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STUDI ETRUSCHI - Bretschneider Online

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ISTITUTO NAZIONALE<br />

DI <strong>STUDI</strong> <strong>ETRUSCHI</strong> ED ITALICI<br />

FIRENZE<br />

<strong>STUDI</strong> <strong>ETRUSCHI</strong><br />

V O L . L X X V – M M I X – ( SE R I E I I I )<br />

G I O R G I O B R E T S C H N E I D E R E D I T O R E<br />

2 0 1 2


Direttore<br />

GIOVANNANGELO CAMPOREALE<br />

Comitato Direttivo<br />

LUCIANO AGOSTINIANI - MARIA BONGHI JOVINO - GIOVANNI COLONNA<br />

LUIGI DONATI - ADRIANO MAGGIANI - MARINA MARTELLI<br />

ALDO LUIGI PROSDOCIMI - GIUSEPPE SASSATELLI<br />

Segretario di Redazione<br />

ORAZIO PAOLETTI<br />

La realizzazione contenutistica e redazionale dell’opera è stata permessa grazie al contributo del Ministero<br />

per i Beni e le Attività Culturali e della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli (Firenze)<br />

ISSN 0391-7762<br />

È vietata ogni forma di totale o parziale riproduzione, diffusione, distribuzione o altro diverso utilizzo,<br />

con qualsiasi modalità o strumento, senza la preventiva autorizzazione scritta dell’Editore<br />

PROPRIETÀ DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI <strong>STUDI</strong> <strong>ETRUSCHI</strong> ED ITALICI<br />

Reg. Tribunale di Firenze n. 5257<br />

COPYRIGHT © 2012 by GIORGIO BRETSCHNEIDER EDITORE - ROMA<br />

Via Crescenzio, 43 - 00193 Roma - www.bretschneider-online.it/studi_etruschi


SOMMARIO DEL VOLUME<br />

Elenco delle abbreviazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. VII<br />

Parte I - Storia - Archeologia - Religione<br />

MARIA BONGHI JOVINO - Alle origini del processo di strutturazione del tempio etrusco. La presenza<br />

del podio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 3<br />

GIOVANNI COLONNA - Ancora su Śur/Śuri. 1. L’epiteto *Eista (“il dio”); 2. L’attributo del fulmine<br />

(tavv. I-IV) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9<br />

JEAN-PAUL THUILLIER - Sur/*Śuri/Śuris/Sorex/Sors: le dieu et les sorts (tav. V) . . . . . » 33<br />

RICCARDO CHELLINI - Eolo, non Etolo: il mito di Pegaso alla fonte su uno specchio del Cabinet<br />

des Médailles (tavv. VI-VIII) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 51<br />

GLENN markoe - An Etruscan bronze figure of a male votary in Cincinnati: An examination of<br />

its style (tavv. IX-X) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 57<br />

GIOVANNANGELO CAMPOREALE - Appunti sull’ipogeo dei Volumni (tavv. XI-XIV) . . . » 61<br />

Parte II - Lingua - Epigrafia<br />

JEAN HADAS-LEBEL - Le locatif etrusque en -li: un locatif II . . . . . . . . . . . Pag. 75<br />

VALENTINA BELFIORE - Una nuova forma di negazione in etrusco . . . . . . . . . » 93<br />

LUCIANO AGOSTINIANI - RICCARDO MASSARELLI - Non una ma due: sulla lamina con<br />

culśanś al Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona (tavv. XV-XVI) . . . . » 107<br />

LUCIANO AGOSTINIANI - GIULIO M. FACCHETTI - Il vaso di Niumsis Tanunis (tavv. XVII-<br />

XXII) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 123<br />

Parte III - Naturalistica - Tecnica<br />

SILVIA NUTINI - Analisi archeozoologica della fauna proveniente dallo scavo di Fonteblanda (Grosseto),<br />

1993 (tav. XXIII) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 149<br />

LORENZO COSTANTINI - LOREDANA COSTANTINI BIASINI - FABRIZIO PICA - MONI-<br />

CA STANZIONE - Analisi archeobotaniche a Chiusi: semi e carboni dallo scavo del Petriolo<br />

(tavv. XXIV-XXV) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 165


VI<br />

Sommario del volume<br />

Parte IV - Riviste epigrafiche<br />

Rivista di epigrafia etrusca (a cura di Luciano Agostiniani, Giovanni Colonna,<br />

Adriano Maggiani) (tavv. XXVI-L) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 181<br />

R i v i s t a d i e p i g r a f i a i t a l i c a (a cura di Aldo Luigi Prosdocimi, Anna Marinetti)<br />

(tavv. LI-LVII) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 315<br />

Parte V - Notiziario<br />

V i t a d e l l ’ I s t i t u t o . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 365<br />

Consiglio direttivo e Membri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 365<br />

R a s s e g n a b i b l i o g r a f i c a (a cura di Enrico Benelli con la collaborazione di Maria Pia<br />

Marchese Bastianini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 375<br />

Recensioni<br />

Nancy A. Winter, Symbols of Wealth and Power. Architectural Terracotta Decoration in Etruria and<br />

Central Italy, 640-510 B.C. (Simonetta Stopponi) . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 497<br />

Anthony Tuck, The Necropolis of Poggio Civitate (Murlo). Burials from Poggio Aguzzo (M. Cristina<br />

Biella) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 505<br />

L. Cenciaioli (a cura di), L’Ipogeo dei Volumni. 170 anni dalla scoperta (Simonetta Stopponi) . . . » 510<br />

J. de La Genière - G. Greco (a cura di), Il santuario di Hera alla foce del Sele. Indagini e studi 1987-<br />

2006 (Maria Bonghi Jovino) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 516<br />

Necrologi<br />

Fu lv i o Ca n c i a n i (Antonio Giuliano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 521<br />

Cambi continuativi con gli «Studi Etruschi» . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 523<br />

Cambi continuativi con il «Notiziario» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 524<br />

Pubblicazioni ricevute in dono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 526<br />

Indice delle tavole fuori testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 531


RECENSIONI<br />

Na n c y A. Wi n t e r, Symbols of Wealth and Power. Architectural Terracotta Decoration in<br />

Etruria and Central Italy, 640-510 B.C., Memoirs of the American Accademy in Rome<br />

Suppl. IX, Ann Arbor 2009, pp. l i i + 676.<br />

Il lavoro di N. A. Winter si propone di ricostruire i sistemi decorativi fittili in uso<br />

negli edifici d’Etruria ed Italia centrale dal 640 al 510 a.C., cioè in quella nota come ‘prima<br />

fase’ di A. Della Seta 1 . In materia di terrecotte è d’obbligo il riferimento al volume<br />

di A. Andrén, utilissimo e relativo a tutta la produzione fittile architettonica, ma che ormai<br />

– a 70 anni di distanza dalla sua pubblicazione 2 – mostra ‘i segni del tempo’ ed un<br />

approccio di studio in gran parte superato. Il volume in esame non si pone come una<br />

revisione, ma amplia a dismisura la documentazione accumulatasi nei decenni e soprattutto<br />

affronta lo studio con prospettive aggiornate ed attente alla moderna metodologia<br />

d’indagine. Le cronologie, che nel volume dell’Andrén erano ancora tutte determinate<br />

sul piano stilistico, vengono ora supportate – quando possibile – anche da dati di scavo<br />

e dall’esame dei contesti: la seriazione diacronica dei tetti costituisce infatti uno degli<br />

aspetti fondamentali del volume.<br />

Dopo gli elenchi di grafici ricostruttivi dei tetti, di figure e disegni di elementi, la bibliografia<br />

(22 pp.), suddivisa in lavori specifici ed addizionali, ed un utile glossario (pp.<br />

ix-li), il libro si apre con un’introduzione nella quale l’A. espone le ‘norme per l’uso’ del<br />

volume che verranno rigorosamente rispettate nei diversi capitoli. Viene inoltre dichiarata<br />

la programmatica rinuncia all’esegesi dei motivi figurati.<br />

L’A. articola l’imponente materiale in 7 capitoli che rispondono ciascuno ad un sistema<br />

decorativo: ogni capitolo inizia con alcune considerazioni generali sulle caratteristiche<br />

del sistema, seguono – in ordine cronologico – le ricostruzioni dei tetti corredate<br />

da sintetiche note sull’edificio di pertinenza, quindi i singoli elementi (dopo una breve<br />

introduzione sul tipo) vengono presi in esame sempre nella stessa sequenza ed indicati<br />

con lettere alfabetiche (A = sime rampanti, B = sime laterali, C = antefisse, ecc.). Ciascun<br />

elemento è individuato da una sigla formata dal numero del capitolo (e pertanto<br />

del sistema), dalla lettera alfabetica maiuscola che indica l’elemento, da un numero arabo<br />

che segnala le differenze morfologiche, da una lettera alfabetica minuscola che indica<br />

la diversità di dettagli decorativi: la sigla 4.A.2.a indicherà pertanto una sima rampante<br />

del sistema n. 4 (sistema che usa soprattutto scene militari) con profilo a cavetto<br />

a lingue concave con cavalieri al passo verso destra, mentre la sima 4.A.2.b ha cavalieri<br />

al galoppo. La sigla diventa così di immediata lettura per l’inquadramento del pezzo.<br />

Di ciascun elemento vengono descritti tipo e colori dell’argilla e della decorazione pittorica<br />

sulla base del codice Munsell. I capitoli terminano con note conclusive di sintesi<br />

sul sistema esaminato.<br />

Il primo capitolo tratta dei “Tetti non decorati o modestamente decorati, 650-530<br />

1<br />

A. De l l a Se ta, Museo di Villa Giulia, Roma 1918, pp. 127-131.<br />

2<br />

A. An d r é n, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund-Leipzig 1939-40.


498<br />

Recensioni<br />

a.C.”. Vengono assegnate a questo sistema testimonianze di tetti che, secondo le proposte<br />

degli scavatori, appaiono iniziare nel 650-625 a.C. (Roof 1-1), sebbene le evidenze<br />

siano più coerenti fra 625 e 620 a.C. (Roof 1-2 del 620 a.C.; Roof 1-3 del 625 a.C.). Si<br />

offrono 23 esempi del sistema, con due esemplificazioni grafiche, distribuiti fra Roma<br />

(l’edificio lungo la Via Sacra e la prima Regia), San Giovenale, Ficana, Satrico, Accesa,<br />

Acqua rossa (Fase 3), Roselle, Petriolo ed altri centri etruschi e laziali. Gli elementi maggiormente<br />

testimoniati sono ovviamente tegole (anche opaia), coppi e coppi di colmo,<br />

per la cui analisi si accettano i parametri tipologici individuati da Ö. Wikander 3 . Fra i<br />

materiali si segnalano le tegole da compluvium ed acroteri a corno che rinviano all’incrocio<br />

dei pali alla sommità delle coperture straminee delle capanne. L’inizio della produzione<br />

di tetti fittili, compresi quelli decorati dal 640-630 a.C. in poi (trattati nel secondo<br />

capitolo), viene dunque ancorata a poco dopo la metà del VII sec. a.C. in sincronia<br />

con la tradizione pliniana dell’arrivo di Demarato e dei tre fictores (Plin., nat. XXXV<br />

152). L’A. sottolinea per questo sistema sia l’antichità che l’importanza dell’officina romana<br />

alla quale (o alle sue maestranze) attribuisce anche le tegole da Cerveteri e da Ficana<br />

(p. 47).<br />

Il secondo capitolo riguarda i “Tetti decorati del periodo tardo-orientalizzante,<br />

640/630-580 a.C., e loro persistente influenza fino al 560 a.C. ca.”. Si tratta del capitolo<br />

che affronta i sistemi in uso principalmente a Poggio Civitate e ad Acquarossa le cui<br />

scoperte hanno rivoluzionato a partire dalla seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso<br />

le conoscenze sulla coroplastica architettonica. L’A. ha iniziato gli studi sulle terrecotte<br />

proprio in virtù della sua partecipazione agli scavi di Poggio Civitate e ne rimane<br />

testimonianza negli iniziali lavori sulle antefisse 4 . L’analisi prende avvio proprio da Poggio<br />

Civitate con il Roof 2-1 del complesso tripartito (OC3), datato al 640-630 a.C. e distrutto<br />

nel 590-580 a.C., forse dallo stesso incendio che causò la fine dell’officina (OC2)<br />

e della residenza (OC1). Lo scavo dell’edificio tripartito ha restituito i primi esempi di<br />

acroteri a ritaglio a doppia voluta colorati in rosso (2.E.2.a), come le tegole. Di rilievo<br />

l’officina, non soltanto per il proprio tetto del 630 a.C. (Roof 2-2), ma anche per quello<br />

in fabbricazione nel 590-580 a.C. (Roof 2-22). Sono presenti acroteri a corno e a ritaglio:<br />

questi ultimi dipinti nella tecnica ‘white-on-red’ analogamente alla coeva ceramica<br />

dalla quale – come si osserva a proposito di Acquarossa (p. 142) – dipende la decorazione<br />

dipinta; sono state inoltre rinvenute le prime sime laterali con gocciolatoi felini ed<br />

antefisse a testa femminile per il cui insieme si accetta il riferimento alla raffigurazione<br />

della Potnia theron, «concetto importato insieme all’innovazione tecnica delle matrici»<br />

(p. 574). Per il Roof 2-22 del 590-580 a.C. l’A. sembra porsi il problema della datazione<br />

delle matrici e della antefisse a testa ‘canopica’ (2.C.4.b) che – essendo in fabbricazione<br />

al momento dell’incendio – vengono assegnate ad un periodo piuttosto ampio (630-<br />

590/580 a.C.) se confrontato con altre datazioni. Nel capitolo si stabilisce anche la seriazione<br />

cronologica dei diversi tipi di acroteri a ritaglio, in particolare di quelli a doppia<br />

voluta. Ampio spazio d’indagine è ovviamente dedicato ai numerosi tetti di Acquarossa<br />

che vengono articolati seguendo le fasi proposte dagli scavatori e gli studi di Ch. ed Ö.<br />

Wikander ed attribuiti a due diverse officine: l’una attiva dal 640-30 al 580 a.C, la seconda<br />

dal 600 al 560 a.C. Entrambe le botteghe decorano con la tecnica ‘white-on-red’,<br />

ma se la prima appare legata ai motivi della ceramografia sud-etrusca e falisca, la secon-<br />

3<br />

Ö. Wi k a n d e r, Acquarossa VI. The Roof-Tiles 2. Typology and Technical Features, Stockholm 1993.<br />

4<br />

N. A. Wi n t e r, Architectural terracottas with human heads from Poggio Civitate (Murlo), in AC XXIX,<br />

1977, pp. 17-34; Ea d., Archaic architectural terracottas decorated with human heads, in RM LXXXV, 1978,<br />

pp. 27-58.


Recensioni 499<br />

da manifesta la conoscenza delle decorazioni attestate nelle colonie greche, in particolare<br />

nella raffigurazione del più ‘ordinato’ motivo della ‘guilloche’. Fra 600 e 580 a.C.<br />

compaiono per la prima volta importanti novità, quali, in campo figurativo, la presenza<br />

di una figura umana seduta (Roof 2-18; 2.D.1.a) e l’uso della sima rampante, nota a<br />

Poggio Civitate nel Roof 2-21 (2.A.1.a) e ad Acquarossa nel Roof 2-24 (2.A.1.b). Di rilievo<br />

l’acroterio a ritaglio a forma di pelta con felini e la Gorgone (2.E.6.b), pertinente<br />

al Roof 2-25 della Fase 2A (600-580 a.C.): per la condivisibile ipotesi della Gorgone a<br />

figura intera sono opportunamente richiamati gli esempi di Sant’Omobono, di Siracusa<br />

e di Corfù. Altri tetti tardo-orientalizzanti sono documentati a Satrico (Roof 2-6), a<br />

Cerveteri (Roof 2-27) e da un inedito tetto di San Giovenale.<br />

Il terzo capitolo esamina il “Sistema decorativo Roma-Campania-Etruria Settentrionale,<br />

590-575 a.C.” che già nel titolo denuncia la diffusione geografica degli esempi. Ora<br />

le lastre sono a rilievo e tratte da matrici. I tetti più antichi del sistema sono testimoniati<br />

a Roma. N. A. Winter propone la ricostruzione di quello della terza Regia (Roof 3-2<br />

del 590-580 a.C.) con le famose lastre con il Minotauro 5 , oggi scoperte anche a Gabii 6 .<br />

Ma elementi del sistema sono noti anche a Vignanello, Tarquinia e Veio, Piazza d’Armi.<br />

I motivi decorativi sono geometrici e figurativi: ‘guilloche’, gorgoni, felini, grifi, banchetti,<br />

cavalieri, assemblee, processioni; dominano il rosso e il bianco. Alla stessa fabbrica di<br />

Roma viene attribuito il tetto di Pithecusa (Roof 3-4). A Roma il sistema è documentato<br />

anche nella prima fase del tempio di Mater Matuta a Sant’Omobono (Roof 3-6) la cui<br />

datazione al 580 a.C. convince l’A. ad assegnarlo ad intervento del figlio di Demarato,<br />

Tarquinio Prisco. La presenza ellenizzante del frontone chiuso ed il soggetto decorativo<br />

lo avvicinano ai frontoni del primo tempio di Artemide a Corfù e dell’Athenaion di Siracusa.<br />

La testimonianza più completa del sistema è tuttavia quella restituita dall’Upper<br />

Building di Poggio Civitate ascritta al 580-575 a.C. (Roof 3-8). Sime frontonali e laterali,<br />

antefisse, lastre di rivestimento, acroteri vengono attribuiti sulla base dei contesti di<br />

rinvenimento alle diverse ali dell’edificio eretto secondo un tipo architettonico utilizzato<br />

in Grecia nelle case a pastàs. Dalla proposta presentata nel 1985 a proposito delle protomi<br />

feline come destinate agli architravi 7 si passa oggi a quella di coprigiunti di sponde<br />

di sime. Sulla base dei rinvenimenti le statue acroteriali sedute vengono assegnate al<br />

lato nord dell’edificio. Dalla documentazione di Roma a quella della Campania, a Pithecusa<br />

e Cuma (Roof 3-5), il sistema conosce in Etruria settentrionale la testimonianza<br />

di Roselle (Roof 3-10). La condivisione degli aspetti morfologici degli elementi convince<br />

N. A. Winter a suggerire che responsabili della diffusione del sistema siano l’officina<br />

romana o artigiani in essa educati.<br />

Il quarto capitolo illustra il “Sistema decorativo che usa principalmente scene militari,<br />

580-540 a.C.” che presenta innovazioni tecniche, come il cavetto con lingue concave<br />

e l’uso di matrici separate variamente combinate, e, dal 560 a.C., il primo apparire di<br />

scene mitologiche nell’ambito di sfilate di carri e di partenza del guerriero. L’iniziale applicazione<br />

è giudicata quella dell’oikos di Piazza d’Armi di Veio (Roof 4-1). Viene riconsiderata<br />

sulla base di confronti morfologici ed iconografici la cronologia delle lastre con<br />

5<br />

Di recente attribuite alla curia Hostilia da M. To r e l l i, Fictilia tecta. Riflessioni storiche sull’arcaismo<br />

etrusco e romano, in P. Lu l o f - C. Re s c i g n o (a cura di), Deliciae fictiles IV. Architectural Terracottas in Ancient<br />

Italy: Images of Gods, Monsters and Heroes, Atti del Convegno internazionale (Roma-Siracusa 2009),<br />

Oxford 2011, p. 12.<br />

6<br />

Presentate da M. Fabbri in occasione della Giornata di Studio intorno al volume di N. A. Winter tenutasi<br />

a La Sapienza il 25 marzo 2010.<br />

7<br />

K. M. Ph i l l i p s, Protomi di leopardo, in Case e palazzi d’Etruria, p. 121.


500<br />

Recensioni<br />

scena di partenza del guerriero (4.D.2.a, 4.D.2.c) destinate ai travi rampanti e messe in<br />

opera con le lastre con sfilata di carri (4.D.1.a, 4.D.1.b) collocate sui lati lunghi. L’utilizzo<br />

di stesse matrici interessa le c.d. lastre Tuscania-Acquarossa dei tetti del naiskos funerario<br />

di Ara del Tufo (Roof 4-3) e di un edificio sconosciuto di Acquarossa (Roof 4-4),<br />

entrambi datati al 570-560 a.C. Tale condivisione continua in tetti appena successivi: al<br />

560 a.C. è assegnato il Roof 4-5 del portico A della zona F di Acquarossa e al 560-550<br />

a.C. il rifacimento del tetto del naiskos di Ara del Tufo (Roof 4-6), che usano le stesse<br />

lastre con Eracle, con banchetto e con scena orgiastica, mentre il tetto del portico C<br />

della zona F (Roof 4-9) è ascritto al 550 a.C. N. A. Winter nella successione cronologica<br />

degli edifici della zona F segue le proposte degli scavatori e ne riferisce l’attribuzione<br />

dei quattro tipi di lastre alle diverse parti strutturali del tetto del portico A, ricostruito<br />

con frontone aperto, ma giustamente precisa che «Building A was apparently the earlier<br />

of the two» (p. 229; corsivo di chi scrive) e che non c’è testimonianza di sime rampanti,<br />

di tegole di gronda, di acroteri (p. 231) e di lastre per columen e mutuli come quella<br />

(più antica) con galletto dipinto (2.D.5.a): sebbene l’assenza di sime rampanti possa<br />

non essere determinante, è tuttavia da notare che non sono menzionate lastre di rivestimento<br />

tagliate obliquamente 8 . L’attribuzione delle numerose lastre con il leone nemeo<br />

ai due portici sembrerebbe peraltro annullare il pur brevissimo divario cronologico dei<br />

due edifici (portico A: 560 a.C.; portico C: 550 a.C.). La decorazione dipinta sul retro<br />

delle lastre con banchetto e con danzatori «has suggested their placement either on the<br />

edge of the secondary roof of the open pediment, below the antefixes, or on the architrave»<br />

(p. 280). Nella ricostruzione grafica del Roof 4-6 di Tuscania, fornito invece di<br />

sime rampanti, le lastre con scena orgiastica sono collocate alla base del triangolo suggerendo<br />

l’esistenza di un frontone aperto: questi dati sembrerebbero lasciare irrisolto il<br />

problema dell’esistenza di ‘recessed gable’ che, a parere dell’A. altrove espresso, è difficilmente<br />

documentata nel corso della prima fase 9 . Al sistema appartengono due tetti<br />

ceretani (Roof 4-8 e Roof 4-11) i cui elementi sono disiecta membra dispersi in musei<br />

europei: quelli conservati a Copenhagen sono ora editi anche nel recente catalogo della<br />

Ny Carlsberg Glyptotek 10 .<br />

Il capitolo che più si distingue nel libro per l’ottima strutturazione è quello sul “Sistema<br />

Veio-Roma-Velletri, 530 a.C. Suoi predecessori, successori ed imitatori”, opera di più<br />

officine attive nell’arco di vent’anni. Gli antecedenti vengono riconosciuti a Poggio Buco<br />

(Roof 3-7), Poggio Civitate (Roof 3-8), Castelnuovo Berardenga (Roof 5-1), Veio (Roof<br />

7-1). Il sistema viene giudicato opera di un’unica officina, a lungo considerata veien te,<br />

con strette interferenze con Cerveteri. Le profonde influenze greco-orientali, ben evidenti<br />

nell’uso di motivi decorativi presenti anche sui vasi pontici, come i meandri con cigni e<br />

fiori a stella, denunciano l’origine ionica degli artigiani responsabili dei tetti di Veio-Roma-Velletri<br />

e di Cerveteri. Gli elementi caratteristici e la loro diffusione sono sintetizzati<br />

in un’utile tabella (p. 313). Successori ed imitatori sono riconosciuti nei tetti delle varianti<br />

Roma-Caprifico del 520 a.C. e Tarquinia-Roselle-Vetulonia del 530-510/500 a.C.;<br />

8<br />

Cfr. in proposito anche M. To r e l l i, in Gnomon LVIII, 1986, p. 265.<br />

9<br />

N. A. Wi n t e r, The origin of the recessed gable in Etruscan architecture, in I. Ed l u n d Be r ry - G. Gr e c o -<br />

J. Ke n f i e l d (a cura di), Deliciae fictiles III. Architectural Terracottas in Ancient Italy: New Discoveries and<br />

Interpretations, Atti del Convegno internazionale (Roma 2002), Oxford 2006, pp. 45-48. Ad Acquarossa e<br />

Tuscania nel corso della prima fase sembrerebbe ipotizzato un frontone aperto, ma non viene discussa la ricostruzione<br />

proposta per l’oikos di Piazza d’Armi da G. Ba r t o l o n i et al., Veio: l’abitato di Piazza d’Armi. Le<br />

terrecotte architettoniche, ibidem, pp. 50-76.<br />

10<br />

J. Ch r i s t i a n s e n - N. A. Wi n t e r (a cura di), Etruria I. Architectural Terracottas and Painted Wall Plaques,<br />

Pinakes c. 625-200 B.C., Copenhagen 2010.


Recensioni 501<br />

Morfologia, scene figurate, tecnica e collocazione delle lastre di rivestimento sia del sistema<br />

base che delle varianti sono accuratamente articolate (pp. 351-353).<br />

Le testimonianze veienti (Roof 5-2) sono da connettere all’edificio sotto il tempio di<br />

Portonaccio 11 , ma sono state trovate anche a Piazza d’Armi e a Campetti. L’ispirazione<br />

ionica è individuata in modelli focesi (p. 564), comprese le corse dei carri per la cui raffigurazione<br />

si accoglie la proposta di una loro connessione con i giochi istituiti per espiare<br />

l’uccisione dei Focei (p. 328). A Roma il sistema è attestato in diverse località (Campidoglio,<br />

IV Regia, Foro, Palatino, Esquilino): fra queste è Sant’Omobono con il tetto<br />

della seconda fase del tempio di Mater Matuta (Roof 5-4) per il quale alcune novità sono<br />

successive all’edizione di N. A. Winter. Infatti al gruppo acroteriale con Eracle ed Atena<br />

(5.E.1.a) sulla fronte dell’edificio viene associata come acroterio del lato posteriore<br />

la coppia di Leucotea e Palemone (5.E.1.b) nella quale studi di A. Mura Sommella oggi<br />

leggono Dioniso ed Arianna 12 . Il tetto per completezza più esemplificativo del sistema è<br />

quello del tempio delle Stimmate di Velletri (Roof 5-7) 13 . Nelle lastre con corsa di carri<br />

sul rampante sinistro (motivo replicato secondo l’A. sulla sima corrispondente) l’auriga<br />

della triga centrale si volta indietro verso l’inseguitore: il particolare richiama l’analogo<br />

gesto del primo auriga della parete sinistra della tomba delle Olimpiadi di Tarquinia.<br />

Dall’attribuzione delle lastre con assemblea alla base del frontone e di quelle con banchetto<br />

all’architrave potrebbe dedursi la presenza di un frontone aperto, sebbene l’A. affermi<br />

che non c’è evidenza per tale tipo di frontone (p. 323). La matrice delle antefisse<br />

viene usata anche per il volto della sfinge dell’acroterio laterale, come a Sant’Omobono<br />

per il volto di Atena. La datazione del tempio viene ancorata, come da tempo proposto,<br />

a quella della campagna condotta da Tarquinio il Superbo contro i Volsci.<br />

Il tetto di Caprifico (Roof 5-8), completo nei suoi elementi, rispetto al sistema precedente<br />

mostra un numero inferiore di fregi figurati, un carattere più ‘militare’ ed una<br />

tecnica più evoluta. Le terrecotte, disperse in vari musei, sono state di recente oggetto<br />

di un accurato studio da parte di P. S. Lulof che propone una ricostruzione con frontone<br />

aperto e la collocazione sui rampanti frontonali delle lastre con sfilata di carri anziché<br />

di quelle con corsa di carri e cavalieri armati 14 . La variante Roma-Caprifico, anche<br />

sulla base di analisi petrografiche delle argille, viene ritenuta un più tardo prodotto<br />

della bottega responsabile dei tetti Veio-Roma-Velletri. Diversa invece l’officina (o le officine)<br />

della variante Tarquinia-Roselle-Vetulonia che ha la prima attestazione, dubitativamente<br />

assegnata al 530 a.C., nel tempio II dell’Ara della Regina (Roof 5-11), mentre<br />

il tetto di un naiskos funerario di Basse degli Olmi a Vetulonia (Roof 5-14 del 510-500<br />

a.C.) mostra nelle antefisse già l’influenza della ‘seconda fase’.<br />

A proposito della funzione degli edifici, in particolare quelli di Poggio Civitate e di<br />

11<br />

L’edificio è stato interpretato come regia da G. Co l o n n a, I.F. Portonaccio, in A. M. Sg u b i n i Mo r e t t i<br />

(a cura di), Veio, Cerveteri, Vulci. Città d’Etruria a confronto, Roma 2001, p. 40.<br />

12<br />

A. Mu r a So m m e l l a , La dea col tutulo dal tempio arcaico del Foro Boario, in Deliciae fictiles IV, cit.<br />

(nota 5), pp. 177-187. Cfr. anche M. To r e l l i, La “grande Roma dei Tarquini”. Continuità e innovazione nella<br />

cultura religiosa, in AnnMuseoFaina XVII, 2010, p. 319, con attribuzione del gruppo al tempio serviano di<br />

Fortuna Redux; nello stesso volume una nuova proposta di lettura della lastra dell’Esquilino con biga alata e<br />

triga terrena, pertinente al sistema Veio-Roma-Velletri (5.D.3.a) è offerta da A. Mu r a So m m e l l a , Esquilino e<br />

Campidoglio: elementi della decorazione architettonica nella Roma dei Tarquini, ibidem, pp. 87-112.<br />

13<br />

Non tempio, ma regia secondo M. To r e l l i, I fregi figurati delle regiae latine ed etrusche. Immaginario<br />

del potere arcaico, in Ostraka i 2, 1992, pp. 249-274 (= Id., Il rango, il rito, l’immagine. Alle origini della<br />

rappresentazione storica, Milano 1997, pp. 87-121) e art. cit. a nota 5.<br />

14<br />

P. S. Lu l o f, The architectural terracottas from Caprifico, in D. Pa l o m b i (a cura di), Il tempio arcaico di<br />

Caprifico di Torrecchia (Cisterna di Latina). I materiali e il contesto, Roma 2010, pp. 79-111.


502<br />

Recensioni<br />

Acquarossa, e del complesso dei fregi figurati dispiace che l’A. abbia deciso di lasciare<br />

in disparte i numerosi tentativi interpretativi che hanno occupato negli ultimi anni molte<br />

pagine di letteratura scientifica e di non proporre sue esegesi. Quanto alla destinazione<br />

di alcuni edifici è difficile sottrarsi alla suggestione della descrizione di Virgilio della<br />

reggia di Picus e Latinus a Laurentum messa in rilievo da M. Torelli 15 . Edifici e fregi<br />

sono al massimo grado ‘Symbols of Wealth and Power’.<br />

La decorazione pittorica caratterizza i tetti compresi nei capitoli sesto e settimo del<br />

libro. In particolare tale preferenza, percepibile anche nei rilievi, è evidente a Cerveteri<br />

da cui trae titolo il sesto capitolo: “Caere: il sistema decorativo dipinto, 540-510 a.C.”.<br />

Determinante è l’attività di artigiani greco-orientali immigrati, come confermano le connessioni<br />

con la decorazione delle idrie e con il sistema Veio-Roma-Velletri, anch’esso influenzato<br />

dall’opera di individui di estrazione focese e parimenti caratterizzato dal motivo<br />

del meandro con cigni e fiori a stella, da scene con corse di carri e di cavalieri armati,<br />

da acroteri con Eracle ed Atena, sfingi e volute. A Cerveteri viene assegnata intorno al<br />

520 a.C. la produzione di lastre ad alto rilievo per columen e mutuli non presenti altrove<br />

nello stesso periodo, nonché la creazione di nuovi tipi di antefisse che vengono articolate<br />

nella loro evoluzione cronologica, resa più esplicita da utili tabelle (pp. 425-444). Sulla<br />

base dell’ornato delle sime rampanti vengono riconosciuti tre stili (geometrico, floreale<br />

e figurato) strettamente correlati fra loro per aspetti morfologici, tecnici e decorativi. La<br />

variante geometrica è la prima ad imporsi ed è testimoniata soprattutto dai rinvenimenti<br />

di Vigna Parrocchiale, Vigna Marini Vitalini e Vigna Ramella. Tuttavia la bottega ceretana<br />

non soltanto ha fornito tetti agli edifici della città e del suo territorio, ma alla sua fase<br />

iniziale è da attribuire anche il tetto ‘etrusco-ionico’ del sacellum di Satrico (Roof 6-1 del<br />

540-530 a.C.), come testimonia l’impiego di inclusi provenienti dal distretto di La Tolfa.<br />

Alla stessa variante appartengono elementi di poco successivi (530 a.C.) conservati a<br />

Copenhagen (Roof 6-2), di recente allestiti nella nuova esposizione della Ny Carlsberg<br />

Glyptotek e presentati nel relativo catalogo 16 , con acroterio centrale a forma di cavaliere<br />

su ippocampo (6.E.1.c), un frammento del quale è a Gerusalemme, ancora una volta<br />

denunciando purtroppo la dispersione degli elementi in musei stranieri. Al 520-510<br />

a.C. è datato il tetto da Vigna Marini Vitalini (Roof 6-5) a Copenhagen (e frammenti a<br />

Berlino) con guerriero stante come acroterio centrale (testa pertinente), terminali ad<br />

Amazzone (6.E.5.b) sui rampanti frontonali sopra la sima con meandro dipinto, e lastre<br />

di columen e mutuli nelle quali sono collocati i guerrieri (un tempo disposti in un frontone<br />

chiuso) secondo la ricostruzione di P. S. Lulof che ai terminali con Amazzoni sullo<br />

spiovente sinistro contrappone sul destro armati a cavallo, ipotizza un tettuccio con<br />

antefisse a figura intera e data il frontone su base stilistica al 510 a.C. 17 . Le sime a decorazione<br />

geometrica vengono seguite nella loro seriazione, individuando anche influenze<br />

siceliote (p. 406) e confrontando il doppio meandro con quello della kore di Antenore<br />

(p. 408). Tipico della variante floreale è il fiore a stella che invade sime, lastre di rivestimento<br />

e tegole di gronda, confrontabile con gli esemplari a rilievo dell’Asia Minore<br />

e quelli dipinti sulle idrie. Alla variante con motivi figurati dipinti è assegnato un unico<br />

tetto da Caere del 530-520 a.C. (Roof 6-7) ipoteticamente ricostruito in base ad elementi<br />

provenienti da Vigna Parrocchiale e da Sant’Antonio, nonché a quelli conservati<br />

15<br />

Cfr. riferimenti bibliografici citati alle note 5 e 13.<br />

16<br />

Cfr. nota 10.<br />

17<br />

P. S. Lu l o f, Le Amazzoni e i guerrieri di Vigna Marini-Vitalini. La ricostruzione di un frontone ‘straordinario’,<br />

in Munera Caeretana. Studi in memoria di M. Cristofani (Mediterranea v), 2008, pp. 197-214; Ea d.,<br />

Acroteria of Amazons and warriors on horseback, in Etruria I, cit. (nota 10), pp. 154-166.


Recensioni 503<br />

a Copenhagen. Le scene mostrano l’attenzione ai particolari, una vivace narrazione ed il<br />

gusto per la policromia e l’ambientazione paesaggistica, tutti elementi riscontrabili nelle<br />

coeve tombe dipinte tarquiniesi. Al sistema decorativo dipinto è ricondotto un acroterio<br />

centrale con Eracle e l’Idra () assegnato al 530-520 a.C. (6.E.1.d), conservato a Copenhagen<br />

e per il quale l’A. dubita (p. 468) della pertinenza della testa (6.E.1.a) attribuita<br />

invece all’acroterio nel ricordato recente catalogo (con datazione al 500 a.C.) 18 .<br />

Motivi floreali, dapprima dipinti poi a rilievo, connotano prodotti di Veio e di Tarquinia<br />

che sono oggetto del settimo capitolo sul “Sistema decorativo floreale in stile ionicizzante<br />

di Tarquinia-Veio, 550-510 a.C.” rivelando già dal titolo l’influenza di artigiani<br />

ionici. Appartiene al sistema il tetto del sacello di Menerva del Portonaccio (Roof 7-1<br />

del 540-530 a.C.), con sima rampante con anthemion dipinto in ‘white-on-red’ nella fascia<br />

sotto il meandro a rilievo. In coerenza con le caratteristiche del sistema è giudicato<br />

pertinente al tetto l’acroterio con Ercole e Minerva (7.E.1) che G. Colonna considera invece<br />

di destinazione votiva e data a poco dopo il 500 a.C. notandone i caratteri stilisticamente<br />

atticizzanti 19 . Il tetto venne probabilmente rifatto o parzialmente riparato nel 520-<br />

510 a.C. (Roof 7-2). A Tarquinia, forse prima che a Veio e a Cerveteri, le testimonianze<br />

del sistema sono restituite da elementi trovati a Pian di Civita e a Gravisca.<br />

Dopo la minuziosa disamina dei diversi sistemi in uso fra 640 e 510 a.C. seguono<br />

importanti considerazioni sulla manifattura delle terrecotte e sulle testimonianze di officine<br />

(capitolo ottavo), seguendo in dettaglio, anche sulla scorta di precedenti studi, la<br />

fabbricazione dei diversi elementi ad iniziare dalla preparazione dell’argilla fino alla loro<br />

cottura e messa in opera. Per la costruzione del tetto sarebbe stato utile il rinvio al testo<br />

di Vitruvio e alla nomenclatura vitruviana della gabbia lignea delle coperture. Vengono<br />

poi dettagliatamente analizzate le evidenze per la comprensione delle pratiche di<br />

bottega attraverso la diacronia, affrontando anche il problema della mobilità degli artigiani<br />

e della trasmissione di modelli. Nel capitolo nono vengono elencati in ordine cronologico<br />

i sistemi in uso nei diversi centri presi in considerazione offrendo un’agevole<br />

sintesi di riferimento per un immenso materiale.<br />

Le conclusioni passano in rassegna i diversi tipi di edifici, privati, pubblici, sacri<br />

con notizie sulle planimetrie e gli alzati, quindi la posizione sul tetto dei vari elementi e<br />

l’evoluzione dei motivi decorativi, dagli iniziali ornati dipinti ‘white-on-red’ con soggetti<br />

analoghi a quelli della ceramografia, all’introduzione del rilievo forse su ispirazione corinzia,<br />

all’uso di motivi dipinti di matrice greco-occidentale, ai fregi figurati dapprima<br />

con teorie animalistiche desunte dal repertorio corinzio ed etrusco-corinzio, poi dalla<br />

ceramica attica, fino alle manifestazioni a rilievo o dipinte testimonianti l’attività di artigiani<br />

greco-orientali. Il capitolo si chiude con considerazioni storiche che mettono in rilievo<br />

il legame delle manifestazioni etrusche con le esperienze di Corinto ed Istmia, anche<br />

nell’ottica dell’organizzazione delle botteghe. Irrinunciabile in proposito è il rinvio<br />

alla tradizione letteraria della saga di Demarato il cui coinvolgimento nella produzione<br />

di tetti potrebbe secondo l’A. farlo identificare in un proprietario di botteghe. Alla<br />

gens dei Bacchiadi rimandano i riscontri istituibili con le evidenze di Siracusa e Corfù,<br />

centri che offrirono rifugio agli esuli da Corinto. In quest’ottica viene sottolineato nella<br />

creazione e diffusione dei fregi figurati il ruolo di Roma dell’età di Tarquinio Prisco.<br />

Il tempio della prima fase di Sant’Omobono, l’Athenaion siracusano e l’Artemision di<br />

Corfù appaiono essere offerte votive per la caduta dei Cipselidi nel 583 a.C. Il ruolo di<br />

Tarquinio Prisco viene letto anche nelle connessioni con i tetti di Pithecusa e di Cuma<br />

18<br />

J. Ch r i s t i a n s e n, Herakles, in Etruria I, cit. (nota 10), p. 150.<br />

19<br />

G. Co l o n n a, I.F.5. Gruppo di Ercole e Minerva, in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. (nota 11), pp. 67-68.


504<br />

Recensioni<br />

e con la diffusione di modelli in Etruria settentrionale. In base alla testimonianza delle<br />

fonti spetterebbe inoltre allo stesso sovrano la costruzione di botteghe intorno al Foro:<br />

N. A. Winter pertanto non esclude che alcune fossero dedite alla manifattura di elementi<br />

fittili, grazie anche alla presenza di letti d’argilla nell’area del Velabro. Sebbene il sistema<br />

che usa scene militari non sia testimoniato a Roma, il riflesso dell’attività di botteghe<br />

bacchiadi viene letto anche nell’introduzione della figura di Eracle nelle lastre di<br />

Acquarossa e di Tuscania sulla base dell’ascendenza eracleide della gens, ma è probabilmente<br />

da considerare il valore emblematico dell’eroe per un’ideologia di stampo aristocratico<br />

e tirannico. Gli acroteri con Eracle ed Atena del sistema Veio-Roma-Velletri richiamerebbero<br />

ancora una volta i Bacchiadi, ora attraverso la figura del Superbo, agli<br />

scontri del quale contro i Volsci è rapportata la variante Roma-Caprifico. Oggi gli studi<br />

di A. Mura Sommella che nel secondo acroterio di Sant’Omobono riconoscono Dioniso<br />

ed Arianna impongono di riprendere su nuove importanti basi il significato ‘trionfale’<br />

del tempio di Mater Matuta.<br />

Altre precisazioni in merito alle decorazione architettonica di prima fase sono scaturite<br />

dalle riflessioni sul volume in occasione della Giornata di studio tenutasi a La Sapienza<br />

il 25 marzo 2010 20 . L’A. ha potuto approfondire alcune considerazioni sulla base<br />

di nuovi dati di scavo che hanno peraltro confermato la solida struttura cronologica e<br />

tipologica del suo lavoro.<br />

Il libro di N. A. Winter è altamente meritorio anche per i poderosi apparati critici:<br />

dettagliatissimi indici che agevolano in ogni modo la ricerca, note con interminabili<br />

elenchi di frammenti singolarmente schedati frutto di un’indagine di più lustri in musei<br />

e magazzini europei e americani, inappuntabile ed imponente la documentazione grafica<br />

e fotografica: 249 disegni di elementi, 33 ricostruzioni grafiche, delle quali 4 realizzate<br />

anche a colori, 18 aggiornate planimetrie di edifici, 213 fotografie (un solo rammarico:<br />

sebbene le dimensioni delle immagini in genere siano opportunamente correlate a<br />

quelle dei grafici, sono di piccolo formato, peccato veniale certamente non imputabile<br />

all’A., ma agli attuali costi delle pubblicazioni!). L’assidua frequentazione dei materiali<br />

architettonici, esemplificata dal fondamentale volume sulle terrecotte architettoniche greche<br />

21 , da una lunga serie di articoli e di contributi a Convegni, e dall’organizzazione di<br />

Congressi internazionali come quelli ad Atene 22 , non soltanto garantiscono le profonde<br />

conoscenze di decorazioni fittili di edifici da parte di N. A. Winter, ma rappresentano –<br />

se ve ne fosse bisogno – un’ulteriore garanzia per il valore del libro, vera pietra miliare<br />

nello studio dei più antichi tetti d’Etruria e dell’Italia centrale.<br />

Si m o n e t ta St o p p o n i<br />

20<br />

Tetti di terracotta. La decorazione architettonica fittile tra Etruria e Lazio in età arcaica, Atti delle Giornate<br />

di Studio (Roma 2010) (Officina Etruscologia V, 2011).<br />

21<br />

N. A. Wi n t e r, Greek Architectural Terracottas from the Prehistoric to the End of the Archaic Period, Oxford<br />

Monographs on Classical Archaeology, Oxford 1993.<br />

22<br />

N. A. Wi n t e r (a cura di), Proceedings of the First International Conference on Archaic Greek Architectural<br />

Terracottas, Athens, 1988, in Hesperia LIX, 1990, pp. 13-323; Ea d. (a cura di), Proceedings of the<br />

International Conference on Greek Architectural Terracottas of the Classical and Hellenistic Periods, Hesperia<br />

Suppl. XXVII, Princeton 1994.


Recensioni 505<br />

An t h o n y Tu c k, The Necropolis of Poggio Civitate (Murlo). Burials from Poggio Aguzzo,<br />

Archaeologica 153, Giorgio <strong>Bretschneider</strong>, Roma 2009, pp. 146, figg. 16, tavv.<br />

XXXIII.<br />

Nel 1926 Ranuccio Bianchi Bandinelli segnalava la presenza di alcune tombe «a circa<br />

due chilometri da Vescovado […] sotto la sommità prospiciente Murlo» 1 . Si trattava<br />

di tre nuclei di sepolture, uno a incinerazione con tombe «con ziretti d’impasto greve» 2<br />

e gli altri due a inumazione 3 . Tuttavia nei decenni successivi la zona doveva assurgere<br />

agli onori della cronaca archeologica soprattutto per via dei rinvenimenti sulla collina di<br />

Poggio Civitate, ove il ben noto complesso di età tardo-orientalizzante ed arcaica è venuto<br />

alla luce. Nel 1972 l’équipe americana impegnata nelle ricerche a Poggio Civitate<br />

estese le indagini anche a Poggio Aguzzo, a parte della necropoli. Le nove tombe scoperte<br />

in quella circostanza e confluite nell’Antiquarium di Murlo 4 sono rimaste sostanzialmente<br />

inedite sino al lavoro di Anthony Tuck 5 .<br />

Lo studioso precisa sin dal principio del volume che le ricerche degli anni ’70 hanno<br />

interessato solamente una piccola porzione della necropoli, la cui estensione complessiva<br />

è ancora da definire (p. 1) e di cui potrebbero far parte anche le già citate sepolture<br />

individuate a inizi ’900 dal Bianchi Bandinelli (p. 83), ma anche un ampio tumulo ancora<br />

non indagato (p. 85). Topograficamente Poggio Aguzzo e Poggio Civitate fanno parte<br />

della medesima unità orografica e la distanza tra i due siti è di soli 350 m. Le nove<br />

tombe oggetto del volume sembrerebbero tutte a fossa semplice con il corredo posizionato<br />

ai piedi dei defunti (p. 5). In un caso, la tomba 2, non è stato possibile determinare<br />

l’andamento della fossa, la 3 e la 4 sono adiacenti, mentre la 5 è bisoma. Una volta<br />

individuate le tombe sul terreno, i pani di terra vennero asportati per poter permettere<br />

lo scavo in laboratorio. Le condizioni di conservazione delle sepolture e dei reperti<br />

non possono considerarsi ottimali: i materiali sono per lo più ricomposti da moltissimi<br />

frammenti e il tipo di terreno non ha, se non in pochissimi casi e in forma molto limitata,<br />

permesso la conservazione dei reperti ossei 6 . Per di più lavori agricoli avevano intaccato<br />

almeno in un caso la tomba (tomba 2) e in un altro (tomba 6) il rinvenimento a<br />

soli 15 cm di profondità rispetto al piano di calpestio è sufficiente per farci comprendere<br />

la non integrità della parte superiore del contesto. Quanto detto ci priva quindi della<br />

possibilità di conoscere le modalità di copertura delle sepolture, note invece almeno in<br />

parte per le incinerazioni ricordate dal Bianchi Bandinelli, che indicava infatti gli «ziretti»<br />

come «coperti o contrassegnati da pietre stondate, a palla o a semisfera, di una qualità<br />

tufacea estranea al luogo» 7 . Un unico spiraglio potrebbe venire dalla tomba 7, per<br />

la quale i taccuini di scavo suggeriscono che alcune «stone slabs […] may have formed<br />

1<br />

R. Bi a n c h i Ba n d i n e l l i, Murlo (Siena). Monumenti archeologici del territorio, in NS 1926, p. 166<br />

sgg. e per un’analisi dei reperti citati dallo studioso si veda A. Ta l o c c h i n i, Poggio Civitate (Murlo, Siena).<br />

Stray finds, in Poggio Civitate (Murlo, Siena). The Archaic Sanctuary, Catalogo della mostra, Firenze 1970,<br />

pp. 13-20.<br />

2<br />

Bi a n c h i Ba n d i n e l l i, cit., pp. 166 sg. e 165, fig. 1, 3.<br />

3<br />

Ibidem, pp. 167 sg. e 165, fig. 1, 4.<br />

4<br />

Al momento sono esposte nella sala XII (http://www.archeologiatoscana.it/percorso.phpid=murlo).<br />

5<br />

Un’analisi assai concisa è presente in A. Tu c k, New burials from Poggio Aguzzo: The necropolis of<br />

Poggio Civitate (Murlo), in AJA C, 1996, pp. 399-400.<br />

6<br />

Parti dello scheletro degli inumati sono infatti conservate nei seguenti contesti: nn. 3, 5, 6 e 7.<br />

7<br />

Bi a n c h i Ba n d i n e l l i, cit. (nota 1), p. 167.


506<br />

Recensioni<br />

a sort of canopy over the tomb». Ma «the extent to (sic) the slabs is uncertain since the<br />

area had been dug away by one of the workmen» (p. 9).<br />

La documentazione pubblicata non consente la localizzazione precisa dell’area indagata,<br />

mancando un posizionamento in una carta topografica, e anche la planimetria<br />

proposta in fig. 1 riguarda i soli contesti nn. 1-6. D’altro canto l’A. precisa che i dati<br />

confluiti nel volume sono stati ricavati dai taccuini di scavo e dagli schizzi eseguiti al<br />

momento delle indagini (p. 5). Pertanto per quanto riguarda le tombe 7-8 ci si deve limitare<br />

ad un posizionamento indicativo: la tomba 7 è infatti «adjacent and slightly to<br />

the north of Tomb 6», la 7 «was located about 3.5 meters to the southeast of Tomb 6 -<br />

Tomb 7 group». Mentre per la tomba 9 la situazione è ancora più complessa e l’A., nonostante<br />

l’attenta analisi dei taccuini di scavo, deve concludere che «there is no mention<br />

in the excavation notes of the position of this tomb, nor does it appear on the area<br />

plan of the 1972 excavation».<br />

Il volume prosegue con un capitolo dedicato alla cronologia dei contesti (pp. 11-<br />

23). Una prima parte (pp. 11-16) mira all’identificazione di aspetti comuni e di interrelazioni<br />

tra i materiali rinvenuti nelle singole sepolture al fine di costruire una cronologia<br />

relativa. La sostanziale omogeneità dei contesti porta l’A. a sostenere che le tombe sono<br />

grosso modo contemporanee «or at least all contain materials roughly contemporary in<br />

their manufacture», con una conseguente loro datazione nell’arco di un decennio o ventennio<br />

(p. 16). Alla seconda parte del capitolo (pp. 16-23) è dedicato il tentativo di definire<br />

la cronologia assoluta, che lo studioso basa per lo più sulla presenza nella tomba<br />

5 dell’aryballos protocorinzio n. 31 del tipo Mozia del Neeft, collocabile tra i sottogruppi<br />

E e M per via del tipo di decorazione e sui kyathoi nn. 38 e 21, che vengono avvicinati<br />

per questioni formali e decorative a quello iscritto dalla tomba del Duce 8 . La conclusione<br />

è che le deposizioni possono essere inquadrate attorno alla metà del VII secolo<br />

a.C., essendo quindi contemporanee alla fase più antica del complesso orientalizzante<br />

di Piano del Tesoro (p. 23).<br />

Il volume prosegue con l’analisi dei materiali rinvenuti, dividendoli tra reperti ceramici<br />

(vasi pp. 25-72, altri oggetti ceramici pp. 73-74) e metallici (pp. 75-82). Le ceramiche<br />

vengono organizzate per forme (pp. 25-48) e separatamente si prendono in considerazione<br />

le decorazioni (pp. 49-72). Prima di analizzare l’aspetto formale l’A. propone<br />

una divisione dei manufatti in classi ceramiche, articolata in bucchero, impasto buccheroide,<br />

‘orangeware’, impasto e ceramica protocorinzia. Per quanto concerne il bucchero<br />

il Tuck asserisce che tutti gli esemplari rinvenuti nei contesti sono da considerare importazioni<br />

da altri centri etruschi, mentre a produzione locale sarebbero da ascrivere i<br />

fittili in impasto buccheroide, frutto della volontà degli artigiani locali di imitare i prodotti<br />

in bucchero importati. Merita una considerazione specifica la cosiddetta ‘orangeware’,<br />

denominazione coniata dall’A. per permettere la classificazione di una dozzina di<br />

fittili rinvenuti nella necropoli di Poggio Aguzzo e non altrimenti inseribili a suo avviso<br />

in una delle classi già note in letteratura. Il corpo ceramico si presenta depurato e di colore<br />

arancione. Caratteristica comune è poi la presenza di una decorazione dipinta sulla<br />

superficie. Come giustamente rilevato dall’A. «orangeware vessels stem mainly from<br />

Protocorinthian pottery» (p. 45). La classe è composta per lo più da alabastra con decorazione<br />

lineare, ma anche da oinochoai e coppe. Ci si chiede pertanto se non sarebbe<br />

forse preferibile farli rientrare nelle produzioni etrusco-corinzie a decorazione lineare,<br />

piuttosto che creare una classe ceramica ex novo. L’incertezza della classificazione emerge<br />

d’altro canto anche nell’opera quando, ad esempio, il numero di catalogo 12 viene<br />

8<br />

G. Ca m p o r e a l e, La tomba del Duce, Firenze 1967, tav. XXV a-b e p. 115 sgg.


Recensioni 507<br />

descritto come «Etrusco-Corinthian Elongated Ovoid Aryballos» (p. 49), essendo però<br />

già stato classificato precedentemente come pertinente alla ‘orangeware’ (p. 46).<br />

L’analisi dettagliata condotta porta l’A. alla conclusione che la maggior parte dei reperti<br />

trova pochi confronti precisi dal punto di vista formale con i centri limitrofi. Ne<br />

consegue che viene proposta una visione basata sull’idea che «many 7th century BCE<br />

sites throughout central, inland Tuscany have produced ceramics that appear generally<br />

similar but with distinctive differences in specific shapes and fabric» (p. 25). Quest’affermazione,<br />

basata dal Tuck sui soli dati di Poggio Aguzzo, trova d’altro canto conferme<br />

in un orizzonte geografico ben più ampio della sola «central, inland Tuscany» ed è<br />

piuttosto una caratteristica diffusa in generale nelle produzioni ceramiche di età orientalizzante<br />

almeno dell’Italia centrale tirrenica. Infatti se studiate nel dettaglio e in modo<br />

sistematico, le singole classi mostrano uno spiccato carattere locale 9 , sostanziando quindi<br />

quell’acuta visione di Mauro Cristofani nel contributo sulla periodizzazione dell’arte<br />

etrusca del 1989, in base alla quale la produzione doveva essere «intesa fondamentalmente<br />

come manifestazione di serie, affidata all’anonimo mestiere artigianale, a officine<br />

per le quali la collocazione areale appare condizione primaria nella costruzione di un linguaggio<br />

figurativo, valutato anche nel suo grado di permeabilità e di distanza nei confronti<br />

dell’interferenza di modelli esterni» 10 .<br />

A livello formale il repertorio, inquadrato con attenzione dall’A., non è amplissimo<br />

e rientra in filoni ben noti. Per quanto concerne la ceramica d’impasto di un certo interesse<br />

appaiono le oinochoai a becco su basso piede troncoconico, con corpo ovoide o<br />

compresso. A livello formale sono da considerare varietà delle oinochoai a becco, la cui<br />

diffusione in area medio-tiberina e nell’Etruria meridionale interna è nota 11 . Tuttavia la<br />

peculiarità degli esemplari da Poggio Aguzzo risiede nella presenza di un ‘coperchio’,<br />

che ricalca la forma della bocca trilobata ed è agganciato all’ansa con un sistema di perni.<br />

Pur non conoscendo nulla di analogo, mi sembra utile ricordare come la necessità di<br />

chiusura di alcune oinochoai, probabilmente anche per preservare la qualità del liquido<br />

conservato, sia riscontrabile anche nelle produzioni d’impasto di altri comparti territoriali.<br />

Mi riferisco ad alcuni esemplari che presentano o complessi sistemi di filtri e<br />

chiusure 12 , oppure bocche conformate plasticamente a teste di animali più o meno stilizzati<br />

e che garantivano la chiusura del contenitore 13 . Infine, pur con provenienza igno-<br />

9<br />

In tal senso vanno, ad esempio, i recenti tentativi di classificazione del bucchero (A. Na s o [a cura<br />

di], Appunti sul bucchero, Atti delle Giornate di studio [Civitella Cesi 1999 e 2000], Firenze 2004), gli studi<br />

sulle produzioni d’impasto (M. Mi c o z z i, “White-on-red”. Una produzione vascolare dell’Orientalizzante etrusco,<br />

Roma 1994; M. L. Me d o r i, La ceramica “white-on-red” della media Etruria interna, Acquapendente 2010;<br />

M. C. Bi e l l a, Impasti orientalizzanti con decorazione ad incavo nell’Italia centrale tirrenica, Roma 2007; Ea d.,<br />

Impasti orientalizzanti con decorazione incisa di aree falisca e capenate: un primo bilancio, in Bollettino di Archeologia<br />

on line, http://151.12.58.75/archeologia/bao_document/poster/4_BIELLA.pdf ) e quelli sulle produzioni<br />

in argilla figulina dipinta (S. Ne r i, Il tornio e il pennello. Ceramica di tradizione geometrica di epoca<br />

orientalizzante in Etruria meridionale, Roma 2010).<br />

10<br />

M. Cr i s t o fa n i, Periodizzazione dell’arte etrusca, in Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco<br />

(Firenze 1985), Roma 1989, pp. 597-612.<br />

11<br />

Si veda di recente Bi e l l a, Impasti orientalizzanti con decorazione ad incavo, cit. (nota 9), p. 104 sg.<br />

con bibliografia.<br />

12<br />

Si veda, ad esempio, in ambito falisco l’oinochoe a corpo globulare dalla tomba 3 (XLIX) della necropoli<br />

di Montarano N a Falerii, inv. 3487, citata in A. Co z z a - A. Pa s q u i, Carta archeologica d’Italia (1881-<br />

1897). Materiali per l’agro falisco, Forma Italiae II 2, Firenze 1981, p. 94, ma sostanzialmente inedita.<br />

13<br />

Si veda, ad esempio, per il comprensorio falisco l’oinochoe frammentaria dalla tomba 8 (XLVII) della<br />

necropoli di Celle a Falerii, inv. 492, citata in Co z z a - Pa s q u i, citt. (nota 12), p. 121 e in ambito adriatico<br />

l’esemplare da Matelica, località Crocifisso, tomba 182, n. 131, inv. 80629 (in M. Si lv e s t r i n i - T. Sa b b at i n i [a


508<br />

Recensioni<br />

ta, c’è almeno un caso in cui la bocca è chiusa per i tre quarti da una linguetta modellata<br />

e due fori, l’uno sull’ansa e l’altro sulla linguetta, garantiscono l’originaria presenza<br />

di un elemento di chiusura 14 .<br />

Come già ricordato, un capitolo a parte viene dedicato alle decorazioni, che sono<br />

raggruppate a seconda delle varie tecniche con cui sono state prodotte: dipinte, incise,<br />

impresse, a stampo e a rilievo. In un quadro piuttosto omogeneo, in cui le decorazioni<br />

dipinte sono lineari, quelle incise rientrano per lo più nei triangoli e variazioni sul<br />

tema, piuttosto che in sistemi di archetti variamente intrecciati, spiccano indubbiamente<br />

da un lato il repertorio animalistico presente sui fittili decorati a rilievo, e dall’altro<br />

il guerriero inciso sull’ansa del kyathos in bucchero n. 38. Quest’ultimo trova un confronto<br />

significativo nell’esemplare da Santa Teresa di Gavorrano recentemente edito da<br />

Luca Cappuccini 15 . Entrambi i vasi infatti presentano sull’ansa un guerriero. Nel caso<br />

dell’esemplare da Poggio Aguzzo è reso ad incisione, ad incisione ed excisione in quello<br />

da S. Teresa di Gavorrano. Tra l’altro, sia detto incidentalmente in questa sede, un<br />

ulteriore punto di contatto tra quest’ultimo fittile e i frammenti di un altro kyathos da<br />

Murlo, questa volta dagli scavi del complesso monumentale, è sancito dal disco quadripartito<br />

iscritto entro una circonferenza e posto all’attaccatura inferiore dell’ansa 16 . Stilisticamente<br />

i due guerrieri non sono identici. Uno dei confronti migliori per quello da<br />

Poggio Aguzzo, almeno a mio modo di vedere, è costituito dai guerrieri sul kyathos dalla<br />

tomba 1 in località S. Paolo presso Cerveteri 17 e, al limite, da quelli sul quarto registro<br />

della pisside della Pania 18 . Tra l’altro i guerrieri del kyathos ceretano condividono<br />

anche il medesimo tipo di armamento, costituito da due lance 19 . Anche formalmente il<br />

cura di], Potere e splendore: gli antichi Piceni a Matelica, Roma 2008, p. 222, n. 278 e fig. a p. 215 [E. Bi o c-<br />

c o]). Casi più complessi appaiono invece le oinochoai a colli multipli conformati superiormente a teste equine,<br />

che comunque garantiscono la chiusura del contenitore. Si vedano, come esempi, quella da una tomba<br />

in località Monte Paglietta a Civita Castellana conservata a Tübingen (CVA Tübingen 6, p. 19 sg., tav. 7 [B.<br />

Rü c k e rt]) e quella facente parte della Collezione C. A. (L’arte dei popoli italici, dal 3000 al 300 a.C., Napoli<br />

1993, p. 192 sg., n. 96). Questi vasi mostrano chiari contatti con alcune produzioni di alto livello in bucchero<br />

di ambito ceretano, come dimostrato dall’oinochoe della tomba Calabresi, per la quale si veda F. Sciacca,<br />

in Na s o, cit. (nota 9), p. 29 sg. ed in F. Sc i a c c a - L. Di Bl a s i, La tomba Calabresi e la tomba del Tripode di<br />

Cerveteri, Città del Vaticano 2003, p. 34 sgg.<br />

14<br />

L’arte dei popoli italici, cit. (nota 13), p. 130 sg., n. 42.<br />

15<br />

L. Ca p p u c c i n i, I kyathoi etruschi di Santa Teresa di Gavorrano e il ceramista dei Paiina, in RM CXIII,<br />

p. 218, kyathos n. 1, figg. 4-12. Il Cappuccini nel suo lavoro ricordava già come presso il Museo di Murlo<br />

fosse presente un kyathos inedito con un guerriero inciso (ibidem, p. 228, nota 19). Il vaso in questione era<br />

già stato citato anche in A. Ma g g i a n i, Dinamiche del commercio arcaico: le tesserae hospitales, in G. M. De l l a<br />

Fi n a (a cura di), Gli Etruschi e il Mediterraneo. Commerci e politica (AnnMuseoFaina XIII), 2006, p. 331.<br />

16<br />

Ci riferiamo alla porzione di ansa di kyathos ricostruita da molti frammenti e recentemente pubblicata<br />

in E. O. Ni e l s e n - A. Tu c k, An Orientalizing period complex at Poggio Civitate (Murlo): a preliminary view, in<br />

Etruscan Studies VIII, 2001 (http://scholarworks.umass.edu/etruscan_studies/vol8/iss1/3), p. 52, n. 13 e in<br />

A. Tu c k - E. O. Ni e l s e n, The chronological implications of relief ware bucchero at Poggio Civitate, in Etruscan<br />

Studies XI, 2008 (http://scholarworks.umass.edu/etruscan_studies/vol11/iss1/3), p. 61 sg., n. 15.<br />

17<br />

Editio princeps in M. A. Ri z z o - M. Cr i s t o fa n i, Un kyathos e altri vasi iscritti dalla tomba orientalizzante<br />

di S. Paolo a Cerveteri, in BA 82, 1993, pp. 1-10 e di recente Ca p p u c c i n i, cit. (nota 15), p. 226, nota 11.<br />

18<br />

Per la pisside della Pania si veda di recente A. Mi n e t t i, L’Orientalizzante a Chiusi e nel suo territorio,<br />

Roma 2004, pp. 148 sgg., n. 33.27, con bibliografia; 414 sgg. per l’analisi del contesto, e tav. LVIII.<br />

19<br />

Si tratta, d’altro canto, di un armamento noto anche in altre rappresentazioni di guerrieri su vasi di<br />

età orientalizzante. Si veda, ad esempio, il kantharos in impasto con decorazione incisa ad Amburgo (Die<br />

Etrusker. Luxus für das Jenseits, Bilder vom Diesseits, Bilder vom Tod, Catalogo della mostra (Amburgo 2004),<br />

München 2004, pp. 67 e 98, cat. I/67, indicato come di produzione falisca, ma più probabilmente capenate)<br />

o ancora quello a Schaffhausen, parte della Collezione Ebnöther (Bi e l l a, Impasti orientalizzanti con decorazione<br />

ad incavo, cit. [nota 9], p. 85 sg., I.AI.15, fig. 42, tav. XLI, con bibliografia).


Recensioni 509<br />

kyathos da Murlo, quello da S. Teresa di Gavorrano e quello dalla tomba 1 in località<br />

S. Paolo mostrano analogie non indifferenti, che coinvolgono l’impostazione generale,<br />

la terminazione superiore dell’ansa e la presenza di collarini plastici tra vasca e piede 20 .<br />

Per quanto riguarda quest’ultimo dettaglio nel solo caso del kyathos da Monte Aguzzo<br />

i collarini plastici sono due. I due kyathoi, quello di Santa Teresa di Gavorrano e quello<br />

di Murlo, si distinguono invece per quanto riguarda la decorazione della vasca, assai<br />

complessa nel caso del primo e più semplice nel secondo, che mostra una catena di palmette,<br />

di un tipo ben noto anche a Murlo in relazione proprio ai kyathoi iscritti 21 , ma<br />

che è presente anche sul noto esemplare anch’esso iscritto da Monteriggioni 22 , e a Vetulonia<br />

esternamente sulla vasca di quello dalla tomba del Duce 23 .<br />

Sempre in relazione alle decorazioni figurate è assai interessante il repertorio animalistico,<br />

che comprende nelle decorazioni a stampo una teoria di quadrupedi (kyathos n.<br />

66) e due quadrupedi rampanti affrontati (kyathos n. 56) e in quelle a rilievo grifi (nel<br />

tondo centrale del kyathos n. 21) e una sfinge, un grifo e un assai interessante «creature<br />

with a human head and fish-like body» (sull’ansa del kyathos n. 21). Tuttavia in questi<br />

casi l’assenza di una documentazione grafica o macrofotografica rende impossibile, tranne<br />

forse per il caso della vasca del kyathos n. 21, la valutazione di questo repertorio. Potrebbe<br />

forse essere utile, per colmare questa lacuna, prevedere la pubblicazione delle immagini<br />

dei materiali provenienti dalle tombe di Poggio Aguzzo nell’assai ricco database<br />

online del Poggio Civitate Archive (http://scholarworks.umass.edu/ces_pcarchive/).<br />

Due brevi capitoli sono dedicati agli altri reperti ceramici, essenzialmente le fuseruole<br />

(pp. 73-74), e ai reperti metallici (pp. 75-82). Di un certo interesse appare in primo<br />

luogo la presenza costante nella maggior parte delle sepolture di armi, per lo più lance,<br />

ma anche in un caso (tomba 6) di nove punte di freccia, in origine contenute in una faretra<br />

di materiale deperibile e messe in relazione dall’A., per questioni tipologiche, all’attività<br />

venatoria. Dalla tomba 5 – vale a dire quella che ha restituito anche il kyathos n.<br />

38 con guerriero inciso sull’ansa – viene inoltre un pugnale di ferro assai mal conservato,<br />

ma con tracce di ambra e di filo d’oro.<br />

Un ultimo capitolo (pp. 83-98) riguarda il tentativo di ricostruire il contesto sociale<br />

che emerge dalla lettura delle sepolture e la loro relazione con il complesso di Poggio Civitate.<br />

Interessante appare la composizione dei corredi piuttosto omogenea e senza particolari<br />

picchi di distinzione, se si eccettua forse il caso della già citata tomba 5, bisoma<br />

e per di più contenente oggetti di sicuro pregio, quali il kyathos n. 38 e il pugnale con<br />

tracce d’ambra e filo d’oro n. 36. Tra l’altro, l’unico vaso d’importazione, un aryballos<br />

protocorinzio (n. 31) viene ancora una volta da questa sepoltura. L’A. sottolinea in più<br />

punti come queste tombe non siano a suo avviso da mettere in relazione con l’élite sociale<br />

del complesso di Poggio Civitate, alla quale preferisce associare in via ipotetica il<br />

tumulo non ancora indagato, posto ad occidente delle sepolture oggetto del volume.<br />

Il libro si chiude con il catalogo dettagliato dei corredi (pp. 99-129) ed è completato<br />

da disegni (figg. 1-16) e tavole fotografiche (tavv. I-XXXIII).<br />

20<br />

Per una tavola riassuntiva delle forme di questo tipo di kyathoi si veda Ca p p u c c i n i, cit. (nota 15), p.<br />

230, fig. 22.<br />

21<br />

Per un’edizione dei frammenti si vedano Ni e l s e n - Tu c k, citt. (nota 16), p. 53 sg., n. 16; e Tu c k - Ni e l-<br />

s e n, citt. (nota 16), p. 59 sg., n. 12 e il frammento anepigrafe p. 57, n. 8; inoltre Ma g g i a n i, cit. (nota 15),<br />

p. 331 e tav. V.<br />

22<br />

Per il kyathos da Monteriggioni si veda in anni recenti F. Sciacca, in Sc i a c c a - Di Bl a s i, citt. (nota<br />

13), p. 108, fig. 19.<br />

23<br />

Ca m p o r e a l e, cit. (nota 8), tav. XXV b.


510<br />

Recensioni<br />

In conclusione l’edizione sistematica dei nove contesti da Poggio Aguzzo ha sicuramente<br />

il merito di aprire nuovi spunti di ricerca sia per quanto concerne l’assai intrigante<br />

complesso di Poggio Civitate sia in relazione all’analisi di singole classi di materiali.<br />

M. Cristina Bi e l l a<br />

L. Cenciaioli (a cura di), L’Ipogeo dei Volumni. 170 anni dalla scoperta, Atti del Convegno<br />

di Studi (Perugia, 10-11 giugno 2010), Fabrizio Fabbri Editore, Perugia 2011,<br />

pp. 440 *. Inserito qui nota con aseterisco 1<br />

A distanza di un solo anno (e un mese) dal Convegno organizzato dalla Soprintendenza<br />

per i Beni Archeologici dell’Umbria e particolarmente seguito da Luana Cenciaioli,<br />

sono stati pubblicati gli Atti a cura della stessa Cenciaioli. È questo un primo lodevole<br />

merito di un’iniziativa tesa a celebrare degnamente i 170 anni dalla scoperta dell’Ipogeo<br />

dei Volumni, scoperta che suscitò vastissimo interesse nel pubblico perugino di ogni livello<br />

sociale. Altro merito del volume è quello di costituire una tappa fondamentale degli<br />

studi su un importante monumento etrusco, soprattutto per la sua ri-considerazione<br />

dopo la scoperta della tomba dei Cai Cutu che ha gettato nuova luce sulle produzioni<br />

perugine di età ellenistica. Eppure, ancora una volta manca una condivisa ed univoca interpretazione<br />

del significato delle raffigurazioni della tomba, ma soprattutto ancora esiste<br />

una forte divergenza nell’attribuzione cronologica del monumento, come già accadde<br />

negli studi che seguirono la scoperta. La pluralità di ipotesi, notata nell’introduzione<br />

dal soprintendente Mario Pagano (p. 7), sebbene possa costituire un valore aggiunto di<br />

questo volume, rischia di creare fraintendimenti che appaiono ormai decisamente superati.<br />

Quasi due secoli di scoperte, di acquisizioni, di studi, di dibattiti sembrano essere<br />

passati invano.<br />

Il volume riflette l’articolazione del Convegno in tre sessioni: le scoperte ed i documenti<br />

d’archivio, gli aspetti archeologici e la conservazione, temi fortemente interconnessi<br />

fra loro che affrontano l’argomento da ottiche diverse, ma tutte ugualmente tese<br />

all’approfondimento della conoscenza di un monumento celebre.<br />

La prima sessione è aperta da Luana Cenciaioli (Storia delle scoperte e le vicende<br />

dell’Ipogeo; pp. 15-32) che ripercorre le tappe della scoperta dal fatidico 4 febbraio<br />

1840, passando per la costruzione nel 1867 del delizioso padiglione progettato dall’ingegnere<br />

Guglielmo Calderini fino alla menzione degli studi sull’Ipogeo e al recentissimo<br />

intervento finalizzato ad una migliore leggibilità delle urne della necropoli conservate<br />

nel vestibolo. Viene descritta la tomba ed illustrati i materiali rinvenuti, alcuni dei<br />

quali purtroppo trafugati. Ad essere preso in considerazione non è soltanto l’ipogeo, ma<br />

anche altre due importanti tombe, quella degli Acsi e quella dei Tite Petruni. La prima,<br />

non più ubicabile, ha restituito documenti scritti su lamine plumbee inserite fra coperchio<br />

e cassa delle urne. Alla tomba appartenevano probabilmente anche gli schinieri<br />

tardo-arcaici di produzione magno-greca le cui complesse vicende, da bottino di guerra<br />

a dedica in un santuario orvietano fino al loro trasferimento a Perugia, sono state ricostruite<br />

da Giovanni Colonna. Dalla stessa proviene il vaso con decorazione plastica sul<br />

collo, che richiama, sebbene in tono minore, gli ornati delle famose lastre architettoniche<br />

da Cerveteri al Vaticano. Corollario alla relazione Cenciaioli è la ricognizione delle<br />

* Il presente testo è una rielaborazione della presentazione del volume tenutasi presso il Palazzo della<br />

Provincia di Perugia il 6 luglio 2011.


Recensioni 511<br />

urne conservate nel vestibolo condotta con cura da Silvia Racano (Ricognizione urnette<br />

cinerarie; pp. 33-44).<br />

Un dettagliato spaccato della erudizione antiquaria tra XVII e XIX secolo è offerto<br />

da Luigi Sensi (Interessi antiquari a Perugia tra XVII e XIX secolo e l’opera di Gianbattista<br />

Vermiglioli; pp. 45-78) che ripercorre collezioni nobiliari e gli interessi culturali di<br />

aristocratiche famiglie perugine e di ecclesiastici, ad iniziare da Felice Ciatti, continuando<br />

con Francesco Maria Galassi, promotore di una prima raccolta pubblica di urne etrusche<br />

ed epigrafi latine presso San Pietro, fino all’attività di Giovan Battista Vermiglioli,<br />

personaggio determinante per gli studi di antichità perugine.<br />

Si torna alla scoperta dell’Ipogeo con il contributo di Maurizio Matteini Chiari (Il<br />

cammino meno arduo. La deviazione della Strada Nazionale Cortonese presso Perugia. Una<br />

nuova direttrice di avvicinamento alla città. Qualche osservazione; pp. 63-78) dedicato alla<br />

deviazione della Strada Nazionale Cortonese resasi necessaria per l’eccessiva pendenza e<br />

l’esposizione ai venti freddi della precedente strada, ancor’oggi esistente e nota un tempo<br />

come “la strada dei contadini”, quella cioè percorsa dai lavoranti del contado che<br />

si recavano a Perugia, in particolare al servizio di nobili famiglie. Il rinvenimento della<br />

tomba si deve ad un cambiamento del progetto iniziale della strada, come ad un altro<br />

cambiamento si deve purtroppo la distruzione di un edificio funerario nei pressi di<br />

San Costanzo. L’accurata analisi di M. Matteini Chiari ha reso possibile il riconoscimento<br />

nella cartografia storica della c.d. Tabucca (pp. 65-67), un monumento funerario di<br />

probabile forma piramidale descritto da Cipriano Piccolpasso.<br />

Il contributo di Sergio Fatti (Lodovico Lazi, interessato alli scavi; pp. 79-94) verte su<br />

documenti dai quali si scopre l’interesse agli scavi della badessa del Monastero di S. Lucia<br />

che pretende siano fatti da suoi coloni e fattori. Il Lazi è agente delle suore e pensa<br />

ad una società fra suore, Baglioni e lui stesso. Ben lo definisce Fatti un «archeologo dilettante»<br />

presente alla scoperta della tomba che viene giudicata essere un tempio. Irritato<br />

con il procedere del Lazi è il Delegato Apostolico che si lamenta che la tomba sia<br />

stata aperta senza informarlo e pensa di multare lo scavatore di 200 scudi. Fu in ogni<br />

caso il Lazi l’animatore dello scavo.<br />

Ancora sui documenti è il testo di Agnese Massi Secondari (Perugia e l’Ipogeo dei<br />

Volumni in inediti documenti d’archivio francesi; pp. 95-106) che, ricercando in archivi<br />

parigini, ha reperito testimonianze inedite di architetti che visitarono l’Umbria. Luis Hippolyte<br />

Lebas disegnò materiali dai Volumni con qualche diversità rispetto ai disegni di<br />

Vermiglioli, mentre a François Debret si devono riproduzioni dei noti cippi perugini.<br />

Chiude la prima sessione di interventi il contributo di Giovanni Colonna (Per una<br />

rilettura in chiave storica della tomba dei Volumni; pp. 107-134) che ripercorre le tappe<br />

della scoperta e ricorda non soltanto le visite di papa Gregorio XVI, di Luigi di Baviera<br />

e di altri, fra i quali il Mommsen, ma anche le entusiastiche parole del Dennis. Nelle<br />

decorazioni della tomba (in alcune delle quali lo studioso legge un’allusione alla dea<br />

«Cavtha, la Kore/Persefone etrusca» [p. 120]) vengono riconosciute valenze escatologiche,<br />

in particolare in quelle dei due frontoni. La datazione dell’ipogeo al 220 a.C. è<br />

supportata da argomentazioni derivate dalla cronologia sia delle tombe dipinte che delle<br />

iscrizioni di età ellenistica, nonché dalla scoperta della tomba dei Cai Cutu. Suggestive<br />

le motivazioni che avrebbero costretto all’abbandono dell’ipogeo, destinato ad essere<br />

riaperto soltanto due secoli dopo per orgoglio gentilizio. I Velimna si sarebbero trasferiti,<br />

in «un esilio, volontario o forzato» (p. 125), nell’Egitto tolemaico forse recando con<br />

loro il liber linteus attribuibile al territorio di Perugia e databile all’ultimo quarto del III<br />

sec. a.C. (nota 136).<br />

La sessione degli aspetti archeologici è aperta da Enzo Lippolis (L’Ipogeo dei Velimna/Volumni<br />

al Palazzone di Perugia: un caso di rappresentazione familiare e il problema


512<br />

Recensioni<br />

interpretativo; pp. 135-166) che torna ad un tema frequentato per la sua tesi di laurea.<br />

Lippolis traccia dapprima la storia degli studi sull’ipogeo e discute recenti proposte di<br />

datazione articolate sulla base del confronto con la tomba dei Cai Cutu (della quale lamenta<br />

la mancanza di un’edizione ‘sistematica’) e sulla base dei dati offerti dalle epigrafi<br />

(pp. 139-140). Sorprende lo scarso valore cronologico attribuito all’analisi paleografica<br />

dopo le ricerche di numerosi studiosi, in particolare di A. Maggiani per il periodo che<br />

più interessa, che hanno condotto ad importanti acquisizioni offrendo elementi di giudizio<br />

‘interni’ al documento stesso. Lippolis data dunque la tomba all’ultimo decennio del<br />

II sec. a.C., riproponendo sostanzialmente la cronologia nella tarda età repubblicana, già<br />

affacciata da E. Zalapy nel 1918, ripresa da A. von Gerkan e F. Messerschmidt nel 1942<br />

e da J. Thimme nel 1954, ed esprimendo l’opinione che il rialzamento cronologico non<br />

è stato finora sostenuto da un’adeguata analisi complessiva. Lo iato di due secoli fra le<br />

prime sei urne e quella di Publius Volumnius Violens (ascritta all’ultimo ventennio del I<br />

sec. a.C.: p. 141), proposto da Colonna, diventa lo spazio di due generazioni al massimo<br />

per Lippolis (p. 147). L’ipogeo continua dunque ad avere datazioni contrastanti. Nelle<br />

decorazioni figurate sono riconosciuti stilemi della cultura figurativa del II sec. a.C. (pp.<br />

143-144). Le esegesi proposte per le raffigurazioni dei frontoni sono essenzialmente rapportate<br />

per quello di fondo alle riforme mariane dell’esercito: l’adesione ad esse dei Velimna<br />

avrebbe garantito l’affermazione sociale della famiglia (p. 157). L’abbandono della<br />

tomba viene attribuito alle faide del periodo tra 87 e 79 a.C.<br />

Ipotesi sia convergenti che divergenti da quelle espresse nei precedenti contributi<br />

emergono da quello di Vincent Jolivet (La tombe des Velimnas et la question du plan canonique<br />

de la maison étrusque; pp. 167-182) che affronta l’esame dell’articolazione planimetrica<br />

della tomba, assunta da J. A. Overbeck quale modello originario della casa<br />

romana (e parimenti definita da Lippolis «vera e propria domus»: p. 148). Jolivet sostiene<br />

invece l’esistenza di strette affinità fra la pianta della tomba e il tipo della casa etrusca<br />

come questo è stato elaborato nel VI sec. a.C. ed individua una gerarchizzazione<br />

degli spazi (pp. 169-170). La lettura delle due teste nei cassettoni delle alae lo convince<br />

inoltre ad identificare le due stanze ai lati del tablino l’una come oecus femminile e l’altra<br />

come triclinium maschile. Infatti lo studioso interpreta la testa di destra come femminile<br />

e quella di sinistra come maschile, individuata invece da Colonna come «nubenda<br />

dai capelli tagliati». La deposizione dell’urna marmorea è considerata posteriore di<br />

due secoli a quella delle casse stuccate realizzate dalla stessa bottega nell’ultimo quarto<br />

del III sec. a.C. (p. 177).<br />

Adriano Maggiani (Uno scultore perugino a Volterra; pp. 183-204), nel presentare<br />

una nuova urna volterrana, discute i complessi rapporti fra i tre maggiori centri produttori,<br />

Chiusi, Volterra e Perugia. La produzione perugina inizia nel corso della prima<br />

metà del III sec. a.C., dapprima privilegiando il coperchio configurato su casse tipo<br />

‘Holz truhe’, ed intorno al 250 a.C. vede l’attività del Maestro dell’urna di Arnth Cais<br />

Cutus. Al 230-220 a.C. viene ascritta la fase A dell’Officina dei Volumni (p. 186), probabilmente<br />

ad opera di artigiani chiusini, ma con evidenti connessioni con l’urna di Arnth<br />

Cais Cutus e con le casse di due urne da una tomba degli Ancari. Alla fase B, assegnata<br />

al 220-210 a.C., appartengono le urne di Arnth, Larth e Veilia, la cui datazione<br />

coinvolge quella stessa della tomba. Innovazioni tipologiche successive si devono all’Officina<br />

del Maestro di Enomao (210-190 a.C.) che rivela l’origine volterrana del Maestro<br />

A, seguito da altri Maestri cui si devono ulteriori sviluppi, ad esempio l’introduzione del<br />

tipo del velato. Nel II sec. a.C. i rapporti fra Perugia e Volterra sono contrassegnati da<br />

un intenso movimento di persone, e non soltanto di artigiani, come indizia la distribuzione<br />

di gentilizi. Nel secolo successivo è stata sostenuta l’attività di scultori perugini a<br />

Volterra che sembra essere testimoniata anche dalla nuova urna, databile fra tardo II e


Recensioni 513<br />

inizio del I sec. a.C., dalla necropoli di Ulimeto con banchettante nella fronte del coperchio,<br />

forse pertinente ad una donna perugina giunta a Volterra per via matrimoniale.<br />

Francesco Roncalli (Costume funerario e memoria famigliare a Perugia tra IV e III<br />

sec. a.C.; pp. 205-210) si sofferma sulla compresenza in tombe perugine di un’inumazione<br />

in sarcofago e più incinerazioni in urne leggendo nel sistema non tanto il momento<br />

di passaggio fra i due riti, ma piuttosto una «carica simbolica» (p. 206) che trascende il<br />

dato cronologico. Sottolinea infatti come i fratelli Arnth e Larth, fondatori della tomba<br />

dei Volumni, al pari del membro della famiglia dei Velthina del cippo perugino, dichiarino<br />

nell’epigrafe sulla porta la loro discendenza da una Arznei suggerendo un possibile<br />

«radicamento locale» proprio in virtù della famiglia materna ed un possibile recente<br />

inserimento dei Volumni nell’aristocrazia perugina. Il rilievo di un’ascendenza matrilineare<br />

sembrerebbe confermato dal cospicuo gruppo di deposizioni femminili entro sarcofagi<br />

anepigrafi.<br />

Simone Sisani (L’ultimo dei Volumni: P. Volumnius Violens e le vicende istituzionali<br />

del municipium di Perusia tra il 40 a.C. e l’età augustea; pp. 211-210) dedica il suo lavoro<br />

all’ultimo dei Volumni, morto in età augustea e deposto a due secoli di distanza dalla<br />

costruzione della tomba. Sisani identifica Publius Volumnius Violens Cafatia natus con il<br />

padre dell’omonimo magistrato che fu sia IVvir che IIvir. L’ ‘anomalia’ delle due cariche<br />

è riscontrabile in altri esempi del municipium di Perusia ed è condivisa anche da altri<br />

municipia. La spiegazione finora presentata ed ancorata al bellum Perusinum viene discussa<br />

da Sisani che, sulla scia del Saddington (p. 212), data il cambio di titolatura dei<br />

magistrati in età tardo-augustea/tiberiana, quando in ambito locale è peraltro attestato<br />

il matronimico secondo la consuetudine etrusca. Dopo il riesame della documentazione<br />

epigrafica, a spiegazione dell’innovazione istituzionale Sisani pensa alla restitutio del<br />

municipio quando a Perugia fu concesso di appellarsi Augusta Perusia, probabilmente<br />

entro l’ultimo quindicennio del regno di Augusto (p. 223).<br />

L’edizione di una tomba del Palazzone rinvenuta nel 1966, non a caso definita Bella,<br />

si deve ad Anna Eugenia Feruglio (La necropoli del Palazzone, la Tomba Bella; pp.<br />

231-248). Dopo una sintesi delle indagini condotte nella necropoli ed un breve accenno<br />

alle tombe arcaiche, viene descritto il monumento. Ornato ai lati dell’ingresso da due<br />

corazze a spallacci e, sulla semiparete destra, anche dall’immanicatura di una machaira,<br />

alle pareti laterali mostra tre nicchie separate da paraste con capitelli eolici e precedute<br />

verso l’ingresso dalla raffigurazione di due cippi a colonnetta, dalla morfologia tipicamente<br />

perugina. I capitelli vengono confrontati in particolare con quelli della Porta<br />

Marzia. Alla descrizione delle corazze e ai confronti per il tipo si affianca la menzione<br />

delle tombe con armi e per quelle perugine viene offerto un aggiornamento in Appendice<br />

(pp. 242-243), mentre una precisazione (nota 65) riguarda la tomba dei Volumni: si<br />

ribadisce che si deve ad un fraintendimento l’attribuzione dell’iscrizione tutas agli schinieri<br />

da essa provenienti. Il fregio d’armi, di matrice macedone, non soltanto documentato<br />

in tombe, ma anche nel c.d. Monumento degli Scudi di Dion, appare replicato a<br />

non grande distanza di tempo e in versione assai più modesta nelle corazze della tomba.<br />

Il monumento è assegnato alla metà-seconda metà del III sec. a.C. con un utilizzo<br />

perdurante anche nel II sec. a.C.<br />

L’ultima relazione della seconda sessione è opera di Giulio Paolucci (Su alcune ceramiche<br />

dipinte dalla Necropoli del Palazzone di Perugia; pp. 249-260) e riguarda ceramiche<br />

dipinte dell’Antiquarium del Palazzone. Le indagini condotte sulla produzione etrusca<br />

a figure nere hanno convinto Paolucci a riunire i gruppi di Monaco 265 e Vaticano<br />

883 nel Gruppo Monaco Vaticano ed hanno consentito di distinguere alcune mani, come<br />

quella del Pittore Orvietano attivo fra 490 e 470 a.C. ed autore di circa 30 opere, fra le<br />

quali l’anfora perugina esaminata nel contributo. Viene tratteggiato il repertorio decora-


514<br />

Recensioni<br />

tivo del Pittore che ama scene atletiche e di ispirazione dionisiaca (pp. 250-251). Alcune<br />

anfore illustrano soggetti oltremondani che rispondono alla funzione di contenitori<br />

cinerari come provano esempi di ceramiche greche ed etrusche a figure nere e di bucchero<br />

noti a Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Orvieto, Arezzo, ma particolarmente in ambito<br />

chiusino: tutto sembra indicare che tale uso fosse presente anche a Perugia, dove la<br />

funzione di cinerario è di sicuro testimoniata nel caso del cratere attico del Pittore dei<br />

Niobidi e potrebbe essere riconosciuta anche per l’anfora dalla tomba 172 del Palazzone<br />

ricondotta al Pittore dell’Ancile (p. 254). A conclusione del lavoro sono esaminati<br />

anche frammenti attici ed etruschi a figure rosse.<br />

Seguono nel volume contributi più strettamente legati alla conservazione dell’Ipogeo,<br />

che iniziano con le osservazioni di Paolo Belardi, Simone Bori e Simona Graziotti<br />

(Rilevare per rilevare. Cronistoria di un’indagine investigativa sulla paternità della “teca<br />

muraria”; pp. 261-270) sulle notizie relative alla deliziosa struttura di protezione dell’ingresso<br />

imitante nella decorazione motivi frequenti nelle urne perugine. Pur in assenza<br />

di documenti l’edificio è da ricondurre all’attività di Guglielmo Calderini, alla sua ‘opera<br />

prima’ (p. 265).<br />

Roberto De Rubertis (L’ “Antiquarium” del Palazzone; pp. 271-274) sintetizza il suo<br />

intervento di mimetizzazione ambientale del magazzino e dei laboratori del Palazzone<br />

quale «vera e propria architettura invisibile» realizzata nell’abbandonata cava di materiali<br />

per l’edilizia e con un copertura che riprende l’andamento naturale del pendio.<br />

Un’esemplificazione di sinergia culturale fra discipline scientifiche e umanistiche è<br />

quella presentata da Lucilia Gregori (Ipogeo dei Volumni (Perugia - Umbria); sinergia culturale<br />

tra discipline ‘scientifiche’ e umanistiche; pp. 275-288) che coniuga geologia e archeologia.<br />

Si apprende che le tombe del Palazzone sono scavate nei «depositi del paleodelta<br />

di Perugia» che confluiva nel paleo-lago Tiberino dalla forma «ad Y rovesciata».<br />

All’angolo della Y si trova il «colle di Perugia» costituito da depositi fluvio-deltizi (p.<br />

277) nei quali è scavata la tomba dei Volumni che al fascino archeologico somma quello<br />

geomorfologico e permette «di entrare all’interno di un paleo-delta». È mio desiderio<br />

ricordare con tristezza e rimpianto la recente scomparsa di Lucilia Gregori.<br />

Valter Violanti (Risultati del monitoraggio ambientale nell’Ipogeo; pp. 289-298) si occupa<br />

del microclima della tomba che è stata inserita nel progetto di monitoraggio denominato<br />

MAMBA, teso a valutare ed impedire le cause del degrado dei beni culturali.<br />

Da notazioni di carattere legislativo si passa ad illustrare le iniziative di controllo del<br />

microclima effettuate nell’ipogeo e denuncianti che l’ambiente all’interno è molto stabile,<br />

pur permanendo il problema della crescita di microrganismi vegetali.<br />

Le specie microbiologiche individuate nelle diverse zone della tomba sono oggetto<br />

dell’indagine di Annalisa Pini (Diagnostica preliminare: importanza dell’approccio interdisciplinare<br />

e valutazioni su campionamenti microbiologici effettuati presso l’Ipogeo dei Volumni;<br />

pp. 299-308) che riferisce sulle procedure messe in atto e sui risultati raggiunti<br />

(presenza di colonie fungine e batteriche) e giustamente invita ad un costante controllo.<br />

Margherita Franceschini, Assunta Marrocchi e Maria Laura Santarelli (Ipogeo dei<br />

Volumni a Perugia. Progetto per la conservazione di elementi lapidei mediante inibitori di<br />

cristallizzazione salina; pp. 309-314), a seguito del danneggiamento delle pareti provocato<br />

dalla condensazione dell’acqua, dalla presenza di sali solubili e dalle vibrazioni causate<br />

dal vicino traffico ferroviario e veicolare, affrontano il tema della conservazione degli<br />

elementi lapidei e propongono una serie di interventi mirati a prevenire e/o ridurre<br />

la cristallizzazione salina.<br />

Affascinante è il rilievo digitale 3D con laser scanner presentato da Daniel Blersch<br />

(Il rilievo digitale con laser scanner dell’Ipogeo dei Volumni; pp. 315-328) che esamina<br />

la carpenteria lignea dei soffitti replicata in pietra, con riferimenti allo studio di A. von


Recensioni 515<br />

Gerkan. Per quanto riguarda l’unità di misura utilizzata (pp. 323-324), Blersch conclude<br />

che le misurazioni, sebbene puntuali, non forniscono risultati certi sull’uso del piede<br />

romano (29,6 cm) o etrusco (variamente calcolato: 32,4 cm o 40-42 cm) o italico (27, 5<br />

cm).<br />

Gennaro Tampone (L’architettura dell’ipogeo etrusco dei Volumni; pp. 329-344) affronta<br />

il tema dell’architettura della tomba e, revisionando le riproduzioni grafiche iniziali,<br />

propone il rilievo di Blersch-Tampone eseguito con laser scanner come «oggettivo<br />

e non interpretativo» e rifiuta l’accreditata similitudine con la domus. Individua inoltre<br />

un «ordinamento gerarchico degli ambienti» (p. 331) che privilegia le tre camere terminali<br />

determinando il ruolo secondario delle quattro stanze ai lati dell’ambiente centrale.<br />

Tampone si sofferma poi sulle strutture lignee simulate nei diversi ambienti della tomba<br />

alle cui dimensioni e proporzioni a suo avviso sarebbe errato attribuire valore reale<br />

(p. 334). Considera inoltre impropria la definizione di lacunari o cassettoni trattandosi<br />

di «cupole» costruite in aggetto.<br />

Si torna ai documenti d’archivio, all’erudizione antiquaria perugina e all’etruscologia<br />

in Umbria nel Cinquecento con il saggio di Paolo Renzi (Prima dei Volumni. Percorsi<br />

di erudizione antiquaria nelle collezioni della Biblioteca Augusta di Perugia. Per<br />

l’etruscologia e l’epigrafia ‘etrusca’ in Umbria nel Cinquecento; pp. 345-382) che riassume<br />

anche il noto interesse per gli Etruschi a Firenze e in Toscana ripercorrendo i testi<br />

degli autori della fine del Quattrocento e del Cinquecento. Vengono poi esaminati gli<br />

scritti del XVI secolo rivolti alle antichità etrusche e alle dispute sull’origine di Perugia,<br />

sotto linean do gli interessi sviluppatisi in ambito perugino intorno a tali tematiche e<br />

giustamente rilevando l’importanza del manoscritto di Vincenzo Tranquilli dal quale dipendono<br />

letture (ed ubicazioni) di epigrafi etrusche perugine, in seguito inserito nella miscellanea<br />

di Sinibaldo Tassi. Renzi si sofferma anche su documenti relativi alle Tavole di<br />

Gubbio.<br />

Ancora documenti sulla scoperta dell’Ipogeo, conservati presso l’Archivio di Stato<br />

di Perugia, sono oggetto della relazione di Marina Regni (La documentazione dell’Archivio<br />

di Stato di Perugia sulla scoperta dell’Ipogeo dei Volumni; pp. 383-390) che segnala<br />

le vicende della particella catastale su cui insiste la tomba fino alla sua felice conclusione<br />

in proprietà dello Stato.<br />

Termina molto opportunamente il volume l’edizione della Mostra documentaria:<br />

L’Ipogeo dei Volumni. 170 anni dalla scoperta (pp. 391-414), allestita con il coordinamento<br />

di Luana Cenciaioli e Sergio Fatti in occasione del Convegno, ricca di importanti<br />

documenti.<br />

Gli Atti – come il Convegno – vanno ad onore della Soprintendenza per i Beni Archeologici<br />

dell’Umbria ed in particolare di Luana Cenciaioli che – con grande costanza<br />

– ha voluto l’incontro di studio, la pubblicazione dei numerosi e diversificati contributi<br />

ed altre lodevoli iniziative per la valorizzazione e la promozione presso un vasto<br />

pubblico della necropoli del Palazzone. Un doveroso riconoscimento va infine attribuito<br />

anche all’Editore Fabbri e a tutti gli Enti che hanno contribuito all’iniziativa sia del<br />

Convegno sia della pubblicazione degli Atti. Un unico rammarico: la qualità delle immagini<br />

di corredo ai testi. Le loro dimensioni, in particolare di quelle relative a cartografie<br />

e disegni, ostacolano purtroppo una lettura agevole.<br />

Si m o n e t ta St o p p o n i


516<br />

Recensioni<br />

J. d e La Ge n i è r e - G. Gr e c o (a cura di), Il santuario di Hera alla foce del Sele. Indagini<br />

e studi 1987-2006, Atti e Memorie della Società Magna Grecia, serie IV, 2008-2010,<br />

2 voll., pp. 793, tavv. 143.<br />

Quest’opera, realizzata in due tomi, dà conto delle ricerche effettuate negli ultimi<br />

tempi al santuario di Hera alla foce del Sele. Investe una delle scoperte più importanti<br />

della storia delle ricerche in Magna Grecia: l’individuazione del santuario di Hera alla<br />

foce del Sele e lo scavo archeologico effettuato da P. Zancani Montuoro e U. Zanotti<br />

Bianco, impresa che è entrata, oltre che nel quadro della conoscenza, anche nell’immaginario<br />

collettivo. Nei due volumi sono documentate le esplorazioni archeologiche con<br />

due fondamentali capitoli conclusivi: una ricapitolazione generale della nuova situazione<br />

sotto il profilo topografico e monumentale, e una approfondita discussione di antropologia<br />

religiosa.<br />

L’indice, che inizia con la presentazione di Gerardo Bianco, l’introduzione di J. de La<br />

Genière e G. Greco e una nota preliminare di Giuliana Tocco, costituisce già una chiara<br />

indicazione della ampiezza e della specificità dei temi. Notevoli contributi fanno da<br />

sfondo nel ricreare la leggendaria atmosfera del sito (M. R. Senatore, T. Pescatore) con<br />

l’antica vegetazione alla foce del fiume (M. Mariotti Lippi, M. Mori Secci) mentre i metodi<br />

di indagine e di documentazione lasciano entrare nel vivo del sistema adottato.<br />

G. Greco, inserendo un racconto inedito di U. Zanotti Bianco che si qualifica come<br />

una preziosa raffinatezza, illustra il percorso delle ricerche che ha inizio, com’è noto, dal<br />

15 giugno del 1934 con il semplice telegramma di un assistente della Soprintendenza<br />

di Napoli a proposito di una certa metopa, ignaro di quanto quella segnalazione avrebbe<br />

provocato. Nell’accurata analisi del quadro complessivo dello scavo Zancani-Zanotti<br />

Bianco, con il riferimento ai loro due fondamentali volumi, si sottolinea l’attenzione<br />

portata dai due studiosi alla stratigrafia come un «vera rarità» nel tempo in cui si procedeva<br />

con sterri altamente distruttivi dei palinsesti archeologici.<br />

Una pianta schematica introduce alla zona A che comprende il thesauros, gli altari<br />

A, B, il c.d. Tempio Maggiore, le stoai e l’edificio quadrato, in altri termini i luoghi di<br />

intervento. Si fa notare come l’esatta collocazione di tale zona rispetto ad altre (zone B<br />

e C) non venne mai planimetricamente registrata sicché in seguito sono state pubblicate<br />

distanze distorte.<br />

Sistemata tale questione e ciò premesso, a fronte dei numerosi problemi e delle differenti<br />

precedenti proposte di lettura, va segnalata innanzi tutto la nuova interpretazione<br />

del thesauros, l’edificio che Fr. Krauss restituì come un tempietto prostilo in antis di<br />

epoca arcaica. Di fronte a tale situazione non facile da gestire, la strategia della ricerca<br />

è stata impostata sulla base di un’attenta rilettura dei dati editi, di quelli recuperati<br />

in archivio ma soprattutto del riconoscimento della successione stratigrafica con relativo<br />

materiale mobile, principalmente ceramiche. Orbene tale prassi ha mostrato che non<br />

si trattava di un tempietto arcaico quanto piuttosto di una semplice struttura rettangolare,<br />

lacunosa di un lato, senza copertura, forse con una colonna votiva al centro secondo<br />

un modello noto nei santuari italici di epoca repubblicana. La proposta di lettura di<br />

G. Greco non risulta quindi una ricostruzione teorica quanto una interpretazione che, a<br />

mio parere, sembra chiudere la questione dopo sforzi speculativi decennali.<br />

Quest’ultima affermazione richiede tuttavia una esposizione più dettagliata del processo<br />

indagativo. Esso poggia sulla minuziosità dei saggi effettuati sia all’interno che<br />

all’esterno del thesauros: così viene prima descritto l’obiettivo di ogni singolo intervento<br />

con l’elenco delle unità stratigrafiche, quindi i materiali pertinenti organizzati per classi<br />

(tipologia, cronologia, confronti), quindi il bilancio accompagnato da grafici delle se-


Recensioni 517<br />

zioni. Il metodo di registrazione dei dati è lineare e semplice da attuare. L’impostazione<br />

editoriale rende conto di tutti i passaggi. In altri termini la cronologia appare definitivamente<br />

accertata.<br />

Non meno complessa la situazione relativa al c.d. Tempio Maggiore indicato dalle<br />

Curatrici semplicemente come Tempio. Bisogna rifarsi ai saggi condotti nel 1993 che<br />

avevano documentato, rispetto alle precedenti interpretazioni, come l’edificio non fosse<br />

di epoca arcaica ma risalisse alla colonia latina di Paestum. Nasceva dunque una<br />

anomalia in quanto l’eccezionale serie di metope scolpite di epoca arcaica restava priva<br />

dell’edificio di appartenenza. Seguendo lo stesso metodo anche in questo caso sono<br />

stati praticati saggi sia all’interno che all’esterno dell’edificio completati da piante e sezioni<br />

e dall’analisi dei reperti ceramici. Dai bilanci relativi ai singoli saggi ha avuto luogo<br />

il passaggio all’interpretazione complessiva. Allo stesso tempo emerge con chiarezza<br />

la scelta di rilevare tutta la stratigrafia esistente per attingere la certezza delle varie fasi<br />

cronologiche: un fenomeno che è stato riscontrato anche in altre aree culturali come è<br />

accaduto a chi scrive a Tarquinia nel santuario dell’Ara della Regina ove l’altare incorporato<br />

nella terrazza del Tempio dei Cavalli Alati e ritenuto arcaico si è rivelato essere<br />

decisamente posteriore.<br />

I risultati possono essere così riassunti: l’area del Tempio era stata oggetto di una<br />

serie di interventi a partire dall’età del Ferro documentata da una struttura abitativa cui<br />

in seguito si sovrapponevano le tracce della prima frequentazione greca caratterizzata da<br />

ceramiche del Corinzio Medio avanzato. Una prima attività edilizia è documentata da<br />

trincee di fondazione che costituiscono una struttura rettangolare al cui interno era presente<br />

un’altra struttura rettangolare. È stato possibile in tal modo ricostruire un primo<br />

progetto templare con peristasis e cella con dimensioni prossime a quelle di un hekatompedon.<br />

Su questo edificio fu impostato il Tempio successivo databile grosso modo, sulla<br />

base dei reperti provenienti dai cavi di fondazione tra fine VI e inizi del V secolo a.C.<br />

L’indagine dedicata agli altari monumentali (A, B) ha riscontrato la contemporaneità<br />

delle due strutture laddove l’altare B tuttavia risultava avere una fase precedente. La<br />

duplicazione degli altari, pur lasciando aperto il problema, ha dato luogo a due sostanziali<br />

ipotesi, che l’altare A fosse riservato a sacrifici cruenti e l’altare B a riti preliminari<br />

(Zancani Montuoro), che la duplicazione fosse dovuta al duplice aspetto di Hera come<br />

Pais e Teleia.<br />

Infine, data l’assenza di documentazione indicativa, per le due stoai è prevalsa la<br />

prudenza ma per l’edificio settentrionale datato al VII secolo a.C. è stata confermata una<br />

cronologia ad epoca precedente agli ultimi decenni del V secolo. Seguono i saggi effettuati<br />

da B. Ferrara che hanno precisato ulteriormente le varie fasi di vita del santuario.<br />

In particolare l’esplorazione dell’area del primo bothros, ha fornito numerosi dati circa<br />

le procedure del ‘sacro agire’ ricostruite nei dettagli. La trattazione specifica delle classi<br />

del materiale, affidata a diversi collaboratori (P. Criscuolo, M. Falcomata, B. Ferrara,<br />

M. Franco, G. Pagano, A. Tomeo, S. Visco) costituisce la seconda parte dell’opera e offre<br />

tutti gli elementi di verifica. I confronti risultano adeguati e i reperti sono posti in<br />

chiaro nesso con la stratigrafia.<br />

Le riflessioni e le ipotesi avanzate da J. de La Genière interessano l’intero excursus<br />

storico. In merito alla pianura del Sele prima della fondazione di Posidonia, si rileva:<br />

l’esistenza della capanna sotto la cella del Tempio che potrebbe essere indizio di<br />

una presenza stabile di pastori e la probabilità che ci siano stati contatti nel VII secolo<br />

tra questi probabili Enotri e i Greci attestati nella vicinanze. Quanto agli inizi del periodo<br />

coloniale si evidenzia: la data ai primi decenni del VI secolo a.C. della costruzione<br />

del santuario extraurbano di Hera e l’assenza di materiale indigeno posteriore alla fine<br />

del VII secolo. Per la prima metà del VI secolo si registra: la presenza quasi esclusiva di


518<br />

Recensioni<br />

ceramica corinzia, la comparsa delle terrecotte figurate che rappresentano la divinità in<br />

trono di cui le più antiche sono di origine corinzia cui subentrarono le produzioni italiote.<br />

I votivi confermano peraltro l’influenza esercitata dalla Magna Grecia sul mondo<br />

etrusco-campano come si è già osservato per la produzione fittile capuana.<br />

Indubbiamente molto più ricco lo scenario della seconda metà del VI secolo con<br />

una serie di precisazioni sul Tempio costruito intorno al 500-490 a.C., con una proposta<br />

per la planimetria, e il rapporto con la pianta dell’edificio precedente cui vanno attribuite<br />

le notissime metope arcaiche datate 550-540 a.C. (de La Genière - Greco). Dalla<br />

documentazione grafica emergono con chiarezza le modalità con le quali il Tempio<br />

incorporò quello più antico secondo una logica perseguita sovente in varie aree culturali:<br />

area magno-greca e siceliota (Locri-Marasà, Selinunte, Agrigento), area laziale (Satricum),<br />

area etrusca (Tarquinia). Segue una discussione analitica e sintetica dell’ingente<br />

complesso delle metope e altre osservazioni sulle diverse strutture.<br />

In merito al periodo lucano (fine V - inizi III secolo a.C.) la discussione sui tempi<br />

e sulle caratteristiche della presenza dei Lucani si conclude con l’affermazione che non<br />

tutti i problemi sono stati risolti così come non si può escludere, sulla base della documentazione<br />

archeologica, che il passaggio dalla Posidonia greca alla città lucana sia stato<br />

accompagnato da episodi violenti.<br />

G. Greco, nel suo contributo, dedica attenzione alla problematica delle immagini<br />

scolpite sulle lastre metopali che riportano nell’ambito e nei modi di una società aristocratica<br />

con la sovrastante presenza di Eracle e Achille nelle loro sfere di azione, patrimonio<br />

mitico e ideologico già noto e comprensibile alle comunità locali e ad altri popoli<br />

della penisola. Affronta quindi la complessa fenomenologia del ‘sacro’ dove spicca<br />

l’immagine di Hera evocata nella sua funzione di divinità protettrice del territorio naturale<br />

e coltivato. Ha colto nel segno quando considera che l’importanza della dea derivi<br />

dalla sua morfologia cultuale che si traduceva in una varietà di interventi atti ad essere<br />

compresi dalle varie componenti sensibili delle comunità, molteplici funzioni che rimandano<br />

al sistema della grande Hera peloponnesiaca. Così, riprendendo l’ipotesi del collegamento<br />

con l’Hera argonautica (Mele), l’A. evidenzia lo stretto rapporto con il fiume<br />

Sele e la posizione significativa dell’approdo fluviale.<br />

Viene altresì ripresa, dalla Greco, la problematica del ‘sacro agire’ con varie considerazioni:<br />

si ricorda come le offerte dei fedeli circoscrivano l’iconografia della dea ma<br />

come molti ex voto escludano precisazioni attributive in quanto in età arcaica le divinità<br />

femminili avevano sfere di intervento tangenti. Aggiungo che la dialettica poteva mutare<br />

nel tempo attraverso associazioni, dismissioni e circolarità dei poteri. Al contrario<br />

le intenzioni più specifiche dell’offerente sono destinate a restare nascoste se non sono<br />

apertamente dichiarate con dediche.<br />

Nel secondo tomo è presente la trattazione relativa al portus Alburnus e alla funzione<br />

di scalo e di via d’acqua svolta dal Silarus verso l’interno nonché un esame più generale<br />

della viabilità marittima e terrestre nei tempi e nei modi (L. Vecchio). Segue un<br />

esame e la ricontestualizzazione dei reperti rinvenuti sin dall’inizio nell’area sacra: ceramica<br />

attica figurata (S. Visco), una lekythos a rilievo (M. Falcomata), vasi ad anello<br />

(P. Criscuolo), terrecotte figurate di età ellenistica (A. Tomeo. F. Cantone), bronzi<br />

(M. Giacco), rinvenimenti monetali (R. Cantilena). Bibliografia aggiornata. Eccellenti<br />

tavole fotografiche, disegni dei reperti accurati, ben leggibili e composti in tavole adeguate.<br />

Come si evince, poiché non era possibile esporre tutti i risvolti di quest’opera compiuta,<br />

complessa e organica tra scavo archeologico e collazione dei risultati vecchi e nuovi,<br />

mi sono limitata a riassumere e sottolineare soltanto i dati più rilevanti che hanno<br />

apportato nuova luce su molti fronti, dalla strategia insediativa alla domesticazione del


Recensioni 519<br />

paesaggio, dalle manifatture agli scambi, dall’esame dei rapporti tra indigeni e Greci agli<br />

aspetti dei culti, dalle varie forme di religiosità ai rituali.<br />

In conclusione J. de La Genière e G. Greco avevano di fronte un compito arduo dovendosi<br />

confrontare con un complesso di elementi e di interpretazioni accreditati nella<br />

più importante e selettiva letteratura archeologica che lasciava peraltro molte incertezze<br />

e varie lacune. Hanno dato quindi seguito alle precedenti esplorazioni con nuovi interventi<br />

sul campo ponendosi l’obiettivo di chiarire casi e situazioni controversi. Con maestria<br />

e dottrina hanno consegnato alla nostra conoscenza un nuovo panorama sociale e<br />

religioso, storico-politico, del mitico santuario alla foce del Sele. Una edizione di tutto<br />

rispetto e di grande interesse per i molteplici campi della scienza.<br />

Ma r i a Bo n g h i Jo v i n o

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