su totale occupazione<br />

Anni ’70 (%) Anni ’90 (%) (%) (% del Pil)<br />

Italia 49 69 26.5 27.2<br />

Germania 19 19 10.2 14.8<br />

Francia 20 30 9.6 14.8<br />

Stati Uniti 17 20 6.6 8.8<br />

(*) Settore manifatturiero.<br />

Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat, Fmi e Censimenti nazionali.<br />

9<br />

Questo aspetto del problema rientra nel dibattito sull'argomento fin dai suoi inizi; cfr.<br />

ad esempio S. Brusco, Decentramento produttivo e divisione del lavoro, in A. Del Monte e M.<br />

Raffa (a cura di), Tecnologia e decentramento produttivo, Torino, Rosemberg & Sellier, 1977.<br />

178


Non vi è dubbio che lo sviluppo della piccola e media impresa ha costituto<br />

una risposta di successo ai problemi che l’economia italiana ha dovuto<br />

affrontare in questi anni, negli ultimi venti anni. La piccola impresa ha dimostrato<br />

grandi capacità di innovare, nei processi, nei prodotti; è stata capace<br />

di adeguare rapidamente i propri mercati di sbocco e in generale è un<br />

asse portante dell’export italiano. L’essere costretti dalle rigidità del sistema<br />

a rimanere piccoli, l’essere vincolati nella scelta della dimensione ottimale<br />

più adatta alle caratteristiche del proprio mercato e delle tecnologie non può<br />

però essere considerato un punto di forza. Le difficoltà dell’Italia nel competere<br />

nei settori ad alta tecnologia, la tendenziale perdita di quote di mercato<br />

e l’essere particolarmente esposti alla crescente concorrenza dei paesi emergenti<br />

dipendono anche dal fatto che la parte più estesa del nostro sistema<br />

produttivo è, date le inferiori dimensioni medie, svantaggiata nel fare grande<br />

ricerca, nell’accedere ai flussi di capitali disponibili sui mercati internazionali,<br />

ad affermarsi e rafforzarsi nei nuovi settori che richiedono investimenti<br />

a lungo termine in tecnologia, ricerca, capitale umano. Di qui l’importanza<br />

di politiche volte a sostenere positivamente lo sviluppo e la crescita<br />

delle piccole e medie imprese, ma soprattutto volte a rimuovere le cause sistemiche<br />

che hanno contribuito a distorcere il nostro sviluppo industriale.<br />

4.7 La riforma della tassazione dei redditi d’impresa<br />

in Italia<br />

Il disegno di legge delega per la riforma fiscale presentato dal governo<br />

nel dicembre scorso, e di cui qualche elemento era stato anticipato nei<br />

provvedimenti adottati nei primi 100 giorni, punta a riordinare in modo radicale<br />

e in tempi relativamente brevi il sistema tributario statale. A regime<br />

si avrebbero 5 imposte, ordinate in un unico codice: un’imposta sul reddito,<br />

un’imposta sulle società, un’imposta sul valore aggiunto, un’imposta<br />

sui servizi, le accise. È inoltre prevista la graduale eliminazione dell’Irap.<br />

La relazione tecnica valuta in 17 miliardi di euro la riduzione netta ex ante<br />

di gettito in conseguenza delle modifiche proposte per i cinque tributi<br />

prima elencati. Nessuna valutazione viene fatta sulla completa abolizione<br />

dell’Irap, il cui gettito (per la parte relativa al settore privato) nel 2000 è<br />

stato pari a circa 21 miliardi di euro (tab. 1).<br />

Dall’attuazione della riforma «non possono derivare oneri aggiuntivi<br />

per il bilancio dello Stato» (art. 9); qualora questo vincolo venga superato<br />

il Ministro dell’Economia, informato il Parlamento, dovrà prendere le opportune<br />

misure correttive. Inoltre, i decreti attuativi sono «sottoposti al vincolo<br />

della sostanziale invarianza dei saldi economici e finanziari netti dei<br />

singoli settori istituzionali». Una «apposita normativa transitoria escluderà<br />

inasprimenti fiscali, rispetto a regimi fiscali garantiti dalla legislazione pregressa».<br />

Non è chiaro se questa clausola di salvaguardia vada in generale<br />

intesa a tutela della posizione del singolo contribuente, o vada interpretata<br />

nell’ambito della citata invarianza dei saldi netti per settore istituzionale.<br />

Solo per l’imposta sul reddito delle persone fisiche viene esplicitamente<br />

affermato che «a parità di condizioni, il nuovo regime risulti sempre<br />

più favorevole od uguale, mai peggiore, del precedente».<br />

A livello di tassazione personale si prevedono due sole aliquote di im-<br />

posta sul reddito: 23% fino a 100.000 euro e 33% oltre. La base imponi-<br />

Imposta<br />

sul reddito<br />

179


ile viene ampliata includendo, parzialmente, gli utili percepiti e le plusvalenze<br />

per le partecipazioni societarie qualificate. La riduzione del numero<br />

degli scaglioni rispetto ai 5 attuali e l’innalzamento dell’aliquota minima<br />

(ora 18%) si accompagnerà ad un sistema di deduzioni concentrate<br />

sui redditi bassi e medi in modo da consentire di graduare il carico fiscale.<br />

Le deduzioni, che sostituiranno gradualmente le attuali detrazioni<br />

d’imposta, saranno commisurate alla dimensione della famiglia, ai carichi<br />

di lavoro e a spese meritorie (ad esempio attività svolta nel campo sociale,<br />

assistenziale e di promozione sociale e valorizzazione etica, culturale e scientifica).<br />

Sulla base della soglia di povertà, verrà identificato un livello di reddito<br />

minimo escluso da imposizione. Tali aspetti fondamentali non sono stati<br />

ancora dettagliati. La modulazione dell’attuazione della riforma è demandata<br />

alle leggi finanziarie annuali, che provvederanno alla quantificazione<br />

degli oneri e alla relativa copertura. La relazione tecnica indica in<br />

20,5 miliardi di euro (di cui 19,1 a carico dell’erario e 1,4 per l’addizionale<br />

regionale), la riduzione di prelievo a regime.<br />

Per i redditi di natura finanziaria è prevista la convergenza sul livello<br />

di tassazione dei titoli del debito pubblico (12,5%); attualmente su<br />

molte attività finanziarie (ad esempio depositi bancari e strumenti a breve)<br />

grava un’aliquota del 27%. Tutti i proventi finanziari saranno quindi<br />

soggetti ad un’imposta sostitutiva proporzionale sotto forma di ritenuta<br />

definitiva alla fonte, senza più distinzione tra le categorie dei redditi di<br />

capitale e redditi diversi. Nell’ipotesi di un andamento non brillante dei<br />

mercati borsistici, la perdita di gettito viene stimata in 1.888 milioni di<br />

euro.<br />

Iva, imposta<br />

sui servizi,<br />

accise<br />

Imposta<br />

sul reddito<br />

delle società<br />

e Irap<br />

L’obiettivo è avvicinare il più possibile l’Iva a un’imposta sui consumi<br />

finali, rivedendo in particolare i regimi speciali e le disposizioni in materia<br />

di indetraibilità. È inoltre prevista la possibilità di escludere dalla base imponibile<br />

fino all’1% della spesa per consumi a fronte di erogazioni con finalità<br />

etiche. Varie imposte sugli affari (registro, bollo, concessioni governative,<br />

imposte ipotecarie e altre) verranno accorpate in un’unica ‘imposta<br />

sui servizi’, unificando modalità di prelievo e caratteristiche dell’obbligazione<br />

fiscale. Per le accise l’obiettivo è di aumentarne il coordinamento con<br />

le imposte sui consumi.<br />

L’Irpeg viene sostituita dall’imposta sul reddito delle società (Ires) con<br />

aliquota, a regime, del 33%; in base alla legislazione vigente l’aliquota è<br />

36% per il 2002 e 35% a decorrere dal 2003. Viene abrogato il meccanismo<br />

Dit. Per le partecipazioni iscritte nelle immobilizzazioni è prevista l’esenzione<br />

delle plusvalenze realizzate da società di capitali con la cessione di<br />

partecipazioni sociali 1 e l’esclusione dalla formazione del reddito del 95%<br />

dei dividendi netti percepiti. All’esenzione delle plusvalenze corrisponde l’indeducibilità<br />

delle minusvalenze (da realizzo) e delle svalutazioni (di fine<br />

esercizio). Se le partecipazioni non sono iscritte tra le immobilizzazioni si<br />

applica il regime ordinario. Inoltre non è esente la cessione di partecipazioni<br />

di breve periodo e di partecipazioni in società di comodo (senza esercizio<br />

d’impresa). Scompare il credito d’imposta sui dividendi, che spetta attualmente<br />

al socio per le imposte già pagate dalla società, e si passa così<br />

1<br />

Si riferisce a partecipazioni in società sia di capitali che di persone, sia residenti che<br />

non, purché non in paradisi fiscali.<br />

180


da un sistema definito a piena imputazione al sistema classico di tassazione.<br />

La parziale indeducibilità degli interessi passivi è prevista nel caso in<br />

cui: i) essi derivino dal finanziamento dell’acquisto di partecipazioni; ii) si<br />

tratti di finanziamenti erogati o garantiti da soci «qualificati» che detengono<br />

almeno il 10% delle partecipazioni. Tali finanziamenti devono superare<br />

una certa soglia (da stabilire) in rapporto alla quota di patrimonio netto<br />

riferibile al socio (a condizione che gli interessi stessi non confluiscano<br />

in un reddito imponibile in Italia).<br />

È prevista la possibilità di optare per un consolidato di gruppo, con<br />

un vincolo di tre anni. Il gruppo è definito in base al requisito formale<br />

del controllo della maggioranza dei diritti di voto. Si prevede che, in linea<br />

con quanto già previsto in Francia e Usa, la società capogruppo possa<br />

presentare un’unica dichiarazione in cui dichiari un reddito imponibile<br />

dato come somma algebrica degli imponibili delle società del gruppo,<br />

opportunamente rettificati 2 . Nel consolidato domestico la capogruppo deve<br />

essere una società residente o con stabile organizzazione in Italia, e le<br />

controllate devono essere residenti. È previsto un regime facoltativo di<br />

neutralità fiscale per gli scambi intragruppo di beni che non producono<br />

ricavi. Sono previste limitazioni antielusive, ad esempio, per l’utilizzo di<br />

perdite. È considerata la possibilità del consolidato «mondiale», attualmente<br />

possibile solo in Danimarca e Francia, con l’inclusione delle società<br />

non residenti. Per l’onere e la complessità del meccanismo, sono previste<br />

cautele particolari.<br />

Le plusvalenze e i dividendi relativi a partecipazioni qualificate saranno<br />

parzialmente incluse nel reddito imponibile (al netto dei relativi costi)<br />

e soggette all’imposta progressiva sul reddito.<br />

È poi prevista la graduale eliminazione dell’Irap, da compensare, d’intesa<br />

con le Regioni, con compartecipazioni o trasferimenti. Non vi sono indicazioni<br />

sui tempi di attuazione; per quanto concerne le modalità, la norma<br />

precisa che è prioritaria la progressiva esclusione dalla base imponibile<br />

del costo del lavoro e di altri costi. Al riguardo, nella relazione tecnica si<br />

ipotizza che «in una prima fase di applicazione», venga reso deducibile il<br />

20% del costo del lavoro.<br />

La relazione tecnica valuta in 2.285 milioni di euro il maggior gettito<br />

della tassazione sui redditi di impresa e in 2.272 milioni di euro l’abbatti-<br />

mento del gettito Irap nell’ipotesi di deducibilità del 20% del costo del la-<br />

voro (tab. 4-34). Se queste valutazioni sono corrette il saldo netto degli aggravi<br />

e degli alleggerimenti di imposta sarebbe in prima approssimazione<br />

pari a zero.<br />

Non è però chiaro se la relazione tecnica tenga conto del fatto che non<br />

vi è completa simmetria tra aumento della tassazione sulle società e riduzione<br />

dell’Irap, dato che approssimativamente il 30% del gettito Irap viene<br />

da soggetti diversi dalle società di capitali.<br />

La condizione dell’invarianza del saldo per settore istituzionale sembrerebbe<br />

per un verso implicare spazi limitati di riduzione netta del prelievo<br />

fiscale complessivo sulle imprese. Nella relazione tecnica viene ribadito<br />

che le risorse aggiuntive derivanti dalla riforma dell’imposta sulle so-<br />

Effetti<br />

sulle imprese:<br />

il saldo<br />

complessivo<br />

2<br />

L’alternativa sarebbe seguire il metodo applicato in Germania e Regno Unito, dove viene<br />

consentito all’impresa di attribuire alle altre società del gruppo le proprie perdite di esercizio.<br />

181


Tab. 4-34 — Effetti della delega fiscale a regime<br />

(Milioni di euro)<br />

Imposta personale sul reddito (Art. 3 commi 1 (lett. A, b, c), 2, 3) –17.976<br />

Riforma della curva Irpef e delle detrazioni d’imposta –20.500<br />

Minore gettito erariale –19.100<br />

Minore gettito addizionale regionale –1.400<br />

Effetti indotti:<br />

Incremento Iva per i maggiori consumi +2.500<br />

Incremento sostitutiva sui risparmi +24,5<br />

Redditi di natura finanziaria (Art. 3, comma 1, lett. C) –2.240<br />

Passaggio dal criterio del maturato al criterio del realizzato –352<br />

Minori entrate di competenza relative alla quota dei depositi in possesso delle<br />

famiglie a) –1.548<br />

Perdita di gettito relativa alla quota dei depositi in possesso delle imprese a) –340<br />

Imposta sul reddito delle società (Art. 4) +2.285<br />

Consolidato nazionale +831<br />

Effetti sulle società non rientranti nel consolidato ed enti commerciali +2.081<br />

Riduzione aliquota al 33% –1.560<br />

Abolizione Dit su pregresso (con aliquota 33%) +1.286<br />

Eliminazione credito d’imposta sui dividendi +1.033<br />

Tassazione del 5% dei dividendi netti +72<br />

Indeducibilià delle minusvalenze da partecipazione +1.250<br />

Esenzione plusvalenze –710<br />

Pro rata indeducibilità interessi sostenuti da società che detengono partecipazioni<br />

immobilizzate +511<br />

Indeducibilità degli interessi passivi su finanziamenti da parte di soci 331<br />

Opzione per il regime di trasparenza fiscale –179<br />

Abolizione sostitutiva plusvalenze da cessione di aziende e di partecipazioni di controllo –533<br />

Tonnage Tax –47<br />

Imposta sul valore aggiunto (Art. 5) 590<br />

detraibilità del 10% dell’Iva relativa a tutti i beni indetraibili 590<br />

(al netto del recupero delle dirette)<br />

Istituzione dell’imposta sui servizi (Art. 6) b) —<br />

Accise (Art. 7) c)<br />

n.c.<br />

Totale a regime senza la riforma Irap –17.340<br />

Abolizione Irap (Art. 8) d) –20.700<br />

di cui: deducibilità del 20% del costo del lavoro a fini Irap –2.272<br />

Totale effetti finanziari con riforma Irap a regime –38.040<br />

a) I valori si riferiscono allo scenario con andamento di borsa non positivo. In caso di andamento positivo i valori<br />

diventano 1.478 e 325 rispettivamente.<br />

b) L’introduzione di questa nuova imposta si intende a parità di gettito con le imposte sostituite.<br />

c) Nella relazione tecnica non vengono quantificati i costi.<br />

d) il dato si riferisce al gettito Irap proveniente dal settore privato per il 2000; la riduzione che attiene al settore<br />

pubblico non incide sul saldo della Pa.<br />

Fonte: Relazione tecnica al dll. 2144, trasmessa alla Camera il 13 febbraio 2002, elaborazioni Csc.<br />

cietà dovranno servire a finanziare il costo della progressiva eliminazione<br />

dell’Irap e, per l’eventuale residuo, della riduzione della tassazione delle<br />

rendite finanziarie. Anche gli abbattimenti di base imponibile Irap aggiuntivi<br />

rispetto a quello del 20% del costo del lavoro vengono esplicitamente<br />

collegati agli aumenti di gettito dell’imposta sulle società conseguenti<br />

182


alle riforme proposte 3 . Peraltro, anche per l’Irap, così come per l’Irpef, la<br />

modulazione dell’attuazione della delega e quindi la specifica quantificazione<br />

degli oneri e l’indicazione della copertura sono demandate al Dpef e<br />

alle conseguenti leggi finanziarie annuali.<br />

Analisi micro<br />

L’indicatore<br />

utilizzato<br />

Per valutare l’impatto microeconomico di due degli aspetti salienti della<br />

riforma, la riduzione dell’aliquota Irpeg e l’eliminazione della Dit e dell’Irap,<br />

abbiamo utilizzato un modello economico-aziendale, simile come concezione<br />

a quello utilizzato dalla Commissione Ue 4 , che consente di calcolare<br />

la pressione fiscale, definita come aliquota media effettiva (Ame), a partire<br />

da un bilancio aziendale 5 . Il conto economico e lo stato patrimoniale<br />

sono stati redatti in base alla normativa civilistica italiana a cui, separatamente,<br />

si sono applicate le regole fiscali. Per lo sviluppo prospettico (10<br />

anni) del conto economico e dello stato patrimoniale ci si è basati su un’analisi<br />

strutturale dei bilanci delle imprese del campione Mediobanca 6 . I calcoli<br />

sono relativi a società non appartenenti ad un gruppo.<br />

Le aliquote medie effettive (Ame) sono definite come il rapporto tra la<br />

somma dei valori attuali delle imposte pagate dall’impresa nell’arco di vita<br />

dell’investimento e la somma dei valori attuali dei flussi della remunerazione<br />

del capitale, sia proprio che di terzi. La sensitività dei risultati rispetto<br />

ai metodi di finanziamento è stata condotta considerando alternativamente<br />

il caso in cui i nuovi investimenti siano finanziati al 100% con capitale<br />

proprio o con capitale di terzi (debito a medio/lungo termine al tasso<br />

del 5,5% o con debito a breve al tasso del 6,5%).<br />

A parità di rendimento dell’investimento, l’utile d’esercizio nel caso di<br />

finanziamento con capitale di terzi differisce da quello nel caso di finanziamento<br />

con capitale proprio esattamente dell’ammontare degli oneri finanziari<br />

pagati sul nuovo debito. Per poter comparare correttamente le due<br />

situazioni si è quindi considerata la remunerazione del capitale come somma<br />

del risultato d’esercizio prima delle imposte e interessi passivi maturati<br />

sul debito acceso per il finanziamento dei nuovi investimenti. In questo<br />

modo il peso del fisco viene valutato sul rendimento dell’investimento,<br />

indifferentemente dal fatto che tale rendimento vada a remunerare il capitale<br />

proprio o di debito. Infine, poiché nella pratica il finanziamento avviene<br />

sempre in parte con capitale proprio e in parte con capitale di terzi,<br />

3<br />

Cfr. Relazione tecnica al disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale, pag.<br />

45: «Tanto maggiori saranno questi effetti, tanto più elevata potrà essere la quota di risorse<br />

da destinare ad una più consistente riduzione dell’Irap, fino a un suo superamento».<br />

4<br />

Cfr. Commissione Ue, Toward an internal market without tax obstacles COM(582) 2001<br />

5<br />

La ricostruzione del bilancio di partenza è stata effettuata seguendo la metodologia<br />

di riclassificazione dei bilanci di Mediobanca. Nel caso specifico è stato però necessario avere<br />

molto più dettaglio sulla struttura dello stato patrimoniale, con riferimento alle immobilizzazioni<br />

tecniche. Nel bilancio da noi considerato abbiamo disaggregato: Terreni, Fabbricati<br />

industriali, Impianti e macchinari, Attrezzature industriali e commerciali, Altri beni<br />

materiali, Immobilizzazioni in corso e acconti. Nel conto economico una differenza rilevante<br />

rispetto alla classificazione di Mediobanca è che la posta relativa ai dividendi da partecipazioni<br />

(parte degli oneri finanziari) è comprensiva anche delle imposte versate dall’azienda<br />

partecipata.<br />

6<br />

Dal lato del conto economico il modello consente di variare: i tassi annuali di crescita<br />

dei ricavi; l’incidenza della struttura dei costi attinenti la gestione caratteristica (materie prime,<br />

lavoro etc.); il grado di ammortamento del capitale immobilizzato; l’incidenza della struttura<br />

dei costi attinenti la gestione patrimoniale e straordinaria; la modalità di utilizzo degli<br />

utili netti (autofinanziamento versus dividendi); dal lato dello stato patrimoniale: l’andamento<br />

dello stock di immobilizzazioni (nuovi investimenti, disinvestimenti); il grado di rotazione<br />

del capitale investito e della sua componente a più alta velocità di rinnovo.<br />

183


per il calcolo della media ponderata si è ipotizzato che la corporate finance<br />

sia al 50% con capitale proprio e per il restante 50% con debito.<br />

È altresì chiaro che il peso complessivo del fisco (e quindi l’analisi della<br />

neutralità del fisco rispetto ai metodi di finanziamento) richiederebbe<br />

una valutazione anche della tassazione dei redditi a livello personale. Se a<br />

livello personale le aliquote medie pagate sulle rendite finanziarie sono minori<br />

rispetto a quelle pagate sui profitti distribuiti, è evidente che aumenta<br />

il favore del fisco per il finanziamento tramite debito.<br />

In simulazione l’impresa effettua nel primo anno 7 un dato ammontare<br />

di investimenti in immobilizzazioni tecniche (sulla base di trend calcolati<br />

sui dati Mediobanca), mentre negli anni successivi limita la sua attività<br />

di investimento a mantenere costante lo stock di capitale iniziale (investimenti<br />

di rimpiazzo, pari alla quota di ammortamento dell’anno al netto<br />

della parte relativa agli investimenti del primo anno di analisi). In questo<br />

modo l’analisi è focalizzata sull’incidenza del fisco sui rendimenti dei<br />

nuovi investimenti.<br />

La prima simulazione effettuata si riferisce all’aliquota media che ri-<br />

sulta con la riduzione a 33% dell’aliquota nominale Irpeg. Il calcolo è stato<br />

fatto per casi di tipo, tenendo conto di due dimensioni assai rilevanti ai<br />

fini dei risultati: i) redditività, considerando tre diversi Roe rispettivamente<br />

pari a 16,0% 9,6% e 5,6% 8 ; ii) fonti di finanziamento dei nuovi investimenti<br />

(capitale, debiti a breve e a medio/lungo termine).<br />

Il range entro cui varia l’aliquota effettiva è compreso (tab. 4-35) tra<br />

il 29,5 e il 20,6% in funzione della redditività dell’impresa: quanto più alta<br />

la redditività, tanto più alta è l’aliquota media effettiva. Tale differenza<br />

dipende sia dalla presenza di deduzioni fiscali proporzionali al valore degli<br />

investimenti e non alla loro redditività, sia dal peso dato al finanziamento<br />

con capitale proprio rispetto a quello con capitale di terzi.<br />

Il significato dei risultati appare forse più chiaro se si analizzano separatamente<br />

i casi in cui il finanziamento avvenga al 100% con capitale<br />

proprio e poi con capitale di terzi. Nel primo caso, la modesta differenza<br />

tra aliquota legale e effettiva dipende dal fatto che gli ammortamenti anticipati<br />

riducono l’utile fiscale rispetto a quello civilistico 9 . Nel secondo, agli<br />

effetti degli ammortamenti anticipati, si sommano quelli, di gran lunga più<br />

consistenti, relativi alla deducibilità degli oneri finanziari. Il differenziale<br />

tra le aliquote medie, distinte in base al metodo di finanziamento, è pertanto<br />

molto ampio (circa 18 punti percentuali), soprattutto se vi è una bassa<br />

redditività dell’investimento.<br />

Nel caso, previsto dalla delega, di un limite alla deducibilità degli interessi<br />

passivi, la differenza tra la tassazione del capitale proprio e quella<br />

del capitale di terzi sarebbe più contenuta, ma vi sarebbe una convergenza<br />

delle aliquote effettive verso quelle pagate sul capitale proprio, che rap-<br />

Aliquota Irpeg<br />

al 33%<br />

7<br />

Si intende primo anno in relazione all’analisi non all’attività d’impresa.<br />

8<br />

Per poter confrontare i vari casi analizzati a parità di redditività è stato necessario fissare<br />

la redditività dell’impresa prima del pagamento delle imposte, si lascia variare la redditività<br />

dopo le imposte. Per cui il Roe (return on equity) preso a riferimento è dato come rapporto<br />

tra il risultato d’esercizio prima delle imposte e il patrimonio netto. Quest’ultimo è stato<br />

costruito come somma del capitale sociale più le riserve. Per i valori si è fatto riferimento<br />

a stime elaborate sui dati Mediobanca.<br />

9<br />

Solo nell’ipotesi in cui i mercati finanziari funzionino perfettamente, ovvero vi sia lo<br />

stesso rendimento del capitale proprio e del capitale di debito, diventa indifferente anticipare<br />

o posticipare un pagamento, come nel caso degli ammortamenti anticipati, in cui si posticipa.<br />

184


Tab. 4-35 — Aliquote medie effettive (1)<br />

(Valori percentuali)<br />

Metodi di finanziamento<br />

Alta redditività Media redditività Bassa reddività<br />

(Roe 16%) (Roe 9,6%) (Roe 5,6%)<br />

Con Irpeg a 33%<br />

Capitale proprio 31,7 30,4 29,9<br />

Debiti breve/termine 27,1 21,0 10,4<br />

Debiti medio lungo/termine 27,5 21,8 12,0<br />

Media ponderata (2) 29,5 25,9 20,6<br />

Irap e effetto deducibilità 20% (3)<br />

Alto valore aggiunto su risultato<br />

d’esercizio 30,6 (–5,1) 33,5 (–5,8) 38,5 (–6,8)<br />

Basso valore aggiunto su risultato<br />

d’esercizio 7,5 (–0,7) 7,5 (–0,7) 7,5 (–0,7)<br />

Con Irpeg a 35%, Dit al 19%<br />

Capitale proprio 26,5 20,4 18,6<br />

Debiti breve/termine 24,1 15,4 6,4<br />

Debiti medio lungo/termine 24,5 16,2 7,3<br />

Media ponderata (2) 25,4 18,1 12,7<br />

(1)<br />

Prelievo su utili più eventuale costo finanziamento dell’investimento. Si veda spiegazione<br />

nel testo.<br />

(2)<br />

Si considera che il finanziamento avvenga al 50% con apporti di capitale e debito.<br />

(3)<br />

In parentesi la diminuzione di aliquota media effettiva riferibile all’Irap nel caso di deducibilità<br />

del 20% del costo del lavoro.<br />

Fonte: Elaborazione Csc.<br />

presentano quindi un limite superiore. Su questo punto, la delega lascia indefiniti<br />

diversi elementi e non è quindi possibile fare una precisa simulazione<br />

quantitativa. In particolare la delega non esplicita i parametri in base<br />

ai quali dovrebbe scattare tale indeducibilità. La ratio della norma è<br />

quella di limitare comportamenti elusivi da parte dei soci non residenti,<br />

che finanzierebbe l’attività d’impresa preferibilmente tramite debito.<br />

Un confronto con l’attuale livello del carico fiscale è reso particolarmente<br />

incerto dalla frammentarietà che caratterizza in questo momento il<br />

sistema fiscale, frammentarietà inevitabile in una fase come l’attuale di<br />

transizione da un sistema a un altro. Si consideri infatti che nel 2002, le<br />

imprese possono utilizzare (in alternativa alla Dit) la Tremonti-bis, incentivo<br />

di natura temporanea su gli investimenti. La Dit, se utilizzata, viene<br />

comunque applicata ai soli incrementi patrimoniali maturati fino a giugno<br />

2001. Anche la rivalutazione dei cespiti aziendali effettuata nel 2001 avrebbe<br />

dovuto concorrere alla formazione del reddito assoggetabile alla Dit. Per<br />

il 2003, a legislazione vigente, la Dit dovrebbe essere considerata congelata<br />

e l’aliquota Irpeg dovrebbe passare da 36 a 35%.<br />

Si è quindi preferito considerare anche il caso in cui venga applicata<br />

un’aliquota Irpeg al 35% con il meccanismo Dit applicato sull’intero patrimonio<br />

netto (con aliquota al 19%). Si tratta cioè di un confronto tra due<br />

scenari a regime.<br />

Nei casi simulati, la Dit a regime comporta una differenza di tassazione<br />

tra investimenti finanziati con capitale proprio e quelli finanziati con<br />

del capitale di terzi al massimo di circa 11 punti percentuali. Dall’altro can-<br />

185


to la Dit, concedendo una deduzione dalla base imponibile simile per natura<br />

a quella concessa per gli oneri finanziari, estende al capitale proprio<br />

la stessa dipendenza delle aliquote dalla redditività: le aliquote variano dal<br />

25,4% al 12,7%. In questo scenario le aliquote medie ponderate risultano<br />

dai 4 agli 8 punti più basse che nello scenario precedente, la differenza tende<br />

a essere tanto più ampia quanto maggiore è la quota di finanziamento<br />

con capitale proprio. Per entrambi i casi sono state effettuate analisi di sensitività<br />

rispetto alla composizione del valore aggiunto, non riportate in tabella<br />

perché gli scostamenti sono modesti.<br />

Eliminazione<br />

Irap<br />

Per valutare di quanto diminuisce la pressione fiscale sul reddito di<br />

impresa nel caso di completa eliminazione dell’Irap si è costruito l’indicatore<br />

Irap esattamente come per il caso della tassazione dei redditi d’impresa,<br />

utilizzando di nuovo come denominatore la remunerazione del capitale<br />

proprio e di terzi. L’aliquota effettiva Irap così calcolata è sommabile<br />

con le altre relative all’Irpeg. L’indicazione che si ottiene rappresenta l’ammontare<br />

sottratto dalla remunerazione del capitale per il pagamento dell’Irap.<br />

Anche se formalmente l’Irap grava sul valore aggiunto netto, per la<br />

sua allocazione in bilancio (dopo l’utile di esercizio) e la sua indeducibilità<br />

dall’Irpeg nonchè per le modalità di pagamento viene percepita dai contribuenti<br />

come un’imposta sui redditi d’impresa. In parentesi è riportata anche<br />

la diminuzione di tale aliquota nel caso di deducibilità del costo del lavoro<br />

pari al 20% (tab. 4-35). Ad esempio, nel caso di alta redditività, di aliquota<br />

Irpeg al 33%, di impresa ad alta intensità di lavoro e di non eliminazione<br />

dell’Irap l’aliquota media ponderata riferita al reddito dell’investimento<br />

può essere stimata in 29,5 + 30,6 = 61,1; eliminando tutta l’Irap rimane<br />

il 29,5; con la deducibilità del 20% del costo del lavoro l’aliquota sarebbe<br />

29,5 + 30,6 – 5,1 = 56,0.<br />

Va sottolineato che la differenza tra la base imponibile Irap e il denominatore<br />

da noi utilizzato dipende sostanzialmente dal rapporto tra valore<br />

aggiunto e risultato d’esercizio. Da un’analisi dei dati Mediobanca si rileva<br />

che questo rapporto è molto variabile da settore a settore in dipendenza<br />

dell’intensità di capitale ma è anche molto variabile in dipendenza<br />

di fattori congiunturali, che hanno un impatto molto diverso sul valore aggiunto<br />

(meno sensibile al ciclo) e sul risultato d’esercizio.<br />

Per esemplificare la sensibilità dei risultati rispetto a questo parametro<br />

abbiamo considerato due diversi casi in cui il rapporto di base tra risultato<br />

d’esercizio e valore aggiunto è all’incirca pari a 2,5 (che poi varia<br />

in base alla redditività). Questo dato corrisponde, ad esempio, ai valori medi<br />

ottenuti nel periodo 1991-2000 per le imprese del settore energetico del<br />

campione Mediobanca. L’altro caso tipo è caratterizzato da un rapporto valore<br />

aggiunto su risultato d’esercizio pari circa a 6,5. Dai dati Mediobanca<br />

risulta che il valore medio sempre tra 1991-2000, per il settore manifatturiero,<br />

è stato circa 5,6. Nella nostra simulazione il carico relativo all’Irap<br />

varia da un massimo del 38,5% (imprese con un elevato rapporto valore aggiunto/risultato<br />

di esercizio e con una bassa redditività) ad un minimo di<br />

7,5% (imprese con un basso rapporto valore aggiunto risultato di esercizio);<br />

in quest’ultimo caso gli effetti legati alla redditività sono trascurabili. Come<br />

si è detto questi valori rappresentano la diminuzione di carico fiscale<br />

rapportato alla stessa base imponibile dell’imposta sulle società, nell’ipotesi<br />

di completa abrogazione dell’Irap.<br />

Si è inoltre evidenziato in parentesi di quanto diminuisce l’aliquota<br />

186


Irap effettiva nel caso di deducibilità del 20% del costo del lavoro. Nei nostri<br />

casi tipo, la riduzione di aliquota media effettiva può variare da 0,7 a<br />

5-7 punti, secondo la struttura di bilancio delle imprese. Nella fase di transizione<br />

quindi la deducibilità del 20% del costo del lavoro a fini Irap potrebbe<br />

non coprire per tutte le imprese (in particolare per quelle con un<br />

elevato rapporto tra valore aggiunto e risultato di esercizio e con una bassa<br />

redditività) lo svantaggio dell’eliminazione della Dit. In linea di principio<br />

le riforme prefigurate dalla legge delega possono quindi portare a redistribuzioni<br />

anche sensibili del carico fiscale tra le imprese. Per un’analisi<br />

più precisa occorrerà pertanto attendere come sarà in concreto dettagliata<br />

la clausola di salvaguardia e come il Documento di programmazione<br />

economico-finanziaria e le prossime leggi finanziarie moduleranno i tempi<br />

e l’entità degli interventi sull’Irap.<br />

187


Finito di stampare nel mese di giugno 2002<br />

dall’Industria Grafica Failli Fausto snc - Guidonia-Montecelio (Roma)

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