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2013 BRECCIA Bloody Omaha - Societa italiana di storia militare

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vedere ricreato sullo schermo lo sbarco a Dog Green, furono quasi<br />

unanimi: Steven Spielberg e la sua troupe avevano saputo catturare,<br />

come nessun altro prima <strong>di</strong> loro, l’essenziale <strong>di</strong> quella battaglia<br />

<strong>di</strong>sperata.<br />

Mio nonno ha settantadue anni ed è un veterano della seconda guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale, ma non ne aveva mai parlato con noi. […] La settimana scorsa<br />

siamo andati a vedere Salvate il soldato Ryan. Tutta la famiglia. Sul suo<br />

viso c’era un’espressione <strong>di</strong> in<strong>di</strong>fferenza e dubbio. Alla fine, però, ha<br />

pianto. Non lo avevo mai visto piangere. […] Quando ce ne siamo andati<br />

dal cinema, sotto la pioggia, le lacrime gli bagnavano ancora il viso. Ha<br />

fatto un solo commento: «Adesso sapete…» 19<br />

Adesso sappiamo, dunque. Ma che cosa? Non come sia davvero<br />

andata a <strong>Omaha</strong> Beach, questo è certo. Nemmeno che cosa significhi<br />

essere coinvolti in una battaglia: Sam Fuller, grande regista e veterano<br />

del D-Day, subito dopo aver girato The Big Red One (1980) <strong>di</strong>ede una<br />

risposta provocatoria, ma in un certo senso definitiva, a chi gli chiedeva<br />

come fosse possibile trasferire l’esperienza <strong>di</strong> guerra in un film:<br />

«Non si può fare. Il solo modo sarebbe aprire il fuoco, ma con munizioni vere,<br />

giusto sopra la testa della gente dentro il cinema». 20<br />

Cosa sappiamo, allora? Perché i primi venti minuti <strong>di</strong> Saving Private<br />

Ryan, che non rispettano – che non potevano rispettare, come ho cercato<br />

<strong>di</strong> mettere il luce – la realtà vissuta dai rangers del capitano Goranson, e<br />

che non possono comunque farci «provare» l’orrore della battaglia nelle<br />

nostre comode poltrone foderate <strong>di</strong> velluto, perché quelle scene sono<br />

state capaci <strong>di</strong> toccare corde nascoste e profonde, nei vecchi e nei<br />

giovani, nei veterani e nei loro <strong>di</strong>scendenti ignari <strong>di</strong> guerra? Perché sono<br />

state considerate quasi unanimemente la migliore ricostruzione <strong>di</strong> un<br />

combattimento della <strong>storia</strong> del cinema?<br />

Esistono a mio modo <strong>di</strong> vedere una risposta tecnica e una morale. La<br />

prima è più semplice: non c’è alcun dubbio, infatti, che pur scostandosi<br />

dalla realtà, Spielberg riesca a farlo, per così <strong>di</strong>re, con un realismo<br />

impressionante. Saving Private Ryan riesce a farci non solo vedere, ma<br />

ascoltare la furia del combattimento. Il coinvolgimento emotivo è<br />

fortissimo, giocato come mai era accaduto in passato sull’uso<br />

raffinatissimo del sonoro, che fin dalle prime immagini – il brontolio<br />

sordo dei motori <strong>di</strong>esel del mezzo da sbarco, il frangersi delle onde, i<br />

conati <strong>di</strong> vomito dei soldati tormentati dal mal <strong>di</strong> mare – è un elemento<br />

fondamentale della scena, e la rende quasi subliminalmente cre<strong>di</strong>bile:<br />

19 “Now You Know”, p. 15.<br />

20 Basinger 1998, p. 45.<br />

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