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Italo Calvino Le città invisibili - scienzaefilosofia.it

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RECENSIONI&REPORTS recensione<br />

<strong>Italo</strong> <strong>Calvino</strong><br />

<strong>Le</strong> c<strong>it</strong>tà <strong>invisibili</strong><br />

Oscar Mondadori, Milano 1993, pp. 164, € 7,23<br />

È una danza tra gli spazi quella<br />

costru<strong>it</strong>a da <strong>Italo</strong> <strong>Calvino</strong> attraverso<br />

la voce di Marco Polo e l’orecchio del<br />

Gran Kan Kublai; una danza a partire<br />

dalla quale il lettore può riconoscere<br />

i suoi luoghi: quelli della nostalgia e<br />

quelli del desiderio, i luoghi presenti<br />

e quelli non ancora ab<strong>it</strong>ati, quelli<br />

della memoria e gli altri dell’assenza.<br />

Una sorta di Mille e una notte delle<br />

c<strong>it</strong>tà, che ogni volta di nuovo il<br />

viandante Marco Polo intesse a favore<br />

del sedentario sovrano, per esorcizzare<br />

la malinconia delle sue sere.<br />

Dal racconto si ergono case, ponti e strade, e volti indaffarati a<br />

vivere la v<strong>it</strong>a. Ma esisteranno davvero queste c<strong>it</strong>ta? È la domanda<br />

che a un certo punto inquieterà il sovrano triste, cui pare che<br />

Marco Polo non si sia mai mosso dal suo giardino, e che tutti quei<br />

volti che si avvicendano tra templi, tappeti, alberi e strade,<br />

esistano solo perché pensati da loro, immobili da sempre in un<br />

sontuoso palazzo, a dispetto del movimento della v<strong>it</strong>a che narrano:<br />

«Il Gran Kan decifrava i segni, però il nesso tra questi e i<br />

luoghi vis<strong>it</strong>ati rimaneva incerto […] Ma, palese o oscuro che<br />

fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il potere degli<br />

emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né<br />

confondere» (p. 22). Del resto il Gran Kan possiede un ver<strong>it</strong>iero<br />

atlante dove tutte le c<strong>it</strong>tà del suo impero sono disegnate palazzo<br />

per palazzo, strada per strada; sono mappe consolanti e veridiche<br />

di quanto esiste, mentre il racconto che Marco tesse cambia di<br />

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volta in volta e a seconda dell’interlocutore, per cui Giava<br />

presenta una forma per gli scaricatori di porto, un’altra per i<br />

pirati genovesi, un’altra ancora per i gondolieri, poiché «chi<br />

comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio» (p. 138).<br />

Miserevole possesso l’atlante del Gran Kan! La mappa non è il<br />

terr<strong>it</strong>orio e il navigante della Serenissima con le sue descrizioni<br />

va solo contrabbandando «stati d’animo, stati di grazia, elegie»<br />

(p. 99).<br />

L’inestimabile nel racconto di Marco Polo sta infatti in quel<br />

vuoto tra le parole, nello spazio sospeso dalla voce che si<br />

interrompe e che lascia libera la divagazione del pensiero,<br />

cosicché è possibile errare tra gli interstizi del silenzio,<br />

«fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa» (p. 39).<br />

Il viaggio diventa allora un inoltrarsi nell’invisibile, una<br />

passeggiata tra i possibili, nella regione del desiderio, che<br />

mentre si produce è già ricordo.<br />

L’atlante di Kublai custodisce intatte le differenze fra i luoghi,<br />

mentre chi è da sempre in viaggio, come Marco Polo, sa bene che a<br />

furia di peregrinare a poco a poco contorni e differenze si<br />

smussano e «ogni c<strong>it</strong>tà va somigliando a tutte le c<strong>it</strong>tà» (p. 139).<br />

<strong>Le</strong> interpretazioni hanno sost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>o i fatti, i segni rinviano in<br />

una infin<strong>it</strong>a ricorsiv<strong>it</strong>à ad altro da sé, e anche le ident<strong>it</strong>à si<br />

frantumano all’interno di spazi che assumono la veste di passaggi,<br />

luoghi diafani di transizione; la consistenza delle parole di<br />

Marco Polo che dipinge con forza sempre nuova gli oggetti che<br />

circondano la v<strong>it</strong>a: «croste di formaggio, carte unte, resche,<br />

risciacquatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende […]<br />

scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, bottoni<br />

perduti, carte di cioccolatini […]» (p. 112), sembra cozzare con<br />

la loro fugac<strong>it</strong>à, con la dissoluzione inev<strong>it</strong>abile cui ogni<br />

produzione umana è irrimediabilmente votata.<br />

Nello spazio eminentemente antropico della c<strong>it</strong>tà, significante per<br />

eccellenza, ciascuno può mettere ciò che vuole: «nomi di uomini<br />

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RECENSIONI&REPORTS recensione<br />

illustri, virtù, numeri, classificazioni vegetali e minerali, date<br />

di battaglie, costellazioni, parti del discorso» (p. 15), in un<br />

caleidoscopio sfaccettato dove memoria e oblio, v<strong>it</strong>a e morte si<br />

intrecciano senza soluzione di continu<strong>it</strong>à.<br />

E allora ecco apparire Clarice, c<strong>it</strong>tà gloriosa, che più volte<br />

cadde e rifiorì, rabberciando e riciclando le vestigia del suo<br />

antico splendore, dove i preziosi tendaggi di broccato finivano a<br />

fare da lenzuola e il basilico veniva piantato nelle urne<br />

cinerarie. Di essa dunque restano solo il nome, l’ubicazione e gli<br />

oggetti più difficili da rompere; oppure <strong>Le</strong>onia, la cui opulenza<br />

si misura «dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far<br />

posto alle nuove» (p. 113). C’è poi Laudonia, la terra dei non<br />

nati, di tutto l’inespresso che attraversa la mente dei vivi come<br />

dubbio angoscioso, arcano da interrogare.<br />

E Ancora Trude, c<strong>it</strong>tà globale, che si distingue dalle altre solo<br />

per il nome che il viaggiatore legge all’aeroporto, poiché il<br />

mondo pare «ricoperto da un’unica Trude, che non comincia e non<br />

finisce» (p. 129). C’è poi Raissa, che ricorda la v<strong>it</strong>a, disperata<br />

e violenta, fatta di l<strong>it</strong>igi e piatti rotti, ma che nasconde in<br />

ogni angolo un bambino che da una finestra ride e un muratore che<br />

corteggia un’ostessa, un ombrellaio che festeggia un buon affare e<br />

una gran dama innamorata di un ufficiale che le ha sorriso nel<br />

saltare l’ultima siepe. A Raissa, c<strong>it</strong>tà triste «corre un filo<br />

invisibile che allaccia un essere vivente a un altro […] cosicché<br />

a ogni secondo la c<strong>it</strong>tà infelice contiene una c<strong>it</strong>tà felice che<br />

nemmeno sa d’esistere» (p. 149).<br />

Allora poco importa che i sandali di Marco Polo abbiano davvero<br />

calcato le polveri del globo e che il sovrano triste possegga<br />

realmente un così vasto impero; la potenza del racconto non si<br />

fonda sul discorso apofantico e le c<strong>it</strong>tà descr<strong>it</strong>te avrebbero la<br />

stessa forza anche se emerse dal dialogo di «due straccioni<br />

soprannominati Kublai Kan e Marco Polo» intenti a rovistare «in<br />

uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arruggin<strong>it</strong>i,<br />

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brandelli di stoffa, cartaccia»; anche se si trattasse del<br />

vaneggiamento di due uomini ebbri, che, con pochi sorsi di cattivo<br />

vino riescono a vedere «intorno a loro splendere tutti i tesori<br />

dell’Oriente» (p. 104).<br />

<strong>Le</strong> c<strong>it</strong>tà <strong>invisibili</strong> che ogni sera compaiono dinnanzi agli occhi<br />

stanchi di Kublai, appaiono a seconda degli stati d’animo eden<br />

perduti e anelati, o inferni minacciosi dai quali fuggire.<br />

Il mon<strong>it</strong>o finale del mercante‐narratore, vale allora per le c<strong>it</strong>tà<br />

<strong>invisibili</strong> e per quelle visibili, per quelle di ieri e per quelle<br />

di oggi, perché riguarda il nostro ab<strong>it</strong>are nel mondo: «L’inferno<br />

dei viventi non è qualcosa che sarà; se c’è n’è uno, è quello che<br />

è già qui, l’inferno che ab<strong>it</strong>iamo tutti i giorni, che formiamo<br />

stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo<br />

riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino<br />

al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige<br />

attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere<br />

chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e<br />

dargli spazio» (p. 164).<br />

FABIANA GAMBARDELLA<br />

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