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Georges Didi-Huberman La conoscenza accidentale. Apparizione e ...

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S&F_n. 9_2013<br />

<strong>Georges</strong> <strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong><br />

<strong>La</strong> <strong>conoscenza</strong> <strong>accidentale</strong>.<br />

<strong>Apparizione</strong> e sparizione delle immagini<br />

tr. it. a cura di C. Tartarini<br />

Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 243 + ill., € 28<br />

Il primo saggio di questa raccolta<br />

parla di uno strano animale e presenta<br />

un incedere narrativo perlomeno<br />

insolito: «vorrei parlarvi del mio<br />

animale preferito, o meglio di quello<br />

che un giorno mi provocò il terrore<br />

più squisito, il terrore del<br />

dissimile» (p. 19). Si tratta di un<br />

fasmide, uno di quegli animali che<br />

fanno del mimetismo, di una<br />

particolare forma di mimetismo, la<br />

loro modalità di sopravvivenza, si<br />

tratta di quella classe di insetti<br />

meglio conosciuti come insetti‐stecco. <strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong> passeggia<br />

dinanzi alle teche del Jardin des Plantes di Parigi e, dopo aver<br />

riconosciuto, meravigliato dal loro mimetismo, vipere e serpenti<br />

di ogni genere e poi scorpioni e altri insetti velenosi, giunge<br />

dinanzi alle teche che contengono fasmidi. Il suo sguardo, la sua<br />

ricerca e la sua curiosità non vengono immediatamente<br />

accontentati, all’interno del vivarium non appare nulla. È il<br />

problema del dettaglio, problema centrale di questa raccolta,<br />

perché quando non si riesce a vedere nulla si cerca il dettaglio<br />

che possa svelare la visione, che possa portare all’essere ciò che<br />

ama nascondersi. Eppure <strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong> vede soltanto foglie un po’<br />

accartocciate pendere da rami rinsecchiti, null’altro. Null’altro<br />

finché, discostatosi dalla paranoia del dettaglio e fatto qualche<br />

passo indietro, dinanzi ai suoi occhi appare fluttuante e<br />

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RECENSIONI&REPORTS recensione<br />

attraversato da lievi movimenti il fasmide che altro non è se non<br />

la scenografia nella quale è immerso. Il fasmide non imita qualche<br />

dettaglio della natura, imita l’ambiente stesso, è esso stesso<br />

l’ambiente che imita. Il fasmide è la foglia di cui si nutre, è il<br />

ramo sul quale è poggiato. L’apparizione del fasmide ha la potenza<br />

di una rivelazione: «il fasmide – animale mitico, come avrete<br />

capito, per qualsiasi antiplatonismo – trae forza dal seguente<br />

paradosso: pur realizzando una specie di perfezione imitativa,<br />

infrange la gerarchia che qualsiasi imitazione esige» (p. 23), in<br />

poche parole «non ci sono più il modello e la sua copia: c’è una<br />

copia che divora il suo modello e un modello che non esiste più,<br />

ed è solo la copia che, per una strana legge di natura, gode del<br />

privilegio di esistere» (ibid.). L’elemento fondamentale è la<br />

dissomiglianza, cioè il fatto che è necessario un duplice mondo<br />

affinché vi sia somiglianza, duplice mondo che il fasmide fa<br />

saltare (bastava un insetto‐stecco per far saltare il<br />

platonismo!), perché esso stesso è ciò che imita, diviene ciò che<br />

imita. Nell’apparizione del fasmide, nel suo venire allo scoperto<br />

per un momento, un momento senza precisione di dettaglio e senza<br />

costruzione immaginativa, si confondono quelle che sono le quattro<br />

dimensioni dell’essere dell’immagine che in questa eterogenea<br />

raccolta vengono raccontate: somigliare apparire guardare<br />

scomparire.<br />

Il titolo originale di questa raccolta di saggi e racconti edita<br />

nel 1998 e tradotta in italiano nel 2011 è allora Phasmes. Essais<br />

sur l’apparition. Ed è proprio il fasmide a rappresentarne l’unità<br />

nell’eterogeneità: «ho preso l’abitudine di ordinare questi brevi<br />

racconti di “apparizioni” – sperimentate di fronte a oggetti<br />

eterocliti, cose della vita, giocattoli, testi mistici, frammenti<br />

di quadri, insetti, macchie d’inchiostro, racconti di sogni,<br />

relazioni etnografiche, sculture, inquadrature cinematografiche e<br />

così via – sotto la voce Fasmidi» (p. 13). I fasmidi come racconti<br />

e saggi di apparizioni accidentali rappresentano un sentiero<br />

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S&F_n. 9_2013<br />

secondario nella ricerca, una maniera di raccontare (o cercare di<br />

raccontare, di tradurre in parole) ciò che ha il suo senso<br />

soltanto nell’accidentalità, non già discorso sull’essere, ma sui<br />

suoi accidenti.<br />

Ma non si tratta soltanto di suggestioni raccolte da chi, storico<br />

dell’arte ed esperto di immagini come luogo della possibilità del<br />

pensiero, subisce il fascinans e il tremendum della visione e dei<br />

suoi usi molteplici. Non si tratta soltanto di suggestioni perché<br />

a tratti e disseminate appaiono alcune indicazioni di carattere<br />

teorico che non vanno sottovalutate. Nel saggio Un candore<br />

affascinante, trascrizione di un intervento tenuto a un convegno<br />

sulla presenza di Freud nella cultura francese, <strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong> si<br />

chiede se abbia senso parlare di un’“estetica freudiana”, al di là<br />

della troppo semplicistica considerazione secondo la quale Freud,<br />

nella cura dell’isteria prima e poi delle psicopatologie, avrebbe<br />

sostituito il vedere (tipico della clinica positivista di Charcot<br />

– Charcot stesso disegnava, cercava la forma) con l’ascoltare.<br />

Freud ha scritto un Leonardo, sintomo che la modalità di<br />

apparizione delle immagini nell’arte fosse degna di analisi almeno<br />

quanto quella delle immagini in sogno. E così sarebbe nata una<br />

scuola di estetica freudiana (in senso esplicito o implicito) che<br />

ritiene che l’analisi di un’opera d’arte debba muovere dal<br />

ritrovamento di quanti più dettagli è possibile per la<br />

determinazione del senso profondo di un’opera. Si tratta del<br />

problema del dettaglio, di quel dettaglio tanto cercato e che non<br />

riusciva a mostrare la potenza d’apparizione del fasmide. Secondo<br />

<strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong> c’è una sorta di sotterranea opposizione tra figura<br />

figurante che non raffigura ma prefigura – l’opera d’arte è<br />

naturalmente incompiuta e imperfetta perché la stessa materia<br />

della pittura non può produrre corpi realmente isolati, la materia<br />

unica mescola gli elementi della raffigurazione e la fa divenire<br />

virtuale – e figura figurata, il dettaglio il quale spesso non è<br />

che una costruzione dello storico dell’arte, vera e propria<br />

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RECENSIONI&REPORTS recensione<br />

ossessione della visibilità compiuta e perfetta, della leggibilità<br />

assoluta dell’immagine come se si trattasse di parole (ma poi<br />

sarebbe da chiedere: le parole sono davvero così leggibili in<br />

maniera dettagliata?) Lo storico dell’arte allora dovrebbe andare<br />

«al di là del principio di dettaglio» (p. 95) così come è<br />

necessario andare al di là del sintomo e cercare altrove il<br />

significato della malattia. Il luogo della ricerca di senso<br />

dell’opera d’arte non è la clinica di Charcot ma un vivarium<br />

abitato da fasmidi.<br />

Nel saggio I paradossi dell’essere da vedere <strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong>, forse<br />

non troppo sotterraneamente attratto dai platonismi di qualsiasi<br />

sorta, discute quello che gli sembra essere il problema<br />

fondamentale in Sant’Agostino, il fatto che «l’uomo tenda verso il<br />

visibile come tende verso il nulla» (p. 129) e che quest’uomo<br />

«potrà salvarsi solo se si distaccherà da questa diversione<br />

nell’essere – questa perversione –, attraverso un movimento di<br />

conversione che gli offrirà qualche possibilità di rivolgersi<br />

all’essere» (p. 130). Ma questo movimento di conversione conduce a<br />

un paradosso. Se Dio è l’essere da vedere, da contemplare, la luce<br />

in quanto ciò che permette la visibilità stessa, l’esistenza delle<br />

cose, ma se la visibilità si ha attraverso gli occhi e ciò di cui<br />

si nutrono gli occhi e l’animo peccatore degli uomini non è altro<br />

che nulla, allora la visione, il guardare contiene in sé un<br />

paradosso ineludibile, che si può guardare veramente soltanto<br />

quando si è morti, quando la visibilità stessa obbedirà a regole<br />

totalmente differenti e la visione non sarà altro che una metafora<br />

senza referente.<br />

Questo libro si legge allo stesso modo con facilità e con<br />

difficoltà. Presuppone letture su più livelli e la stessa<br />

scrittura, sempre sul filo tra saggistica e letteratura, mette<br />

alla prova il lettore. A tratti si rimane semplicemente<br />

suggestionati e affascinati da un grande prosatore moderno, il<br />

pensiero si lascia trascinare dalle immagini (di parole) perché le<br />

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S&F_n. 9_2013<br />

suggestioni sono veramente efficaci, plasmano il pensiero mentre<br />

vengono assorbite dalla lettura. C’è il racconto del sogno di <strong>La</strong><br />

solitudine a due dove una folla di immagini intricate come un<br />

rebus sono esistite, esistono ed esisteranno nella realtà perché<br />

«tutte le nostre estreme solitudini d’immagini sono l’organo<br />

stesso che ci permette di stare in contatto con la comunità […] il<br />

massimo vertice della nostra solitudine immaginaria sarebbe<br />

allora, né più né meno, il massimo vertice della nostra condizione<br />

comune, in ciò che sceglie per noi la figura del destino» (p. 30).<br />

Della stessa tipologia, seppur diversissimo, è Ritornanza di una<br />

forma che si apre con una descrizione di una passeggiata natalizia<br />

all’interno di un mercato di figurine nei pressi di piazza Navona<br />

a Roma; in questo luogo <strong>Didi</strong>‐<strong>Huberman</strong> racconta di sentirsi<br />

attratto da un elemento di presepe napoletano e si sente attratto<br />

da quella «massa oblunga, indefinibile, immobile […] di un cattivo<br />

gusto estremo» (p. 44) perché, attraverso quella che con Warburg<br />

può essere definita Nachleben, sopravvivenza delle forme, vi<br />

riconosce un ex voto viscerale etrusco del III secolo a. C. Anche<br />

questo è il racconto di uno stupore: «sembra proprio che sia la<br />

stessa forma ad essere transitata, persistita, “ritornata” sotto i<br />

miei occhi stupefatti» (p. 45). <strong>La</strong> ricchezza di questa raccolta è<br />

grande: c’è l’eremita Filoteo il Sinaita, L’uomo che inventò il<br />

verbo “fotografare” (pp. 53‐59), che avrebbe voluto perdersi nella<br />

luce e che trascorreva le giornate al sole torrido del deserto,<br />

aspettando il momento in cui Dio si fosse impresso in lui come un<br />

sigillo, photeinographestai. E poi c’è il sangue della merlettaia<br />

di Vermeer, le macchie d’inchiostro di Victor Hugo e le xilografie<br />

tedesche del XV sec., e poi ancora Beato Angelico, una tomba<br />

romana, il “cubo” di Giacometti e la topografia esasperata del<br />

film Shoah di <strong>La</strong>nzmann.<br />

Sono scritti che vanno presi per quello che sono, accidentali come<br />

le cose che raccontano, come le immagini che studiano e producono:<br />

«davanti a queste cose fortuite – cose di passaggio, ma apparenti<br />

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RECENSIONI&REPORTS recensione<br />

– siamo improvvisamente colti dall’irragionevole desiderio di<br />

abbandonare tutto e rivolgerci, senza perdere un attimo, al loro<br />

potere di fascinazione» (p. 12), ma l’accidente rappresenta sempre<br />

qualcosa che sfugge, qualcosa che accade ma che sarebbe potuto<br />

anche non accadere, qualcosa di impermanente e il pensiero, in<br />

scritti a questo punto necessariamente brevi, necessariamente<br />

intimi, necessariamente facili e complessi allo stesso tempo, deve<br />

adattarsi «all’oggetto apparente così come l’insetto chiamato<br />

fasmide si adatta alla foresta in cui penetra» (p. 13). In poche<br />

parole: l’<strong>accidentale</strong> è sempre un esercizio di differenza, anzi<br />

più propriamente un esercizio di dissomiglianza.<br />

DELIO SALOTTOLO<br />

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