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Parmenide<br />
<strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong><br />
Introduzione, traduzione, note e commento a cura di<br />
Dario Zucchello
Introduzione<br />
Il Poema e il suo tema<br />
Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di<br />
un'unica opera:<br />
οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα∙ Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας<br />
«altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto» (DK 28A13),<br />
un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di Περὶ φύσεως:<br />
ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π. ... καὶ μέντοι οὐ<br />
περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι<br />
διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν<br />
«Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong> .... E certo in questi scritti<br />
trattano non solo di ciò che è oltre la <strong>natura</strong>, ma anche delle cose <strong>natura</strong>li e per questo<br />
probabilmente non disdegnarono di intitolarli <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong>» (Simplicio, DK 28A14).<br />
L'indagine περὶ φύσεως<br />
Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie 1 , sulla<br />
scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως,<br />
anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenisse<br />
attraverso la citazione dell’incipit (che doveva risultare particolarmente incisivo), con<br />
l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo,<br />
analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto) 2 .<br />
Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως<br />
almeno ai testi della metà del V secolo a.C.:<br />
Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν<br />
«Empedocle e gli altri che scrissero sulla <strong>natura</strong>» (De prisca medicina cap. 20).<br />
È opinione ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per<br />
classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa direzione è<br />
possibile che, in particolare, la SunagwgÔ di Ippia abbia contribuito a fissare un certo numero<br />
di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la<br />
denominazione Περὶ φύσεως, il termine generico φυσιόλογος 3 . Si tratta, infatti, di uno dei<br />
primi 4 sforzi "dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele) intesa a<br />
selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli enunciati trovati in ogni<br />
genere testuale (poetico e in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire linee<br />
di continuità 5 .<br />
In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V<br />
secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile un gruppo<br />
di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla <strong>natura</strong> delle cose: sebbene<br />
1 W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194.<br />
2 G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e<br />
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 12.<br />
3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di<br />
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296.<br />
4 Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli insolubili<br />
contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele.<br />
5 Balaudé, op. cit., p. 291.<br />
2
isulti problematico accertare se coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero<br />
consapevoli di contribuire a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione<br />
o incipit dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che almeno tra i contemporanei di<br />
Platone si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla <strong>natura</strong><br />
(φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con Socrate 6 .<br />
L'espressione Περὶ φύσεως<br />
A quali contenuti ci si intendeva riferire con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da<br />
attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf 7 , che al problema ha dedicato un'ampia<br />
indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia dell'universo, dalle origini<br />
alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo<br />
(<strong>natura</strong>le e umano), dall'inizio alla fine.<br />
In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φύσις: nella forma attivatransitiva<br />
φύω, il radicale del sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella<br />
medio-passiva-intransitiva φύομαι, invece, «crescere, originare, nascere». La prima<br />
occorrenza del termine φύσις, nel libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle<br />
istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace»<br />
(φάρμακον ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe:<br />
Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta<br />
medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «<strong>natura</strong>» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in<br />
quel contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini<br />
(ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes<br />
rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le<br />
sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes si<br />
riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine,<br />
quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo<br />
anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente<br />
da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo).<br />
In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca:<br />
τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι<br />
καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον∙ γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν<br />
ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ<br />
φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους<br />
λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται<br />
«Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia<br />
subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di<br />
esperienza, impegnati in parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa<br />
secondo la sua <strong>natura</strong> e mostrando come è. Ma gli altri uomini rimane celato tanto quello che<br />
fanno da svegli, quanto quello che fanno dormendo» (DK 22B1)<br />
φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ<br />
«la <strong>natura</strong> [profonda] ama nascondersi» (DK 22B123).<br />
Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più resa dagli<br />
interpreti moderni intendendo φύσις come «<strong>natura</strong>, essenza», incrociando i due frammenti<br />
eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il<br />
6 W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early<br />
Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici,<br />
cit., p. 357.<br />
7 Op. cit., pp. 28-9.<br />
3
fenomeno 8 . In questa accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn 9 ha<br />
marcato, invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso "tecnico" del<br />
termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il «carattere essenziale» di una cosa,<br />
unitamente al processo da cui scaturirebbe: la comprensione della «<strong>natura</strong>» di una cosa<br />
passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf<br />
valorizza la dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così<br />
come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà» 10 .<br />
Il modello nella tradizione medica<br />
Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma<br />
dell'esistenza (almeno alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata<br />
come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello:<br />
Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ<br />
οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος∙ ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς<br />
θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ<br />
Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ<br />
ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται<br />
σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν<br />
ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ<br />
ἰητρικῆς.<br />
«Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la [scienza] medica a<br />
meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò deve conoscere colui che intenda curare<br />
correttamente gli uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di<br />
Empedocle o degli altri che scrissero sulla <strong>natura</strong>: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato<br />
dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da medici e filosofi sulla<br />
<strong>natura</strong> abbia più a che fare con il disegno che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si<br />
possa conoscere qualcosa di chiaro sulla <strong>natura</strong> se non attraverso la medicina» (De prisca<br />
medicina cap. 20).<br />
L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine medica e indagine<br />
περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto all'approccio di coloro che<br />
ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè speculazioni - per l'indagine dei<br />
fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ<br />
καὶ ὁδὸς) della medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del<br />
tempo e l'osservazione 11 . Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che egli<br />
andava criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui<br />
estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι):<br />
Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω<br />
καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, καὶ<br />
ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.<br />
«Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto all'uomo e<br />
a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e<br />
la malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia» (De carnibus 1).<br />
8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, «Philosophie<br />
Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 16-7.<br />
9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis<br />
1994 (edizione originale 1960), pp. 201-2.<br />
10 Naddaf, op. cit., p. 15.<br />
11 Naddaf, op. cit., pp. 24-5.<br />
4
Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui<br />
polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo schema adottato è<br />
infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione di tutte le cose; (ii) processo di<br />
discriminazione degli elementi (etere, aria, terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il<br />
parallelo tra formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente<br />
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta<br />
confermato dall'autore anonimo del De diaeta:<br />
Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν<br />
γνῶναι καὶ διαγνῶναι∙ γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ<br />
ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται∙ εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται,<br />
ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι∙ εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον<br />
ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν<br />
«Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima<br />
conoscere e riconoscere la <strong>natura</strong> di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal<br />
principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella composizione<br />
originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se poi non conosce quel che<br />
prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato» (De diaeta<br />
I.2)<br />
Conoscere «la <strong>natura</strong> di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto<br />
intervento medico: ciò implica evidentemente conoscere (i) quanto costituisce originariamente<br />
l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’<br />
ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται).<br />
Conoscere la <strong>natura</strong> comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo<br />
processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a due<br />
elementi originari, fuoco e acqua:<br />
Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν<br />
μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος<br />
«I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere di<br />
differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua» (De diaeta I.3)<br />
L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia)<br />
e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle<br />
testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 :<br />
l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla<br />
cosmogonia.<br />
Altre tracce antiche del modello<br />
Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV<br />
secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e<br />
dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della<br />
letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella<br />
narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre passo del<br />
Fedone platonico:<br />
ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ<br />
καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν∙ ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας<br />
ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι<br />
12 Naddaf, op. cit., pp. 22-3.<br />
5
«Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano<br />
indagine sulla <strong>natura</strong>. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni<br />
cosa si generi, perché si corrompa e perché esista» (96a).<br />
Il filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul<br />
protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già<br />
riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ<br />
καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di<br />
dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della<br />
Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della<br />
esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria<br />
«seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le<br />
cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause<br />
fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del<br />
tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico,<br />
egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una<br />
prospettiva filosofica peculiare 13 .<br />
Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία<br />
ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista<br />
come Senofonte:<br />
οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε<br />
λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ<br />
πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ<br />
τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων<br />
«Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si<br />
interessava della <strong>natura</strong> di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando<br />
come è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei<br />
fenomeni celesti» (Senofonte, Memorabili, I.1.11).<br />
Non solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra<br />
sapienza e ricerca «sulla <strong>natura</strong> di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii)<br />
la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii)<br />
l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται<br />
τῶν οὐρανίων).<br />
Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del <strong>natura</strong>lismo presocratico è<br />
infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck) 14 :<br />
ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας<br />
ἔσχε μάθησιν,<br />
μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην<br />
μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν,<br />
ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως<br />
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη<br />
καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως.<br />
τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν<br />
ἔργων μελέδημα προσίζει<br />
13 M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso<br />
filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 344.<br />
14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie<br />
philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic<br />
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20.<br />
6
«Beato è colui che alla ricerca<br />
ha dedicato la sua vita;<br />
egli né i suoi concittadini danneggerà<br />
né contro di loro compirà atti malvagi,<br />
ma, osservando della immortale <strong>natura</strong><br />
l'ordine che non invecchia, ricercherà<br />
da quale origine fu composto e in che modo.<br />
Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi».<br />
In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra<br />
contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «<strong>natura</strong><br />
immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto<br />
degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il<br />
κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il<br />
risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non<br />
può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe.<br />
Il modello peripatetico<br />
Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone<br />
interpretativo che ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini<br />
della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono»<br />
(τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di tutte le cose»<br />
(ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così<br />
argomentando:<br />
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται<br />
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο<br />
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι<br />
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης<br />
«ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso<br />
cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle<br />
affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono<br />
che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale <strong>natura</strong> si conserva sempre».<br />
(Metafisica I.3 983b8-13)<br />
Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella<br />
riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente,<br />
ovvero, come lo stesso Aristotele precisa:<br />
ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ<br />
τούτων<br />
«come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica <strong>natura</strong>, quale<br />
l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio» (Fisica I.6 189b2),<br />
all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή)<br />
delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto<br />
propone delle origini in Anassimandro:<br />
[A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα<br />
κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι<br />
στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς<br />
καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους∙ ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς<br />
ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς<br />
ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ<br />
7
λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος<br />
θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ<br />
ταῦτα∙ οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’<br />
ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]<br />
«Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per<br />
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di<br />
quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra <strong>natura</strong> infinita, da cui originano tutti i cieli<br />
e i mondi in essi: "è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno<br />
origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto<br />
della colpa, secondo l’ordine del tempo" [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente<br />
allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne<br />
adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli<br />
poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei<br />
contrari, a causa del movimento eterno [...]» (Simplicio, DK 12A9).<br />
Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere<br />
chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio:<br />
(i) l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a<br />
generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά);<br />
(ii) la formazione – nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi»<br />
(στοιχεία), costitutivi materiali donde (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro<br />
generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la loro<br />
corruzione;<br />
(iii) le modalità del processo dalla <strong>natura</strong> originaria, attraverso gli elementi, agli enti:<br />
«secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου<br />
τάξιν);<br />
(iv) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i<br />
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας).<br />
Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ φύσεως,<br />
un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia originaria (secondo<br />
l'interpretazione di Bur<strong>net</strong> 15 ), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle<br />
«cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò<br />
doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore<br />
dell'Antica medicina prendeva le distanze.<br />
Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e<br />
abbracciare invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è<br />
suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente <strong>net</strong>to il<br />
focus cosmologico:<br />
οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς<br />
καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον,<br />
καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης<br />
ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς<br />
ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν.<br />
«Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla <strong>natura</strong>, indagarono, circa il principio materiale<br />
e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che<br />
cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso,<br />
poiché la materia sostrato ha una certa siffatta <strong>natura</strong> per necessità, ad esempio calda quella del<br />
fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, 640b4-12. Traduzione di A.<br />
Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002).<br />
15 J. Bur<strong>net</strong>, Early Greek Philosophy, Black, London 1920 3 , pp. 11-2.<br />
16 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32.<br />
8
La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες)<br />
sarebbe stata variamente modulata intorno a:<br />
(i) <strong>natura</strong> e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς);<br />
(ii) individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος);<br />
(iii) modalità di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo»<br />
(τὸν κόσμον γεννῶσιν).<br />
Parmenide e la φύσις<br />
Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno<br />
contribuito a trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto<br />
probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono univoche<br />
nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ<br />
ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto:<br />
ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης [...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει<br />
τοῦτον τὸν τρόπον<br />
«Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo<br />
modo …» (Adv. Math. VII, 111).<br />
Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di<br />
Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως.<br />
Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία<br />
Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia,<br />
alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo<br />
Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242b6-251a4), che costituisce<br />
indubbiamente l'antecedente diretto della disamina dossografica aristotelica, il panorama delle<br />
teorie dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna<br />
storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su Parmenide:<br />
Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν<br />
ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν<br />
«Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto<br />
si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano» (242c4-6).<br />
L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra<br />
coloro che riducono «tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono<br />
l'essere (οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε καὶ<br />
ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica"<br />
adottata non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in<br />
particolare, l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί 17 :<br />
Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ<br />
ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους<br />
τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται∙ δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ<br />
ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι<br />
17 Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L.<br />
Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford<br />
1999, p. 190.<br />
9
«Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri<br />
sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario,<br />
diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece,<br />
sostiene che [gli esseri] sono due - umido e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li<br />
unisce in matrimonio» (242 c8-d4).<br />
È appunto all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero<br />
precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del<br />
“monismo”. È chiaro nel contesto, tuttavia, come esso sia da intendere non ingenuamente -<br />
non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà<br />
fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo:<br />
τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς<br />
ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις<br />
«da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie<br />
storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere» (Sofista<br />
242d5-6).<br />
Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale<br />
alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito 19 : nella prospettiva di questa<br />
ricerca, in particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide<br />
dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι).<br />
In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone:<br />
σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ<br />
καλῶς τε καὶ εὖ∙ ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα<br />
καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ πολλά, καὶ οὕτως<br />
ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά<br />
«Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò<br />
in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche<br />
lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i<br />
molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile,<br />
mentre in realtà affermate le stesse cose»,<br />
mentre il Teeteto (180e) sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso:<br />
καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις<br />
διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ<br />
κινεῖται<br />
«e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a<br />
tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e<br />
questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi».<br />
Ciò che questi passi confermano è – almeno nella elaborazione della maturità di Platone 20 - la<br />
riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con una implicita<br />
valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e):<br />
18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν<br />
ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide<br />
in direzione delle origini. Su questo il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta,<br />
BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-2.<br />
19 Palmer, op. cit., pp. 191-2.<br />
20 Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of<br />
Parmenides, cit..<br />
10
Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει,<br />
πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,<br />
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ∙ τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον<br />
οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ,<br />
τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη<br />
ἔχειν<br />
«Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide:<br />
da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla,<br />
a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche<br />
misura di più,<br />
o in qualche misura di meno, da una parte o dall'altra,<br />
essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti»,<br />
e che il Timeo sembra esplicitare 21 , riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del<br />
demiurgo:<br />
σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα<br />
περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα<br />
σχήματα∙ διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον,<br />
κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ<br />
σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν<br />
αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν<br />
ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν∙ πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς<br />
δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ<br />
τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ<br />
οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν—αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ<br />
φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης<br />
γέγονεν<br />
«E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva<br />
contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure<br />
possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante<br />
dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa,<br />
giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno<br />
esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere<br />
all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che dovesse<br />
essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in<br />
seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso<br />
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da<br />
offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e<br />
ogni passione» (33b-c) 22 .<br />
Indizi lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta<br />
di entità cosmica 23 , nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della<br />
divinità cosmica di Senofane 24 . Come ha prospettato Brisson 25 , la stessa discussione del<br />
Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa:<br />
21 Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo.<br />
22 Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003.<br />
23 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24.<br />
24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss..<br />
25 L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris<br />
1994, pp. 20-21.<br />
11
(a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica (ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe<br />
stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal momento che la<br />
loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά<br />
εἶναι) - secondo quanto argomentato da Zenone;<br />
(b) esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro<br />
volta costituite da componenti elementari 26 .<br />
Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία<br />
Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno schema platonico,<br />
contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες<br />
εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι),<br />
ribadendone poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della<br />
discussione sui Pitagorici:<br />
τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν<br />
ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν∙ εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως<br />
ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν<br />
φύσιν.<br />
«Da queste cose è possibile a sufficienza intendere il pensiero degli antichi che sostenevano la<br />
pluralità di elementi della <strong>natura</strong>. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come di<br />
un'unica <strong>natura</strong>, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per conformità alla <strong>natura</strong>»<br />
(986b8-12).<br />
Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva:<br />
εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ<br />
γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ<br />
ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν∙ ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν,<br />
γεννῶντές γε τὸ πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)∙ οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε<br />
οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει.<br />
«Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano<br />
come alcuni dei <strong>natura</strong>listi, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose]<br />
dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono<br />
il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia<br />
immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca» (986b12-18).<br />
Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine<br />
eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza<br />
rispetto alla ricerca dei «<strong>natura</strong>listi» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo<br />
[sul tutto] come fosse un'unica <strong>natura</strong> [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως),<br />
«immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato 27 . In<br />
De Coelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso:<br />
Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν<br />
ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν.<br />
Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν∙ οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί<br />
φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε<br />
καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι<br />
λέγειν∙ τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας<br />
καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν<br />
26 Ivi, p. 21.<br />
27 Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3).<br />
12
τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις,<br />
εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους<br />
«Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto<br />
ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente.<br />
Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero che<br />
nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così<br />
i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose,<br />
tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni<br />
degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima<br />
rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza<br />
dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una<br />
qualche forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i<br />
ragionamenti riferiti a quell'ambito» (Aristotele, De Coelo III.1 298b12-24)<br />
Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a<br />
una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις<br />
καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως<br />
ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν<br />
ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως).<br />
Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al<br />
proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica<br />
doveva aver coperto o trascurato 28 .<br />
Nel primo libro (Ι.3 984a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la <strong>natura</strong>» (περὶ τῆς<br />
φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in<br />
ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «iniziatore», ἀρχηγὸς) – marca una discontinuità<br />
nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς<br />
μεταβολῆς αἴτιον):<br />
οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες<br />
εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων,<br />
ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν<br />
φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες<br />
ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν∙ καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν<br />
ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν<br />
αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ<br />
δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι∙<br />
«Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e<br />
sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro<br />
che affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e<br />
che lo è anche la <strong>natura</strong> nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è,<br />
infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di<br />
mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto<br />
[l’universo] è uno è capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a<br />
costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due».<br />
È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio commento (in<br />
Metaphys. Ι.3 984b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto:<br />
τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης’ (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ‘ἐπ’<br />
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν<br />
28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i<br />
raggruppamenti operati da Gorgia nel suo <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong> o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione<br />
"riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative<br />
posizioni.<br />
13
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’<br />
ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ<br />
τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ<br />
καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν.<br />
«Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse<br />
entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione<br />
degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo verità,<br />
che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti –<br />
allo scopo di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano<br />
due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente» (DK 28A7).<br />
Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del contributo<br />
di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per<br />
l'attenzione alla «<strong>natura</strong> nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma<br />
soprattutto per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè<br />
del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione dei<br />
fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso Teofrasto poteva<br />
proporre Parmenide al centro di una delle due serie di pensatori affrontati sistematicamente:<br />
quella che collegava i primi a «rivelare ai Greci l’indagine intorno alla <strong>natura</strong>» (τὴν περὶ<br />
φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν ἐκφῆναι) 29 - l’allievo di Aristotele si riferisce a Talete ma in<br />
particolare ad Anassimandro - agli atomisti 30 .<br />
Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista cronologico, l’accostamento ad<br />
Anassimandro non è tuttavia sorprendente 31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue<br />
ricostruzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata<br />
formulazione solo successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le<br />
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche) 32 . In questa<br />
prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato, avrebbe compiuto quanto da<br />
Anassimandro solo impostato: non si sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire<br />
distinta da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i<br />
principi diversi 33 .<br />
Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da Aristotele individuato<br />
nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si<br />
sottolineano le ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν<br />
νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων). Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]»<br />
(κατὰ τὸν λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di<br />
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην), come unità<br />
29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide<br />
discepolo di Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX.21, DK 28A1), e i commentatori aristotelici<br />
Alessandro e Simplicio (DK 28A7) - e di Anassimandro (secondo quanto attesta Diogene Laerzio), associandolo<br />
poi a Empedocle - «ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e Leucippo -<br />
«unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς φιλοσοφίας, DK 28 A8).<br />
30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di<br />
Apollonia. Determinante il ruolo riconosciuto complessivamente ad Anassimandro.<br />
31 Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong> dalla<br />
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra parte, a<br />
dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the<br />
centrifocal universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek<br />
Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest critics, Cambridge 1987, C.U.P., pp.<br />
53 ss.).<br />
32 Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La <strong>natura</strong> ama<br />
nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Milano 1998, Adelphi Edizioni, cap. II “Storicismo<br />
peripatetico”.<br />
33 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 327.<br />
14
indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno»<br />
(πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parmenide – si<br />
sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad<br />
affermarne la divinità (τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν).<br />
Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra<br />
l'acutezza del contributo di Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus<br />
"aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (μικρὸν<br />
ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea:<br />
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν∙ παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν<br />
ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον<br />
ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ<br />
τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς<br />
αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων∙<br />
τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.<br />
«Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che,<br />
ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di<br />
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia<br />
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,<br />
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo<br />
sotto il non-essere» (986b27-987a1).<br />
Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea:<br />
(i) la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale<br />
(κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης) -, imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra<br />
essere e non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν<br />
οὐθὲν εἶναι);<br />
(ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere l'espressione<br />
greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, letteralmente «costretto ad essere guidato<br />
dai fenomeni [cose che appaiono]».<br />
Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe<br />
imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due<br />
principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando la sua rilevanza per la<br />
discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova conferma nella dossografia<br />
successiva, anche in un autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione<br />
accademica, relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea:<br />
ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ<br />
ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’<br />
ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν<br />
ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης<br />
εὐπειθέος ἀτρεκ’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον,<br />
‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς<br />
μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν<br />
ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν<br />
εἰπεῖν.<br />
«[Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio,<br />
pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto eterno e<br />
incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile<br />
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: "il<br />
cuore preciso della Verità ben convincente", che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle<br />
medesime condizioni, e "le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza" [B1.29-30], perché esse<br />
sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze.<br />
15
Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e<br />
l'opinabile? Non è possibile sostenerlo» (Plutarco, Adversus Colotem, 1114 d-e).<br />
Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative perché intervengono a<br />
correggere l'interpretazione "melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui<br />
«Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι<br />
τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce<br />
anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e<br />
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un<br />
«sistema del mondo» (διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un<br />
«<strong>natura</strong>lista arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι):<br />
ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ<br />
τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ∙ καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ<br />
καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται∙ καὶ οὐδὲν<br />
ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας<br />
διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν<br />
«Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa<br />
derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul<br />
cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose<br />
più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della <strong>natura</strong> e che ha composto uno<br />
scritto proprio – non distruzione di un altro» (Contro Colote 1114b, DK28B10).<br />
Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica,<br />
sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema parmenideo<br />
fosse "anche" la φύσις (nel senso sopra sommariamente ricostruito), pur registrandone la<br />
"eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία.<br />
Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας<br />
Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che<br />
appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia rispetto a<br />
ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia propria di ogni<br />
sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua<br />
posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta,<br />
infatti, in continuità con la precedente tradizione:<br />
ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς<br />
ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας<br />
τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς<br />
ἀλλ’ ᾗ ὄν∙ διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον<br />
«Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino<br />
necessariamente una certa <strong>natura</strong> [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli<br />
elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi<br />
dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le<br />
cause prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV.1 1003a26-32).<br />
«Gli elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui<br />
sono intesi come principi di tutte – risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ<br />
στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale<br />
34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua<br />
eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F.<br />
Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178.<br />
16
comune alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e<br />
all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione:<br />
«ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà.<br />
Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν<br />
ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare sulla <strong>natura</strong> [realtà] nella<br />
sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica<br />
IV.3 1005a32-33), intendendo quindi la «<strong>natura</strong>» come una totalità omogenea (dal punto di<br />
vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali.<br />
Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà,<br />
quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più<br />
generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς οὖσιν), la cui<br />
discussione non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto<br />
della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è<br />
stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente<br />
Eraclito (per la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione<br />
del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la riflessione<br />
ontologica, sia con l'analisi dei «segni» (σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia<br />
con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere.<br />
Natura, essere, verità<br />
Lo Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di<br />
fondo:<br />
ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας<br />
καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας<br />
«consideriamo comunque anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli<br />
enti e hanno filosofato intorno alla verità» (Metafisica I.3 983b1),<br />
Espressioni come «coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον<br />
φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Coelo III.1 298b12), ovvero che «indagarono la verità<br />
intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV.5 1010a1),<br />
rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla <strong>natura</strong> come indagine sulla verità, la<br />
prima comportando una presa di posizione circa ciò che è Realtà 35 . In questo senso i primi<br />
filosofi avevano contribuito «all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto<br />
convinti che la <strong>natura</strong> fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla <strong>natura</strong> [realtà] nella sua<br />
interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni «sull’essere» (περὶ<br />
τοῦ ὄντος):<br />
ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων<br />
ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε<br />
γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι<br />
τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι∙<br />
οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι∙<br />
ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά<br />
φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν.<br />
«Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la <strong>natura</strong> degli enti,<br />
furono sviati come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle<br />
cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da<br />
ciò che non è; ma ciò è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera<br />
35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi<br />
di Pisa, Pisa 1994, p. 16.<br />
17
(dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti<br />
qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata,<br />
affermarono che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso» (Fisica I.8 191a25 ss.).<br />
Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui principi (il primo libro della<br />
Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν), Aristotele (i) intende la riflessione dei<br />
primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι) come indagine a un tempo sulla <strong>natura</strong> e sulla<br />
verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento",<br />
la loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).<br />
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà segnalata<br />
potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione a elementi base (questo<br />
appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα) 36 . In tal caso Aristotele riconoscerebbe<br />
all'indagine dei «fisici» un filo conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato<br />
pienamente esplicitato.<br />
È significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dalla'antichità 37 ) alle opere<br />
di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la<br />
consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di<br />
Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e<br />
che in ambito sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono<br />
le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora).<br />
Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà<br />
genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano 38 .<br />
Illuminante un passo di De generatione et corruptione:<br />
Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς<br />
τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι∙ τὸ<br />
γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας<br />
ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας∙ ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν,<br />
ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως<br />
«A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal<br />
momento che si dovrebbe seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno,<br />
immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e<br />
per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti sembra che queste<br />
cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia» (Aristotele, De<br />
generatione et corruptione I.8 325 a13ss.).<br />
Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»),<br />
una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente<br />
melissiano 40 : il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una ricerca volta alla<br />
36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss..<br />
37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per<br />
esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-1). I due resoconti dell'opera – quello<br />
di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso,<br />
Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente<br />
elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico<br />
antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la<br />
collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234).<br />
38 Leszl, op. cit., p. 17.<br />
39 Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M.<br />
Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200.<br />
40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento<br />
di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze<br />
1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.<br />
18
comprensione della realtà <strong>natura</strong>le nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una ricerca, dunque, a un tempo<br />
"ontologica" ed "epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determinazione della<br />
realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella<br />
contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων).<br />
Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della<br />
possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono<br />
proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero»<br />
(οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che<br />
Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo 41 : Parmenide, nel suo sforzo di evitare le<br />
incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo <strong>natura</strong>le 42 ,<br />
avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo<br />
dell’«essere», così spingendo la filosofia <strong>natura</strong>le al limite della logica e della metafisica 43 .<br />
Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας 44 : la prima sezione del<br />
Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto<br />
dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il<br />
resoconto genuino di quella realtà e la sua ricostruzione verosimile a partire dall'esperienza<br />
che gli uomini ne hanno 45 .<br />
41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme:<br />
Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, Paris 1996, PUF, p. 182 –<br />
osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia dunque coestensivo al<br />
mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im<br />
Lehrgedicht des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Göttingen 2005, Vandenhoeck<br />
& Ruprecht, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1.<br />
42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico.<br />
43 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to<br />
Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P, Cambridge 1999, p. 175.<br />
44 Leszl, op. cit., p. 19.<br />
45 In questo senso, tematicamente, il Περὶ φύσεως di Parmenide può essere accostato allo scritto di Eraclito, in<br />
cui possiamo riscontrare il rilievo dei seguenti elementi:<br />
(i) la connessione unitaria di tutte le cose nell'ordine cosmico:<br />
εἰδέναι δὲ χρὴ τὸν πόλεμον ἐόντα ξυνὸν καὶ δίκην ἔριν καὶ γινόμενα πάντα κατ΄ ἔριν καὶ χρεών<br />
«è necessario sapere che il conflitto è comune e la giustizia contesa e che tutto accade secondo<br />
contesa e necessità» (DK 22B80)<br />
κόσμον τόνδε͵ τὸν αὐτὸν ἁπάντων͵ οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν͵ ἀλλ΄ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν<br />
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον͵ ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα<br />
«il mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessun dio o uomo fece, ma fu sempre, è e sarà un fuoco<br />
semprevivente, che viene ravvivato secondo misura e estinto secondo misura» (B30)<br />
(ii) la sapienza come capacità di cogliere la verità («dire e fare cose vere», ἀληθέα λέγειν καὶ ποιεῖν), in altre<br />
parole l'unità del tutto, la <strong>natura</strong> profonda al di là dell'apparente opposizione:<br />
οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι<br />
«non ascoltando me, ma il logos è saggio convenire che tutte le cose sono uno» (DK 22B50)<br />
σωφρονεῖν ἀρετὴ μεγίστη, καὶ σοφίη ἀληθέα λέγειν καὶ ποιεῖν κατὰ φύσιν ἐπαΐοντας<br />
«Saggezza è massima virtù e sapienza è dire e fare cose vere comprendendo secondo <strong>natura</strong>»<br />
(B112)<br />
φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ<br />
«la <strong>natura</strong> ama nascondersi» (B123)<br />
ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείττων<br />
«l'armonia nascosta è più forte di quella manifesta» (B54)<br />
19
Natura e verità in Parmenide<br />
In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo<br />
registrare:<br />
(i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione dell'«ordinamento<br />
[del mondo] del tutto verosimile» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più<br />
consistente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a<br />
Verità» (Πειθοῦς κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4);<br />
(iii) il logos come norma unitaria essenziale, dalla cui comprensione dipende un efficace rapporto con il mondo e<br />
con gli altri:<br />
τοῖς ἐγρηγορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι<br />
«Per coloro che sono desti il cosmo [l'ordine] è unico e comune» (B89)<br />
ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’<br />
ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται<br />
«dalla norma (logos) con cui hanno continua dimestichezza, norma che governa tutte le cose, da<br />
essa discordano, e quelle cose che incontrano quotidianamente, a loro appaiono estranee»<br />
διὸ δεῖ ἕπεσθαι τῷ ξυνῷ. τοῦ λόγου δ΄ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἰδίαν ἔχοντες φρόνησιν<br />
«perciò si deve seguire ciò che è comune: ma, pur essendo il logos comune, i più vivono come se<br />
avessero un intendimento privato» (B2)<br />
ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ<br />
ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον<br />
ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται<br />
«Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come<br />
la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica<br />
legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e avanza» (B114)<br />
(iv) la polemica (sistematica) nei confronti di "narrazioni" alternative, e il rifiuto di accettare come credenziale<br />
l'autorità di altri presunti maestri:<br />
πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά<br />
τε καὶ Ἑκαταῖον<br />
«l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e<br />
Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo» (B40)<br />
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην<br />
οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν<br />
«maestro dei più è Esiodo – costui credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva<br />
conoscenza di giorno e notte: sono infatti la stessa cosa» (B57)<br />
τίς γὰρ αὐτῶν νόος ἢ φρήν; δήμων ἀοιδοῖσι πείθονται καὶ διδασκάλωι χρείωνται ὁμίλωι οὐκ<br />
εἰδότες ὅτι ‘οἱ πολλοὶ κακοί, ὀλίγοι δὲ ἀγαθοί<br />
«che mente e intelligenza hanno? I più ripongono fiducia negli aedi popolari, e prendono il volgo<br />
come loro maestro, non sapendo che i molti sono cattivi, e pochi i buoni» (B104).<br />
Non sorprende che l'argomento di molti frammenti dello scritto eracliteo, di cui Diogene Laerzio non fornisce<br />
direttamente il titolo, limitandosi a citare quelli attribuiti dalla tradizione (tra gli altri·Περὶ φύσεως e Μούσας),<br />
abbia autorizzato la proposta di una titolazione del tipo «La Verità – e Come Conoscerla» (J.H. Lesher, Early<br />
interest in knowledge, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 232): Eraclito sarebbe<br />
stato infatti tra i primi a concentrare l'interesse filosofico sulla comprensione unitaria del cosmo, attraverso la<br />
riflessione sulla sua <strong>natura</strong> complessa ma nascosta.<br />
20
(ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10<br />
appare, in questo senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e<br />
cosmogonica, tra l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia 46 :<br />
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα<br />
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο<br />
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,<br />
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης<br />
[5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα<br />
ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη<br />
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.<br />
«Conoscerai la <strong>natura</strong> eterea e nell’etere tutti<br />
i segni e della pura fiamma dello splendente sole<br />
le opere invisibili e donde ebbero origine,<br />
e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo,<br />
e la [sua] <strong>natura</strong>; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,<br />
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò<br />
a tenere i confini degli astri».<br />
Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία<br />
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la<br />
sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile rintracciare una<br />
corrispondenza tra la ricerca della seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei<br />
frammenti B2-B8. L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è<br />
compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza<br />
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα:<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα<br />
«Ora è necessario che tutto tu apprenda:<br />
sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,<br />
sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità.<br />
Eppure anche questo imparerai: come le cose accettate nelle opinioni<br />
era necessario esistessero in modo plausibile, tutte insieme davvero esistenti» (B1.28b-32).<br />
La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà genuina (Ἀληθείη), tradizionale<br />
appannaggio divino, e (ii) denunciare le infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής)<br />
«opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla<br />
condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza<br />
antica:<br />
τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον∙<br />
οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο<br />
[πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.]<br />
οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω,<br />
ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ∙<br />
ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι,<br />
καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.<br />
46 L’accostamento è <strong>natura</strong>le in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4, introduce l’analisi della<br />
causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore.<br />
21
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,<br />
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε.<br />
«Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi:<br />
nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose<br />
che nutre la terra, e sulla terra camminano e si muovono.<br />
Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà,<br />
fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento.<br />
Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori,<br />
pure questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente.<br />
Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,<br />
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini» (Odissea XVIII.129-137)<br />
θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν<br />
«il mortale deve pensare cose mortali, non cose immortali» (Epicarmo, DK 23B20)<br />
ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται<br />
«soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo opinare» (Senofane, DK 21A24).<br />
Ma il programma non si esaurisce nella contrapposizione tra comprensione divina e<br />
incomprensione umana, pur limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà<br />
autentica - per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:<br />
letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης<br />
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è certamente<br />
occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità delle<br />
convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia funzionale anche alla<br />
presentazione di un resoconto alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ<br />
δοκοῦντα): a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne<br />
una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione.<br />
Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto di<br />
vista espresso negli attuali frammenti B9-B12 47 , ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi,<br />
anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle,<br />
tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla» (B9).<br />
Discorso affidabile e ordinamento verosimile<br />
Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile:<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων<br />
«A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali<br />
impara, l’ordine delle mie parole ascoltando come cosa che può ingannare» (B8.50-2).<br />
47 Lesher, op. cit., p. 240.<br />
22
In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare<br />
all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino:<br />
(i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia:<br />
svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-<br />
«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che:<br />
ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,<br />
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,<br />
ἕν, συνεχές<br />
«senza nascita è ciò che è e senza morte,<br />
tutto intero, uniforme, saldo e senza fine;<br />
né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,<br />
uno, continuo» (B8.3b-6a),<br />
(ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente<br />
dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda<br />
sezione:<br />
τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ<br />
«Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo,<br />
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti».<br />
Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisce alle vicende di una molteplicità<br />
di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato completamente affidabile,<br />
come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria,<br />
immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa<br />
parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi:<br />
(i) del contributo scientifico 48 (prevalentemente in campo cosmologico 49 ) riconosciuto a<br />
Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK<br />
28A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra:<br />
ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ<br />
Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον<br />
«[in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica; per<br />
Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo»,<br />
e che altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK<br />
28A40a):<br />
Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον,<br />
ἐν τῶι αἰθέρι∙ μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν<br />
καλεῖ<br />
«Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso<br />
pone il Sole, sotto questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri»,<br />
48 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, introduzione a<br />
Parmenide di Elea, Poema sulla <strong>natura</strong>, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999,<br />
BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos, Princeton University Press,<br />
Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182.<br />
49 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse<br />
essere influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia»,<br />
attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-8.<br />
23
e sulla <strong>natura</strong> solare della luce della Luna:<br />
Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]∙ καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται<br />
«Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata» (DK 28 A42);<br />
(ii) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie:<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος<br />
«per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro» (B6.8-9)<br />
οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα<br />
«Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono» (B7.1),<br />
ovvero della irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?):<br />
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν·<br />
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν ‐ ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν<br />
«Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme,<br />
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada» (B8.53-<br />
4),<br />
e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle forme<br />
introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle,<br />
tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla» (B9).<br />
La distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente<br />
delineare due distinte forme di conoscenza:<br />
(a) la certezza della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di νοεῖν<br />
(comprendere, concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come<br />
κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ<br />
ἐόν, il complesso della realtà <strong>natura</strong>le colto come tutto-intero);<br />
(b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei<br />
frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica", dal momento<br />
che si concentra sulla <strong>natura</strong> delle cose che incontriamo nella nostra esperienza 50 .<br />
In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa<br />
che deve indurre cautela.<br />
Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata<br />
alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il<br />
contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) i principi da cui<br />
dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale<br />
rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, occasione estrinseca rispetto alla<br />
comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione<br />
50 Lesher, op. cit., p. 241.<br />
24
di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto 51 . Un elemento<br />
andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha<br />
conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione culturale<br />
dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo.<br />
L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta, nei frammenti sia come risultato di<br />
una costruzione logica:<br />
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι<br />
«Il giudizio in proposito dipende da ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale» (B8.15b-18),<br />
sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità<br />
degli enti:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον<br />
οὔτε συνιστάμενον<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti;<br />
non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere,<br />
né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo,<br />
né concentrandosi» (B4).<br />
In questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza<br />
degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno:<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,<br />
ἕν, συνεχές<br />
«né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,<br />
uno, continuo» (B8.5-6a)<br />
e il divenire - scandito da passato, presente e futuro – degli altri:<br />
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι<br />
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα<br />
«Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono,<br />
e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine» (B19.1-2).<br />
Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione<br />
parmenidea della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale<br />
delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che<br />
sono state e le cose che saranno», Iliade I.70) e quella peculiare alla concezione arcaica del<br />
divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I.290) 52 .<br />
La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra:<br />
(i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν:<br />
51 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions<br />
Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez Parménide.<br />
52 Ivi, p. 102.<br />
25
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«È necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è"; poiché è possibile essere,<br />
il nulla, invece, non è» (B6.1-2a)<br />
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι<br />
«Il giudizio in proposito dipende da ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale» (B8.15b-18),<br />
(ii) la verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina:<br />
τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ<br />
«Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo,<br />
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti» (B8.60-1)<br />
si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste:<br />
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα<br />
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο<br />
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,<br />
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης<br />
καὶ φύσιν<br />
«Conoscerai la <strong>natura</strong> eterea e nell’etere tutti<br />
i segni e della pura fiamma dello splendente Sole<br />
le opere invisibili e donde ebbero origine,<br />
e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo,<br />
e la [sua] <strong>natura</strong>» (B10.1-5a),<br />
e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle condizioni<br />
generali del mondo <strong>natura</strong>le):<br />
εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα<br />
ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη<br />
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων<br />
«conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,<br />
donde ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò<br />
a tenere i confini degli astri» (B10.5b-7).<br />
La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità<br />
(Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente<br />
correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος<br />
ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle<br />
denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione»<br />
che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν,<br />
«secondo opinione».<br />
Essere e <strong>natura</strong> in Parmenide<br />
26
Nel proprio schema (Metafisica I.5 986b27-987a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele<br />
aveva dunque colto sostanzialmente nel segno:<br />
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν∙ παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν<br />
ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον<br />
ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ<br />
τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς<br />
αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων∙<br />
τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.<br />
«Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che,<br />
ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di<br />
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia<br />
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,<br />
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo<br />
sotto il non-essere» (986b27-987a1).<br />
La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due<br />
sezioni del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità<br />
gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν<br />
αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (<strong>natura</strong>le) come unotutto;<br />
il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello<br />
di astrazione fa perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà;<br />
nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi<br />
esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei<br />
frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini ontologici,<br />
attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di τὸ ἐὸν:<br />
ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο<br />
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ,<br />
ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,<br />
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό<br />
«Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero<br />
separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco,<br />
che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico,<br />
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso,<br />
le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante» (B8.55-9)<br />
τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle,<br />
tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla» (B9).<br />
Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e autonoma –<br />
fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la quale l'autore entrava in<br />
competizione (come sottolineato anche dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È<br />
plausibile che il modello esplicativo del mondo <strong>natura</strong>le che vi si delinea abbia<br />
profondamente influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da<br />
27
Empedocle e Anassagora 53 , sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di Parmenide 54 – come<br />
risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31B8, B9, B11, B12; DK 59B17).<br />
53 In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and<br />
Later Presocratic Thought, Princeton 1998, Princeton U.P.; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A<br />
Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit..<br />
54 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to<br />
Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora<br />
consultare D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit..<br />
28
Il testo di Parmenide e la sue fonti<br />
Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato<br />
autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo<br />
ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso<br />
direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero<br />
da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere<br />
che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza<br />
di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente 55 .<br />
Il materiale del Poema<br />
Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo<br />
dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli<br />
allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È anche ipotizzabile che nel<br />
mondo greco occidentale si conservasse una tradizione testuale autonoma, da collegare forse<br />
ad ambienti pitagorici 56 ; analogamente è possibile che tradizioni di testo si affermassero anche<br />
in altre aree greche, come l'Asia Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto<br />
abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze<br />
di questa fase pre-platonica, ma, secondo Passa 57 , è non è da escludere che a uno di questi<br />
filoni testuali abbia attinto Sesto Empirico.<br />
La prima apparizione del Poema nella tradizione risale a Platone, che cita per cinque volte<br />
Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-<br />
Tutto), nel Simposio (178b primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del<br />
«parricidio»; 244e a proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele a sua volta<br />
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su Eros<br />
(Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica 1009b22). L’ultima<br />
citazione della prima "esistenza postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il<br />
fr. 16 (in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del<br />
frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino<br />
da Platone 58 .<br />
Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero 59 , non propriamente di scomparsa del<br />
testo parmenideo, piuttosto di «absence de son utilisation» - Plutarco (I secolo d.C.) torna a<br />
fare uso abbondante dei frammenti parmenidei, aprendo di fatto la seconda stagione di<br />
attenzione per l'opera di Parmenide - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il<br />
VI secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione<br />
dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte dei commentatori:<br />
è probabile che le citazioni non siano di prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone,<br />
Aristotele e Teofrasto.<br />
A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto dell’intera opera di<br />
Parmenide 60 , dobbiamo la citazione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160<br />
versi traditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consapevole della rarità del<br />
testo già nella sua epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che<br />
55 N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque,<br />
t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, p. 4.<br />
56 Enzo Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143.<br />
57 Ibidem.<br />
58 Cordero, op. cit., pp. 4-5.<br />
59 Ivi, p. 5.<br />
60 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 1.<br />
29
direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio,<br />
Olimpiodoro 61 ):<br />
καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου<br />
μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’<br />
ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος<br />
«anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di<br />
Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto<br />
parmenideo» (DK 28A21).<br />
Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione<br />
da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di<br />
Parmenide 62 . Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di<br />
Giamblico (III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo<br />
d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la<br />
possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema 63 .<br />
Le fonti e i loro problemi<br />
Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le fonti in tre<br />
raggruppamenti 64 :<br />
(i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle<br />
due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo;<br />
(ii) figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.),<br />
Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III<br />
sec.);<br />
(iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal<br />
fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.),<br />
Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo.<br />
Fonti attiche<br />
Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema:<br />
secondo Passa 65 , si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a<br />
memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale<br />
presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle<br />
selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή<br />
aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa 66 ) e<br />
Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici<br />
che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili<br />
contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere<br />
ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di<br />
combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle<br />
opere attribuite ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici<br />
nella loro lettura 67 .<br />
61 Cordero, op. cit., p. 6.<br />
62 Cordero, op. cit., p. 5.<br />
63 Coxon, op. cit., p. 2.<br />
64 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21.<br />
65 Ivi, p. 25.<br />
66 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di<br />
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 288 ss..<br />
67 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P.,<br />
Cambridge 1999, pp. 26-7.<br />
30
Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone, Aristotele e i suoi discepoli<br />
Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che<br />
Teofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi<br />
(3 volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel<br />
riportare il testo parmenideo) 68 . La disponibilità, inoltre, di differenti versioni dello stesso<br />
frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo<br />
a.C., di almeno due distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile<br />
per noi risalire oltre la redazione attica del poema posseduta dall'Accademia e dal Peripato, è<br />
dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memoria)<br />
da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come abbiamo in precedenza<br />
segnalato, si può escludere che redazioni alternative autonome siano sopravvissute nella<br />
tradizione più tarda 69 .<br />
La recente ricerca linguistica 70 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte<br />
"atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi simili a quelli operati (nello<br />
stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni<br />
(in origine il testo doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso<br />
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata<br />
propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti gravi<br />
alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella<br />
tradizione "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili.<br />
In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda<br />
da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca<br />
dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione<br />
"dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni 71 .<br />
Fonti ellenistico-romane<br />
Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio<br />
dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14,<br />
B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari<br />
di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da<br />
fonti attendibili 72 . È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella<br />
"accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti trasmesse da Proclo),<br />
prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La<br />
redazione plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene<br />
68 Ivi, pp. 2-3.<br />
69 Passa, op. cit., p. 26.<br />
70 Ibidem.<br />
71 La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come<br />
Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi<br />
utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal<br />
fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita (Le<br />
opinioni più antiche). Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un<br />
autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha<br />
mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera<br />
di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno una ulteriore riduzione di pseudo-Plutarco) e soprattutto come<br />
da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia<br />
(solo in parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio (Cura<br />
delle malattie dei Greci) di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la<br />
Refutatio omnium haeresium (Confutazione di tutte le eresie) di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro<br />
pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di<br />
Diogene Laerzio (III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-4.<br />
72 Passa, op. cit., p. 27.<br />
31
Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio 73 . Indicativo della validità della fonte<br />
plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto<br />
Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di menzionare<br />
chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione della sezione cui la<br />
citazione apparteneva (un unicum nelle fonti) 74 .<br />
Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon 75 , mostrerebbe nel complesso Clemente<br />
Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita 76 : B1.29 s., B3, B4, B8.3 s.,<br />
B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia<br />
impiegata per sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta<br />
ἀτέλεστον - fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di versioni<br />
dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa 77 , secondo cui gli atticismi delle citazioni<br />
rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo forteme<strong>net</strong>e modificato, di fonti<br />
atticizzate. Il livello di corrutela farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità<br />
di copia integrale del Poema.<br />
La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia<br />
del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce<br />
di una tradizione testuale alternativa a quella attica 78 . In particolare è Sesto - cui dobbiamo<br />
anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua<br />
interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia,<br />
probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi<br />
che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi 79 . Questa<br />
dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia,<br />
Sesto è l'unico a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,<br />
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di<br />
tutto il poema 80 . Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza tradizione<br />
testuale, è ipotesi che anche Cordero 81 avanza, sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni<br />
differenti non ne possa costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella<br />
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica<br />
redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5) 82 .<br />
Fonti neoplatoniche<br />
La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita<br />
solo di passaggio frammenti isolati: B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu<br />
scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente<br />
numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-<br />
32, B8.35-36, B8.43-45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea 83 , ciò<br />
suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda 84<br />
sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato<br />
di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle coincidenze non<br />
73 Ivi, pp. 27-8.<br />
74 Ivi, p. 28.<br />
75 Coxon, op. cit., p. 5.<br />
76 Ivi, p. 3.<br />
77 Passa, op. cit., p. 32.<br />
78 Passa, op. cit., p. 29.<br />
79 Ivi, p. 31.<br />
80 Ibidem.<br />
81 Cordero, op. cit., p. 5.<br />
82 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche.<br />
83 Coxon, op. cit., pp. 2-3.<br />
84 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-9.<br />
32
casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto<br />
quello di Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica 85 , sebbene ormai<br />
modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide.<br />
Nella propria edizione del Poema (1897) 86 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte<br />
per la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria<br />
introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse<br />
essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa<br />
biblioteca della scuola di Platone 87 , di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della<br />
chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio<br />
e Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante<br />
risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici<br />
avrebbero utilizzato codici diversi 88 , esemplari di versioni testuali alternative all'interno della<br />
stessa tradizione accademica.<br />
L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa 89 ,<br />
secono il quale è difficile credere che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla<br />
biblioteca dell'Accademia, dal momento che:<br />
(i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il<br />
diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano<br />
Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran<br />
(Mesopotamia) o in Siria;<br />
(ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine:<br />
(i) de caelo, (ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima 90 .<br />
Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11,<br />
B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli<br />
editori successivi: ancora Coxon 91 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a rare<br />
and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia<br />
ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o<br />
compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una molto vicina<br />
all'esemplare di Plutarco e Proclo) 92 , a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio<br />
depongono l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti<br />
fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo<br />
commento aristotelico (de caelo) 93 . Soprattutto ha pesato, nella valutazione del suo contributo,<br />
la sua affermazione di citare direttamente da un esemplare del poema:<br />
καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου<br />
μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’<br />
ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος<br />
«Anche se nel timore di sembrare insistente, volentieri vorrei trascrivere in aggiunta a questi miei<br />
commenti i versi di Parmenide sull'essere uno, che non sono molti, sia per convincere delle cose<br />
che ho detto, sia per la rarità delo scritto di Parmenide» (Simplicio, Phys. 144, 25; DK 28A21).<br />
85 Passa, op. Cit., p. 39.<br />
86 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 2001 2 , pp. 25-6.<br />
87 Ivi, p. 26.<br />
88 Ibidem.<br />
89 Op. cit., pp. 35 ss.<br />
90 Ivi, p. 36.<br />
91 Coxon, op. cit., p. 6.<br />
92 Passa, op. cit. p. 40.<br />
93 Ibidem.<br />
33
Passa 94 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in<br />
particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala:<br />
καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ<br />
Παρμενίδου ἔχον οὕτως∙ ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος<br />
καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲ τῶι πυκνῶι ὠνόμασται τὸ<br />
ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ∙ ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως<br />
ἑκάτερα<br />
«tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò<br />
che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è<br />
indicato come oscurità, durezza e pesantezza».<br />
Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato<br />
incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di<br />
«un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il<br />
passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς<br />
αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker 95 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema<br />
doveva presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated<br />
source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo)<br />
in relazione al testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far<br />
riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di<br />
Deichgräber 96 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii.<br />
Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore<br />
neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema<br />
deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a):<br />
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι∙ ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως<br />
ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ<br />
τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων ‐<br />
Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα∙<br />
ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1‐2]<br />
«Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi<br />
diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava<br />
contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che:<br />
"Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono.<br />
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero"».<br />
Platone aveva fornito un «fotogramma di interno scolastico» 97 , documentando una pratica di<br />
insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del<br />
Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di temi<br />
attraverso la comunicazione di informazioni supplementari 98 : è possibile che in tal modo egli<br />
recuperasse un modello effettivamente operante in ambito eleatico 99 . Non va inoltre<br />
dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella tradizione tarda<br />
(come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre<br />
al Poema, anche opere in prosa:<br />
94 Ivi, pp. 41-3.<br />
95 J. Whittaker, God, Time, being. Two Studies in the Trascendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae 1971,<br />
p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2.<br />
96 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «RhM» 87, 1938, p. 3.<br />
97 G. Cerri, Introduzione. La riscoperta del vero Parmenide, in Parmenide di Elea, Poema sulla <strong>natura</strong>, a cura di<br />
G. Cerri, BUR, Milano 1999, p. 94.<br />
98 Passa, op. cit., p. 25.<br />
99 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto.<br />
34
Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ<br />
Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ<br />
φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων<br />
«Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo<br />
Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della <strong>natura</strong> in versi e di<br />
altri argomenti in prosa, come ricorda Platone» (DK 28A2).<br />
Non sorpenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse<br />
frettolosamente concludere che l'inserto in prosa risalisse a commento dello stesso autore.<br />
Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità<br />
dell'attestazione simpliciana, che Passa 100 giudica fondamentale ma sopravvalutata:<br />
«[Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero<br />
contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in<br />
suo possesso».<br />
Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva<br />
che nelle citazioni simpliciane si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della<br />
scuola platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio<br />
potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa 101 .<br />
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di commento, si<br />
era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo),<br />
aveva puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della<br />
grandiosa ricostruzione del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di<br />
Plotino) imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti interpretata come<br />
recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una verità eterna, di cui Pitagora (erede<br />
delle antiche dottrine di Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, e<br />
poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni 102 . Caratteristica<br />
dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un importante "canone" di lettura<br />
tematico-gerarchica dell'opera platonica 103 ) rispetto all'interpretazione porfiriana 104 era la<br />
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che finiva per<br />
coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così, per esempio, Parmenide<br />
figurava nel catalogo dei pitagorici 105 . È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in<br />
genere gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di<br />
congiunzione 106 ) e il materiale per le proprie citazioni.<br />
Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità<br />
del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di<br />
conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradizione 107 ), ma<br />
100 Passa, op. cit., p. 145.<br />
101 Ivi, pp. 35 ss..<br />
102 Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti, Interpetazione filosofica<br />
della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998,<br />
e l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, Milano 1997.<br />
103 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico:<br />
Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto<br />
nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla <strong>natura</strong> e la teologia.<br />
104 Girgenti, op. cit., p. 11.<br />
105 Passa, op. cit., p. 37.<br />
106 Ivi, p. 145.<br />
107 Ivi, p. 42.<br />
35
non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza - all'interno delle citazioni stesse -<br />
di:<br />
(i) un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico;<br />
(ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo 108 ;<br />
(iii) una probabile "normalizzazione" 109 del testo sul piano dei contenuti, alla luce della chiave<br />
di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante.<br />
108 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem.<br />
109 Ibidem.<br />
36
Bibliografia<br />
Edizioni del testo consultate<br />
Per il testo greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee:<br />
H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche<br />
Verlagsbuchhandlung, Berlin 1952 6 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK.<br />
Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato<br />
quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani, Milano 2006]<br />
I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico<br />
pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di<br />
A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli]<br />
Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M.<br />
Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner]<br />
G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of<br />
Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven]]<br />
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán,<br />
Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro<br />
discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán]<br />
Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben,<br />
Reclam, Stuttgart 1981<br />
Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L.<br />
Cordero, Vrin, Paris 1984 [da integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso<br />
autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un<br />
grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al confronto costante con<br />
la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero]<br />
Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 1986 3 (edizione originale 1955)<br />
A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986<br />
[fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le<br />
riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon]<br />
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte,<br />
traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la<br />
discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con<br />
le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien]<br />
Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by D. Gallop,<br />
University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop]<br />
Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione,<br />
traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L.<br />
Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per<br />
l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il<br />
commento come Ruggiu]<br />
Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995<br />
[indicheremo l'edizione come Heitsch]<br />
Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté, traduit et commenté<br />
par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin]<br />
Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M.<br />
Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche]<br />
Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di<br />
G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per<br />
37
la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura<br />
greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri]<br />
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser,<br />
mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De<br />
Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 2003 2 (edizione originale 1897) [rimane opera<br />
fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente culturale e i motivi del poema.<br />
La indicheremo come Diels]<br />
Parmenide, Poema sulla <strong>natura</strong>, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006<br />
Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael,<br />
Edizioni Asram Vidya, Roma 2007<br />
Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und<br />
Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &<br />
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano]<br />
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A.<br />
Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli]<br />
The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of<br />
the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge<br />
2010 [indicheremo l'edizione come Graham]<br />
Per specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of<br />
Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press,<br />
New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las<br />
Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos].<br />
Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung<br />
des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera<br />
genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di<br />
Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera<br />
genericamente come Leszl].<br />
In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è<br />
strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo,<br />
La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia,<br />
Firenze 1967.<br />
Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la<br />
lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook<br />
of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-<br />
229.<br />
Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de<br />
Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di<br />
lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa].<br />
Letteratura critica consultata<br />
W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione<br />
originale 1953)<br />
Parmenides, herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1970 2<br />
(edizione originale 1934)<br />
M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies,<br />
Washington 1971<br />
M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on<br />
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974<br />
38
G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 1977 2 (edizione originale 1932)<br />
G. Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida Editori, Napoli 1978<br />
E. Heitsch, Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik, Auer, Donauwörth<br />
1979<br />
M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung: Vorlesungen 1923-1944. Band 54. Parmenides,<br />
Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1982<br />
K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte die griechischen Philosophie, Vittorio<br />
Klostermann, Frankfurt a.M. 1985 4 (edizione originale 1916)<br />
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London 1986<br />
L. Couloubaritsis, Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986<br />
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the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997<br />
P. Thanassas, Die erste "zweite Fahrt": Sein des Seienden und Erscheinen der Welt bei<br />
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Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag,<br />
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L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles, 2008 (si tratta della terza<br />
edizione, modificata e aumentata, di Mythe et Philosophie chez Parménide)<br />
39
G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2009 (il testo risale al 1939)<br />
L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum<br />
International Publishing, London – New York 2009<br />
J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009<br />
F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne<br />
Editrice, Roma 2010<br />
R.J. Roecklein, Plato versus Parmenides. The Debate Coming-into-Being in Greek<br />
Philosophy, Lexington Books, Plymouth (UK) 2011<br />
J. Bur<strong>net</strong>, Early Greek Philosophy, Black, London 1920 3<br />
W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. Vol. 1. The Earlier Presocratics and the<br />
Pythagoreans, C.U.P., Cambridge 1962<br />
Id., A History of Greek Philosophy. Vol. 2. the Presocratic Tradition from Parmenides to<br />
Democritus, C.U.P., Cambridge 1965<br />
Id., The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971<br />
G. Colli, La sapienza greca. Vol. I: Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei,<br />
Enigma, Adelphi, Milano 1977<br />
Id., La sapienza greca. Vol. II: Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene,<br />
Onomacrito, Adelphi, Milano 1978<br />
W. Schadewaldt, Die Anfänge dei Philosophie bei den Griechen, Suhrkamp, Frankfurt am<br />
Mein 1978<br />
G. Colli, La sapienza greca. Vol. III: Eraclito, Adelphi, Milano 1980<br />
G. Wöhrle, Anaximenes aus Milet. Die Fragmente zu seiner Lehre, herausgegeben, übersetzt,<br />
erläutert und mit einer Einleitung versehen von G. Wöhrle, Steiner, Stuttgart 1993<br />
Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing<br />
Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960)<br />
K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000<br />
V. Caston, D.W. Graham (editors), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander<br />
Mourelatos, Ashgate, Aldershot 2002<br />
A. Laks, C. Louguet (eds), Qu’est-ce que la philosophie présocratique? What is Presocratic<br />
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2002<br />
G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005<br />
G. Rechenhauer (Hg.), Frühgriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005<br />
La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni<br />
della Normale, Pisa 2006<br />
C. Rapp, Vorsokratiker, Beck, München 2007 2<br />
F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine<br />
misteriche, Utet Libreria, Torino 2007<br />
Die Vorsokratiker, Band I (Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die<br />
Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung<br />
und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf<br />
2007 [indicheremo questa edizione come Gemelli Marciano]<br />
The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P.,<br />
Oxford 2008<br />
Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009<br />
Die Vorsokratiker, Band II (Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und<br />
Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &<br />
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009<br />
G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier: Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica]<br />
40
Die Vorsokratiker, Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken<br />
Atomisten), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M.<br />
Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010<br />
Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F.<br />
Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011<br />
Con la sigla LSJ indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, Greek-English Lexicon, revised and<br />
augmented throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996<br />
41
Parmenide<br />
<strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong><br />
Introduzione, traduzione, note e commento a cura di<br />
Dario Zucchello
Frammenti<br />
testo greco e traduzione italiana 1<br />
1 Le note al testo greco si riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione,<br />
invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione.<br />
43
DK B1<br />
ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι,<br />
πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι<br />
δαίμονος 1 , ἣ κατὰ 2 φέρει εἰδότα φῶτα·<br />
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι<br />
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον.<br />
ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ 3 σύριγγος ἀυτήν<br />
αἰθόμενος ‐ δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν<br />
κύκλοις ἀμφοτέρωθεν ‐, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν<br />
Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός 4<br />
[10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων 5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας.<br />
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων,<br />
καί σφας 6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·<br />
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·<br />
τῶν δὲ Δίκη 7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.<br />
[15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν<br />
πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα<br />
ἀπτερέως ὤσειε πυλέων 8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων<br />
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους<br />
ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι<br />
[20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε 9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων 10<br />
1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la<br />
correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce<br />
l'arbitrarietà.<br />
2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come<br />
κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores).<br />
Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄτη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di<br />
Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ<br />
πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄτη. Per la<br />
traduzione si veda nota relativa.<br />
3 χνοίῃσιν ἵ è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL).<br />
4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del<br />
successivo Ἦμαρ.<br />
5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων da Diels.<br />
6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo plurale di terza persona in uso nell'epica<br />
arcaica (σφε) all'interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole<br />
da Passa (pp. 99-100).<br />
7 La forma Díkh è degli editori moderni: nei codici δίκην.<br />
8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di<br />
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di<br />
un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27)<br />
sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν.<br />
9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue<br />
Cordero, che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores.<br />
10 Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e<br />
deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato<br />
da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.<br />
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII.424) e esiodei (Scutum 237) nella<br />
44
ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους.<br />
καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί<br />
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα<br />
ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος 12 ἡνιόχοισιν,<br />
[25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ,<br />
χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα 14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι<br />
τήνδ΄ ὁδόν ‐ ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν ‐,<br />
ἀλλὰ Θέμις 15 τε Δίκη 16 τε. χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν Ἀληθείης 18 εὐκυκλέος 19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ<br />
formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente<br />
superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema.<br />
11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20.<br />
12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo -ᾱορος appare fuori<br />
posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito<br />
da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la<br />
correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su<br />
diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo -ᾱορος il segno di una<br />
incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici<br />
attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso<br />
Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea.<br />
13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J. Palmer<br />
(Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is<br />
required here». La presenza di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1,<br />
che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25<br />
(Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua<br />
dei codici) al ταί della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più <strong>natura</strong>le ipotizzare che,<br />
meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha<br />
fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte (ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero<br />
rilevando una sintassi difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto<br />
come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da<br />
rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε<br />
seguita dal pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di<br />
aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo<br />
studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori<br />
codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile,<br />
dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica.<br />
14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il<br />
contesto divino.<br />
15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori.<br />
16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on<br />
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe<br />
legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Díkh incontrata al v. 14.<br />
17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ<br />
(Passa, p. 77-9).<br />
18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo<br />
greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine.<br />
In considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» -<br />
riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da<br />
Gemelli Marciano (II, p. 12).<br />
19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni:<br />
Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Coelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre<br />
45
[30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα 21<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα 22 .<br />
[vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In<br />
Aristotelis De Coelo 557-558; vv. 28b-30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco,<br />
Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In<br />
Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114]<br />
Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di<br />
Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza<br />
(presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da<br />
Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I<br />
manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano<br />
εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos,<br />
Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa<br />
εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione<br />
della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha<br />
argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione<br />
delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di<br />
Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso<br />
avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e<br />
del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer<br />
(op. cit. pp. 378-80).<br />
20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). <strong>Sulla</strong><br />
lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione,<br />
riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A<br />
contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53<br />
ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti<br />
illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un<br />
rimaneggiamento secondario.<br />
21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella<br />
tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica.<br />
La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.<br />
22 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A<br />
riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del<br />
precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo<br />
dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri<br />
nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene comunque che,<br />
accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in<br />
quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del<br />
poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo<br />
dialetto».<br />
Le cavalle 1 che mi portano 2 fin dove il [mio] desiderio 3 potrebbe giungere 4 ,<br />
1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e<br />
Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato<br />
cogliervi prova di una influenza orfica.<br />
2 Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto (che<br />
indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo<br />
46
mi guidavano 5 , dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato 6 sulla via 7 ricca di canti 8<br />
Coxon (p. 14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora<br />
davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente marcare delle sequenze<br />
temporali, costruendo un proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di<br />
rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la scelta della<br />
via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e<br />
il viaggio del Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza<br />
morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla<br />
memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana<br />
esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in particolare<br />
che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo<br />
imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in<br />
cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449).<br />
3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è<br />
inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È<br />
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia, può<br />
essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo<br />
Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt<br />
Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la<br />
rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere<br />
all’obiettivo solo se si è già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo.<br />
4 L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè una indefinita frequenza<br />
(dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella<br />
ἄν, Robbiano, pp. 65-6 n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos (The<br />
Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press,<br />
New Haven – London 1970, p. 17, n. 21) sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità<br />
rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del pensiero,<br />
paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario greco arcaico.<br />
5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto durativo e participio presente (φερόμην<br />
v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5) denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro<br />
dell'azione in corso; le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema<br />
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta<br />
πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per una traduzione con il presente indicativo.<br />
Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza<br />
dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il migliore dei mondi<br />
impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come<br />
l’intreccio dei verbi al presente e all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno<br />
dall’oltretomba.<br />
6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie in questo passaggio un’eco dell'iniziazione<br />
poetica di Esiodo: ciò che Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio<br />
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica (connotata come ὁδός<br />
πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade.<br />
Parmenide porrebbe in primo piano il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice.<br />
7 La ὁδὸς πολύφημος δαίμονος, ἣ κατὰ φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri<br />
(p. 170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico). Possiamo individuare<br />
nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν<br />
(«non percorrere le strade popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola del<br />
Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383-396) – accostando sistematicamente il Proemio ai frammenti di<br />
letteratura orfica, alle lami<strong>net</strong>te e ai miti escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la<br />
via che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387): simbolicamente<br />
vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini<br />
"tecnici" come εἰδώς φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come<br />
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo cammino per giungere<br />
47
della divinità 9 che 10 porta 11 l’uomo sapiente 12 .<br />
propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è richiedo l'intervento di δαίμονες come<br />
ἡγεμόνες.<br />
Ma l'espressione potrebbe più semplicemente riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea),<br />
proposta in un contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora, come<br />
sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford<br />
2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve<br />
tracciare ogni giorno.<br />
8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti, leggende, ma anche<br />
voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che<br />
risuona di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102).<br />
Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata».<br />
9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22)<br />
θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp.<br />
106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso<br />
del verso» suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita l’identificazione della<br />
daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il<br />
quale traduce ὁδὸν δαίμονος come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli<br />
omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un carro condotto dalle<br />
figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora.<br />
In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai<br />
mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa<br />
suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è<br />
quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147).<br />
10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di<br />
Ferrari spinge nella prima direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo<br />
possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa percorre<br />
quotidianamente.<br />
11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali<br />
proposte degli editori:<br />
κατὰ πάντ’ ἄτη (Diels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le<br />
città»;<br />
κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), «lì riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero,<br />
interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile,<br />
riferito a ὁδός;<br />
κατὰ πάντ’ ἄτη (Coxon), «through every stage straight onwards»;<br />
κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano».<br />
Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’<br />
ἄτη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe<br />
tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος dell'apertura del proemio da<br />
quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista<br />
degli uomini»).<br />
12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner, Burkert), alla figura<br />
dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in<br />
tal senso», come nota la Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri<br />
(Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla percorsa; Coxon e Cerri insistono sul<br />
riferimento alle competenze e conoscenze preventivamente richieste per la piena conquista della verità.<br />
Di diverso avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt,<br />
Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia<br />
un valore legato alla esperienza visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta<br />
rivendica è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi allora come<br />
«[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit.,<br />
pp. 102 ss.), il quale sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta<br />
48
Su questa via 13 ero portato 14 , perché 15 su questa via 16 mi portavano 17 molto avvedute 18<br />
cavalle,<br />
[5] trainando il carro 19 : fanciulle 20 mostravano la via.<br />
Nei mozzi emetteva un sibilo acuto 21 l’asse,<br />
narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già avvenuti. La qualifica di εἰδώς<br />
indica, infatti, ancora in Aristofane e Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato<br />
la prova dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la paola poetica la verità<br />
conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione (e la condizione del poeta) a un tempo<br />
successivo all’incontro con la θεά.<br />
13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso, come se si riferisse non a un luogo<br />
determinato ma alla via lungo la quale il poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui».<br />
Scegliendo di tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («lì»), intendo marcare questa sequenza<br />
– concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo<br />
(ἔνθα) e che propriamente introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal<br />
momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «lì», le indicazioni di luogo, analogamente ai<br />
tempi verbali, possono avere un'incidenza nella interpretazione complessiva. Se scegliamo di tradurre con<br />
«qui», l'impressione che si ricava dalla lettura è che il poeta si trovi presentemente sulla via e quindi nel<br />
seguito ricordi un'esperienza passata; se, invece, optiamo per «lì», anche i primi versi appaiono come<br />
parte del resoconto della rivelazione. Abbiamo scelto di rompere con una perifrasi la struttura del verso,<br />
cercando di conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» può riferirsi alla via su cui al<br />
momento si muove il poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto.<br />
14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva:<br />
sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato (del poeta).<br />
15 La congiunzione γάρ ha qui funzione esplicativa rispetto al rilievo τῇ φερόμην; in altre parole, il<br />
poeta precisa la ragione per cui è venuto a trovarsi, a essere trasportato, sulla «via ricca di canti della<br />
divinità» (ὁδός πολύφημος δαίμονος): il passivo (φερόμην) sottolinea l'azione subita a opera di<br />
guide (in questa fase del racconto, semplicemente ἵπποι) di cui ci si affretta a indicare la qualità<br />
(πολύφραστοι).<br />
16 Nel contesto, la ripetizione della forma avverbiale con la congiunzione (τῇ γάρ) segnala che l'azione<br />
introdotta di seguito (il trasporto da parte delle cavalle «molto avvedute») giustifica la presenza del poeta<br />
«sulla via ricca di canti»: forse la sua funzione pubblica; in ogni caso il suo privilegio.<br />
17 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione,<br />
sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos p. 35) come un difetto, un limite della poesia<br />
di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135),<br />
invece, valutata come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un<br />
effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione<br />
retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio<br />
intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità.<br />
18 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»:<br />
supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge».<br />
Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9.<br />
19 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia,<br />
impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario<br />
espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e dei, come<br />
sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o<br />
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il<br />
suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a certi animali,<br />
come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze<br />
celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte»<br />
(δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ<br />
Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La<br />
possibile contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al carro di Hades.<br />
20 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi.<br />
49
incandescente 22 (era mosso in effetti da due rotanti<br />
cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano 23 a scortar[mi] 24<br />
le fanciulle Eliadi 25 , avendo abbandonato 26 la dimora 27 della Notte<br />
[10] verso la luce 28 , rimossi con le mani i veli dal capo 29 .<br />
21 Così traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [orga<strong>net</strong>to a canne]». Ferrari<br />
rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi<br />
(cno^iai) che lo fissano al carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito,<br />
Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a resoconti di incubation, cioè a<br />
esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza<br />
(tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ.<br />
22 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato».<br />
23 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1).<br />
O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare<br />
semplice concomitanza di azioni.<br />
24 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel<br />
precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di<br />
πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle<br />
ma le Eliadi.<br />
25 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta<br />
delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del<br />
genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera<br />
perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver<br />
presenziato, seondo quanto ipotizza A, Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato»,<br />
XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del<br />
fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono<br />
corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione<br />
Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare<br />
che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini sapienziali (Cerri p. 173), e, d'altra parte,<br />
appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione.<br />
26 Il participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza<br />
dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di<br />
soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, <strong>natura</strong>le luogo di destinazione delle Eliadi che<br />
accompagnano il poeta.<br />
27 Il termine δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della<br />
Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia, 744) e fa<br />
pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che in Esiodo domina sulla prigione<br />
dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente<br />
situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe<br />
leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ<br />
Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in<br />
questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione<br />
sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern)<br />
abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro<br />
della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos. D’altra<br />
parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.),<br />
sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia,<br />
che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The<br />
Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51)<br />
ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e<br />
infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro<br />
meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo<br />
infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op.<br />
cit., pp. 55-6.<br />
50
Lì 30 sono i battenti 31 dei sentieri 32 di Notte e Giorno:<br />
28 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce»,<br />
ovvero, come è più <strong>natura</strong>le, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del<br />
collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce».<br />
In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso<br />
condizionata dalla punteggiatura: Diels-Kranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος,<br />
forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità simboliche: un<br />
viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos,<br />
p. 15) ovvero di rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema<br />
regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente (v. 22) citata sarebbe<br />
personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se<br />
interpretiamo il racconto come resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo<br />
dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173) segnala come<br />
l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade».<br />
Ferrari (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel proemio il tempo del<br />
racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno<br />
della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα<br />
Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è<br />
destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide».<br />
29 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre:<br />
καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ<br />
ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι<br />
«E di Notte oscura la casa terribile<br />
s’innalza di nuvole livide avvolta» (Teogonia 744-5).<br />
Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne:<br />
ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ<br />
ἐννύχιαι στεῖχον<br />
«Di lì levatesi, nascoste da molta nebbia,<br />
notturne andavano» (Teogonia 9-10).<br />
I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle<br />
Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento.<br />
30 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione epico-teogonica in<br />
relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il<br />
resoconto dell’esperienza oltremondana» (p. 103).<br />
31 Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un<br />
grande portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p.<br />
49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in<br />
faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che<br />
le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere<br />
εἰς γένεσιν («alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre<br />
parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è<br />
attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V.646, IX.312; Odissea XIV.156) per indicare i cancelli che<br />
immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op.<br />
cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo,<br />
Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che emergeva dalla tradizione unificando<br />
quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio<br />
Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo<br />
dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano,<br />
Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la<br />
Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle<br />
51
architrave e soglia 33 di pietra li incornicia 34 ;<br />
essi, alti nell’aria 35 , sono agganciati 36 a grande telaio 37 .<br />
Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e della<br />
Notte e Porta del Sole.<br />
32 Già negli usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto,<br />
«via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero<br />
«spedizione». Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati<br />
segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli<br />
itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta,<br />
presso cui si incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso<br />
a un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la «dimora<br />
della Notte».<br />
33 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio<br />
del canto. In relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che<br />
οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri (p. 175) di<br />
accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751:<br />
[…] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι<br />
ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν<br />
χάλκεον∙ ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε<br />
ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει,<br />
ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα<br />
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα<br />
μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται<br />
«[…] là dove Notte e Giorno incontrandosi<br />
si salutano, al momento di varcare la grande soglia<br />
di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta<br />
se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé,<br />
ma sempre l’uno, fuori della casa,<br />
la terra percorre, l’altra, dentro casa,<br />
attende la propria ora di viaggio, finché non giunga».<br />
Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e<br />
Omero (Iliade VIII.15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere<br />
dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della terra avrebbe<br />
consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea».<br />
34 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e<br />
l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un<br />
vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due porte.<br />
35 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon),<br />
alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta<br />
sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta<br />
fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque<br />
la <strong>natura</strong> eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra. Proprio con l’incrocio<br />
lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo<br />
(Leszl, p. 151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p. 453), perché<br />
rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da<br />
Esiodo come sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 57) ritiene che<br />
l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del versio esiodeo:<br />
τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν<br />
«Di fronte ad essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio» (Teogonia 746).<br />
52
Dike 38 , che molto castiga 39 , ne 40 detiene le chiavi dall’uso alterno 41 .<br />
[15] Placandola 42 , le fanciulle, con parole compiacenti,<br />
[la] persuasero 43 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello<br />
togliesse rapidamente dalla porta 44 . E questa 45 [al posto] del telaio 46 ,<br />
Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe<br />
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione<br />
a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe<br />
dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno», replicando<br />
l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).<br />
36 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli editori: normalmente la si<br />
riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a<br />
πίλναμαι («avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι).<br />
Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto.<br />
37 Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del<br />
termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα («porta»), ma il cui valore<br />
primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa.<br />
38 Nella tradizione omerica e esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire,<br />
figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V.749; VIII.393) era quello di sorvegliare le porte del<br />
Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti<br />
del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta<br />
in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i<br />
percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di <strong>natura</strong> e<br />
società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia,<br />
come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei<br />
versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso.<br />
39 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è<br />
incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella<br />
stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte».<br />
Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la<br />
figura di Díkh πολύποινος, che tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità<br />
infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto<br />
proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta<br />
di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389).<br />
40 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν<br />
riferito (come il pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι.<br />
41 L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le chiavi<br />
consentono l’apertura alternata della porta (Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p.<br />
11). Nel contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike regolerebbe con<br />
la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di<br />
seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore.<br />
42 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso associato<br />
all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse anche la scelta del complemento μαλακοῖσι<br />
λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza dell'espressione.<br />
43 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo<br />
effettivo inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di una<br />
subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste<br />
osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati<br />
i versi iniziali del proemio.<br />
44 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come<br />
analogo superamento divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del<br />
Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op. cit.,<br />
pp. 55-6).<br />
45 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι.<br />
53
vuoto enorme 47 produsse aprendosi, i bronzei<br />
cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare,<br />
[20] applicati per mezzo di ferri e chiodi 48 . Per di lì 49 ,<br />
dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra 50 carro e cavalli.<br />
E la Dea 51 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia] mano<br />
46 Consideriamo θυρέτρων, come suggerito da Cerri (p. 179), genitivo di scambio.<br />
47 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in<br />
relazione con il genitivo πυλέων), il baratro-chaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della<br />
soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della quale è collocata la prigione in<br />
cui, al termine della titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque,<br />
come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide sia la porta di accesso alla casa della<br />
Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la<br />
soglia petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con la divinità. A rendere<br />
estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide contribuisce un dato<br />
significativo: il termine χάσμα non ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.<br />
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem,<br />
Hakkert, Amsterdam 1974, p. 53).<br />
48 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono<br />
anche di opportune illustrazioni a sostegno della spiegazione.<br />
49 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella<br />
avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Lì,<br />
attraverso quella [porta]».<br />
50 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada<br />
attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-<br />
Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea<br />
il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del<br />
viaggio.<br />
51 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo<br />
personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione<br />
dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-<br />
1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea<br />
infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A<br />
conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 93<br />
ss.). Anche Passa (op. cit., p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema.<br />
Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57),<br />
la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di<br />
Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata<br />
come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli («La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha<br />
proposto – sulla scorta di una lami<strong>net</strong>ta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio –<br />
l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è<br />
avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S.<br />
Morrison ("Parmenides and Er", Journal of Hellenic Studies, 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das<br />
Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras", Phronesis, 14, 1969, pp. 1-30), ha di<br />
recente concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte),<br />
variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato come, nella<br />
tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike<br />
guardiana del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61),<br />
seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ, giustificando la propria opzione<br />
non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al<br />
poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte<br />
nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan-Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di<br />
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile,<br />
proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il<br />
54
destra prese 52 , e così parlava e si rivolgeva 53 a me:<br />
O giovane 54 , che, compagno 55 a immortali guide 56<br />
[25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa 57 ,<br />
rallegrati! Non Moira 58 infausta, infatti, ti spingeva a percorrere<br />
questa via 59 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini 60 ),<br />
Giorno), da Parmenide evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161).<br />
Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la<br />
Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di<br />
un poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά; (iii) il<br />
costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni<br />
caso, è significativo che questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario<br />
viaggio oltremondano tratteggiato nelle lami<strong>net</strong>te orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato da<br />
«custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit, p. 390).<br />
52 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di<br />
accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra.<br />
53 Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26: «spingeva»): i<br />
verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono impiegati all’imperfetto perché implicano<br />
uno sforzo e indicano il punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire»<br />
(O’Brien, 8)·in effetti la forma epica φάτο può essere anche imperfetto.<br />
54 Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta, potrebbe piuttosto<br />
marcare lo scarto tra la <strong>natura</strong> divina e quella umana degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e<br />
ionica di κόρος), relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il<br />
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un legame particolare con la<br />
divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei<br />
(negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe titolo di<br />
onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo sia coerente con il contesto<br />
educativo, giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa<br />
l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica.<br />
55 Il termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato a», «collegato<br />
a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente<br />
è connesso a συναείρω («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in<br />
questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, op.<br />
cit., p. 137). Da sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in questo modo un<br />
«compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι. Secondo Couloubaritsis (p. 93), il<br />
rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος.<br />
56 Il sostantivo maschile ἡνίοχος designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche<br />
per indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel contesto il termine<br />
si riferisce alle Eliadi.<br />
57 Secondo Ferrari (op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe<br />
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da<br />
identificare appunto con Núx.<br />
58 In Esiodo abbiamo tre Moire, figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade<br />
XIII.602 per indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso<br />
dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari traducono come «sorte<br />
maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore<br />
di «fato» o «destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389).<br />
59 L'espressione τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla prima<br />
evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della strada/via è rimasto dominante<br />
sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del poeta.<br />
60 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli<br />
uomini. È probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato da Porfirio (e<br />
55
ma Temi 61 e Dike 62 . Ora 63 è necessario 64 che tutto 65 tu 66 apprenda 67 :<br />
sia di Verità 68 ben rotonda 69 il cuore 70 fermo 71 ,<br />
sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ<br />
βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»).<br />
61 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era una delle Titanidi, figlie di Urano e<br />
Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus.<br />
62 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della<br />
eccezionalità dell’evento rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle Eliadi<br />
presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere serrata per un<br />
mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata.<br />
Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento<br />
proietta e impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici). In<br />
questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike,<br />
unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di<br />
norma cosmica».<br />
63 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»), altri<br />
continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è<br />
legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea:<br />
ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che lo aspetta.<br />
64 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero<br />
e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ,<br />
che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa, op. cit., p. 77-8). La formula<br />
(con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto<br />
che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni modo,<br />
l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che il<br />
viaggiatore deve assumere (Robbiano, p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros<br />
per la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε).<br />
65 La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è significativa perché<br />
garantisce al programma della comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale,<br />
giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi.<br />
66 L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità<br />
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»).<br />
67 Il verbo πυνθάνομαι ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero<br />
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva<br />
ricerca.<br />
68 Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel<br />
contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha<br />
rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge<br />
der Erkenntniskritik und Logik, Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss., E. Heitsch mostra, sulla scorta della<br />
preistoria del termine, come ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza)<br />
suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe<br />
per esempio a significare «riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto».<br />
In effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria Germani<br />
("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in<br />
questo senso la «peculiarità sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che con<strong>net</strong>te<br />
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe dunque il riferimento a chi parla: l'oggetto si<br />
manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale manifestazione: il termine designerebbe una relazione in<br />
cui «conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In ciò consisterebbe la<br />
differenza fondamentale dal sinonimo ἔτυμος (ἐτήτυμος): «la nozione di ἔτυμος sembra implicare che<br />
la realtà delle cose sia indipendente dal contributo dell'uomo» (ibidem), e funga da realtà/evidenza su cui<br />
commisurare il dire umano, quando questo non risulta dalla manifestazione di qualcosa di direttamente<br />
accessibile, ma è frutto di inferenze, ipotesi, da verificare.<br />
56
In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva<br />
sottolineare:<br />
αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ<br />
δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον<br />
«la causa di questa opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità<br />
intorno agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili».<br />
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è ribadito in<br />
Aristotele, per esempio:<br />
ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν<br />
ὄντων<br />
«Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la <strong>natura</strong><br />
degli enti» (Fisica I, 8 191a25).<br />
Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (op. cit., p. 16), il fatto che, a un<br />
certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state<br />
utilizzate, accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e<br />
περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della tradizionale<br />
titolazione).<br />
Passa (op. cit., p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che<br />
esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη,<br />
in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi<br />
divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici<br />
(placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica.<br />
È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il<br />
perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità, dopo la profonda<br />
incri<strong>natura</strong> dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso all verità potrebbe<br />
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto<br />
ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7.<br />
69 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente<br />
ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi tradurre come<br />
«persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali»<br />
(βροτῶν δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide<br />
passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής)<br />
«credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di<br />
Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In<br />
conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1):<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης<br />
«A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno alla verità».<br />
È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte<br />
sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è che il significato antico<br />
dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone e Aristotele - è quello di «obbediente»<br />
«disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di «persuasivo» è posteriore.<br />
Nell'economia del poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è<br />
comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto<br />
nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον<br />
ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda palla»).<br />
57
[30] sia dei mortali le opinioni 72 , in cui non è reale credibilità 73 .<br />
Eppure 74 anche questo 75 imparerai 76 : come le cose accettate [nelle opinioni] 77<br />
70 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi in senso non astratto:<br />
il suo significato sarebbe vicino a quello di θυμός, per veicolare l’idea di una attività intellettuale<br />
emotivamente tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe<br />
coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che Parmenide opti di<br />
correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve conoscere (Stemich, pp. 78-80): nella<br />
letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto connesso al corpo (Passa, op. cit., p. 52). Il termine ἦτορ può indicare<br />
la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza rilevata da Parmenide, ma<br />
anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta<br />
(Ruggiu, p. 199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi<br />
vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del linguaggio. Questo può<br />
significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza<br />
conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53).<br />
71 L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto)<br />
come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς<br />
ἦτορ come «il sapere incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo<br />
annoverato tra i σήματα in B8.4).<br />
72 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul<br />
tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa»<br />
(εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che<br />
non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la dea<br />
(Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una<br />
passiva registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione<br />
assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo<br />
senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche<br />
(p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri<br />
alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività<br />
dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito:<br />
οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι<br />
«non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno» (DK B50).<br />
Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα<br />
indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi.<br />
73 Il termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il<br />
valore di «prova, dimostrazione per credibilità o fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione»<br />
(Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche<br />
nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio<br />
impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità»<br />
si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto della<br />
Dea.<br />
74 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e<br />
avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless,<br />
«nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero ( p. 32)<br />
osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre una restrizione di senso<br />
rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea<br />
intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato<br />
sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán:<br />
i vv. 31-32 del frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn<br />
the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211).<br />
58
era necessario 78 esistessero in modo plausibile 79 , tutte insieme 80 davvero esistenti 81 .<br />
75 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede immediatamente, quindi<br />
riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a<br />
quanto segue immediatamente (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). Nel primo<br />
caso, rimarremmo in una prospettiva dicotomica (verità e opinioni dei mortali), all’interno della quale la<br />
dea giustificherebbe l’attenzione per la dimensione opinativa (il successivo ὡς avrebbe dunque valore<br />
causale). Nel secondo caso, invece, sembrerebbe aprirsi lo spazio per una terza articolazione nel<br />
programma della comunicazione divina: la Dea annuncerebbe l'intenzione di affrontare, «in modo<br />
plausibile» (δοκίμως), la stessa materia (τὰ δοκοῦντα) distorta nelle inaffidabili «opinioni dei mortali»<br />
(βροτῶν δόξαι). La prima soluzione appare più <strong>natura</strong>le rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la<br />
lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una proposizione dipendente<br />
introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare<br />
quanto segue sarebbe stato più <strong>natura</strong>le τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in<br />
Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli<br />
in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome.<br />
76 Il verbo μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a<br />
πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». Patricia Curd (The Legacy of Parmenides.<br />
Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4)<br />
ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι<br />
suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce<br />
piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio.<br />
77 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne le implicazioni<br />
semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno,<br />
ovvero che sono accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro<br />
contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di vista, delle cose (plurale), di<br />
quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle<br />
opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai mortali.<br />
Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati intenzionali (nel senso della<br />
fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei<br />
termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali<br />
ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide<br />
intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose<br />
costituiscono l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide,<br />
t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν,<br />
«l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in<br />
senso pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una<br />
espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (pp. 267 ss.), ribadendo il doppio registro<br />
semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala<br />
il posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ<br />
ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ<br />
φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da<br />
rintracciare proprio nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν<br />
(«considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e<br />
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis<br />
(pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali<br />
piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare il<br />
mondo in divenire.<br />
78 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto<br />
all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un<br />
tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale<br />
può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco<br />
arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La<br />
59
concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse<br />
contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli<br />
stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op.<br />
cit., p. 363): «No<strong>net</strong>heless these things too will you learn, how what they resolved had actually to be<br />
[...]».<br />
79 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può<br />
essere espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza.<br />
L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con<br />
«realmente». Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una costruzione<br />
ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) una esistenza qualificata come reale ovvero<br />
plausibile. Ne deriva una sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito<br />
(O’Brien, pp. 13-4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22B28:<br />
δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει ...<br />
«(anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]».<br />
Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe un<br />
«cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative<br />
(parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità, plausibilità.<br />
L'avverbio δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω<br />
conferma il senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature<br />
di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il<br />
senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 271).<br />
80 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il<br />
suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura<br />
ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them<br />
together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». <strong>Sulla</strong> scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-<br />
430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel<br />
corso di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un<br />
tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione di πάντα<br />
(«tutte le cose»).<br />
81 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di<br />
Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (p. 114 nota 52), entrambe le letture rendono<br />
complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca,<br />
in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che<br />
esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp.<br />
61-2).<br />
60
DK B2<br />
εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας,<br />
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν 2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,<br />
Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ ‐,<br />
[5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών 5 ἐστι μὴ εἶναι,<br />
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα 6 ἔμμεν ἀταρπόν 7 ·<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν 8 ‐<br />
οὔτε φράσαις·<br />
[vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam<br />
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5]<br />
1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da<br />
Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»),<br />
difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba<br />
dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più <strong>natura</strong>le dal punto di vista paleografico, ma<br />
valorizza anche l’opposizione ἐγώ ‐ σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso<br />
omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati<br />
creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce<br />
il digamma iniziale di ἐρέω.<br />
2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit.,<br />
t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta<br />
conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa<br />
(p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante<br />
rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica».<br />
3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale.<br />
4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e<br />
Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori.<br />
5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo l'uso assoluto<br />
dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79).<br />
6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio παναπευθέα, forma<br />
corretta, come rivela il confronto con Odissea III.88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso<br />
Proclo cita a memoria.<br />
7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω).<br />
8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio<br />
ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha<br />
una sua plausibilità, ma la forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in Melisso<br />
(B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver<br />
fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν:<br />
«risultato che non si può raggiungere».<br />
Orsù 1 , io dirò - e tu 2 abbi cura 3 della parola 4 una volta ascoltata 5 -<br />
1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ<br />
(Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e<br />
Odissea).<br />
2 Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione<br />
dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide:<br />
61
quali sono le uniche 6 vie 7 di ricerca 8 per pensare 9 :<br />
alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura<br />
tradizionale.<br />
3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse<br />
anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di<br />
significati con «accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135)<br />
recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te».<br />
4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione<br />
meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime<br />
ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la parola<br />
che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la<br />
parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32).<br />
Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos<br />
(p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account»,<br />
quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore<br />
del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo progressivamente, nell’uso postomerico,<br />
il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare<br />
«mito». Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre<br />
con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P.,<br />
Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e<br />
quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative<br />
speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su<br />
Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore<br />
originario del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, p. 541) come «ma façon de parler<br />
autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle<br />
ascoltate».<br />
5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII.129:<br />
τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον<br />
«Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi».<br />
6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole<br />
legittime» (Conche p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le<br />
due sole possibilità per pensare (Cordero p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι dal<br />
successivo infinito e dal relativo significato.<br />
7 È interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi<br />
parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa<br />
una indagine per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di vita», linea di<br />
condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e<br />
metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide,<br />
tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La<br />
Stemich in questo senso indica (pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per<br />
giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito<br />
metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone.<br />
8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un<br />
frammento orfico di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a<br />
quella ionica. Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà<br />
(ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva<br />
come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa,<br />
ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in<br />
Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è<br />
manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (p. 125) il termine suggerisce anche<br />
l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa.<br />
62
l’una 10 che 11 «è» 12 e che «non è possibile 13 non essere» 14 –<br />
9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o<br />
consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore<br />
di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo<br />
comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς),<br />
che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che<br />
…»). È possibile inoltre trovare un riscontro nell’eco del poema <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong> di Empedocle. Nel<br />
frammento DK 31B3.12 troviamo infatti l’espressione: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia<br />
passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità<br />
sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir».<br />
La Robbiano (p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di<br />
accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da<br />
pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e finale<br />
dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur<br />
Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in<br />
particolare il problema della impraticabilità della seconda via per il pensiero.<br />
Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari interpreti - si potrebbe<br />
scegliere una espressione più specifica, come «comprendere», o anche «concepire», che ancora<br />
conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e più<br />
lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si<br />
riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò<br />
potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro significato<br />
cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea<br />
qui propone. Recentemente Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e<br />
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding. Tonelli, invece, rende<br />
direttamente come «intuire», per la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere<br />
che «attraversa e pe<strong>net</strong>ra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118).<br />
10 L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν ‐ ἡ δέ: si tratta di una<br />
alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella costruzione sintattica.<br />
11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una<br />
dichiarativa (retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). L’uso di ὅπως e ὡς<br />
per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano (p. 82) - illuminante: esso suggerisce che<br />
esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito a ὅτι quando si<br />
voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano<br />
opinioni differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni<br />
avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il<br />
proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende<br />
in entrambi i casi con «secondo cui».<br />
12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι, «essere», è qui resa letteralmente, senza<br />
decidere del suo valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i<br />
traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y a», per sottolineare l’idea di<br />
presenza, di esserci. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo<br />
sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome<br />
indefinito come soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). Una linea<br />
interpretativa che risale a Bur<strong>net</strong> e giunge a Ferrari, presupponendo un soggetto impersonale, propone di<br />
rendere non come «c'è», ma come «è dato», «è lecito», «si può».<br />
13 Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non [c’]è/esiste non essere»,<br />
ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale e facendolo soggetto, «che il non essere non è». Ma appare più<br />
<strong>natura</strong>le considerare μὴ εἶναι come infinito: il verbo «essere» usato impersonalmente con infinito<br />
autorizza la versione «che non è possibile non essere», da correlare al successivo v. 5 (ὡς χρεών ἐστι<br />
μὴ εἶναι). Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioni logiche, per<br />
le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp. 131 ss.).<br />
63
di Persuasione 15 è il percorso 16 (a Verità 17 infatti si accompagna) –<br />
[5] l’altra che «non è» e che «è necessario 18 non essere» 19 .<br />
Proprio 20 questa ti dichiaro 21 essere sentiero 22 del tutto privo di informazioni 23 :<br />
14 Seguiamo O’Brien (pp. 180 ss.) nell’attribuire all’infinito μὴ εἶναι un senso completivo in relazione<br />
alla formula (modale): ἐστι e χρεών ἐστι (v. 5). Ricordiamo che si potrebbe tuttavia rendere μὴ εἶναι<br />
come infinito sostantivato, rinunciando al valore modale dell'espressione: si otterrebbe allora «che il non<br />
essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente il verso 5b: «che, come necessario, il non essere<br />
è». La nostra traduzione è vicina a quella della Gemelli Marciano (t. II, p. 15): «Der eine, dass es "IST"<br />
und es nicht möglich ist, "NICHT ZU SEIN"». «È» e «NON ESSERE» appaiono come vere e proprie formule,<br />
affermate e negate nelle due vie tracciate dalla Dea.<br />
15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore,<br />
in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la connessione stabilita da<br />
Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami<br />
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica impliciti nella affermazione appena<br />
introdotta :«è e non è possibile non essere».<br />
16 Il termine κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via», contribuendo<br />
in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione di μέθοδος, e di filosofia appunto<br />
come viaggio (p. 174).<br />
17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale» e<br />
ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita, che ricava dai<br />
contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz).<br />
Palmer ricorre a una formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla<br />
realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola, intendendo Verità come entità<br />
divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà<br />
il falso, indicato da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della<br />
realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4).<br />
18 Colleghiamo, come appare <strong>natura</strong>le, l’espressione greca χρεών al verbo ἐστι, traducendo con «è<br />
necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può stare da solo, inteso<br />
come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς, assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe<br />
essere dunque inciso avverbiale in una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come<br />
conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ τὸ χρεών<br />
(Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών<br />
[ἐστι] con il significato di χρή («è necessario»).<br />
19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la<br />
traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una<br />
possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il<br />
migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non<br />
sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta<br />
del v. 3, Gemelli Marciano (II, p. 15) traduce: «Der andere, dass es "NICHT IST" und dass es erforderlich<br />
ist, "NICHT ZU SEIN"».<br />
20 Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come<br />
congiunzione («e») per marcare una transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente<br />
posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di accentuare<br />
il rilievo nella frase.<br />
21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare, evidenziare», è usato da<br />
Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177).<br />
22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4:<br />
mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via<br />
maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a una espressione che<br />
veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia.<br />
23 L’aggettivo παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto,<br />
ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile»<br />
64
non potresti infatti conoscere ciò che non è 24 (non è in effetti cosa fattibile 25 ),<br />
né potresti indicarlo 26 .<br />
(Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del<br />
poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è scartata come<br />
follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος<br />
διζήσιός «inventata» da coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma<br />
che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la realtà,<br />
come chiarisce immediatamente il verso successivo.<br />
24 L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177) essa<br />
si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato in B6.2 dall’uso del pronome<br />
indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della<br />
dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via,<br />
necessariamente priva di informazioni.<br />
25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da<br />
ἀνύω («fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220),<br />
Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo a quello del termine ἀμηχανίη: esprime<br />
una impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di<br />
impraticabilità che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated».<br />
26 La traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche a<br />
parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i<br />
σήματα dell’ἐόν in B8. Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nella Odissea all’interno del<br />
motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso<br />
della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo,<br />
con «né potresti parlarne».<br />
65
DK B3<br />
... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν 1 τε καὶ εἶναι.<br />
[Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5;<br />
Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)]<br />
1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è<br />
correzione degli editori.<br />
La stessa cosa, infatti, è 1 pensare 2 ed essere 3 .<br />
1 Zeller, seguito da Bur<strong>net</strong>, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non<br />
ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann<br />
gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can<br />
be thought and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti non sono soggetti di un uso<br />
copulativo del verbo, ma complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronome-verbo.<br />
Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o<br />
equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est». Il fatto che, optando per<br />
questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro<br />
(νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto,<br />
comunque, come osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι.<br />
D’altra parte, seguendo Plotino, la resa più fedele (Heitsch, p. 144), il senso ovvio del greco (Conche, p.<br />
89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della<br />
frase. Una alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e<br />
soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8:<br />
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.<br />
[35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,<br />
εὑρήσεις τὸ νοεῖν<br />
è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata nella recente resa di<br />
Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there) for understanding and for being».<br />
2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire<br />
razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a νοεῖν (e νόος) nei<br />
frammenti. Abbiamo già segnalato come, intendendo i due infiniti non come soggetti ma in funzione<br />
completiva (dativale) rispetto al pronome e al verbo (ἐστίν come predicato verbale), si sarebbe<br />
autorizzati a rendere νοεῖν con valore passivo: O’Brien (p. 19): «C’est en effet une seule et même chose<br />
que l’on pense et qui est». In alternativa, può essere adottata la costruzione analoga, ma con senso attivo<br />
di νοεῖν, proposta da Palmer: «for the same thing is (there) for understanding and for being». In una sua<br />
classica ricerca filologica, von Fritz (K. von Fritz, Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic<br />
Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides, «Classical Philology» 40,<br />
1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi «comprendere una situazione» e come<br />
questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo<br />
di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237).<br />
Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo<br />
greco e l'intueor latino, nella percezione che «attraversa e pe<strong>net</strong>ra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi<br />
tutt'uno con esso» (p. 118).<br />
3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta,<br />
metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in<br />
effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo:<br />
66
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν 3 ‐<br />
οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι<br />
,<br />
«Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è<br />
quel che pensi!».<br />
67
DK B4<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως 1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει 2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον<br />
οὔτε συνιστάμενον.<br />
[vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis<br />
Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2<br />
Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I,<br />
67]<br />
La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni (op. cit., p. 209).<br />
1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως.<br />
Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione.<br />
2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe<br />
effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità<br />
dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano<br />
ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del<br />
futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico.<br />
Considera 1 come cose assenti 2 siano comunque 3 al pensiero 4 saldamente 5 presenti 6 ;<br />
1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di<br />
considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla<br />
maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori<br />
optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra<br />
parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»:<br />
porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire»,<br />
«rischiarare».<br />
2 Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo<br />
materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo<br />
in traduzione un senso indefinito.<br />
3 Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il<br />
concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a<br />
ἀπεόντα, Ruggiu (p.238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo<br />
lo stile attestato anche in Eraclito.<br />
4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile infatti<br />
accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo<br />
legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα‐παρεόντα dipenda dalla visione<br />
dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente,<br />
allo spirito».<br />
5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon<br />
(p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso<br />
di Empedocle DK 31B17.30:<br />
τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς<br />
«Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto».<br />
La collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui<br />
esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma<br />
68
non impedirai 7 , infatti, che l’essere 8 sia connesso all’essere,<br />
né disperdendosi 9 completamente 10 in ogni direzione per il cosmo 11 ,<br />
né concentrandosi.<br />
anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29):<br />
βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma<br />
anche un modo d’essere.<br />
6 Ovvero «prossime». <strong>Sulla</strong> struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως)<br />
ha richiamato di recente l’attenzione Graham (p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che<br />
ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22B25:<br />
μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι<br />
«destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi».<br />
7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così<br />
intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la<br />
probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona<br />
singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in<br />
coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52;<br />
εὑρήσεις, «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo.<br />
8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò<br />
che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più astratta. Come nota<br />
Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio<br />
ἐόν; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza<br />
denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque complesso:<br />
Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione<br />
sul duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per sostenere<br />
la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a<br />
mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha<br />
insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale, come<br />
equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di<br />
riconoscerne implicitamente l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che<br />
sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2, B8.25,<br />
B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe inoltre confermata da Parmenide nel<br />
poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità<br />
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, ἐόν<br />
sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la<br />
totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere il proprio obiettivo.<br />
9 Il participio σκιδνάμενον, come il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν.<br />
10 La funzione dell’avverbio πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro<br />
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale.<br />
11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici in cui il termine<br />
κόσμος assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta<br />
che la nostra espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel<br />
mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il significato,<br />
dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros<br />
sia chiamato a non alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla formula valore<br />
normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo<br />
attribuirgli il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente<br />
(πάντῃ πάντως).<br />
69
DK B5<br />
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν,<br />
ὁππόθεν 1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις.<br />
[Proclo, In Platonis Parmenidem 708]<br />
1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν.<br />
(1) Indifferente 1 è per me<br />
(2) da dove cominci: là, infatti, ancora una volta farò ritorno.<br />
1 Bicknell (“Parmenides, DK 28B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come<br />
«a basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly».<br />
Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come è<br />
stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per<br />
ξυνὸν, normalmente reso in lingua inglese con «all one» o «indifferent».<br />
70
DK B6<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò 1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα.<br />
πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος 5 ,<br />
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
[5] 6 , δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν<br />
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται<br />
1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi<br />
da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è per lo più<br />
accolto dagli editori contemporanei.<br />
2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori.<br />
3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la<br />
versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il<br />
codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε.<br />
4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄.<br />
5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del verbo.<br />
Congetura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2<br />
(ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il<br />
pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda via<br />
di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di<br />
recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del<br />
discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul<br />
parallelismo con i versi B8.50-52:<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων<br />
«A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali<br />
impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare».<br />
L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da<br />
questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea<br />
sarebbe ritornata sulla propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-<br />
4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, p. 58). Tarán, che pur accetta la<br />
congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4.<br />
6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In<br />
effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella<br />
tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso avviso<br />
O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da<br />
πλάζονται («vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante<br />
dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento intellettuale,<br />
errore. Una recente messa a punto della questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con<br />
acribia sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di<br />
πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato<br />
tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον<br />
e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione<br />
πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa.<br />
7 I codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi<br />
editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer).<br />
71
κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα,<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος.<br />
[vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis<br />
Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78]<br />
È necessario 1 dire questo e pensare 2 questo: che «ciò che è 3 è 4 »; poiché è possibile<br />
essere 5 ,<br />
1 L’impersonale χρή è formula di necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può<br />
variare in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su questo punto Patricia Curd<br />
(1998, p. 53), riducendo così l’impianto modale dei primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2<br />
suggerisce la forma di necessità.<br />
2 Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su indicazione di<br />
Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν), retti direttamente dall’impersonale χρή («è<br />
necessario»): entrambi sono introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora<br />
più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo<br />
(«dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione abbiamo attribuito al testo greco questa seconda<br />
costruzione. L'uso dell'infinito sostantivato con una formula impersonale è, infatti, male attestato (Cassin,<br />
p. 146), mentre le osservazioni critiche di Tarán (improbabilità di τό pronominale in considerazione della<br />
sua posizione e della costruzione con χρή impersonale) alla traduzione di Diels (nella quarta edizione dei<br />
Vorsokratiker: «Dies ist nötig zu sagen und denken, dass nur das Seiende existiert»), possono in realtà<br />
essere rovesciate: proprio posizione e reiterazione di τό pronominale ne sottolineano la funzione<br />
prolettica e quindi accentuano il rilievo della successiva asserzione.<br />
Costruzioni alternative:<br />
(a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il<br />
loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e<br />
Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de<br />
Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ<br />
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν, traducendo: «è necessario dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella<br />
revisione (2004) della sua opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by being,<br />
it is».<br />
(b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del<br />
predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che siano un essere»): così, per esempio, Diels<br />
(1897), Heidel, Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con<br />
paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone, Aristotele). La sua<br />
traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and<br />
conceive that this is Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ<br />
αὐτὸ di B3).<br />
(c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò<br />
che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra gli altri, Bur<strong>net</strong> e Raven.<br />
3 Rendiamo ἐὸν come «ciò che è», consapevoli del fatto che neò contesto sarebbe forse possibile (ed<br />
efficace) anche la forma astratta «l'essere», che riserviamo per il più raro τὸ ἐόν. Rimane problematico,<br />
invece, il caso della traduzione di εἶναι: non è chiaro se è lecito intenderlo come infinito sostantivato.<br />
4 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo,<br />
attribuendogli tuttavia valore decisamente esistenziale.<br />
5 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti il problema di traduzione di<br />
ἔστι e si aggiunge quello della traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi<br />
correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito sostantivato,<br />
soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist»<br />
(Kranz), «for there is Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura<br />
72
il nulla 6 , invece, non è 7 . Queste cose 8 io ti esorto a considerare 9 .<br />
Da questa prima via di ricerca 10 , infatti, ti 11 ,<br />
potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι (Cordero, Les<br />
deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena<br />
esplicitazione dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi versi questa<br />
traduzione appare <strong>natura</strong>le, sebbene non risulti del tutto perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo<br />
valore esplicativo per riconoscergli una funzione confermativa.<br />
Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora è <strong>natura</strong>le attribuire a questo valore di<br />
possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto,<br />
traducendo: «solo esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è<br />
possibile, infatti, che sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e<br />
Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile to be».<br />
6 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato più stretto, quello di<br />
«non una cosa». L’intera frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una cosa.<br />
Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ<br />
μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un<br />
rimando al non-essere, intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come<br />
μὴ δ’ ἐόν.<br />
7 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo comunque in senso<br />
esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità<br />
dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera formula valore<br />
di possibilità: «for it is possible for it to be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld:<br />
«denn dieses (sc. Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è<br />
convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con l’infinito in funzione<br />
completiva, e suppone un secondo infinito per completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:<br />
«il n’est pas possible (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien (μηδὲν)». L’alternativa, seguita da<br />
alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there<br />
is Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e senso esistenziale<br />
alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle<br />
obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione. Una scelta analoga troviamo in Graham, il<br />
quale offre di 6.1b-6.2a la seguente versione: «for being is [or: it is for being], and nothing is not».<br />
Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare ἐόν unico soggetto<br />
sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo:<br />
«(What is) is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza articolo:<br />
«nulla [ovvero niente] non è».<br />
8 Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto<br />
dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6,<br />
cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario non essere» come effettivo percorso di indagine.<br />
9 La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione sulla<br />
esclusione della via «che non è e che è necessario non essere».<br />
10 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo<br />
riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a<br />
costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude<br />
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52:<br />
ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν<br />
«Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere».<br />
Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno ambigue: «this is the first<br />
way of inquiry from which I hold you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti<br />
distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano» (Tonelli). Per<br />
rimanere più aderenti alla costruzione greca, considerando πρώτης in funzione predicativa, si potrebbe<br />
73
e poi da quella 12 che appunto 13 mortali che nulla sanno 14<br />
[5] , uomini a due teste 15 : impotenza 16 davvero nei loro<br />
petti 17 guida la mente errante 18 . Essi sono trascinati 19 ,<br />
a un tempo sordi e ciechi 20 , sgomenti, schiere scriteriate 21 ,<br />
per i quali esso 22 è considerato 23 essere e non essere la stessa cosa<br />
rendere: «Per prima da questa via di ricerca ti distolgo». Si tratta in ogni caso di soluzioni interpretative,<br />
che forzano la resa <strong>natura</strong>le della costruzione greca.<br />
11 Manteniamo la congettura Diels.<br />
12 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che<br />
nel contesto Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori.<br />
13 Normalmente si lascia cadere in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la<br />
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione che precede B6.<br />
14 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il tradizionale contrasto tra sapienza divina e<br />
ignoranza umana, riferendolo in particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della<br />
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la loro «impotenza»<br />
(ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες οὐδέν ritorna frequentemente per<br />
caratterizzare il fatto che i mortali non conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro,<br />
ristretti alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico, l’ignoranza dei mortali è<br />
implicitamente contrastata dalla conoscenza che Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα).<br />
15 Il greco δίκρανοι si riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e in<br />
questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo essere e non-essere,<br />
fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità) incompatibili. Robbiano (pp. 104-5) segnala come<br />
nella lirica arcaica il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso nel<br />
riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente (Saffo).<br />
16 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti per risolvere una situazione di<br />
difficoltà: insomma, una condizione di impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare<br />
(abilità nella costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini, ignoranti,<br />
conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli uomini hanno potuto strappare agli<br />
dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte alla propria impotenza.<br />
17 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός,<br />
la cui sede è appunto nel petto. Coxon (p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di<br />
θυμός distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale del carro (e poi<br />
reso celebre nel mito del Fedro platonico).<br />
18 L’espressione πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della «mente»<br />
(così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la mente, invece di essere guida sicura,<br />
conduce fuori strada.<br />
19 La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente<br />
dissennata dei «mortali che nulla sanno».<br />
20 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di disorientamento, a un<br />
tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la<br />
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti.<br />
21 Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,<br />
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la<br />
prospettiva di ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la<br />
«mente» erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri anche Cerri, p. 212),<br />
che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito.<br />
22 Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato Bur<strong>net</strong> (seguito poi<br />
da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel<br />
contesto del frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (pp. 115-6), oltre a ricordare il frequente<br />
impiego da parte di Parmenide dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una<br />
costruzione analoga in B8.44b-45:<br />
74
e non la stessa cosa 24 : ma di [costoro] tutti 25 il percorso torna all'indietro 26 .<br />
τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον<br />
οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ<br />
«è necessario, infatti, che esso non sia in qualche misura di più,<br />
o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra»,<br />
in cui τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37.<br />
23 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori<br />
greci, cit., p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma alla<br />
malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla opinio communis degli uomini. Leszl in questo<br />
senso osserva (p. 230) come il passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a<br />
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da contrasto ai positivi (e<br />
oggettivi) λέγειν e νοεῖν.<br />
24 B6.8-9a è da leggere in opposizione alla asserzione parmenidea del primo emistichio del verso 1:<br />
νενόμισται, con la implicita soggettività del punto di vista, è contrastato dai positivi (e oggettivi: si veda<br />
anche B8.7b-9a) λέγειν e νοεῖν.<br />
25 Il genitivo plurale πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose», ovvero<br />
come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo οἷς, «per i quali». Coxon traduce:<br />
«and for all of whom»; analogamente O'Brien, Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La<br />
Gemelli Marciano (II, p. 83) segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide<br />
riprenderebbe il v. 4.<br />
26 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione<br />
con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7), indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.<br />
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della presunta via di ricerca<br />
inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro<br />
che propendono per una interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di<br />
DK 22B51:<br />
Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη<br />
ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης<br />
«non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso, armonia di contrari, come<br />
l’armonia dell’arco e della lira».<br />
Contro questa interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas («Parmenidean Being/Heraclitean Fire»<br />
in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il<br />
quale sottolinea come il termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle<br />
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito, invece, esso sarebbe impiegato in<br />
riferimento a un equilibrio statico.<br />
75
DK B7<br />
οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα·<br />
ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος 2 εἶργε νόημα·<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,<br />
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν<br />
καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν 4 ἔλεγχον<br />
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.<br />
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis Physicam 135,<br />
143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto Empirico, Adversus<br />
Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis Physicam 78, 650; vv. 3-5<br />
Diogene Laerzio IX, 22]<br />
1 Alcuni codici di Aristotele (EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’<br />
οὐδαμῇ. Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ (Simplicio D),<br />
τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.).<br />
2 I codici di Sesto e Simplicio riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli<br />
di Platone il participio διζήμενος.<br />
3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P.<br />
Kingsley, Reality, The Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga<br />
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone (seguito da Gemelli Marciano)<br />
di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου.<br />
4 Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον.<br />
Mai, infatti 1 , questo 2 sarà forzato 3 : che siano cose che non sono 4 .<br />
1 Coxon (p. 190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,<br />
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del successivo τοῦτο.<br />
2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di τοῦτο in funzione prolettica (per la quale<br />
sarebbe stato <strong>natura</strong>le piuttosto τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto<br />
precede (per noi perduto).<br />
3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en<br />
effet, cet énoncé ne sera dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci<br />
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»). Secondo l’indicazione di Diels<br />
(Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω\δάμνημι è da<br />
ricavare dalle citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5-7):<br />
Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται<br />
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς<br />
οὐκ ἔστι πῃ.<br />
«Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla prova il pensiero del<br />
padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che il non-essere “è”, sotto un certo<br />
aspetto; e che, per converso, l’essere, in un certo senso, “non è”» (traduzione M. Vitali,<br />
Bompiani, Milano 1992).<br />
A rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3.<br />
Interessante anche il suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso lato come<br />
«sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando l’interpretazione del passo offerta da<br />
O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo<br />
tempo Calogero (op. cit., pp. 24-5 nota) aveva puntualmente contestato l'ipotesi τοῦτο δαμῇ,<br />
76
Ma tu da questa via di ricerca 5 allontana il pensiero 6 ;<br />
né abitudine 7 alle molte esperienze 8 su questa strada ti faccia violenza 9 ,<br />
a dirigere 10 l’occhio che non vede e l’orecchio risonante 11<br />
preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così: «Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle<br />
osservazioni di Calogero si richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84).<br />
4 Il non-essere è in questo caso espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono».<br />
Secondo Tarán (p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei sensi. Isolata la<br />
posizione di chi, come Reich, ha colto nella presunta «terza via» parmenidea un riferimento alla dottrina<br />
pitagorica della palingenesi: in tal caso μὴ ἐόντα sarebbe da intendere come accusativo maschile<br />
singolare, a designare il «morto», di cui la Dea vieterebbe di affermare l’esistenza. Per quel che può<br />
valere, è significativo che sia Platone sia Aristotele leggevano μὴ ἐόντα come neutro plurale.<br />
5 Simplicio (Fisica, 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος - «questa via di<br />
ricerca» - alla seconda via:<br />
ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται<br />
τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα∙ εἰπὼν γὰρ [B6.1b‐2] [B6.3-9]<br />
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8‐9] καὶ<br />
ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.]<br />
«sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano<br />
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice<br />
infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117.2)<br />
Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile<br />
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2],<br />
soggiunge [citazione B8.1 ss.]».<br />
Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via che conduce al non-essere»; inoltre B7.1-2<br />
seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere<br />
anche tra l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7.<br />
6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente,<br />
intelligenza, organo del pensiero e della comprensione.<br />
I primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco<br />
testuale. Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi,<br />
citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1. Non<br />
sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e<br />
montaggi. Noi scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore<br />
che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non esente da<br />
rielaborazioni linguistiche e contenutistiche).<br />
7 Coxon (p. 191) legge ἔθος contrapposto a νόημα, l’abitudine all’analisi intellettuale: la prima<br />
forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo.<br />
8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191)<br />
πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄<br />
ὁδοῦ del verso precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni<br />
metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sulla abitudine generata lungo la via di cui i mortali<br />
hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν,<br />
ma suggerisce la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la<br />
traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte<br />
esperienze; altri scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con «molto<br />
esperta», «molto abile».<br />
9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con «induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre<br />
frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel<br />
senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità.<br />
10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità e<br />
destrezza».<br />
77
[5] e la lingua 12 . Giudica 13 invece con il ragionamento 14 la prova 15 polemica 16<br />
11 Cerri (p. 217) rileva la <strong>natura</strong> ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le<br />
metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nella<br />
interpretazione. In B6, infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa<br />
prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale.<br />
12 Coxon (p. 192) sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la<br />
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua proposta è contestata, per ragioni<br />
semantiche (il significato dell’aggettivo - «risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα),<br />
da Tarán (p. 77), il quale invece suggerisce di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a<br />
ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come riconosce lo stesso<br />
Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende<br />
più plausibile la solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il<br />
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza ulteriori predicazioni, γλῶσσα<br />
non sia da porre sullo stesso piano degli altri organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non<br />
l’organo del gusto ma l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo<br />
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità».<br />
13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel senso di «scegli» (opzione<br />
adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19)<br />
preferisce «entscheide dich für» («deciditi per»).<br />
14 Secondo Cerri (p. 218), del termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente<br />
sinonimo di μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale (emergente<br />
anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema (B8.50) l’aspetto semantico del discorso<br />
che verbalizza il ragionamento (λόγος è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126),<br />
insistendo sul parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra λόγος e<br />
νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di cogliere il senso». A suo tempo<br />
Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si<br />
allontani dalla verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di recente<br />
Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale significazione è solo platonica e<br />
post-platonica, mentre in Parmenide λόγος avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in<br />
questo senso, egli preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in genitivo,<br />
facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a contrapporre, in Parmenide, il<br />
λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero (By Being, It Is, cit., pp. 136-7), convinto che il<br />
significato base sia ancora quello di «discorso»: nel nostro contesto il senso dell’espressione κρῖναι δὲ<br />
λόγῳ (con dativo strumentale) sarebbe «giudicare il discorso, l’argomentazione». A noi pare che la resa<br />
con «ragione» sia forzata, e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,<br />
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando il richiamo a e l'identificazione di una<br />
facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare un esercizio di controllo della discussione (λόγος,<br />
ἔλεγχος), pare prudente e funzionale.<br />
15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος. Liddell-Scott-Jones, con esplicito<br />
riferimento al nostro testo, indica come significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara<br />
Robbiano (pp. 106-7) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha ricordato come<br />
ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già implicita nei versi precedenti, ma anche agli<br />
argomenti di B8, che hanno «la forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova vari<br />
metodi tradizionalmente ritenuti in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando correttamente il suo<br />
(della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata completamente persuasa dal non seguire la seconda<br />
via, ma avrebbe anche riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo della<br />
prima via: la comprensione (insight) dell’Essere.<br />
16 L’aggettivo πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe alla<br />
polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In πολύδηρις – come osserva<br />
Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza<br />
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo - rende con una espressione<br />
di senso passivo: «molto contestata». Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides.<br />
78
da me enunciata 17 .<br />
Elatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton U.P., Princeton 1998, p. 104): «The elenchos<br />
(testing) is poludēris (rich in strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a<br />
battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas («Parmenidean Being/Heraclitean Fire»<br />
in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, p. 59), il<br />
quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che<br />
molto contesta».<br />
17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata») alla<br />
sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai passaggi precedenti (il<br />
participio va allora tradotto più opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e<br />
argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti, tenuto conto<br />
dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un<br />
passato appena compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del<br />
suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic<br />
Philosophy, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, p. 76) di tradurre in questo<br />
caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me».<br />
79
DK B8 vv. 1-49<br />
μόνος 1 δ΄ ἔτι 2 μῦθος 3 ὁδοῖο<br />
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι<br />
πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,<br />
οὖλον μουνογενές τε 4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον 5 ·<br />
[5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν 6 ,<br />
ἕν, συνεχές 7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;<br />
1 Abbiamo segnalato, commentando B7, la possibilità, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus<br />
Mathematicos VII.111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ<br />
ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in<br />
epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni<br />
editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di recente<br />
Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma<br />
autenticamente parmenidea.<br />
2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι.<br />
Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione.<br />
3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς.<br />
4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23,<br />
145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Coelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è considerato<br />
fonte indipendente), originariamente accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori<br />
contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla<br />
trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle<br />
sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ<br />
potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia<br />
ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo<br />
οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il testo del primo<br />
emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il<br />
testo è per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p.<br />
63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire dall'atmosfera<br />
pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi<br />
tramandato dai codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in Pseudo-<br />
Plutarco, Teodoreto ed Eusebio.<br />
5 La ricostruzione del testo di questo secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata<br />
nelle fonti antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. Tuttavia Simplicio presenta anche (nel commentario<br />
alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον. La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile,<br />
in quanto ripetizione di ἀγένητον del verso precedente. <strong>Sulla</strong> variante esistono comunque dubbi e non<br />
mancano le trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον, ἢ δι’<br />
ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il suo senso appare contraddetto<br />
da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον... πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di<br />
Simplicio e volendone evitare le implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come<br />
ἠδὲ τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri (Kirk-Raven-<br />
Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno proposto ἠδὲ τέλειον («e<br />
completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher, Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la<br />
versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.<br />
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio, Asclepio, Filopono,<br />
Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον. A seconda della punteggiatura<br />
potrebbe rendersi come: «poiché non era, non sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero:<br />
«poiché non era, non sarà, ma è solamente, tutto intero insieme».<br />
7 I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di <strong>natura</strong><br />
intera»), lezione difesa e preferita da Untersteiner.<br />
80
πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω 8<br />
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν<br />
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος 9 ὦρσεν<br />
[10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν;<br />
οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών 10 ἐστιν ἢ οὐχί.<br />
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ όντος 11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς<br />
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
[15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.<br />
πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν 12 ; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο;<br />
[20] εἰ γὰρ ἔγεντ΄13 , οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι.<br />
τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος 14 ὄλεθρος.<br />
οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·<br />
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,<br />
οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.<br />
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει.<br />
αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν<br />
ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος<br />
τῆλε 15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.<br />
8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici<br />
omerici e per lo più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω).<br />
9 Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel significato originario di<br />
«debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa<br />
(pp. 82-3).<br />
10 I codici attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula analoga, le lezioni<br />
si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp. 80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto<br />
tra le forme χρεών e χρεόν, sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto<br />
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, mentre χρεών sarebbe atticismo: a<br />
confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico.<br />
11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten -<br />
ἐκ τοῦ ἐόντος consente di concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può<br />
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον). La necessità<br />
dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102), ma combattuta con buone<br />
osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con qualche riserva sia relativamente alla fonte<br />
emendata – i codici di Simplicio rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle<br />
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della successiva proposizione<br />
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό.<br />
12 I codici DE di Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende πέλοιτο<br />
ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una minoranza di editori (tra gli altri<br />
Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν<br />
(«potrebbe poi perire ciò che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi<br />
abbandonata.<br />
13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione<br />
di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄ (EF) e ἔγετ΄ (D).<br />
14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Coelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Coelo abbiamo<br />
ἄπαυστος («incessante»), nel commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE<br />
il testo corrotto ἄπτυστος.<br />
81
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον 16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται<br />
[30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη<br />
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει,<br />
οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·<br />
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο.<br />
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.<br />
[35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον 19 ἐστίν,<br />
εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ ἔστιν 20 ἢ ἔσται<br />
ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν<br />
οὖλον 21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι 22 · τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23 ,<br />
15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε<br />
(τῆ δὲ E a ).<br />
16 Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con<br />
varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν<br />
δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico, resta in un identico [luogo]»).<br />
17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ<br />
ἐὸν (30.10, 40.6 E a F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30.10. 40.6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146.6 EF) o<br />
ἐπιδεές· μὴ ὂν (146.6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte<br />
ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta<br />
del testo greco più plausibile, propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές,<br />
accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien,<br />
Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ, conservando la forma epica<br />
ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come<br />
ἐπιδεές riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide,<br />
autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più antica forma indoeuropea<br />
[w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo<br />
scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando<br />
ἐπιδεές· μὴ ὂν.<br />
18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente<br />
equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per<br />
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis.<br />
19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146.8, 87.15 F; 143.23-24 EF) riportano πεφατισμένον,<br />
privilegiato dagli editori; altri manoscritti di Simplicio (Phys. 87.15 DE; 143.23-4 D) presentano invece<br />
πεφωτισμένον («è illuminato»).<br />
20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146.9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo<br />
esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da Conche) ha<br />
accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le<br />
proposte per aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né esisteva infatti»)<br />
– e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ <br />
ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys.<br />
86.31) – οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della<br />
lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146.9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto della citazione<br />
continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione<br />
dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86.31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di<br />
questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema<br />
disponibile a Simplicio.<br />
21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146.11; 87.1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.)<br />
οἶον («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»).<br />
82
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,<br />
[40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,<br />
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν.<br />
αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί<br />
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,<br />
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον<br />
[45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν 24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.<br />
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι 26<br />
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν 28 ἐόντος<br />
τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον·<br />
οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει 30 .<br />
[Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78]<br />
22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146.11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87.1 EF; D τ΄<br />
ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29.18; 143.10) τελέθει; l'Anonimo τε<br />
θέλει.<br />
23 Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono<br />
tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán,<br />
Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano,<br />
Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare<br />
questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come<br />
lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto,<br />
Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ(α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel<br />
contesto, ci sembra più <strong>natura</strong>le il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione.<br />
24 Si veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la<br />
forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può<br />
intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli<br />
dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι ... ἐστιν, ricorrendo ora<br />
a χρεών ora a χρεόν.<br />
25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε<br />
ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara<br />
dell’indefinito.<br />
26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta<br />
invece κινεῖσθαι.<br />
27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν.<br />
28 La forma κεν è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina<br />
κενὸν.<br />
29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla<br />
proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di<br />
Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come<br />
ἦ (espressione omerica per «in effetti», «certo»).<br />
30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D):<br />
κύρει è emendazione degli editori.<br />
Unica 1 parola 2 ancora, della via 3<br />
1 Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος<br />
ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie, esclusa<br />
una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via» da<br />
83
che 4 «è», rimane; su questa [via] sono 5 segnali 6<br />
esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti<br />
traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Bur<strong>net</strong>), ovvero «So<br />
bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven).<br />
2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola»<br />
(ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore<br />
del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota di<br />
B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and<br />
Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore di<br />
«authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso<br />
valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée».<br />
3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui<br />
specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta<br />
soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame.<br />
4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe<br />
semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31.<br />
5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο<br />
(«posero segni»): alla convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze<br />
dell’Essere.<br />
6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments,<br />
Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la<br />
propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così,<br />
secondo Cordero (By Being, It Is, p. 168), i σήματα sarebbero indicazioni, «prove» del carattere<br />
necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo<br />
la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente parlando – non siano<br />
da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il<br />
percorso di conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione specifica.<br />
A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito<br />
contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali<br />
negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto<br />
(G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom Wahr-Scheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur<br />
Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142):<br />
tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del<br />
principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone<br />
di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia<br />
ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da<br />
ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p.<br />
219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa<br />
potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience (interna ed<br />
esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di<br />
σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce<br />
l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è<br />
necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo<br />
fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca<br />
sempre ciò che è ….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e<br />
σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla<br />
prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano si riferisce all’episodio del<br />
riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla<br />
verifica dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità.<br />
Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα e loro interpretazione.<br />
La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di<br />
interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22B93:<br />
84
molto numerosi: che 7 senza nascita 8 è ciò che è 9 e senza morte 10 ,<br />
ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ<br />
σημαίνει<br />
«Il signore che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni».<br />
Il modello che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai<br />
mortali, per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata. La Robbiano, per altro,<br />
concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma<br />
ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece<br />
Colli (146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli<br />
attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza<br />
dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione.<br />
7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni<br />
possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable»<br />
(Tarán p. 85); «what-is is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς come<br />
congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré,<br />
est aussi impérissable» (O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La<br />
costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la<br />
significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I<br />
segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al<br />
contempo, manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua <strong>natura</strong> (per cui il come<br />
potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos p. 95), infine, la struttura che viene<br />
introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi<br />
procede a una loro giustificazione.<br />
8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito<br />
(citazione di Ippolito di B50):<br />
Ἡ. μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον,<br />
θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον∙ ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ<br />
τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι.<br />
«Eraclito sostiene che il tutto è diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale,<br />
logos eterno, padre figlio, dio giusto, e afferma: "non me ascoltando, ma il logos, è saggio<br />
convenire che tutto è uno»,<br />
ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio):<br />
ἀγένητα: στοιχεῖα. παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ<br />
«"Ingenerati": gli elementi secondo Empedocle».<br />
L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita (Eraclito), ovvero<br />
gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene<br />
(IX, 19) che Senofane sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile»<br />
(πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il termine<br />
potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe<br />
qui per la prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del semplice<br />
«ingenerato»: ἀγένητον in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga<br />
all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella<br />
di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del<br />
linguaggio e della esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277).<br />
9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per<br />
noi si tratta di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel contesto<br />
ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p.<br />
171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di<br />
85
tutto intero 11 , uniforme 12 , saldo 13 e senza fine 14 ;<br />
essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (p.<br />
141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore ancora temporale del participio a<br />
un significato atemporale: si tratterebbe di una <strong>net</strong>ta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui<br />
dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto<br />
al tempo.<br />
10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον ‐ formata con l’alfa privativo, indica<br />
letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro nella<br />
letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide<br />
ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III,<br />
4, 203 b13, DK 12A15; 12B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo:<br />
καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον∙ ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον [B 3] , ὥς φησιν ὁ<br />
Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων<br />
«E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono<br />
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della <strong>natura</strong>».<br />
Ciò potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori arcaici: Conche<br />
(p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e<br />
imperituro – corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali.<br />
11 Il termine οὖλον (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità<br />
implicite) è di diretta eco senofanea:<br />
οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει<br />
«Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode» (DK 21B24).<br />
12 Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μουνογενές dopo ἀγένητον<br />
(v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo<br />
(Agamennone, 808) non ha significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),<br />
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia, 426, 488), valorizza la<br />
«metafora arditissima» proprio nella «contraddizione sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν<br />
esprime sia la nozione di “nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές<br />
potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di unicità. Mourelatos<br />
(pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per<br />
esprimere distinzioni, familiare da Esiodo:<br />
Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν<br />
εἰσὶ δύω<br />
«Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra<br />
ce ne sono due» (Opere e giorni, vv. 11-12).<br />
L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci<br />
sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano<br />
μουνογενές a ἀτρεμὲς: "monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai vv. 26-<br />
33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in V. Caston, D:W.<br />
Graham, Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, Ashgate, Aldershot 2002,<br />
p. 73) questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,<br />
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel significato di «uniforme».<br />
13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma»<br />
dell’Essere, in contrasto con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle<br />
successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v. 29:<br />
«identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι μένει (v. 30: «stabilmente dove è<br />
rimane»): esse denoterebbero identità esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia<br />
86
[5] né un tempo 15 era 16 né [un tempo] sarà, poiché 17 è ora 18 tutto insieme 19 ,<br />
anche McKirahan (R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of<br />
Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 210), il quale però<br />
insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può<br />
cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua <strong>natura</strong>. Esso sarebbe, quindi,<br />
impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento<br />
fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147), tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές<br />
τε καὶ ἀτρεμὲς, lo avvicina a Platone, Fedro 250c3:<br />
ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί<br />
«integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo<br />
iniziati».<br />
Si tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette»)<br />
corrisponderebbe a οὐλομελές, indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna<br />
identico, evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul<br />
mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla<br />
conoscenza misterica.<br />
14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale, Heitsch e altri – attestato da<br />
Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine»,<br />
«senza termine». Cerri (pp. 222-3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto», riferendolo,<br />
senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto<br />
omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30.4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che<br />
l’essere di Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán p. 93).<br />
15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai». Abbiamo preferito<br />
conservare πότe come avverbio separato dalla negazione, riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p.<br />
283) interpreta πότε come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide<br />
contrapporrebbe l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale.<br />
16 In questo verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur<br />
Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes d’interprétation,p. 149), gli avverbi<br />
(πότε, νῦν) sono fondamentali come le tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν).<br />
17 Non è chiaro se ἐπεί si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν,<br />
συνεχές, cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni iniziale del<br />
v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è»<br />
(ἐόν) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia<br />
ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di<br />
alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan p. 207).<br />
18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un istante o una unità<br />
temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136), «l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante<br />
senza durata, o a una durata temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe<br />
una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso). O’Brien (Études, II, pp.<br />
335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea intenderebbe escludere generazione e<br />
corruzione e dunque, in quanto ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero<br />
(By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare la presenza propria<br />
dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere: l’essere non avrebbe nulla a che fare con il<br />
tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che,<br />
nel rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la<br />
presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe presente eterno, fuori dal tempo.<br />
Privilegiano questa dimensione della “atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero,<br />
Mondolfo, Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.) ritrova<br />
nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in ambito matematico: proposizioni<br />
87
uno 20 , continuo 21 . Quale nascita 22 , infatti, ricercherai di esso?<br />
Come 23 e donde cresciuto 24 ? Da ciò che non è non permetterò 25<br />
senza implicazioni temporali (tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e<br />
implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi<br />
è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia,<br />
sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In<br />
direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5 sarebbe<br />
quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto<br />
ontologico: l’Essere non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento.<br />
Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata temporale. È<br />
significativo, comunque, che sia assente una esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan<br />
(p. 206) sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza<br />
dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness" cit., p. 73)<br />
propone una lettura originale: in forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza,<br />
autosufficienza ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del<br />
futuro.<br />
19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout<br />
entier à la fois», accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità.<br />
20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è senz’altro il più<br />
importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν,<br />
συνεχές – in cui l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto<br />
che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è probabile che<br />
μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi<br />
οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come<br />
giustamente rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione platonicaneoplatonica.<br />
Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner preferisce quella alternativa di<br />
Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto <strong>natura</strong>le». Coxon osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia<br />
usato da Parmenide il termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui – qui e in<br />
v. 25 – συνεχές è virualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge come un unico blocco ὁμοῦ<br />
πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso<br />
complessivo sarebbe «all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide<br />
intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte le cose, affermando che<br />
esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non<br />
accettando la variante οὐλοφυές, ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il<br />
molteplice, ricomprendendolo piuttosto in sé.<br />
21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con<br />
se stesso» (Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con<br />
quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso,<br />
qui termina l’elenco dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa Da<br />
questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl,<br />
Plamer) fanno iniziare dal v. 5.<br />
22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento di<br />
Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich<br />
(p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità<br />
sono sì immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza<br />
morte».<br />
23 La formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e da<br />
dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita. Anche<br />
Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ.<br />
24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e<br />
il successivo (v. 8) implicito riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione<br />
agli infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito<br />
(quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande: assumendo che<br />
88
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare 26<br />
che «non è» 27 . Quale bisogno 28 , inoltre 29 , lo avrebbe spinto 30 ,<br />
[10] originando 31 dal nulla, a nascere 32 più tardi o 33 prima 34 ?<br />
Così 35 è necessario 36 sia per intero o non sia per nulla 37 .<br />
generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la<br />
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la<br />
generazione è un processo («come») che richiede un’origine («donde»).<br />
25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica<br />
imposta e fatta rispettare dalla razionalità della Dea.<br />
26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe rendersi come «non è infatti dicibile e<br />
pensabile», con la proposizione introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν –<br />
hanno dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare».<br />
27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness" cit., p. 77) suggerisce come soggetto<br />
implicito di οὐκ ἔστι «the potential generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile.<br />
28<br />
La formula τί χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale<br />
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo per la sua<br />
traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio).<br />
29 Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo<br />
avverbiale: esso rinforza l'interrogazione.<br />
30 Rendiamo in questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa)<br />
veicolata da ἄν + l’aoristo.<br />
31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità<br />
rispetto all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal<br />
nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli).<br />
32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono.<br />
33 La particella ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= latino<br />
quam).<br />
34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder später» (Diels),<br />
«prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima»<br />
(Cerri), «later or before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è<br />
comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la<br />
costruzione possa sembrare asimmetrica.<br />
Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion sufficiente»:<br />
nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo<br />
Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare<br />
la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il «pensiero dell’essere» di<br />
Parmenide. Una opinione diversa in proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se<br />
Parmenide intendesse marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi<br />
momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene<br />
rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più<br />
tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una<br />
ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in<br />
modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia<br />
ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre McKirahan<br />
osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del<br />
tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa.<br />
35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che<br />
introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v.<br />
11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più <strong>natura</strong>lmente collegato all'analisi dei<br />
successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella<br />
di tradurre l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore<br />
sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto<br />
detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11<br />
89
Né mai 38 concederà forza di convinzione 39<br />
che nasca qualcosa 40 accanto 41 a esso 42 . Per questo 43 né nascere<br />
concluda un passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In<br />
questo senso confermiamo la traduzione più comune.<br />
36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è giusto»: il suo significato - nel contesto<br />
dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche<br />
possibilità» da considerare relativamente a ciò che è.<br />
37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non<br />
deve essere per niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando<br />
di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere, ma anche<br />
un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101),<br />
questo verso non costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale,<br />
la «decisione», operata in connessione con le due vie.<br />
38 Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare<br />
che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro passo (Phys., 77, 9; 162, 11), offre il senso della<br />
emendazione:<br />
καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος<br />
αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος<br />
«Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che<br />
esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non<br />
essere» (162, 11).<br />
D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della<br />
Fisica (I, 8, 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic<br />
Philosophy cit., pp. 129-133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente<br />
agli Eleati):<br />
Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα.<br />
ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν<br />
ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί<br />
φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν<br />
εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων<br />
ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι∙ οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ<br />
ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι∙ ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς<br />
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν.<br />
«Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel<br />
che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la<br />
<strong>natura</strong> delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza.<br />
Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che<br />
si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile<br />
che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può<br />
generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E<br />
sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il<br />
molteplice, ma solo l'essere stesso».<br />
39 L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza di<br />
prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal<br />
contesto che πίστις è termine da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p.<br />
199) rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un potere<br />
attivo e non solo critico.<br />
40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né<br />
un ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente).<br />
90
né morire concesse Giustizia 44 , sciogliendo le catene 45 ,<br />
[15] ma [lo] tiene 46 . Il giudizio 47 in proposito 48 dipende da ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità 49 ,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
una via genuina 50 ), e che l’altra invece esista e sia reale 51 .<br />
41 Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono «oltre a», ovvero «in<br />
addizione a».<br />
42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ<br />
τοῦ ἐόντος. Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei codici - ἐκ μὴ<br />
ἐόντος – è più <strong>natura</strong>le cogliere in αὐτό un riferimento al non-essere, che appare però problematico: si<br />
dovrebbe ammettere che la Dea introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i<br />
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare ovvero nulla accanto, oltre a<br />
esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il<br />
pronome a ciò che è: nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere<br />
accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual, accretion) - suggerisce<br />
l’idea di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già esistente.<br />
43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo, introduce quel che segue come conseguenza di quel<br />
che precede (Conche p. 146).<br />
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al riferimento,<br />
riconoscendolo come «metafora» della «legge dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel<br />
tradizionale ruolo equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo notato nel<br />
proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite che la dea deve rigidamente<br />
sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale<br />
riposa sicura l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante della<br />
separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e integrità dell’essere.<br />
45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico<br />
giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come<br />
sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo<br />
l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della via.<br />
46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato,<br />
appunto a proposito di ἐόν.<br />
47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla<br />
formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza razionale del passaggio nella<br />
dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.<br />
In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il v. 11) la<br />
«decisione» tra le due vie.<br />
48 Letteralmente: «a proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione<br />
o della nascita e della morte.<br />
49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico,<br />
non personale.<br />
50 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)»<br />
non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147)<br />
insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla<br />
Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον<br />
εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che conduce<br />
effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη<br />
(B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al linguaggio ma alla realtà oggettiva.<br />
Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos<br />
presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La<br />
verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4<br />
recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è percorso – a Verità,<br />
infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla<br />
91
E come potrebbe esistere 52 in futuro l’essere 53 ? E come potrebbe essere nato 54 ?<br />
[20] Se nacque, infatti, non è 55 , e neppure [è] se 56 dovrà essere 57 in futuro.<br />
Così è estinta 58 nascita e morte oscura 59 .<br />
Doxa, utilizzerà la formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la<br />
Wilkinson (pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella<br />
suggerisce che ἀληθείη nel poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a<br />
Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento al<br />
discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è».<br />
51 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i<br />
due termini sono impiegati sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5.<br />
52 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς<br />
δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni<br />
che seguono, rende diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come<br />
into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere<br />
o diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν<br />
(«potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione.<br />
53 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν.<br />
54 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato».<br />
55 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il passato<br />
ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a<br />
una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da<br />
come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso<br />
da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi<br />
verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, aoristo, si<br />
riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo<br />
momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur<br />
Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento<br />
fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni<br />
possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non<br />
esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227).<br />
56 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]».<br />
57 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere<br />
l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La<br />
presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et<br />
l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit. t. II, p. 139).<br />
McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento<br />
dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che<br />
qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità.<br />
Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la<br />
cosa realmente è, nella sua essenza o <strong>natura</strong>». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e<br />
«essere durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità.<br />
58 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις<br />
(genesi, nascita) sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata<br />
da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due proposizioni<br />
coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del<br />
primo segno intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di tempo<br />
e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire incessante: Parmenide non<br />
negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni<br />
non si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può rivendicare la<br />
estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9).<br />
59 Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione ἄπυστος<br />
ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la<br />
resa di McKirahan: «Thus generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p.<br />
92
Né è divisibile 60 , poiché 61 è tutto omogeneo 62 ;<br />
né c’è qui qualcosa di più 63 che possa impedirgli di essere continuo 64 ,<br />
né [lì] qualcosa di meno 65 , ma è 66 tutto pieno 67 di ciò che è 68 .<br />
196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare,<br />
cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da<br />
investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος conserverebbe lo<br />
stesso valore: la corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la<br />
generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una<br />
osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto<br />
necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe<br />
appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος.<br />
60 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia<br />
come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla<br />
seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già<br />
oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50)<br />
rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni<br />
discriminazione interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che,<br />
considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere<br />
differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere.<br />
61 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25).<br />
62 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più<br />
efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non<br />
predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso<br />
modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan<br />
intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere<br />
tutto uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e<br />
uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni discriminazione<br />
e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν<br />
ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto<br />
discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti.<br />
63 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore<br />
intensivo del comparativo («any more in degree»).<br />
64 McKirahan (p. 197) sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding<br />
together», tenersi insieme, e accosta il significato del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che<br />
egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni<br />
strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di<br />
estrema coesione.<br />
65 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata<br />
traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in<br />
questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno).<br />
66 Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full of<br />
Being», Tarán).<br />
67 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è<br />
continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva<br />
come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being»,<br />
che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla<br />
completa pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura<br />
complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11, cui<br />
essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (p. 50), sottolineando come il contesto non<br />
sia quello di una analisi fisica, ma di una considerazione ontologica (condotta alla luce della distinzione<br />
fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν<br />
93
[25] È perciò tutto continuo 69 : ciò che è si stringe 70 infatti a ciò che è 71 .<br />
Inoltre 72 , immobile 73 nei vincoli 74 di grandi catene 75 ,<br />
ἐόντος come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere<br />
con spazialità fisica, vuoto e massa.<br />
68 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v.<br />
22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel successivo v.25 ξυνεχὲς πᾶν<br />
ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον.<br />
69 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a<br />
parte la solitaria occorrenza di ἕν nel verso 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno».<br />
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con συνέχεσθαι<br />
suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così in vece di<br />
«continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di<br />
difficile resa italiana, «holding together».<br />
70 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente<br />
collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p.<br />
133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un<br />
viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere.<br />
71 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e<br />
non è possibile non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente<br />
il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la molteplicità dispersa<br />
degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide cit., p. 153) osserva come<br />
questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò che<br />
è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in<br />
relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione:<br />
una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà.<br />
72<br />
Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore<br />
progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides cit., pp. 83-4).<br />
73 L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω:<br />
nel primo caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel<br />
secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos pp. 117-120). Tarán giustamente<br />
sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla<br />
immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente<br />
luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale<br />
insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con<br />
assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori<br />
conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν).<br />
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione<br />
«immobile» coinvolgerebbe l’idea della <strong>natura</strong> fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva<br />
rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è.<br />
Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura una immobilità fondata nella assenza di relazioni con il<br />
Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla.<br />
74 Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione<br />
omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento<br />
stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso<br />
paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente contrastante con la nozione di<br />
ὁδός («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove,<br />
invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto, quello di<br />
κινεῖν è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento:<br />
muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere oggetto<br />
di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica ma ancora operante in<br />
Aristotele (la teoria dei luoghi <strong>natura</strong>li) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della<br />
sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come<br />
moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico.<br />
94
è senza inizio e senza fine 76 , poiché nascita e morte<br />
sono state respinte 77 ben lontano 78 : convinzione genuina 79 [le] fece arretrare.<br />
Identico e nell’identica condizione 80 perdurando 81 , in se stesso 82 riposa 83 ,<br />
75 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio<br />
«torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito<br />
prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra<br />
opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si<br />
ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello «già presente<br />
nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo<br />
«mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII.296-<br />
98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo:<br />
ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ<br />
τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο,<br />
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι<br />
«e tutto intorno le catene<br />
ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto,<br />
ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi».<br />
76 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla<br />
immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione<br />
adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di<br />
Anassimandro (DK 12A15):<br />
οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον<br />
«di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile».<br />
77 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and<br />
perishing have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-<br />
Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva.<br />
78 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo,<br />
dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza<br />
dall’Essere di generazione e corruzione.<br />
79 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in<br />
particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις,<br />
intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il<br />
termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la<br />
prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera,<br />
veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione.<br />
80 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo»<br />
e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla<br />
condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo dellespressione in<br />
Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più<br />
generale rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan (p.<br />
201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di<br />
ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e<br />
nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte verbali - «perdurare»,<br />
«rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di<br />
essere in quel modo.<br />
81 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21B26 di Senofane:<br />
αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν<br />
οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι<br />
«Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove,<br />
95
[30] e, così, stabilmente 84 dove è 85 persiste 86 : dal momento che Necessità 87 potente 88<br />
né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro».<br />
82 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma<br />
anche «indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua<br />
prospettiva si tratta di una espressione plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può<br />
cessare di essere in quel modo.<br />
83 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di Eraclito e, soprattutto,<br />
nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di Epicarmo DK 23B2.9:<br />
ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει<br />
«ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto».<br />
I versi 29-30 sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come la<br />
formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti non-interazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe a un tempo,<br />
nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando<br />
complementare all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e identità: la<br />
saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il Non-<br />
Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness) dell’eon con se stesso.<br />
84<br />
Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον, che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva<br />
McKirahan (p. 200), il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29.<br />
85 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi e troppo immediati<br />
(anche se non è da escludere a priori che proprio tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche<br />
(p. 156), invece, preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non temporale<br />
– un «qui» non spaziale.<br />
86 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι μένει è formula epica, che richiama il celebre<br />
episodio in cui Odisseo si fa legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene<br />
(Odissea XII.160-2):<br />
ἀλλά με δεσμῷ<br />
δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω,<br />
ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω<br />
«ma con funi<br />
saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile,<br />
ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde».<br />
Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione<br />
dell’essere da qualsiasi variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere<br />
militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o<br />
temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione<br />
a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi<br />
esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei<br />
limiti che costringono la <strong>natura</strong> di ciò-che-è.<br />
87 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e<br />
incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità,<br />
Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-cheè<br />
nel suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto<br />
assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira),<br />
Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di<br />
necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur<br />
Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel individuò il<br />
significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H.<br />
Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München<br />
1964, pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo,<br />
96
nelle catene del vincolo 89 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra 90 .<br />
Per questo 91 non incompiuto 92 l’essere [è] lecito che sia 93 :<br />
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere 94 , invece, mancherebbe di tutto.<br />
catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si<br />
sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe<br />
origine proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla<br />
testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e collegandola alla<br />
nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo<br />
senso essa avrebbe la funzione di “destino” o “legge di <strong>natura</strong>”: qualcosa che si può esprimere in termini<br />
di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6).<br />
88 L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’<br />
ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai confini<br />
della terra», come segnalano vari commentatori.<br />
89 Ovvero «nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da<br />
intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere<br />
sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p.<br />
200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle catene Barbara<br />
Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in<br />
Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII.158-162:<br />
Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων<br />
φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα.<br />
οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν∙ ἀλλά με δεσμῷ<br />
δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω,<br />
ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω<br />
«Per prima cosa ci impone delle Sirene<br />
di evitare il canto e il loro prato fiorito.<br />
Posso ascoltarlo solo io, ma con fune<br />
saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile,<br />
ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le funi».<br />
90 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca<br />
per cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119).<br />
91 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di «ragion per cui», «cosa a<br />
causa della quale»; ha anche il significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e<br />
può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa<br />
etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere sia giustificata in quel che<br />
precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile<br />
matrice letteraria.<br />
92 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza omerica di<br />
«unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra<br />
l’essere vincolato e l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore di<br />
«realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa alla propria realizzazione.<br />
Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the<br />
World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge1988 2 , pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo<br />
τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo ἀνύω<br />
(consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime<br />
compimento, realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in<br />
relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di «fine», nel<br />
senso di «estremità» o «termine».<br />
93 Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana.<br />
94 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν:<br />
quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci<br />
97
La stessa cosa 95 invero è pensare 96 e il pensiero 97 che 98 «è»:<br />
[35] giacché non senza l’essere, in cui 99 [il pensiero] è espresso 100 ,<br />
troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ<br />
ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il non-essere, invece,<br />
mancherebbe di tutto». D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea<br />
ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto».<br />
95 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide<br />
fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio,<br />
Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le<br />
implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se<br />
qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza<br />
dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del<br />
testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im<br />
Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-<br />
41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides &<br />
Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del<br />
frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit.,<br />
pp. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema<br />
utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella<br />
prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre<br />
fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può<br />
averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e<br />
ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri<br />
problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico, di<br />
aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v.<br />
41.<br />
96 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. <strong>Sulla</strong> traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono<br />
due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought»<br />
(Mourelatos), «is there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p.<br />
203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione come un richiamo di B2.2: ciò che è<br />
disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”).<br />
97 Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta conclusione di B2): ciò<br />
che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non<br />
esiste altro oltre ciò che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). <strong>Sulla</strong> scorta<br />
di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche l’affermazione di B5: «indifferente<br />
è per me donde debba iniziare: là, infatti, ancora una volta farò ritorno».<br />
98 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri,<br />
Calogero («La stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended]<br />
and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the same to think and the thought that [the object<br />
of thought] exists»), O’Brien («C’est une même chose que penser, et la pensee : “est”»),<br />
Conche («C’est le même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la pensée<br />
que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale, composta dal pronome neutro<br />
(caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il<br />
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is cause of<br />
the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»),<br />
Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which<br />
there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken<br />
verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso:<br />
«Denken und des Gedankens Ziel ist eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à<br />
dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p.<br />
203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia<br />
contemporaneamente anche una sfumatura finale.<br />
99 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere»,<br />
sono state proposte varie alternative. Zeller, Bur<strong>net</strong>, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere<br />
ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A<br />
98
troverai il pensare. Né 101 , infatti, esiste, né esisterà<br />
altro oltre 102 all’essere 103 , poiché 104 Moira lo ha costretto 105<br />
a essere intero e immobile 106 . Per esso 107 tutte le cose saranno nome 108 ,<br />
conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in<br />
what has been expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte<br />
obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ<br />
come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il<br />
passo in traduzione risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that where<br />
understanding has been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una<br />
formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe, insomma, che non si<br />
può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la<br />
comprensione non è sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo,<br />
come versione più <strong>natura</strong>le, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels<br />
(«denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken<br />
antreffen»).<br />
100 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo<br />
dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso,<br />
πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐<br />
οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐ οὔτε φράσαις (B2.7-8).<br />
101 Rendiamo le due congiunzioni ... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né».<br />
102 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ).<br />
103 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere,<br />
implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto all’essere o<br />
comunque estraneo a esso.<br />
104 Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e<br />
unicità dell’essere parmenideo.<br />
105 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di<br />
metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica.<br />
106 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente<br />
richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione,<br />
come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione.<br />
Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della costrizione a essere<br />
pienamente ciò che è.<br />
107 Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal<br />
momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua traduzione risulta:<br />
«to it all things have been given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in<br />
Empedocle B8.4:<br />
φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν<br />
«<strong>natura</strong> è data come nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini».<br />
La resa pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da<br />
noi adottata:<br />
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται<br />
«Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome».<br />
Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò».<br />
108 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα:<br />
genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui <strong>natura</strong> mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa<br />
dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all<br />
things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real world], are<br />
all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p.<br />
99
quante i mortali stabilirono 109 , persuasi che fossero reali 110 :<br />
[40] nascere e morire, essere e non essere,<br />
cambiare luogo 111 e mutare luminoso colore 112 .<br />
Inoltre, dal momento che [c’è] 113 un limite 114 estremo 115 , [ciò che è] è compiuto 116<br />
da tutte le parti 117 , simile 118 a massa 119 di ben rotonda 120 palla 121 ,<br />
231) «in relazione a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a<br />
Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero»)<br />
al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle<br />
versioni degli ultimi decenni.<br />
109 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la<br />
matrice linguistica della ordinaria comprensione del mondo.<br />
110 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del<br />
passo: i vv. 34-38 argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv.<br />
38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro<br />
pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è<br />
l’oggetto dei loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e<br />
corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i «mortali» applicano all'essere<br />
– commettendo un errore – tutte le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi<br />
all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose.<br />
111 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto<br />
probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica<br />
nei confronti dei sostenitori della esistenza del vuoto, ma solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno<br />
del moto locale.<br />
112 Il secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2)<br />
rende con «change their bright complexion to dark and from dark to bright». Come Reinhardt, egli coglie<br />
un'allusione alla successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni<br />
dipendono soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά ovvero χρόα,<br />
«superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di «complessione» (cui si riferisce anche<br />
Coxon) sia nel contesto da preferire quello più generico di «colore».<br />
113 La proposizione introdotta da ἐπεί può omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come<br />
predicato verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo».<br />
114 Mourelatos (pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia progressivamente «più<br />
plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio culmine appunto in questo<br />
passaggio.<br />
115 L’aggettivo πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo<br />
di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p. 176).<br />
116 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che è, risultando equivalente di<br />
πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni<br />
spaziali, letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si<br />
tratta di <strong>natura</strong>li sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in ambito filosofico,<br />
hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come<br />
attesta il contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una<br />
interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del reale (preservandola dal Non-<br />
Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le<br />
apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione conclusiva<br />
della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς<br />
πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero esistenti».<br />
117 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia<br />
che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un<br />
punto di vista, una prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più suggeriscono<br />
anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che rinserrano tutto intorno).<br />
118 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si<br />
badi bene, direttamente a σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione).<br />
100
a partire dal centro 122 ovunque di ugual consistenza 123 : è necessario, infatti, che esso non<br />
sia in qualche misura di più,<br />
119 Il termine ὄγκος può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da<br />
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente all'estensione fisica,<br />
tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di<br />
recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non<br />
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione<br />
giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della<br />
sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di<br />
forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come «estensione fisica»:<br />
«fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura»,<br />
per evitare la tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo<br />
tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il<br />
carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma.<br />
120 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a εὐκύκλου σφαίρης<br />
ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il<br />
contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha<br />
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν – e ἀληθείης<br />
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma archetipica della perfezione e della totalità.<br />
121 Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν<br />
(giocare a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere fosse detto simile<br />
ad una sfera, l’implicazione potrebbe essere che esso non è veramente una sfera, mentre se è detto simile<br />
ad una palla, la giustificazione per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera».<br />
L’espressione εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide<br />
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è<br />
sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come<br />
la comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di<br />
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla<br />
curvatura esterna della sfera.<br />
Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi,<br />
a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso<br />
precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore più coerente della <strong>natura</strong><br />
geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Firenze<br />
1966): l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide avrebbe tenuto presenti<br />
spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea<br />
densa, cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico,<br />
occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della consapevolezza<br />
cognitiva del kouros, la Stemich (p. 212) ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte<br />
le forme, attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di<br />
pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è completamente conchiusa in se stessa,<br />
coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea.<br />
122 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il termine μεσσόθεν è stato spesso volto in<br />
senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del<br />
mondo e che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece,<br />
sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere<br />
«non-fisico», e funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume<br />
della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale dipendenza<br />
dal suo proprio centro.<br />
123<br />
Intendiamo l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza<br />
dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile<br />
σφαῖρη), dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla». Dal<br />
centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo<br />
stesso «equilibrio», la stessa «spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e<br />
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»: forza e potenza<br />
101
[45] o in qualche misura di meno 124 , da una parte o dall’altra 125 .<br />
Non c’è, in effetti, non essere 126 , che possa impedirgli di giungere<br />
a omogeneità 127 , né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 128 -<br />
qui più, lì meno 129 , poiché 130 è tutto inviolabile 131 .<br />
A se stesso, infatti, da ogni parte uguale 132 , uniformemente 133 entro i [suoi] limiti<br />
rimane 134 .<br />
dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia al centro, senza<br />
possibilità di differenza alcuna in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere<br />
come «uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico dell’aggettivo: è in<br />
particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può<br />
sfuggire: ἰσοπαλές si riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,<br />
invece, la definizione di equidistanza: ἰσοπαλές esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni<br />
direzione.<br />
124 Rendiamo in questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità<br />
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano anche i successivi τῇ<br />
μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48).<br />
125 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli esterni,<br />
ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta uguaglianza che sussiste tra le parti.<br />
126 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ<br />
ἐὸν «significa né più né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”».<br />
127 Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere e<br />
discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa direzione anche le traduzioni di<br />
O’Brien («à la similitude ») e Conche («à l’egalité à soi-même»).<br />
128 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in<br />
italiano. Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla<br />
ripetizione greca.<br />
129 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già<br />
argomentate, e dunque la pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213),<br />
Parmenide ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza della tesi<br />
che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico<br />
e condurlo a comprendere il suo punto più chiaramente.<br />
130 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον,<br />
ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta<br />
proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a sostegno di quanto<br />
affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ,<br />
legando quindi il v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni<br />
parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo ἐπεὶ introdurrebbe la ragione<br />
per l'affermazione (riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane».<br />
131 Il termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico<br />
religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri, associati al culto, la violenza<br />
nei confronti dei quali era perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e<br />
Parmenide cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione del proemio.<br />
Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è,<br />
che gli impedisce di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi o<br />
gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213).<br />
132 Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che esclude nonessere<br />
e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è<br />
universalmente uguale a se stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν<br />
πείρασι κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere quello<br />
che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla<br />
sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si<br />
guardi.<br />
102
133 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso<br />
modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi<br />
limiti sia un modo di affermare che è simmetrico.<br />
134 Colli (Gorgia e Parmenide cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un<br />
elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica dell’essere, presentando l’essere<br />
quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo<br />
modo l’essere sarebbe presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità,<br />
dall’interno il dinamismo.<br />
103
DK B8 vv. 50-61<br />
[50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης 1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων.<br />
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας 2 ὀνομάζειν·<br />
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν ‐ ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν ‐·<br />
[55] ἀντία 3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο<br />
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ,<br />
ἤπιον ὄν 4 , μέγ΄ ἐλαφρόν 5 , ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,<br />
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό<br />
τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε.<br />
[60] τόν 6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8 .<br />
[Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61<br />
Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39]<br />
1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino.<br />
2 I codici DEE a F di Simplicio Phys. 39.1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori; i<br />
codici DEF di Phys. 30.23 e DEF 2 di Phys. 180.1 riportano invece γνώμαις.<br />
3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία.<br />
4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν.<br />
5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la<br />
presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto<br />
rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con<br />
conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che<br />
sceglie di conservare il testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia<br />
ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν,<br />
ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da<br />
considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12A22, Anassimene DK<br />
13B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p.<br />
223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso<br />
e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide.<br />
6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di correggere il testo dei<br />
codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto<br />
verosimile».<br />
7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon,<br />
O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno dei<br />
mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon).<br />
8 I codici E a F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in<br />
παρελάσσῃ.<br />
[50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile 1 e al pensiero<br />
intorno a Verità 2 ; da questo momento 3 in poi opinioni 4 mortali 5<br />
1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche<br />
caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν<br />
λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto.<br />
2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche come «pensiero<br />
intorno alla realtà».<br />
104
impara 6 , l’ordine 7 delle mie 8 parole 9 ascoltando 10 come cosa che può ingannare 11 .<br />
3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da<br />
ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...]μάνθανε.<br />
4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni».<br />
5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe<br />
forse rendersi semplicemente con «opinioni umane».<br />
6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro<br />
μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere<br />
all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione<br />
scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come<br />
μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza della<br />
esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις<br />
(«conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza,<br />
evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre.<br />
7 Si potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è<br />
da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement»)<br />
nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma». Nella<br />
cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV<br />
secolo in Democrito (DK 68B21): in entrambi i casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico.<br />
Coxon (p. 218), che rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la<br />
sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve esporre. Una<br />
interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61",<br />
in Études sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come<br />
complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del mondo». Robbiano<br />
(p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione<br />
ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere<br />
intelligente), precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione originaria)<br />
all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si<br />
riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva<br />
(umana) e non a ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean<br />
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate,<br />
Aldershot 2002, p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui la dea<br />
parla: «da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto) il<br />
mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le affermazioni di cui consta la<br />
Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di<br />
per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza.<br />
8 L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di responsabilità<br />
nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1),<br />
ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60).<br />
9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe<br />
contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e<br />
δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel<br />
contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole che seguono<br />
sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole<br />
della grammatica e della poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo.<br />
10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità<br />
all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza.<br />
11 Aderendo a un suggerimento di Cerri (pp. 244-5), rendiamo ἀπατηλὸν come svolgesse funzione<br />
predicativa e non attributiva. Per quanto riguarda il valore dell'espressione, dobbiamo a J. Frère (op. cit.,<br />
p. 201) il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il corrispettivo<br />
moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare». La sua resa francese è la seguente: «[un<br />
ordre du monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e<br />
105
Presero 12 la decisione 13 , infatti 14 , di dar nome 15 a due 16 forme 17 ,<br />
ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un<br />
complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»: Ruggiu nel suo<br />
commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla<br />
verità e all'errore (come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Il mondo<br />
dell'apparire è seducente perché se non è colto nella sua connessione con ciò che non appare - la<br />
dimensione profonda afferrata dal pensiero (νοεῖν) – e che tuttavia è fondamento dello stesso apparire,<br />
induce all'inganno. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον<br />
ἐπέων ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie.<br />
L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità<br />
κόσμος‐ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle parole della<br />
dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos<br />
invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e<br />
l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo<br />
intenderebbe deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e<br />
Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di Parmenide: i<br />
mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa<br />
l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane!<br />
12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire al<br />
pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri<br />
umani», cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv. 34-41.<br />
Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile<br />
pensare che tutti i «mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto<br />
«alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung<br />
im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di<br />
κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis<br />
(Mythe et philosophie cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente dai mortali (senza<br />
discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano<br />
smarriti solo su un punto preciso (B8.54).<br />
13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un<br />
riferimento del discorso della Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht cit., p.<br />
92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro<br />
caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si potrebbe<br />
rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe costruire il verso facendo dipendere da<br />
κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο («due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore<br />
finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai loro<br />
punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber) sia<br />
γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο («posero due forme [come] principi per<br />
nominare»). Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They<br />
estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 278-<br />
9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque signifiante»; ne risulta: «En<br />
effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della<br />
frase molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p. 190).<br />
Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo caso essere costruito con il<br />
complemento diretto. Tenendo conto del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono<br />
riconducibili essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto<br />
γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei codici DEF la<br />
variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme<br />
per nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come<br />
accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più<br />
lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque<br />
tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che<br />
106
delle quali l’unità 18 non 19 è [per loro] 20 necessario [nominare] 21 : in ciò sono andati fuori<br />
strada 22 .<br />
riscontra nel verso una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto<br />
sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e<br />
κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può<br />
richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5).<br />
14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., p. 354) ha di recente sottolineato come il γὰρ di<br />
questo verso abbia poco senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le<br />
affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di<br />
"restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52.<br />
15 La decisione di nominare implica una arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39:<br />
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ<br />
«Perciò tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali».<br />
Sullo stesso motivo ancora in B19:<br />
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι<br />
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα·<br />
τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ.<br />
«Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono,<br />
e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno.<br />
A queste cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna».<br />
Se teniamo conto della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo<br />
effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è indissociabile dalla concezione<br />
parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo una anticipazione della distinzione-opposizione<br />
tra nomos e physis.<br />
16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia una doppia associazione,<br />
traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali<br />
corrisponderebbe così a quella di B6.4-5.<br />
17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246) quello di strutture categoriali, create<br />
dall'uomo in funzione delle sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe<br />
successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare<br />
direttamente il verso parmenideo:<br />
θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές<br />
«vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra<br />
dell'invisibile?» (Fedone 79a 6-7).<br />
Nella stessa direzione Robbiano (p. 181), che vede nelle due forme opposte la possibilità di ridurre il<br />
molteplice dell'esperienza «to a minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del<br />
termine, Cordero (By Being, It Is cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms».<br />
Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del successivo riferimento a<br />
δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger<br />
(The Cosmology of Mortals, in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, cit.,<br />
p. 112) osserva come la scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per<br />
un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà alle apparenze.<br />
18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina<br />
nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine accolta<br />
anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una<br />
non avrebbe dovuto essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come<br />
107
epliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe<br />
l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto della interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto<br />
di critica, in quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si<br />
potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista interpretativo accosta<br />
arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i<br />
contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due<br />
forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato da Raven: «two<br />
forms, of which it is not right to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una<br />
terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner,<br />
Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno<br />
errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata:<br />
«mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd<br />
l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha<br />
sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta<br />
possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di<br />
Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei<br />
Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name two<br />
forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi<br />
che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Da un lato abbiamo δύο μορφαί, dall'altro<br />
μία (μορφή); il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma<br />
collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve<br />
essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non<br />
cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di<br />
Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld p. 126):<br />
«denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu benennen,<br />
von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht<br />
notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen».<br />
Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica, 31.8-9):<br />
τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας<br />
«[si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che<br />
producono la generazione».<br />
Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati cit., pp. 244 ss.. Di<br />
recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato<br />
di τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX.122), dove, però τῶν μίαν è<br />
riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa tra due elementi (quindi<br />
non potrebbe utilizzarsi ἑτέρην).<br />
19 È da riferire a χρεών ἐστιν.<br />
20 Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte<br />
della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra<br />
suggerita anche dalla relativa seguente.<br />
21 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei<br />
precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce<br />
nel contesto ὀνομάζειν.<br />
22 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il valore<br />
implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto distingua l'allusione storica ai<br />
pensatori ionici dall'analisi dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare,<br />
πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in<br />
vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si chiarisce anche che le<br />
allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici. La <strong>natura</strong> dell'errore cui si allude dipende dalla<br />
108
[55] Scelsero 23 invece [elementi] 24 opposti 25 nel corpo 26 e segni 27 imposero<br />
separatamente 28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco 29 ,<br />
che è mite 30 , molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico 31 ,<br />
lettura dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero<br />
aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio. Secondo Patricia Curd (The<br />
Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton Univeristy Press,<br />
Princeton 1998, pp. 104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la<br />
Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini speculari l'uno<br />
dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere<br />
e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ<br />
πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la<br />
validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54-9, così da aprire la possibilità<br />
di una nuova comprensione della incidentale relativa (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe<br />
esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65).<br />
23 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο<br />
come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di<br />
κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di<br />
dar nome a due forme» e «alcuni invece scelsero ... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un<br />
soggetto indefinito.<br />
24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale<br />
ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber,<br />
sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di<br />
«elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma».<br />
25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario»,<br />
«oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di<br />
relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in<br />
relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo.<br />
Intendiamo ἀντία come neutro plurale.<br />
26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che<br />
Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di<br />
forma corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo<br />
modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più sensata.<br />
27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella<br />
scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di<br />
B2 e delle proprietà dell’essere (B8).<br />
28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄<br />
ἐκρίναντο).<br />
29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il<br />
fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua<br />
fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale<br />
Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente<br />
Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ<br />
risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial light»,<br />
originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante<br />
connesso alla regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo,<br />
insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per indicare<br />
una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e<br />
νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο.<br />
30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς<br />
αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio».<br />
Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare<br />
poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso».<br />
109
ispetto all’altro, invece, non identico 32 ; dall’altra parte, anche quello in se stesso 33 ,<br />
le caratteristiche opposte 34 : notte oscura 35 , corpo denso e pesante 36 .<br />
31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la caratteristica identità<br />
uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali<br />
per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà<br />
emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe<br />
et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei<br />
«mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di<br />
riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p.<br />
140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di<br />
«elemento»: proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i<br />
costitutivi concettuali decisivi.<br />
32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce<br />
Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della<br />
identità e non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν ‐<br />
μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice:<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν [...]<br />
«per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa».<br />
A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of Mortals", in Presocratic<br />
Philosophy cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da<br />
quella delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità delle forme,<br />
inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria autoidentità<br />
di aspetto. Nehamas («Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, cit., p.<br />
55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno dall'altro, ognuno<br />
completamente identico a sé e differente dall'opposto - non si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro:<br />
la loro «separazione radicale» sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla<br />
«pervasiva confusione di essere e non-essere» denunciata in B6.<br />
33 Diels (DK vol. I, p. 240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade»)<br />
e κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»).<br />
34 L'espressione τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto<br />
indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e le sue<br />
connotazioni. La contrarietà nella cosmologia di Parmenide è istanziata in due principi distinti e<br />
indipendenti, a differenza di quanto si registrava nelle cosmogonie ioniche.<br />
35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere (costruzione con alfa<br />
privativo del verbo δάω, «imparare», «conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p.<br />
60), ma anche «absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro», proprio<br />
in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 223) preferisce rendere l'aggettivo in senso<br />
attivo come «unintelligent». O'Brien in francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione<br />
più sfumata: «dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa essere intesa in<br />
senso epistemico negativo (impe<strong>net</strong>rabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto all'accostamento<br />
aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che<br />
alcune delle caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità) richiamano quelle<br />
arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere e giorni, vv.<br />
547-556). <strong>Sulla</strong> origine e sui caratteri degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il<br />
contributo di Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano come in<br />
origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico, ma una condizione: la condizione<br />
che rende invisibili le cose, assimilabile dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva<br />
realtà (p. 143).<br />
36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due forme tre distinti aspetti: (i)<br />
denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii) teoretico-conoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’<br />
110
[60] Questo ordinamento 37 , del tutto 38 verosimile 39 , per te 40 io 41 espongo 42 ,<br />
ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune<br />
auto-identità e etero-differenza delle due forme.<br />
37 Mourelatos (p. 230) coglie nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del<br />
mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una cosmogonia. Inoltre, in<br />
relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B.12.5), l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe<br />
rovesciata nel senso di «segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un<br />
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per indicare l'ordinamento cosmico<br />
pitagorico e in genere anche nella forma verbale διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (p.<br />
183), riprendendo la propria interpretazione del termine kosmos, osserva come il termine diakosmos sia<br />
qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della realtà, non esiste<br />
oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (pp. 64-<br />
5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle due forme, che prelude alla<br />
introduzione della nozione di mescolanza, impiegata nella parte “appropriata” della Doxa. In questo<br />
senso, le espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del tutto<br />
appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano<br />
confusi (p. 67-8).<br />
38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this<br />
whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale».<br />
39 Il significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming like,<br />
like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle<br />
due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide<br />
ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως<br />
(B1.32). Reale-Ruggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il<br />
suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323),<br />
piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di<br />
εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con<br />
Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche<br />
Couloubaritsis (pp. 264-5) sottolinea la positività del termine, optando per il valore di «conveniente»,<br />
adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria<br />
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo conto della critica rivolta ai<br />
mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo<br />
stesso gioco di positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non<br />
iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea e il kouros «apparente».<br />
Per Robbiano (p. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa che<br />
l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo<br />
verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose) conveniente»,<br />
ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il<br />
termine di paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμοςδιάκοσμος)<br />
e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di dire cose simili<br />
a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente:<br />
l'essere, concepito come la realtà genuina.<br />
40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore<br />
diretto il destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p.<br />
223).<br />
41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la<br />
scelta di luce e notte agli esseri umani, considerandole integrali alla <strong>natura</strong> dell'esperienza umana, ella<br />
invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è suo. Un aspetto<br />
rilevato anche da Thanassas (p. 71): il pronome personale ἐγώ, in greco non necessario, sarebbe<br />
impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa<br />
ingannevole a quella appropriata.<br />
111
così che mai alcuna opinione 43 dei mortali possa superarti 44 .<br />
42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando la struttura della frase: «This order of<br />
things I declare to you to be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 262-3)<br />
sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare una promessa, un impegno.<br />
Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le<br />
implicazioni lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un dio o<br />
di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si<br />
tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile.<br />
Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere al<br />
giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo<br />
spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano<br />
potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva<br />
della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno<br />
di questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ<br />
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν).<br />
43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio»,<br />
«opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano<br />
l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei<br />
mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto,<br />
massime di saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come<br />
«wisdom» e Couloubaritsis come «savoir».<br />
44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il<br />
verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel<br />
superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner<br />
ha sottolineato anche il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da<br />
Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva<br />
l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere<br />
con successo con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata,<br />
è quella di Granger (op. cit. pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior<br />
strumento per individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo<br />
fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea aveva<br />
approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in<br />
effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento<br />
non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che l’intero<br />
ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare Parmenide.<br />
112
DK B9<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται 1<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν.<br />
[Simplicio, In Aristotelis Physicam 180]<br />
1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF 2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni<br />
metriche.<br />
Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate 1 ,<br />
e queste 2 , secondo le rispettive 3 proprietà 4 , [sono state attribuite] a queste cose e a<br />
quelle 5 ,<br />
tutto 6 è pieno ugualmente 7 di luce e notte invisibile 8 ,<br />
di entrambe alla pari 9 , perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10 .<br />
1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di<br />
nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose»<br />
diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici.<br />
2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si<br />
riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende<br />
riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in<br />
accordo con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle.<br />
3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore<br />
dipende dalla decisione circa il significato da attribuire a τά.<br />
4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello<br />
di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate<br />
a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il<br />
termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la dimensione<br />
entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre<br />
con «meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore<br />
associazione tra lo stesso δύναμις e ἰδέα o εἶδος.<br />
5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri.<br />
6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo<br />
caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra<br />
avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p.<br />
233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta questa lettura: come è<br />
possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le<br />
singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p.<br />
328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte».<br />
7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da<br />
intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν.<br />
8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur<br />
qualcosa (Coxon p. 233).<br />
9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come fanno Diels e<br />
Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due<br />
principi debbano essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163),<br />
interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p.<br />
233). Empedocle (DK 31B17.27):<br />
113
ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι<br />
«questi sono infatti tutti uguali e coevi»,<br />
sembra alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme»<br />
concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del<br />
mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione<br />
quantitativa.<br />
10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa<br />
accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Bur<strong>net</strong>, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner:<br />
«poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il<br />
vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale,<br />
Palmer: «poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes<br />
in neither»); (iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e<br />
dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga<br />
all'uno o all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente<br />
partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con<br />
decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53-59: come<br />
sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si<br />
manifesti l'Essere. La conclusione del contesto della citazione di Simplicio potrebbe tuttavia appoggiare<br />
l'ultima lettura:<br />
καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται<br />
«e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice<br />
chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti».<br />
Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione dell'equazione nulla-vuoto:<br />
in un contesto fisico – secondo lo studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto,<br />
la cui esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno), Melisso<br />
esplicitamente.<br />
114
DK B10<br />
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα<br />
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο<br />
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν 1 ἐξεγένοντο,<br />
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα 2 σελήνης<br />
[5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα<br />
ἔνθεν 3 ἔφυ τε 4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη<br />
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.<br />
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)]<br />
1 Si tratta di correzione degli editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν.<br />
2 Gli editori moderni hanno corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα.<br />
3 Il codice di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori.<br />
4 La forma ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε.<br />
Conoscerai 1 la <strong>natura</strong> 2 eterea 3 e nell’etere tutti<br />
i segni 4 e della pura 5 fiamma dello splendente 6 Sole<br />
le opere invisibili 7 e donde ebbero origine 8 ,<br />
1 La forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore positivo del<br />
verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la <strong>natura</strong> programmatica del frammento e la sua funzione<br />
di cerniera nell'opera.<br />
2 Il termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come «nascita»: Parmenide non si<br />
proporrebbe di esporre la «costituzione» o l'«essenza» (Diels traduceva con Wesen) dell'etere o della luna,<br />
analizzarne la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del<br />
mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare tuttavia <strong>natura</strong>le rendere l'espressione<br />
αἰθερίαν φύσιν come «la nascita dell'etere», né necessario intendere «<strong>natura</strong>» come «essenza»: il<br />
riferimento alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne<br />
l'origine.<br />
3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28A37) possiamo intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ<br />
come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse<br />
all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura.<br />
4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi<br />
in generale come «segni» per l'orientamento.<br />
5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve),<br />
utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in<br />
senso religioso.<br />
6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire all'altra forma,<br />
εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260).<br />
7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade, 5.897): in<br />
questo contesto si potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma<br />
l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ‐ di «vedere» - può indicare tanto la<br />
capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi<br />
«oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo,<br />
inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον (mite,<br />
utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du<br />
brillant soleil» rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica<br />
generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui il fuoco solare si<br />
purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna, esso diviene funesto e dunque dissociatore della<br />
mescolanza e distruttore della realtà.<br />
115
e le opere apprenderai periodiche 9 della Luna dall’occhio rotondo 10 ,<br />
[5] e la [sua] <strong>natura</strong> 11 ; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge 12 ,<br />
donde ebbe origine 13 e come Necessità 14 guidando lo vincolò 15<br />
a tenere 16 i confini degli astri.<br />
8 Il verbo (aoristo medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in<br />
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe altrimenti alla terza<br />
persona singolare.<br />
9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando<br />
«vaganti», troppo generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel<br />
contesto come revolving): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la<br />
lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora<br />
quello di sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso<br />
περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»).<br />
10 Qui κύκλωψ ha il valore di «occhio rotondo» (LSJ round-eyed) e non si riferisce ovviamente al<br />
gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico.<br />
11 In questo caso, come scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe<br />
rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento».<br />
12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla<br />
funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé l'universo, l'insieme<br />
di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la Terra).<br />
13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine<br />
(Conche, p. 209).<br />
14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti<br />
(ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità; qui<br />
garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di<br />
somiglianza, analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere.<br />
15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con<br />
sé (Cerri, p. 262).<br />
16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante<br />
rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων).<br />
116
DK B11<br />
πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη<br />
αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος<br />
ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν<br />
γίγνεσθαι 2 .<br />
[Simplicio, In Aristotelis De Coelo 559]<br />
1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν.<br />
2 I codici AF riportano γίνεσθαι.<br />
[...] come Terra e Sole e Luna,<br />
l'etere comune 1 e la Via Lattea 2 e l'Olimpo<br />
estremo 3 e degli astri l'ardente forza 4 ebbero impulso 5<br />
a generarsi 6 .<br />
1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello<br />
spazio etereo.<br />
2 La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo<br />
potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle.<br />
3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce<br />
chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto<br />
attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso degli astri.<br />
4 In Empedocle (DK 31B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος<br />
sarebbe quello di forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la <strong>natura</strong> ignea degli astri.<br />
5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale<br />
impulso a guidare il processo di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza<br />
immanente di una δαίμων.<br />
6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è<br />
comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del precedente.<br />
117
DK B12<br />
αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο 1 πυρὸς ἀκρήτοιο 2 ,<br />
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα·<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·<br />
3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει<br />
[5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις 5<br />
ἄρσεν θηλυτέρῳ.<br />
[vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis<br />
Physicam 31]<br />
1 I codici di Simplicio riportano παηντο (E a ), πάηντο (D 1 ), πύηντο (D 2 E), ποίηντο (edizione aldina).<br />
Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche.<br />
Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono<br />
πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi<br />
adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà metriche.<br />
2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις (DE a ), ἀκρίτοις (EF),<br />
ἀκρίτοιο (edizione aldina).<br />
3 Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten e<br />
Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì<br />
correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al<br />
manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-<br />
Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei<br />
mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 86 nota), di congettura<br />
bizantina.<br />
4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F).<br />
5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις.<br />
Quelle 1 più strette 2 , infatti, si riempirono 3 di fuoco non mescolato;<br />
le successive 4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette 5 una porzione 6 di fuoco;<br />
1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente<br />
a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28A37), il quale traduce il termine come corona e orbis.<br />
Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio dovessero<br />
vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura.<br />
2 Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e<br />
non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In<br />
questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le<br />
corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già<br />
nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia, che<br />
costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una<br />
esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la<br />
sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe<br />
alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11,<br />
ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro<br />
Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς.<br />
3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta<br />
dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237).<br />
4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere<br />
l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi<br />
118
in mezzo a queste 7 la Dea 8 che tutte le cose governa 9 .<br />
Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione 12 ,<br />
dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali<br />
«corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone<br />
comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di<br />
Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco.<br />
5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti<br />
cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico.<br />
6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce<br />
l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος.<br />
7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può<br />
riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la<br />
soluzione più <strong>natura</strong>le.<br />
8 Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»:<br />
τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις τε καὶ κινήσεως<br />
καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον<br />
ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην<br />
«Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di<br />
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e<br />
Giustizia che tiene le chiavi e Necessità» (DK 28A37),<br />
facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa<br />
i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη.<br />
Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ<br />
τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo:<br />
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν<br />
ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν<br />
«Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di<br />
ogni generazione» (contesto di B12).<br />
Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla<br />
Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7:<br />
τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται<br />
«la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia» (DK 44B7).<br />
9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa<br />
con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo.<br />
Coxon (p. 242) vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco<br />
governa ogni cosa (DK 22B41).<br />
10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto<br />
governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe<br />
rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di».<br />
11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide,<br />
eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare<br />
(Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla<br />
genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri,<br />
tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo<br />
«doloroso (ovvero «duro») parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non<br />
ai suoi effetti.<br />
119
[5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile 13 , e, al contrario,<br />
il maschile al femminile.<br />
12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito» (Cerri),<br />
«amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione<br />
sessuale di maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi.<br />
13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse -<br />
come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento<br />
alla luce e del secondo alla notte.<br />
120
DK B13<br />
πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων…<br />
[v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus<br />
Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39;<br />
v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4, 984 b 23]<br />
Primo tra gli dei tutti ella 1 concepì 2 Amore.<br />
1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12.<br />
2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle<br />
testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che<br />
riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il sogegtto nella δαίμων<br />
di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare,<br />
pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243).<br />
121
DK B14<br />
νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς…<br />
[Plutarco, Adversus Colotem 1116 A]<br />
1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος.<br />
di notte splendente 1 , vagando intorno alla Terra 2 , luce d'altri 3<br />
1 Il composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare<br />
Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι‐ il primo elemento ha valore di determinazione temporale<br />
(«di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς:<br />
«brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo<br />
ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii, 54.10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che<br />
si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione<br />
in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione<br />
parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire<br />
come B14a.<br />
2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in<br />
B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere<br />
periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e<br />
quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra,<br />
come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio):<br />
πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι<br />
«questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro<br />
[dell'universo]» (DK 28A44).<br />
3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce<br />
riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente gioca<br />
sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva Cerri (p. 275), tale formula<br />
era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31B45):<br />
κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς<br />
«in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria (ovvero straniera)».<br />
122
B14a<br />
[...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές<br />
[Aristotele, Metafisica, VII, 15, 1040 a31]<br />
[... il Sole, ... colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto 1<br />
1 Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato<br />
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide (νυκτιφαὲς).<br />
123
DK B15<br />
αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο.<br />
[Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B]<br />
sempre volta e attenta 1 ai raggi 2 del sole.<br />
1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come<br />
segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i<br />
due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo sguardo intenso<br />
verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31B47):<br />
ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον<br />
«contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo signore».<br />
2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς vale non solo «raggi» ma anche «sguardi».<br />
124
DK B15a<br />
[Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν]<br />
[Scolio a Basilio di Cesarea]<br />
[Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'acqua 1<br />
1 Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si<br />
allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di<br />
nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione ge<strong>net</strong>ica: alla luce delle testimonianze, non è<br />
l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento<br />
sia alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in<br />
passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in<br />
questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra.<br />
125
DK B16<br />
ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν 3 μελέων πολυπλάγκτων 4 ,<br />
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν 5 · τὸ γὰρ αὐτό<br />
ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν<br />
καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα.<br />
[vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5, 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a<br />
Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5;<br />
Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia,<br />
In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5]<br />
1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος («ciascuno»), preferito da Diels-Kranz; altri ἕκαστοι o<br />
ἑκάστῳ. Il codice di Asclepio ἕκαστον. Gli editori più recenti (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri)<br />
hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della Metafisica:<br />
ἑκάστοτε (lectio difficilior).<br />
2 Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a ἔχει (per lo<br />
più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio<br />
difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di<br />
Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.<br />
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν). Estienne modificò in<br />
κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán, Kirk-Raven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν<br />
alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in<br />
proposito.<br />
4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων («dai molteplici movimenti»). Il<br />
testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli editori.<br />
5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente παρίσταται,<br />
accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata<br />
l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha<br />
esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è degli editori.<br />
6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται.<br />
Come, in effetti, di volta in volta si ha 1 temperamento 2 di membra 3 molto vaganti 4 ,<br />
1 Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state proposte<br />
diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto<br />
rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o<br />
ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν<br />
Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della «mescolanza» il soggetto.<br />
2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia<br />
più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La<br />
κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il termine viene reso<br />
con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla<br />
scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28A46), anche tale amalgama presuppone una composizione<br />
variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche in considerazione della<br />
lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di krasis era associata a quella<br />
di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.).<br />
3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente<br />
intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo<br />
come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια)<br />
appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine<br />
126
così il pensiero 5 si presenta agli uomini 6 : perché è precisamente la stessa cosa<br />
ciò che pensa 7 negli uomini, la costituzione 8 del [loro] corpo 9 ,<br />
in tutti e in ciascuno: ciò che prevale 10 , in vero 11 , è il pensiero 12 .<br />
μέλεα non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha<br />
ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. Narcy,<br />
«Parménide Sophiste», in Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia<br />
significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali.<br />
4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «amalgama [unione] di membra<br />
molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in<br />
appendici mobili, che si agitano in molte direzioni.<br />
5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo caso Parmenide non si riferisca<br />
genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua condizione in relazione alla situazione del corpo. La<br />
costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica:<br />
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,<br />
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε<br />
«tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra,<br />
quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei» (Odissea, XVIII.136-7).<br />
6 È significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a<br />
ἄνθρωποι: il termine assume un valore descrittivo, marcando l'identica <strong>natura</strong> degli esseri umani «tutti»<br />
(καὶ πᾶσιν καὶ παντί).<br />
7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ<br />
φρονέει) la <strong>natura</strong> del corpo (μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ<br />
πᾶσιν καὶ παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche<br />
Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος come soggetto (sottinteso)<br />
di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει):<br />
«perché [esso (il pensiero)] è precisamente la stessa cosa<br />
che la costituzione del corpo pensa negli uomini,<br />
in tutti e in ciascuno».<br />
Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann,<br />
Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la <strong>natura</strong> delle membra<br />
è negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa».<br />
Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una<br />
traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ<br />
αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la <strong>natura</strong> delle membra pensa negli uomini».<br />
In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità<br />
dell'oggetto del pensiero.<br />
8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «<strong>natura</strong>, costituzione» (μελέων φύσις: «costituzione del<br />
corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come<br />
elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli<br />
riprende nella sua traduzione queste indicazioni.<br />
9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra.<br />
10 In questo caso intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque<br />
«il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si ricava dal<br />
contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto<br />
interpreta infatti: «la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον<br />
ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di<br />
Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti,<br />
citerebbe il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale,<br />
127
ma una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle<br />
componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il<br />
pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject<br />
whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero.<br />
Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De<br />
Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο)<br />
in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di completamento:<br />
«[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt».<br />
11 Attribuiamo valore dichiarativo a γὰρ, facendo così dell'espressione τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα una<br />
precisazione di quanto appena asserito, non una sua spiegazione.<br />
12 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare.<br />
128
DK B17<br />
δεξιτεροῖσιν 1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας…<br />
[Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)]<br />
1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι.<br />
2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten).<br />
Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione.<br />
a destra 1 i maschi, a sinistra le femmine.<br />
1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita)<br />
alle parti dell'utero:<br />
τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν<br />
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη<br />
«Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra<br />
dell'utero. Parmenide infatti afferma...».<br />
Gli aggettivi andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero.<br />
129
DK B18<br />
Femina virque simul Veneris cum germina miscent,<br />
Venis informans diverso ex sanguine virtus<br />
Temperiem servans bene condita corpora fingit.<br />
Nam 1 si virtutes permixto semine pugnent<br />
Nec faciant unam permixto in corpore, dirae<br />
Nascentem gemino vexabunt semine sexum.<br />
[Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9]<br />
1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam.<br />
Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi 1 di Venere,<br />
la potenza 2 formatrice nelle vene 3 , che [deriva] da sangue 4 opposto 5 ,<br />
conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti.<br />
Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono<br />
[5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche<br />
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme 6 .<br />
1 Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui<br />
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella<br />
riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata<br />
nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia.<br />
2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»).<br />
3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso<br />
di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254).<br />
4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e femminile.<br />
Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che<br />
faceva derivare il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora.<br />
5 Come suggerito da Conche (p. 262), diversus non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue<br />
maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario».<br />
6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di quello<br />
femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255).<br />
130
DK B19<br />
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε 1 καί νυν 2 ἔασι<br />
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα·<br />
τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ.<br />
[Simplicio, In Aristotelis De Coelo 558]<br />
1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ.<br />
2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori.<br />
Ecco, in questo modo 1 , secondo opinione 2 , queste cose 3 ebbero origine 4 e ora 5 sono 6 ,<br />
e poi, in seguito 7 sviluppatesi, avranno fine 8 .<br />
A queste cose, invece 9 , un nome gli uomini 10 imposero 11 , distintivo 12 per ciascuna.<br />
1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione<br />
ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265).<br />
2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 -<br />
δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti<br />
scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo<br />
apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della<br />
formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto<br />
di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose<br />
che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista<br />
parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che<br />
registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua<br />
interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di<br />
ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon<br />
(p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la <strong>natura</strong> delle cose che appaiono nell'esperienza umana<br />
con la <strong>natura</strong> attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν.<br />
3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto<br />
della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo<br />
Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il<br />
discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la <strong>natura</strong> e il destino.<br />
4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona<br />
singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito<br />
di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21B29).<br />
5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero).<br />
6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto<br />
di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli<br />
avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione<br />
dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5.<br />
7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile<br />
puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al participio τραφέντα.<br />
8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri,<br />
p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento<br />
dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso<br />
di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o<br />
ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta<br />
cresciuti/sviluppati, avranno fine».<br />
9 Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire<br />
senso critico al rilievo successivo.<br />
131
10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una<br />
designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la<br />
polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva.<br />
11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente B8.38b-39a:<br />
e B8.53:<br />
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο<br />
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν<br />
secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della "composizione ad anello"».<br />
12 L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere,<br />
contraddistinguere (ἐπί‐σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa<br />
stabilità del nome.<br />
132
Commenti<br />
133
B1<br />
Introduzione<br />
Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (<strong>Sulla</strong><br />
<strong>natura</strong>), ne contestualizza il proemio in questi termini:<br />
ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ<br />
τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν<br />
ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ τῆς τῶν αἰσθήσεων<br />
πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον<br />
«Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello<br />
che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile,<br />
avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri<br />
physeōs scrive in questo modo …» (Adv. Math. VII, 111).<br />
Il successivo commento (§§ 112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con<br />
lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato<br />
la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione<br />
metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel senso di<br />
misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile):<br />
ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς<br />
ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις (1), κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος<br />
πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ<br />
δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν (2.3), κούρας δ’ αὐτοῦ<br />
προάγειν τὰς αἰσθήσεις (5), ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι λέγειν ‘δοιοῖς ...<br />
κύκλοις’ (7. 8), τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ<br />
ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε (9), δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας (9) “ἐς<br />
φάος ὠσαμένας” διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ<br />
δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ (14), τὴν<br />
διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν<br />
ὑποδεξαμένη (22) ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος<br />
ἀτρεμὲς ἦτορ’ (29), ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ<br />
‘βροτῶν δόξας ... ἀληθής’ (30), τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν<br />
ἀβέβαιον.<br />
«In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i<br />
desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della<br />
divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione guida a<br />
guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le fanciulle che lo precedono sono<br />
le sensazioni (5): di esse accenna all'udito laddove dice "due rotanti cerchi" (7, 8), cioè i<br />
cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle<br />
Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno "verso la luce" (10),<br />
poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la Giustizia "che<br />
molto punisce" e che tiene "le chiavi dall'uso alterno" (14), [intendendo] la ragione che<br />
possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare<br />
queste due cose: "il cuore saldo di verità ben persuasiva" (29), che è il fondamento<br />
immutabile della scienza, e l'altra "le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità"<br />
(30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo».<br />
In realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di<br />
Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea,<br />
134
ecuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili<br />
suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione con i<br />
successivi frammenti molto più complessa.<br />
Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di<br />
Parmenide all’interno di una articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici,<br />
che appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la<br />
conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche<br />
ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels<br />
valorizzava in particolare 1 :<br />
(i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe<br />
improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la<br />
sua stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in<br />
Teogonia, vv. 27-28:<br />
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,<br />
ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι<br />
«sappiamo dire molte menzogne simili al vero,<br />
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare» -,<br />
insieme al motivo della «doppia via» (verità e errore), che evocherebbe l’analoga<br />
alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv.<br />
287 ss.);<br />
(ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero termini e<br />
immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose<br />
contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne<br />
marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del<br />
«pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche<br />
nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica.<br />
All’interno di questo aspetto specifico, Diels richiamava l’attenzione sulla tradizione dei<br />
leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che<br />
avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma<br />
poetica («rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la<br />
propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della<br />
«narrazione in prima persona» (Icherzählung) di una esperienza di Incubation, quale<br />
riferita da Alessandro di Tiro:<br />
ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.∙ οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι<br />
διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην<br />
λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος∙ δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’<br />
ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον.<br />
ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα<br />
πιστεύεσθαι χαλεπόν∙ ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι<br />
κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν<br />
λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι.<br />
«Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire<br />
chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto<br />
1 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem<br />
neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag,<br />
Sankt Augustin 2003 2 (edizione originale 1897), pp. 12 ss.<br />
135
che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e<br />
dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata,<br />
ma si diceva che suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo<br />
ad Atene un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere,<br />
formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus<br />
Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con<br />
dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia» (contesto DK 3B1. Traduzione di I.<br />
Ramelli e G. Reale).<br />
Proprio Epimenide – nel suo poema Purificazioni (Καθαρμοί) in particolare - sarebbe<br />
figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in<br />
associazione con fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie degli<br />
dèi, i sogni, le offerte di sangue), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione<br />
e della relativa iniziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del<br />
contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica<br />
avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste»<br />
(Himmelreise) costituirebbe frammento.<br />
Inserito all’interno di questa prospettiva culturale, il Περὶ φύσεως si propone in una luce<br />
diversa, tale da suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi<br />
contenuti ai moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai<br />
frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento<br />
proponendolo come pura introduzione di occasione, in cui il sapiente, per convenienza<br />
letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico, abbia semplicemente deciso di far<br />
assumere maschera allegorica alla propria concettualità: rilevare questo non intende<br />
implicare l’adozione delle lenti del misticismo, ma semplicemente conservare al testo la<br />
sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore originale 2 .<br />
Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano 3 , il proemio parmenideo<br />
non è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per comprendere<br />
carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto storico, geografico, sociale e<br />
religioso in cui si muoveva Parmenide, aprire un poema con la rappresentazione di un<br />
tipo di esperienza eccezionale, mettere gli uditori di fronte a un viaggio nell'aldilà,<br />
scegliendo un linguaggio iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dalla mera<br />
introduzione di una qualsiasi conferenza filosofica rivolta a circoli di intellettuali, come<br />
si potrebbe evincere dall'interpretazione allegorica di Sesto. Il pubblico di Parmenide<br />
era probabilmente presente per ascoltare le parole di una dea e partecipare alla stessa<br />
esperienza del poeta. È significativo che non resti traccia del proemio presso alcuno<br />
degli autori che hanno operato in modo «antologico», e che sia stato conservato per<br />
caso, forse unicamente in quanto oggetto di interpretazione allegorica.<br />
Perché la poesia?<br />
Il problema della <strong>natura</strong> e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più<br />
generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la<br />
2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo interpretativo: la<br />
sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si<br />
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le<br />
«Proème» comme producteur de chemins". Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di<br />
G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:<br />
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967.<br />
3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7,<br />
2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è a pp. 11-12.<br />
136
narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato<br />
teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare<br />
all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare<br />
l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione<br />
divina della parola (μῦθος) e verità (Ἀληθείη).<br />
Poesia, mito, verità<br />
In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di<br />
Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e<br />
della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo<br />
aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso,<br />
mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi allora lo avevano pregato di creare alcune<br />
divinità per «celebrare [katakosmēsai] con parole e musica quelle grandi opere e l’intero<br />
suo ordinamento» 4 . A tale scopo, per onorare l’edificazione e la divina profondità del<br />
mondo, e manifestarlo nella sua totalità, intervengono divinità nuove, le Muse: così il<br />
mondo si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici),<br />
espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter<br />
Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola<br />
con la sua divinità 5 : ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno<br />
sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria.<br />
In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della<br />
bellezza e della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più<br />
degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrarlo in profondità in<br />
forza della “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la<br />
recettività del poeta: l’Iliade – osserva Otto - non si apre con la superbia (tipicamente<br />
moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a<br />
cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza<br />
del mito.<br />
Eppure il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto<br />
autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli non<br />
è dunque parte della massa, è più vicino agli dèi in quanto la sua è la voce attraverso cui<br />
le Muse cantano. Egli è un “maestro di verità” (Detienne): le sue parole proclamano<br />
piuttosto che suggerire: così anche i poeti-filosofi (come Senofane e Parmenide, che<br />
compongono entro la tradizione omerica) agiscono da una posizione privilegiata rispetto<br />
a quella della folla. Questo, tra l'altro, aiuterebbe a spiegare il carattere spesso esoterico<br />
della filosofia antica 6 .<br />
Parmenide e la poesia<br />
Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di rilevare,<br />
si ricompongono in modo originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del<br />
destinatario della comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel<br />
Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di<br />
quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον).<br />
4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il<br />
Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44.<br />
5 W.F. Otto, Il mito (1955), in op. cit., p. 60.<br />
6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum<br />
International Publishing Group, London-New York 2009, p. 29.<br />
137
Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla<br />
Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola una volta ascoltata»<br />
(κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il giovane (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a<br />
«prendersi cura del», «attendere al» (κόμισαι) μῦθος divino, che dischiude la<br />
comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel<br />
poema:<br />
(i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente,<br />
effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in<br />
questo senso, è autorevole;<br />
(ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere<br />
(donde il valore di «ragione») 7 , della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la<br />
Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con<br />
il ragionamento») l’argomento proposto.<br />
Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide sulla<br />
tradizione.<br />
Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità<br />
ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu 8 ha colto nella ripresa della forma e<br />
del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il<br />
contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e<br />
quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I.70) e τά<br />
ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che,<br />
anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a una divinità la<br />
rivelazione del contenuto dell’opera è dunque escamotage espressivo coerente con la<br />
tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del<br />
divino stesso 9 . È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del<br />
metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica<br />
comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un “autentico<br />
contatto” (Vernant) con il divino 10 ?<br />
In effetti proprio il proemio sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi<br />
possibili modelli di riferimento:<br />
(i) nel campo della poesia epica l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico,<br />
ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi;<br />
(ii) nel campo della poesia cosmogonica le opere di Esiodo, Epimenide e Aristea, i cui<br />
proemi erano segnati dalla investitura poetica e dalla rivelazione da parte della<br />
divinità 11 .<br />
Non vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma<br />
poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente funzionale all’istruzione 12 ;<br />
ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo <strong>natura</strong>lmente comportato<br />
7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in op.cit., pp. 30-32.<br />
8 Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e<br />
note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi,<br />
Milano 1991, pp. 155-156.<br />
9 Ivi, p. 160.<br />
10 Wilkinson, op. cit., p. 67.<br />
11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri,<br />
BUR, Milano 1999, pp. 109-110.<br />
12 Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton<br />
University Press, Princeton 1965, p. 31.<br />
138
quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due<br />
prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente<br />
caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i<br />
contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la<br />
seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato,<br />
ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica 13 .<br />
Poesia, educazione e vita<br />
Proprio considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli<br />
espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un<br />
processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il<br />
momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a<br />
una modificazione più radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la<br />
comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato a<br />
fondamentali miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della<br />
Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga).<br />
Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere:<br />
(i) la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica<br />
ma anche in quella religiosa;<br />
(ii) la meta del viaggio: l’incontro con la divinità;<br />
(iii) la scenografia cosmica di quell’incontro;<br />
(iv) le modalità della rivelazione divina.<br />
Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere nella scelta parmenidea del<br />
metro (esametro) dell’epica una intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno<br />
strumento culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora<br />
considerare tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i<br />
poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre<br />
educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la<br />
soluzione espressiva più <strong>natura</strong>le per chi intendesse affrontare una materia del massimo<br />
rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era poi possibile<br />
rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica 14 . Soprattutto, nel caso di Parmenide, si<br />
trattava di suscitare aspettative, specialmente se - ammettendo la circolazione di idee nel<br />
complesso del mondo greco, orientale e occidentale - interpretiamo la scelta poetica<br />
come alternativa ai modelli in prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri<br />
dattilici il pubblico poteva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di<br />
un modello di comportamento 15 . A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura<br />
tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato<br />
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica arcaica sulla<br />
mentalità e sui costumi.<br />
Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato le valenze “didattiche”<br />
dell’impatto della performance poetica, in altre parole la sua forza comunicazionale<br />
nella recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora decisamente<br />
segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide avrebbe potuto<br />
sfruttare i vantaggi che essa gli garantiva, richiamando il modello di sapienza associata<br />
13 Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008).<br />
14 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic<br />
Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42.<br />
15 Ibidem.<br />
139
al canto poetico: per facilitare diffusione e memorizzazione della propria scrittura, e<br />
attingere a un bagaglio di immagini e metafore di sicuro effetto dall’armamentario<br />
omerico ed esiodeo, e introdurre poi – in totale autonomia –nuovi concetti filosofici e<br />
formule astratte 16 .<br />
Della poesia greca arcaica 17 il Περὶ φύσεως conserva senz’altro nel suo proemio:<br />
(i) il riferimento paradigmatico al mito in funzione didattica;<br />
(ii) la memoria del mito che recupera in modo creativo temi e motivi tradizionali;<br />
(iii) il rilievo della ispirazione divina, in relazione alla convinzione che il poeta non sia<br />
sovrano artefice della materia del suo canto; donde l’istituto stesso del proemio, cioè<br />
l’abitudine di far cominciare il canto (epico o lirico) con l’invocazione alle Muse o ad<br />
altre divinità;<br />
(iv) la (probabile) destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma<br />
metrica (esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo<br />
Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea).<br />
Gentili segnala 18 come alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Ci<strong>net</strong>o di Chio fosse il<br />
primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna<br />
Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva<br />
richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia 19 ), inserendo nell’ordito dei poemi<br />
omerici originali versi epici.<br />
Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato<br />
quasi esclusivamente sulla oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore<br />
epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere<br />
(tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era<br />
riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società ellenica 20 . Per la<br />
comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la<br />
contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò<br />
consente di apprezzarne la specifica <strong>natura</strong> filosofica e dunque l'originalità - rispetto a<br />
quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella<br />
concretezza della narrazione - proprio nella sistematicità e astrattezza dei suoi assunti.<br />
Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente<br />
condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa<br />
memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, una dimensione<br />
“spettacolare”, connessa alla auralità e visualità della sua ricezione 21 , che Parmenide<br />
non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a<br />
comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico<br />
del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua intenzione di<br />
coinvolgere il pubblico destinatario non solo a livello intellettuale ma anche<br />
emozionale, incoraggiandolo a seguire il viaggio “trasformativo” del poeta (Robbiano),<br />
per il quale entrare in contatto con la verità comporta essere da essa trasformato 22 .<br />
16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, p. 30-1.<br />
17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico<br />
nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006.<br />
18 Ivi, p. 22.<br />
19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60;<br />
riferimento alle pp. 52-3.<br />
20 Gentili, op. cit., p. 69.<br />
21 Ivi, p. 49.<br />
22 Robbiano, op. cit., p. 49.<br />
140
In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema<br />
suggerisca:<br />
(i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del<br />
divino era evocata (ascoltata) da una invocazione alla Musa; la produzione (orale) di<br />
versi aveva la sua origine nella memoria divina 23 . Nel poema, e nel proemio soprattutto,<br />
manca l'invocazione, sostituita da un incontro (certamente divinamente garantito) e da<br />
una comunicazione divina che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite<br />
ispirato;<br />
(ii) una probabile integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione<br />
razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal<br />
Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa 24 , la rievocazione, per<br />
bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe<br />
essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di<br />
un'originale impronta dell'Eleate:<br />
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι∙ ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως<br />
ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ<br />
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων<br />
Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα∙<br />
ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1‐2]<br />
«Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe<br />
prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora<br />
bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni<br />
volta con le sue parole e i suoi versi che:<br />
Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono;<br />
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero».<br />
Si tratta di un «fotogramma di interno scolastico» 25 : la memorizzazione dei contenuti<br />
fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata dal<br />
commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e chiariva i<br />
temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non divulgabili<br />
all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione<br />
didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una<br />
cerchia ristretta 26 .<br />
La rivelazione di Parmenide<br />
La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di<br />
marcare l'oggettività del suo metodo 27 : se l’esito della sua ricerca fosse stato avanzato<br />
semplicemente come la verità del sapiente, essa, la sua verità, avrebbe finito per<br />
riproporsi come un punto di vista, l’opinione (doxa) di un mortale in concorrenza con le<br />
23 Wilkinson, op. cit., p. 32.<br />
24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25.<br />
25 Cerri, op. cit., p. 94.<br />
26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et<br />
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is<br />
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 89-<br />
90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito.<br />
27 Tarán, op. cit., p. 31.<br />
141
opinioni degli altri (mortali) 28 . Il pensatore, invece, non è che il portavoce della Dea e<br />
della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che:<br />
οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι<br />
«non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno» (DK22 B50),<br />
così Parmenide non intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla<br />
divinità, per garantirne l’assolutezza 29 .<br />
Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto<br />
proprio della <strong>natura</strong> argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea<br />
come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς<br />
Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando<br />
il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe<br />
contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito.<br />
Rivelazione e verità<br />
In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla concezione<br />
pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella poesia arcaica.<br />
Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv. 139-41):<br />
οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέληισιν∙<br />
ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης.<br />
ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες οὐδέν∙<br />
θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον<br />
«Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi desideri;<br />
si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura i<strong>net</strong>titudine.<br />
Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,<br />
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente» 30 .<br />
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in B6 e B7,<br />
caratterizzerà l’impotenza dei mortali (βροτοί): essi sono apostrofati come εἰδότες οὐδέν<br />
(«che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro<br />
incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata come ἀμηχανίη<br />
(«impotenza», «i<strong>net</strong>titudine», come in Teognide e nell’Inno Omerico ad Apollo vv. 189-<br />
193); la loro attitudine cognitiva liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con<br />
paralleli in Archiloco fr. 58) 31 .<br />
Eppure il proemio racconta che, sebbene l’uomo, con le sole sue forze, non possa<br />
pervenire alla conoscenza piena della realtà, l’intervento e la benevolenza delle divinità<br />
consentono – almeno al poeta in questione – di ricevere il sapere che è appannaggio<br />
divino 32 . Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2)<br />
della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a valutare,<br />
come se ormai, messo in condizione dalla comunicazione dei principi, potesse<br />
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello stesso<br />
28 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche,<br />
PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66.<br />
29 Ivi, p. 65.<br />
30 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università<br />
degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 162.<br />
31 Ivi, pp. 163-4.<br />
32 Ivi, p. 166.<br />
142
proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4), facendo quasi<br />
coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il proprio oggetto (εἶναι) 33 .<br />
La specifica cornice letteraria e l’implicito motivo della comunicazione divina<br />
sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e strumentalmente, allo scopo di certificare<br />
verità e disponibilità dei principi dell’argomentazione del sapiente. Parmenide,<br />
insomma, nel quadro della cultura tradizionale, avrebbe attribuito a una docenza<br />
incontestabile, divina appunto, e necessariamente anonima per assicurarne<br />
l’universalità, i fondamenti della propria enciclopedia. Ovvero, come intende Conche,<br />
dalla tradizione religiosa il sapiente-poeta avrebbe trattenuto, nella finzione della Dea,<br />
l’idea della onniscienza associata al divino, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo<br />
insieme: in questo senso, come già nel caso di Senofane, non si tratterebbe più di una<br />
divinità della religione ma della filosofia 34 .<br />
Il problema della verità<br />
La scelta della forma poetica sembrerebbe dunque legata all'urgenza di risolvere un<br />
cruciale problema filosofico 35 : dal momento che tutti gli esseri umani sono soggetti alla<br />
delusione delle apparenze, come può il filosofo conoscere la verità di ciò che pretende<br />
di conoscere? Solo un dio poteva essere la fonte di verità trascendenti, che un comune<br />
mortale, abbandonato alle proprie forze, non avrebbe mai potuto attingere. Ora, nella<br />
Grecia arcaica il linguaggio della comunicazione divina (attraverso voci umane) era<br />
quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto che essa<br />
annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica 36 .<br />
Sebbene questa lettura abbia il merito di valorizzare la scelta poetica di Parmenide e il<br />
suo originale confronto con la tradizione, focalizzandone un risvolto teoretico di grande<br />
interesse rispetto al modello di razionalità che il sapiente, per primo, professa (in<br />
particolare in B8), essa finisce per sottostimare la pervasività del motivo poetico della<br />
comunicazione divina, che abbraccia non solo la prima sezione del poema<br />
(tradizionalmente designata come Verità, ma nel poema indicata – ricordiamolo - come<br />
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, B8.50-1), ma anche la seconda (Opinione),<br />
riferendo alla rivelazione divina tanto le tesi di Parmenide intorno all’essere, quanto<br />
l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος) di cui ci informa, per esempio,<br />
Plutarco (Adv. Col. 13, p. 1114 B). L’intero campo del sapere è esplicitamente<br />
ricondotto alla lezione della Dea, senza alcuno spazio per una piena rivendicazione<br />
autoriale da parte del poeta.<br />
È plausibile supporre, allora, che la preoccupazione di Parmenide non investisse<br />
soltanto le fondamenta del suo insegnamento, ma, in genere, la sua <strong>natura</strong> e la sua<br />
finalità, probabilmente irriducibili – come spesso si intende – alla mera esplicitazione<br />
delle implicazioni ontologiche dell’intuizione della non-contraddizione (B2), ovvero<br />
alla illustrazione dei risultati delle proprie ricerche scientifiche. Se consideriamo, alla<br />
luce della narrazione del proemio, la struttura dell'opera delineata in conclusione del<br />
proemio stesso, e i passi superstiti della prima sezione, allora il recupero della veridicità<br />
rivendicata dal poeta potrebbe assumere un altro significato: come a suo tempo<br />
33 Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168.<br />
34 Conche, op. cit., p. 66.<br />
35 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek philosophy",<br />
in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999,<br />
pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353.<br />
36 Ivi, p. 343.<br />
143
suggerito da Gloria Germani 37 , Parmenide intendeva forse mettere a tema proprio la<br />
«problematica dell'accesso alla verità».<br />
Abbiamo infatti ricordato come la veridicità fosse (insieme almeno alla essenzialità 38 )<br />
uno dei fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano<br />
e pretendevano (implicitamente o esplicitamente). In riferimento ad Esiodo, per<br />
esempio, Algra 39 sottolinea come gli inni teogonici tendessero ad articolare quanto già<br />
trasmesso dalla tradizione, collegando il pantheon esistente a una supposta origine del<br />
cosmo: in questo senso la Musa doveva assicurare una conoscenza superumana di cose<br />
distanti nel tempo e nello spazio. Così, quando le Muse di Esiodo dichiarano:<br />
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,<br />
ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι<br />
«sappiamo dire molte menzogne simili al vero,<br />
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare» -,<br />
il messaggio non intenderebbe mettere in guardia dal contenuto della buona poesia,<br />
piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non<br />
poter discernere il vero dal falso 40 . In ogni caso, all'epoca in cui Parmenide metteva<br />
mano alla propria impresa intellettuale, Senofane, probabilmente nel suo stesso<br />
ambiente culturale 41 , aveva già chiaramente manifestato segni di scetticismo nei<br />
confronti del mito e di quella tradizione poetica:<br />
πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε,<br />
ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν,<br />
κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν<br />
«ogni cosa agli dei attribuirono Omero ed Esiodo,<br />
quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile:<br />
rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi»<br />
Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη<br />
ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα,<br />
κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν<br />
«Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone:<br />
Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei:<br />
rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi».<br />
Senofane (come poi Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei<br />
contenuti di quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è<br />
significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la<br />
più importante «misura di recupero» 42 a protezione dei poeti: l'interpretazione<br />
37 G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206.<br />
38 Most, op. cit., p. 343.<br />
39 K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy,<br />
cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49.<br />
40 Most, op. cit., p. 343.<br />
41 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è stata<br />
conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa.<br />
Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John<br />
Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides &<br />
Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.).<br />
42 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339.<br />
144
allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura<br />
tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione<br />
concettuale 43 .<br />
Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e<br />
piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo<br />
conseguentemente problematico l'accesso alla verità:<br />
Ξενοφάνους πρώτου λόγος ἦλθεν εἰς τοὺς Ἕλληνας ἄξιος γραφῆς ἅμα παιδιᾶι<br />
τάς τε τῶν ἄλλων τόλμας ἐπιπλήττοντος καὶ τὴν αὑτοῦ παριστάντος<br />
εὐλάβειαν, ὡς ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν, ‘ δόκος ... τέτυκται’<br />
«Da Senofane per primo giunse presso i Greci un discorso degno di scrittura e, insieme, tale<br />
da colpire con lo scherno le audacie degli altri e manifestare la sua prudente posizione,<br />
secondo cui solo il dio conosce la verità: "opinione è data su tutte le cose" [B34.4]» (Ario<br />
Didimo, DK 21A24)<br />
οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,<br />
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον<br />
«non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono,<br />
ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio» (DK 21B18)<br />
καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται<br />
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων∙<br />
εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών,<br />
αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε∙ δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται<br />
«davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà<br />
sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte:<br />
se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado,<br />
lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose» (DK 21B34).<br />
Benché testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi 44 , esso<br />
sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire una<br />
verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di<br />
Parmenide, Alcmeone:<br />
Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ<br />
Βαθύλλωι∙ περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς<br />
δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς<br />
«Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo:<br />
sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto<br />
uomini, è dato solo trovare degli indizi» 45 (DK 24B1).<br />
La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del<br />
poema - potrebbe allora simboleggiare «la ripresa e la soluzione parmenidea del<br />
43 Ibidem. <strong>Sulla</strong> relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi<br />
eleatiche", in «La Parola del Passato, cit..<br />
44 J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy,<br />
cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229.<br />
45 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli<br />
Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili<br />
che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",<br />
«Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19).<br />
145
problema della verità» 46 . Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi<br />
della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di elementi<br />
cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata nel proemio come<br />
prefigurazione del complesso dei contenuti dell’opera.<br />
Motivi poetici e suggestioni<br />
In uno studio molto innovativo, nell’insieme della ricerca novecentesca sul Περὶ<br />
φύσεως, proprio per l’attenzione alla sua forma poetica, Mourelatos 47 individuò alcuni<br />
motivi 48 dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra questi appaiono di particolare<br />
interesse: (i) quello dell’istruzione, marcata dall’uso della seconda persona nella<br />
comunicazione divina, e dal ricorso a formule programmatiche, memori di Esiodo (Le<br />
opere e i giorni) e Omero; (ii) quello del viaggio, certamente il più importante, anche<br />
per le possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa<br />
(sciamanesimo).<br />
Viaggio ed erramento<br />
Dei cinque aspetti rilevati 49 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i)<br />
progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta;<br />
(iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i<br />
primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del<br />
viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una<br />
specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe<br />
esplicitamente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione<br />
(viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nella<br />
economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore<br />
e – per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico -<br />
accorto e istruito dalle divinità - sa di dovere osservare un certo comportamento, mentre<br />
i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili,<br />
negative rispetto alla meta del viaggio di ritorno 50 . Così, al kouros la Dea non manca di<br />
riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς<br />
ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze»<br />
(B7.3: ἔθος πολύπειρον); cui, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano alla<br />
deriva i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini<br />
a due teste» (δίκρανοι).<br />
Ma il motivo del viaggio non riconduce soltanto al paradigma omerico: è probabile ne<br />
esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 51 , diffusa nei circoli pitagorici,<br />
a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a<br />
46 Germani, op. cit., p. 187.<br />
47 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,<br />
Yale University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14.<br />
48 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra tema o concetto, per cui le pure forme<br />
poetiche fungono da veicolo (oggetto della iconografia), e motivo o «significato complessivo», «valore<br />
simbolico» (oggetto della iconologia). Ibid., pp. 11-12.<br />
49 Ivi, p. 18.<br />
50 Ivi, pp. 18-21.<br />
51 Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare<br />
appunto).<br />
146
crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie 52 , per esempio, coglie, almeno a un<br />
livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento<br />
nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide,<br />
Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello<br />
sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari,<br />
Ermotimo).<br />
Esperienze dell'altro mondo<br />
Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide –<br />
per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo<br />
cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta)<br />
– hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate<br />
riprese in particolare da parte di Platone 53 .<br />
Rivestono in questo senso un notevole interesse le lami<strong>net</strong>te funerarie classificate come<br />
"orfiche" (le più antiche risalenti al V-IV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a<br />
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile,<br />
non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il<br />
giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono<br />
(l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bivio). Di<br />
recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua<br />
destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti<br />
percorrevano nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni 54 .<br />
Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide<br />
avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni<br />
che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il<br />
resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del sistema» 55 .<br />
Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio parmenideo: percorso<br />
privilegiato (sotto la conduzione delle Eliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un<br />
"iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός<br />
πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3) 56 sorvegliata da Dike, la quale non solo consentirà al<br />
poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la<br />
δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno<br />
studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del «poeta-sciamano in<br />
cerca di conoscenza» 57 , accostandolo all'esperienza del platonico Er.<br />
In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su lami<strong>net</strong>ta aurea) per l'anima<br />
del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono:<br />
ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι<br />
52 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to<br />
Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss..<br />
53 Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del<br />
proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396.<br />
54 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet,<br />
Torino 2007, p. 115.<br />
55 Sassi, op. cit., p. 386.<br />
56 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti,<br />
per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες.<br />
57 J.D. Morrison, "Parmenides and Er", in «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68. La citazione<br />
è a p. 59.<br />
147
εἰς Ἀΐδαο δόμους εὐήρεας<br />
«Quando ti toccherà di morire<br />
andrai alle case ben costrutte di Ade» 58 ,<br />
dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata<br />
affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες):<br />
[h]οι δέ σε εἰρήσονται ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι<br />
ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος<br />
«che ti chiederanno nel loro denso cuore<br />
Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso» 59 .<br />
Ma le lami<strong>net</strong>te propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in<br />
Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo<br />
escatologico comune 60 : la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da Parmenide<br />
sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato nelle lami<strong>net</strong>te (e nei testi platonici):<br />
ἔστ’ ἐπὶ δξιὰ κρήνα,<br />
πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος<br />
[...]<br />
ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις∙<br />
πρόσθεν δὲ [h]ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας<br />
ψυχρὸν ὔδωρ προρέον<br />
«c'è alla destra una fonte,<br />
e accanto a essa un bianco cipresso diritto<br />
[...]<br />
A questa fonte non andare neppure troppo vicino;<br />
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre<br />
dalla palude di Mnemosine» (lami<strong>net</strong>ta di Ipponio)<br />
εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην<br />
πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον<br />
ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας.<br />
εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης<br />
ψυχρὸν ὕδωρ προρέον<br />
«E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte,<br />
e accanto a essa un bianco cipresso diritto:<br />
a questa fonte non accostarti neppure, da presso.<br />
E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre<br />
dalla palude di Mnemosine» (lami<strong>net</strong>ta di Petelia, circa 350 a.C.)<br />
εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην,<br />
πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον<br />
ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα.<br />
πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης<br />
ὕδωρ προ<br />
«Troverai alla destra delle case di Ade una fonte,<br />
e accanto a essa un bianco cipresso diritto:<br />
a quella fonte non accostarti neppure, da presso.<br />
58 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3.<br />
59 Colli, op. cit., pp. 172-3.<br />
60 Sassi, op. cit., pp. 390-1.<br />
148
E più avanti troverai la fredda acqua che scorre<br />
dalla palude di Mnemosine» (lami<strong>net</strong>ta di Farsalo, circa 330 a.C.) 61 .<br />
Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui<br />
attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria<br />
allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος:<br />
εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας<br />
«Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola una volta ascoltata» (B2.1),<br />
evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca», evidentemente biforcate:<br />
(i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3);<br />
(ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5);<br />
per trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente<br />
alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai «mortali che nulla sanno»<br />
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4) 62 .<br />
Sono stati compiuti, negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per<br />
tutto il materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II<br />
a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo alle<br />
istruzioni per le anime dei defunti 63 . Più prudentemente, riferendosi alle lami<strong>net</strong>te di<br />
Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo), Ferrari ha sottolineato come<br />
ci si trovi di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì<br />
che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti importanti e complesse» 64 . In<br />
ogni caso, un elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle<br />
lami<strong>net</strong>te (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna<br />
Grecia per le prime due lami<strong>net</strong>te, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si<br />
faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di<br />
ricordare» 65 , e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a quella<br />
cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel<br />
processo di ascesi e di perfezionamento della persona» 66 . Non è un caso che Pugliese<br />
Carratelli, editore delle lami<strong>net</strong>te, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico<br />
richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων<br />
innominata di Parmenide.<br />
Esperienze sciamaniche<br />
Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al<br />
tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito<br />
della cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da<br />
61 Colli, op. cit., pp. 172-7.<br />
62 Sassi, op. cit., pp. 392-3.<br />
63 Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II:<br />
Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di<br />
ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6.<br />
64 Ivi, p. 119.<br />
65 Ivi, p. 124.<br />
66 Ibidem.<br />
149
Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca 67 - è quella di un mediatore tra<br />
uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in<br />
cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o<br />
cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima<br />
persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di<br />
trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti di<br />
erramento prima del desiderato confronto con la divinità.<br />
Anche Mourelatos 68 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso<br />
di elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se<br />
concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel<br />
proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea<br />
spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare,<br />
nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza<br />
sciamanica. In questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In<br />
particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa<br />
rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e<br />
profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari<br />
per valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È<br />
probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga misura da<br />
motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in una nuova<br />
prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il<br />
complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo.<br />
Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo”<br />
letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili,<br />
secondo Kingsley 69 , proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in<br />
una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di<br />
presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel<br />
mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato» 70 , colui che, in virtù delle proprie<br />
conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente l’espressione<br />
κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra<br />
mondo umano e divino 71 : l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di una<br />
eccezionale κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infero 72 ). Qui è<br />
plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che coniugavano il tema della<br />
discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato<br />
contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come<br />
l’eroe Eracle 73 o il leggendario poeta Orfeo (in queto senso da leggere, analogamente a<br />
Dodds 74 , come sciamano).<br />
A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni posteriori),<br />
Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di<br />
Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da<br />
67 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo<br />
V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo).<br />
68 Op. cit., pp. 44-5.<br />
69 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999.<br />
70 Ivi, p. 62.<br />
71 Ivi, p. 72.<br />
72 Ivi, pp. 62-3.<br />
73 Ivi, p. 61.<br />
74 Op. cit., pp. 186-7.<br />
150
Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di<br />
Dike 75 . In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un<br />
retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il filosofo poteva inserire i propri<br />
riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea 76 . In effetti, che il ruolo di divina<br />
interlocutrice del poeta, al termine del viaggio, sia ricoperto da Persefone, è suggerito<br />
dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?)<br />
lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida<br />
della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il poeta<br />
circa la sua presenza nel mondo dei morti.<br />
D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo<br />
a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo.<br />
Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo φέρω nei<br />
primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un punto di vista<br />
poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la recitazione), di<br />
incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che<br />
Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la<br />
propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai propri ascoltatori (iniziati): potrebbe<br />
dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto»,<br />
σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che<br />
esso ritorna nella tradizione dei “papiri magici greci” (di epoca posteriore), associato<br />
proprio al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico 77 .<br />
Maria Laura Gemelli Marciano 78 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21<br />
versi) dedicato nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla<br />
descrizione del viaggio e alla acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale<br />
(acustica e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il<br />
mero impiego simbolico, tanto più considerando 79 la stretta relazione tra suoni («sibilo»,<br />
σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) – segnali<br />
di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine 80 . Indizi che<br />
possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un viaggio estatico.<br />
Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra<br />
apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco<br />
marmoreo che recita 81 : Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di<br />
Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area<br />
anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e<br />
physikos, a un tempo ricercatore della <strong>natura</strong> e medico: dal momento che ad Apollo<br />
Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la figura del filosofo<br />
fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica<br />
in Velia), nel solco dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale.<br />
Nella stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica (Diogene Laerzio IX.21):<br />
75 Op. cit., p. 94.<br />
76 Ivi, p. 97.<br />
77 Ivi, pp. 129-130.<br />
78 Die Vorsokratiker, II, p. 54.<br />
79 <strong>Sulla</strong> scia dello stesso Kingsley.<br />
80 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55.<br />
81 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss..<br />
151
ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ<br />
πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος<br />
ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου,<br />
ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη.<br />
«Parmenide, come sostenne Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia figlio di Diochete,<br />
pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto di animo, il che tanto più lo indusse a seguirne<br />
l’insegnamento. Quando Aminia morì, egli, che era di famiglia elevata e ricca, gli costruì<br />
un tempietto. E fu Aminia, non Senofane, a volgerlo a una vita di studio» 82 .<br />
Il termine ἡσυχία - qui tradotto come «vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto<br />
diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno<br />
parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è<br />
quello di «quiete, riposo», «silenzio, immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato<br />
maestro di «incubazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di<br />
concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici 83 .<br />
Come ha rilevato la Gemelli Marciano 84 , l'«incubazione» può fornire la chiave per<br />
collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di<br />
legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno<br />
secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico<br />
Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel<br />
caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi<br />
direttamente dagli dei.<br />
Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di elementi potesse<br />
costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare una sua codifica in una qualche<br />
forma recitativa (come nel caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide<br />
potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando<br />
situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle pratiche<br />
(importate, come crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia<br />
Minore).<br />
La cornice cosmologica: Esiodo<br />
Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con le sue diverse, possibili<br />
suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio, su uno sfondo cosmico<br />
(parzialmente delineato ma in ogni modo individuabile nelle allusioni del testo) inteso<br />
certamente a modulare un terzo grande modello poetico, forse decisivo nella<br />
elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. <strong>Sulla</strong> sua incidenza pochi<br />
hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 85 , privilegino il confronto con Omero.<br />
Sommariamente, infatti, possiamo rilevare:<br />
(i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse 86 della Teogonia;<br />
(ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in Teogonia, vv.<br />
27-28:<br />
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,<br />
82 H. Diels – W. Kranz, I Presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, pp. 446-7.<br />
83 Kingsley, op. cit., pp. 179-181.<br />
84 Op. cit., II, p. 45-6.<br />
85 Op. cit., p. 33.<br />
86 Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and<br />
Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ proem, Hakkert, Amsterdam 1974.<br />
152
ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι<br />
«sappiamo dire molte menzogne simili al vero,<br />
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare» -,<br />
rispetto al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra<br />
verità e incerto opinare umano;<br />
(iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico dell'opera esiodea nel<br />
proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione<br />
del poema. Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a<br />
quella del poeta di Ascra.<br />
A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il<br />
precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle novità da<br />
questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore a se stesso<br />
nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema. In relazione<br />
all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del<br />
poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione<br />
polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 87 :<br />
l’investitura poetica e il dono divino della verità, come proposti in apertura della<br />
Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui l’autore<br />
fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo.<br />
D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella<br />
misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e<br />
proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo<br />
degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso della<br />
Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e della sua<br />
esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza<br />
complessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse,<br />
costituisce la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema» 88 .<br />
A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto<br />
alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio<br />
parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e<br />
Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione<br />
della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco<br />
delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo:<br />
ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος<br />
πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος<br />
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν,<br />
ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ∙<br />
χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν<br />
οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο,<br />
ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης<br />
ἀργαλέη∙ δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.]<br />
[τοῦτο τέρας∙ καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ<br />
ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι.]<br />
τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν<br />
87 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8.<br />
88 Ivi, pp. 129-130.<br />
153
ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν<br />
ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι<br />
ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν<br />
χάλκεον∙ ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε<br />
ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει,<br />
ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα<br />
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα<br />
μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται∙<br />
ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα,<br />
ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο,<br />
Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ.<br />
ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν,<br />
Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί∙ οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς<br />
Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν<br />
οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων.<br />
τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης<br />
ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι,<br />
τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ<br />
νηλεὲς ἐν στήθεσσιν∙ ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν<br />
ἀνθρώπων∙ ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν<br />
«Là della terra nera e del Tartaro oscuro,<br />
del mare infecondo e del cielo stellato,<br />
di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini,<br />
luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio,<br />
voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe<br />
per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte,<br />
ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta<br />
crudele; tremendo anche per dèi immortali<br />
è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile<br />
s'inalza, da nuvole livide avvolta.<br />
Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio<br />
reggendolo con la testa e con infaticabili braccia,<br />
saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini<br />
si salutano passando alterni il gran limitare<br />
di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta<br />
esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene,<br />
ma sempre l'uno fuori della casa<br />
la terra percorre e l'altro dentro la casa<br />
aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga;<br />
l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede,<br />
l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte,<br />
la Notte funesta, coperta di nube caliginosa.<br />
Là hanno dimora i figli di Notte oscura,<br />
Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro<br />
Sole splendente guarda coi raggi,<br />
sia che il cielo ascenda o il cielo discenda.<br />
Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare<br />
Tranquillo percorre e dolce per gli uomini,<br />
dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo,<br />
spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende<br />
degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.» 89 (vv. 736-766).<br />
89 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3.<br />
154
Come ci ricorda Privitera 90 , abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive<br />
sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica,<br />
presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe<br />
"orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo<br />
trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo tragitto di ritorno a oriente navigando<br />
su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La<br />
seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati<br />
nel mondo "infero" 91 . Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente<br />
dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro 92 )<br />
registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro<br />
una cornice cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali 93 . Nella lettura<br />
di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro del<br />
proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla<br />
Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei<br />
morti.<br />
Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano le<br />
interpretazioni cosmologiche 94 , si prestano a suggestioni diverse, proiettando<br />
decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide.<br />
Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e<br />
della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra<br />
quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della<br />
terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce<br />
particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi»<br />
718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra<br />
prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali,<br />
731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel<br />
contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze<br />
titaniche:<br />
ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος<br />
πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος<br />
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν,<br />
ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ.<br />
ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός,<br />
ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς,<br />
αὐτοφυής∙ πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων<br />
Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο.<br />
«Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso,<br />
del mare infecondo e del cielo stellato,<br />
di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini,<br />
luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio.<br />
Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia,<br />
inconcussa, su radici infinite commessa,<br />
90 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti<br />
dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464.<br />
91 Ivi, p. 449.<br />
92 Ivi, p. 453.<br />
93 Ibidem.<br />
94 Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le<br />
annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2).<br />
155
nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi,<br />
i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso» 95 (vv. 807-814).<br />
In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come<br />
vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una<br />
dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente<br />
indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel 96 , va presa seriamente in considerazione<br />
l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello<br />
(sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe come<br />
un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile, circondato dalla<br />
solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato<br />
propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione<br />
infera in cui proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua<br />
risorgenza.<br />
In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico<br />
del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale<br />
orientamento orizzontale (est-ovest, secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la<br />
prospettiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste<br />
avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche<br />
dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel 97 , tra fenomeni<br />
(diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che<br />
possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove<br />
Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare<br />
direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e<br />
danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo<br />
infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro<br />
turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a<br />
quello notturno).<br />
A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei<br />
sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso<br />
cui si succedono i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in<br />
cui sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale<br />
prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio<br />
come nella poesia esiodea:<br />
ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες<br />
[ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης]<br />
ἑστᾶσιν<br />
«Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora,<br />
del possente Ade e della terribile Persefoneia,<br />
s'inalza [...]» 98 (vv. 767-769a)<br />
Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che fa da<br />
sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo potrebbero dunque<br />
autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta<br />
95 Teogonia, cit., p. 115.<br />
96 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II.<br />
97 Ivi, p. 38.<br />
98 Teogonia, cit., p. 113.<br />
156
non genericamente uno spazio oltremondano, ma propriamente la direzione<br />
dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le rivelazioni.<br />
Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie<br />
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri<br />
elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale,<br />
materiali tradizionali, significativi alla comprensione dei contemporanei. Questo non<br />
implica che egli abbia semplicemente puntato all’artificio retorico, impiegando<br />
simbolicamente cliché al solo scopo di sfruttarne l’impatto persuasivo.<br />
Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli Marciano) circa il<br />
radicamento del pensatore all’interno di un sistema di credenze e di pratiche ereditate<br />
dalle ascendenze del suo popolo, potremmo ipotizzare che: (i) la sua intenzione fosse<br />
genericamente quella di veicolare, nelle forme della sapienza tramandata, un nuovo<br />
punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura ionica e<br />
pitagorica; ovvero, più specificamente, (ii) quella di evocare (e comunicare), nelle<br />
forme della poesia epica arricchite di particolari suggestivi (suoni, movimenti ecc.),<br />
l'esperienza straordinaria di uno sciamano. Ciò comportando, in ogni caso, rispetto alle<br />
letture interpretative consolidate, il problema di unire l'indiscutibile impianto logico del<br />
Περὶ φύσεως con l'immediatezza e alogicità di quello sfondo.<br />
Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà<br />
dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della<br />
continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra emerge nella espressione poetica, e<br />
razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo<br />
più battute nella storia delle interpretazioni sono quelle (maggioritarie) che scorporano,<br />
in realtà, i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo alla<br />
originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minoritarie) che unilateralmente<br />
insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto<br />
cosmico era l’oggetto (anche dettagliato) di analisi nell’opera, come attestato dalla<br />
titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione.<br />
È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e<br />
che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente<br />
connesso alle esperienze evocate appunto nel proemio. In questo senso, si può<br />
condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza<br />
comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di<br />
filosofia che si sarebbe poi affermata, attraverso il socratismo, nella cultura ellenistica<br />
(secondo la lezione di Hadot 99 ). In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli<br />
imperativi della dea sono tutti rivolti a una attività di tipo mentale, non al bios o al<br />
prattein 100 .<br />
D'altra parte, contestualizzando la lettura di B1, appare prudente rigettare l’approccio<br />
allegorico, rintracciando piuttosto nel proemio l’espressione di una esperienza vissuta.<br />
Pare fondata l’osservazione di Leszl 101 , secondo cui un'interpretazione allegorica del<br />
proemio - come quella fornita da Sesto Empirico (conferma della ragione come unico<br />
criterio di verità, in opposizione ai sensi) - si scontra con il fatto che convenzioni per<br />
decifrare in senso razionale le immagini poetiche (come si sarebbe fatto soprattutto in<br />
epoca ellenistica da parte stoica) al tempo dell’autore (fine VI secolo a.C.) erano solo<br />
99 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, 1987.<br />
100 Op. cit., p. 45.<br />
101 Op. cit., p. 144.<br />
157
agli inizi. A Teagene di Reggio, contemporaneo di Parmenide (e forse, come lui, legato<br />
alla tradizione pitagorica), dobbiamo, infatti, una allegoresi filosofica, chiaramente<br />
orientata in senso apologetico, proprio della poesia omerica 102 .<br />
Possiamo supporre, allora, come fanno lo stesso Leszl 103 e Coxon 104 , che nella<br />
descrizione del viaggio del poeta Parmenide il resoconto di una genuina esperienza<br />
visionaria converga con elementi simbolici e allusioni alle teorie cosmologiche<br />
dell’autore. In pratica Parmenide avrebbe adottato il modulo espressivo più vicino<br />
culturalmente alla sua individuale esperienza di formazione (e trasformazione)<br />
spirituale, e più efficace per coinvolgere nella stessa prospettiva il pubblico destinatario<br />
(plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli 105 ).<br />
Ciò comportava <strong>natura</strong>lmente anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli<br />
poteva attingere ai modelli consolidati dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia<br />
apocalittica: il proemio in primis non è tuttavia assemblato con immagini scelte per la<br />
significazione filosofica veicolata a un pubblico sensibile alla loro decifrazione, ma<br />
costruito intorno all’effetto – intellettuale e personale – dell’impatto con la verità, con la<br />
scoperta della realtà del tutto cosmico.<br />
Il viaggio e la sua esperienza<br />
La esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo riscontrato<br />
introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema in quello che è<br />
classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre<br />
dell’esordio nella sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione,<br />
impronta e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide.<br />
Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare<br />
l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera,<br />
scontata formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti<br />
dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente<br />
risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con il<br />
rigore argomentativo di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il<br />
preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli<br />
obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva.<br />
Nel segno della eccezione<br />
Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata in alcuni<br />
passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto indeterminata in<br />
altri (tragitto oltre la porta) 106 - che ha dato adito a vari tentativi di contestualizzazione<br />
del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati nei<br />
versi parmenidei:<br />
(i) l’intervento delle Eliadi presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce»)<br />
guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il<br />
102 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII.<br />
103 Op. cit., p. 145.<br />
104 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 156.<br />
105 Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des<br />
Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie<br />
Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve<br />
d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90.<br />
106 Leszl, op. cit., p. 141.<br />
158
poeta: le fanciulle (Ἡλιάδες κοῦραι) devono placarla «con parole compiacenti» e<br />
«sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità evidentemente<br />
non garantita ad altri mortali;<br />
(ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira<br />
infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto;<br />
(b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini».<br />
Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i<br />
limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni<br />
(θυμός) del filosofo (v. 1):<br />
ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι<br />
«Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere»,<br />
e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a):<br />
ὅτε σπερχοίατο πέμπειν<br />
Ἡλιάδες κοῦραι<br />
«mentre si affrettavano a scortar[mi]<br />
le fanciulle Eliadi».<br />
L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità:<br />
(i) di spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di<br />
accedere non semplicemente alla verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che<br />
lo informerà circa:<br />
(a) la <strong>natura</strong> della realtà (vv. 28b-29):<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
«Ora è necessario che tutto tu apprenda:<br />
sia di Verità ben rotonda il cuore saldo»,<br />
(b) la <strong>natura</strong> del comune fraintendimento (v. 30):<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής<br />
«sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità»,<br />
(c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori,<br />
gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2):<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα<br />
«Eppure anche questo imparerai: come le cose accettate [nelle opinioni]<br />
era necessario esistessero in modo plausibile, tutte insieme davvero esistenti».<br />
A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino:<br />
(i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del<br />
poeta\filosofo;<br />
(ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti;<br />
(iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla<br />
Verità - meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo.<br />
159
Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto<br />
protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana 107 , che<br />
descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il<br />
privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello<br />
status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino.<br />
Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le<br />
indicazioni del proemio sembrano alludere a una forma di trascendimento in qualche<br />
misura “tradizionale” nella cultura arcaica: l’accesso al mondo infero. In tal senso si può<br />
interpretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e,<br />
soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto<br />
meticolosamente da Esiodo (Teogonia, 736-745) 108 , con la prossimità della «dimora<br />
della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e<br />
della terribile Persefoneia» (vv. 758-778).<br />
In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici 109 , dati<br />
antropologici 110 ), cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide<br />
e di Elea, la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la<br />
θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei<br />
morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche, già in<br />
Omero (Odissea XI) era cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di Δίκη<br />
πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a<br />
Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca Zeus nell’atto di relegare i Titani nel<br />
Tartaro 111 - troverebbe in tale scenario la propria <strong>natura</strong>le collocazione: nell’Ade i morti<br />
subiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe<br />
commesse in vita.<br />
La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche<br />
un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso<br />
indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui<br />
i confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui<br />
limiti estremi poggia il cielo-cupola 112 : in questo senso, nel caso dell’Odissea, la<br />
katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come<br />
raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre 113 . La nozione del<br />
limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla<br />
scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte 114 .<br />
In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso<br />
«i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v.<br />
11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano insistere<br />
sul punto di vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso<br />
l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il<br />
107 Leszl, op. cit., p. 167.<br />
108 Cerri, op. cit., p. 173.<br />
109 Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle e<br />
Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op.<br />
cit., pp. 93-100.<br />
110 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108).<br />
111 Cerri, op. cit., pp. 104-5.<br />
112 Leszl, op. cit., p. 149.<br />
113 Ivi, p. 144.<br />
114 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice la<br />
lettura che ne propone Leszl (p. 147).<br />
160
carro, nascostamente sottratto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus),<br />
suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla<br />
presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il<br />
contemporaneo Eraclito), la processualità della <strong>natura</strong> – l’alternanza di notte e giorno ai<br />
confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia 115 . Al<br />
poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore di seguire il corso del Sole,<br />
abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri<br />
dell’oltremondo.<br />
Al di là dell'esperienza quotidiana<br />
L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non<br />
sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a<br />
una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza<br />
della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων<br />
ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade<br />
8.13-16; Odissea 24.11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti,<br />
miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate:<br />
poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i<br />
suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti,<br />
il regno di Ade e Persefone 116 . Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia<br />
in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il<br />
mondo dei vivi e quello dei morti 117 .<br />
Ciò che, in realtà, è in rilievo nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento dalla<br />
terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e incontrare,<br />
nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio<br />
nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta,<br />
scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica»,<br />
raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo<br />
(con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la<br />
tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel<br />
contesto rispetto alla luce celeste 118 : sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce»,<br />
muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa<br />
notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano,<br />
con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare<br />
(cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar<br />
cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide<br />
prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la<br />
distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni umane, la<br />
katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente.<br />
Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si<br />
apre con il presente:<br />
ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι<br />
« Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere» (v. 1),<br />
115 Ibidem.<br />
116 Cerri, op. cit., p. 98.<br />
117 Ivi, p. 99.<br />
118 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit..<br />
161
quasi a marcare un’abitudine 119 ovvero, all’interno della narrazione, un elemento di<br />
sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre<br />
riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»<br />
ἣ κατὰ φέρει εἰδότα φῶτα<br />
« che porta l’uomo sapiente» (v. 3),<br />
sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike:<br />
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων,<br />
καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·<br />
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·<br />
τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.<br />
«Lì sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno:<br />
architrave e soglia di pietra li incornicia;<br />
essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio.<br />
Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno» (vv. 11-14).<br />
Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a<br />
straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la<br />
sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità 120 , condizione dell'esperienza di<br />
conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni<br />
caso, l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una<br />
relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore<br />
in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità,<br />
siano parte di una esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano<br />
essere avviati 121 ). Nel senso allegorico proposto da Coxon 122 , il poeta è ancora sul carro,<br />
con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze<br />
motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia,<br />
secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a<br />
filosofare.<br />
Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di<br />
raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della<br />
Dea:<br />
πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι<br />
δαίμονος, ἣ κατὰ φέρει εἰδότα φῶτα·<br />
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι<br />
ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον<br />
«[Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di<br />
canti<br />
119 Guthrie, op. cit., p. 7.<br />
120 Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner,<br />
Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK22B18:<br />
«Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio».<br />
121 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40)<br />
interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso –<br />
in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico –<br />
diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo.<br />
122 Coxon, op. cit., p. 14.<br />
162
della divinità che porta l’uomo sapiente.<br />
Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle,<br />
trainando il carro: fanciulle mostravano la via» (vv. 2-5).<br />
L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità<br />
dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno 123 interpreta come<br />
“imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e<br />
puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla<br />
congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo ordito<br />
temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe alludere –<br />
come intendono Mansfeld 124 e Ferrari 125 - al presente della condizione sapienziale del<br />
poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla<br />
narrazione, dal passato. Nel presente della performance recitativa il poeta evoca<br />
l’avventura della conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della<br />
divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali:<br />
«Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere,<br />
mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero accompagnato sulla via ricca di canti<br />
della divinità, che porta l’uomo sapiente» (vv. 1-3).<br />
L’uomo sapiente (εἰδὼς φώς), l’uomo che sa, è tale per essere stato guidato, condotto<br />
lungo la «via della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un<br />
tempo: perché della divinità, perché conduce alla divinità, perché indicato dalla<br />
divinità): il canto poetico è lì a documentare quel privilegio.<br />
Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una<br />
condizione di conoscenza giustificata dall'esperienza (εἰδώς implica etimologicamente<br />
l’esperienza visiva) narrata in quelli successivi 126 , può essere messa in discussione<br />
partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità<br />
misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi<br />
anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza<br />
predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità 127 . Il termine εἰδώς si<br />
potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione<br />
all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio<br />
dell’animo del poeta verso il contatto con la verità.<br />
Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità –<br />
che il poeta\filosofo avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla<br />
piena cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo<br />
tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù della eccezionale prerogativa di<br />
una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di annunciare la<br />
verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione della dea (passato), nella quale<br />
si compie comunque una originaria ed elitaria aspirazione. Accentuando<br />
(arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero<br />
123 Conche, op. cit., p. 44..<br />
124 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964,<br />
pp. 228-9.<br />
125 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lami<strong>net</strong>te misteriche,<br />
Utet Libreria, Torino 2007, cap. VIII "Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili.<br />
Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno".<br />
126 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7.<br />
127 Cerri, op. cit., pp. 169-170.<br />
163
identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle<br />
Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione<br />
religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della<br />
ricerca, da parte del filosofo, di un accesso alla piena conoscenza della realtà.<br />
Ancora sul nodo delle divinità<br />
Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nella economia complessiva del<br />
frammento B1 e nello specifico rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi –<br />
sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio:<br />
(i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi;<br />
(ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike;<br />
(iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda<br />
cantata, gli altri due risultano subordinati.<br />
In un contesto già popolato da molte altre potenziali 128 entità divine (Notte, Giorno,<br />
Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente narrativo, ma,<br />
nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente<br />
celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione.<br />
Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per<br />
consentire la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le<br />
riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 129 , che vincola elementi e<br />
fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi<br />
in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte<br />
(che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio):<br />
Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα∙ εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι<br />
ἐξευρήσουσιν<br />
«le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di<br />
Dike» (DK 22B94).<br />
Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari<br />
dell'illuminazione) 130 , Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante<br />
della storia (ripresa in una perduta tragedia – le Eliadi appunto - di Eschilo, cui<br />
Parmenide potrebbe aver presenziato a Siracusa 131 ) aiutarono nell’impresa di guidare il<br />
carro del Sole. Alla luce di questa circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono<br />
richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel<br />
suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici 132 : di<br />
questo le Eliadi devono convincere Dike, perché ne autorizzi il passaggio lungo la<br />
traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3<br />
potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il<br />
suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo.<br />
Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione: abbiamo<br />
ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita puntualmente dalla<br />
Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il<br />
128 Se se ne accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del<br />
poema.<br />
129 Cerri, op. cit., pp. 104-5.<br />
130 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173.<br />
131 Capizzi, op. cit, p. 52.<br />
132 Leszl, op. cit., p. 146.<br />
164
mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in<br />
cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo<br />
terrificante anche per gli dei 133 . In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e<br />
Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica<br />
del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero<br />
essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide<br />
(all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il<br />
cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo<br />
vestibolo è a livello della superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente<br />
dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (di iniziato, di εἰδὼς<br />
φώς) di poter varcare, ancora vivo, la porta, per attingere la conoscenza: Dike è al suo<br />
posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta<br />
viaggiatore in qualità di avvocatesse (impiegano parole suasive per ammansire la<br />
inflessibile sorvegliante dei confini) 134 .<br />
Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa<br />
cantata coincida con il massimo privilegio previsto per un mortale nell’universo mitico:<br />
come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse<br />
propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina,<br />
Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del<br />
presente contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua<br />
esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al<br />
presente della condizione umana.<br />
Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo<br />
continuato a interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si<br />
trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando,<br />
quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico.<br />
Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di Parmenide,<br />
evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete dovevano<br />
già avere assunto nella attività poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava<br />
compiendo solo i primi passi con Teagene di Reggio, ma è possibile che il simbolismo<br />
avesse un peso nella cultura pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni 135 , ricondurre la<br />
formazione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, inoltre, nella Olimpica VI, faceva<br />
ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente allegorico: ciò confermerebbe<br />
che si era in grado di intenderlo come metafora delle scelte discorsive del poeta 136 ,<br />
sebbene l’accostamento a Parmenide sia difficile, in quanto il viaggio di costui appare<br />
ben più complesso.<br />
In ogni caso, è forse la stessa <strong>natura</strong> della eccezione evocata a rendere plausibile una<br />
intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i confini del<br />
mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento<br />
della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando<br />
al massimo l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe,<br />
con la propria "odissea", delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande<br />
mito del Fedro platonico 137 .<br />
133 Ivi, p. 147.<br />
134 Cerri, op. cit., pp. 106-7.<br />
135 Coxon, op. cit., p. 14.<br />
136 Leszl, op. cit., p. 157.<br />
137 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti.<br />
165
In ogni modo, la sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di<br />
quelle divinità fanno apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la<br />
mera figurazione allegorica di opzioni conoscitive o la semplice legittimazione, in<br />
chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio<br />
attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il<br />
suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiede<br />
l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della prospettiva del<br />
viaggiatore) 138 . È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il<br />
viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις 139 . Lo<br />
sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione<br />
poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivoesistenziale<br />
(forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di<br />
profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana.<br />
Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato<br />
nell’ambiente eleatico 140 , Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto<br />
esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni<br />
della quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi<br />
di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di<br />
Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera<br />
personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e<br />
incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici, all'efficacia<br />
coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni dettagli riconducibili, secondo Kingsley,<br />
all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa.<br />
La rivelazione e il suo programma<br />
Con il concorso delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie<br />
all’intervento persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui<br />
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che ella<br />
rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro nelle parole con<br />
cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!») l’evidentemente attonito visitatore.<br />
Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano né casuali, né <strong>natura</strong>li, ma<br />
risultato di un disegno:<br />
ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι<br />
τήνδ΄ ὁδόν ‐ ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν ‐,<br />
ἀλλὰ Qémij τε Díkh τε<br />
«Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere<br />
questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini),<br />
ma Temi e Dike» (vv. 26-28).<br />
Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta al cospetto della dea<br />
infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina<br />
sottintende che quella distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un<br />
138 La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da un<br />
lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di<br />
una nuova attitudine mentale: (i) la focalizzazione e la invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io;<br />
(ii) il ritratto e le strategie del tu.<br />
139 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica.<br />
140 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano.<br />
166
accidente, e che lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del<br />
protagonista (che è stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta.<br />
La «via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ «la<br />
nostra casa») – forse la ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca di canti della divinità» vv.<br />
2-3), lungo la quale le cavalle conducevano il poeta all’esordio: in ogni caso una strada<br />
principale, come chiarisce l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è<br />
percorsa sotto l’egida della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι<br />
ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il<br />
nominativo in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive<br />
della condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà,<br />
alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque legittimarne il<br />
privilegio.<br />
Imparare tutto<br />
L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella completa disponibilità della Dea,<br />
nella sua accoglienza e nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente -<br />
secondo il tradizionale paradigma 141 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza<br />
divina - l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella<br />
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv.<br />
29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente<br />
precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversativa +<br />
avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche così». L’interpretazione di<br />
questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva, dal momento che<br />
all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema<br />
(cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e dunque<br />
dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo.<br />
Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto:<br />
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής<br />
«sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,<br />
sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità» (vv. 29-30).<br />
Si tratta della opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il<br />
nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος, «ben<br />
rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore che non<br />
trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono realmente<br />
credibili: esse sono, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής («reale<br />
fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo<br />
per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di<br />
Teogonia vv. 27-28:<br />
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,<br />
ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι<br />
«sappiamo dire molte menzogne simili al vero,<br />
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare»,<br />
141 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella<br />
delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero.<br />
167
sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè<br />
contraffazioni del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα<br />
γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la<br />
realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e l'in-credibilità dei<br />
punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e<br />
secca contrapposizione vero-falso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false» (ψεύδεα)<br />
e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione determinata<br />
oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno<br />
volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della<br />
realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani<br />
nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del<br />
programma:<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα<br />
«Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accettate [nelle opinioni]<br />
era necessario esistessero in modo plausibile, tutte insieme davvero esistenti» (vv. 31-2).<br />
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso l'illustrazione della<br />
norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane (come vedremo,<br />
rintracciandone la distorsione ge<strong>net</strong>ica), ma intende proporre una ricostruzione<br />
attendibile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a<br />
δοκίμως può suggerire, nel contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il<br />
materiale delle inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro accettabile, cioè<br />
credibile alla luce della verità.<br />
Possiamo dunque articolare il programma della Dea in tre momenti 142 :<br />
(i) la esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca per pensare»), dell'intima<br />
necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura<br />
essenziale della realtà (B8);<br />
(ii) la denuncia dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7);<br />
(iii) la riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della<br />
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.).<br />
Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del poema:<br />
(a) una prima sezione (primo logos), nell’antichità indicata convenzionalmente come<br />
“Verità” (Ἀλήθεια) e nel poema (B8.50-51) con la formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità»), in cui, in<br />
successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i principi del<br />
corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»;<br />
(b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente più consistente),<br />
convenzionalmente nota come “Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi<br />
contenuti: δόξας βροτείας («opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del<br />
programma, <strong>natura</strong>lmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza).<br />
Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon 143 , secondo cui, invece,<br />
Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e<br />
Alcmeone nei passi sopra citati:<br />
142 Ruggiu, op. cit., p. 196.<br />
143 Op. cit., p. 169.<br />
168
καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται<br />
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων∙<br />
εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών,<br />
αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε∙ δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται<br />
«davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà<br />
sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte:<br />
se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado,<br />
lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose» (DK 21B34).<br />
Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ<br />
Βαθύλλωι∙ περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς<br />
δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς<br />
«Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo:<br />
sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto<br />
uomini, è dato solo trovare degli indizi» 144 (DK 24B1).<br />
Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane<br />
(elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si<br />
limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive:<br />
una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale,<br />
espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza<br />
ordinaria, gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe<br />
tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai<br />
in termini non contraddittori.<br />
Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce<br />
valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii): alla<br />
saldezza (razionale) della verità (i), Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica)<br />
dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico,<br />
esposizione (o ricostruzione) coerente (iii).<br />
Leszl 145 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che chiude la<br />
comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione, enunciata dalle<br />
Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio<br />
completo dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale<br />
perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero,<br />
la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di<br />
offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo.<br />
Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld 146 , il<br />
quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle<br />
Muse di dire verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce<br />
all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di<br />
ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente<br />
ispirato del poema esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali<br />
(sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono 147 ).<br />
144 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la<br />
Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose<br />
invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des<br />
présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19).<br />
145 Op. cit., pp. 153-4.<br />
146 Op. cit., p. 33.<br />
147 Ivi, p. 210.<br />
169
Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo<br />
centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione<br />
arcaica περὶ φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa<br />
riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle<br />
opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che<br />
l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle<br />
testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo logos,<br />
che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia del mondo<br />
<strong>natura</strong>le, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative 148 .<br />
Opinioni: credibili e non<br />
Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide -<br />
Cordero 149 - la Dea prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo corso di<br />
filosofia nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti<br />
complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A<br />
completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile<br />
modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma riconoscere che le<br />
opinioni non sono vere è vero 150 . Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa<br />
proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che supponiamo il secondo<br />
logos dovesse avere, configurandosi come poema didascalico, manuale o trattato<br />
scientifico, a carattere enciclopedico 151 . È necessario dunque intendersi preliminarmente<br />
sul valore delle opinioni 152 .<br />
Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi: Aristotele (DK<br />
28A24), per esempio, osserva:<br />
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν∙ παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν<br />
οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...]<br />
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον<br />
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς<br />
ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων∙ τούτων δὲ<br />
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν<br />
148 Il dibattito sulla <strong>natura</strong> della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G.<br />
Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:<br />
Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides<br />
Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thimking and the Doxa, Brill Academic Publishers,<br />
Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur<br />
Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-<br />
212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A. Nehamas,<br />
«Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham,<br />
Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd,<br />
The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press,<br />
Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The<br />
Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp.<br />
169-184).<br />
149 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004, p.<br />
30.<br />
150 Ivi, p. 32.<br />
151 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L.<br />
Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80.<br />
152 Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos".<br />
170
«Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal<br />
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che<br />
l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e<br />
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua<br />
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi<br />
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere» (Aristotele, Metafisica I, 5, 986<br />
b27 - 987 a1).<br />
A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva:<br />
Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ<br />
πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ<br />
ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ<br />
σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν<br />
ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην<br />
τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν.<br />
«Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il<br />
tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo<br />
sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e<br />
ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la<br />
generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia,<br />
l'altro invece come causa e agente» (Teofrasto, Opinioni dei fisici, DK 28A7).<br />
Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di<br />
esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale e<br />
empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis,<br />
dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima parte, originale, avrebbe<br />
invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori<br />
dell’indagine 153 .<br />
Certamente il programma della Dea prevede un momento critico, che investe<br />
indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»:<br />
individuare la norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine delle<br />
erronee convinzioni di quello che potremmo indicare come acritico “senso comune”, ma<br />
non esclude che la stessa materia empirica possa essere affrontata rigorosamente e<br />
correttamente. Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης:<br />
tra la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la<br />
(contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni<br />
umane, si annuncia la possibilità di una plausibile (coerente con i presupposti che<br />
autorizzano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a<br />
legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’impianto<br />
educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti<br />
sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio.<br />
In ogni caso, l’articolazione della proposta divina evidenzia soprattutto il punto (iii) del<br />
programma, il meno scontato nel contesto. Comunque si intenda la direzione del viaggio<br />
cantato nei versi parmenidei, la sua meta è la rivelazione da parte della divinità: sia<br />
interpretando letteralmente, sia ricorrendo alla decriptazione simbolica, l’esito veritativo<br />
è atteso, così come la conseguente opposizione tra quanto la dea può manifestare e<br />
153 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro nella organizzazione del poema <strong>Sulla</strong><br />
<strong>natura</strong> di Empedocle, nei cui frammenti (DK 31B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide<br />
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis.<br />
171
quanto umanamente attingibile. La vera sorpresa è costituita dunque dal terzo momento,<br />
chiaramente escogitato per giustificare la presenza di un'ampia sezione dedicata alla<br />
materia - “umana, troppo umana” – dei δοκοῦντα. La “oggettiva” (compiuta, εὐκυκλέος,<br />
«ben rotonda» 154 ), salda essenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è<br />
(<strong>natura</strong>lmente e tradizionalmente) opposta alla “soggettiva”, debole (οὐκ ἀληθής, «non<br />
reale [genuina]») «credibilità» (πίστις) che si può attribuire alle βροτῶν δόξαι:<br />
«nondimeno», il poeta, dalle istruzioni della Dea, apprenderà anche a proposito di<br />
queste (opinioni), come τὰ δοκοῦντα - «le cose accolte nelle opinioni» - siano da<br />
intendere «in modo plausibile» (δοκίμως), considerandole «tutte insieme davvero<br />
esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole rigorosamente<br />
alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procedere (B2.3).<br />
Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto:<br />
la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a<br />
conseguire un nuovo genere di consapevolezza della realtà 155 . A tale scopo non è<br />
sufficiente (almeno, didascalicamente, non per il kouros) conoscerne l’essenza (apporto<br />
specifico della divinità, contenuto tradizionale della sua rivelazione) e dunque prendere<br />
coscienza della genesi delle opinioni erronee: è soprattutto appropriato (considerando<br />
l’estensione del secondo logos) fare i conti con l’esperienza umana. Non pare – come<br />
invece molti sostengono 156 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto<br />
che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per<br />
doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate<br />
(B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità.<br />
Ciò che è originale, invece, a dispetto della tradizionale frattura tra mortali e immortali,<br />
è l’ardita combinazione (affidata appunto alla rivelazione della Dea) di rigorosa<br />
affermazione di una realtà non immediatamente accessibile all’esperienza umana (le cui<br />
premesse, enunciate in B2, sono sviluppate in B8), e articolata esposizione di un<br />
accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni <strong>natura</strong>li. In questo modo la<br />
comunicazione divina avrebbe abbracciato sia quanto tradizionalmente appannaggio<br />
esclusivo del divino (la verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως<br />
ἱστορίη), e il poema, nel suo complesso, avrebbe ridefinito il quadro cosmologico (e<br />
cosmogonico) della Teogonia esiodea.<br />
Verità e opinione<br />
Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32),<br />
possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo<br />
insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali:<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα.<br />
154 Per la lettura che proponiamo, sarebbe più <strong>natura</strong>le accogliere la variante e; εὐπειθέος («ben<br />
convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente<br />
accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in nota al testo greco.<br />
155 Robbiano, op. cit., p. 77.<br />
156 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2.<br />
172
Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è quello di<br />
«apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»: essi<br />
possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in<br />
contesto laddove la docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando<br />
a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ<br />
δοκοῦντα) e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος).<br />
La prima formula didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in<br />
precedenza rilevato, è <strong>net</strong>ta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza<br />
della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia<br />
di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la<br />
rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione della<br />
consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli ultimi due versi,<br />
verbalmente molto tormentati: il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che<br />
questa sezione della lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima<br />
opposizione (verità e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche<br />
queste cose» - plausibilmente rinvii alle «opinioni dei mortali» 157 e soprattutto sia<br />
evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα<br />
e δοκίμως.<br />
Come Mourelatos 158 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a)<br />
«aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma<br />
anche (ii) di «apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an object-oriented<br />
sense. Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua<br />
«funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni<br />
oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una<br />
«funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα (opinioneconvinzione)<br />
e δοκίμως (accettabile, plausibile) troveremmo allora coinvolta l’idea di<br />
valutazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν<br />
ὄν, come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono<br />
accettate». Le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non<br />
rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha<br />
evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che<br />
viene contrapposta la verità comunicata dalla dea.<br />
Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni,<br />
per riproporla in modo plausibile: in questo caso Parmenide impiega non il termine<br />
δόξαι ma τὰ δοκοῦντα, a cui collega la complessa espressione participiale διὰ παντὸς<br />
πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta<br />
appare non quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di<br />
proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come τὰ δοκοῦντα, «le<br />
cose accolte nelle opinioni», avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con<br />
possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre<br />
parole considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà.<br />
La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura<br />
del poema, con un secondo logos di <strong>natura</strong> enciclopedica, suggeriscono di considerare<br />
positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secondo (che<br />
157 In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che<br />
sembra invece riferito a quanto precede.<br />
158 Op. cit., pp. 195 ss..<br />
173
iceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui tuttavia sembra condividere<br />
due elementi essenziali:<br />
(i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base<br />
della esperienza;<br />
(ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in δοκ), il punto di vista mortale,<br />
che è appunto quello che passa attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve<br />
essere giudicato inaffidabile.<br />
La Dea procederà quindi:<br />
(i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente)<br />
garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per<br />
manifestare la struttura della realtà (B8);<br />
(ii) poi, sulla scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e<br />
impossibilità del non-essere), a stigmatizzare (sbrigativamente) l'infondatezza delle<br />
comuni opinioni umane;<br />
(iii) infine, attraverso una ricostruzione «accettabile» (coerente con i parametri veritativi<br />
della Dea) dell'esperienza, a illustrare l'«ordine del mondo» (διάκοσμος), vero obiettivo<br />
dell'opera.<br />
In questo modo, il poema, nel suo complesso, contiene la rivelazione della Verità, cioè<br />
dell’essere, della realtà: nella sua essenza («cuore fermo»), nel suo fraintendimento<br />
corrente e nella sua adeguata applicazione al campo della esperienza umana. Parmenide<br />
si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si<br />
sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che esprime il nucleo<br />
distillato della Ἀληθείη, assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra<br />
gli uomini e dunque un'avveduta prospezione sul mondo della sua esperienza. In questo<br />
senso, verità e opinione hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per<br />
la logica del poema): la realtà; nella sua unitotalità essenziale manifestata<br />
all'intelligenza, e nella pluralità attestata dalla esperienza.<br />
La scansione di tale programma (nella struttura del poema) è significativa proprio<br />
perché, protagonista la Dea, muove da premesse che evidentemente Parmenide riteneva<br />
di dover tutelare - sia in quanto a fondamento della corretta via di indagine, sia in<br />
considerazione della loro paradossalità - nei moduli della tradizione sapienziale. Si<br />
sarebbe poi a esse riferito nella liquidazione dei fallaci punti di vista ordinari (B6, B7 e<br />
parzialmente B8), e nella proposta di un'ampia sintesi περὶ φύσεως (B9 ss.).<br />
Lo scarto tra umano e divino, nel caso di un'esperienza eccezionale, in cui si percorrono<br />
i limiti del cosmo, per giungere a un nodo, la porta cosmica, dove cielo e terra, notte e<br />
giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è preservato non solo nella<br />
modalità rivelativa e quindi nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nel<br />
diverso sguardo sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente<br />
coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità afferrata razionalmente nella sua<br />
omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è condizionato (e per lo più sviato)<br />
dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con<br />
la lezione divina – una consapevole mediazione.<br />
Per via<br />
Prima di concludere l’esame del frammento e dopo averne considerato gli ultimi versi e<br />
il programma contenutovi, è opportuno ritornare sull’insieme del proemio e riassumere i<br />
nostri risultati. Abbiamo in particolare osservato che:<br />
174
(i) Parmenide riprende il modello della grande poesia epica, con ciò evocandone il<br />
rilievo veritativo e educativo;<br />
(ii) egli sviluppa il tema del viaggio, centrale nell’epica omerica, ma anche, in generale,<br />
nell’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo);<br />
(iii) modulando quei paradigmi, il filosofo insiste sulla eccezionalità della propria<br />
esperienza di viaggio, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la<br />
meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice;<br />
(iv) ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del<br />
viaggio, la «via» (ὁδός) - che la dea ci informa essere «in effetti lontana dalla pista degli<br />
uomini» -, messa in relazione con quella introduttivamente qualificata come ὁδός<br />
πολύφημος δαίμονος, una via lungo la quale abbondano i canti (quindi celebrata) o le<br />
parole, le voci, ovvero ancora (come qualcuno traduce 159 ) «che dice molte cose»: in ogni<br />
caso «via della divinità»;<br />
(v) a sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e<br />
Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, come sottolinea la Dea, non è<br />
dunque casuale, accidentale, ma risultato di uno sforzo (il poeta in apertura evoca la<br />
spinta del proprio desiderio, θυμός) educato, forse di una iniziazione (come rivelerebbe,<br />
secondo alcuni, l’uso della espressione εἰδὼς φώς in v. 3);<br />
(vi) la lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il<br />
nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche al<br />
mondo della esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli<br />
stravolgimenti, sia per offrirne una versione «accettabile», cioè coerente, nei suoi<br />
principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere).<br />
I modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente<br />
centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento<br />
intorno a cui realizzare sia un profondo ri-orientamento della esperienza umana, sia una<br />
radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di<br />
dimostrare in B3 e B8). Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la<br />
Stemich, convinta che in Parmenide non si possa delimitarne <strong>net</strong>tamente la prospettiva<br />
oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella<br />
soggettiva (come nelle espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione<br />
dell’uomo alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista<br />
piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il<br />
senso comune quotidiano 160 . La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il<br />
mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere<br />
diversamente dalla società 161 .<br />
È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano abbia<br />
richiamato l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma<br />
educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve<br />
maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà,<br />
allo stesso tempo oggettiva 162 . In questo senso il poema riguarderebbe una<br />
trasformazione del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della<br />
comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto 163 .<br />
159 Reale, per esempio.<br />
160 Op. cit., pp. 84-6.<br />
161 Ivi, p. 119.<br />
162 Op. cit., p. 56.<br />
163 Ivi, p. 37.<br />
175
Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce alla porta cosmica, chiave<br />
di volta non solo dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo<br />
infero, ovvero di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole<br />
Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è<br />
comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto<br />
il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è decisivo non<br />
solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà di condursi<br />
nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa di Parmenide, con le<br />
sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni,<br />
illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso,<br />
dunque, il poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle<br />
cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una<br />
dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con<br />
l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato a<br />
scegliere.<br />
176
B2<br />
Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con<br />
certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione: all’inizio<br />
della prima sezione del poema 1 , a ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e<br />
contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca un<br />
blocco argomentativo continuo con i successivi B3, B6, B7 2 : un'articolata e ragionata<br />
disamina (indicata dalla Dea come ἔλεγχος in B7.5) dei presupposti funzionali alla<br />
manifestazione (B8) dei segni (σήματα) di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης<br />
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ, «di verità ben rotonda il cuore fermo». In pratica delle<br />
proprietà della Realtà concepita nel suo insieme.<br />
In questo senso, all’interno di uno schema espositivo che esplicitamente richiama<br />
l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la Dea, infatti, marca la<br />
significatività del proprio μῦθος, sollecitando l’interlocutore a prenderne nota e averne<br />
cura), alcuni hanno voluto valorizzare la condizionante presenza dei principi della<br />
logica occidentale 3 , altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia 4 .<br />
Dire, ascoltare<br />
La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in<br />
cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io<br />
dirò») e la ricezione (l’ascolto avveduto) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura<br />
della parola»), destinata a trasformarsi, a sua volta, nella mediazione della verità a un<br />
discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto<br />
da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci: al<br />
poeta, in conclusione del suo viaggio nel mondo infero, non sono riservati né<br />
privilegiate visioni, né contatti immediati; lo attendono solo parole di cui si raccomanda<br />
l'ascolto 5 . La ricerca della Verità dovrà dunque, per il giovane, completamente<br />
concentrarsi sul discorso della Dea: un discorso del tutto privo di nomi, in cui ella non<br />
nomina se stessa, né descrive se stessa o la casa in cui risiede, né indica nel dettaglio il<br />
soggetto delle proprie enunciazioni 6 . Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da<br />
sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα<br />
πυθέσθαι).<br />
Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας<br />
(«e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita l’attenzione per la<br />
verità del messaggio manifestato dalla Dea (μῦθος), ma implica anche – nella<br />
ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del<br />
1 Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, nella cesura sottolineata dalla Dea in B8.50-1 ci si<br />
riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης («discorso affidabile e<br />
pensiero intorno alla Verità»). B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς<br />
κέλευθος. Tradizionalmente si designa la prima sezione come "Verità" (Ἀληθείη).<br />
2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella ricostruita<br />
dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7.<br />
3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und<br />
erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 1995 3 .<br />
4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85, il quale ravvisa nella prima parte del poema di Parmenide la<br />
fondazione della ontologia.<br />
5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum<br />
International Publishing Group, London-New York 2009, pp. 89-90.<br />
6 Ivi, p. 79.<br />
177
termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola,<br />
attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di<br />
dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua<br />
peculiare posizione sociale, la sua sophia 7 .<br />
Io, tu<br />
La polarità comunicativa ἐγώ‐σύ marca, tuttavia, anche l’aspetto “dialettico” del testo<br />
parmenideo: essa, in effetti, introduce, con il rilievo della genuinità (aderenza alla<br />
realtà) del messaggio, l’urgenza di illustrarne la forza persuasiva al destinatario (B2.4:<br />
Πειθοῦς ἐστι κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità<br />
infatti si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone in B8). A<br />
dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della<br />
(co)stringente dimostrazione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi in<br />
discussione con il «tu», di cui, essenzialmente in B8, sembrerebbe confutare il punto di<br />
vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica comunicativa esprime l’intenzione<br />
educativa anche nella forma di una lezione sull’uso degli strumenti razionali.<br />
B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di base della successiva<br />
trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della<br />
divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme<br />
verbali in prima persona 8 :<br />
εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […]<br />
«Orsù, io dirò» (B2.1a)<br />
τὴν δή τοι φράζω<br />
«Proprio questa ti dichiaro» (B2.6a).<br />
7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21B2.11-14:<br />
ῥώμης γὰρ ἀμείνων<br />
ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη.<br />
ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον<br />
προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης<br />
«Migliore è infatti della forza<br />
di uomini e cavalli la nostra sapienza.<br />
Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto<br />
preferire la forza alla buona sapienza».<br />
Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza:<br />
e:<br />
χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας<br />
εὐφήμοις μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις<br />
«bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati,<br />
con racconti adeguati e puri discorsi» (B1.13-14);<br />
ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει,<br />
ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς<br />
«da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole,<br />
conformemente a memoria e aspirazione alla virtù» (B1.20-1).<br />
8 Op. cit., pp. 61-2.<br />
178
Gli asserti fondamentali sarebbero così imposti dalla autorità di ἐγώ («io») e del<br />
soggetto di φράζω («dichiaro»), quindi dalla Dea.<br />
Il primo momento coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca<br />
per pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono incompatibili):<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l’una che "è" e che "non è [possibile] non essere"» (B2.3)<br />
[…]<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere"» (B2.5).<br />
Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della via «che non "è" e che è<br />
necessario "non essere"». Appunto:<br />
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν<br />
«Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni» (B2.6).<br />
Le iniziali attestazioni che (i) essere e non-essere sono incompatibili (contraddittori) e<br />
che (ii) il non-essere non è effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, avrebbero<br />
matrice sovrumana, come sottolineato dall'iniziativa divina e dall'invito all’ascolto 9 .<br />
Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare indiscutibile l’intenzione di<br />
Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale,<br />
ovvero, ammettendo un uso didascalico del mito, di rivendicare la verità del filosofo<br />
come verità assoluta (e non mera opinione umana) 10 . Egli introduce, per bocca della<br />
θεά, gli elementi (anche formali, come vedremo) della successiva discussione, così<br />
palesando sia il proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi.<br />
Si è affermato 11 che con Parmenide l’espressione filosofica matura (non senza esitazioni<br />
da un punto di vista narrativo) la coscienza del proprio oggetto e dei propri mezzi: non è<br />
più sufficiente proporre una verità; è necessario assicurarla con la costrizione del logos.<br />
L'impressione complessiva è comunque che, all'interno di una cultura arcaica in cui, in<br />
un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina 12 ,<br />
Parmenide intenzionalmente optasse per fondare le premesse ultime dei propri<br />
argomenti sulla parola divina.<br />
Uniche vie di ricerca per pensare<br />
All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1),<br />
invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota, meditare e trasmettere»<br />
– quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto<br />
dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione<br />
concreta sul contenuto della rivelazione:<br />
9 Ivi, p. 86.<br />
10 Conche, op. cit., pp. 79-80.<br />
11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della<br />
propria posizione, a elaborare consapevolmente il proprio ragionamento con metodo, è di Cordero (By<br />
Being, It Is, cit., p. 38).<br />
12 Su questo aspetto della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere", in<br />
Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005,<br />
pp. 49-62.<br />
179
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι<br />
che abbiamo reso come:<br />
«quali sono le uniche vie di ricerca per pensare».<br />
Il verso presenta alcune difficoltà di traduzione, non indifferenti per l'interpretazione<br />
relativa e complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come<br />
rendere εἰσι? Come νοῆσαι?<br />
La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna, dopo averlo già fatto in B1.2, B1.5 e<br />
soprattutto B1.26-7 (ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν: «Non<br />
Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa via»), sul tema della via,<br />
impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo<br />
omerico del viaggio 13 . Il termine parmenideo δίζησις è infatti di derivazione epica,<br />
essendo δίζημαι utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero<br />
nel senso lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto<br />
ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός<br />
alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano<br />
all’oggetto desiderato.<br />
È significativo che il contemporaneo Eraclito usi (DK 22B22) δίζημαι nel senso di<br />
ricercare in profondità (ricerca dell’oro) 14 , marcando una direzione di indagine verso<br />
quanto nascosto e inaccessibile ai mortali: la ricerca della φύσις delle cose, che<br />
caratterizza l’atteggiamento del nuovo sapiente, in contrapposizione alla πολυμαθία di<br />
poeti e tradizionali sapienti. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a una ulteriore,<br />
originale, torsione in DK 22B101:<br />
ἐδιζησάμην ἐμεωυτό<br />
«ho indagato me stesso»,<br />
che Mourelatos 15 legge in relazione a DK 22B45:<br />
ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν∙ οὕτω βαθὺν<br />
λόγον ἔχει<br />
«i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto<br />
profondo è il suo logos».<br />
L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa<br />
che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei<br />
versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη:<br />
Πειθοῦς ἐστι κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ<br />
«di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna»).<br />
È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto:<br />
la via conduce alla «non-latenza» della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità<br />
richiede dunque una specifica ricerca: solo conducendosi "con metodo", seguendo una<br />
13 Mourelatos, op. cit., p. 67.<br />
14 «Quelli che cercano oro, rivoltano molta terra, ma trovano poco oro» (χρυσὸν γὰρ οἱ<br />
διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον).<br />
15 Mourelatos, op. cit., p. 68.<br />
180
«pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due<br />
frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide<br />
sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che<br />
esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità) 16 .<br />
La Dea proclama dunque solennemente:<br />
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι<br />
(letteralmente: «quali vie uniche di ricerca sono per pensare»).<br />
La costruzione greca ha autorizzato sia la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie<br />
(εἰσι νοῆσαι in questo caso da rendere come «sono possibili da pensare», «possono<br />
essere pensate», «sono pensabili»), sia quella che, come pare corretto nel contesto,<br />
facendo leva (a) sul valore finale-consecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι,<br />
e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς,<br />
esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»),<br />
introducendo due modi di pensare («pensare che...»).<br />
Discutendo recentemente questo nodo, Chiara Robbiano 17 ha suggerito di lasciare aperta<br />
la questione del focus di B2.2: entrambe le possibilità interpretative - che «le vie di<br />
ricerca» siano oggetto di νοεῖν (e quindi le sole a essere «concepibili»), ovvero che esso<br />
rappresenti il loro scopo (specificando quindi l’obiettivo della ricerca 18 ) – sarebbero da<br />
accettare, così da rendere la (irrisolta) ambiguità intenzionalmente suscitata da<br />
Parmenide (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito).<br />
Si tratta di una prospettiva interessante, che, come vedremo, potrebbe applicarsi ad altri<br />
passaggi del testo.<br />
Ma il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo<br />
l’uso arcaico, «apprendere, conoscere» 19 ? La traduzione in questo caso impone<br />
un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto<br />
all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle<br />
razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni,<br />
ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione 20 , come in effetti alcuni frammenti<br />
del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire.<br />
D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con<br />
«apprendere\conoscere», risulterebbe problematica la comprensione della via introdotta<br />
in B2.5:<br />
ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«che "non è" e che "è necessario non essere"».<br />
Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a osservare:<br />
16 Leszl, op. cit., p. 124.<br />
17 Op. cit., pp. 81-2.<br />
18 Come segnalato in nota alla traduzione, tale interpretazione sembrerebbe suffragata anche dall’eco in<br />
Empedocle DK31 B3.12:<br />
ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι<br />
«dove si apra un percorso per conoscere».<br />
19 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una<br />
discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss..<br />
20 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77.<br />
181
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις·<br />
«Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:<br />
non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo» (B2.6-8);<br />
sottolineatura ripresa e accentuata ancora in B8.17-8:<br />
ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός<br />
«impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
via genuina)».<br />
Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla <strong>natura</strong> e alla<br />
funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la<br />
nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle<br />
sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di giustificare<br />
l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un<br />
«pensare» generico, si può ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare»<br />
connotata come «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e,<br />
addirittura, come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla<br />
distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità.<br />
Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la prospettiva omerica<br />
(improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata con<br />
l'oggetto 21 , a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella<br />
funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a un oggetto che è, e<br />
impossibilità di afferrare ciò che non è.<br />
La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono<br />
gli elementi da considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si<br />
sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo<br />
νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer 22 ,<br />
«comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente<br />
anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico<br />
effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di ricerca<br />
(«ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι») la Dea sottolinea che (a) è «percorso di<br />
Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ).<br />
L'apertura di B6 preciserà:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι<br />
«è necessario dire e pensare questo: che "ciò che è è"»,<br />
fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione.<br />
D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che esse si<br />
propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o<br />
non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali:<br />
21 Germani, op. cit., p. 189.<br />
22 Op. cit., pp. 72-3.<br />
182
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l’una che "è" e che "non è [possibile] non essere"» (B2.3)<br />
[…]<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere"» (B2.5).<br />
Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire<br />
dall'affermazione «è» (ἐστίν), rimanendo saldamente sul terreno dell'essere (escludendo<br />
cioè la possibilità del non-essere). La seconda modalità, invece, prevede che la ricerca si<br />
svolga a partire da «non è» (οὐκ ἔστιν), e si conduca necessariamente su tale terreno:<br />
delineata in quanto alternativa alla prima, essa si rivela impercorribile, dal momento che<br />
il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi.<br />
Per pensare<br />
Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al<br />
verso 2, soffermarsi ancora sulle implicazioni dell’annuncio della Dea:<br />
εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...]<br />
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι<br />
«orsù, io dirò […]<br />
quali sono le uniche vie di ricerca per pensare».<br />
Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide condensi<br />
proletticamente il senso del messaggio divino, che investe dunque indiscutibilmente la<br />
dimensione logica del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due<br />
forme («vie»), le modalità di fondo del «ricercare razionale», discriminandole rispetto<br />
all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può<br />
riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo<br />
come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27):<br />
τήνδ΄ ὁδόν [...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν<br />
«questa via [...] è in effetti lontana dalla pista degli uomini».<br />
Il filo che lega l’esordio della comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di<br />
B2 è costituito dal tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via<br />
che, grazie all’intervento di eccezionali adiutori, ha condotto al suo cospetto - segnala<br />
come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); ora, nel<br />
nuovo contesto, ella ne rievoca il tema appunto nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, illustrandone<br />
in modo rigoroso il carattere condizionante rispetto a ogni valutazione sull’universo<br />
delle opinioni umane. In gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità, ovvero, più<br />
articolatamente, la realtà:<br />
(i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ, «di Verità ben rotonda il<br />
cuore fermo»);<br />
(ii) nella sua manifestazione all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα, «le cose accettate<br />
[nelle opinioni]»);<br />
(iii) nella sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι, «opinioni dei mortali»).<br />
La realtà da scoprire (Verità) rimane al centro anche di B2, come abbiamo in<br />
precedenza sottolineato a proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione<br />
dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una<br />
corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a<br />
183
conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον) che<br />
conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui attingere la<br />
Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso per conseguirla 23 . È<br />
questo decentramento della verità dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di<br />
Untersteiner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa.<br />
In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il riferimento al νοεῖν – del poeta e<br />
del lettore\ascoltatore – è essenziale per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si<br />
snoderà a partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini,<br />
insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà<br />
ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune<br />
denominatore razionale):<br />
(i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima<br />
sezione (segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina<br />
interlocutrice per istruire il κοῦρος;<br />
(ii) contribuendo dall’altro a tracciare il contorno ontologico dell’oggetto intorno a cui<br />
verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide come τὸ ἐόν.<br />
Le «vie» e i loro problemi: <strong>natura</strong> e articolazione della ricerca<br />
Le «uniche vie di ricerca per pensare», sono così proposte da Parmenide:<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l’una che "è" e che "non è [possibile] non essere"» (B2.3)<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere"» (B2.5).<br />
Viene in tal modo reiterato – ma senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema<br />
oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando aveva<br />
sottolineato al κοῦρος l’esigenza di «tutto» apprendere:<br />
ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής<br />
«sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,<br />
sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità» (B1.29-30).<br />
L'una - l’altra<br />
Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di<br />
significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι, «è necessario che tutto tu apprenda»; nel secondo<br />
l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι, «quali sono le uniche<br />
vie di ricerca per pensare»), appaiono evidentemente collegate, anche se non (come<br />
vorrebbe qualcuno 24 ) nel senso di una puntuale correlazione.<br />
Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano espressivo, nella scelta della<br />
costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare<br />
costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi<br />
dei versi 3 e 5, quindi:<br />
23 Ruggiu, op. cit., p. 211.<br />
24 In modo coerente per esempio Cordero.<br />
184
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a)<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a)<br />
καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b)<br />
καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b).<br />
Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς<br />
il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative, dunque sottintendendo «che dice»<br />
ovvero «che pensa»:<br />
«l’una [che pensa] che "è" 25 […]» (B2.3a)<br />
«l’altra [che pensa] che "non è" […]» (B2.5a),<br />
«e che "non è non essere"» (B2.3b)<br />
«e che "è necessario non essere"» (B2.5b).<br />
L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella<br />
avverbiale discussa da Mourelatos 26 :<br />
«l’una come è e come non sia non essere»<br />
«l’altra come non è e come sia necessario non essere»,<br />
quanto quella proposta da Ferrari 27 , almeno per quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς<br />
con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di ricerca.<br />
Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è possibile e per certi<br />
versi <strong>natura</strong>le nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione<br />
modale; avremmo così:<br />
«e che "non è possibile non essere" [ovvero: che non sia]» (B2.3b)<br />
«e che "è necessario non essere" [ovvero: che non sia]» (B2.5b).<br />
In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le<br />
«vie di ricerca» facendo leva sulle opposioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non<br />
essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός<br />
εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28 :<br />
(i) «[pensare] che A e che B» per la prima via;<br />
(ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda.<br />
In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών<br />
ἐστι μὴ εἶναι. Lo schema che così si delinea è parzialmente carente, in quanto, da un<br />
punto di vista logico, «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è<br />
possibile non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non<br />
essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd,<br />
Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a<br />
sarebbero effettivamente contraddittori 29 , mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla<br />
opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari, e che dunque la<br />
25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato.<br />
26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore<br />
interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI).<br />
27 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss..<br />
28 Proposta da Cordero, By Being, It Is, cit., p. 43.<br />
29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto.<br />
185
formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara<br />
(Aubenque, Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alternative<br />
esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili) 30 .<br />
Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie di indagine, due questioni<br />
delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa<br />
si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore<br />
(esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»?<br />
È - non è<br />
Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per<br />
ἔστιν‐ οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia<br />
in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di<br />
completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza 31 , a quella della forma<br />
impersonale 32 , dal ricorso a pronomi 33 (it, es, on), sostantivi (l’essere 34 , la via 35 , la<br />
Verità 36 , il mondo reale 37 , il corpo 38 ), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can<br />
be thought and talked about» 39 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di<br />
B6.1), «whatever we inquire into» 40 .<br />
Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per<br />
esempio da Cornford 41 e Loenen 42 , i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι<br />
(qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano<br />
lo stesso identico testo 43 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza<br />
essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi<br />
enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in<br />
questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson 44 , la quale, in considerazione<br />
della originaria destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto<br />
definito per ἐστίν come una modalità intenzionale per esaltare, nella ripetizione, proprio<br />
la formula: ἐστίν. La sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di<br />
Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una<br />
novità.<br />
Da un punto di vista concettuale, se guardiamo all’insieme dei frammenti della prima<br />
sezione, un soggetto potrebbe facilmente essere indicato: i versi B6.1-2a sembrerebbero<br />
in questo senso esemplari:<br />
30 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71.<br />
31 Tipicamente Calogero.<br />
32 Fränkel.<br />
33 Si tratta della soluzione più frequente.<br />
34 Tipicamente Cornford.<br />
35 Untesteiner.<br />
36 Verdenius.<br />
37 Casertano.<br />
38 Bur<strong>net</strong>.<br />
39 Russell, Owen.<br />
40 Barnes.<br />
41 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939.<br />
42 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van<br />
Gorcum, Assen 1959.<br />
43 Come osserva Cordero (By Being, It is, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi versi (in Proclo e<br />
Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio.<br />
44 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss..<br />
186
χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«è necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è [esiste]": poiché è possibile<br />
essere,<br />
il nulla, invece, non è [esiste]».<br />
Né v’è dubbio che dell’intero B8 il termine di riferimento sia τὸ ἐόν e che la logica della<br />
costruzione delle «vie» comporti che, nel momento stesso in cui (B2.7-8) la Dea<br />
stabilisce che:<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo»,<br />
conoscibilità ed esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a τὸ ἐόν 45 .<br />
Se è vero, come segnala Coxon 46 , che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la<br />
cosa in questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco<br />
posteriore, è possibile, tuttavia, che in B2 Parmenide intenzionalmente non esprima<br />
immediatamente il soggetto, insistendo piuttosto deliberatamente sull’intreccio<br />
oppositivo ἐστίν‐οὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per coinvolgere<br />
progressivamente l’impegno intellettuale del κοῦρος (ovvero del lettore\ascoltatore, non<br />
più mero recettore di informazioni) lungo le due vie delineate, nella enucleazione della<br />
verità, di «ciò che è». Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a<br />
scopo pedagogico; la stessa, forse, implicata – sempre in B2 - nel valore di εἶναι.<br />
Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del<br />
poema è plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale, progressiva<br />
manifestazione del soggetto sottinteso 47 in B2.3: dalla pura affermazione «ἐστίν» si<br />
passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso<br />
verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative<br />
proprietà 48 .<br />
La scelta espressiva di Parmenide in B2 – che può correttamente rendersi in traduzione<br />
moderna con il ricorso (dove necessario) al pronome neutro, come mero soggetto<br />
grammaticale, semplice segno che preannuncia il vero (reale) soggetto 49 - ha l’effetto di<br />
proiettare in primo piano nei versi (per il lettore), ovvero far risaltare nella recitazione<br />
(per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἐστίν (οὐκ ἔστιν) 50 , una presenza insistente nel<br />
poema 51 . Valorizzando l’approccio pedagogico dell’opera, si può convenire con<br />
Thanassas 52 che l'«impertinenza linguistica» di Parmenide, l’enfasi sull’«è», sorga da<br />
45 Questo rilievo in R. Mondolfo, Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5-6), Rivista critica di storia<br />
della filosofia, 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p. 177.<br />
46 Op. cit., p. 175.<br />
47 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu.<br />
48 O’Brien, op. cit., p. 164.<br />
49 Conche, op. cit., p. 79.<br />
50 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι.<br />
51 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94.<br />
52 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University<br />
Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35.<br />
187
una certa awareness of language, e sia in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni<br />
dell’uso pre-filosofico del verbo «essere» 53 .<br />
Che cosa significa tutto ciò? Che Parmenide potrebbe aver optato per una forma verbale<br />
consapevolmente esposta all’ambiguità per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato<br />
verbale (in cui il perno è rappresentato dal soggetto): l’uso isolato della terza<br />
persona singolare dell’indicativo richiama l’attenzione su un'evidenza 54 , oscurata nel<br />
linguaggio ordinario. La formula ἐστίν riassume la condizione (espressa o meno) di ogni<br />
quotidiana affermazione, e nello stesso tempo – senza alcuna ipostatizzazione (come<br />
invece nel participio ἐόν accompagnato dall’articolo determinativo τό o nell’infinito<br />
εἶναι) – l’accadere manifesto in tali affermazioni, che Cordero efficacemente sintetizza<br />
come «la presenza, l’esistenza del fatto d’essere» 55 . Per questo l’aggiunta di un pronome<br />
indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità dell’indicazione<br />
della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo dell’originario stupore per,<br />
della primitiva attenzione al «fatto d’essere». In questa prospettiva, è forse ancora utile<br />
l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni 56 , circa la scelta dell'«è» «in quanto<br />
puro elemento logico e verbale dell'affermazione» 57 .<br />
Va tuttavia osservato come Parmenide non si limiti all'affermazione «ὅπως ἔστιν», ma la<br />
faccia seguire dall'espressione «τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente ne trasforma<br />
la forza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di<br />
un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι).<br />
Si tratta - come abbiamo sopra osservato - di un percorso di riflessione linguistica (come<br />
aveva correttamente segnalato Calogero, e altri poi hanno in vario modo ribadito):<br />
riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas 58 , Cerri 59 ), alla sua funzione<br />
«speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (Mourelatos 60 );<br />
riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα 61 .<br />
Ma non deve sfuggire che il contesto è quello della messa a fuoco di «vie di ricerca per<br />
pensare», di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide<br />
intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata<br />
nella sua assolutezza («non è possibile non essere»).<br />
Quando scrive:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·<br />
«è necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è [esiste]"» (B6.1a),<br />
ἐόν emerge come espressione concettuale della meditazione su ἐστίν, denotando, a un<br />
tempo, la totalità degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò che è», ἐόν/ὄν), ma<br />
richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti 62 .<br />
53 Ibidem.<br />
54 Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, op. cit., pp. 61 ss..<br />
55 Id., p. 62.<br />
56 G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", in «La Parola del Passato» cit., pp. 207-221.<br />
57 G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 1977 2 , pp. 20-2.<br />
58 Op. cit., p.32.<br />
59 Op. cit., p. 60.<br />
60 La copula funzionerebbe da “convogliatore” (conveyer) verso la realtà della cosa. Mourelatos, op. cit.,<br />
p. 59.<br />
61 Donde l’interrogativo: perché chiamiamo qualcosa che è un «essere»? Cordero, op. cit., p. 60.<br />
62 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso<br />
direttamente comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν.<br />
188
[Pensare] «che è», [pensare] «che non è»<br />
La seconda questione suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per<br />
pensare» è relativa al valore da attribuire al verbo essere negli enunciati:<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l’una che "è" e che "non è [possibile] non essere"» (B2.3)<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere"» (B2.5).<br />
L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura sia all’ascolto:<br />
«è»\«non-è», «non è [possibile] non-essere»-«è necessario non-essere». A partire da<br />
questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le<br />
espressioni verbali.<br />
Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di<br />
B2.3 con il primo emistichio di B6.1:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·<br />
«è necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è [esiste]"».<br />
All'interno del verso, l’infinito di «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un<br />
esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, <strong>natura</strong>lmente, esistenziale<br />
(predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 63 , senza forzature, a B8, possiamo<br />
ulteriormente rilevare due passi chiaramente significativi:<br />
[…] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν<br />
«che senza nascita è ciò che è e senza morte» (B8.3),<br />
οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι<br />
«per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia» (B8.32).<br />
In questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e<br />
nel participio sostantivato 64 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono impiegati con<br />
valore copulativo 65 . Più complessa la situazione di B8.5-6:<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,<br />
ἕν, συνεχές·<br />
«né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,<br />
uno, continuo» (B8.5-6),<br />
dove soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἐστιν ha un duplice ruolo: a un<br />
tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa 66 .<br />
Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea (B8-15-<br />
18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è», il senso<br />
dell’ἔστιν in B2 si approfondisce:<br />
63 Seguendo l’esempio di O’Brien, op. cit., pp. 170 ss..<br />
64 Che certamente comporta valore esistenziale.<br />
65 In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi<br />
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato, l’essere è anche<br />
indistruttibile».<br />
66 O’Brien, op. cit., p. 177.<br />
189
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.<br />
«[…] Il giudizio in proposito dipende da ciò:<br />
"è" o "non è". Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale» (B8.15-18).<br />
Una via (ὁδός) - che pensa che «non-è [ed è necessario non essere]» - è abbandonata,<br />
«impensabile [e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla<br />
di «sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero<br />
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso» (κέκριται)<br />
«sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).<br />
Quando Parmenide introduce la prima via di ricerca come quella che pensa «che è e che<br />
non è [possibile] non essere» e la seconda come quella che pensa «che non è ed è<br />
necessario non essere» è consapevole dell’ambiguità delle formule (così come<br />
dell’ambiguità dei relativi soggetti). Non pare plausibile la confusione; si può pensare<br />
piuttosto a una deliberata strategia, che passa da espressioni impersonali alla esplicita<br />
determinazione del soggetto (prima come participio poi come participio sostantivato),<br />
dalla mera enunciazione e sospensione dell’ἔστιν alla sua più precisa specificazione<br />
esistenziale, copulativa e veridica («è\esiste» e «è vero\reale»), secondo i contesti.<br />
In B2, nella economia della rivelazione e della lezione divina, è invece soprattutto<br />
essenziale focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,<br />
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione delle<br />
«vie»:<br />
«l'una che "è" e che "non è [possibile] non essere"»<br />
«l'altra che "non è" e che "è necessario non essere"».<br />
In B8 riscontreremo gli effetti di una sistematica applicazione alla prima «via», con<br />
altrettanto sistematica esclusione della seconda.<br />
La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo nega (οὐκ ἔστιν).<br />
La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la negazione del non-essere<br />
(οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la<br />
negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima<br />
via, attraverso l’esplicito rilievo di ἔστιν (dal valore indistinto) e dell’impossibilità di μὴ<br />
εἶναι, viene implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν,<br />
εἶναι); con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,<br />
delineato l’oggetto radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7<br />
come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«è necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è [esiste]": poiché è possibile<br />
essere,<br />
il nulla, invece, non è [esiste]».<br />
190
con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina<br />
critica.<br />
Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)<br />
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali, possono<br />
generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due soggetti diversi e due<br />
espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa leva in B6.<br />
La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν) «è, esiste» fonda la<br />
propria legittimità sulla duplice premessa:<br />
(i) che «essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι);<br />
(ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ ἔστιν).<br />
Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al fraintendimento della<br />
portata di queste tautologie, nella contraddizione generata dall’affermazione incrociata<br />
(ancorché solo implicita) di essere e non-essere.<br />
Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito della deliberata<br />
opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν ‐ οὐκ ἔστιν), nel contesto immediatamente<br />
impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore (esistenziale, copultativo,<br />
veritativo) ambiguo o ancora sospeso – appare insostenibile il tentativo di attribuire τὸ<br />
ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e B2.5). Dalle due formule saranno<br />
ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν, appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura<br />
espressione verbale e funzione logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»),<br />
segnavia di una pista che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso<br />
possiamo parlare di due «vie»:<br />
(i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è (necessariamente)»: di essa sarà<br />
detto (B8.18b):<br />
ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι<br />
«che esista e sia reale»;<br />
(ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità<br />
effettiva di «ciò che non è (necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente<br />
escluso dall'orizzonte dell'umano indagare.<br />
Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che,<br />
invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto<br />
quanto sottolineato da Mansfeld 67 . L’identificazione della seconda via con quella del<br />
mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in<br />
B8.17-18:<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.<br />
«[Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
via genuina)»;<br />
essa risulta non solo inconoscibile (in essa non si può concepire e quindi incontrare un<br />
contenuto reale: essa è allora ἀνόητον), ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza<br />
nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi»<br />
a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41):<br />
67 Op. cit., p. 55.<br />
191
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,<br />
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,<br />
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν<br />
«Per esso tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:<br />
nascere e morire, essere e non essere,<br />
cambiare luogo e mutare luminoso colore».<br />
A rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto<br />
appunto espresso nella formulazione della seconda via:<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere"» (B2.5),<br />
e designato come τό μὴ ἐὸν.<br />
Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le<br />
uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé<br />
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali:<br />
(i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere» (come osserva Cordero, «la<br />
assolutizzazione del concetto di essere è ottenuta attraverso la negazione della<br />
contraddittoria nozione di non-essere» 68 );<br />
(ii) valutare, in relazione al coerente rispetto della alternativa concettuale prodottasi, la<br />
consistenza dei punti di vista “umani”.<br />
D’altra parte, il motivo della intransitabilità della seconda via è non il suo carattere<br />
contraddittorio - come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) sulla quale<br />
i «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι),<br />
vanno errando -, ma il fatto che (B2.6-8):<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo».<br />
Prospettata (con la negazione della affermativa: οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la<br />
via che pensa «che non è [e che è necessario non essere]» è «percorso» (ἀταρπός) vuoto<br />
di contenuti, un vuoto indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via effettivamente accessibile e<br />
percorribile «per pensare» (cioè per afferrare la realtà), nella pienezza dei suoi<br />
contenuti, è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1)<br />
ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di<br />
B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν.<br />
Si è detto 69 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea<br />
propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che<br />
la linea di pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia<br />
intravedere.<br />
Sotto l'egida della autorità divina, egli (vv. 5-8), dalla asserzione «che non è» (ὡς οὐκ<br />
ἔστιν) coniugata con la relativa formula modale («che è necessario non essere», ὡς<br />
68 Op. cit., p. 64.<br />
69 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221).<br />
192
χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, rivelandone la <strong>natura</strong> ontologica: ne<br />
stabilisce subito, infatti, l'indisponibilità rispetto a quelle operazioni (conoscere,<br />
designare) con cui ci si rapporta a ciò che è reale (vero).<br />
Analogamente, nei versi precedenti, attraverso l'asseverazione della tesi «che è» (ὅπως<br />
ἔστιν), coniugata con la contestuale negazione modale dell’antitesi («che non è possibile<br />
non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), egli pone le premesse per l'estrazione della nozione<br />
positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il<br />
soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa<br />
prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος).<br />
Il percorso di Persuasione<br />
La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi.<br />
Relativamente alla via «che "è" e che "non è possibile non essere"», la Dea osserva che:<br />
Πειθοῦς ἐστι κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ -<br />
di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),<br />
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il viaggio<br />
per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare, allora, come<br />
un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del non-essere) da seguire<br />
nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere<br />
intese come ammonimenti divini, affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali<br />
che nulla sanno»: il «percorso» (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea<br />
della μέθοδος che Platone introduce 70 , prospettando poi la filosofia come viaggio 71 .<br />
L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante perché sottolinea come la<br />
Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al<br />
coinvolgimento razionale del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva)<br />
scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma<br />
l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e dis-velamento (non-nascondimento),<br />
70 In Fedone 79e:<br />
Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ<br />
ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως<br />
ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή<br />
«Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ<br />
ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò<br />
che è sempre che a ciò che non lo è».<br />
71 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il seguente:<br />
Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς;<br />
«Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami dialettica?]<br />
Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la <strong>natura</strong> della dialettica:<br />
λέγε οὖν τίς ὁ τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη<br />
διέστηκεν, καὶ τίνες αὖ ὁδοί∙ αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι<br />
εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας<br />
«Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui<br />
è divisa, e quali le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,<br />
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio».<br />
193
dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo<br />
della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ) e il<br />
ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν.<br />
La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea,<br />
«si accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di<br />
apprendimento, conoscenza e discorso 72 : il percorso sarà genuino, vero, nella misura in<br />
cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza)<br />
lungo la via (che pensa o afferma) «che "è" e "che non è [possibile] non essere"» è<br />
ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato – dall'indicazione con cui la<br />
Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8):<br />
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:<br />
non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo».<br />
Si tratta di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio “io”<br />
(τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che "non è" e che "è necessario non<br />
essere"», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, un percorso secondario, non una via<br />
maestra) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o<br />
imparare esperendo (nella radice di παναπευθής c’è πυνθάνομαι), raccogliendo<br />
informazioni.<br />
Ciò-che-non-è<br />
È in questo contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).<br />
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del<br />
viaggio 73 , la precisazione è <strong>net</strong>ta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare<br />
dall'assunto «che "non è" e che "è necessario non essere"», non potrebbe propriamente<br />
incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che "non è" e che "è necessario<br />
non essere"» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può tracciare<br />
concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo:<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è - non è in effetti cosa fattibile» (B2.7b).<br />
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo<br />
l'assunto «che "è" e che "non è [possibile] non essere"», ci si muove verso «ciò-che-è»<br />
(verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» -<br />
ἀνυστόν – a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i<br />
criteri della via 74 . L’espressione τό μὴ ἐὸν allude allora:<br />
(i) al presunto (perché in vero assolutamente carente) contenuto della seconda via;<br />
(ii) al suo potenziale soggetto (quello che le si può coerentemente attribuire senza<br />
cadere nell'errore dei mortali);<br />
72 Mourelatos, op. cit., p. 66.<br />
73 Mourelatos, op. cit., p. 76.<br />
74 Id., p. 78.<br />
194
(iii) al valore esistenziale di fondo di ἐστίν/οὐκ ἔστιν, ribadito in B6.2a: μηδὲν δ΄ οὐκ<br />
ἔστιν, «il nulla non è [esiste]».<br />
Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile («cosa<br />
fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non è», solo la<br />
prima via, che pensa e afferma «che "è" e che "non è possibile non essere"», che muove<br />
dalla evidenza linguistica quotidiana dell’«è», è in grado di manifestare la verità, di<br />
estrarre dall’«è» implicazioni positive e ultimative circa la realtà (donde il successivo<br />
impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è<br />
invitato a riflettere sono dunque:<br />
(i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso esse<br />
sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per pensare» ne<br />
specifica la <strong>natura</strong>);<br />
(ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e<br />
alle formule modali - su cui ancora tra breve);<br />
(iii) l’impercorribilità dichiarata (dalla Dea) della seconda via: non è possibile<br />
conoscere o indicare «ciò che non è»;<br />
(iv) la loro (conseguente) <strong>natura</strong> ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare<br />
opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario nonessere<br />
75 .<br />
B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «non-essere», evidentemente<br />
dandone per scontato il significato al lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle<br />
vie, ciò induce ad anticipare le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso,<br />
l’argomentazione di Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e<br />
fondare la contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere») 76 , marcando<br />
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così da<br />
concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero 77 ,<br />
che l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso la<br />
negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poema<br />
(sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «poiché è<br />
[possibile] essere, il nulla invece non è») è così proposto contestualmente all’unico,<br />
fondamentale rilievo sul non-essere: «non è [possibile] non essere».<br />
Due formule: «non è possibile non essere», «è necessario non essere»<br />
Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla<br />
loro struttura formale:<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l’una che "è" e che "non è [possibile] non essere"» (B2.3)<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere"» (B2.5).<br />
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo semplice<br />
(enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato modale:<br />
«è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere» 78 .<br />
75 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss..<br />
76 Leszl, op. cit., p. 105.<br />
77 Op. cit., pp. 64-5.<br />
78 O’Brien, op. cit., p. 182.<br />
195
Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima<br />
coppia (a):<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν<br />
«l’una [che pensa] che "è"»,<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν<br />
«l’altra [che pensa] che "non è"»;<br />
la seconda coppia (b):<br />
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«e che "non è [possibile] non essere"»,<br />
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«e che "è necessario non essere"».<br />
La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra<br />
affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e ὡς da<br />
νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa che…») ovvero<br />
(come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…, l’altra che dice<br />
che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte quelli (essenziali) già<br />
ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore da attribuire al verbo «essere».<br />
Nel caso della seconda coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella<br />
resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»),<br />
ovvero, come può apparire <strong>natura</strong>le alla luce del corrispondente uso dell'espressione<br />
χρεών ἐστι («è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito<br />
(μὴ εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo caso,<br />
seguendo Aubenque 79 , interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come sinonima di<br />
ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di proporre l’alternativa<br />
in termini <strong>net</strong>ti: nell’enunciare la tesi della prima via (l’affermazione «è»), Parmenide<br />
marca, indirettamente, la sua necessità sottolineando l’impossibilità della antitesi (la<br />
negazione «non è»). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non può<br />
rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata<br />
strettamente alla posizione della necessità logica e della impossibilità logica 80 .<br />
A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν («non è»), vede accentuata la propria<br />
forza di negazione da un’espressione - χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità<br />
della antitesi. L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la loro<br />
assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità.<br />
Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος<br />
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν, stigmatizzando<br />
l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è in<br />
effetti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico ἀμηχανίη - la strutturale<br />
impotenza ontologica) 81 . Le vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma<br />
finiscono per enucleare due distinte nozioni ontologiche.<br />
79 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de Parménide", in Études sur<br />
Parménide, cit., vol. II, p. 109.<br />
80 Ruggiu, op. cit., p. 218.<br />
81 Id., p. 220.<br />
196
Conclusioni: le vie e il loro soggetto<br />
È delineando le due vie come «le sole per pensare», e formulandole come incompatibili<br />
che la divinità impone al giovane discepolo l’esercizio razionale e la progressiva<br />
focalizzazione ontologica: richiamando questi elementi in B8, Parmenide potrà<br />
concludere:<br />
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.<br />
«Il giudizio in proposito risiede in ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale» (B8.15b-18).<br />
L’argomento è così articolato: (i) o «è» o «non è»; (ii) non «non è»; quindi (iii) «è» 82 . Il<br />
suo corretto sviluppo richiede che ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν abbiano lo stesso soggetto: proprio<br />
in B2, secondo Coxon 83 , fissando la disgiunzione come principio fondamentale della<br />
comprensione e asserendo che non ci sono altre vie di ricerca, Parmenide adombrerebbe<br />
per la prima volta l’assioma che lo stesso soggetto non può allo stesso tempo essere s e<br />
non essere s, cioè le leggi di contraddizione e del terzo escluso.<br />
Eppure l'impressione è che, rispetto a due formule intenzionalmente impersonali (o<br />
senza soggetto esplicitamente indicato), il reale interesse di Parmenide fosse piuttosto<br />
quello di mettere in valore le implicazioni dei due asserti (ἔστιν ‐ οὐκ ἔστιν), che si<br />
impongono con la loro incompatibilità modale 84 : evidenziare la forma della espressione<br />
delle vie, in cui si affermerebbe il modo logico della necessità 85 , soprattutto insistendo<br />
sul nesso tra ὁδοὶ μοῦναι e νοῆσαι. Il contributo di Parmenide in B2 consisterebbe allora,<br />
partendo dalle due asserzioni fondamentali, impostare la determinazione del soggetto<br />
appropriato: in questo senso la relazione tra la formulazione delle vie e l'attacco di B6,<br />
in cui esse appaiono esplicitate tautologicamente:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«È necessario dire questo e pensare questo: che ciò che è è [esiste]: poiché è [possibile]<br />
essere,<br />
il nulla, invece, non è [esiste]».<br />
82 Gallop, op. cit., p. 7.<br />
83 Op. cit., p. 178.<br />
84 O’Brien, op. cit., p. 230.<br />
85 Heitsch, op. cit., p. 116.<br />
197
B3<br />
Il frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il<br />
valore di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide 1 : esito<br />
paradossale nella elaborazione della tradizione, dal momento che, oggettivamente,<br />
esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno del poema, e dunque anche<br />
per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta<br />
considerati con sospetto contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente 2 e Plotino 3 ,<br />
che citano il verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi,<br />
quella che appare la traduzione più <strong>natura</strong>le è stata spesso rifiutata, a favore di altre<br />
meno immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è<br />
intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram 4 .<br />
La collocazione<br />
Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due<br />
direzioni, che appaiono legittime:<br />
(i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ)<br />
dell'indicazione secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto 6 ;<br />
1 Tarán, op. cit., p. 41.<br />
2 Il contesto di Clemente riporta:<br />
Ἀριστοφάνης ἔφη∙ δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν, καὶ πρὸ τούτου ὁ<br />
Ἐλεάτης Παρμενίδης∙ τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί τε καὶ εἶναι<br />
«Aristofane ha detto: "il pensare ha lo stesso potere dell'agire", e prima di lui Parmenide:<br />
....».<br />
3 Il contesto di Plotino (Enneadi, V, I, 8) è il seguente:<br />
οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν<br />
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο «τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν<br />
ἐστί τε καὶ εἶναι» λέγων. Καὶ ἀκίνητον δὲ λέγει τοῦτο—καίτοι<br />
προστιθεὶς τὸ νοεῖν—σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ<br />
ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ<br />
ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ<br />
«Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa, quando<br />
riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili,<br />
affermando: "[B3]". E dice anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il<br />
pensare – gli toglie ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato,<br />
definendolo simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non<br />
gli è esterno ma interno».<br />
4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte la citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) è:<br />
ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης<br />
5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in<br />
passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien.<br />
6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι<br />
ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi<br />
esiste».<br />
198
(ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero 7 , con<br />
argomenti convincenti.<br />
B3 e B2<br />
Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica 8 con l’ultimo<br />
verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella<br />
prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide<br />
utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la<br />
seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe<br />
che esplicitare il nesso identitario tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero<br />
inscidibilmente 9 .<br />
Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della tesi<br />
di Parmenide anche in B6.1 e B8.34-37, sebbene le traduzioni possano diversamente<br />
modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece, il fatto che<br />
l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta<br />
da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere,<br />
concepire, pensare 10 ? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a<br />
sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato<br />
come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare<br />
qualcosa di non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento<br />
immediato 11 . Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava<br />
nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato, indipendentemente dall'attività stessa<br />
del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di<br />
contatto con esso 12 .<br />
È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό γε μὴ ἐὸν non possa essere<br />
conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è in effetti cosa fattibile»,<br />
quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo<br />
corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in<br />
continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore<br />
esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della tesi di fondo.<br />
Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il generico significato di<br />
pensare, ma, come suggerito da vari interpreti, quello specifico di conoscere (ovvero<br />
«capire» 13 , «Erkennen» 14 , «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, «conceiving» 16 ).<br />
L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo<br />
γιγνώσκω (normalmente tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo<br />
il riconoscimento, la capacità di pe<strong>net</strong>razione intellettuale 17 .<br />
B3, B6.1 e B8.34-7<br />
7 E a suo tempo propose Giorgio Colli.<br />
8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8).<br />
9 Heitsch, op. cit., p. 144.<br />
10 Conche, op. cit., p. 87.<br />
11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8.<br />
12 Leszl, op. cit., p. 67.<br />
13 Cerri.<br />
14 Heitsch.<br />
15 Sellmer.<br />
16 Coxon.<br />
17 Leszl, op. cit., p. 68.<br />
199
Anche Cordero ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il<br />
pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a<br />
marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua negazione<br />
impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a meno di questo<br />
oggetto 18 . Ma per lo studioso è di particolare momento la connessione con B6.1, inteso a<br />
dimostrare la necessità di quella relazione:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a)<br />
«è necessario dire e pensare che ciò che è è [esiste]» 19 ;<br />
e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola causa 20 : il<br />
fatto d'essere:<br />
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.<br />
oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,<br />
εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)<br />
«pensare (thinking) e ciò a causa del quale (houneken) c’è il pensiero sono la stessa cosa<br />
dal momento che senza l'essere, grazie a [invece di in] 21 cui è espresso,<br />
non troverai il pensare» 22 .<br />
Cordero osserva come nei due versi successivi si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […]<br />
non troverai il pensare», ciò comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto<br />
introdotto come οὕνεκεν ἔστι νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ<br />
ἐόν, νοεῖν risulta privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo<br />
«l'essere» (B8.36-7) 23 :<br />
οὐδ΄ ἦν γὰρ ἔστιν ἢ ἔσται<br />
ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος<br />
«Nulla, in effetti, esiste o esisterà<br />
d’altro oltre all’essere».<br />
È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi<br />
è plausibile che τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ<br />
εἶναι (B3). In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione<br />
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ τοῦ<br />
ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo quando esprime<br />
qualcosa su ciò che è 24 .<br />
Da B2 a B3<br />
Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2,<br />
B6 e B8, il frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della<br />
concreta possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che<br />
"non è"»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente («che "è"»),<br />
18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83.<br />
19 Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero.<br />
20 Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso.<br />
21 Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo.<br />
22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero.<br />
23 Id., p. 85.<br />
24 Id., pp. 88-9.<br />
200
e la esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione<br />
non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, come<br />
sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno della tesi di B2.<br />
Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero (νοεῖν, con il suo specifico valore<br />
conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa.<br />
Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo citano<br />
B3 senza collegarlo in alcun modo a B2 25 . In altre parole, le tre fonti del frammento vi<br />
leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente<br />
dalla discussione sulle «vie di ricerca» 26 . Plotino, in particolare, mostra di intendere B3<br />
chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere<br />
e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere<br />
nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8.<br />
Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo<br />
Simplicio che riferisce la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno intravedere,<br />
tuttavia, il nesso tra B2 e B3 (pur impiegando un lessico che richiama B8.37):<br />
τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν∙ τὸ οὐκ ὂν οὐδέν∙ ἓν ἄρα τὸ ὄν<br />
«ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno» (Teofrasto,<br />
Opinioni dei fisici, in Simplicio, Fisica, 115.11- DKA28)<br />
τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν∙ ἓν ἄρα τὸ ὄν<br />
«ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno»<br />
(Eudemo- DKA28).<br />
Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le «premesse»<br />
(προτάσεις) del discorso di Parmenide:<br />
εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς<br />
προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι<br />
τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν<br />
«Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella che<br />
dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella che dice che<br />
l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi versi [B2]».<br />
Significativamente Diels annota che B3 si con<strong>net</strong>te a questo: in effetti, l’espressione<br />
peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa<br />
del sillogismo 27 , comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno<br />
secondo il concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld 28 , l’unità<br />
concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di<br />
B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce formalmente nella<br />
struttura del sillogismo “ontologico”:<br />
Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […]<br />
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν,<br />
καὶ ἄλλο οὐθέν<br />
«Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo la forma (il concetto) […]<br />
25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73.<br />
26 Coxon, op. cit., p. 179.<br />
27 Mansfeld, op. cit., pp. 78-9.<br />
28 Id., p. 73.<br />
201
Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia affatto il non essere, necessariamente deve<br />
credere che l’essere sia uno e null’altro» (Aristotele, Metafisica, A.5, 986 b18, 986 b27 –<br />
DK A24).<br />
La congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3<br />
come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla<br />
tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della conclusione<br />
dell’argomento di B2, per noi solo implicita 29 :<br />
<br />
«solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire».<br />
Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto<br />
qualcosa che manca nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del<br />
sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via –<br />
che "è" e che "non è possibile non essere" – è per pensare»). L’introduzione del<br />
soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a<br />
rilevare l’impossibilità («non è in effetti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda<br />
via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare immediatamente –<br />
come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e pensiero sarebbero stati<br />
esplicitamente correlati. La Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di<br />
vista è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più<br />
articolata riflessione).<br />
Essere e pensare<br />
Nella nostra traduzione abbiamo scelto di mantenere la struttura sintattica più <strong>natura</strong>le<br />
del verso greco, facendo cioè logicamente di νοεῖν e εἶναι i predicati e di τὸ αὐτό il<br />
soggetto, ma cercando, allo stesso tempo, di preservare l’ambiguità del testo originale:<br />
la Dea di Parmenide didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri<br />
frammenti) risultato dell’argomento delineato in B2:<br />
(i) da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι e la sua <strong>natura</strong> intellettuale - così<br />
preparando la nota discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine nata dalle<br />
molte esperienze» (B7.3);<br />
(ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul contenuto della prima via<br />
(altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν).<br />
Il pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici; una attività in<br />
cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che – pur considerando la<br />
possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità c’è una sola via da percorrere.<br />
Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3 sottolinea lo stretto rapporto tra il<br />
percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la<br />
via è in qualche modo dettata dalla struttura della realtà (cui si allude forse con l'infinito<br />
εἶναι). La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere<br />
(ovvero la realtà) come contenuto 30 .<br />
Quale identità?<br />
29 Id., pp. 82-4.<br />
30 Leszl, op. cit., p. 64.<br />
202
Nel suo commento Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza<br />
apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che<br />
viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo sarebbe dunque<br />
solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse sembrano diverse, essendo in<br />
realtà la stessa cosa); quella identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo.<br />
Ruggiu 32 sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione<br />
immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro<br />
l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche<br />
distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine,<br />
rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso matematico: il<br />
testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua connessione e reciproca<br />
referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere senza pensare 33 .<br />
Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la<br />
relazione cui allude la sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di<br />
percorrere un corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è<br />
ed è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né indicare<br />
(φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo con la necessaria<br />
conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della via alternativa (conoscere e<br />
indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae quella che nella sua ottica è un’evidenza<br />
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti, generali, con<br />
due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente un'operazione<br />
intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto di riconoscimento (che<br />
riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι,<br />
impiegato per denotare quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un<br />
pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere.<br />
Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla<br />
connessione tra pensare e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il<br />
pensiero deve avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso,<br />
manifestato nel pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa<br />
osservazione è capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del<br />
pensiero» (Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero 34 , deve<br />
essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista della<br />
Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea comunica al<br />
filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e al pubblico di<br />
ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto 35 .<br />
Ancora su pensare e essere<br />
Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua collocazione per<br />
una corretta attribuzione di significato; in particolare, proponendolo come sentenza con<br />
cui la Dea, ellitticamente, svela un principio fondamentale della sua rivelazione, della<br />
esposizione della Verità. B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι.<br />
Abbiamo già colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di<br />
B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e<br />
31 Op. cit., p.193.<br />
32 Op. cit., pp. 233 ss..<br />
33 Thanassas, op. cit., p. 39.<br />
34 Conche, op. cit., p. 90.<br />
35 Ibid.<br />
203
φράζειν, intendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo<br />
individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per<br />
ogni attività di pensiero: quanto possiamo indicare come essere ovvero il fatto di<br />
esistere.<br />
Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura<br />
della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν<br />
(esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non solo<br />
la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà il proprio soggetto<br />
in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella<br />
formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere,<br />
addirittura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è<br />
possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»?<br />
Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei<br />
frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo<br />
genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non<br />
decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico<br />
(comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36 ,<br />
invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale (implicitamente da<br />
contrapporre alla immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa delle vie<br />
in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi<br />
riconducibile a un caso di intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel<br />
riconoscimento (intuitivo) della validità del principio del terzo escluso.<br />
In attesa di trovar sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà<br />
indicata come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano<br />
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che:<br />
(i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di ricerca», come loro<br />
finalizzazione («le uniche per pensare») - evidentemente designando un atto di<br />
comprensione che dà senso all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo<br />
greco, come loro condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi<br />
accentuandone il significato logico;<br />
(ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi – riceve una<br />
connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non sono fatte per essere<br />
esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella<br />
percezione;<br />
(iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto<br />
probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro<br />
comune denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere<br />
(condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό γε μὴ ἐὸν. In questo senso è<br />
giusto designarne la facoltà come «pe<strong>net</strong>razione intellettuale» 37 .<br />
D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono<br />
determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e<br />
che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come τό<br />
γε μὴ ἐὸν, «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a<br />
εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la profondità<br />
36 Op. cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come «quali sono le<br />
vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo a noēsai valore passivo.<br />
37 Id., p. 68.<br />
204
e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto, analogamente<br />
al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che<br />
accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o<br />
quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce<br />
come proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa realtà.<br />
205
B4<br />
Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il<br />
frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della<br />
sua collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o<br />
alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) sulla sua posizione e funzione<br />
all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme:<br />
(a) Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo frammento<br />
della prima sezione 1 , collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione,<br />
tuttavia, includeva anche B7.2-6);<br />
(b) Bicknell 2 e Hölscher 3 , al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera<br />
(censendolo dopo B19) 4 , quindi nella seconda sezione 5 .<br />
Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno<br />
registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la<br />
oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per<br />
esempio, esso collegherebbe i contenuti propri della Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema<br />
primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere 6 .<br />
Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del<br />
frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti – arrivati con<br />
Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre<br />
questioni:<br />
(i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento;<br />
(ii) il nesso tra ἀπεόντα ‐ παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e la ulteriore implicazione tra<br />
gnoseologia e ontologia;<br />
(iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4).<br />
Il noos e il suo operare<br />
Per decidere del significato del frammento è importante il contesto della citazione di<br />
Clemente:<br />
ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα<br />
λέγει∙ [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ<br />
τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ<br />
ἀλήθειάν τι λέγομεν∙ οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν,<br />
ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι.<br />
«Ma anche Parmenide nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo<br />
genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero<br />
vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto,<br />
1 Nel poema designata – ricordiamolo – come πιστὸς λόγος ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, «discorso<br />
affidabile e pensiero intorno alla Verità» (B8.50b-51a) e comunemente indicata nella tradizione come<br />
Verità.<br />
2 P.J. Bicknell, Parmenides' Refutation of Motion and an Implication, «Phronesis», 1 (1967), pp. 1-6.<br />
3 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969.<br />
4 In questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia,<br />
Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia,<br />
Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42).<br />
5 Ricordiamo che in B8.51b essa viene introdotta come δόξας βροτείας, «[impara] opinioni mortali», ed<br />
è tradizionalmente designata come Opinione.<br />
6 Op. cit., p. 245.<br />
206
diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero: nessuna di<br />
queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero».<br />
L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in B4 alluda<br />
enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare, alludere per enigmi)<br />
alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper rappresentare (rendere presente) il futuro da<br />
parte dell’intelligenza (νόος). In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la<br />
capacità di rendere presenti enti assenti e lontani 7 . La prospettiva appare certamente<br />
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratterizza<br />
rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι)<br />
contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad<br />
accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ)<br />
per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a<br />
venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente: si osserva, infatti:<br />
οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι<br />
«nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero».<br />
Cose assenti presenti<br />
Ora, se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo<br />
recupero da parte di Clemente:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti» (B4.1).<br />
La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come<br />
«cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo<br />
«presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente:<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
«non impedirai, infatti che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere» (B4.2).<br />
È chiaro come la possibilità di pensare presenti o prossime (rappresentare) cose assenti<br />
o lontane passi attraverso (γάρ, infatti) la consapevolezza di τὸ ἐόν e della sua<br />
omogeneità: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si<br />
impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo<br />
altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una<br />
realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga<br />
un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico<br />
«chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità,<br />
trasparenza 8 . Un verbo che può essere direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ),<br />
per assumere il valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]».<br />
I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto<br />
della citazione di Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le<br />
7 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il contributo di C. Viola, Aux<br />
origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide, in Études sur<br />
Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, pp. 69-<br />
101.<br />
8 Viola, op. cit., p. 80.<br />
207
opposizioni; senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni,<br />
sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in<br />
λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 9 . Possiamo inoltre marcare<br />
come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi<br />
(sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due<br />
distinte modalità di guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta<br />
considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che<br />
traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una soggetta a<br />
distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono accentuate come<br />
«opinioni dei mortali» e «Verità»).<br />
È nostra convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di<br />
Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni<br />
riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato empirico,<br />
raccogliendone pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del<br />
plurale ἀπεόντα‐παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come<br />
ἀπεόντα‐παρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza<br />
(nell’Essere) di tutti i suoi momenti 10 . Elementi che puntano in direzione della seconda<br />
sezione del poema.<br />
I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma<br />
coordinate operazioni:<br />
(i) superare i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa (spaziotemporalmente),<br />
rappresentando presenti «cose assenti»;<br />
(ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto<br />
che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν).<br />
La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce<br />
in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόνταπαρεόντα):<br />
la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla<br />
presenza dell’essere 11 . Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio<br />
consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito, direttamente 12 o<br />
indirettamente 13 , è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi<br />
in una entità che neghi la molteplicità del mondo 14 ): li abbraccia e li raccoglie<br />
interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro.<br />
Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che si spinge oltre<br />
l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la sua preliminare evidenza<br />
percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che si impone<br />
all’intelligenza 15 . Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il<br />
movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel<br />
9 Stemich, op. cit., p. 178.<br />
10 Ruggiu, op. cit., p. 241.<br />
11 Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336.<br />
12 Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto<br />
soggetto sottinteso del verbo.<br />
13 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda<br />
persona singolare futuro indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare<br />
la connessione di τὸ ἐόν.<br />
14 Thanassas, op. cit., p. 43.<br />
15 Op. cit., p. 68.<br />
208
mondo, legato allo spazio\tempo 16 . Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie<br />
di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non può<br />
sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel movimento,<br />
che porta con sé anche la potenzialità del suo errare 17 : la sua conoscenza è esposta alla<br />
distorsione.<br />
È possibile che l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a<br />
λεῦσσω, che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente<br />
passato e avvenire per comprendere il presente 18 . Una capacità associata alla maturità<br />
dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e che nel<br />
poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος.<br />
«…saldamente presenti»<br />
Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente)<br />
nel primo verso, e l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος<br />
come un pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti» (B4.1).<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
«non impedirai, infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere» (B4.2).<br />
Effetto dell’operare del νόος è la solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là<br />
delle loro coordinate spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune<br />
denominatore nell’Essere (τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da<br />
una parte, illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di<br />
introdurre separazione nell’ἐόν 19 . Alla luce di B3, esso aderisce completamente all’ἐόν:<br />
l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di stabilità, costanza, caratteristica<br />
dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di<br />
chi è sulla strada della verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di<br />
B1.29) di un modo di vedere, corrispondente a un modo di essere; a un νόος saldo e<br />
pieno di fiducia 20 .<br />
Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della affermazione di<br />
B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo in relazione B4 con<br />
B8.22-5:<br />
οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·<br />
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,<br />
οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.<br />
Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει<br />
«Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo;<br />
né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo,<br />
né [lì] qualcosa di meno, ma tutto pieno è di ciò che è.<br />
È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è».<br />
16 Couloubaritsis, op. cit., p. 340.<br />
17 Viola, op. cit., pp. 94-5.<br />
18 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7.<br />
19 Viola, op. cit., p. 100.<br />
20 Robbiano, op. cit., p. 130.<br />
209
Questa indicazione, concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una<br />
presa di posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non<br />
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a una sua<br />
dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello stesso B8, dopo i<br />
versi 22-5). Forse, accettandone le implicazioni cosmologiche, la funzione di B4<br />
potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8<br />
avrebbe articolato e precisato. È significativo che nella sua prima edizione del poema<br />
(1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque<br />
all’inizio sostanzialmente della prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che<br />
il frammento possa aver svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di<br />
raccordo, tra le due sezioni, analogamente a B9.<br />
In alternativa, valutando soprattutto il contesto della citazione di Clemente e la sua<br />
intenzione di marcare la differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e<br />
convenendo con Coxon 21 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla<br />
<strong>natura</strong> dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla<br />
<strong>natura</strong> del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di<br />
B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine nata dalle molte<br />
esperienze» (ἔθος πολύπειρον).<br />
L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche<br />
Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il maggior<br />
cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del valore del greco κατὰ<br />
κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e<br />
συνιστάμενον, che indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti<br />
immediatamente a τὸ ἐόν, della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono<br />
una alternativa:<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
«non impedirai, infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere» (B4.2)<br />
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον<br />
οὔτε συνιστάμενον<br />
«né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo,<br />
né concentrandosi» (B4.3-4).<br />
Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un<br />
ordine) - di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere<br />
rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un<br />
modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto<br />
complessivo della realtà?<br />
Il noos e il cosmo<br />
Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai<br />
passi paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in<br />
Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente<br />
centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide:<br />
21 Op. cit., p. 187.<br />
210
πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος,<br />
Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι,<br />
καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε∙<br />
τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς<br />
«Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria,<br />
e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque,<br />
e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza.<br />
Guardala con l’intelligenza, non restare con sguardo stupito» (Empedocle, DK 31B17.18-<br />
21).<br />
οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε<br />
τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ<br />
«Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle altre, e non risultano<br />
tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo» (Anassagora, DK 59B8).<br />
Nel suo commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale<br />
del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di<br />
autore genericamente peripatetico 22 ), che contiene passaggi che sembrano<br />
effettivamente riecheggiare i versi parmenidei:<br />
Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ<br />
φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων<br />
θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης<br />
ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’<br />
αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα<br />
πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ<br />
σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν<br />
ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ<br />
γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ<br />
ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων<br />
ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ<br />
γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις<br />
προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως<br />
μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων<br />
«Ho più volte pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro,<br />
e soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei<br />
componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la verità che è in essi.<br />
E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza<br />
e grandezza, la filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose più belle,<br />
e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado congenere alla<br />
propria <strong>natura</strong> e massimamente conveniente. Infatti, poiché non era possibile col corpo<br />
raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e contemplare quelle sacre regioni, come<br />
follemente tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come<br />
conduttore, varcò il confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una<br />
via che non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel<br />
pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino<br />
occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E questo le accadde<br />
22 <strong>Sulla</strong> questione la puntuale introduzione di Reale e Bos, che rivendicano la paternità aristotelica<br />
dell’opera, in G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e<br />
Pensiero, Milano 1996.<br />
211
perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli<br />
uomini dei suoi tesori» 23 .<br />
Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle righe<br />
peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la dimensione del<br />
tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli elementi della totalità nello<br />
pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso<br />
evidentemente di universo, complesso del mondo (e non genericamente di ordine),<br />
come rivelato dal riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo»,<br />
unitamente alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso<br />
Empedocle (DK 31B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico<br />
mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica<br />
di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è presente in<br />
senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine delle cose.<br />
L’espressione del pensatore agrigentino «guardala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι<br />
δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudoaristotelica<br />
«le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ<br />
πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε) richiama<br />
complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione<br />
è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e<br />
presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in prospettiva<br />
cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua<br />
composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse<br />
perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si<br />
evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione<br />
aristotelica).<br />
La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di<br />
concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e, in<br />
relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος potrebbero<br />
suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione<br />
cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque,<br />
alla vera e propria esposizione fisico-cosmologica della seconda sezione.<br />
Disperdendosi, concentrandosi<br />
I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero<br />
dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo<br />
punto: qualcuno, come Coxon 24 , vi coglie una polemica nei confronti della teoria di una<br />
sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene 25 , pur non<br />
escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22B91 26 ); altri, come Guthrie 27 ,<br />
23 Ivi, p. 175.<br />
24 Op. cit., p. 189.<br />
25 Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli.<br />
26 Il frammento recita:<br />
ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον<br />
οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν ∙ ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει<br />
μεταβολῆς σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον,<br />
ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι<br />
212
itengono Parmenide alluda a Eraclito (B91) 28 ; altri ancora, come Conche 29 ,<br />
valorizzando l’intenzione ontologica del frammento, dubitano che possa riferirsi a<br />
fenomeni di condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”,<br />
superficiale e banale.<br />
In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare<br />
corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le distanze:<br />
nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più strettamente<br />
ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi<br />
della <strong>natura</strong> e fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente<br />
convincente la lezione di Graham 30 , il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre<br />
“paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.:<br />
(i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro<br />
principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni <strong>natura</strong>li, indicato come Generating<br />
Substance Theory (GST);<br />
(ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema<br />
parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori<br />
tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti),<br />
definito come Elemental Substance Theory (EST);<br />
(iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto<br />
come Material Monism (MM).<br />
Il primo corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti 31 :<br />
a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto;<br />
b) esiste un processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla<br />
sostanza originaria;<br />
c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo;<br />
d) le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo;<br />
e) emergono gli esseri viventi;<br />
f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello.<br />
Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e propria<br />
teoria del mutamento 32 ), Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi convincente 33 )<br />
avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di<br />
quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari<br />
(fuoco, terra, acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della<br />
lezione di Eraclito 34 , che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide.<br />
«Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare<br />
due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del<br />
mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un<br />
tempo si riunisce e si separa), viene e va».<br />
27 Op. cit., p. 32.<br />
28 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo.<br />
29 Op. cit., p. 94.<br />
30 Daniel W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton<br />
University Press, Princeton and Oxford 2006.<br />
31 Ivi, pp. 8-9.<br />
32 Ivi, pp. 45-84.<br />
33 Ivi, pp. 113-147.<br />
34 Ivi, pp. 148-162.<br />
213
La prima parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per<br />
negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò<br />
che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate,<br />
incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic<br />
Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia<br />
basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica<br />
di Parmenide 35 .<br />
Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la collocazione della riflessione<br />
dell’Eleate proposta da Graham appare sensata e potrebbe aiutare a leggere<br />
correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo<br />
del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando<br />
quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel movimento assenzapresenza;<br />
dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sulla omogeneità<br />
dell’essere, per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di<br />
fatto, accanto all’essere del principio\<strong>natura</strong>, l’implicita ammissione del non-essere.<br />
Anassimene (DK 13B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe<br />
sostenuto:<br />
τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν<br />
καὶ τὸ χαλαρὸν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν<br />
«[Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda,<br />
mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda<br />
[…]» (DK13 B1).<br />
Eraclito, a sua volta:<br />
σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι<br />
«[…] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va» (DK 22B91).<br />
Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia (ovvero migliaia, come<br />
crede qualcuno 36 ) di versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di<br />
una più o meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del<br />
contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul<br />
νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della<br />
φύσις- ἀρχή ionica.<br />
Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il<br />
poema:<br />
(i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti<br />
paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune;<br />
(ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la<br />
continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della<br />
Verità, come vuole Ruggiu 37 .<br />
35 Ivi, pp. 182-5.<br />
36 Cerri, op. cit., p. 11.<br />
37 Op. cit., p. 251.<br />
214
B5<br />
Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo, che lo con<strong>net</strong>te a B8.25<br />
(ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν<br />
ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo<br />
dunque all’Essere. In realtà, come spesso viene riconosciuto, è difficile sfuggire<br />
all’impressione di una decontestualizzazione disorientante.<br />
Se l’indicazione di Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per<br />
altro, con la relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόνταπαρεόντα-τὸ<br />
ἐόν di B4, è forte, tuttavia, tra gli interpreti l’opzione metodologica, che<br />
appare in qualche lettura particolarmente convincente 1 . Anche nel caso di B5, la<br />
questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il<br />
rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta 2 . Laddove, al<br />
contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo posizionamento<br />
nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri,<br />
Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione<br />
divina.<br />
Registrata la ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema -<br />
la verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa<br />
di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης<br />
(B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque<br />
forzata la conclusione di Ruggiu 3 , secondo cui B5 esporrebbe la forma nella quale<br />
l’Essere esprime la propria <strong>natura</strong>. Soprattutto se teniamo conto della possibilità che il<br />
materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria dei versi del poema<br />
integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea, invece, il passo potrebbe essere<br />
inteso e marcare lo scarto tra sapere divino e sapere umano: la necessità di un ordine<br />
espositivo rivolto al κοῦρος e la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo<br />
propone.<br />
Conche 4 ha giustamente messo in relazione il frammento con il programma di<br />
insegnamento annunciato dalla Dea:<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
«È necessario che tutto tu apprenda» (B1.28).<br />
La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un sapere compiuto: i limiti<br />
dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia acquisito tutto in una volta. È<br />
necessario un ordine, corrispondente alle tappe di una ricerca, modalità tipicamente<br />
umana di accedere alla conoscenza. Il percorso, la via da seguire (affermazione di una<br />
via ed esclusione di un’altra, ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso<br />
solo per il discepolo, non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di<br />
esposizione sono indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής<br />
(«ben rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del frammento 5 ,<br />
1 È il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche.<br />
2 Ovvero, ipotizzando una lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo inserimento tra i due<br />
riferimenti di Proclo.<br />
3 Op. cit., p. 253.<br />
4 Op. cit., p. 98.<br />
5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento all’interno di una (implausibile in<br />
vero) specifica argomentazione geometrica.<br />
215
afforzata dal possibile accostamento a Eraclito (B103 6 ) e dalla eco nel Sofista platonico<br />
(237a 7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di circolarità della ricerca scientifica e del<br />
discorso che la espone 8 .<br />
In ogni caso, alla luce della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della <strong>natura</strong>,<br />
sembra difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato<br />
Coxon 9 : nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione<br />
lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva diffondersi sul<br />
piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità indifferente possa riferirsi al<br />
complesso delle due esposizioni, dipendendo la comprensione della seconda dalle<br />
analisi della prima 10 . Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la<br />
discussione delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di<br />
sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come<br />
segnala Coxon 11 , la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta<br />
alla linearità degli argomenti deduttivi sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità<br />
(B8). Una interessante variante è quella avanzata da Bicknell 12 , che abbiamo registrato<br />
nelle annotazioni alla traduzione: se traduciamo ξυνὸν come a basic point («un punto<br />
fermo»), B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per marcare il<br />
fatto che ad essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi.<br />
6 Il frammento recita:<br />
ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας<br />
«inizio e termine coincidono sulla circonferenza del cerchio».<br />
7 Il passo è il seguente:<br />
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι∙ ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως<br />
ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ<br />
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων<br />
[DK 28B7.1‐2]<br />
«Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe<br />
generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo<br />
ragazzini proprio contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in<br />
versi, che [citazione B7.1-2]».<br />
8 Op. cit., p. 202.<br />
9 Op. cit., pp. 171-2.<br />
10 In questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta comunanza<br />
di tutti i punti del discorso della Dea.<br />
11 Op. cit., pp. 171-2.<br />
12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28B5”, in «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11.<br />
216
B6<br />
Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio (quindi, come<br />
osserva Cordero 1 , ricomparso a un millennio dalla stesura del poema), è dallo stesso<br />
commentatore per un verso direttamente connesso a B2 2 , per altro proiettato su B7 e B8:<br />
ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται<br />
τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα∙ εἰπὼν γὰρ [B6.1b‐2] [B6.3-9]<br />
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8‐9] καὶ<br />
ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.]<br />
«sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano<br />
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice<br />
infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117.2)<br />
Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile<br />
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2],<br />
soggiunge [citazione B8.1 ss.]» (In Aristotelis Physicam 78.2).<br />
È dunque introduttivamente importante, per una valutazione del suo senso e della sua<br />
posizione, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso<br />
condizionante del principio di contraddizione 3 (donde l’accostamento a B2) come<br />
premessa che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico<br />
successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono<br />
richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero<br />
ed essere:<br />
ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης<br />
φησὶν ἐν τούτοις [B6.1‐2a].<br />
εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ<br />
ὄντος<br />
«Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene<br />
in questi versi: [B6.1‐2a]<br />
Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una sola<br />
nozione, quella dell'essere» (In Aristotelis Physicam 86.25-30)<br />
Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso B2-B3,<br />
a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare<br />
1 By Being, It Is, cit., p. 90.<br />
2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8.<br />
3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da parte di Aristotele<br />
(Metafisica IV, 3, 1005a28-35):<br />
ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ<br />
τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν<br />
κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε<br />
γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες∙<br />
μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος<br />
«Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono<br />
(l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga l'essere in quanto<br />
essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno di coloro che si limitano<br />
all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra,<br />
né il matematico. Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di<br />
essere gli unici a ricercare sul complesso della <strong>natura</strong> e sull'essere».<br />
217
che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e<br />
seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione<br />
la centralità del riferimento critico a τό γε μὴ ἐὸν (che Simplicio evoca come τὸ μὴ ὂν),<br />
formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito<br />
il preliminare oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della Dea.<br />
Come rivela l’ampio dibattito intorno alla traduzione del testo greco e alla sua<br />
intellezione, il frammento è decisivo per determinare:<br />
(i) la <strong>natura</strong> delle «vie di ricerca per pensare»;<br />
(ii) il numero di tali vie;<br />
(iii) l’obiettivo della polemica parmenidea.<br />
In particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di contesa<br />
l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali che nulla sanno»),<br />
δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere scriteriate»), che molti hanno<br />
inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espressioni degli ultimi versi<br />
un possibile riscontro verbale (come abbiamo segnalato in nota):<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος<br />
«per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro» (B6.8-9).<br />
La <strong>natura</strong> delle vie<br />
Il primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire nell’insieme un<br />
asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato dal ricorso all’indicatore di<br />
premessa γάρ), introducono il primo problema interpretativo:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«È necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è"; poiché è possibile essere,<br />
il nulla, invece, non è».<br />
La nostra traduzione 4 evidenzia una struttura modale («è necessario», «è possibile»)<br />
solo possibile nel testo greco, che appare invece immediatamente costruito su tre<br />
formule tautologiche:<br />
4 Costruzioni e traduzioni alternative:<br />
(a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il<br />
loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e<br />
Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de<br />
Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ<br />
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν, traducendo: «è necessario dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella<br />
revisione (2004) della sua opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by being,<br />
it is».<br />
(b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del<br />
predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che siano un essere»): così, per esempio, Diels<br />
(1897), Heidel, Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con<br />
paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone, Aristotele). La sua<br />
traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and<br />
conceive that this is Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ<br />
αὐτὸ di B3).<br />
218
ἐὸν ἔμμεναι (letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»),<br />
ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»),<br />
μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente: «ni-ente non è»).<br />
L’essere dell’ente<br />
Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali:<br />
(i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è necessario»: si tratta di una<br />
formula con cui la Dea rileva un passaggio significativo della propria comunicazione,<br />
proposto come conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ,<br />
«poiché»);<br />
(ii) le due forme verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di<br />
dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo: ….»), ovvero, come<br />
crede qualcuno, di articolo sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»); in<br />
ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente<br />
pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2<br />
(νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8);<br />
(iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio presente del verbo «essere»<br />
(ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche<br />
«essere») e dall’infinito dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che abbiamo<br />
reso, come appare <strong>natura</strong>le, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e<br />
νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo essere)<br />
della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in negativo: da una lato<br />
l’«ente» di cui si afferma l’«essere», dall’altro il «ni-ente» di cui si nega lo stesso<br />
essere).<br />
Nel contesto la traduzione proposta appare quella più plausibile, che evidenzia<br />
sostanzialmente la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta di<br />
Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica della coppia participioinfinito<br />
dello stesso «essere», per marcare l’identità di soggetto e verbo. L’effetto<br />
ricercato potrebbe essere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di<br />
Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere<br />
di ciò che è 7 ; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.<br />
Dobbiamo tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come:<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις·<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo».<br />
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό γε μὴ ἐὸν di B2.7 il positivo<br />
ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere) «ciò che non è»,<br />
quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν. Nel passaggio interviene<br />
(c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò<br />
che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra gli altri, Bur<strong>net</strong> e Raven.<br />
5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81.<br />
6 Op. cit., p. 102.<br />
7 Ragion per cui Conche insiste per mantenere la forma della proposizione infinitiva, traducendo: «Il faut<br />
dire et penser l’étant être». Beaufret rende analogamente: «Nécessaire est ceci: dire et penser de l’étant<br />
l’être».<br />
219
l’importante novità della introduzione del substrato logico del verbo εἶναι, ἐόν appunto:<br />
l’iniziale affermazione «che "è" e che "non è possibile non essere"» (B2.3: ὅπως ἔστιν τε<br />
καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς κέλευθος, «percorso di<br />
Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio <strong>natura</strong>le soggetto di referimento. Nella<br />
sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come formula concettuale scaturita dalla<br />
riflessione sull'espressione della prima via di ricerca per pensare 8 : formula che<br />
manifesta l’essere di ciò di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica<br />
riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda<br />
Thanassas 9 , è frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν<br />
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo portati<br />
decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia esistenziale, pur<br />
avendolo reso ambiguamente con «essere».<br />
L’uso dell’iniziale χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità<br />
logica – è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,<br />
integrata dal rilievo di B3:<br />
τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι<br />
«La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere».<br />
Delle «due vie di ricerca» di B2 – le uniche «per pensare» - quella che pensava che<br />
«non è» è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è<br />
conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,<br />
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι) alla luce<br />
dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due infiniti (λέγειν e νοεῖν)<br />
viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è<br />
[esiste]»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi:<br />
sottolinea anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla 10 . A tale<br />
scopo, in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2:<br />
ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«poiché è possibile essere,<br />
il nulla, invece, non è».<br />
La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e<br />
proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»:<br />
ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.<br />
L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza della seconda via:<br />
ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι,<br />
attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico.<br />
8 Thanassas, op. cit. p. 45.<br />
9 Id., p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8.<br />
10 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a<br />
χρή.<br />
220
La traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque<br />
particolarmente controverse.<br />
Essere, non-essere<br />
Traducendo letteralmente:<br />
ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni:<br />
(i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo:<br />
«poiché è essere,<br />
il nulla, invece, non è»;<br />
(ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι):<br />
«poiché è essere,<br />
e non è nulla»;<br />
(iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo:<br />
«poiché [ovvero: in effetti] l'essere è,<br />
il nulla, invece, non è».<br />
Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι,<br />
accompagnata dai due soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la<br />
trasformano in una duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta<br />
della versione più <strong>natura</strong>le 11 , ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso<br />
di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso<br />
dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si<br />
tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra semplicemente riformulare la<br />
dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto<br />
contrario («[il] ni-ente»). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente,<br />
marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora<br />
che essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]».<br />
Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle<br />
due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in<br />
termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte<br />
come le uniche vie di ricerca per pensare 12 , una delle quali feconda, l’altra, che<br />
introduce lo spettro del nulla, assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono<br />
del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la<br />
confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio Colli 13 , la<br />
via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade<br />
invece con quella formulata a partire da B6.4.<br />
11 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι.<br />
12 In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191.<br />
13 Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano<br />
2003, p. 175.<br />
221
Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concettualmente dalla precedente,<br />
trovando comunque nel contesto dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel<br />
primo caso («poiché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere<br />
di «ciò che è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del "ni-ente"; nel<br />
secondo (la costruzione appare meno <strong>natura</strong>le) la Dea otterrebbe lo stesso risultato<br />
sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è «nulla».<br />
È possibile, non è possibile, è necessario<br />
Una interessante soluzione alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da<br />
O’Brien: essa, rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre<br />
espressioni modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν):<br />
«Il faut dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être,<br />
il n’est pas possible que ce qui n’est rien».<br />
Poiché è possibile essere ed è impossibile che il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti<br />
nel ragionamento) dovranno riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come<br />
ricorda il commentatore 14 , infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e<br />
μηδέν: il primo può esistere, il secondo no.<br />
La difficoltà di questa interpretazione è principalmente legata alla lingua greca, in cui<br />
ἔστι assume valore potenziale in relazione con un infinito: è dunque legittima la<br />
traduzione del secondo emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella<br />
quale, non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν ). Anche<br />
Mansfeld 15 opta per una (diversa 16 ) resa potenziale in entrambi i casi, proprio per<br />
garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la traduzione con valore<br />
esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque aver<br />
derivato, dalla affermazione della possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la<br />
necessità che l'essere sia 17 . Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 18 , per<br />
cui, attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la simmetria e<br />
soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo.<br />
Le due vie di B2 in B6<br />
In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in B2, precisandola:<br />
sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e<br />
νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό γε μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto della via di ricerca<br />
«che "non è" e che "è necessario non essere"», esista. In pratica ci troviamo di fronte a<br />
una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le<br />
uniche vie di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ<br />
14 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I, p. 214.<br />
15 Op. cit., p. 90.<br />
16 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein».<br />
17 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν<br />
ἔμμεναι) sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò<br />
confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa<br />
cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione delle due vie. Tra la possibilità<br />
che l’essere sia e la necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe<br />
a sua volta necessità.<br />
18 Op. cit., p. 133.<br />
222
ἔστιν si sostituiscono le espressioni (potenzialmente) tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι<br />
εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici.<br />
In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per<br />
pensare»:<br />
(i) l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica<br />
sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità<br />
al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie<br />
immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di<br />
indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere;<br />
(ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la direzione opposta, pensando<br />
cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni<br />
della negazione «non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via<br />
di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in<br />
tale direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire.<br />
La seconda via poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e<br />
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso originario<br />
di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente<br />
connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace di condurre alla vera<br />
realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento in merito era giunto però solo<br />
nei versi successivi, quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che<br />
τό γε μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea<br />
aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della<br />
prima. In B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι<br />
«è necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è [esiste]",<br />
e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle vie: «ciò che è è»<br />
(ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente: ni-ente] non è».<br />
A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo, sull'interpretazione dell’intero<br />
frammento - si contrappone in particolare quella di Cordero (ma condivisa da altri),<br />
secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via 19 :<br />
«il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è<br />
possibile non essere», quindi appartiene alla prima via 20 . In questo senso si è orientato<br />
di recente anche Palmer 21 . Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe<br />
invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di essere e non-essere: le<br />
cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo, come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ<br />
ἐόντα «che esistano cose che non sono»).<br />
La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario» riconoscere<br />
(dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita espressione della formula per la<br />
prima via; a sua giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesistenza del<br />
nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il<br />
nesso tra la seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di<br />
informazioni» (παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e<br />
19 By Being, It Is, cit., p. 99.<br />
20 Ivi, p. 105.<br />
21 Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione<br />
diversa delle vie.<br />
223
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν, come<br />
elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità dell'opposto ἐὸν<br />
ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica<br />
(argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Verità»), inizialmente introdotto in<br />
forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: ἐόν.<br />
Il numero delle vie<br />
È indicativa la formula utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di<br />
B6: la Dea, infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:<br />
τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα<br />
«Queste cose io ti esorto a considerare»,<br />
che sembra richiamare l’invito iniziale di B2:<br />
εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας<br />
«Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola una volta ascoltata».<br />
Come in quel caso, la Dea sottolinea il rilievo della alternativa tra le due vie per la<br />
corretta comprensione della realtà: il fraintendimento della loro <strong>natura</strong>, in effetti, è<br />
all’origine della confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve.<br />
Analogamente, dopo aver presentato la via «che non è e che è necessario non essere», la<br />
Dea si premura di osservare (B2.6):<br />
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν<br />
«Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni»;<br />
in B6.3, allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece<br />
non è»):<br />
πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω ><br />
«Da questa prima via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >.<br />
Questa versione del testo greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da<br />
Diels (sulla base di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata<br />
vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas 22 (e dalla<br />
Curd) 23 , i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω‐ἄρχομαι<br />
(forma media), «cominciare»:<br />
πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει ><br />
«since you < will begin > with this first way of investigation»,<br />
πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος <br />
«For, first, < I will begin > for you from this way of inquiry».<br />
L’esigenza di mettere in discussione la lezione tradizionale, sebbene giustificata da un<br />
punto di vista filologico dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con la<br />
ulteriore possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla<br />
22 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”, Deucalion 33-34 (1981), pp. 197-211.<br />
23 Di ciò diamo conto in nota al testo.<br />
224
incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa<br />
della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea non<br />
potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano» 24 , bensì solo «cominciare» o invitare a<br />
cominciare.<br />
Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di<br />
Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione 25 , ma offrirla solo<br />
come possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura<br />
tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il<br />
dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione<br />
desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che<br />
se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie<br />
la Dea avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal<br />
suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata<br />
ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo senso, la<br />
seconda via prospetta diventa «prima» nell’ordine espositivo.<br />
Da questa prima via di ricerca, poi da quella….<br />
Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un modello<br />
duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la soluzione di Cordero<br />
e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una sequenza nella esposizione<br />
della Dea. Adottando la congettura di Cordero avremmo:<br />
πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει ><br />
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
<br />
«con questa prima via di ricerca comincerai,<br />
poi con quella che mortali che nulla sanno<br />
s’inventano».<br />
Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare B8.50-52,<br />
considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla Doxa:<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων<br />
«A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali<br />
impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che cosa che può ingannare».<br />
Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di<br />
posizione di Karl Reinhardt 26 , il quale, dal confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di<br />
tre vie:<br />
24 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a quella σ’<br />
(pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la<br />
bontà. Traducendo con il personale «ti» la integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di<br />
Cordero, meno <strong>natura</strong>le nel caso di Nehamas («comincerò per te»).<br />
25 Che appare comunque da un punto di vista sintattico più plausibile di quella di Nehamas, dal momento<br />
che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica nella letteratura greca arcaica.<br />
26 Nel suo epocale K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio<br />
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916.<br />
225
(i) quella che affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2);<br />
(ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere<br />
è» (ricavata da B7.1);<br />
(iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere sia il<br />
non-essere sono».<br />
La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda<br />
via di B2; l’altra via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due<br />
menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei<br />
mortali, Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione 27 . È<br />
proprio per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il<br />
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile) in questa<br />
sede.<br />
A noi appaiono indiscutibili alcuni punti:<br />
(i) B2 delinea in modo <strong>net</strong>to una alternativa (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), marcando la<br />
esaustività («le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate;<br />
(ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le<br />
quali dirigersi:<br />
(a) la prima muove dall'affermativa «che è» escludendo il non-essere (come<br />
impossibile);<br />
(b) la seconda dalla negativa «che non è» affermando la necessità del non-essere;<br />
(iii) lo stesso B2 registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine,<br />
infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe<br />
discernervi alcunché: «ciò che non è» non è possibile conoscere né indicare;<br />
(iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della<br />
complessiva esposizione della Dea: nelle sue parole («io dirò - e tu abbi cura della<br />
parola, una volta ascoltata») è marcato il rilievo cruciale dell'alternativa per il kouros (e<br />
dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore);<br />
(v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la responsabilità di<br />
sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ<br />
ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe Cordero 28 : è vero, piuttosto, che alla<br />
seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di<br />
indagine che non può concretizzarsi in concoscenza;<br />
(vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità basilari per le successive<br />
argomentazioni: l'essere è necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà<br />
procedere ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla<br />
potrà dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della direzione<br />
d'indagine alternativa.<br />
Come segnala la Germani 29 (e, in una prospettiva diversa, Cordero 30 ), potrebbe in<br />
questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del<br />
principio del terzo escluso:<br />
τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ<br />
τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές<br />
27 <strong>Sulla</strong> questione molto chiara la ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1.<br />
28 Op. cit., p. 73.<br />
29 Op. cit., p. 193.<br />
30 By Being, It Is, cit., p. 105 nota.<br />
226
«dire che l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è il non essere<br />
non è è invece vero» (Metafisica IV, 7, 1011 b26-27).<br />
In relazione a B6, di conseguenza, osserviamo che:<br />
(i) la Dea evoca – con le proprie espressioni tautologiche (ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, μηδὲν<br />
οὐκ ἔστιν) e con il proprio argomento (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) – l'alternativa<br />
tra le vie, invitando a non perderla di vista («Queste cose io esorto a considerare»),<br />
come ancora accadrà in B8.15-16 («La decisione a proposito di queste cose risiede in<br />
ciò: è o non è»);<br />
(ii) la Dea in B6.1-2, probabilmente a conclusione di una disamina critica sul non-essere<br />
(esplicitamente evocata da Simplicio), esplicita in positivo quanto abbozzato in<br />
conclusione di B2, argomentando, a partire dal rilievo della inesistenza del nulla, la<br />
necessità che ἐὸν ἔμμεναι: in B8.15-18 il passaggio sarà richiamato:<br />
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι<br />
«Il giudizio in proposito dipende da ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale».<br />
Il testo è significativo, secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del<br />
procedimento parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della<br />
disgiunzione «è\non è»; (b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e<br />
ἀνώνυμον (che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via<br />
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra non lo è (non<br />
è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua <strong>natura</strong>, come effettivo percorso di<br />
ricerca;<br />
(iii) alla Dea preme, liquidata ormai come via di ricerca («il nulla non è») la seconda via<br />
di B2, prima ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina, soffermarsi sulla<br />
erronea costruzione dei «mortali», scaturente dal misconoscimento e disconoscimento di<br />
quella alternativa: seppur prospettata come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ<br />
εἰδότες οὐδέν è chiaramente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come una<br />
illusione (soprattutto se intendiamo il verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι,<br />
«mi invento» e non di πλάζω «vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti<br />
altri).<br />
L’impotenza dei mortali<br />
Il registro linguistico all’interno dei frammenti del poema muta sensibilmente, per<br />
assumere i toni della risentita disapprovazione:<br />
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν<br />
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον<br />
«poi da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno<br />
s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro<br />
petti guida la mente errante» (B6.4-6).<br />
227
Questi versi assumono una grande importanza soprattutto per lo sfondo culturale che<br />
sembrano evocare: Gigon, Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la<br />
terminologia parmenidea, ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca<br />
arcaica, veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger 31 richiama i versi del<br />
Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong>):<br />
λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων,<br />
ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος∙<br />
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην,<br />
κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων<br />
ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον<br />
ἔφυρον εἰκῆι πάντα<br />
«Parlerò senza disprezzo per gli uomini,<br />
narrando solo del favore dei miei doni.<br />
Dapprima essi, pur avendo occhi, in vano osservavano;<br />
avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni<br />
simili alle forme, la lunga vita<br />
impastavano tutta senza disegno» (Eschilo, Prometeo incatenato, 445-50).<br />
Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia impegnato a stigmatizzare una<br />
condizione mortale, facendo riecheggiare spunti della tradizione letteraria che si<br />
possono ancora riscontare nella produzione filosofica del V secolo in Eraclito e<br />
Empedocle. La ἀμηχανίη segna la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità<br />
a parlare, ribadendo il consolidato cliché dello scarto tra umano e divino già impiegato<br />
dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si traduce in una sorta di paralisi della<br />
comprensione, in una confusa percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio<br />
come denunciato da Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito,<br />
Parmenide pone l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un<br />
intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa<br />
interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole<br />
consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria “seconda<br />
<strong>natura</strong>” (ἔθος di B7.3) 32 .<br />
La Dea riferisce ai «mortali»una prima serie di caratteristiche negative:<br />
(i) li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente<br />
impiegata nell’epica e nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano 33 ,<br />
concentrato sul presente, nell’ignoranza del passato e del futuro: a questa situazione<br />
mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς);<br />
(ii) li connota come δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per<br />
alludere allo specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie<br />
comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni;<br />
(iii) attribuisce loro la “finzione” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione<br />
evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare»;<br />
31 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di sentire l’eco di<br />
un’esortazione religiosa».<br />
32 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257.<br />
33 Ivi, p. 259.<br />
228
(iv) denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede<br />
all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche 34 ;<br />
(v) in tal modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali:<br />
ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello θυμός<br />
che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος.<br />
Queste determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che<br />
sottolineano la fenomenologia del disorientamento:<br />
οἱ δὲ φοροῦνται.<br />
κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα<br />
«Essi sono trascinati,<br />
a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate» (B6.6-7).<br />
I «mortali»non sono dunque in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale<br />
incomprensione che si manifesta a tre livelli:<br />
(a) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso deputati (la vista e l’udito)<br />
producono – nel loro caso dei «mortali» – isolamento, distorsione;<br />
(b) conseguentemente – con formula omerica (τεθηπότες) – nella tonalità emotiva della<br />
sorpresa (in Omero, Odissea 23.105, lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato<br />
ἐνι στήθεσσι, «nel petto»), da intendere nel contesto non come apertura positiva alla<br />
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria;<br />
(c) infine – e si tratta della indicazione più importante nell’insieme del frammento -<br />
nella mancanza di giudizio, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν), con cui spregiativamente<br />
la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la loro massa, il loro insieme<br />
indistinto, come confusa è la loro percezione della realtà.<br />
Le due sequenze su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo<br />
di Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della<br />
fragilità mortale: così nel filosofo non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto<br />
tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che vincoli<br />
umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di Parmenide appare vicina<br />
a quella del contemporaneo Eraclito:<br />
τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ<br />
ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον∙ γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον<br />
τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων<br />
ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ<br />
ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα<br />
εὕδοντες ἐπιλανθάνονται<br />
«Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di<br />
udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si<br />
mostrano privi di esperienza, impegnati in parole e azioni quali quelle che io presento,<br />
analizzando ogni cosa secondo <strong>natura</strong> e mostrando come è. Ma gli altri uomini rimane<br />
celato tanto quello che fanno da svegli, quanto quello che fanno dormendo» (DK 22B1)<br />
ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι<br />
διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται<br />
34 Op. cit., p. 108.<br />
229
«proprio dal logos con cui hanno maggiormente e costantemente familiarità, essi<br />
discordano, e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee» (DK<br />
22B72)<br />
ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι∙φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας<br />
ἀπεῖναι<br />
«ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di loro è testimone il detto: pur<br />
presenti sono assenti» (DK 22B34)<br />
τοῖς ἐγρηγορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι<br />
«Per coloro che sono desti l’ordine del mondo è unico e comune» (DK 22B89)<br />
ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις,<br />
καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς<br />
τοῦ θείου∙ κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται<br />
«è necessario che coloro che intendano parlare con intendimento si fondino su ciò che a<br />
tutti è comune, come la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, in<br />
effetti, si alimentano dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per<br />
tutte le cose e ha prevalenza su di esse» (DK 22B114)<br />
Senza voler entrare nel dettaglio della interpretazione del pensiero di Eraclito, è<br />
sufficiente osservare come nelle tre citazioni esemplari sia marcato l’isolamento del<br />
filosofo rispetto alle opinioni condivise. Da un lato, infatti, il discorso consapevole<br />
(λόγος) del filosofo annuncia come «tutto» accada secondo il logos (che manifesta<br />
dunque la struttura stabile del mutamento). Dall’altro l’incomprensione – la mancanza<br />
di intelligenza della realtà - degli «altri» (uomini), tanto più grave in quanto essi pure si<br />
muovono nell’ambito di quel logos universale (la legge eterna che ritma il divenire di<br />
ogni ente). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una condizione di<br />
inversione:<br />
i) pur disponendo delle capacità sensoriali, gli uomini si comportano come se ne fossero<br />
privi;<br />
ii) così, anche in presenza del logos, ne ignorano la normatività;<br />
iii) la conseguenza è il torpore, lo stordimento, una sorta di sonnambulismo;<br />
iv) il logos è invece base della realtà (in Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di<br />
κόσμος come ordine del mondo) condivisa dai «desti».<br />
L’adesione al logos è adesione a «ciò che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato,<br />
oggettivo, diversamente dall’ottusità della inconsapevole esperienza quotidiana, che ci<br />
convince falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema<br />
dell’estraneità).<br />
L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito sono – come, a nostro<br />
avviso, ha correttamente segnalato Conche (editore sia dei frammenti parmenidei, sia di<br />
quelli eraclitei) - dalla stessa parte, in quanto «cooperatori del vero»; dall’altra ci sono<br />
coloro che non giudicano con la ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro<br />
stesso pensiero 35 . A noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno<br />
sottolineando come l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di<br />
assumere la decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a<br />
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è possibile solo<br />
all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze collettive 36 .<br />
35 Op. cit., p. 107.<br />
36 Ivi, p. 108.<br />
230
Una via “inventata”<br />
Per riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide<br />
reiteri, in apertura del frammento, l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a<br />
essa, il tema specifico dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio dalla alternativa<br />
alla confusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo<br />
tradizionale dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle<br />
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle peculiari<br />
esigenze polemiche dell’autore.<br />
Muovendo quindi dalla alternativa delle due vie, B6 denuncia la deriva di una posizione<br />
che scaturisce dalla loro confusione. Il linguaggio parmenideo sembra insistere<br />
soprattutto sulla <strong>natura</strong> illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di ricerca»), scaturita in realtà<br />
dalla presunzione e debolezza cognitiva dei «mortali». In questo senso Parmenide non<br />
avalla alcuna “terza via”, non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano<br />
strettamente logico: mentre la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» si<br />
presentava come uno dei corni della alternativa fondamentale e, pur impercorribile,<br />
poteva almeno essere prospettata correttamente, questa presunta “terza via” è<br />
stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla sanno», dunque come<br />
logicamente insostenibile.<br />
Le due vie di B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν<br />
ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua<br />
negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale<br />
(μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto<br />
argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si<br />
rileva invece:<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν<br />
«per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa» (B6.8-9).<br />
È opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del<br />
nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere:<br />
ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται<br />
τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα<br />
«sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano<br />
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti»<br />
(Simplicio, Fisica, 117, 2, DK 28B6).<br />
Precisa inoltre:<br />
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι<br />
«Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere nell’intelligibile»<br />
(Simplicio, Fisica, 78, 2, DK 28B6).<br />
Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi<br />
sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione<br />
in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere). Dei<br />
«mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di<br />
discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la<br />
231
stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a<br />
ἐόν. Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e combinano<br />
termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro<br />
incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione,<br />
in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di<br />
Parmenide.<br />
L’obiettivo della polemica<br />
Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un<br />
obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione?<br />
Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole<br />
Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole<br />
Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la<br />
condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive<br />
giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come<br />
oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre che<br />
Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso)<br />
della filosofia milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e<br />
Gadamer)?<br />
In un certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo<br />
indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del<br />
dibattito interpretativo.<br />
Quella che mortali che nulla sanno s’inventano<br />
Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento<br />
pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e dunque a<br />
“ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto l’occasione per<br />
polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica genericamente βροτοί, «mortali»)<br />
che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste<br />
ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla<br />
sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari.<br />
L’errore ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe<br />
genericamente riferirsi alla incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di<br />
ricerca per pensare») spiegazione dei processi <strong>natura</strong>li, preoccupazione esplicitata in<br />
B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che sempre<br />
Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica analoga: la sua<br />
nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i modelli della tradizione,<br />
discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a<br />
contestare l’enciclopedismo dei contemporanei:<br />
τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι<br />
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως<br />
«Omero merita di essere frustato e cacciato via dalle gare e ugualmente Archiloco» (DK<br />
22B42)<br />
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος∙ τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις<br />
ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν∙ ἔστι γὰρ ἕν<br />
«Maestro dei più Esiodo: credono conoscesse molte cose, lui che non conosceva [che cosa<br />
fossero] il giorno e la notte: perché sono una cosa sola» (DK 22B57)<br />
232
πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει∙ Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην<br />
αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον<br />
«Il saper molte cose non insegna ad aver intelligenza: altrimenti lo avrebbe insegnato a<br />
Esiodo e a Pitagora, e anche a Senofane e a Ecateo» (DK 22B40)<br />
Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ<br />
ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην,<br />
κακοτεχνίην.<br />
«Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e raccogliendo questi<br />
scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte cose, cattiva arte» (DK 22B129).<br />
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le<br />
alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare,<br />
sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza.<br />
Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione milesia<br />
potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro offerto da<br />
Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a Mileto, con la<br />
fondamentale differenza che, nel suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del<br />
divenire nella permanenza della φύσις‐ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può<br />
cogliere, semmai, la denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come<br />
abbiamo già registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di<br />
B6 e B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura<br />
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di confronti del<br />
genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del<br />
sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa di non<br />
filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della Dea, la parola della<br />
Verità. Anche in questo caso, potrebbe valere l’analogia con Eraclito.<br />
Uomini a due teste<br />
All’inizio del secolo scorso Döring 37 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica<br />
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dalla adesione di una quota minoritaria degli<br />
specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven 38 ). Tra gli assunti di Döring 39 ,<br />
soprattutto la convinzione che i primi pitagorici asserissero l’esistenza del vuoto,<br />
considerato identico al non-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella<br />
sua «terza via», combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi<br />
discutibili, che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze<br />
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la sua<br />
tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel tempo.<br />
È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di escludere che<br />
Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto insistito 40 , potesse<br />
attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili nel contesto storico-<br />
37 A. Döring, Geschichte der griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore Das<br />
Weltsystem des Parmenides, “Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik”, 104 (1894), pp. 161-<br />
177.<br />
38 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between the Two Opposed<br />
Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge 1948.<br />
39 Si veda Tarán, p. 68.<br />
40 Si veda, per un esempio autorevole, G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical<br />
History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963, p. 277.<br />
233
culturale in cui erano avanzate, a un pubblico essenzialmente di uditori o discepoli.<br />
Raven, in particolare, ha ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico<br />
pitagorico 41 , in cui lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso<br />
troverebbe espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile<br />
alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella<br />
generazione di tutti gli enti 42 .<br />
In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero<br />
essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili della elaborazione di<br />
quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto dell’accenno a<br />
un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione<br />
«i cosiddetti pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e<br />
difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio<br />
matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare<br />
un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il<br />
riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle<br />
due serie di contrari:<br />
ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος<br />
παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον∙ καὶ γὰρ<br />
[ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ]<br />
παραπλησίως τούτοις∙ φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων<br />
τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...]<br />
«In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale<br />
dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando<br />
Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la<br />
maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi, le<br />
opposizioni, ma proponendole a caso [...]» (Metafisica I, 5, 986a 27-34).<br />
Secondo la Timpanaro Cardini 43 , dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,<br />
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica<br />
(ἄπειρον‐πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle<br />
opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre<br />
nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica.<br />
Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei versi<br />
parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva risultare<br />
riconoscibile nello humus locale: in un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza<br />
41 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del tradizionale<br />
coinvolgimento di Eraclito.<br />
42 Aristotele, Metafisica, I, 5, 986 a17-21:<br />
τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν<br />
πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ<br />
ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ<br />
εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν<br />
«[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è<br />
illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e<br />
pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero<br />
l’intero universo».<br />
43 Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano<br />
2010 edizione originale 1958-1964), pp. 134-135.<br />
234
della distanza degli ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una<br />
referenza pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo<br />
di tornare nel commento a B8.<br />
Il percorso torna all'indietro<br />
Sin dall’Ottocento (Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati<br />
interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri,<br />
Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia<br />
Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da<br />
considerazioni di contenuto (Guthrie 44 ), alla lettura sostenuta dall'attenzione per la<br />
forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da<br />
assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili<br />
evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee:<br />
οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει∙ παλίντροπος ἁρμονίη<br />
ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης<br />
«non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari,<br />
come l’armonia dell’arco e della lira» (DK 22B51)<br />
συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ<br />
ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα<br />
«congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le<br />
cose l’uno e dall’uno tutte le cose» (DK 22B10)<br />
ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν<br />
«noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo» (DK<br />
22B49a)<br />
ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι<br />
«non si può discendere due volte nel medesimo fiume» (DK 22B91).<br />
Nel testo di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più<br />
tradotti diversamente 45 ):<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος<br />
«per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro».<br />
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22B10)<br />
l’identità dei contrari come identità-nella-differenza, secondo un modello del “sì e no” 46 ,<br />
che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui<br />
appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa»).<br />
In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide sarebbe rivolto a una<br />
impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla logica ambivalente del mito, in cui<br />
44 Op. cit., p. 23.<br />
45 La resa italiana più frequente è la seguente:<br />
«per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro».<br />
46 Tarán, op. cit., p. 71.<br />
235
la complementarità degli opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso<br />
belga, nella modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze<br />
da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di una opposizione più inglobante,<br />
comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22B49a, 22B91) 47 . Proprio la<br />
rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea parmenidea,<br />
discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di Eraclito 48 .<br />
Ancora di recente, Graham 49 ha proposto di leggere l’ontologia parmenidea come<br />
reazione prodotta dall’impatto dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe<br />
consistita nella esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con<br />
l’abbandono della idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di<br />
processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra,<br />
acqua).<br />
A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco<br />
espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario evocandone le<br />
parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι<br />
κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle<br />
parole di Eraclito (DK 22B51) 50 , altri hanno molto insistito su questo punto: tra i<br />
contemporanei, per esempio, Cerri trova conferma in B6.9 di una vera e propria<br />
«tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte<br />
e delle Eliadi 51 .<br />
Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza<br />
specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato<br />
la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati<br />
paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle oggettive<br />
contraddizioni insite nella realtà <strong>natura</strong>le e umana 52 . Così non vi è dubbio, secondo<br />
Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere<br />
imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta)<br />
“terza via” denunciata dall’Eleate 53 .<br />
Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare<br />
B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si<br />
riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica<br />
di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe<br />
quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina<br />
eraclitea 54 .<br />
Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del<br />
referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come le<br />
ricostruzioni platonica e aristotelica propongano una anomalia di fondo, che si ritiene<br />
effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime<br />
collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V<br />
47 Couloubaritsis, op. cit., p. 199.<br />
48 Ivi, p. 200.<br />
49 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy.<br />
50 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori dell’identità dei<br />
contrari (p. 72).<br />
51 Cerri, op. cit., p. 208.<br />
52 Ivi, p. 206.<br />
53 Ibidem.<br />
54 Ivi, p. 208.<br />
236
secolo a.C., ai sofisti Ippia 55 , che avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia,<br />
che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto<br />
probabile che la versione offerta da chi (Platone e Aristotele appunto) diede inizio alle<br />
prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli schemi<br />
riduttivi 56 .<br />
Mansfeld 57 ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di<br />
Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso<br />
universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del<br />
secondo il motivo dell’Uno e della immobilità 58 . In realtà, come abbiamo già avuto<br />
modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una<br />
prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni.<br />
L’Efesio, in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in<br />
un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e<br />
cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per<br />
estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle<br />
forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto<br />
nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma<br />
inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. Significativa anche l’altra<br />
convergenza già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con alcune figure della<br />
tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora,<br />
Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le<br />
distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria.<br />
Eraclito manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a<br />
cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la<br />
maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione i molti - rimane<br />
estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla rivelazione della<br />
Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione<br />
che va al fondo delle cose afferrandone la <strong>natura</strong> e la semplice, superficiale erudizione<br />
(πολυμαθίη) o la percezione parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini<br />
(δοξάσματα). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,<br />
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος<br />
ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo questo logos» (γινομένων<br />
γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε).<br />
Eraclito sottolinea il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni<br />
all’unità della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità<br />
della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione strutturante<br />
all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος, «tutto è uno» 59 , sia nel senso<br />
55 J. Manfeld, “Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.),<br />
Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias<br />
als Philosophiehistoriker, Münich 1986.<br />
56 Sebbene sia plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo) avessero<br />
accesso a un manoscritto dell’intero poema.<br />
57 F. Mansfeld, “Sources”, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy,<br />
C.U.P., Cambrdige 199, pp. 22-44.<br />
58 Ivi, p. 27.<br />
59 DK 22B50:<br />
οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι<br />
«non ascoltando me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno».<br />
237
che le cose sono tra loro unitariamente organizzate secondo il suo piano, sia nel senso<br />
che nella <strong>natura</strong> di ogni singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che<br />
regola il prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo <strong>natura</strong> nascosta allo<br />
sguardo superficiale.<br />
È in considerazione di questi elementi teorici (al di là dei problemi di cronologia<br />
relativa, di non facile risoluzione 60 ) che la supposizione di una polemica specificamente<br />
antieraclitea appare esagerata, a meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più<br />
complesso (come sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio,<br />
riconoscendo come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella<br />
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide come effetto<br />
della irritazione di fronte a una incongruenza (la combinazione di «è» e «non è»), che<br />
rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica 61 .<br />
In questo senso, però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un<br />
errore ovvero un'incoerenza che il filosofo poteva cogliere non solo (come Eraclito)<br />
nelle espressioni della cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa<br />
filosofia ionica. Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di<br />
recente Maria Laura Gemelli Marciano 62 - un «contesto culturale e pragmatico» molto<br />
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle<br />
idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un<br />
riferimento generico e specifico a un tempo:<br />
(i) agli ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da<br />
cui l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità);<br />
(ii) ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà;<br />
(iii) ai filosofi ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo, riconoscendo la<br />
forza del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’essere in un’area<br />
della realtà, piuttosto che in un’altra;<br />
(iv) al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di<br />
un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui,<br />
pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano accostati.<br />
Al centro dell’attacco dell’Eleate – come confermerà B7 – sono gli “uomini della<br />
contraddizione”, coloro che implicano – consapevolmente o meno 63 – l’assurdo: «che<br />
siano cose che non sono»; in altre parole coloro («schiere senza giudizio») che,<br />
affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi<br />
dell’abitudine, avanzano una inaccettabile terza via. Come osserva Coxon 64 , la<br />
formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν è da leggere in<br />
opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con<br />
la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche<br />
giustamente può marcare come l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla<br />
massa di non filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la<br />
60 Su questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178).<br />
61 Cerri, op. cit., p. 209.<br />
62 M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A.<br />
Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?,<br />
Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114.<br />
63 In questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni dei mortali riguardo a<br />
pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che «essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa<br />
cosa».<br />
64 Op. cit., p. 185.<br />
238
parola della Dea, la parola della Verità 65 . Né va dimenticato un rilievo di Jaeger:<br />
νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la<br />
communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)» 66 .<br />
A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle<br />
espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per<br />
pensare» appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a<br />
Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo<br />
ipotetica.<br />
65 Op. cit., p. 109.<br />
66 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, nota 36.<br />
239
B7<br />
Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un<br />
collage di diverse citazioni:<br />
(i) Platone (Sofista, 237 a 8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam, 143, 31–144, 1)<br />
riportano il secondo emistichio del primo verso e l’intero secondo verso;<br />
(ii) Aristotele (Metafisica, 1089 a) riproduce l’intero primo verso;<br />
(iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos, VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di<br />
seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a;<br />
(iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5.<br />
Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale ricostruzione e<br />
la ragionevole unitarietà del frammento 1 , nonché la sua probabile saldatura con B8, in<br />
considerazione del fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da<br />
Sesto corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche<br />
da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B8 2 e la<br />
loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon 3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a causa<br />
dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα‐παρεόντα (B4.1).<br />
Mansfeld 4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) –<br />
riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo blocco.<br />
Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il problema della<br />
(parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e per questo accolta<br />
originariamente da Diels nel primo frammento del poema 5 ), cui possiamo aggiungere<br />
anche quello linguistico e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di B7.6[a] con<br />
B8.1[b] 6 . Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di<br />
Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile 7 , non appare del tutto<br />
convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione<br />
dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una<br />
tradizione alternativa a quella attica): è possibile dunque che «egli disponesse di una<br />
buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema» 8 .<br />
Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo:<br />
mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera ormai<br />
irreperitibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato" parti del poema<br />
originariamente distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della<br />
sensazione come vero strumento di conoscenza 9 .<br />
Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia<br />
propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo<br />
1 Tarán, op. cit., p. 76.<br />
2 Mansfeld, op. cit., pp. 91-2.<br />
3 Op. cit., p 189.<br />
4 Op. cit., p. 92.<br />
5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a<br />
riproporre l'originale versione dielsiana.<br />
6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν<br />
ῥηθέντα). Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe<br />
μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente.<br />
7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 380.<br />
8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31.<br />
9 Ivi, p. 30.<br />
240
al presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi<br />
condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”.<br />
Una via che è impossibile addomesticare<br />
L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2, ribadita all’inizio<br />
di B6:<br />
οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα·<br />
ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·<br />
«Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono.<br />
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero» (B7.1-2).<br />
Il senso del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della<br />
contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ<br />
διζήσιος, ma anche εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2)<br />
che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora<br />
impegnato a stigmatizzare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della<br />
contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche<br />
vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2), l’assurdità.<br />
Un pensare “selvaggio”<br />
Due elementi spingono in questa direzione: (i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε<br />
τοῦτο δαμῇ) secondo cui è impraticabile (logicamente) riconoscere che «cose che non<br />
sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii) il sostantivo νόημα, che, come vedremo,<br />
può essere messo in relazione sia con la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il<br />
ragionamento» ovvero valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per<br />
contrasto, con ἔθος πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze».<br />
Per quanto riguarda il primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è<br />
sostanzialmente quella tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione<br />
platonica e Tarán ha difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata<br />
proposta una versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che<br />
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en effet, cet<br />
énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be tamed» (O’Brien); «Car<br />
jamais ceci sera mis sous le joug» (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è<br />
l’irragionevolezza della tesi che può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che<br />
nulla sanno». La contraddittoria commistione delle «due vie», il mancato<br />
apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale)<br />
contaminazione, che è impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma<br />
razionale. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in<br />
relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di to be proved.<br />
La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del<br />
frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla<br />
inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato<br />
immediatamente definito in termini inequivocabili 10 :<br />
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·<br />
10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in<br />
particolare pp. 77-8.<br />
241
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις·<br />
«Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:<br />
non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo» (B2.6-8).<br />
Ciò che viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno:<br />
il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque<br />
implicano l’esistenza del non-essere.<br />
Cose che non sono<br />
Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il<br />
plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da<br />
lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo<br />
polemico nei confronti dell'esperienza sensibile 11 , di una “via” dei sensi che cerca di<br />
attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero 12 , la critica delle<br />
attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un complessivo<br />
attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα),<br />
riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di pensare – quello di «mortali<br />
che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e<br />
dalla guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono 13 .<br />
Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il<br />
pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato a partire<br />
dalle cose che si presentano nella esperienza 14 . In questo passaggio il filosofo non<br />
intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe impegnato a rigettare la<br />
seconda via 15 , ma a rilevare la contraddizione indotta dal fraintendimento<br />
dell’esperienza 16 . L’insistenza su questo punto nei due frammenti che precedono<br />
(secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga<br />
analisi della “prima via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del<br />
discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema.<br />
Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon 17 ,<br />
secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta<br />
nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie fisiche<br />
precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis<br />
Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli<br />
argomenti del V secolo a favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto:<br />
καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν<br />
«non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così come non può esservi il nonessere».<br />
Nella sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo<br />
allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui<br />
11 Tarán, op. cit., p. 77.<br />
12 By being, It Is, cit., p. 129.<br />
13 Ivi, p. 130.<br />
14 Ruggiu, op. cit., p. 263.<br />
15 Come ritengono Cordero e Tarán.<br />
16 Conche, op. cit., p. 117.<br />
17 Op. cit., p. 189.<br />
242
alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα‐παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα),<br />
e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2<br />
dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco sarebbe appunto la<br />
supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discriminare<br />
l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa prospettiva<br />
essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla tentazione di seguire coloro che asseriscono<br />
l’esistenza del non-essere (vuoto) 18 . In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson 19 , il<br />
concetto di «non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla<br />
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i<br />
Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il<br />
vuoto (τὸ κενόν) fosse pe<strong>net</strong>rato nell'universo (οὐρανός) come «respiro» (πνεῦμα),<br />
costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose:<br />
εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ<br />
τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς<br />
ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως∙ καὶ τοῦτ’ εἶναι<br />
πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς∙ τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν<br />
«Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio<br />
pe<strong>net</strong>rasse nell'universo come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature,<br />
quasi il vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione.<br />
Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro <strong>natura</strong>»<br />
(Aristotele, Fisica IV, 213 b22-27).<br />
Come abbiamo osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi<br />
pitagoriche è suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di<br />
Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi<br />
come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per «pieno»:<br />
Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·<br />
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,<br />
οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος<br />
«Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo;<br />
né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo,<br />
né qualcosa di meno, ma tutto pieno è di ciò che è» (B8.22-24).<br />
Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle,<br />
tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla» (B9).<br />
Nei due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella<br />
sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza,<br />
evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre implicito il<br />
18 Ivi, pp. 190-191.<br />
19 Op. cit., p. 101.<br />
243
ifiuto ddel «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il non-essere (μηδέν, «nulla»<br />
appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto:<br />
οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν∙ τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν∙ οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν<br />
«Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può esistere»<br />
(DK 30B7.7).<br />
Coxon 20 nota come Aristotele – nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio<br />
(In Aristotelis Physicam, 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul<br />
tema, oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito<br />
al vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei<br />
numeri).<br />
La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello specifico, in quanto<br />
non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per indicare il vuoto. Forse giustificato<br />
per designare i supposti enti molteplici frutto della scorretta assunzione del vuoto-nulla,<br />
l’uso del plurale – come conferma anche il lessico di Melisso - sembra improprio in<br />
riferimento a qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente.<br />
Appare dunque più probabile che l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta<br />
in B6 contro gli «uomini a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il<br />
γὰρ del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trovare, nella<br />
formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la possibilità di stigmatizzare con rigore<br />
l’assurdità implicita nelle assunzioni di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di<br />
Mansfeld 21 è incauta nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3,<br />
ma la proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7<br />
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il senso<br />
con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali che nulla<br />
sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale<br />
(B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a «giudicare con il ragionamento»<br />
(κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del<br />
mondo umano 22 .<br />
Che siano cose che non sono<br />
La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle «uniche<br />
vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione razionale della<br />
realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta<br />
pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi successivi a ἔθος<br />
πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume mentale scaturito dal<br />
commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla<br />
comprensione:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
«Considera come cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti;<br />
non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere».<br />
20 Coxon, op. cit., pp. 189-190.<br />
21 Op. cit., p. 91.<br />
22 Ibidem.<br />
244
Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto<br />
nell’«essere» (τὸ ἐὸν), perché il νόος impedisce di considerare l’essere a<br />
“intermittenza”, quasi fosse alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e<br />
assenza immediate degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a<br />
tradire la corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a<br />
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità,<br />
non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu 23 : essi<br />
attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla.<br />
Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai mortali a<br />
partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il<br />
valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali 24 .<br />
Ma tu …<br />
Leggiamo ancora una volta l’attacco di B7:<br />
Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα·<br />
ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα<br />
«Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono.<br />
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero» (B7.1-2).<br />
La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione<br />
che esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via di<br />
ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5:<br />
[…] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
, δίκρανοι […]<br />
«da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno<br />
, uomini a due teste».<br />
Nel frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti<br />
mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso<br />
di indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, «s’inventano»).<br />
In B7, invece, si punta su due elementi:<br />
(a) l’indomabile resistenza alla ragione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) manifestata dalla<br />
presunzione che «siano cose che non sono»;<br />
(b) l’appello ἀλλὰ σὺ ‐ «Ma tu» - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα<br />
φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere.<br />
Questo richiamo personale segue:<br />
(i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24-28) con l’illustrazione del<br />
suo programma di istruzione (B1.28b): «Ora è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ<br />
δέ σε πάντα πυθέσθαι);<br />
(ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di<br />
ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1): «Orsù, io dirò - e tu<br />
abbi cura della parola una volta ascoltata» (εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον<br />
ἀκούσας);<br />
23 Op. cit., p. 266.<br />
24 Conche, op. cit., p. 122.<br />
245
(iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2):<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti» (λεῦσσε<br />
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως); «Queste cose io ti esorto a considerare» (τά σ΄<br />
ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα);<br />
(iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero (e<br />
comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4): «Da questa prima via<br />
di ricerca 25 , infatti, ti , e poi da quella...» (πρώτης γάρ σ΄26 ἀφ΄ ὁδοῦ<br />
ταύτης διζήσιος , αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...).<br />
In B7 registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei confronti<br />
del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale<br />
rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica<br />
della Dea. La presunta "terza via" è delineata essenzialmente per distogliere da essa: B6<br />
e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo (e<br />
dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla sul compito<br />
arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via dell'essere» 27 .<br />
Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave performativa l’efficacia<br />
comunicazionale del poema, ha sottolineato lo specifico effetto identificativo<br />
sull’audience. Essa è stata incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della<br />
comunicazione divina: un «uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida<br />
di Themis e Dikē (B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le<br />
alternative «per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a<br />
condurre alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette<br />
in guardia, dal momento che:<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né potresti indicarlo» (B2.7-8).<br />
Ora, le vie dei mortali, nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla:<br />
così in B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune<br />
di guardare alle cose e di esperirle 28 , insistendo a stigmatizzarne confusione e<br />
distorsione.<br />
In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu» ai «mortali» (e alle loro<br />
vie confuse), il riferimento della Robbiano allo schema dissuasivo dell’antimodello 29 :<br />
tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo negativo (un antimodello, appunto),<br />
25 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo<br />
riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a<br />
costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude<br />
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52:<br />
ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν<br />
«Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere».<br />
26 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄.<br />
27 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9.<br />
28 Robbiano, op. cit., p. 97.<br />
29 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle<br />
rhétorique, Paris 1958, §80: le modèle et l’antimodèle.<br />
246
così da condizionare nella scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna.<br />
Imboccare la via sbagliata implicherebbe, infatti, essere assimilati a una tipologia<br />
umana con cui nessuno intende identificarsi 30 .<br />
Da questa via di ricerca…<br />
Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse direttamente<br />
dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe a tenersi alla larga<br />
(B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν), diversa da quella evocata in B6.4,<br />
inventata da «mortali che nulla sanno»:<br />
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8‐9] καὶ<br />
ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.]<br />
Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile<br />
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2],<br />
soggiunge [citazione B8.1 ss.]» (In Aristotelis Physicam 78.2).<br />
Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel senso che a<br />
essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata nella posizione<br />
espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per<br />
questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove,<br />
come abbiamo già segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva<br />
del fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali».<br />
Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche 31 (e altri) hanno avanzato: la via di<br />
ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano,<br />
quella appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una terza<br />
via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime<br />
da un punto di vista razionale (quello della Dea).<br />
Il pensiero e l’abitudine<br />
I versi che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine<br />
dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»:<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,<br />
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν<br />
καὶ γλῶσσαν<br />
«né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,<br />
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante<br />
e la lingua» (B7.3-5).<br />
Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine<br />
lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione<br />
sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine<br />
quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono appunto (i)<br />
ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5<br />
riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è<br />
contrastata con la valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le<br />
illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche.<br />
30 Robbiano, op. cit., pp. 103-4.<br />
31 Op. cit., p. 120.<br />
247
Costume irriflesso<br />
Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per<br />
marcarne l’origine dalle frequenti esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e<br />
insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quando non è<br />
guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere, inconsapevolmente, a<br />
ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in guardia è giustificata dai<br />
meccanismi irriflessi che condizionano il nostro orientamento: proprio per questo i sensi<br />
non possono essere separati dalla ragione 32 .<br />
È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso dei sensi per effetto<br />
dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος<br />
πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a<br />
giudicare con la ragione è perché lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata,<br />
sotto l’effetto appunto dell’abitudine 33 . Costantemente sottoposti a input sensibili che<br />
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una acritica<br />
dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una spirale di<br />
incomprensioni.<br />
Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di vista:<br />
κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων<br />
«Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime barbare<br />
[balbettanti]» (DK 22B107).<br />
L’Efesio riconosce all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la<br />
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere<br />
sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata dalla capacità di<br />
discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati<br />
sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē,<br />
proposta come istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella<br />
prospettiva parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la<br />
probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, infatti, o al balbettare di chi<br />
non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non<br />
conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di<br />
raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici.<br />
In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi<br />
e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e<br />
assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati<br />
sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano 34 . L’erramento dei<br />
«mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9) come erramento del pensiero,<br />
intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1, potremmo<br />
convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄<br />
ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e<br />
intrattenere su quel percorso 35 . In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in<br />
B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo<br />
con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):<br />
32 Ruggiu, op. cit., p. 267.<br />
33 Conche, op. cit., p. 121.<br />
34 Ivi, p. 122.<br />
35 Ivi, p. 121.<br />
248
τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρποι καὶ πρόσθεν ἢ<br />
ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον∙ γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον<br />
τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων<br />
ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ<br />
ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα<br />
εὕδοντες ἐπιλανθάνονται<br />
«Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di<br />
udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto, infatti, accada secondo questo logos, si<br />
mostrano privi di esperienza, impegnati in parole e azioni quali quelle che io presento,<br />
analizzando ogni cosa secondo <strong>natura</strong> e mostrando come è. Ma gli altri uomini rimane<br />
celato tanto quello che fanno da svegli, quanto quello che fanno dormendo» (DK 22B1).<br />
L’isolamento del filosofo rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini» (τοὺς δὲ<br />
ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole - che<br />
annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione degli uomini (nei<br />
frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le<br />
cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di<br />
quella legge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti.<br />
Ramnoux 36 preferisce allora al termine «abitudine» il termine «costume», per<br />
evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un<br />
punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità.<br />
Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti<br />
ragionando. Conche 37 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine esercita il suo<br />
potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale, con il risultato di alienare<br />
il giudizio personale nel giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei<br />
mortali; la via della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros 38 .<br />
Sempre in relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento<br />
della cultura arcaica, Cerri 39 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto<br />
sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία)<br />
indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie, denotando in<br />
ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a<br />
Solone 40 , impartita con la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b)<br />
esplicitamente condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente<br />
stigmatizzata da Eraclito:<br />
πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει∙ Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην<br />
αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον<br />
«il sapere molte cose non insegna ad aver intelletto; altrimenti lo avrebbe insegnato a<br />
Esiodo, a Pitagora, e altresì a Senofane e a Ecateo» (DK 22B40)<br />
36 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La<br />
referenza è di Conche, op. cit., p. 121.<br />
37 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito.<br />
38 Conche, op. cit., p. 122.<br />
39 Op. cit., pp. 61-2.<br />
40 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e<br />
di indagine conoscitiva» (polypeirias heneka … kai historias).<br />
249
Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ<br />
ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην,<br />
κακοτεχνίην<br />
«Pitagora, figlio di Mnesarco, si è dedicato all’indagine più di tutti e, raccogliendo questi<br />
scritti, ne ha fatto la propria sapienza, il saper molto, cattiva arte» (DK 22B129).<br />
Appoggiandosi a Gemelli Marciano 41 , anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato<br />
come nel contesto presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia<br />
costante la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in<br />
campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di<br />
Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale, che<br />
raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose 42 .<br />
Occhio, orecchio e lingua<br />
La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che<br />
caratterizza il viaggio lungo la via autentica 43 : il logos deve rettificare l’eco confusa<br />
della comune ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la<br />
distorsione:<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,<br />
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν<br />
καὶ γλῶσσαν<br />
«né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,<br />
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante<br />
e la lingua» (B7.3-5).<br />
Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero 44 e nei lirici e<br />
ritornerà ancora in Empedocle (DK 31B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato<br />
a proposito di B6.7, in Eschilo:<br />
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην,<br />
κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων<br />
ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον<br />
ἔφυρον εἰκῆι πάντα<br />
«Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano;<br />
avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni<br />
simili alle forme, la lunga vita<br />
impastavano tutta senza disegno» (Eschilo, Prometeo incatenato, 447-50).<br />
Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da<br />
identificare con le “cose”, cui Parmenide negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al<br />
commercio quotidiano con esse, alla esperienza multipla, quella violenza sul pensiero<br />
che si traduce nella identificazione del reale con il divenire 45 . In verità, la Dea<br />
insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni<br />
41 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires”, in A.<br />
Laks, C. Louguet (eds), Qu’est-ce que la philosophie présocratique? What is Presocratic Philosophy?,<br />
Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2002, pp. 83-114.<br />
42 Robbiano, op. cit., p. 102.<br />
43 Coxon, op. cit., p. 191.<br />
44 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4.<br />
45 Op. cit., p. 201.<br />
250
consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga,<br />
dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di<br />
attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente» 46 .<br />
Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune<br />
di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di<br />
comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una<br />
osservazione della Robbiano 47 , la Dea ammonisce la propria audience che quando si<br />
coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci<br />
pare efficace, della Wilkinson 48 , la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in<br />
modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello<br />
che percepiscono» 49 .<br />
Logos e elenchos<br />
Il frammento si chiude con una esortazione notevole:<br />
κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον<br />
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα<br />
«Giudica invece con il ragionamento la prova polemica<br />
da me enunciata» (B7.5-6).<br />
L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a diventare tecnici<br />
nelle filosofie posteriori - λόγος e ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a<br />
scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione) l’elenchos (qualificato<br />
come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto contestato») appena proposto (sulle<br />
implicazioni temporali del participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La<br />
Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della<br />
forza (razionale) della contestazione condotta. In questo modo:<br />
(i) ogni distanza (tra umano e divino) è annullata sul terreno dell’argomentazione: il<br />
potere del logos può accomunare docente e discente;<br />
(ii) giudicare e discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a<br />
una «prova» destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende<br />
accertare una contraddizione.<br />
Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il risultato del «raccogliere»<br />
(λέγειν), donde una prima associazione semantica alla «numerazione» e le successive<br />
due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e «racconto» (inteso appunto come raccolta e<br />
ordinamento di fatti), quindi «discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento».<br />
Nel nostro contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività<br />
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος risulta<br />
polivalente, designando a un tempo il «pensiero» (come capacità), il suo esercizio, il<br />
«discorso», la sua espressione scritta, il suo significato; esso possiede anche una forte<br />
valenza ontologica, nella misura in cui viene utilizzato per designare la struttura della<br />
realtà, la sua misura interna. Secondo Ruggiu 50 , anche in Parmenide, come in Eraclito<br />
46 Ivi, pp. 201-2.<br />
47 Op. cit., p. 97.<br />
48 Op. cit., p. 105.<br />
49 Enfasi dell’autrice.<br />
50 Op. cit., p. 267.<br />
251
B1, λόγος indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che<br />
(analogamente al νόος) consente di pe<strong>net</strong>rare il senso profondo delle cose.<br />
A determinarne l’accezione è proprio l’associazione con elenchos: il valore etimologico<br />
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare<br />
vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il<br />
significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è colpevole di<br />
una menzogna. È possibile che in questo modo il verbo abbia assunto il senso di<br />
«mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa».<br />
L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata<br />
tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi<br />
di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo<br />
che la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in<br />
quelle posizioni.<br />
La Dea ha prima (B2) sviluppato la disgiunzione fondamentale «è\non-è»; poi (B6, B7)<br />
ha rilevato come i «mortali» si trovino in contraddizione 51 (B6.8-9), contravvenendo<br />
continuamente al divieto implicito nella formulazione delle due vie:<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι<br />
«l’una "che è" e che "non è possibile non essere"»<br />
«l’altra "che non è" e che "è necessario non essere"» (B2.3, B2.5).<br />
Sebbene non formulati, l’elenchos ha di fatto operato con il principio di noncontraddizione<br />
e con il principio del terzo escluso, e in questo senso la «prova» intorno<br />
a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una<br />
«confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè<br />
procedimento dialettico per eccellenza 52 .<br />
51 Heitsch, op. cit., p. 161.<br />
52 Su questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi<br />
aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004.<br />
252
B8 vv. 1-49<br />
Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo<br />
commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono<br />
riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele,<br />
Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono,<br />
Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non<br />
pochi problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde<br />
divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note.<br />
La acribia nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento,<br />
attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8<br />
rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta<br />
probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità<br />
dell’opera) l’intera comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un<br />
primo esame critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione<br />
convenzionalmente designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola<br />
doveva coprire i 2\3 dell’opera):<br />
καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ<br />
Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε<br />
τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου<br />
συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν<br />
«anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti<br />
versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità<br />
dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52]»<br />
(Simplicio, Commentario alla Fisica, 144.25-29).<br />
Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti,<br />
ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare<br />
l’attenzione prima sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più<br />
sistematico a discuterne i principi interpretativi della <strong>natura</strong>.<br />
La via «che è» e la Verità<br />
Riguardo alle tesi di Parmenide, Diogene (IX.22), in effetti, afferma:<br />
δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν<br />
«Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo<br />
opinione».<br />
Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal<br />
programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.:<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα<br />
«Ora è necessario che tutto tu apprenda:<br />
sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,<br />
sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità.<br />
Eppure anche questo imparerai: come le cose accettate [nelle opinioni]<br />
253
era necessario esistessero in modo plausibile, tutte insieme davvero esistenti».<br />
Nella sezione indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come<br />
Verità 1 , ritroveremmo dunque - concentrato sostanzialmente in B8 - l’insegnamento<br />
(πυθέσθαι, anche «imparare») del «cuore fermo di Verità ben rotonda» (ἀληθείης<br />
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito<br />
nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe<br />
(nella nostra interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del<br />
programma: conterrebbe cioè una «plausibile» lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») in<br />
merito a τὰ δοκοῦντα (quanto accettato nell'opinione corrente).<br />
È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che<br />
le citazioni relative siano più numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui<br />
supponiamo fosse articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura<br />
proemiale, che si prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età<br />
ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione<br />
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il testo (forse<br />
da fonte non attica 2 ). In genere, però, già la produzione filosofica del V secolo a.C.<br />
attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità della Verità, che<br />
doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come<br />
vedremo, sia molto probabile che i "<strong>natura</strong>listi" posteriori, da Empedocle agli atomisti 3 ,<br />
abbiano adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la<br />
consistente eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo<br />
subordinatamente (soprattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva<br />
presentarsi come una più tradizionale trattazione peri physeōs.<br />
La via che è<br />
L’attacco del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto:<br />
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο<br />
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι<br />
πολλὰ μάλ΄, ὡς…<br />
«Unica parola ancora, quella della via<br />
che "è", rimane; su questa [via] sono segnali<br />
molto numerosi: che …».<br />
Esplicito il richiamo a B2.1-4:<br />
1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di<br />
Persuasione».<br />
2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e<br />
per la sua parafrasi: nel secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,<br />
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema. Passa<br />
ne conclude che è plausibile che Sesto disponesse di una buona copia del proemio, derivata<br />
verosimilmente da un esemplare dell'intero poema.<br />
3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in<br />
Honour of Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp.<br />
51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le caratteristiche ontologiche<br />
illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di<br />
elementi giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di<br />
continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce esplicitamente a Parmenide le proprie<br />
posizioni, si impegnò a giustificare il proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con<br />
il poema.<br />
254
εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας,<br />
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,<br />
Πειθοῦς ἐστι κέλευθος ‐ Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ ‐<br />
«Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola una volta ascoltata -<br />
quali sono le uniche vie di ricerca per pensare:<br />
l’una che "è" e che "non è possibile non essere" –<br />
di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) –».<br />
La ricorrente centralità delle espressioni chiave μῦθος - con riferimento alla istruzione<br />
della Dea (la quale, in B2, sottolinea per altro anche l’atteggiamento con cui il kouros<br />
deve ricevere la sua parola) – e ὁδός, insieme alla ripresa della formula ὡς [ὅπως] ἔστιν,<br />
indica, in apertura di B8, che è giunto il momento di incamminarsi lungo la via che<br />
appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più <strong>net</strong>to nei vv. 15-18:<br />
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.<br />
«Il giudizio in proposito dipende da ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale».<br />
Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la<br />
ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2),<br />
evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (le ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […]<br />
νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.5-<br />
8):<br />
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι,<br />
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«l’altra che "non è" e che "è necessario non essere".<br />
Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:<br />
non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né indicarlo».<br />
La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) in merito al problema essenziale della prima<br />
riflessione filosofica occidentale – il problema dell’origine – è affidata alla<br />
considerazione delle implicazioni di quella alternativa. Come è destino («necessità»,<br />
ἀνάγκη), ricorda la Dea, una via è stata riconosciuta ἀνόητον ἀνώνυμον, in quanto οὐ<br />
ἀληθής ἔστιν ὁδός: non si tratta di una via «genuina», lungo la quale sia realmente<br />
possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa: lo stesso nume aveva osservato (B2.7-8) come<br />
non fosse «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (o definire, φράζειν)<br />
«ciò che non è» (ovvero «il non-essere», τό μὴ ἐὸν). Εssa, di conseguenza, risulta<br />
«impensabile», né è possibile determinarla (è «indicibile», letteralmente «senza nome»).<br />
All’inizio di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», dopo aver (i) scartato<br />
l’alternativa (ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) e (ii) denunciato<br />
255
l’inconsistenza della presunta via di cui si illudono βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali che<br />
nulla sanno» B6.4) – incapaci di discriminare tra πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι (B6.8), non<br />
rimane che (iii) imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον): quella, appunto, ὡς ἔστιν («che è»<br />
ovvero «come è»), la quale sinteticamente designa la formula più pregnante: ὅπως ἔστιν<br />
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι («che "è" e che "non è possibile non essere"»). Muoversi sul<br />
terreno di «è» e «non è possibile non essere», rinunciando a dare consistenza a «non-è»<br />
e «è necessario non essere» 4 , garantisce intelligibilità e comprensione della realtà 5 .<br />
Una sola parola<br />
L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare -<br />
e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla<br />
successiva notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39):<br />
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ<br />
«Per esso [ciò che è, l'essere] tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali»,<br />
ma anche al rilievo della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con<br />
una formula indicativa:<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων.<br />
«A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali<br />
impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare» (B8.50-52).<br />
La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contorni della realtà attraverso<br />
l’esclusione sistematica di ciò che, nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela<br />
ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula<br />
della prima «via»:<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l’una che "è" e che "non è possibile non essere"».<br />
In questo senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente<br />
(κρῖναι δὲ λόγῳ) la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse –<br />
ipotizzando una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il<br />
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII 111 e 114) – l’apertura con<br />
l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται.<br />
Tale μόνος μῦθος è relativo alla «via che "è"» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui - in termini<br />
filosoficamente significativi - la Dea informa (vv. 2b-3a):<br />
ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι<br />
πολλὰ μάλ΄…<br />
4 Sul rilievo della formulazione e della concezione modale delle «vie» parmenidee ha insistito di recente<br />
l'interpretazione di J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009.<br />
5 Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si veda in particolare L.<br />
Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30.<br />
256
«su questa [via] sono segnali<br />
molto numerosi…».<br />
Il discorso è unico, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i<br />
«segni» (σήματα) che consentono di identificarla 6 , molti gli argomenti che possono<br />
essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος<br />
e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di Odisseo da parte di<br />
Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità<br />
di una persona 7 .<br />
Sarà allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e<br />
dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi<br />
ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa la<br />
molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά<br />
articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος<br />
(«percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la<br />
«via che "è" e che "non è possibile non essere"» si esprime – non solo per<br />
l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale –<br />
quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali»<br />
(ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una differenza<br />
significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la<br />
πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni<br />
correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a trattenere<br />
dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28):<br />
ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος<br />
τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής<br />
«poiché nascita e morte<br />
sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare».<br />
Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione<br />
teorica corrente, mettendo in guardia il kouros:<br />
ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
[…] ἄκριτα φῦλα,<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν […]<br />
«[ti trattengo?] da quella [via] che mortali che nulla sanno<br />
s’inventano […] schiere scriteriate,<br />
per i quali esso [ciò che è] è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa […]»<br />
οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα·<br />
ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω<br />
«Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono.<br />
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero;<br />
né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza».<br />
6 Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9.<br />
7 Ibid.<br />
257
In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che<br />
cosa effettivamente consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che,<br />
prescindendo dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i<br />
fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli:<br />
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,<br />
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,<br />
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν<br />
«Per esso tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali:<br />
nascere e morire, essere e non essere,<br />
cambiare luogo e mutare luminoso colore».<br />
L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed<br />
espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i mortali<br />
parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà pensano o parlano di ciòche-è<br />
8 . Questa è la lezione che si ricava dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del<br />
linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata)<br />
cosmologia ionica. Una lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),<br />
condotta escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa<br />
attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione.<br />
In questa prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento<br />
che spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il<br />
«discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) –<br />
all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα B1.31), da ridurre a uno<br />
schema interpretativo accettabile (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32).<br />
È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne con<br />
formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ<br />
ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale. La «parola»,<br />
infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e<br />
superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)»,<br />
«Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)».<br />
La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente determinata: è<br />
sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa – conseguenza dell’adozione di un<br />
punto di vista che potremmo definire “umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε<br />
(«da questo momento in poi opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente,<br />
nell’abbandonare la parola garantita e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi<br />
σήματα), è la Dea stessa a mettere in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso<br />
affidabile» (πιστὸν λόγον), del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης),<br />
alla ricostruzione potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων,<br />
«ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare»). L’attuale frammento B19<br />
confermerà i limiti “umani” di quella prospettiva (κατὰ δόξαν), tanto nell’instabilità del<br />
suo oggetto empirico (gli enti in divenire), quanto nella sua peculiare costruzione<br />
linguistica:<br />
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι<br />
8 R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205.<br />
258
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα·<br />
τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ<br />
«Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono,<br />
e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine.<br />
A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna».<br />
La via e i suoi «segnali»<br />
La Dea si affretta a osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come:<br />
ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι<br />
πολλὰ μάλ΄<br />
«su questa [via] sono segnali<br />
molto numerosi».<br />
Il rilievo è importante perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina,<br />
sottraendola all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà<br />
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente è<br />
introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso (κέλευθος) è<br />
<strong>natura</strong>le, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il<br />
compito educativo della Dea diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la<br />
conoscenza della via, di guidare alla comprensione dell’essere.<br />
I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione,<br />
il riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere<br />
consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν. La «via», ricordiamolo, è connotata come ὡς<br />
ἔστιν, la «via che "è"», ovvero, come altri preferisce, la «via come è». In questo caso la<br />
<strong>natura</strong> descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più <strong>net</strong>ta.<br />
Simplicio (Phys., 78.11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre<br />
come «connotazioni dell’essere che veramente è».<br />
Segnali<br />
La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non integralmente) per<br />
l’analisi:<br />
ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,<br />
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,<br />
ἕν, συνεχές<br />
«che senza nascita è ciò che è e senza morte,<br />
tutto intero, uniforme, saldo e senza fine;<br />
né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,<br />
uno, continuo».<br />
Dei molti problemi testuali abbiamo dato notizia in nota. Qui interessa tentare di<br />
comprendere che cosa i σήματα rappresentino per l’autore.<br />
Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione che abbiamo proposto (una delle<br />
possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo<br />
259
stesso emerso in B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι) e, apparentemente 9 , due<br />
serie di predicati:<br />
(i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον;<br />
(ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές.<br />
I «segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche che si<br />
possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà più<br />
chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato) - della<br />
κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto: predicati<br />
essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla stessa nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ<br />
ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν (τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti<br />
all’essere, essi ne manifestano la <strong>natura</strong>. È plausibile nel contesto che la Dea intenda<br />
σήματα e ἔλεγχος non disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo<br />
richieda non semplicemente il catalogo ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal<br />
punto di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo appare<br />
preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6:<br />
κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον<br />
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα<br />
«Giudica invece con il ragionamento la prova polemica<br />
da me enunciata».<br />
I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale concettuale su cui esercitare la<br />
razionalità del kouros, con un duplice scopo: (i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν;<br />
(ii) fargli prendere coscienza delle inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche,<br />
forse pitagoriche). Si tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura<br />
in cui il riconoscimento della <strong>natura</strong> di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa di<br />
distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la contestazione di lezioni<br />
concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a) il nesso tra pensiero (addirittura<br />
nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e essere:<br />
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.<br />
Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,<br />
εὑρήσεις τὸ νοεῖν<br />
«La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»:<br />
giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,<br />
troverai il pensare».<br />
Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3:<br />
τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι<br />
«La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere»,<br />
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
9 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno iniziare l’analisi dei<br />
segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente<br />
σήματα.<br />
260
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti;<br />
non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere…».<br />
L’aspetto che appare tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che<br />
alcuni dei «segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –<br />
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,<br />
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita e morte,<br />
accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro modo anche le<br />
filosofie ioniche avevano ottenuto, ma, come rivelerebbe la discussione parmenidea, in<br />
modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα possono essere letti come elementi<br />
concettuali espressamente rivolti a contestare i metodi tradizionali di interpretazione<br />
dell’universo 10 . Il catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni<br />
contributi della elaborazione cosmologica arcaica 11 :<br />
(i) il paradigma di fondo della cosmogonia (B8.6-21);<br />
(ii) il modello esplicativo per successive differenziazioni – quale è possibile intravedere<br />
nelle testimonianze su Anassimandro e Anassimene (B8.22-25);<br />
(iii) la riflessione sul mutamento – cui possono ricondursi in parte i frammenti di e le<br />
testimonianze su Anassimene e Eraclito (B8.26-31);<br />
(iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che possiamo ritrovare nelle<br />
testimonianze su Anassimandro (B8.32-49).<br />
È allora possibile che la <strong>natura</strong> dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,<br />
concettualmente dedotti dalla nozione di «essere», bensì quella di contrafforti dialettici<br />
scaturiti dal confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,<br />
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via» consisterebbe<br />
nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo di assunzioni<br />
acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta discutiva e confutatoria<br />
dell’analisi di Parmenide.<br />
La via, i segnali e la guida<br />
D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai «segnali» nel contesto<br />
della propria istruzione al kouros, del proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida<br />
attraverso σήματα, che impegnano razionalmente. La tradizione li conosceva come<br />
«segni augurali» che gli indovini dovevano interpretare 12 , come mezzi di rivelazione di<br />
una potenza superiore 13 . In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso<br />
modello nel frammento DK22 B93:<br />
ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ<br />
σημαίνει<br />
«Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde, ma dà segni».<br />
Anche la dea di Parmenide invia segnali ai mortali, per far conoscere cose normalmente<br />
fuori della loro portata: Robbiano e Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare<br />
come il termine σήματα non si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2-6,<br />
quanto ai successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il<br />
10 Robbiano, op. cit., p. 109.<br />
11 Ibidem.<br />
12 Cerri, op. cit., p. 219.<br />
13 Mansfeld, op. cit., p. 104.<br />
261
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In questa<br />
prospettiva – come rilevato da Mourelatos 14 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν) si salderebbero<br />
nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è necessario percorrere la<br />
strada «che è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i segnavia.<br />
L’accostamento al modello oracolare - giustificato non solo dalle implicazioni tra<br />
σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale tra σήματα e σημεῖον, termine per<br />
«segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e «responso oracolare» (testo verbale) – è ricco<br />
di risvolti significativi nel contesto.<br />
Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: in esso irrompe nell'ambito<br />
umano, per condensarsi poi nel responso, la sapienza divina: la parola del responso è<br />
umana come suono, ma rivela una conoscenza che separa l'uomo dal dio 15 . Ora, non vi è<br />
dubbio che Parmenide rielabori, in forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo<br />
scarto conoscitivo e il suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento<br />
privilegiato. Come ricorda la Robbiano 16 , la dea di Parmenide evoca un dio che manda<br />
segnali ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata: non<br />
dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza delle cose<br />
che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato (Iliade I.68-72):<br />
[…] τοῖσι δ’ ἀνέστη<br />
Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος,<br />
ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα,<br />
καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω<br />
ἣν διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων<br />
«Si alzò allora<br />
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore degli indovini,<br />
il quale conosceva le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono,<br />
e aveva guidato le navi degli Achei fino a Ilio<br />
grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo».<br />
In Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al pieno<br />
dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli per il kouros; è la<br />
divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini e discorsi: essa riassorbe in sé,<br />
insieme alla funzione rivelativa, anche quella di μάντις e προφήτης, marcando<br />
l’eccezionalità del privilegio concesso. Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni<br />
cosa» (Pindaro), la visione simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni<br />
che l’indovino deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.<br />
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse (le quali<br />
garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello sviluppo del canto), ma<br />
“laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque diversamente declinata.<br />
La Dea non “ispira” propriamente un canto, piuttosto insegna argomentando; pur<br />
marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica razionalmente, insistendo sulla<br />
«forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale<br />
credibilità», πίστις ἀληθής), per giustificare con il proprio interlocutore (che quindi non<br />
deve supinamente accogliere ma riflettere su quanto comunicato) i σήματα: interpretarli<br />
significa nel nostro contesto ricavarli razionalmente dai principi introdotti in B2. Alla<br />
ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una sostanziale revisione: è attraverso<br />
14 Op. cit., p. 94.<br />
15 Su questo punto si veda G. Ma<strong>net</strong>ti, Le teorie del segno nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987.<br />
16 Op. cit., p. 126.<br />
262
ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato della «via che "è"»; è contestando ed<br />
escludendo errate assunzioni di senso comune e contributi teorici concorrenti che ella<br />
viene determinandola dialetticamente.<br />
È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide scelga di proporre in prima<br />
istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni», quindi un prolungato sforzo<br />
argomentativo – un unicum nel panorama della produzione arcaica –, sostenuto da una<br />
serie di immagini plastiche (catene, legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo<br />
sapientemente intessuti ἔλεγχος, metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti<br />
inscindibili di una stessa esperienza comunicativa.<br />
Segnavia<br />
L’attacco di B8 sottolinea dunque una volta di più il ruolo della guida divina e la<br />
centralità del tema della via: è la Dea, infatti, a ricordare come (di quel che precede, da<br />
quanto già esposto) rimanga ancora solo la possibilità di un μῦθος; è la Dea ad<br />
annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso sarà discorsivo. È la Dea,<br />
insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità della via che resta (ὡς ἔστιν), ma<br />
prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il giovane discepolo deve sostenere. Come<br />
opportunamente osservato da Coxon 17 , B8 è introdotto da un resoconto delle evidenze<br />
lungo la via, sulla quale, nella narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti<br />
di B8 valgono quindi come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la<br />
direzione e percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata<br />
come Πειθοῦς κέλευθος.<br />
Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di evidenze da<br />
sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6):<br />
ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,<br />
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,<br />
ἕν, συνεχές<br />
«che senza nascita è ciò che è e senza morte,<br />
tutto intero, uniforme, saldo e senza fine;<br />
né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,<br />
uno, continuo».<br />
Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν:<br />
(i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον;<br />
(ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές.<br />
L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per<br />
privilegiare questi enunciati:<br />
γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος<br />
«è estinta nascita e morte oscura» (B8.21)<br />
πᾶν ἐστιν ὁμοῖον<br />
«è tutto omogeneo» (B8.22)<br />
17 Op. cit., p. 193.<br />
263
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται<br />
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει<br />
«Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,<br />
e, così, stabilmente dove è persiste» (B8.29-30)<br />
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·<br />
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές<br />
«non incompiuto l’essere [è] lecito che sia:<br />
non è, infatti, manchevole [di alcunché]» (B8.32-33).<br />
In questo senso appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos 18 (ripresa di recente<br />
anche da Robbiano 19 ), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui<br />
seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento:<br />
B8.6-21: ἀγένητον (ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro);<br />
B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον (indiviso);<br />
B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile);<br />
B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον (non incompiuto);<br />
B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto).<br />
Possiamo precisare leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος)<br />
di quattro σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma, nella<br />
nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare gli altri: (i) «senza<br />
nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii) «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον<br />
B8.22-25); (iii) «immobile» (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,<br />
τετελεσμένον B8.32-49).<br />
Di recente McKirahan 20 ha proposto un elenco più minuzioso, classificando con una più<br />
articolata suddivisione in gruppi tutti i predicati:<br />
A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro)<br />
B: οὖλον (intero) τέλειον 21 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene<br />
insieme)<br />
C: οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora)<br />
D: ἀκίνητον (immobile) ἔμπεδον (immutabile)<br />
E: ἀτρεμὲς (stabile)<br />
F: μουνογενές (unico 22 ) ἕν (uno).<br />
Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo precisato,<br />
integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di McKirahan.<br />
Ingenerato (e imperituro)<br />
Il vero e proprio attacco argomentativo del frammento è formulato come interrogazione<br />
(vv. 6-7) 23 :<br />
τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;<br />
18 Op. cit., p. 95.<br />
19 Op. cit., p. 108.<br />
20 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited<br />
by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 191.<br />
21 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον.<br />
22 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme».<br />
23 Ma alcuni sostengono che l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄<br />
ἔσται...<br />
264
πῇ πόθεν αὐξηθέν;<br />
«Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?<br />
Come e donde cresciuto?».<br />
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si limiterà a<br />
ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico confronto<br />
dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso comune) che è necessario<br />
confutare per dimostrare la propria tesi.<br />
Un possibile modello argomentativo<br />
I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata) che abbiamo accolto e tradotto 24<br />
- possono esemplificare efficacemente la struttura del procedimento razionale di<br />
Parmenide:<br />
οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω<br />
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν<br />
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν<br />
ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν;<br />
οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί.<br />
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς<br />
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
ἀλλ΄ ἔχει·<br />
«Da ciò che non è non permetterò<br />
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare<br />
che "non è". Quale bisogno, inoltre, lo avrebbe spinto,<br />
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?<br />
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla.<br />
Né mai concederà forza di convinzione<br />
che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere<br />
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,<br />
ma [lo] tiene».<br />
L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto<br />
sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione (τίνα γένναν<br />
αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν; ‐ «come e donde<br />
cresciuto?»), la Dea non concede:<br />
(i) che esso possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da<br />
ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος);<br />
(ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ όντος).<br />
Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione della<br />
tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore garanzia di<br />
Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò<br />
che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν).<br />
La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε<br />
(v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove «questo» e<br />
«quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in proposito 25 , appunto<br />
24 Come risulta dalle annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten<br />
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ όντος.<br />
25 Leszl, op. cit., p. 177.<br />
265
ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova<br />
conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus<br />
mathematicos VII.71):<br />
καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ<br />
ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν∙ [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος∙[...]<br />
οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν<br />
«E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti, certamente<br />
è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né<br />
dal non essere [...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato»;<br />
e in Aristotele (Fisica I 8, 191a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati 26 :<br />
Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα.<br />
ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν<br />
ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί<br />
φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν<br />
εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων<br />
ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι∙ οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ<br />
ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι∙ ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς<br />
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν.<br />
«Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel<br />
che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la<br />
<strong>natura</strong> delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza.<br />
Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che<br />
si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile<br />
che ciò accada in entrambi i casi 27 . L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla<br />
può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E<br />
sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il<br />
molteplice, ma solo l'essere stesso».<br />
Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys., 77, 9; 162, 11), offre questo<br />
senso:<br />
καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος<br />
αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος<br />
«Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che<br />
esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non<br />
essere» (162, 11).<br />
Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una<br />
dimostrazione dialettica rigorosa 28 :<br />
(i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi<br />
contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma gorgiana: εἰ γὰρ<br />
γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è<br />
ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν);<br />
26 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti,<br />
che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati.<br />
27 Enfasi nostra.<br />
28 Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo<br />
dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di<br />
tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica.<br />
266
(ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano<br />
necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ όντος (secondo lo schema<br />
citato da Simplicio);<br />
(iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi<br />
(nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa<br />
da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν).<br />
Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene<br />
(monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e<br />
un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito<br />
(retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di<br />
Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra<br />
«forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), «giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη).<br />
Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità:<br />
οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω<br />
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν<br />
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι<br />
«Da ciò che non è non permetterò<br />
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare<br />
che non è»<br />
il riferimento a B2.7-8 e B6.1:<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né indicarlo»<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι<br />
«È necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è"».<br />
Questo comporta che quanto leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato<br />
in una costruzione argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone<br />
(e talvolta richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle<br />
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il rifiuto del<br />
secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da pensare, dire<br />
e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di indagine («che è»), insieme<br />
alla conseguente esclusione di una effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono<br />
a Parmenide di operare di fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo<br />
escluso» 29 : donde l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero ammettere<br />
qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia 30 .<br />
D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a:<br />
τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi (v. 7b:<br />
οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che<br />
complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν,<br />
ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-<br />
29 Conche, op. cit., p. 142.<br />
30 McKirahan, op. cit., p. 192.<br />
267
18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce<br />
il ragionamento è comunque quello di una rivelazione.<br />
Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma<br />
apodittica della comunicazione divina: come osserva Mansfeld 31 , i «segni» sono ricavati<br />
- immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, la verità delle cui<br />
premesse è garantita dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta<br />
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:<br />
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i processi (e<br />
progressi) del pensiero in B8 32 . Ella sollecita l’autonomia del discepolo, ma lo invita a<br />
registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a quanto comunemente assunto dai<br />
«mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede” lo stesso esercizio razionale,<br />
assicurandone le premesse, così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike,<br />
Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo) ciò che, secondo l’istruzione razionale,<br />
pretende di dominare – di fronte al pensiero –senza eccezione (ἐόν) 33 .<br />
Nascita e crescita<br />
Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si apra con tre interrogativi,<br />
che offrono alla Dea l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν;<br />
essi sono così formulati (vv. 6b-7a):<br />
τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;<br />
πῇ πόθεν αὐξηθέν;<br />
«Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?<br />
Come e donde cresciuto?».<br />
È possibile intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti:<br />
(i) vv. 7b-9a:<br />
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω<br />
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν<br />
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι<br />
«Da ciò che non è non permetterò<br />
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare<br />
che non è»;<br />
(ii) vv. 9b-10:<br />
τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν<br />
ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν;<br />
«Quale necessità lo avrebbe mai spinto,<br />
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?»<br />
(iii) vv. 12-13a:<br />
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς<br />
31 Op. cit., pp. 103-4.<br />
32 Mansfeld, op. cit., p. 106.<br />
33 Su questo in particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et<br />
Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice<br />
traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247.<br />
268
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό<br />
«Né mai concederà forza di convinzione<br />
che nasca qualcosa accanto a esso».<br />
Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a:<br />
τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
ἀλλ΄ ἔχει<br />
«Per questo né nascere<br />
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,<br />
ma [lo] tiene».<br />
Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare a distinti<br />
argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi retorici (vv. 9-10) e<br />
la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare l’incalzare dialettico di un<br />
confronto, i cui termini di riferimento – il sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e<br />
il participio αὐξηθέν («cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano<br />
direttamente al problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due<br />
espressioni verbali sintomatiche: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare<br />
origine», da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche<br />
«sorgere, nascere», da cui φύσις, «<strong>natura</strong>»).<br />
In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν)<br />
potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come<br />
riferentesi alle condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il<br />
«come?») che richiede un’origine («donde?») 34 . Analogamente gli argomenti possono<br />
essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro l’ipotesi di γένεσις<br />
di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più<br />
efficacemente le condizioni di possibilità.<br />
Nascita e morte oscura<br />
Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei<br />
significati originari) ha fatto supporre 35 che Parmenide nel nostro passo discuta il senso<br />
stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi originari termini costitutivi, di<br />
fatto attaccando la riduzione dell’Essere a φύσις. In particolare, obiettivi della<br />
confutazione sarebbero Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?)<br />
e i pensatori ionici (per la ricerca della ἀρχή) 36 . Esemplari in questa prospettiva i<br />
frammenti di Anassimandro:<br />
ἀρχὴn ... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν<br />
φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν<br />
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. (Simplicio, Fisica 24, 13, DK<br />
12B1)<br />
«principio delle cose che sono è l’infinito ... dalle quali cose invero le cose che sono hanno<br />
la loro origine, ed è secondo necessità che la loro distruzione avvenga verso quelle stesse<br />
cose [ovvero: è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno<br />
34 McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112.<br />
35 Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289.<br />
36 Ivi, p. 290.<br />
269
origine, avvenga anche la loro distruzione]; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il<br />
riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo»<br />
ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι καὶ ἀ γ ή ρ ω (Hippolitus, Ref.<br />
I 6, 1, DK 12B2)<br />
«che essa [una certa <strong>natura</strong> dell’infinito] è eterna e non invecchia»<br />
ἀθάνατον .. καὶ ἀνώλεθρον ( τὸ ἄπειρον = τὸ θεῖον) (Aristotele<br />
Fisica, III 4 203 b13, DK 12B3)<br />
«immortale .... e indistruttibile».<br />
Il frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo<br />
commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno<br />
degli ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei<br />
fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata 37 , è inserita in una presentazione<br />
delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di vista per intenderne<br />
correttamente le parole:<br />
«[A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο<br />
τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν<br />
καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας<br />
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους∙ ἐξ ὧν δὲ ... τάξιν [B 1],<br />
ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα<br />
μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι<br />
τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα∙ οὗτος δὲ οὐκ<br />
ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν<br />
ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]<br />
«Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando<br />
per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né<br />
alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra <strong>natura</strong> infinita, da cui<br />
originano tutti i cieli e i mondi in essi: [citazione B1]. Così si esprime in termini molto<br />
poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro<br />
elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto<br />
qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione<br />
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...]»<br />
(Simplicio, Fisica 24, 13 DK 12A9).<br />
Dal complesso di testimonianza e citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di<br />
Anassimandro sei aspetti su cui si sarebbe concentrata la sua indagine:<br />
(i) l’ἄπειρον come «principio delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων);<br />
(ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la totalità degli enti della nostra esperienza 38 ,<br />
sottoposti ai processi di generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά);<br />
(iii) il donde (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le «cose che sono» hanno la loro generazione:<br />
nel contesto molto probabile il riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio<br />
peripatetico della testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui<br />
esse si fomerebbero direttamente, come documentato da Pseudo-Plutarco (DK 12A10):<br />
37 Per l’analisi relativa si rinvia al fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of<br />
Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 3 , in particolare alla prima parte, dedicata alla<br />
documentazione dossografica.<br />
38 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora<br />
un riferimento imprescindibile.<br />
270
φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε<br />
τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι<br />
περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φ λ ο ι ό ν<br />
«[Anassimandro] sostiene che ciò che, dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu<br />
separato alla generazione di questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò<br />
intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza intorno all'albero»;<br />
(iv) il verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la loro<br />
corruzione: gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono;<br />
(v) il come tale processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo<br />
l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 39 ;<br />
(vi) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale<br />
tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας).<br />
Da un punto di vista filologico, Kahn 40 ha convincentemente insistito sulla probabile<br />
genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le<br />
ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare<br />
interesse la conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di<br />
γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto alla<br />
plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e Eschilo), come<br />
in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη<br />
(«crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate<br />
(τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19).<br />
Secondo quanto attesta Ippolito (DK 12A11):<br />
οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς<br />
οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν<br />
καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς<br />
γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς<br />
«Egli [Anassimandro] disse che principio [origine] di tutte le cose che sono è una certa<br />
<strong>natura</strong> dell'infinito, da cui si generano i cieli e l'ordine [il cosmo] in essi. Tale <strong>natura</strong> è<br />
eterna e non invecchia: essa, inoltre, abbraccia tutti i mondi. Egli parla poi del tempo come<br />
di determinazione della nascita e della sostanza e della dissoluzione»,<br />
di quella «certa <strong>natura</strong> dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe<br />
inoltre sostenuto che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati<br />
analoghi a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione»<br />
(ἀνώλεθρον) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro,<br />
aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso<br />
marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον).<br />
Ora, è possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti<br />
proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali<br />
(ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono<br />
esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος)<br />
qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa «nascere»<br />
39 Secondo S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione<br />
rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in<br />
"Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit.,<br />
pp. 89-133).<br />
40 Op. cit., pp. 168 ss..<br />
271
(φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro soprattutto il<br />
disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e γέννα (cui si deve<br />
aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che è» (ἐκ όντος) possa<br />
generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a esso» (τι παρ΄ αὐτό).<br />
È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione, insista sulla γένεσις, senza<br />
produrre, in effetti, una specifica argomentazione a supporto della incorruttibilità<br />
(ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo<br />
concludere 41 che Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti<br />
anche per ἀνώλεθρόν (considerando l’affermazione della indistruttibilità dell’essere<br />
implicita nell’esclusione della sua generabilità 42 ); ovvero che non ritenesse necessario<br />
confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o<br />
ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente, egli<br />
connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di oblio)<br />
come aveva fatto per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di informazioni»<br />
B2.6) 43 .<br />
D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era<br />
parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere<br />
teogonico) 44 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe<br />
confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra:<br />
(i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione alla instabilità<br />
degli elementi (στοιχεία);<br />
(ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che scaturiscono per<br />
«separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς<br />
ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio conflitto il processo cosmogonico<br />
(ovvero, più correttamente, la «cosmo-gono-phthoria» 45 );<br />
(iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine di generazione e corruzione.<br />
Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come, secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a<br />
implicare la stessa incorruttibilità abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso<br />
immediatamente connesso (i cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di<br />
«generazione», nel duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di<br />
produzione di altro essere.<br />
Aristotele, i Milesi e Parmenide<br />
Possiamo trovare un'eco della discussione arcaica sulla «generazione» nella<br />
ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia (Metafisica I.3): a proposito della<br />
posizione della «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων<br />
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων)<br />
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), Aristotele<br />
osserva (983b8-13):<br />
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται<br />
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο<br />
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε<br />
41 Con McKirahan, op. cit., p. 193.<br />
42 Tarán, op. cit., p. 106.<br />
43 Mourelatos, op. cit., p. 97.<br />
44 Ibidem.<br />
45 A. Laks, Introduction à la «philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10.<br />
272
γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ<br />
σωζομένης<br />
«ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e<br />
verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece<br />
mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e<br />
per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale<br />
<strong>natura</strong> si conserva sempre».<br />
Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della tradizione filosofica<br />
ritroveremmo, per dar conto del divenire degli enti, l’applicazione di un principio: nulla<br />
si genera (dal nulla) e nulla si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una<br />
forma di "monismo materialistico" 46 , di riduzione del molteplice empirico all'unità<br />
soggiacente del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè<br />
verso «quella <strong>natura</strong> che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης),<br />
richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare e non al<br />
plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale posizione che<br />
riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον), Aristotele si riferisce implicitamente<br />
agli Eleati in questi termini (984a29-984b1):<br />
ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ<br />
ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ<br />
φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ<br />
τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν∙ καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν<br />
«ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti da una tale ricerca, affermano<br />
che l’uno è immobile e così anche l'intera <strong>natura</strong>, non solo rispetto alla generazione e alla<br />
corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche<br />
rispetto a ogni altro mutamento: e questo era loro peculiare».<br />
L’inciso nel passo rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i<br />
primi filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che<br />
non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a<br />
Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è risultato della “estremizzazione”<br />
della stessa doxa adottata dagli Ionici 47 . In pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta<br />
di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio<br />
esplicativo di fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica<br />
dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che<br />
avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori dell’ambito<br />
della filosofia della <strong>natura</strong>.<br />
Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema<br />
interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle<br />
testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la<br />
possibilità di una lettura diversa: dalla <strong>natura</strong> individuata come origine (ἀρχή) si<br />
sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà<br />
46 Secondo l'acuta lettura di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of the Scientific<br />
Philosophy, Princeton University Press, Princeton 2006, pp. 48 ss..<br />
47 <strong>Sulla</strong> ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di<br />
Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the<br />
Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del<br />
discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.<br />
355-380, in particolare pp. 362 ss..<br />
273
elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: in Pseudo-Plutarco DK 12A10 si<br />
accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico,<br />
che ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo 48 , e che avrebbe suscitato<br />
dunque almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la<br />
riflessione posteriore:<br />
(i) perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle<br />
altre?<br />
(ii) come è possibile che una <strong>natura</strong> ne produca altre?<br />
Da ciò che non è...<br />
Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi sull’origine di «ciò<br />
che è» espressi all’inizio della sezione:<br />
τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;<br />
πῇ πόθεν αὐξηθέν;<br />
«Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?<br />
Come e donde cresciuto?»,<br />
la Dea, come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che<br />
ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di<br />
due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei<br />
frammenti precedenti:<br />
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω<br />
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν<br />
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι<br />
«Da ciò che non è non permetterò<br />
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare<br />
che "non è"». (vv. 7b-9a).<br />
Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di<br />
quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca per<br />
pensare» (B2.2); (ii) «una [pensa, afferma] che "è"» (B2.3), «l’altra [pensa, afferma]<br />
che "non è"» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής<br />
ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6):<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né indicarlo» (B2.7-8);<br />
(iv) è allora «necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è è"» (cρὴ τὸ λέγειν<br />
τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1).<br />
48 Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos, cit., capp. 3 e 4.<br />
Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of<br />
Ionian philosophy" Oxford Studies in Ancient Philosophy, 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides<br />
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate,<br />
Aldershot 2002, pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. Elabora un<br />
modello analogo S.A. White, Milesian Measures: Time, Space, and Matter, in The Oxford Handbook of<br />
Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss..<br />
274
Il primo argomento dipende direttamente dalla autorevolezza (e dalla autorità) del μῦθος<br />
divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue<br />
sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che coinvolga la<br />
via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che<br />
non è».<br />
A questa contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10):<br />
τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν<br />
ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν;<br />
«Quale bisogno lo avrebbe mai spinto,<br />
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?».<br />
Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due possibili<br />
interpretazioni:<br />
(i) perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel «nulla»<br />
manca una ragione per cui esso debba sorgere.<br />
(ii) per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe<br />
generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto che prima»)?<br />
In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per cui un momento debba essere<br />
privilegiato rispetto a un altro: non c’è affatto ragione, dunque, per la sua generazione.<br />
In entrambi i casi ci troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per<br />
cui un evento determinato è necessario che abbia la propria «ragione», cioè la propria<br />
causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più antica,<br />
esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti ellenistiche supposto<br />
discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla concettualità eleatica):<br />
οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’ ἀνάγκης<br />
«nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità» (DK 67B2).<br />
In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò che è» è<br />
<strong>net</strong>ta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è ragione per cui «ciò<br />
che è» debba nascere (φῦν) dal nulla.<br />
Ma nella seconda interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di<br />
ragione si aggiungerebbe una ulteriore implicazione: il ricorso consapevole<br />
all'indifferenza rispetto al tempo 49 , per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione<br />
sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto<br />
che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa determinata 50 : (i)<br />
affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii)<br />
ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che<br />
in un altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche momento,<br />
esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il<br />
non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di Anassimandro, nel<br />
cui scritto sarebbe stata presente una particolare applicazione cosmologica del principio,<br />
per giustificare l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste:<br />
τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν<br />
ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν<br />
49 Leszl, op. cit., p. 183.<br />
50 Conche, op, cit., p. 140.<br />
275
«le terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da<br />
tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?]» (Ippolito, DK 12A11)<br />
μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν<br />
«la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale» (Diogene Laerzio, DK 12A1)<br />
εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων<br />
Ἀναξίμανδρος∙ μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι<br />
προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον∙ ἅμα δ’<br />
ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν∙ ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν<br />
«vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra]<br />
rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e<br />
equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il<br />
basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in<br />
direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione» (Aristotele, De Coelo 295 b11-16).<br />
Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in<br />
una direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe<br />
applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare<br />
differenza, ai fini di una ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro.<br />
Appare tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la<br />
mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in<br />
un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non può trovarsi alcuna<br />
necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua<br />
generazione 51 .<br />
Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo:<br />
οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί<br />
«Così è necessario sia per intero o non sia per nulla».<br />
Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del<br />
ragionamento ma solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere<br />
integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe<br />
l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due vie possa<br />
darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato<br />
in nota al testo, McKirahan 52 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica:<br />
segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti,<br />
πάμπαν πελέναι appare plausibile parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto<br />
pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di<br />
«ingenerato» o «ingenerato e incorruttibile».<br />
Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a οὕτως valore<br />
conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16<br />
(«Il giudizio in proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta<br />
incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal non-essere<br />
all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire definitivamente la<br />
possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa essere una diversità<br />
51 Leszl, op. cit., p. 185.<br />
52 Op. cit., p. 194.<br />
276
dell’essere nel tempo 53 . Leszl, in particolare, convinto che l’uso degli avverbi sottolinei<br />
nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo,<br />
interpreta: «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla» 54 . In questo senso la<br />
conclusione – escludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa<br />
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità.<br />
Né mai dall’essere...<br />
Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano:<br />
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς<br />
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό<br />
«Né mai concederà forza di convinzione<br />
che nasca qualcosa accanto a esso».<br />
In pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è» dal nonessere,<br />
la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa: che «ciò che<br />
è» si generi da altro essere.<br />
In che senso, infatti, «qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ<br />
όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ όντος introduca<br />
implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere, cioè che «accanto [o<br />
oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È plausibile che anche qui egli si<br />
confronti direttamente con la riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca<br />
l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga fermo il principio di esclusione del non-essere, che<br />
cosa potrebbe generarsi «accanto [oltre] a esso»?<br />
In pratica ammettere la generazione dall’essere comporterebbe riconoscere che:<br />
ovvero<br />
εἶναι μὴ ἐόντα<br />
«siano cose che non sono» (B7.1),<br />
τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν<br />
«esso [ciò che è, l'essere] è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa» (B6.8-9).<br />
La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella “personale”<br />
utilizzata in B8.7 (ἐάσω ... οὐδὲ «non permetterò che...»): in questo caso la proibizione<br />
risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄ ... ἐφήσει πίστιος<br />
ἰσχύς «Né mai concederà forza di convinzione [certezza]» B8.12), alla linea di pensiero<br />
espressa nel testo precedente.<br />
Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella tradizionalmente accolta sulla<br />
scorta dell’autorevolezza del codice di Simplicio:<br />
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς<br />
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό<br />
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione<br />
che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3)<br />
53 Leszl, op. cit., pp. 185-186.<br />
54 Ivi, p. 185.<br />
277
Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di<br />
generazione dal nulla, che presenta tuttavia una difficoltà: il riferimento, nel contesto,<br />
dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon 55 , per esempio, traduce:<br />
«Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside it from<br />
Not-being»,<br />
riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo<br />
intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld 56 , per sottolineare come ogni origine dal nulla<br />
sia impossibile (il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri 57 , che vi intravede addirittura la<br />
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come Leszl 58<br />
esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una giustificazione del principio<br />
ex nihilo nihil fit: il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di<br />
qualcosa. Conche 59 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire<br />
valore comparativo ad αὐτό («autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea<br />
implicherebbe l’esistenza del Non-essere.<br />
Alcuni 60 di coloro che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non<br />
riconoscono struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto<br />
tre successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e<br />
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al concetto<br />
pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele:<br />
εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ<br />
τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς<br />
ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως∙ καὶ τοῦτ’ εἶναι<br />
πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς∙ τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν<br />
«Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e che esso pe<strong>net</strong>rasse, dall’infinito soffio,<br />
nel cielo [universo] come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà,<br />
quasi essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;<br />
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la<br />
loro <strong>natura</strong>» (Aristotele, Fisica, IV, 6, 213b)<br />
οἱ μὲν οὖν Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ<br />
διστάζειν∙ φανερῶς γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων<br />
εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα<br />
τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος<br />
«Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici non assumano<br />
o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito<br />
l’uno – sia da superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a<br />
indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite»<br />
(Aristotele, Metafisica XIV, 3, 1091a13-18).<br />
55 Op. cit., p. 197.<br />
56 Op. cit., p. 95.<br />
57 Op. cit., p. 224.<br />
58 Op. cit., p. 187.<br />
59 Op. cit., p. 143.<br />
60 Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio.<br />
278
Mondolfo 61 , in particolare, nel complesso della sezione B8.5-21 non coglie<br />
semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e corruzione, in<br />
antitesi ai modelli cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata,<br />
di cui lo studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che<br />
affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva la<br />
generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il<br />
problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione al non-essere. Come<br />
risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe trattato della cosmologia<br />
pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe convincentemente anche la sequenza<br />
di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di<br />
Parmenide.<br />
Pur non escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia<br />
quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che<br />
avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo 62 )<br />
– l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e<br />
ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare all’interno di una<br />
discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che<br />
in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva,<br />
l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui<br />
οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti.<br />
Sarebbe forse praticabile un’altra strada 63 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia<br />
più complessa e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella<br />
lettura parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi<br />
che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse con<strong>natura</strong>to il «non-essere».<br />
Aristotele (Fisica IV, 4, 203 b10-12, DK 12A15) è ancora prezioso:<br />
διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ<br />
περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν<br />
«per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che esso<br />
stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte<br />
governare».<br />
Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον‐ἀρχή che è anche<br />
περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne<br />
ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un “non-ente”,<br />
qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiaro, comunque, che in<br />
questa accezione l’ἄπειρον‐ἀρχή difficilmente avrebbe potuto essere inteso<br />
propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide<br />
vi si possa rivolgere polemicamente.<br />
Giustizia e le sue catene<br />
A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal<br />
non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la<br />
Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a):<br />
61 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e<br />
Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3.<br />
62 Ivi, p. 653.<br />
63 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4.<br />
279
τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
ἀλλ΄ ἔχει<br />
«Per questo né nascere<br />
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,<br />
ma [lo] tiene».<br />
L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della<br />
narrazione avviata con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio<br />
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e<br />
poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi<br />
che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora» 64 . Così<br />
intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro<br />
intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge<br />
dell’Essere» 65 : in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso.<br />
La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del<br />
poema, sia da quello delle specifiche implicazioni:<br />
(i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente<br />
attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di<br />
sorveglianza;<br />
(ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento<br />
delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero e dei<br />
confini, consentendo l’accesso a un mortale;<br />
(iii) θέμις e δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo<br />
discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di μοῖρα κακὴ, ma sotto<br />
l’egida della Giustizia.<br />
Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) -<br />
ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante<br />
nell'architettura dell’opera 66 , elementi di continuità nella sua articolazione, le sue<br />
condizioni “trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è»<br />
e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la<br />
propria mansione di garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno<br />
l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere<br />
dall’esterno 67 , a dispetto della sua assolutezza.<br />
In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare:<br />
essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri<br />
termini preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia<br />
oppositiva nascita-morte 68 . Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume,<br />
quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei<br />
confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si<br />
modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere,<br />
64 Ivi, p. 146.<br />
65 Tarán, op. cit., p. 117.<br />
66 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato<br />
nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, Bruxelles 2008.<br />
67 Robbiano, op. cit., pp. 166-7.<br />
68 Ivi, pp. 174-5.<br />
280
con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere<br />
non si dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative:<br />
οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
ἀλλ΄ ἔχει<br />
«né nascere<br />
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,<br />
ma [lo] tiene» (B8.13-15a)<br />
κρατερὴ Ἀνάγκη<br />
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει<br />
«Necessità potente<br />
nelle catene del laccio [lo] tiene» (B8.30-31)<br />
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν<br />
«Moira [lo] ha costretto...» (B8.37).<br />
La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di<br />
Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa:<br />
Parmenide, reagendo forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico,<br />
avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di<br />
garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare<br />
immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno.<br />
Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,<br />
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non<br />
hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione<br />
dell’audience cui il poema si rivolgeva 69 .<br />
In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato<br />
argomentativo, e la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza<br />
dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis 70 , la difficoltà di Parmenide<br />
a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione<br />
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione<br />
dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza,<br />
rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come<br />
se lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno<br />
statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra<br />
discorso significante e discorso mitico 71 .<br />
Giudizio ed essere<br />
D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-<br />
18:<br />
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·<br />
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,<br />
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον ‐ οὐ γὰρ ἀληθής<br />
ἔστιν ὁδός ‐ τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι<br />
69 Ivi, pp. 166-8.<br />
70 Mythe et philosophie cit., p. 217.<br />
71 Ivi, p. 250.<br />
281
«Il giudizio in proposito dipende da ciò:<br />
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,<br />
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (non è infatti<br />
una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale».<br />
Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14),<br />
«nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν v. 26), «nelle catene del<br />
vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v. 31) – puntano, da un lato, direttamente<br />
alla pratica razionale della decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione<br />
di libertà: il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa<br />
prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ<br />
ἀνάγκη).<br />
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della scelta<br />
dell’ἔστιν:<br />
(i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν 72 ;<br />
(ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche<br />
ἀνόητον ἀνώνυμον;<br />
(iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε<br />
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι).<br />
<strong>Sulla</strong> scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di<br />
cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità<br />
del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto<br />
γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra<br />
formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo<br />
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è<br />
«genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica<br />
realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura<br />
servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete<br />
vorrebbe.<br />
Essere e tempo<br />
I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del<br />
frammento sono ancora di controversa interpretazione:<br />
πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο;<br />
εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι.<br />
τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος<br />
«E come potrebbe esistere infuturo l’essere? E come potrebbe essere nato?<br />
Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro.<br />
Così è estinta nascita e morte oscura».<br />
Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli<br />
avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις‐ὄλεθρος. Il testo e<br />
la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota.<br />
A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla<br />
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche<br />
πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις); tra la stabilità<br />
di «è» (ἔστι) e l’eventualità di «nacque». La convinzione da veicolare con tale<br />
72 Esse richiamano lo schema delle «vie», ma chiaramente presuppongono lo stesso soggetto.<br />
282
costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero<br />
«dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso «non è» (non è sempre allo stesso<br />
modo) 73 , così contraddicendo la formula della prima «via»: «è e non è possibile non<br />
essere» (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è dura sempre uguale a se stesso, come<br />
suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente<br />
come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora).<br />
Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità<br />
delle condizioni designate dai due verbi. Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da<br />
come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà 74 : il mutamento che<br />
implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la <strong>natura</strong> dell’Essere<br />
(ingenerato e immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche 75 , che quel<br />
che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per<br />
l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale<br />
a se stesso.<br />
In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere»<br />
(εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e<br />
«non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre -<br />
indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ<br />
ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι).<br />
In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso<br />
con i vv. 5-6:<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,<br />
ἕν, συνεχές<br />
«né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,<br />
uno, continuo».<br />
Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero<br />
l’eventualità di un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni<br />
momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla» 76 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί<br />
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al<br />
rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica caratterizzazione di ἐόν<br />
rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in<br />
Melisso:<br />
ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι<br />
μηδέν∙ εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός<br />
«Sempre era ciò che era e sempre sarà. Se, infatti, fosse generato, sarebbe necessario che,<br />
prima che fosse generato, non fosse nulla: e se prima non era nulla, per nessuna ragione<br />
nulla si sarebbe potuto generare dal nulla» (DK 30B1)<br />
[…]εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ<br />
πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν<br />
ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι<br />
«[...] Se infatti si alterasse, necessariamente l’essere non sarebbe uguale, ma dovrebbe<br />
perire ciò che era prima, e dovrebbe nascere ciò che non è. Se, dunque, si alterasse anche di<br />
73 Leszl, op. cit., p. 190.<br />
74 Tarán, op. cit., p. 105.<br />
75 Op. cit., p. 148<br />
76 Leszl, op. cit., p. 186.<br />
283
un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto in tutta la durata del<br />
tempo» (DK 30B7 §2)<br />
La stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,<br />
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una differenza per<br />
l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando<br />
soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo senso, la sintetica<br />
connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν<br />
ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30B7 §1) - interpreterebbe la<br />
formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,<br />
συνεχές), in cui è necessario considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per<br />
intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται.<br />
Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare che τὸ ἐόν «[in] un tempo<br />
[passato] era» ovvero che «[in] un tempo [a venire] sarà»: accettando la nostra<br />
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate<br />
dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio<br />
senso nella contrapposizione tra tempi verbali e forme avverbiali temporali: da un lato<br />
«né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora»<br />
(νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso<br />
causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre<br />
parole è il rilievo della omogeneità, interezza e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò<br />
che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica<br />
discriminazione temporale.<br />
Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la<br />
Dea dapprima si concentra sulla eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e<br />
cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in<br />
futuro:<br />
πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο;<br />
εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι<br />
«E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato?<br />
Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro».<br />
Se riscontriamo i vv. 5 e 20:<br />
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν<br />
εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι<br />
possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o<br />
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si<br />
esprime nell’«è» 77 .<br />
Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει<br />
ἔσεσθαι), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea<br />
della eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando,<br />
invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare<br />
come – pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il presente) –<br />
la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento<br />
77 Ma come insegna Plamer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.<br />
284
alle dimensioni temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista<br />
sul presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di<br />
formule di persistenza (e stabilità) già ricordate:<br />
τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
ἀλλ΄ ἔχει·<br />
«né nascere<br />
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,<br />
ma [lo] tiene» (vv. 13-15a)<br />
κρατερὴ Ἀνάγκη<br />
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει<br />
«Necessità potente<br />
nelle catene del laccio [lo] tiene» (vv. 30-31),<br />
cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante:<br />
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται<br />
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει<br />
«Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,<br />
e, così, stabilmente dove è persiste» (vv. 29-30),<br />
dove la costruzione verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le<br />
espressioni ἐν ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo<br />
dell’autore circa identità e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che<br />
possano contraddirle.<br />
Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita esclusione dei due indicatori<br />
fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità):<br />
τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος<br />
«Così è estinta nascita e morte oscura».<br />
In entrambi i casi, l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione»<br />
dell’essere comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un<br />
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le<br />
annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la<br />
propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura<br />
contemporanea:<br />
ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν<br />
«che senza nascita è ciò che è e senza morte» (v. 3).<br />
L’estinzione dei processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la<br />
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il<br />
riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte<br />
(distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile».<br />
Omogeneo e continuo<br />
285
I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero),<br />
μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo):<br />
οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·<br />
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,<br />
οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.<br />
τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει.<br />
«Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo;<br />
né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo,<br />
né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è.<br />
È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è».<br />
Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον<br />
letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole,<br />
è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso<br />
(uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il<br />
precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati:<br />
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται<br />
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει<br />
«Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,<br />
e, così, stabilmente dove è persiste» (vv. 29-30).<br />
L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità,<br />
in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In<br />
poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di<br />
espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto<br />
pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è<br />
chiaro che centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che<br />
sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ<br />
[...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a:<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,<br />
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν<br />
«È necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è [l’essere] è": poiché è possibile<br />
essere,<br />
il nulla, invece, non è».<br />
Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e<br />
dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di<br />
ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due<br />
caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si<br />
stringe a ciò che è».<br />
Tutto intero, uniforme<br />
Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che<br />
escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι,<br />
ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza<br />
e dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos 78 , il quale ha<br />
78 Op. cit., pp. 111-2.<br />
286
marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciòche-è;<br />
(ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione<br />
con l’iniziale rilievo (v. 4) della espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον<br />
μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos 79 , anticiperebbe l’argomento a sostegno<br />
dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές.<br />
Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo<br />
studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben<br />
presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione:<br />
Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν<br />
εἰσὶ δύω∙ τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας,<br />
ἣ δ’ ἐπιμωμητή∙ διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν<br />
«Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra<br />
ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda;<br />
l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto» (Le opere e i giorni, vv. 11-13).<br />
Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di <strong>natura</strong>, una<br />
uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione all’interno<br />
dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla<br />
dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51),<br />
costruite intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente<br />
(τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄<br />
ἀλλήλων vv. 55b-56a).<br />
Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della<br />
κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di essa, infatti, che la Dea può<br />
marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne<br />
differenziazioni, proporlo come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su<br />
ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una<br />
piena applicazione della formula della prima via di B2.3:<br />
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι<br />
«l'una che "è" e che "non è possibile non essere"».<br />
È possibile che l’insistenza sulla coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora<br />
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come abbiamo<br />
già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene<br />
supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di formazione del mondo<br />
coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione:<br />
79 Ivi, p. 95.<br />
φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε<br />
τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι<br />
«[Anassimandro] sostiene che ciò che, dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu<br />
separato alla generazione di questo mondo» (Pseudo-Plutarco DK 12A10)<br />
Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ<br />
αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον<br />
δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην, ἀέρα λέγων αὐτήν∙ διαφέρειν δὲ μανότητι<br />
καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν πῦρ γίνεσθαι,<br />
287
πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν, εἶτα λίθους,<br />
τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ τὴν<br />
μεταβολὴν γίνεσθαι<br />
«Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come<br />
quello, che unica e infinita è la <strong>natura</strong> soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva<br />
quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle<br />
sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,<br />
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi<br />
pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si<br />
produce il mutamento» (Simplicio DK 13A5).<br />
Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν<br />
ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ<br />
θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος<br />
τοιοῦτον∙ ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ<br />
τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί∙ οὐ γὰρ<br />
μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ<br />
ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι∙ ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ<br />
γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος νέφος<br />
ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα<br />
γῆν καὶ εἰς τὸ μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως<br />
ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...]<br />
«Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristato, disse che il principio è aria infinita, da<br />
cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei<br />
e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. In effetti<br />
l’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra<br />
invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che<br />
mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. In effetti condensata e rarefatta<br />
appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;<br />
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si<br />
formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la<br />
terra, e, crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione<br />
sono contrari, il caldo e il freddo [...]» (Ippolito DK 13A7).<br />
La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste<br />
affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine<br />
in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che:<br />
(i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma<br />
chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a<br />
partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e<br />
freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione;<br />
(ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo caso,<br />
ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto<br />
di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio<br />
riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή).<br />
Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di<br />
due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle<br />
cosmologie (e cosmogonie) ioniche.<br />
Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la<br />
«<strong>natura</strong> soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e<br />
condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da<br />
qualche passaggio di Ippolito («in effetti condensata e rarefatta appare in modo diverso»<br />
288
πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta,<br />
sono aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale<br />
in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia<br />
originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante,<br />
presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della<br />
lista proposta 80 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà<br />
indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico<br />
principio materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose<br />
si ridurrebbero ad aria 81 .<br />
Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (DK 12A9, citato<br />
in precedenza):<br />
[...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’<br />
ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...]<br />
«Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla<br />
separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...]»,<br />
ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di<br />
tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre):<br />
[...] διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν<br />
πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα<br />
γῆν, εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων [...]<br />
«Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione.<br />
Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più<br />
condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose» (Simplicio DK<br />
13A5)<br />
[...] τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων [...]<br />
«le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto» (Ippolito DK 13A7).<br />
Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico<br />
esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero<br />
generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari<br />
indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose.<br />
Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel<br />
contemporaneo Eraclito:<br />
κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν,<br />
ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ<br />
ἀποσβεννύμενον μέτρα<br />
«questo ordine del mondo, lo stesso per tutte le cose, nessuno degli dei, nessuno degli<br />
uomini lo produsse, ma era sempre ed è e sarà fuoco sempre vivente, che secondo misura si<br />
accende e secondo misura si spegne» (DK 22B30)<br />
80 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una<br />
semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a<br />
un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek<br />
Science cit., pp. 149-150.<br />
81 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p.<br />
151.<br />
289
πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ<br />
χρημάτων χρυσός<br />
«tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono<br />
scambio con oro e l’oro scambio con beni» (DK 22B90)<br />
ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ<br />
ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή<br />
«per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla<br />
terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima» (DK 22B36)<br />
ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος<br />
θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος<br />
«il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte<br />
dell’aria, la terra la morte dell’acqua» (DK 22B76).<br />
Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito<br />
riduca ogni cosa a fuoco, la <strong>natura</strong> originaria che si cela dietro ogni trasformazione;<br />
dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di<br />
un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale<br />
identità di base 82 .<br />
I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e<br />
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza<br />
quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro<br />
che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la loro<br />
presenza da due punti di vista.<br />
Intanto, come in precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις-<br />
ὄλεθρος e nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema<br />
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la<br />
centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico<br />
“biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad<br />
Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario<br />
dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base<br />
seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) –<br />
che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come<br />
fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in<br />
ultima analisi l’origine.<br />
In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche”<br />
dei due possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito<br />
dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «<strong>natura</strong> soggiacente» (ὑποκειμένη<br />
φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno»<br />
(κίνησις ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente<br />
nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»<br />
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non<br />
sarebbero sfuggiti:<br />
(a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere della ὑποκειμένη φύσις, la sua<br />
eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»;<br />
(b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare», διαφέρειν) riferita alla realtà<br />
originaria ne minava la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere);<br />
82 Graham, op. cit., pp. 124 ss..<br />
290
(c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio<br />
e\o della sua trasformazione.<br />
In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi<br />
25 versi di B8.<br />
Immobile e identico<br />
È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano<br />
immobilità e immutabilità di ciò che è:<br />
αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν<br />
ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος<br />
τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.<br />
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται<br />
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη<br />
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει,<br />
«Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene,<br />
è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte<br />
sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare.<br />
Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,<br />
e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente<br />
nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra».<br />
L’uso del termine ἀκίνητον non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio<br />
non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come<br />
suggerito da:<br />
(i) accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e «senza<br />
fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e<br />
ὄλεθρος;<br />
(ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di τὸ ἐόν;<br />
(iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono<br />
certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di<br />
sviluppo, di cambiamento della propria situazione.<br />
Nell’identica condizione<br />
Insomma, Parmenide appare interessato a escludere dall’essere la possibilità di<br />
intrinseca motilità (con<strong>natura</strong>ta invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) -<br />
donde forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che<br />
abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista linguistico sono<br />
dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste»<br />
ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται),<br />
figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene»<br />
(μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera<br />
di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη).<br />
Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un<br />
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica:<br />
‐ ἀλλ’ ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα,<br />
τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί.<br />
‐ ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν.<br />
‐ πῶς δέ κα; μὴ ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι.<br />
291
‐οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ μὰ Δία δεύτερον<br />
τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς<br />
«A. Ma sempre gli dei furono e mai vennero meno,<br />
queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse.<br />
B. Eppure si dice che Caos degli dei fu il primo a venire all’essere.<br />
A. Come può essere? Come primo non aveva qualcosa da cui derivare né qualcosa verso<br />
cui procedere.<br />
B. Nulla allora procedette per primo? A. Né, per Zeus, per secondo,<br />
almeno di queste cose di cui ora qui discorriamo in questo modo, ma queste sempre<br />
furono». [...]. (Epicarmo DK 23B1 83 )<br />
[...]—ὧδε νῦν ὅρη<br />
καὶ τὸς ἀνθρώπως∙ ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει,<br />
ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον.<br />
ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει,<br />
ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...]<br />
«[...] Così ora considera<br />
anche gli uomini: l’uno infatti cresce, l’altro, invece, deperisce:<br />
tutti, insomma, sono in mutamento durante tutto il tempo.<br />
Ora, ciò che muta per <strong>natura</strong>, e non rimane mai nella stessa condizione,<br />
questo sarebbe già differente da quello che era [...]» (Epicarmo DK 23B2 84 )<br />
αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν<br />
οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι<br />
«sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove,<br />
né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro» (Senofane DK 21B26).<br />
Le citazioni di Senofane e Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la<br />
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al<br />
rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i<br />
processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con<br />
l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν<br />
αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono e mai vennero<br />
meno» ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta<br />
per <strong>natura</strong>, e non rimane mai nella stessa condizione» ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν<br />
κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 85 . Significativamente, nel suo breve frammento Senofane<br />
sembra giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli si<br />
addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un posto ora in un altro».<br />
La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla<br />
base di tre considerazioni:<br />
(i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenario dell’essere con<br />
argomento conclusivo («convinzione genuina [le] fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις<br />
ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione iniziofine<br />
a causa della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che<br />
non diviene;<br />
83 Utilizziamo la traduzione italiana di Diels-Kranz (I Presocratici, a cura di G. Reale).<br />
84 Ibidem.<br />
85 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in<br />
Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che<br />
ritroviamo in Parmenide.<br />
292
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei<br />
versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa appare il<br />
nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a<br />
sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, limitandosi invece a citare la<br />
garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi<br />
vincoli e catene;<br />
(iii) l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione e<br />
corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento<br />
viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso 86 .<br />
Non incompiuto...<br />
Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di «ciò che è» dipende dunque, in<br />
ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti,<br />
poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude, dall’orizzonte della riflessione<br />
sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33)<br />
come prova a favore della perfezione di τὸ ἐὸν 87 :<br />
οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·<br />
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο.<br />
«E per questo non incompiuto l’essere [è] lecito che sia:<br />
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto».<br />
Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν,<br />
«per questo») che riferisce l’affermazione successiva a quel che immediatamente<br />
precede: l’argomento si sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle<br />
immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione<br />
divina di Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e<br />
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).<br />
La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ<br />
ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme),<br />
συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque<br />
un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a<br />
valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e<br />
sui suoi «segnali» (B8.1-2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni<br />
negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33,<br />
comunque lo si intenda:<br />
(i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o<br />
non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà;<br />
(ii) traducendo diversamente, invece, avremmo:<br />
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο<br />
«non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece,<br />
mancherebbe di tutto» (v. 33);<br />
se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé nonessere<br />
e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11:<br />
86 Leszl, op. cit., p. 209.<br />
87 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J.<br />
Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18.<br />
293
ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί<br />
«deve essere per intero o non essere per nulla».<br />
Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento,<br />
possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano<br />
delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni:<br />
che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire<br />
gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le<br />
traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di<br />
generazione e corruzione.<br />
Essere e pensiero<br />
È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto<br />
appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo,<br />
cui abbiamo accennato in nota al testo:<br />
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.<br />
οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,<br />
εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ ἔστιν ἢ ἔσται<br />
ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν<br />
οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι<br />
«La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che "è":<br />
giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,<br />
troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà<br />
altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto<br />
a essere intero e immobile».<br />
Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe<br />
affermazioni avanzate in precedenza:<br />
τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι<br />
«La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere» (B3)<br />
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι<br />
«È necessario dire questo e pensare questo: che "ciò che è [l’essere] è"» (B6.1a).<br />
Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι<br />
- e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere<br />
oggetto del pensiero 88 , secondo le indicazioni di B2.7-8:<br />
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν ‐ οὐ γὰρ ἀνυστόν ‐<br />
οὔτε φράσαις<br />
«non potresti infatti conoscere ciò che non è (non è in effetti cosa fattibile),<br />
né indicarlo»<br />
- l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà<br />
oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere<br />
assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura<br />
sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41):<br />
88 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19.<br />
294
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,<br />
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,<br />
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν<br />
«Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:<br />
nascere e morire, essere e non essere,<br />
cambiare luogo e mutare luminoso colore».<br />
Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso<br />
interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e<br />
mutare luminoso colore») - indicandoli con un «nome» (ὄνομα) che si illudono (si<br />
convincono: πεποιθότες) garantisca loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano,<br />
all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: appunto<br />
«nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea<br />
già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» -<br />
per designare e articolare una realtà che, correttamente valutata, non può che ricondursi<br />
all’«essere». L’unico possibile (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»:<br />
indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e<br />
discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 89 .<br />
Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di<br />
riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale della immobilità-immutabilità e<br />
compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito<br />
nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di<br />
afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal<br />
momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è inconsistente. Molto discussa la formula<br />
impiegata (vv. 34-36a):<br />
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.<br />
οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,<br />
εὑρήσεις τὸ νοεῖν<br />
«La stessa cosa è pensare e e il pensiero che "è":<br />
giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,<br />
troverai il pensare».<br />
Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di<br />
una affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa<br />
d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è esiste» (B6.1a). Qui la<br />
Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di<br />
dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che» 90 ) - i cui<br />
membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"».<br />
Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero:<br />
la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è<br />
espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Per questo, allora:<br />
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
89 McKirahan, op. cit., p. 202.<br />
90 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di».<br />
295
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ<br />
«Per esso tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali».<br />
Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel<br />
linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o<br />
dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 91 . C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono<br />
«convinti» di nominare e quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano<br />
consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non<br />
può sottrarsi il nominare dei mortali 92 .<br />
Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della<br />
Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità<br />
dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi<br />
«segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza<br />
del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un<br />
inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista<br />
logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio<br />
inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere 93 .<br />
A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale<br />
rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque<br />
accentuando la <strong>natura</strong> eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a<br />
gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ<br />
ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo<br />
riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà<br />
(cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più<br />
specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato<br />
nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei<br />
frammenti eraclitei.<br />
A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza<br />
argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare dell’approccio di<br />
Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le<br />
mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o<br />
all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche)<br />
circolanti, è possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di<br />
comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo<br />
livello» 94 (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni»<br />
dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia<br />
così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la<br />
comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per<br />
l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto<br />
91 McKirahan, op. cit., p. 205.<br />
92 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8.<br />
93 Ibidem.<br />
94 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie<br />
intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?<br />
What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002,<br />
p. 44.<br />
296
emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della <strong>natura</strong> della tradizione<br />
ionica 95 .<br />
Moira lo ha costretto...<br />
Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a<br />
un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a<br />
essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È a causa (γὰρ) di tale “destino”<br />
che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in<br />
primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia<br />
di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità<br />
dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero<br />
sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo,<br />
anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non<br />
possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»).<br />
In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”:<br />
richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed<br />
esplicitamente la fissità (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la<br />
Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità<br />
un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che<br />
è» e costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti;<br />
non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere».<br />
La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄<br />
ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi<br />
poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ).<br />
Compiuto e omogeneo<br />
I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia,<br />
insistendo particolarmente sulla compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un<br />
ampio ricorso a metafore “spaziali”:<br />
αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί<br />
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,<br />
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον<br />
οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ.<br />
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι<br />
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος<br />
τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον·<br />
οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει.<br />
«Inoltre, dal momento che [c’è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto<br />
da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla,<br />
a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: poiché è necessario che esso non sia in<br />
qualche misura di più,<br />
o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra.<br />
95 Graham, Explaining the Cosmos cit., p. 166.<br />
297
Non c’è, in effetti, non essere, che possa impedirgli di giungere<br />
a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è -<br />
qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile.<br />
A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane».<br />
L’effetto dei versi è di esprimere contestualmente due prospettive diverse: essi,<br />
proponendo la similitudine con la «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης<br />
ἐναλίγκιον ὄγκῳ), sembrano assumere infatti un’ottica “esterna”, quasi a visualizzare e<br />
delineare “da fuori” - nella sua compiuta integrità – la compatta estensione dell’essere;<br />
d’altra parte, sottolineandone invece l’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire<br />
dal centro» (μεσσόθεν), manifestano piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro<br />
alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità<br />
piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας<br />
πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν,<br />
logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea.<br />
C’è un limite estremo<br />
Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei<br />
confronti dell’immaginario epico:<br />
ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος<br />
πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος<br />
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν,<br />
ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ∙<br />
χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν<br />
οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο,<br />
ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης<br />
ἀργαλέη∙ δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.]<br />
[τοῦτο τέρας∙ καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ<br />
ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι<br />
«Là della terra nera e del Tartaro oscuro,<br />
del mare infecondo e del cielo stellato,<br />
di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini,<br />
luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio,<br />
voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe<br />
per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte,<br />
ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta<br />
crudele; tremendo anche per gli dei immortali<br />
è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile<br />
s’inalza, da nuvole livide avvolta» (Teogonia, 736-745. Traduzione di G. Arrighetti).<br />
Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle<br />
«scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno<br />
scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura»<br />
(Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα<br />
Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Non va dimenticato, inoltre, che la<br />
comunicazione di verità avviene a opera di una divinità che promette «di tutto<br />
informare» (B1.28); che «di Verità ben rotonda il cuore saldo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος<br />
ἀτρεμὲς ἦτορ) e la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sono l’oggetto della sua parola (μῦθος);<br />
insomma, che, almeno didascalicamente, l’ottica della comunicazione è situata<br />
effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).<br />
298
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8<br />
progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante<br />
per l’essere:<br />
τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι<br />
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,<br />
ἀλλ΄ ἔχει<br />
«Per questo né nascere<br />
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,<br />
ma [lo] tiene» (vv. 13b-15a)<br />
ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν<br />
«immobile nei vincoli di grandi catene» (v. 26)<br />
ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν<br />
οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι<br />
«poiché Moira lo ha costretto<br />
a essere intero e immobile» (vv. 37b-38a)<br />
κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη<br />
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει<br />
«dal momento che Necessità potente<br />
nelle catene del vincolo [lo] tiene» (vv. 30a-31b)<br />
ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί<br />
«dal momento che [c’è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto» (v. 42).<br />
Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e<br />
corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne<br />
integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come<br />
abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli<br />
sono associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di<br />
costrizione come destino ovvero legge dell’essere 96 , ma nel contesto, in relazione al<br />
pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον),<br />
all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον<br />
ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in<br />
presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg 97 , l'idea di un<br />
estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico,<br />
come documenterebbe Aëtius:<br />
Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ<br />
«Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo» 98 ,<br />
e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti,<br />
Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il<br />
tutto:<br />
96 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36,<br />
München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141.<br />
97 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140.<br />
98 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4.<br />
299
Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως<br />
«Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna» (DK<br />
14A21)<br />
Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine<br />
cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui apeiron Aristotele afferma:<br />
[...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ<br />
καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν<br />
«[...] Per questo diciamo che di esso non esiste principio, ma che esso è principio delle altre<br />
cose e tutte le comprende e tutte governa» (DK 12A15).<br />
A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del<br />
tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso<br />
soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione:<br />
οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει<br />
«A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane».<br />
Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della<br />
sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la<br />
dimensione d'essere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di<br />
discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti<br />
temporali) 99 . Come insegna B4.2-4:<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον<br />
οὔτε συνιστάμενον<br />
«non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere,<br />
né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo,<br />
né concentrandosi».<br />
Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò<br />
che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non<br />
è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25:<br />
ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι):<br />
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι<br />
εἰς ὁμόν<br />
«Non c’è, in effetti, non essere, che possa impedirgli di giungere<br />
a omogeneità» (vv. 46-47a).<br />
La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria<br />
forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa<br />
affermazione della Dea: «c'è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora<br />
formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su<br />
vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) -<br />
interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò<br />
99 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in<br />
Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-<br />
269, in particolare pp. 260-1 e 267-8.<br />
300
che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si<br />
enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio<br />
con<strong>net</strong>te inizio e fine del passo:<br />
τετελεσμένον ἐστί<br />
πάντοθεν<br />
«[ciò che è] è compiuto<br />
da tutte le parti» (vv. 42b-43a)<br />
οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει<br />
«a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane» (v.<br />
49).<br />
La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua<br />
"densità" ontologica:<br />
οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος<br />
τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον<br />
«né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è -<br />
qui più, lì meno» (vv. 47b-48a).<br />
Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν<br />
ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni<br />
possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale<br />
identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον).<br />
Simile a massa...<br />
Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea<br />
all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!):<br />
εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,<br />
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ<br />
«simile a massa di ben rotonda palla,<br />
a partire dal centro ovunque di ugual consistenza» (vv. 43b-44a).<br />
Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti:<br />
(i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον);<br />
(ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος);<br />
(iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è»)<br />
della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla».<br />
Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia –<br />
proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi<br />
all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto<br />
indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà<br />
universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley 100 ), colta "in quanto essere", in altre parole<br />
intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν<br />
(«l'essere»), con le relative conseguenze logiche.<br />
100 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest<br />
critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54.<br />
301
La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non<br />
quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul<br />
«tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici – in una<br />
prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci<br />
suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa<br />
realtà attestata dalla esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea<br />
introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν).<br />
Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica<br />
argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica» κρῖναι δὲ λόγῳ<br />
πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione<br />
(B4.1: la possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ).<br />
Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli<br />
schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla<br />
uniformità conchiusa di τὸ ἐόν: nella sua identità logicamente garantita dalla<br />
impraticabilità di μὴ ἐὸν, ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi in<br />
una eterna, continua giacenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente);<br />
analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea,<br />
coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono<br />
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la <strong>natura</strong>-principio, le masse elementari - ed<br />
è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non<br />
immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato 101 , in cui si riassume la<br />
realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere 102 .<br />
Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa<br />
realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide<br />
non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le<br />
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti,<br />
avrebbe mostrato.<br />
La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare<br />
plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea:<br />
ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί<br />
πάντοθεν<br />
«dal momento che [c’è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto<br />
da tutte le parti» (vv. 42-43a).<br />
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per<br />
confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela<br />
esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke,<br />
Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere<br />
ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti rimane» (ὁμῶς ἐν<br />
πείρασι κύρει) 103 . Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato<br />
(χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice<br />
101 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui<br />
l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa.<br />
102 Thanassas (p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide sia direttamente comparabile alla<br />
espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando<br />
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) anche sull’Essere di quegli enti.<br />
103 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249.<br />
302
(πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto<br />
l’essere, di conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 104 .<br />
La similitudine insiste sulla estensione compatta e sulla tensione uniforme: sulla uguale<br />
consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato 105 come la sfera<br />
si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che<br />
è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa».<br />
Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto<br />
cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente<br />
confermato le ricerche di Palmer 106 , la rappresentazione della grandiosa creazione del<br />
cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel<br />
Timeo platonico propone una impressionante concentrazione di allusioni (e parole)<br />
parmenidee:<br />
σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ<br />
ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ<br />
πάντα ὁπόσα σχήματα∙ διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς<br />
τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον<br />
ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον<br />
ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν.<br />
ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’<br />
ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν∙ πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς,<br />
οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο,<br />
τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ<br />
προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]<br />
«E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che<br />
doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé<br />
tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte<br />
ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più<br />
simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente<br />
liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi,<br />
perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da<br />
sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in<br />
seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso<br />
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...]» (Timeo 33b-c7) 107 .<br />
104 Ruggiu, op. cit., p. 309.<br />
105 Op. cit., pp. 127-8.<br />
106 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss..<br />
107 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003.<br />
303
B8 vv. 50-61<br />
Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio<br />
e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della<br />
Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio:<br />
δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν<br />
«Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo<br />
opinione».<br />
(DK28A1).<br />
È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più<br />
brevi rispetto alla seconda parte, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi<br />
(dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo<br />
le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3 del poema 1 . Su questo<br />
elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti.<br />
Discorso affidabile e opinioni mortali<br />
Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano<br />
evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il<br />
contesto delle citazioni:<br />
συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61]<br />
μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός<br />
φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς<br />
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος <br />
πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς<br />
πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59]<br />
«Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-<br />
61]» (Simplicio, Phys. 38, 28)<br />
«Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione,<br />
Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi<br />
elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o<br />
fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in<br />
precedenza citati, [citazione vv. 50-59]» (Simplicio, Phys. 30, 13).<br />
Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione)<br />
delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il<br />
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza<br />
sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica:<br />
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν∙ παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν<br />
οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...],<br />
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον<br />
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς<br />
ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ<br />
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.<br />
«Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal<br />
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che<br />
1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum<br />
International Publishing Group, London-New York 2009, p. 104.<br />
304
l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e<br />
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua<br />
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi<br />
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere» (Metafisica A, 5, 986b 31- 987a<br />
2).<br />
Verità e opinioni<br />
Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta<br />
nell'esposizione divina:<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων.<br />
«A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali<br />
impara, l’ordine delle mie parole ascoltando come cosa che può ingannare» (vv. 50-52).<br />
Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della<br />
«comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα<br />
ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας),<br />
mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare<br />
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde<br />
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente<br />
il programma educativo del prologo del poema:<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα<br />
«È necessario che tutto tu apprenda:<br />
sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,<br />
sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità.<br />
Eppure anche queste cose apprenderai: come le cose accettate [nelle opinioni]<br />
era necessario esistessero in modo plausibile, tutte insieme davvero esistenti» (B1.28-32).<br />
La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma<br />
concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei<br />
mortali, (iii) un plausibile resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le<br />
cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che<br />
le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del<br />
primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto<br />
di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo (che poi gli interpreti<br />
proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa<br />
doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini<br />
compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei<br />
precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con<br />
dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di<br />
Plutarco (Contro Colote 1114b, DK28B10):<br />
305
ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν<br />
ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ∙ καὶ γὰρ περὶ γῆς<br />
εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων<br />
ἀφήγηται∙ καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς<br />
γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν<br />
«Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra,<br />
fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla<br />
terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha<br />
taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della <strong>natura</strong><br />
e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro».<br />
È significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come<br />
documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che<br />
fossero gli elementi più originali del poema – il suo prologo drammatico e soprattutto<br />
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori:<br />
καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ<br />
Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε<br />
τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου<br />
συγγράμματος<br />
«anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti<br />
versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità<br />
dello scritto parmenideo» (DK 28A21),<br />
La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonicocosmologica<br />
milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate apertura e<br />
conclusione.<br />
«...l'ordine delle mie parole...»<br />
Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane<br />
interlocutore circa il mutamento di registro:<br />
ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα<br />
ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας<br />
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων.<br />
«A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero<br />
intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali<br />
impara, l’ordine delle mie parole ascoltando come cosa che può ingannare» (vv. 50-52).<br />
Due dati risultano fuori discussione:<br />
(i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità», cioè della «parola [...] della via [che<br />
pensa] che "è"» (μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν): si tratta del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς<br />
κέλευθος) sottolineato dalla Dea in B2.4;<br />
(ii) il passaggio alla considerazione di punti di vista «mortali» (δόξας βροτείας), in altri<br />
termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina.<br />
Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un<br />
essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria<br />
lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà)<br />
conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista, già stigmatizzati<br />
in B8.38b-41:<br />
306
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,<br />
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,<br />
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν<br />
«Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:<br />
nascere e morire, essere e non essere,<br />
cambiare luogo e mutare luminoso colore».<br />
Il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il<br />
relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è in sé apparenza. Dal<br />
momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la Dea insiste<br />
perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei punti di vista, possiamo inferire che:<br />
(a) la sua esposizione non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da<br />
sé ricavare dall'esperienza;<br />
(b) fosse difficile pensare che la Dea, diffondendosi tale esposizione (secondo quanto ci<br />
attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà <strong>natura</strong>le, potesse concretamente<br />
avallare e trattenersi su opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!);<br />
(c) la sua intenzione fosse piuttosto quella di ricondurre l'esperienza umana in qualche<br />
modo all'interno della cornice della verità.<br />
A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-<br />
61):<br />
τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ<br />
«Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo,<br />
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti».<br />
Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra<br />
Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul<br />
passaggio tra le due sezioni.<br />
Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione<br />
di una pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione<br />
διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento<br />
cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è<br />
possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di κόσμος,<br />
costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione<br />
verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν).<br />
L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi<br />
personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del<br />
kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del<br />
quadro complesso dei fenomeni <strong>natura</strong>li.<br />
L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in<br />
questo senso sembrerebbe scontato il richiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in<br />
particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento<br />
della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali<br />
strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni <strong>natura</strong>li, così da evitare<br />
le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la<br />
307
preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo <strong>natura</strong>le (διάκοσμος)<br />
comunque superiore a quella della concorrenza.<br />
Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui essenziale era, con lo sguardo dell'intelligenza,<br />
produrre la compatta concezione dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza<br />
avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo<br />
dell'esperienza.<br />
Un ordinamento verosimile<br />
Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il<br />
testo di B4:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·<br />
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι<br />
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον<br />
οὔτε συνιστάμενον.<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti;<br />
non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere,<br />
né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo,<br />
né concentrandosi».<br />
Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος<br />
la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse<br />
alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι), a<br />
partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quella identità in cui tutte<br />
le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso<br />
la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta<br />
all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere<br />
correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata<br />
dall'intelligenza.<br />
Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma<br />
rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza,<br />
ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini<br />
sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli,<br />
nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità,<br />
differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle<br />
consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον,<br />
«abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti<br />
in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza<br />
sottopone «ciò che è» (τό ἐὸν).<br />
Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto<br />
di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini,<br />
con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza<br />
soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento»<br />
(στοιχεῖον) e «<strong>natura</strong>» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):<br />
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται<br />
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο<br />
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε<br />
308
γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ<br />
σωζομένης<br />
«ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e<br />
verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece<br />
mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e<br />
per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale <strong>natura</strong><br />
si conserva sempre» (Aristotele, Metafisica A, 3 983b8-13).<br />
Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che<br />
raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le<br />
proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le<br />
cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si<br />
manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) accettabile<br />
(ἐοικότα) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che<br />
è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle,<br />
tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla»,<br />
impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore,<br />
come conferma B10:<br />
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα<br />
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο<br />
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,<br />
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης<br />
καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα<br />
ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη<br />
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων<br />
«Conoscerai la <strong>natura</strong> etereα e nell’etere tutti<br />
i segni e della pura fiamma dello splendente sole<br />
le opere invisibili e donde ebbero origine,<br />
e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo,<br />
e la [sua] <strong>natura</strong>; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,<br />
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò<br />
a tenere i confini degli astri».<br />
Diagnosi di un errore<br />
Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς<br />
Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla<br />
necessità di dire e pensare (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν, B6.1) all'«ordine delle mie parole che<br />
può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν, B8.52) – la Dea concentra la propria<br />
attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema "scientifico" di cui<br />
riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale:<br />
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν·<br />
309
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν ‐ ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν ‐·<br />
«Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme,<br />
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada»<br />
(B8.53-4).<br />
Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le<br />
principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno<br />
individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo<br />
l'universale approccio umano al mondo <strong>natura</strong>le, o specificamente in una determinata<br />
posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il<br />
modello (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri<br />
umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione<br />
cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra<br />
parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della<br />
cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte<br />
dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe<br />
considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la<br />
candidatura pitagorica.<br />
Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio<br />
"mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha<br />
interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «verosimile», in<br />
relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni<br />
indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee.<br />
Due forme e la loro unità<br />
L'errore fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b)<br />
che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone<br />
due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi:<br />
(a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν<br />
«Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme...» (v. 53)<br />
(b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν<br />
«delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]» (v. 54a).<br />
I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati<br />
oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del<br />
significato del secondo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte<br />
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come<br />
suggerito da Mourelatos 2 , che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se<br />
non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem.<br />
Se ora consideriamo l'insieme del passo:<br />
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν·<br />
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν ‐ ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν ‐·<br />
«Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme,<br />
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada»,<br />
2 Op. cit., pp. 228-9.<br />
310
isulta intanto sufficientemente perspicuo il fatto che la conclusiva diagnosi<br />
dell'erramento è relativa alla sottolineatura che precede immediatamente (il punto b di<br />
cui sopra). La Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei<br />
versi parmenidei, stigmatizza (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento<br />
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Come segnalato in<br />
nota, si tratta di una lettura dei due versi nell'antichità già proposta da Simplicio (Fisica,<br />
31.8-9):<br />
καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων<br />
στοιχείων μὴ συνορῶντας<br />
«si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che<br />
producono la generazione».<br />
Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che<br />
segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che<br />
evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno a certi resoconti cosmologici:<br />
ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni<br />
contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con<br />
precisione (ἐν ᾧ, «in ciò...») la <strong>natura</strong> dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza<br />
di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del nonessere.<br />
Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità<br />
fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema<br />
adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta<br />
impostazione ontologica:<br />
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«[...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla» (B9.3-4).<br />
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo<br />
le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., «poco dopo<br />
aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo<br />
ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta<br />
relazione con la formula «in questo si sono ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa<br />
esprimerebbe l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della<br />
«appropriata» (ἐοικότα) Doxa divina 3 .<br />
In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53:<br />
ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο<br />
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ,<br />
ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,<br />
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό<br />
τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε<br />
«Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero<br />
separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco,<br />
che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico,<br />
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso,<br />
le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante» (vv. 55-59).<br />
3 Op. cit., p. 65.<br />
311
Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la<br />
situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la<br />
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9:<br />
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν<br />
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται.<br />
κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα,<br />
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται<br />
κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος<br />
«poi da quella [via] che mortali che nulla sanno<br />
s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro<br />
petti guida la mente errante. Essi sono trascinati,<br />
a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate,<br />
per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa<br />
e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro».<br />
Nel contesto delle citazioni (DK 28B6), Simplicio individua <strong>net</strong>tamente l'errore<br />
contestato:<br />
ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς<br />
ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ ∙[citazione B6.1b‐3] μεμψάμενος<br />
γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [citazione B6.8‐9] καὶ<br />
ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [citazione B7.2]<br />
«dice che le proposizioni contraddittorie non possono essere contemporaneamente vere, in<br />
quei versi in cui censura coloro che raccolgono in identità gli opposti [...] Dopo aver<br />
censurato coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [...] e aver<br />
allontanato dalla via che indaga il non-essere [...]».<br />
I «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ<br />
μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere.<br />
Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo<br />
Simplicio (Fisica, 31.8-9), già citato:<br />
καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων<br />
στοιχείων μὴ συνορῶντας<br />
«si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che<br />
producono la generazione».<br />
In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato<br />
rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione<br />
descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6,<br />
come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle<br />
convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo,<br />
insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della<br />
Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in particolare, l'insistenza<br />
su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti:<br />
ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο<br />
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...]<br />
[...]ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,<br />
312
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό<br />
τἀντία [...]<br />
«Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero<br />
separatamente gli uni dagli altri [...]<br />
[...] a se stesso in ogni direzione identico,<br />
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso,<br />
le caratteristiche opposte [...]».<br />
Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che:<br />
τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ<br />
«Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo,<br />
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti»,<br />
la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4 , mentre si<br />
rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di<br />
uno sforzo positivo di comprensione del mondo <strong>natura</strong>le, definitosi proprio in relazione<br />
alla revisione di quello schema oppositivo, come confermerebbe il testo di B9 già citato:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle,<br />
tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla».<br />
Un modello elementare<br />
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da<br />
parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due<br />
sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello<br />
proposto nella Doxa:<br />
συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61]<br />
μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός<br />
φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς<br />
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος <br />
πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς<br />
πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59]<br />
«Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-<br />
61]» (Simplicio, Phys. 38, 28)<br />
«Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione,<br />
Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi<br />
elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o<br />
fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in<br />
precedenza citati, [citazione vv. 50-59]» (Simplicio, Phys. 30, 13).<br />
4 Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, in Early Greek Philosophy<br />
edited by A.A. Long, cit., p. 239.<br />
313
La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate<br />
come «opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà<br />
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici erano<br />
essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni:<br />
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ,<br />
ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...]<br />
[...] ἀτὰρ [...]<br />
τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε<br />
«da una parte, della fiamma etereo fuoco,<br />
che è mite, molto leggero [...]<br />
[...] dall’altra parte [...]<br />
le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante» (vv. 56b-59).<br />
Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno<br />
produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella<br />
sfruttata da Parmenide:<br />
ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ<br />
συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ]<br />
πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον,<br />
εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ]<br />
ἑτερόμηκες∙ ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ<br />
ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον∙<br />
καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο<br />
[δὲ] παραπλησίως τούτοις∙<br />
«Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di<br />
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina,<br />
fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo.<br />
Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina,<br />
sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e<br />
professò una teoria simile alla loro» (Metafisica A, 5, 986a22-31).<br />
Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe<br />
sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle<br />
opere sia un Πρὸς τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato<br />
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento<br />
alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi:<br />
Schofield 5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità<br />
pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più<br />
plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo<br />
a.C.) 6 . Ma di recente Kahn 7 , pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco<br />
accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed<br />
estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico.<br />
In relazione ai versi parmenidei, ribadito come (i) sia difficile pensare che la fisica<br />
dualistica proposta possa rispecchiare una prospettiva genericamente umana, e concesso<br />
5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E.<br />
Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 1983 2 , p. 339.<br />
6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in<br />
Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss..<br />
7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6.<br />
314
che (ii) solo indirettamente essa possa essere riferita alle cosmologie milesie (in cui il<br />
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), e che (iii) essa fosse in ogni caso avanzata<br />
in riferimento a una posizione perspicua agli originari uditori del poema, in<br />
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e della<br />
tenue indicazione di Diogene Laerzio (DK 28A1; meno affidabile Giamblico 28A4):<br />
Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον Θεόφραστος<br />
ἐν τῆι Ἐπιτομῆι [Phys. Opin. fr. 6a. D. 482, 14] Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι).<br />
ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ<br />
καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν,<br />
καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον<br />
ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ<br />
ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη<br />
«Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice<br />
che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di<br />
Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico<br />
Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e<br />
quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un<br />
monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della<br />
vita contemplativa]»,<br />
tutto ciò considerato, appare non infondata l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da<br />
contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi 8 .<br />
In alternativa, tuttavia, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn (che abbiamo<br />
richiamato in nota al testo) sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si<br />
potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα)<br />
e Urano (οὐρανός) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:<br />
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν∙<br />
κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων,<br />
οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος,<br />
Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος<br />
«Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;<br />
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi,<br />
che da Gaia nacquero e da Urano stellato,<br />
da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare» (Teogonia, vv. 104-107, traduzione<br />
Arrighetti),<br />
e più tardi nelle lami<strong>net</strong>te orfiche (V-IV secolo a.C.):<br />
ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος<br />
«sono figlio della Greve e di Cielo stellante» (lami<strong>net</strong>ta di Ipponio)<br />
Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος<br />
«sono figlio di Terra e Cielo stellante» (lami<strong>net</strong>ta di Petelia) 9 .<br />
Una opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste<br />
(οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn 10 ,<br />
8 Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che<br />
cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides cit., p. 117).<br />
9 Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175.<br />
10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152.<br />
315
αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità (come<br />
rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»).<br />
In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare una estrema essenzializzazione e<br />
concentrazione del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione<br />
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti<br />
elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido,<br />
oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà<br />
(δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»), [ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον<br />
(«mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di<br />
fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν<br />
(«denso»), ἐμϐριθές («pesante») concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in<br />
apposizione a νύξ.<br />
Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle<br />
connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà<br />
bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide<br />
avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις) cosmogonici<br />
essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ<br />
e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce<br />
l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità<br />
giochi un ruolo rilevante, come emerge limpidamente da DK 30B21:<br />
ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ,<br />
εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι,<br />
ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι,<br />
ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι,<br />
ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε∙<br />
ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά.<br />
«Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima,<br />
se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma:<br />
il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto,<br />
quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante,<br />
la pioggia in tutte le cose oscura e gelida;<br />
e la terra da cui sorgono cose compatte e solide» (vv. 1-6).<br />
In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema<br />
cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due<br />
forme:<br />
ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο<br />
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...]<br />
[...]ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,<br />
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό<br />
τἀντία [...]<br />
«Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero<br />
separatamente gli uni dagli altri [...]<br />
[...] a se stesso in ogni direzione identico,<br />
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso,<br />
le caratteristiche opposte [...]» (vv. 55-59a),<br />
11 Secondo alcuni codici di Simplicio.<br />
316
emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere 12 :<br />
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν ‐ ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν ‐·<br />
«delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada»<br />
(v. 54).<br />
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della<br />
determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della<br />
spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita<br />
confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas 13 , essi<br />
danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in<br />
proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro.<br />
Identico, non identico<br />
Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni<br />
credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo<br />
schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela dunque, una volta sottoposto<br />
all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della<br />
fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé<br />
stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella<br />
mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di<br />
denunciare il rischio 14 .<br />
La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di<br />
spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i<br />
criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione<br />
dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base 15 ;<br />
dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo<br />
sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10:<br />
εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche<br />
modo tale debolezza era stata aggirata.<br />
I più volte citati versi B8.53-4 – riscontrati con B9.3-4 - indicano il nodo dell'intervento<br />
parmenideo:<br />
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν·<br />
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν ‐ ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν –<br />
«Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme,<br />
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada»<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν.<br />
«tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile,<br />
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla».<br />
12 Su questo si veda il resoconto di Reale sulla posizione interpretativa di Schwabl (Sein und Doxa cit.),<br />
Zeller-Mondolfo, III, pp. 309 ss..<br />
13 A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &<br />
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 61-2.<br />
14 In questo senso la Curd riferisce correttamente la <strong>natura</strong> «enantiomorfa» del modello delineato nei versi<br />
conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per<br />
sottolinearne il limite.<br />
15 Nehamas, op. cit., pp. 61-2.<br />
317
La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre<br />
«due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente<br />
avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo:<br />
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν∙ παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν<br />
οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...],<br />
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον<br />
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς<br />
ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων∙ τούτων δὲ<br />
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.<br />
«Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal<br />
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che<br />
l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e<br />
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua<br />
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi<br />
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere» (Metafisica I, 5, 986 b27 - 987<br />
a1).<br />
Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo<br />
i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a<br />
quella di essere e non-essere 16 : il senso dell'accostamento si può cogliere nel contesto<br />
della citazione di B9 da parte di Simplicio:<br />
καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μηδετέρωι μέτα μηδέν" καὶ ὅτι ἀρχαὶ<br />
ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται<br />
«e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice<br />
chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti».<br />
Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo nella esplicitazione del duplice<br />
aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali<br />
opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere<br />
da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è».<br />
Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo<br />
fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua<br />
esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza<br />
spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione.<br />
Presero la decisione di dar nome...<br />
Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra<br />
«pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας<br />
βροτείας): come già indicato nei versi che precedono, una componente essenziale<br />
dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle<br />
convenzioni linguistiche. In questo senso era stata <strong>net</strong>ta la presa di posizione di B8.38b-<br />
41:<br />
τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,<br />
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,<br />
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,<br />
16 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-9.<br />
318
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν<br />
«Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome,<br />
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:<br />
nascere e morire, essere e non essere,<br />
cambiare luogo e mutare luminoso colore».<br />
Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in<br />
apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il<br />
riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto<br />
numerosi: che ...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di<br />
contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare»<br />
(κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e<br />
l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che ella metta<br />
sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle<br />
convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).<br />
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale<br />
proposto all'interno della esposizione divina. Da una considerazione puramente<br />
razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale,<br />
omogeneizzandolo nel fatto d'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà,<br />
nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non<br />
può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di<br />
"empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della<br />
Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a<br />
quella stigmatizzata in B7.3-5a:<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,<br />
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν<br />
καὶ γλῶσσαν<br />
«né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,<br />
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante<br />
e la lingua».<br />
L'operazione di riduzione dei fenomeni <strong>natura</strong>li alla coppia «luce-notte» è certamente<br />
altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος<br />
πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta<br />
dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto<br />
nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che<br />
implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata<br />
al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il<br />
campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella<br />
individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà<br />
(come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di<br />
registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della<br />
Doxa.<br />
Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un<br />
mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di<br />
Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la<br />
quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di<br />
319
un mondo falso 17 . È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione<br />
nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5<br />
sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al<br />
contrario, era probabilmente intesa come alternativa alle cosmologie ioniche 18 : una<br />
grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi<br />
ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive<br />
del frammento:<br />
τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ<br />
«Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo,<br />
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti» (vv. 60-61).<br />
D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità<br />
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«nonè»,<br />
risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare<br />
conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo<br />
dell'esperienza umana:<br />
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα<br />
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο<br />
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,<br />
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης<br />
καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα<br />
ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη<br />
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων<br />
«Conoscerai la <strong>natura</strong> eterea e nell’etere tutti<br />
i segni e della pura fiamma dello splendente sole<br />
le opere invisibili e donde ebbero origine,<br />
e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo,<br />
e la [sua] <strong>natura</strong>; conoscerai anche il cielo che tutto intorno abbraccia,<br />
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò<br />
a tenere i confini degli astri» B10).<br />
L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano<br />
(δόξας βροτείας) e divino (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς ἀληθείης), nonché l'uso di<br />
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «plausibilmente», «verosimilmente») e ἐοικότα<br />
(B8.60, «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare da parte di Parmenide la<br />
convinzione che la conoscenza del mondo fenomenico non potesse garantire lo stesso<br />
rigore dell'analisi ontologica. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il<br />
possibile esempio di Senofane:<br />
καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται<br />
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων∙<br />
εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών,<br />
αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε∙ δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται<br />
«davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà<br />
17 A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &<br />
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, p. 63.<br />
18 Come ipotizza Graham Explaining the Cosmos cit., p. 184), è forse possibile che la sfida fosse lanciata<br />
anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo.<br />
320
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte:<br />
se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado,<br />
lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose» (DK 21B34)<br />
ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι<br />
«Siano queste cose credute simili a cose vere» (DK 21B35)<br />
ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι<br />
«Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero» (DK<br />
21B36)<br />
οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,<br />
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον<br />
«Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali,<br />
ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio» (DK 21B18).<br />
Graham 19 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di<br />
Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status<br />
quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo <strong>natura</strong>le,<br />
concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane<br />
contemporaneo Alcmeone:<br />
περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή‐ νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ<br />
ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι<br />
«Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini<br />
devono imparare per inferenza» (DK 24B1) 20 .<br />
Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque<br />
proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la<br />
tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini<br />
abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze.<br />
Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà<br />
fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli<br />
ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che<br />
consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche,<br />
come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme».<br />
19 Explaining the Cosmos cit., p. 176.<br />
20 Del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (Lire du début. Quelques<br />
observations sur les incipit des présocratiques, in Présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007, pp. 7-<br />
37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente<br />
diverso:<br />
περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή‐ νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ<br />
ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι<br />
«sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di<br />
trovare degli indizi».<br />
321
B9<br />
Simplicio offre, nel caso di DK B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa,<br />
circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore<br />
(contesto DK 30B9):<br />
καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘ μηδετέρωι μέτα μηδέν’ καὶ ὅτι<br />
ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται<br />
«e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli<br />
dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti».<br />
Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile<br />
concludere che i quattro versi di B9 seguissero la conclusione di B8, anche se non<br />
necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri 1 ). Appare di conseguenza<br />
discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11<br />
(ovvero di ipotizzare la successione B11-B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo<br />
altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una<br />
relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologicocosmogonica<br />
della Doxa.<br />
Tutte le cose sono state denominate<br />
In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento<br />
agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere centrale nella<br />
costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9<br />
troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle» (vv.<br />
1-2).<br />
Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dalla esperienza e che<br />
l'intelligenza ha riassunto nella omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è<br />
quello di classificare e discriminare. «Tutte le cose sono state denominate luce e notte»:<br />
secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo<br />
schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις,<br />
«potenze»), i σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso<br />
un'articolazione elementare, il mondo empirico.<br />
Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, il "fatto d'essere", comune denominatore<br />
che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne<br />
approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea<br />
una strategia conseguente di recupero del cosmo della esperienza umana: Luce e Notte<br />
dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla 2 . Alcuni<br />
accostamenti verbali manifestano questa operazione.<br />
Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i):<br />
1 Op. cit., p. 255.<br />
2 Ruggiu, op.cit., p. 326.<br />
322
πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος<br />
«ma tutto pieno è di ciò che è»,<br />
dopo aver ricordato (ii):<br />
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,<br />
οὐδέ τι χειρότερον<br />
«né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo,<br />
né [lì] qualcosa di meno» (B8.23-24a),<br />
e soprattutto (iii):<br />
οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον<br />
«Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo» (B8.22).<br />
A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far<br />
corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento:<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
ἴσων ἀμφοτέρων<br />
«tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile<br />
di entrambe alla pari» (B9.3-4a),<br />
dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è<br />
declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque<br />
l'esigenza di "densità" e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν<br />
(B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e<br />
ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων<br />
ἀμφοτέρων.<br />
Insieme a nessuna delle due è il nulla<br />
Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla<br />
Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la<br />
preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione:<br />
ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν<br />
«perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla» (B9.4).<br />
Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il<br />
pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo)<br />
confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa<br />
disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) ribadisce l'assoluta<br />
esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della<br />
alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς<br />
Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne<br />
costituisse la diretta prosecuzione 3 .<br />
Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il<br />
resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di<br />
3 Ibidem.<br />
323
B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a<br />
ridosso della dichiarazione conclusiva di B8:<br />
τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,<br />
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ<br />
«Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo,<br />
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti».<br />
L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della<br />
verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga<br />
misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche:<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,<br />
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν<br />
καὶ γλῶσσαν<br />
«né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,<br />
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante<br />
e la lingua» (B7.3-5a).<br />
Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una<br />
ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e<br />
qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce<br />
appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento linguistico del<br />
mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con<br />
opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la<br />
superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa<br />
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come<br />
sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b, DK 28B10):<br />
ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν<br />
ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ∙ καὶ γὰρ περὶ γῆς<br />
εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων<br />
ἀφήγηται∙ καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς<br />
γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν<br />
«Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra,<br />
fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla<br />
terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha<br />
taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della <strong>natura</strong><br />
e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro»,<br />
può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità<br />
fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e<br />
cosmogonica.<br />
Tutto è pieno di luce e notte<br />
Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio<br />
significativo per la complessiva interpretazione della Doxa:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
[...]<br />
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου<br />
324
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
[...]<br />
tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile».<br />
La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua<br />
costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano<br />
coniugare essere e non-essere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico)<br />
di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne<br />
rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla»<br />
(B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose.<br />
In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i<br />
relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la<br />
notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8<br />
di Simplicio:<br />
καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ<br />
Παρμενίδου ἔχον οὕτως∙ ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ<br />
φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲ τῶι πυκνῶι<br />
ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ∙ ταῦτα γὰρ<br />
ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα<br />
«tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per<br />
questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece<br />
il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza».<br />
Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un<br />
mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione<br />
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ<br />
νυκτὸς.<br />
Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità<br />
nell'opposizione assicura la stabilità del mondo 4 . Il fatto che entrambe siano parte<br />
dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5 . La κρᾶσις funge così<br />
da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza<br />
delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella<br />
stessa misura) di Luce e Notte 6 .<br />
È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono<br />
assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e<br />
immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una<br />
adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti<br />
rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di<br />
questo mondo.<br />
4 Conche, op. cit., p. 201.<br />
5 Ruggiu, op. cit., p. 327.<br />
6 Id., p. 328.<br />
7 Op. cit., p. 200.<br />
325
B10-11-12-13<br />
I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino<br />
(II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De coelo, B12<br />
in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, una<br />
indicazione approssimativa circa la collocazione relativa:<br />
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν<br />
λέγων οὕτως [...]<br />
«poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,<br />
dicendo così [B12.1-3] [...]»<br />
Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la<br />
citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12,<br />
dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle<br />
altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12<br />
con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte<br />
diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti<br />
(Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da<br />
Simplicio in stretta connessione con B12.<br />
Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi<br />
tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole:<br />
ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν<br />
Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ εἴσηι ... ἄστρων’<br />
«pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che<br />
promette "tu conoscerai ... degli astri"».<br />
Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che:<br />
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν∙[citazione B11] καὶ τῶν<br />
γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν<br />
παραδίδωσι.<br />
«Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11]<br />
e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli<br />
animali».<br />
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria<br />
descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote<br />
1114b, DK contesto di 28B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea,<br />
utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile<br />
posizione:<br />
ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν<br />
ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ∙ καὶ γὰρ περὶ γῆς<br />
εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων<br />
ἀφήγηται∙ καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς<br />
γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν<br />
«Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra,<br />
fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla<br />
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha<br />
326
taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della <strong>natura</strong><br />
e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro».<br />
Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema,<br />
suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura:<br />
(i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8,<br />
è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον<br />
πεποίηται sottolinea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione:<br />
«ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,<br />
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν);<br />
(ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è funzionale al progetto scientifico: la<br />
ricognizione cosmologica (διάκοσμον) implica la ricostruzione comogonica; la struttura<br />
del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la<br />
spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e<br />
la tenebra» (στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος.<br />
Da e per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) «tutti<br />
i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα);<br />
(iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte<br />
cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente<br />
del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi<br />
procedere a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce<br />
in B13 (e successivi).<br />
Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una<br />
sistemazione leggermente diversa. La <strong>natura</strong> programmatica di B10 e B11, attestata<br />
dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione<br />
alle Muse della Teogonia esiodea 1 , unitamente alla considerazione che B9<br />
ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una<br />
posposizione dello stesso B9 2 . A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque<br />
approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla<br />
conclusione della precedente (B8.53-9).<br />
D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide,<br />
analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un<br />
"secondo" proemio 3 . B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che<br />
promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono sommariamente il programma scientifico<br />
(spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e<br />
B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione<br />
dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28A37) ci aiutano a<br />
ricostruire.<br />
B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e<br />
propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico,<br />
dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da<br />
cerniera introduttiva. O'Brien 4 , in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli<br />
argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una<br />
1 Cerri, op. cit., p. 263.<br />
2 Ruggiu, op. cit., p. 332.<br />
3 Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell,<br />
«Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631).<br />
4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33).<br />
327
precisazione sulla <strong>natura</strong> delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le<br />
«governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9-B12). La disposizione proposta<br />
da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni<br />
di Simplicio.<br />
Conoscere la <strong>natura</strong><br />
La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno<br />
scientifico:<br />
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα<br />
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο<br />
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,<br />
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης<br />
καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα<br />
ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη<br />
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 5<br />
La promessa è quella di:<br />
(i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la <strong>natura</strong> eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα<br />
σήματα) nell'etere;<br />
(ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν)<br />
esse si generarono (ἐξεγένοντο);<br />
(iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] <strong>natura</strong>»<br />
(φύσιν);<br />
(iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς<br />
ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ);<br />
(v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere<br />
nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri.<br />
Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De coelo) conferma<br />
questo disegno di Parmenide:<br />
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν∙[citazione B11]<br />
καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν<br />
παραδίδωσι.<br />
«Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11]<br />
e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli<br />
animali».<br />
Conche 6 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza<br />
e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-<br />
5 Questa la traduzione:<br />
«Conoscerai la <strong>natura</strong> eterea e nell’etere tutti<br />
i segni e della pura fiamma dello splendente Sole<br />
le opere invisibili e donde ebbero origine,<br />
e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo,<br />
e la [sua] <strong>natura</strong>; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,<br />
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse<br />
a tenere i confini degli astri».<br />
328
corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei<br />
processi <strong>natura</strong>li nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della <strong>natura</strong>.<br />
D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in<br />
Empedocle (DK 31B38):<br />
εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †,<br />
ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα,<br />
γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ<br />
Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα.<br />
«Orsù, ti dirò delle cose prime e ;<br />
da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo,<br />
terra e mare dalle molte onde e aria umida<br />
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose».<br />
L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo<br />
introducendo la sezione astronomica del proprio poema 7 .<br />
Le opere della <strong>natura</strong><br />
Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,<br />
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare:<br />
(a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni come ὁππόθεν ἐξεγένοντο<br />
(che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro<br />
della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce<br />
per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito<br />
accostamento di φύσις e γένεσις: nel contesto il primo termine – che abbiamo per lo più<br />
tradotto come «<strong>natura</strong>» - designa appunto ciò che dà origine (φύω, «dare origine»), la<br />
cui attività generatrice si traduce in ἔργα.<br />
Conoscere la <strong>natura</strong> significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi<br />
dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα), nei fenomeni celesti; Parmenide<br />
evidentemente non allude con φύσις a una immota identità, a un'essenza che con la<br />
propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 8 : in questo senso la<br />
formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca<br />
milesia dell'ἀρχή 9 . Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia<br />
direzione di indagine: (i) quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici<br />
risale alla <strong>natura</strong> che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 10 .<br />
Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11:<br />
πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη<br />
αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος<br />
ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν<br />
γίγνεσθαι.<br />
«[...] come Terra e Sole e Luna,<br />
l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo<br />
estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso<br />
6 Op. cit., pp. 210-11.<br />
7 Cerri, op. cit., p. 259.<br />
8 In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide<br />
intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione.<br />
9 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5.<br />
10 Ibidem.<br />
329
a generarsi».<br />
In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la<br />
genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non<br />
intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative,<br />
ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della<br />
sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la δύναμις che si esprime in «segni» e<br />
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9:<br />
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται<br />
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς<br />
«Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,<br />
e queste, secondo le rispettive proprietà [δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a<br />
quelle» (vv.1-2),<br />
potremmo concordare con Ruggiu 11 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si<br />
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,<br />
costituirebbero l'unica <strong>natura</strong> delle cose.<br />
Opere invisibili, opere periodiche<br />
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare"<br />
della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione<br />
cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla γένεσις, nella<br />
centralità del tema della φύσις, ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si<br />
veda, per esempio, il passaggio dal passato 12 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 -<br />
gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica:<br />
αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο,<br />
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα<br />
«Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato;<br />
le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco».<br />
È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio<br />
cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre<br />
del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida<br />
esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti.<br />
Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα<br />
κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice":<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·<br />
πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει<br />
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις<br />
ἄρσεν θηλυτέρῳ<br />
«in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa.<br />
Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,<br />
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario,<br />
il maschile al femminile» (B12.3-6).<br />
11 Ibidem.<br />
12 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται), proposta in<br />
alternativa.<br />
330
Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla<br />
contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri<br />
strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della<br />
fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la <strong>natura</strong>, emerge<br />
nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione<br />
relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il<br />
riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere»,<br />
rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro<br />
contributo ai processi cosmici.<br />
Il sistema del mondo<br />
Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come»<br />
(πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι),<br />
dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il<br />
legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato,<br />
la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto:<br />
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν<br />
λέγων οὕτως [...]<br />
«poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,<br />
dicendo così [vv. 1-3]».<br />
Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco<br />
B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere<br />
dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι)<br />
cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano<br />
implicitamente in apertura:<br />
αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο,<br />
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα·<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·<br />
«Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato;<br />
le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco;<br />
in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa».<br />
Corone cosmiche<br />
Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la<br />
comprensione dell'universo parmenideo, relativamente alla sua configurazione e<br />
composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti,<br />
purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente<br />
approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» (οὐρανὸν<br />
ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη)<br />
«a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων); B11 conferma la presenza di un<br />
«Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament<br />
come lo definisce Diels 13 - e di uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la<br />
relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle<br />
testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pia<strong>net</strong>i; B12 poi, come<br />
13 Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104.<br />
331
abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad<br />
«anelli» o «corone» (στεφάναι) concentrici.<br />
Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla<br />
preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto,<br />
il quadro d'insieme entro cui collocarli:<br />
Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν<br />
δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ∙ μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ<br />
περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης<br />
στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc.<br />
στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις τε καὶ <br />
κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ<br />
κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι<br />
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς<br />
ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν<br />
σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ<br />
αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,<br />
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια.<br />
«Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una<br />
costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò<br />
che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è<br />
anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea 14 . Delle<br />
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di<br />
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e<br />
Giustizia che tiene le chiavi 15 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa<br />
della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni<br />
del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto<br />
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo<br />
che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra» (Aëtius, DK<br />
28A37).<br />
Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da<br />
intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem).<br />
Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι<br />
concentriche, anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e di «denso» (ἐκ τοῦ<br />
πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ<br />
τούτων) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ<br />
σκότους), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ<br />
πυκνοῦ/ἐκ σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας<br />
τείχους δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς<br />
ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva<br />
14 Il testo greco καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà<br />
interpolato: come sottolinea Franco Ferrari nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e<br />
il cosmo dei presocratici, pp. 88-9, στερεόν è infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il<br />
testo alternativo restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περιόν πάλιν πυρώδης, «e la<br />
circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea».<br />
15 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei manoscritti:<br />
κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti:<br />
καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν,<br />
«[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto».<br />
332
τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come<br />
confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28A1,<br />
28A44):<br />
πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι<br />
«questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro<br />
[dell'universo]»<br />
Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς<br />
ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν∙ διὰ<br />
τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ<br />
«Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le<br />
parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto<br />
che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove».<br />
La struttura del cosmo<br />
Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico<br />
(τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la<br />
solida parete esterna (τείχους δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ<br />
περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la consistenza attribuita al<br />
contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe<br />
comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua <strong>natura</strong> densa e<br />
oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero<br />
dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος).<br />
Diels 16 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera<br />
di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche<br />
periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera<br />
esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco<br />
vulcanico). Di recente Franco Ferrari 17 ha ribadito questo modello, tra l'altro<br />
proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels<br />
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán 18 sottolinea la<br />
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος<br />
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura<br />
cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle<br />
στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che<br />
contengono le stelle).<br />
Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon 19 , per esempio, pur<br />
rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo<br />
che l'accostamento al muro di una città (τείχους δίκην) potrebbe essere stato dello<br />
stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un<br />
saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ περιέχον<br />
στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di Parmenide non sarebbe<br />
dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio<br />
delle attestazioni di Aëtius e Cicerone:<br />
16 Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104.<br />
17 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90.<br />
18 Op. cit., p. 241.<br />
19 Op. cit., pp. 235-6.<br />
333
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες<br />
ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια.<br />
«L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è<br />
disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni<br />
intorno alla Terra» (Aëtius, DK 28A37)<br />
nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat),<br />
continentem ardorum lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...]<br />
«Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην),<br />
una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...]» (Cicerone,<br />
DK 28A37).<br />
L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe<br />
il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione<br />
estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 20 . Ruggiu 21<br />
interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il<br />
termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare<br />
sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in<br />
Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la<br />
periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora<br />
igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri 22 :<br />
nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine<br />
limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente<br />
un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός.<br />
Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora<br />
può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi<br />
fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo<br />
vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il<br />
cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle<br />
στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 23 .<br />
In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide<br />
avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al<br />
cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco 24 . A questo<br />
alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι∙e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a:<br />
Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ<br />
Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι∙ μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας,<br />
ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ<br />
«Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo<br />
quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo».<br />
Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da<br />
Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di<br />
«aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna<br />
(ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere<br />
20 Ivi, p. 227.<br />
21 Op. cit., p. 343.<br />
22 Op. cit., p. 266.<br />
23 Ruggiu, op. cit., p. 336.<br />
24 Conche, op. cit., p. 213.<br />
334
igido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti<br />
nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata<br />
e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele:<br />
Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον<br />
ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον.<br />
Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς<br />
περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός∙<br />
εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ<br />
θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν.<br />
Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ<br />
σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων∙ καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί<br />
φαμεν.<br />
Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης<br />
περιφορᾶς∙ τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν.<br />
Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον<br />
περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ<br />
σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι<br />
γενέσθαι.<br />
«Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo,<br />
perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine.<br />
In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo<br />
<strong>natura</strong>le nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo<br />
soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino.<br />
In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la<br />
Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo.<br />
In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta;<br />
siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo].<br />
Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di<br />
necessità di tutto il corpo <strong>natura</strong>le e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si<br />
generi fuori del cielo» (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25).<br />
È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia<br />
parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in<br />
effetti «il corpo <strong>natura</strong>le nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ<br />
περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν<br />
ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2-3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua<br />
associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che<br />
quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo»<br />
(ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava<br />
come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni<br />
degli astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ<br />
ἔνια τῶν ἄστρων).<br />
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός: «l'intero<br />
abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo <strong>natura</strong>le e sensibile,<br />
poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una<br />
lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata<br />
dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva<br />
riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele.<br />
335
In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del<br />
quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate<br />
dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come<br />
abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica:<br />
(i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον,<br />
ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ<br />
περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν);<br />
(ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone,<br />
anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco<br />
e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra,<br />
corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri;<br />
(iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le<br />
indicazioni non sono concordi).<br />
La δαίμων e il cosmo<br />
Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono<br />
un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della<br />
δαίμων che lì viene evocata:<br />
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν<br />
λέγων οὕτως ‘ αἱ γὰρ ... κυβερνᾶι’ . [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ<br />
σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν<br />
συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων∙ ‘ αἱ δ’ ἐπὶ ...<br />
θηλυτέρωι’ . [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι<br />
π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν.<br />
«poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,<br />
dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma<br />
anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente,<br />
dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al<br />
tutto ed è causa di ogni generazione».<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·<br />
πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει<br />
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις<br />
ἄρσεν θηλυτέρῳ<br />
«in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa.<br />
Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,<br />
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario,<br />
il maschile al femminile» (B12.3-6).<br />
τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις τε καὶ κινήσεως<br />
καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον<br />
ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην<br />
«Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di<br />
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e<br />
Giustizia che tiene le chiavi e Necessità» (Aëtius 28A37).<br />
Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione:<br />
πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα<br />
ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι<br />
336
[...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ<br />
Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν,<br />
φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ<br />
ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν<br />
«Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un<br />
cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che<br />
abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i<br />
[lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la<br />
<strong>natura</strong> monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in<br />
forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema]» (DK 28A44).<br />
Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico, quale<br />
possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze:<br />
ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς<br />
τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως<br />
κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ<br />
ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ<br />
μετενήνεκται<br />
«Il cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi<br />
passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso<br />
opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano rispetto<br />
a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile: dal momento che<br />
rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione, solo capovolte» (DK 44B17)<br />
Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς<br />
οἶκον καὶ μητέρα θεῶν βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον<br />
φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει<br />
τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν]
fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di<br />
una tradizione.<br />
Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse<br />
ὄλυμπος «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli<br />
elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός –<br />
compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la<br />
preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi nella insistenza delle<br />
testimonianze sul modello arcaico delle «corone», probabilmente di matrice<br />
anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la<br />
centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficiente, impiegato<br />
da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.):<br />
Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς<br />
ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν∙<br />
«Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le<br />
parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto<br />
che dall'altra» (Aëtius 28A44).<br />
L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si<br />
depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile tuttavia<br />
soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio,<br />
nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide<br />
postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa<br />
efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon 25 , il<br />
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della<br />
doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco<br />
spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:<br />
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν<br />
ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν<br />
«Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di<br />
ogni generazione».<br />
D'altra parte in B12 leggiamo che:<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ<br />
«al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa»,<br />
e Aëtius sottolinea come:<br />
τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις τε καὶ κινήσεως<br />
καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον<br />
ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην<br />
«Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di<br />
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e<br />
Giustizia che tiene le chiavi e Necessità»,<br />
mentre Plutarco, citando B13, osserva:<br />
25 Op. cit., p. 234.<br />
338
διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι<br />
κοσμογονίαι γράφων ‘ πρώτιστον ... πάντων’<br />
«perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella<br />
cosmogonia [B13]».<br />
Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che effettivamente<br />
Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο<br />
τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione»<br />
B12.4). Evidentemente aperta è invece la questione della sua collocazione cosmologica<br />
e della sua identificazione.<br />
La dislocazione cosmica della δαίμων<br />
L'indicazione di Plutarco è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco<br />
non solo avesse accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una<br />
versione attendibile 26 . Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con<br />
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente non solo dei corpi<br />
soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione»<br />
(ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν<br />
γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina<br />
la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata<br />
o solo una speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella<br />
cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso,<br />
nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire<br />
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo dell'accoppiamento 27 .<br />
D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti<br />
di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due<br />
testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica<br />
dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos<br />
(Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella della<br />
sera):<br />
Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ<br />
Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι<br />
«Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero» (DK<br />
28A40a),<br />
potrebbe aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro 28 .<br />
Contro questa identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono<br />
dal contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della centralità<br />
cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ<br />
τούτων ‐ con cui essa viene introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle<br />
corone miste (come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo.<br />
Difficile pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una copia<br />
del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione<br />
contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come<br />
Ἀφροδίτης.<br />
26 Su questo punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27-8.<br />
27 Cerri, op. cit., pp. 267-8.<br />
28 Ibidem.<br />
339
La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare<br />
la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «<strong>natura</strong> monadica» (τὴν<br />
μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di<br />
un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative<br />
testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in<br />
mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino<br />
«focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Διὸς οἶκον) o<br />
«madre degli dei» (μητέρα θεῶν), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici:<br />
[Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο (Orphica, Hymnii, 84.1-2)<br />
«Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno» (Orphica, Hymnii, 84.2)<br />
ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη,<br />
«da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali» (Orphica, Hymnii,<br />
27.7) 29 ,<br />
e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13:<br />
ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13]<br />
«la [dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]».<br />
La collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze<br />
con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare il<br />
modello cosmologico proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo<br />
risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura<br />
Notte).<br />
Coxon 30 , rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha<br />
sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa <strong>natura</strong> e<br />
collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea<br />
appare come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»:<br />
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum lucis orbem qui<br />
cingit caelum, quem appellat deum<br />
«immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che<br />
avvolge il cielo e che egli denomina dio»;<br />
incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius:<br />
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες<br />
ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια.<br />
«L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è<br />
posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo» (Aëtius, DK 28A37),<br />
si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis che, secondo Cicerone,<br />
Parmenide avrebbe chiamato «dio», la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo,<br />
coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe<br />
compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di<br />
principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica:<br />
29 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 104-5.<br />
30 Op. cit., pp.239 ss..<br />
340
ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή∙ εἴη γὰρ ἂν<br />
αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα∙ τό τε γὰρ<br />
γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ<br />
λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν<br />
ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον<br />
ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον∙ ἀθάνατον γὰρ καὶ<br />
ἀνώλεθρον, ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων<br />
«Tutto, in realtà, o è un principio o deriva da un principio: ma dell'infinito non vi è<br />
principio, altrimenti avrebbe un limite. E [l'infinito] è anche ingenerato e incorruttibile, allo<br />
stesso modo di un principio, poiché ciò che è generato ha necessariamente anche una fine,<br />
ed ogni corruzione ha il suo termine. Per questo diciamo che dell'infinito non vi è principio,<br />
ma che esso sembra essere il principio di ogni altra cosa e comprendere in sé tutte le cose, e<br />
a tutte le cose essere guida, come dicono quanti non ammettono altre cause, come la mente<br />
o l'amore, all'infuori dell'infinito. E tale sembra essere il divino: è infatti immortale e<br />
imperituro, come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della <strong>natura</strong>»<br />
(Aristotele, DK 12A15, corsivo nostro)<br />
Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο∙ ἐκ γὰρ τούτου<br />
πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. ʹοἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ<br />
ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ<br />
περιέχειʹ (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα).<br />
«Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa<br />
tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: "come la nostra anima, che è aria, ci<br />
governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo" (aria e soffio sono utilizzati come<br />
sinonimi)» (Aëtius, DK 13B2)<br />
εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ<br />
πάντων<br />
«una sola cosa è essere sapienti: conoscere l'intelligenza, che governa tutto attraverso tutto»<br />
(DK 22B41)<br />
[λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι<br />
λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν<br />
τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς<br />
διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον]<br />
«[Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova<br />
in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida<br />
[con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è<br />
dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo]» (Ippolito, DK<br />
22B64).<br />
Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle<br />
posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato<br />
alla divinità della <strong>natura</strong>-principio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un<br />
compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose»<br />
(Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo»<br />
(Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle<br />
nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo<br />
ἄρχει, che, come vuole Coxon 31 , potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui<br />
Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ).<br />
31 Ivi, p. 242.<br />
341
È tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata<br />
come Ἀφροδίτης, sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui<br />
alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari 32 - utilizzava espressioni<br />
analoghe a quelle del filosofo greco (quae ... rerum <strong>natura</strong>m sola gubernas, I.21). A<br />
insistere per questa lettura è soprattutto Ruggiu 33 , per il quale la δαίμων sembra essere la<br />
personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose:<br />
l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di<br />
una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore<br />
(IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si<br />
potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il<br />
complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-<br />
9) di Aristofane.<br />
La funzione cosmo-teogonica della δαίμων<br />
B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al<br />
ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα<br />
μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν):<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·<br />
πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει<br />
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις<br />
ἄρσεν θηλυτέρῳ<br />
«in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa.<br />
Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,<br />
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario,<br />
il maschile al femminile» (B12.3-6).<br />
Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio<br />
(contesto B12):<br />
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν<br />
λέγων οὕτως ‘ αἱ γὰρ ... κυβερνᾶι’ . [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ<br />
σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν<br />
συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων∙ ‘ αἱ δ’ ἐπὶ ...<br />
θηλυτέρωι’ . [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι<br />
π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν.<br />
«poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,<br />
dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma<br />
anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente,<br />
dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al<br />
tutto ed è causa di ogni generazione»,<br />
e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica:<br />
ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘ πρώτιστον ... πάντων’ κτλ.<br />
καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ<br />
ἀνάπαλίν φησιν.<br />
32 Ferrari, op. cit., p. 106 nota.<br />
33 Op. cit., p. 344.<br />
342
«sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che<br />
invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (Simplicio, contesto<br />
B13).<br />
L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13:<br />
πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων…<br />
«Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore»,<br />
confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13):<br />
διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι<br />
κοσμογονίαι γράφων ‘ πρώτιστον ... πάντων’<br />
«perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella<br />
cosmogonia [B13]».<br />
Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione<br />
aristotelica di B13 (Metafisica I, 4, 984b23-7):<br />
ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος<br />
ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.∙ οὗτος γὰρ<br />
κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘ πρώτιστον μέν, φησίν [B13]<br />
«Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche<br />
se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide.<br />
Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]».<br />
Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della<br />
strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28A37):<br />
nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην<br />
appellat), continentem ardorum lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat<br />
deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest.<br />
multaque eiusdem monstra: quippe qui Bellum, qui Discordiam,<br />
qui Cupiditatem [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel<br />
morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus,<br />
quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur<br />
«Parmenide immagina qualcosa di fittizio: immagina una corona (egli la chiama<br />
στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio.<br />
In esso non si può pensare che ci sia figura divina né sensibilità. Inoltre, immagina moltre<br />
altre assurdità di tale specie: infatti mette in relazione dio con la Guerra, la Discordia, la<br />
Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal<br />
sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose vengono dette anche sugli astri,<br />
essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo» (traduzione di G.<br />
Reale).<br />
Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la<br />
speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente<br />
certi:<br />
(i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta<br />
con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente<br />
sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν),<br />
origine di ogni generazione (γένεσις);<br />
343
(ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν)<br />
dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle<br />
δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e<br />
corruzione 34 ;<br />
(iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea]<br />
invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς<br />
πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno<br />
si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione:<br />
πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει<br />
«di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione».<br />
Conche (tra gli altri) si è soffermato 35 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in<br />
orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di<br />
una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel<br />
suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso;<br />
(iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una<br />
forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio,<br />
infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία),<br />
mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione<br />
cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς<br />
γένεσιν);<br />
(v) a dire di Cicerone, altre figure divine dovevano cooperare all'attività direttiva della<br />
δαίμων: «mette in relazione dio con la Guerra, la Discordia, la Passione [B13] e tutte le<br />
altre cose del genere» (qui Bellum, qui Discordiam, qui Cupiditatem [B 13]<br />
ceteraque generis eiusdem ad deum revocat): evidente l'analogia con le forze<br />
cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al<br />
modello parmenideo).<br />
In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide<br />
impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era<br />
accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito,<br />
da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν<br />
γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della <strong>natura</strong> stessa<br />
del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga.<br />
Secondo Ruggiu 36 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il<br />
processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella<br />
forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης), di cui Eros (insieme alle<br />
altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un<br />
tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di<br />
congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due<br />
principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma,<br />
in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito»<br />
(letteralmente «meditato, pensato») Eros 37 . Si può dunque osservare ulteriormente che:<br />
34 Ivi, p. 340.<br />
35 Op. cit., pp. 225 ss..<br />
36 Op. cit., p. 340.<br />
37 Coxon, op. cit., p. 242.<br />
344
(vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare,<br />
timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra<br />
dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma<br />
anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica<br />
evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione<br />
concettuale» 38 .<br />
38 Cerri, op. cit., p. 273.<br />
345
B14-14a-15-15a<br />
I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per<br />
altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di<br />
difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il<br />
fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico<br />
di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per<br />
le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore) 1 :<br />
οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον,<br />
ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς]<br />
ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν.<br />
«nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come<br />
Parmenide:<br />
"di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri" –<br />
elimina l'uso del ferro o la <strong>natura</strong> della Luna».<br />
τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη<br />
περίεισι κατὰ Π.<br />
αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο.<br />
«Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui,<br />
secondo Parmenide.<br />
...sempre rivolta verso i raggi del sole».<br />
Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo<br />
subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica 2 ovvero<br />
sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata<br />
rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi).<br />
Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come<br />
abbiamo segnalato in nota al testo.<br />
Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche:<br />
(i) la conferma della <strong>natura</strong> circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante<br />
intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον);<br />
(ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle<br />
testimonianze teofrastee;<br />
(iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare<br />
(ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo<br />
informati della origine e composizione di Luna e Sole:<br />
Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν<br />
ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ<br />
ψυχρόν.<br />
«Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via<br />
Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più<br />
densa, che è fredda» (DK 28A43)<br />
συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός<br />
«La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco» (DK 28A37)<br />
1 Coxon, op. cit., pp. 244-5.<br />
2 Cerri, op. cit., p. 274.<br />
346
Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]∙<br />
καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι.<br />
Πυθαγόρας, Παρμ. ... ὁμοίως<br />
«Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile<br />
[per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna]<br />
è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide .....».<br />
È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa<br />
fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici<br />
(fenomenici) più deboli rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il<br />
pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi<br />
neppure splendente 3 .<br />
3 Conche, op. cit., pp. 235-6.<br />
347
B16<br />
Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente<br />
una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno<br />
della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la<br />
sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica<br />
non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più<br />
significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del<br />
poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti<br />
alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi<br />
contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla<br />
sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una<br />
concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato<br />
dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso<br />
affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà.<br />
L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi<br />
parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera.<br />
Il contesto peripatetico<br />
Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5,<br />
1009 b21) e Teofrasto (De sensu, 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e<br />
Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico.<br />
Aristotele<br />
Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine<br />
relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed<br />
egualmente false), che lo Stagirita fa derivare dalla combinazione di un orizzonte<br />
teorico di sfondo e di due assunti specifici.<br />
Per quanto riguarda il primo aspetto, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori<br />
citati, egli osserva (a più riprese):<br />
ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν<br />
«la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili» (Metafisica<br />
IV, 5, 1009b1)<br />
αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ<br />
δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον<br />
«causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti,<br />
ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili» (1010a1-3).<br />
Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su<br />
una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le<br />
assunzioni su cui poggia, invece, l'interpretazione specifica sono: (i) che la sensazione<br />
(αἴσθησις) sia pensiero (φρόνησις) e (ii) che essa coincida con un processo di alterazione<br />
fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto:<br />
ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι<br />
ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν∙<br />
ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν<br />
ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς<br />
348
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν∙ “πρὸς παρεὸν γὰρ<br />
μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον ἀλλοῖοι<br />
μετέφυν, τόσον ἄρʹ σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ<br />
Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον∙[B16]<br />
«Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione,<br />
sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in<br />
vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli<br />
altri [<strong>natura</strong>listi] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che,<br />
mutando la condizione, muti il pensiero: "in relazione alla situazione presente, in vero, agli<br />
uomini cresce la mente"; e altrove dice che: "per quanto mutano diventando diversi, di tanto<br />
sempre a loro si presenta il pensare cose diverse". Anche Parmenide si esprime nello stesso<br />
modo: [B16]».<br />
È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle:<br />
«Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν),<br />
muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν)»,<br />
prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire,<br />
Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi:<br />
καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον<br />
«anche Parmenide si esprime nello stesso modo».<br />
In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione<br />
ὡς.... τὼς:<br />
ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων,<br />
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται 2<br />
«come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti,<br />
così il pensiero si presenta agli uomini»,<br />
così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la<br />
correlazione precedente (ἕξις‐φρόνησις): si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει<br />
κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò<br />
va aggiunto che la seconda citazione empedoclea:<br />
ὅσσον ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρʹ σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα<br />
παρίστατο<br />
«per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose<br />
diverse»,<br />
richiama, nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per<br />
l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in<br />
un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος.<br />
Indubbiamente, anche evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le<br />
coordinate di lettura di B16.<br />
Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora nel De Anima:<br />
1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio<br />
difficilior ἔχῃ (congiuntivo).<br />
2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto.<br />
349
Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον<br />
καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν<br />
ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ<br />
γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν<br />
εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται<br />
ἀνθρώποισιν” καὶ ἐν ἄλλοις “ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα<br />
παρίσταται”, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου “τοῖος γὰρ νόος<br />
ἐστίν”, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι<br />
ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ<br />
καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν<br />
«L'anima è per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare, il<br />
riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in<br />
entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e del resto gli<br />
antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò:<br />
"in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente"; e altrove: "per<br />
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose<br />
diverse". La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: "tale è infatti la mente". Tutti<br />
costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che<br />
sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto inizialmente nel<br />
nostro discorso» (De Anima III, 3, 427a17-29).<br />
Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché<br />
l'equazione aristotelica tra «pensare» e «percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ<br />
αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla<br />
connotazione conclusiva del pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ<br />
νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè,<br />
ancora, «gli antichi»).<br />
Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione omerica (in Metafisica<br />
IV, 5, 1009 b28-30 si evocava Iliade, XXIII.698), di cui molti studiosi ritrovano eco in<br />
B16:<br />
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,<br />
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε<br />
«tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra,<br />
quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei» (Odissea, XVIII.136-7).<br />
Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la costitutiva debolezza della comprensione<br />
umana e la sua totale dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che<br />
circolava nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a<br />
quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),<br />
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4).<br />
Teofrasto<br />
Secondo Coxon 3 , Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la<br />
citazione del maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da<br />
un testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16 troverebbe<br />
collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεων (De Sensu) e come potrebbe<br />
riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione (dal simile o dai contrari), se non<br />
3 Op. cit., p. 247.<br />
350
appunto per la precedente (incrociata) lettura aristotelica di Metafisca IV, 5 e De Anima<br />
III, 3:<br />
περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν∙ οἱ μὲν γὰρ τῶι<br />
ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι<br />
ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν γὰρ<br />
ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ<br />
ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην<br />
γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν∙ οὐ μὴν<br />
ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας∙ ‘ὡς γὰρ ἑκά στ οτε, φησίν, ἔχει<br />
... νόημα’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει∙ διὸ καὶ<br />
τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως∙ ἂν δ’<br />
ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι<br />
διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς<br />
φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν<br />
ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ<br />
ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι<br />
τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.<br />
«Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno<br />
derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, quelli<br />
intorno ad Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, non ha<br />
complessivamente precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza<br />
si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il<br />
pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello secondo il<br />
caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione. [citazione B16]. Parla del<br />
percepire e del pensare come della stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano<br />
da queste cose attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa<br />
l'eventualità che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e<br />
quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé<br />
considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né<br />
luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i<br />
contrari. Nel complesso sostiene che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva.<br />
Così, dunque, egli sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua<br />
teoria».<br />
A differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici<br />
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea, il<br />
contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo tuttavia<br />
trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia generale 4 : né Aristotele<br />
né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ<br />
αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque,<br />
che nessuno dei due intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della<br />
conoscenza a percezione 5 , riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della<br />
conoscenza del mondo sensibile.<br />
In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle<br />
due opinioni prevalenti περὶ αἰσθήσεως (secondo lo schema delle testimonianze<br />
4 Cerri, op. cit., pp. 277-8.<br />
5 Coxon, op. cit., p. 251.<br />
351
aristoteliche che doveva già risultare condizionante 6 ): la prima novità rispetto<br />
all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto:<br />
περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν∙ οἱ μὲν γὰρ τῶι<br />
ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι<br />
ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι<br />
«Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno<br />
derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, quelli<br />
intorno ad Anassagora e Eraclito dal contrario».<br />
Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione della percezione<br />
dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto<br />
segnali come:<br />
Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν<br />
«Parmenide, in effetti, non ha complessivamente precisato alcunché [...]».<br />
La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa<br />
valorizza un particolare trascurato da Aristotele:<br />
ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις<br />
«[...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento<br />
che prevale».<br />
Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16:<br />
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα<br />
«ciò che prevale, infatti, è il pensiero».<br />
Dal punto di vista di Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in<br />
campo conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale<br />
nella mescolanza.<br />
Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo:<br />
καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν<br />
«Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva».<br />
La convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea:<br />
i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà»<br />
(δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza.<br />
Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni<br />
gnoseologiche di Parmenide:<br />
(i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e<br />
«il freddo» (τὸ ψυχρόν);<br />
(ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις):<br />
a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν<br />
διάνοιαν);<br />
6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études<br />
sur Parménide, cit., vol. II, p. 281.<br />
352
(iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è<br />
«quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν);<br />
(iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος<br />
συμμετρίας);<br />
(v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς<br />
ταὐτὸ);<br />
(vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha presente<br />
una parte del poema per noi perduta):<br />
ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν<br />
νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ<br />
πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι<br />
«Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal<br />
freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né<br />
suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari»;<br />
(vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ<br />
γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che<br />
Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico.<br />
Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii),<br />
che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il<br />
rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo<br />
sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando<br />
invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti<br />
dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia<br />
impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per<br />
marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la<br />
relazione psico-fisica che vi è tematizzata 7 .<br />
Ricostruzione dei vv. 1-2a<br />
I primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole<br />
rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso<br />
generale non cambia di molto:<br />
ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων,<br />
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν<br />
«Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti,<br />
così il pensiero si presenta agli uomini».<br />
Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del<br />
primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente,<br />
tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è<br />
correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι),<br />
alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων<br />
πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero<br />
della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la<br />
7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-<br />
New York 2010, p. 181.<br />
353
correlazione ἕξις‐φρόνησις. Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova<br />
indirettamente conferma nella tradizione dossografica:<br />
δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ<br />
ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι∙ αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν<br />
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν<br />
νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς [fr. 6a. D.<br />
483, 2], πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα.<br />
«Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice, l'altro<br />
di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo dal Sole e che a<br />
quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono<br />
costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche<br />
Teofrasto nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi]» (Diogene<br />
Laerzio (IX.21-2), DK 28A1).<br />
Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse].<br />
Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ<br />
Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη<br />
ζῶιον ἄλογον κυρίως<br />
«Parmenide dice che l'anima è costituita di terra e fuoco» (Macrobio, DK 28A45)<br />
«Parmenide e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha<br />
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e<br />
l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza<br />
ragione» (Aëtius, DK 28A45).<br />
Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero<br />
Fuoco e Terra) la <strong>natura</strong> umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività<br />
percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza<br />
di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle,<br />
nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle<br />
componenti in un'amalgama coesa.<br />
Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non<br />
indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il<br />
costume omerico di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare<br />
dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psico-fisica, l'interdipendenza<br />
tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8 : in tal caso, il tradizionale<br />
motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia 9 della comprensione umana risulterebbe<br />
decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza del<br />
pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula omerica sopra<br />
ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima):<br />
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,<br />
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε<br />
«tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra,<br />
quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei»,<br />
quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico corporeo 10 .<br />
8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142.<br />
9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162.<br />
10 Ivi, p. 176.<br />
354
L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio<br />
la mutevolezza, l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta<br />
dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto<br />
πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso,<br />
quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che<br />
sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto:<br />
νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa:<br />
παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra che<br />
molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non sembra<br />
essere in controllo 11 .<br />
Ricostruzione dei vv. 2b-4<br />
Il frammento prosegue:<br />
τὸ γὰρ αὐτό<br />
ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν<br />
καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα<br />
«perché è precisamente la stessa cosa<br />
ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo,<br />
in tutti e in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero».<br />
Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto. Nella<br />
nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione<br />
secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a),<br />
precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini»<br />
(ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo»<br />
(μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza,<br />
quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del<br />
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella tradizione critica<br />
(Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων φύσις come apposizione (con<br />
valore esplicativo 12 ), risulta un po' artificiosa 13 .<br />
A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero (νόημα, qui da<br />
intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che prevale» (τὸ πλέον). Il<br />
senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come abbiamo avuto modo di registrare:<br />
ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις<br />
«[...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale».<br />
Il lessico di Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare<br />
piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la<br />
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra posta al<br />
centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco), informa il κοῦρος,<br />
destinatario diretto della comunicazione, circa l'inevitabile condizionamento del<br />
pensiero umano: in altre parole, all'interno della complessiva illustrazione della realtà<br />
11 Ivi, pp. 162-3.<br />
12 Come spiegano nel loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290).<br />
13 Per una aggiornata disamina della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione<br />
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss..<br />
355
cosmica e dei suoi processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi<br />
fisiologici alla base delle attività spirituali.<br />
In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere in guardia la propria audience.<br />
Soprattutto se consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella<br />
rappresentazione omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale,<br />
il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso<br />
di Parmenide, una consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e<br />
«spirito/pensiero» (νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni<br />
reciproche.<br />
Il κοῦρος è stato invitato a:<br />
(i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica:<br />
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω<br />
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν<br />
καὶ γλῶσσαν<br />
«né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza<br />
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante<br />
e la lingua» (B7.3-5a),<br />
(ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada che<br />
disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà:<br />
ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν<br />
, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν<br />
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται.<br />
κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα<br />
«da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno<br />
, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro<br />
petti guida la mente errante. Essi sono trascinati,<br />
a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate» (B6.4-5a),<br />
(iii) imparare attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea:<br />
κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον<br />
«Giudica invece con il ragionamento la prova polemica» (B7.5b),<br />
(iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero:<br />
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως<br />
«Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti» (B4.1),<br />
(v) e sulla effettiva <strong>natura</strong> del suo oggetto:<br />
τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι<br />
«La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere» (B3).<br />
In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da<br />
inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e<br />
coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al pensiero le<br />
356
condizioni ideali 14 . Potrebbe allora non essere casuale la relazione lessicale tra «mente<br />
errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a):<br />
ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν<br />
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον<br />
«impotenza davvero nei loro<br />
petti guida la mente errante»,<br />
e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16):<br />
ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων,<br />
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν<br />
«come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti,<br />
così il pensiero si presenta agli uomini».<br />
Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα μέλεα,<br />
possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per converso,<br />
possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης<br />
(B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli elementi corporei: nella<br />
testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse<br />
l'illustrazione dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o<br />
indirettamente) la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:<br />
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un<br />
accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di<br />
controllo 15 .<br />
Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri giunti<br />
dalla ricerca archeologica, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno<br />
intravedere la possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un<br />
«cenacolo di filosofi razionalisti» 16 : probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo<br />
Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso<br />
Parmenide, il quale è evocato in una iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito<br />
dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di<br />
Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo<br />
confermano l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις<br />
ἰατρός φώλαρχος, letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che<br />
onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico-indovino sacerdote di Apollo, da<br />
identificare probabilmente con lo stesso Parmenide 17 .<br />
È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica<br />
vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga alla<br />
letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il<br />
rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medicoindovino,<br />
in effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e<br />
14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5.<br />
15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in<br />
guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo<br />
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea.<br />
16 Passa, op. cit., p. 17.<br />
17 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die<br />
Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss..<br />
357
icavandone indicazioni terapeutiche idonee 18 . Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza<br />
avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto<br />
silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé<br />
il manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva interpretare.<br />
Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione della condizione<br />
psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati<br />
percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare corretto.<br />
18 Kingsley, op. cit., pp. 120-7.<br />
358
B17 e B18<br />
I due frammenti (B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della<br />
differenziazione dei sessi (B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e<br />
psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embrioge<strong>net</strong>ica. Non a caso sono il<br />
risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva<br />
corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile:<br />
τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν<br />
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη<br />
«Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra<br />
dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17]».<br />
Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e l'assenza di<br />
indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi<br />
sull'attendibilità di quella che rimane comunque una "scheggia" testuale 1 .<br />
A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in<br />
particolare, nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων<br />
παθῶν (Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo<br />
invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è<br />
proposta nel seguente contesto:<br />
Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando<br />
seu subactos homines generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus<br />
intimabo. latinos enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur.<br />
’ femina ... sexum’ .<br />
«Parmenide, nei libri <strong>Sulla</strong> <strong>natura</strong>, afferma che, secondo le modalità di concezione, si<br />
generano talvolta uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi,<br />
lo proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto<br />
mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18] [...]».<br />
Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma<br />
traduzione-rielaborazione 2 , sebbene, come ha osservato Coxon 3 , la facilità con cui si<br />
possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come<br />
segnalato dalla precisazione: «ut potui simili modi»).<br />
Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano,<br />
sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino (28 DKA53):<br />
Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ<br />
δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’<br />
ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα<br />
igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris<br />
tum e laevis partibus oriri putavit<br />
«Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte<br />
destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si<br />
generano femmine.<br />
Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove<br />
esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla<br />
parte sinistra».<br />
1 Conche, op. cit., p. 258.<br />
2 Cerri, op. cit., p. 285.<br />
3 Op. cit., p. 253<br />
359
Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa <strong>natura</strong> e<br />
meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la<br />
testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno.<br />
Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della tesi secondo cui il<br />
maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De<br />
generatione animalium IV, 1, 763b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν<br />
φυσιολόγων):<br />
φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον<br />
Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων∙ γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ<br />
σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν<br />
τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς<br />
εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς<br />
«Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora<br />
e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e<br />
il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre<br />
dell'utero, le femmine nelle parti sinistre»,<br />
e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito<br />
esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere<br />
maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla<br />
sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide<br />
facesse derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte<br />
sinistra dei genitali maschili e femminili.<br />
La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di<br />
Parmenide circa il contributo al concepimento:<br />
Femina virque simul Veneris cum germina miscent,<br />
Venis informans diverso ex sanguine virtus<br />
Temperiem servans bene condita corpora fingit.<br />
«Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere,<br />
la potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto,<br />
conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti» (B18.1-3).<br />
Il testo (di tenore parmenideo 4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti:<br />
(i) i semi originano dal sangue (maschile e femminile);<br />
(ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi<br />
sono opposti come il sangue da cui provengono 5 («da sangue opposto», diverso ex<br />
sanguine);<br />
(iii) i due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione.<br />
Incrociando queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti<br />
delle citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla<br />
relazione ge<strong>net</strong>ica dei figli ai genitori 6 : entrambi i semi delle parti (genitali) destre<br />
generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine<br />
simili alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e<br />
femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri.<br />
4 Conche, op. cit., p. 262.<br />
5 Ibidem.<br />
6 Coxon, op. cit., p. 253.<br />
360
Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e<br />
seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due<br />
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che,<br />
mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice<br />
(informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18:<br />
Nam si virtutes permixto semine pugnent<br />
Nec faciant unam permixto in corpore, dirae<br />
Nascentem gemino vexabunt semine sexum.<br />
«Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono<br />
e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche<br />
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme» (B18.4-6),<br />
e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione:<br />
vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem<br />
corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto semine<br />
corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur<br />
«Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le<br />
quali se si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere<br />
(voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme<br />
corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di<br />
amore».<br />
Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans) nella<br />
loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro<br />
proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in<br />
corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo<br />
disagio sessuale e psichico 7 : lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam<br />
sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere<br />
umano.<br />
Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto<br />
attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica<br />
proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio, 24 DKA1). Nel frammento<br />
B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti:<br />
Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰσονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ,<br />
ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς<br />
μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν∙ φθοροποιὸν γὰρ ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν<br />
δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν<br />
«Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo<br />
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia:<br />
micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è<br />
mescolanza misurata delle qualità».<br />
Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla<br />
tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli<br />
elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze<br />
accentuano le convergenze anche nello specifico:<br />
7 Ivi, p. 254.<br />
361
ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. (Censorino, DK<br />
24A14)<br />
«Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello dei due genitori, il cui seme è stato più<br />
abbondante» (traduzione M. Timpanaro Cardini).<br />
Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori<br />
contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello<br />
sperma un'opinione diversa:<br />
Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα)<br />
«Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello» (Aëtius, DK 24A13).<br />
Mentre Coxon 8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu 9<br />
tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata<br />
esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa.<br />
È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo,<br />
amaro-dolce ecc.) dalla più antica tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare le<br />
tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico appare ancora<br />
quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni biologiche di Parmenide<br />
sono inquadrate all'interno di una complessiva interpretazione del mondo <strong>natura</strong>le in<br />
chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla<br />
riproduzione che abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva<br />
direttamente in chiave cosmica:<br />
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·<br />
πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει<br />
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις<br />
ἄρσεν θηλυτέρῳ.<br />
«in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa.<br />
Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,<br />
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario,<br />
il maschile al femminile» (B12.3-6).<br />
È possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia<br />
effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte<br />
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che<br />
ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che<br />
le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico<br />
interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto<br />
anche in ambito biologico. Il tema dell'opposizione-ricomposizione degli elementi<br />
risulta per altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di<br />
Alcmeone:<br />
«come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica<br />
ἄπειρον‐πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone alcune<br />
opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina» 10 .<br />
8 Op. cit., p. 252.<br />
9 Op. cit., p. 366.<br />
10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010<br />
(edizione originale 1958-1964), pp. 134-5.<br />
362
Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici<br />
nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di<br />
paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola<br />
medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della<br />
pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione<br />
pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale 11 .<br />
11 Ivi, p. 133.<br />
363
B19<br />
Il frammento DK 28B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio nel suo In<br />
Aristotelis quattuor libros de caelo commentaria (558), in un contesto particolare (557-<br />
8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32,<br />
B8.50-53 e appunto B19):<br />
οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ<br />
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς,<br />
ἀλλὰ δοκοῦν ὄν∙ διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον<br />
δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28‐32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ<br />
τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν<br />
[B8.50‐53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19].<br />
πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ<br />
τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς<br />
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ<br />
νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν<br />
ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν;<br />
«Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è<br />
veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non<br />
ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo<br />
afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice:<br />
[B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è<br />
veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili,<br />
aggiunse: [B8.50-53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili,<br />
aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose<br />
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di<br />
tale consistenza e mole da non poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le<br />
caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza<br />
distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e<br />
non ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere?».<br />
Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse<br />
citazioni, dovremmo concludere che:<br />
(i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il commentatore trova<br />
conferma in B1.28b-32;<br />
(ii) il passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53;<br />
(iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella che il commentatore designa<br />
come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza<br />
tuttavia la deduzione che esso chiudesse il poema 1302 .<br />
Ancora sulla doxa parmenidea<br />
Il contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella<br />
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo<br />
- sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato<br />
nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:<br />
1302 Non tutti concordano su questo punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il<br />
frammento – <strong>natura</strong>le conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera e propria<br />
chiusa.<br />
364
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος<br />
λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico<br />
della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν),<br />
che costituisce l'«essere in senso assoluto» (ὂν ἁπλῶς);<br />
(ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica dell'«ordinamento sensibile»<br />
(διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce<br />
all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui statuto ontologico è quello di «essere che<br />
appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua <strong>natura</strong> «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque<br />
sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione specifica è designata – in<br />
contrapposizione alla verità che concerne l'essere in senso pieno - come «opinione<br />
riguardo all'essere in divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα).<br />
È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi<br />
(28b-32) del proemio:<br />
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι<br />
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ<br />
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.<br />
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα<br />
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα.<br />
La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere:<br />
(i) la rivelazione circa «il cuore fermo di Verità ben rotonda» (Ἀληθείης εὐκυκλέος<br />
ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος;<br />
(ii) la ricostruzione «plausibile» (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono»,<br />
ovvero delle «cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il<br />
commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque<br />
investito anche l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν<br />
αἰσθητῶν.<br />
Il contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ<br />
φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata<br />
all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in cui non è reale credibilità»<br />
(βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece essere distribuito nelle<br />
altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la citazione di B19, troviamo<br />
conferma di una linea di lettura del poema che, all'interno della tradizione platonica, ha<br />
per noi un importante precedente in Plutarco:<br />
ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν<br />
τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον<br />
ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ<br />
τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν<br />
Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος<br />
ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B<br />
1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις<br />
ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ<br />
ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν.<br />
«[Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è<br />
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto<br />
eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere<br />
differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di<br />
365
ciò è possibile vedere: "il cuore preciso della Verità ben convincente", che raggiunge<br />
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e "le opinioni dei mortali in cui<br />
non è vera certezza" [B1.29-30], perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni<br />
forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare<br />
sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile? Non è possibile<br />
sostenerlo» (Plutarco, Adversus Colotem, 1114 d-e),<br />
e nella dossografia peripatetica (Teofrasto):<br />
Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ<br />
πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ<br />
ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ<br />
σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν<br />
ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην<br />
τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν.<br />
«Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il<br />
tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo<br />
sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e<br />
ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la<br />
generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia,<br />
l'altro invece come causa e agente» (DK 28A7).<br />
Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di<br />
contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica:<br />
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν∙ παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν<br />
οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...]<br />
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον<br />
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς<br />
ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων∙ τούτων δὲ<br />
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν<br />
«Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal<br />
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che<br />
l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e<br />
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua<br />
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi<br />
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere» (Metafisica I, 5, 986 b27 - 987<br />
a1).<br />
Possiamo leggere il passo aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi<br />
della originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico:<br />
Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di<br />
Melisso, il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragione)» (κατὰ τὸν λόγον)<br />
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro. Anticipando<br />
l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo Colote, lo Stagirita<br />
poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν) «secondo ragione» (appunto<br />
κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si<br />
evitava in questo modo di fare di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto»<br />
ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della<br />
filosofia eleatica soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto,<br />
366
Parmenide, Sofista, Timeo) 1303 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante<br />
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco),<br />
si trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla scorta<br />
dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ Περὶ φύσεως.<br />
Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio<br />
faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso della<br />
doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del<br />
poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del<br />
poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 1304 - si<br />
conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa<br />
realtà 1305 : secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo<br />
coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi<br />
correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ<br />
γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà<br />
intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto<br />
adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ<br />
αἰσθητὰ).<br />
B19 e la doxa<br />
I tre versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono<br />
sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula<br />
οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche»<br />
considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica» 1306 ):<br />
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι<br />
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα·<br />
τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ<br />
«Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono 1307 ,<br />
e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine.<br />
A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna».<br />
Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione<br />
temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è<br />
difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in<br />
B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in<br />
vero, attraverso scelte espressive ben ponderate:<br />
a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις<br />
(B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema;<br />
1303 Su questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23.<br />
1304 Ivi, pp. 25 ss..<br />
1305 Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P.,<br />
Oxford 2009, pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41.<br />
1306 Conche, op. cit., p. 265.<br />
1307 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un<br />
punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐὸν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli<br />
avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione<br />
dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5.<br />
367
) il presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν<br />
di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di<br />
precarietà e sfuggente puntualità;<br />
c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα,<br />
marcando, insomma, il nesso tra fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale<br />
– τελευτάω - derivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore diverso rispetto<br />
a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42:<br />
τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in quanto giunto al proprio fine e al<br />
proprio compimento» 1308 .<br />
Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore<br />
linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne<br />
gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini<br />
perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti<br />
fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la<br />
possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso 1309 . Non a caso l'interpretazione κατὰ<br />
δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente si<br />
escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu 1310 ha colto nel linguaggio<br />
di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più<br />
vicino alla verità delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei<br />
termini ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e<br />
dell'«assenza». Uno sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe<br />
colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica:<br />
ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν<br />
ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί<br />
φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν<br />
εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων<br />
ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι∙ οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ<br />
ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι∙ ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς<br />
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν.<br />
«Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la <strong>natura</strong><br />
degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose<br />
che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o<br />
da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si<br />
genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è<br />
richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato (soggiacia). Così si spinsero, aggravando<br />
le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere» (Fisica I, 8<br />
191a25 ss.).<br />
1308 Ruggiu, op. cit., pp. 370-1.<br />
1309 Ivi, p. 370.<br />
1310 Ivi, pp. 370-1.<br />
368