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PUNTO DI FUGA • COLLANA DELLA FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETÀ <<br />

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LO SVILUPPO<br />

HA UN VOLTO<br />

Riflessioni su un’esperienza<br />

a cura di<br />

Roberto Fontolan<br />

introduzione di<br />

Alberto Piatti<br />

e<br />

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e


Punto di fuga verso una cultura e una società per l’uomo, basata sul progresso e sulla carità.<br />

Punto di fuga di un uomo che sa di non salvarsi da solo, che sbaglia,<br />

ma continua a credere e a sperare.<br />

Progresso e carità perché ogni uomo è unico e irripetibile e ha diritto a una vita dignitosa.<br />

È la tradizione cattolica che ha condizionato positivamente un socialismo<br />

amante dell’uomo e un liberalismo amante del bene comune.<br />

La collana della Fondazione per la Sussidiarietà intende affrontare in questa ottica<br />

temi cruciali per la vita culturale, sociale, economica e politica, non solo italiana.<br />

Da un lato, analizzando le prospettive che si aprono con la valorizzazione della centralità<br />

e della creatività della persona e con l’applicazione del principio di sussidiarietà;<br />

dall’altro, raccontando esperienze concrete che offrono ulteriori spunti di approfondimento.<br />

1. Giorgio Vittadini (a cura di ), Capitale Umano. La ricchezza dell’Europa<br />

2. Graziano Tarantini, Banche e finanza. La transizione incompiuta<br />

3. Paola Olivelli, Mario Mezzanzanica, A qualunque costo Lavoro e pensioni:<br />

tra incertezza e sicurezza<br />

4. Luca Antonini, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia<br />

5. Raffaello Vignali, Eppur si muove. Innovazione e piccola impresa<br />

6. Giorgio Vittadini (a cura di), Che cosa è la sussidiarietà. Un altro nome della libertà<br />

7. Antonio Intiglietta (a cura di ), Nelle mani dell’artigiano. Una realtà si racconta<br />

8. Javier Prades (a cura di), All’origine della diversità. Le sfide del multiculturalismo<br />

9. Roberto Fontolan (a cura di), Lo sviluppo ha un volto. Riflessioni su un’esperienza


punto<br />

9di fuga


2008 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA<br />

viale Filippetti 28, 20122 Milano<br />

http://www.guerini.it<br />

e-mail: info@guerini.it<br />

Prima edizione: novembre 2008<br />

Copertina e progetto grafico di: Giovanna Gammarota<br />

In copertina: photo courtesy by Fabio Cuttica per AVSI-Brasile, Salvador de Bahia, Algados<br />

Photo courtesy by: Fabrizio Arigossi, Fabio Cuttica, Renzo Faleschini,<br />

Silvia Morara, Brett Morton, Paolo Pellegrin, AVSI World Staff<br />

Segreteria di redazione: Dario Chiesa, Carlo Melato, Michele Pirotta<br />

Ristampa: V IV III II I 2008 2009 2010 2011 2012<br />

Printed in Italy<br />

ISBN 978-88-6250-088-3<br />

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo<br />

di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e<br />

5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale,<br />

economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate<br />

a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano,<br />

e-mail: segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org.<br />

Questa pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di un progetto di Educazione allo<br />

sviluppo di AVSI con il contributo della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo<br />

del Ministero degli Affari Esteri italiano.


LO SVILUPPO<br />

HA UN VOLTO<br />

Riflessioni su un’esperienza<br />

a cura di<br />

Roberto Fontolan<br />

introduzione di<br />

Alberto Piatti<br />

GUERINI<br />

E ASSOCIATI


INDICE<br />

11<br />

13<br />

21<br />

23<br />

23<br />

23<br />

25<br />

26<br />

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32<br />

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34<br />

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37<br />

37<br />

40<br />

42<br />

43<br />

45<br />

47<br />

48<br />

PRESENTAZIONE<br />

di Roberto Fontolan<br />

IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

di Alberto Piatti<br />

RIFLESSIONI SU UN’ESPERIENZA<br />

CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA.<br />

TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

di Piergiorgio Lovaglio<br />

Introduzione<br />

Definizioni<br />

I riferimenti teorici<br />

Politiche diffuse di scolarizzazione e loro effetti<br />

I risultati: efficacia sulla riduzione della povertà<br />

Le ragioni<br />

Capitale umano e sviluppo<br />

Una definizione allargata di capitale umano<br />

Il capitale umano intangibile: il desiderio<br />

Bibliografia<br />

L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

di Giuseppe Folloni e Gabriella Berloffa<br />

Diverse traiettorie<br />

Finanziare l’investimento in capitale fisico<br />

Investire in capitale umano. Cosa significa<br />

Complessità e specificità<br />

Le determinanti fondamentali della crescita: ma senza finire nel determinismo<br />

I grandi piani e il loro attore: lo Stato<br />

Educazione dell’Io, fattore dello sviluppo<br />

Bibliografia<br />

7


51<br />

51<br />

51<br />

52<br />

53<br />

53<br />

54<br />

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97<br />

101<br />

107<br />

111<br />

119<br />

POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

di Emilio Colombo<br />

Chi sono i poveri<br />

Come misuriamo la povertà<br />

Il fallimento della misura<br />

Povertà, sviluppo e desideri<br />

Lo sviluppo riguarda anche noi<br />

Le politiche dello sviluppo<br />

La sussidiarietà e la solidarietà nello sviluppo<br />

Il caso dell’aiuto allo sviluppo<br />

L’ideologia delle politiche allo sviluppo<br />

Il ruolo dello Stato<br />

L’idea della trappola della povertà<br />

Un primo cambiamento dall’aid all’aid for trade<br />

LO SVILUPPO HA UN VOLTO<br />

PRIMA LE DONNE E I BAMBINI<br />

Una casa nella steppa<br />

Quell’invito andato a vuoto<br />

Gli ospedali dell’orrore<br />

Nella terra delle emergenze<br />

PERSONE E COMUNITÀ<br />

Il Quarto Mondo dei CaraibI<br />

La cittadella dell’amore<br />

Il segreto per costruire sull’acqua<br />

LAVORARE SALVA<br />

8


123<br />

131<br />

137<br />

143<br />

149<br />

153<br />

157<br />

161<br />

165<br />

167<br />

Un fiume per ricominciare<br />

Duemila giovani in mezzo all’Asia<br />

Il cuore pulsante di una baraccopolI<br />

L’industria, la favela e un nuovo albero<br />

SOSTEGNO A DISTANZA<br />

Una scuola tira l’altra<br />

Crescita a tre dimensioni<br />

Denutrizione nel mirino<br />

GLI AUTORI<br />

FONDAZIONE AVSI<br />

9


PRESENTAZIONE<br />

di Roberto Fontolan<br />

I numeri si sa sono molto spesso contrastanti. Prendiamo la povertà estrema nel Terzo<br />

e Quarto mondo, quella del «reddito» da un dollaro al giorno. Un paio d’anni fa era<br />

stato calcolato che nonostante i massicci trasferimenti di aiuti da parte dei Paesi ricchi,<br />

in dieci anni il numero di quei poveri non era diminuito in cifre assolute, anzi, veniva<br />

stimato un aumento di oltre cento milioni di persone, mentre le percentuali restavano<br />

mutate di poco a causa dell’incremento demografico. Recentemente uno studio del<br />

Fondo Monetario ha rilevato come nell’intera Africa sub-sahariana la povertà stia lentamente<br />

calando, anche in percentuale: oltre il 47% della popolazione era registrata come<br />

povera nel 1990, nel 2001 era diventata il 41% e, calcolando i vari trend, si abbasserà<br />

al 37 % nel 2015. Numeri veri, certo, segnalano evoluzioni diverse, addirittura contrastanti.<br />

Certe faccende, come il cammino dalla miseria al progresso, restano per molto<br />

tempo indecifrabili.<br />

In questo volume raccontiamo una storia di sviluppo che non è fatta di numeri. Ci<br />

sono anche quelli, dai bambini aiutati dal Sostegno a distanza alle mamme in difficoltà<br />

accolte nella casa di Novosibirsk; come ci sono i riferimenti al quadro di dichiarazioni<br />

e regolamenti definito dalle istituzioni mondiali e nel quale si riconoscono coloro che<br />

operano nella cooperazione internazionale. Ma abbiamo provato a rendere lo sviluppo<br />

decifrabile secondo un altro codice.<br />

In questo volume troverete innanzitutto fatti. Fatti che racchiudono persone – le<br />

singole vicende di singoli nomi che vivono in luoghi geografici precisi; e che tracciano<br />

una storia d’insieme – come un percorso unico capace di avvicinare le distanze dei continenti<br />

e dei decenni. Impossibile dare senso all’idea di «capitale umano» se dentro di<br />

essa non si scorgono i volti della malata ugandese e dello scolaro paraguayano. Ugualmente,<br />

parlare di sviluppo resta inesorabilmente astratto se non si compie una visita ai<br />

Novos Alagados o alle cooperative agricole libanesi. E perciò le due parti del volume<br />

non vivono l’una senza l’altra, anzi si possono realmente comprendere soltanto come<br />

11


PRESENTAZIONE<br />

approfondimento e svolgimento l’una dell’altra. Leggendole, potrete visitare i luoghi,<br />

incontrare i protagonisti e camminare in loro compagnia, ascoltare la riflessione dello<br />

studioso, condividere il giudizio sui temi più decisivi per il bene comune del mondo che<br />

abitiamo tutti insieme.<br />

L’intero racconto contiene, nel suo sottofondo, un itinerario che può essere espresso<br />

così: persona, educazione, sviluppo; come il tempo nelle partiture musicali, queste<br />

tre «battute» ne costituiscono l’architettura nascosta. Tutto il lavoro descritto in queste<br />

pagine, che sia progetto sul campo o elaborazione intellettuale, non starebbe in piedi<br />

se non si appoggiasse al loro ritmo.<br />

Perché l’AVSI 1 l’abbia adottato nella sua azione in tutto il mondo è appunto quel che<br />

si scoprirà pagina dopo pagina.<br />

1<br />

La Fondazione AVSI è una organizzazione non governativa, Onlus, nata nel 1972 e impegnata con<br />

oltre cento progetti di cooperazione allo sviluppo in 39 Paesi del mondo. Oggi AVSI è presente in<br />

Africa, America Latina, Est Europa, Medio Oriente, Asia e opera nei settori della sanità, igiene, cura<br />

dell'infanzia in condizioni di disagio, educazione, formazione professionale, recupero delle aree<br />

marginali urbane, agricoltura, ambiente, microimprenditorialità, sicurezza alimentare, ICT ed emergenza<br />

umanitaria.<br />

12


IL VOLTO DELLO SVILUPPO.<br />

PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

di Alberto Piatti<br />

Negli ultimi anni, lo sviluppo è entrato nel dibattito quotidiano: la globalizzazione, le<br />

migrazioni, il terrorismo internazionale hanno forzato nella comoda vita di noi occidentali<br />

le questioni dei Paesi in via di sviluppo.<br />

Così l’agenda internazionale ha acquisito gli obiettivi del millennio, per cui il 2015 è<br />

un traguardo che sempre più persone e istituzioni conoscono come traguardo dello sviluppo,<br />

il G8, più o meno allargato, pone tra i suoi temi principali lo sviluppo dell’Africa,<br />

e migliaia di iniziative si organizzano in tutto il globo per far fronte alle emergenze<br />

dei più poveri, dai global fund ai live aid. Tra entità degli aiuti e sviluppo, l’immaginario<br />

collettivo ha costruito un rapporto di proporzione diretta.<br />

In questo turbinio, molte energie sono spese per organizzare adeguatamente la macchina<br />

degli aiuti. In particolare dal 2005, dalla conferenza di Parigi, il dibattito sullo sviluppo<br />

nei paesi più poveri si è molto concentrato sull’efficienza, efficacia, trasparenza,<br />

ownership, misurabilità e prevedibilità degli aiuti.<br />

Fin qui il tema visto «dall’alto».<br />

Tuttavia, leggendo la vitalità che ribolle tra le righe delle esperienze progettuali raccolte<br />

da Roberto Fontolan, pare emergere qualche fattore che non si riesce a incasellare<br />

nelle tradizionali misurazioni.<br />

C’è l’avventura umana della condivisione e del desiderio, della libertà e dell’intelligenza<br />

creativa, dell’amore per l’altro e della riscoperta della dignità.<br />

Sarebbe però troppo riduttivo insinuare una contrapposizione tra «due culture»,<br />

tra un nuovo umanesimo e sapere economico. O rassegnarsi al fatto che un conto è<br />

l’esperienza delle iniziative di sviluppo, un conto è la teoria dello sviluppo, che in fondo<br />

la prima appartiene a una sfera umana, di esperienze buone, ma poco incidenti<br />

nella dinamica storica dei popoli, la seconda alla dura realtà. Ovvero ridurre le situazioni<br />

di difficoltà a palestre per allenare o svagare spiriti, dove va bene un po’ tutto,<br />

13


IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

si sperimenta, si gioisce, si fanno belle cose, spiriti che poi invece saliranno sul palco,<br />

quello vero, dove le regole sono diverse e soprattutto quelle vere.<br />

In questo senso è particolarmente interessante la lettura di Folloni e Colombo delle<br />

esperienze e delle teorie dello sviluppo, da economisti che lasciano penetrare nella<br />

teoria economica anche i fattori di un agire che ha molte dimensioni dell’umano. Perché<br />

un errore imperdonabile sarebbe sottrarre le questioni del progresso umano alla<br />

lettura scientifica, interpretandola ipocritamente come insufficiente.<br />

Forse in realtà questa è la sfida oggi più interessante per chi si occupa di ricerca sui<br />

problemi dello sviluppo: adeguare la teoria all’esperienza anche in questo ambito, come<br />

in ogni ambito del sapere, superando luoghi comuni, mode, ideologie e pregiudizi,<br />

per capire i fattori determinanti dello sviluppo.<br />

Esprimendo in termini non tradizionalmente economici cos’è lo sviluppo nell’esperienza<br />

di un’organizzazione non governativa che opera negli angoli sperduti del pianeta<br />

con persone in carne ed ossa, si può definire la mossa di una persona che dopo aver<br />

lavorato con te, vissuto con te, affrontato con te questioni talvolta di vita o di morte,<br />

riconosce in se stessa e nella vita un valore e una dignità inestimabili. Valore e dignità<br />

che non sono in alcun modo dipendenti dalla situazione di maggior o minore difficoltà,<br />

maggiore o minore benessere. Percependo il valore di se stessa come indipendente<br />

dalla situazione storico-sociale in cui si trova, la persona diventa libera, e normalmente<br />

si muove prendendo iniziativa per migliorare la situazione stessa.<br />

In una parola, diventa «protagonista».<br />

L’educazione cristiana che ha dato origine alle esperienze raccontate in questo libro<br />

è basata sulla coscienza, che l’esperienza dell’incontro con Cristo rende evidente,<br />

che le necessità dell’uomo, così come il suo desiderio, sono sempre infiniti, e che,<br />

quindi, anche le risposte materiali che i progetti possono offrire, sono limitate.<br />

Quando però le azioni, le strutture, i progetti nascono da un «io» cosciente ed educato<br />

a riconoscere in ogni realtà umana, anche nella più degradata, un nesso con l’infinito,<br />

allora queste azioni o progetti diventano «opere», diventano gesti, diventano<br />

occasioni di incontro con persone con le quali si inizia un cammino comune di con-<br />

14


IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

divisione, non solo di problemi o di difficoltà, ma anche del senso ultimo della vita.<br />

È interessante come si svolge la dinamica di questa scoperta radicale nei progetti di<br />

cooperazione. Il primo passo è un incontro tra due persone, di cui, secondo lo schema<br />

della relazione di aiuto, una ha il ruolo del «dare», l’altra del «ricevere».<br />

Questo rapporto ha in sé il rischio di una ambiguità, vera nel «micro» degli interventi<br />

di cooperazione allo sviluppo, ma tranquillamente trasponibile a livello di rapporti<br />

istituzionali internazionali e nazionali.<br />

La persona «che riceve» si aspetta tutto dal suo interlocutore, secondo l’immagine<br />

che ha del proprio bisogno, mentre quella che «dà» percepisce se stessa come mandata<br />

a portare il bene per l’altro, secondo l’immagine che ha del bisogno dell’altro.<br />

Questo gioco delle parti dominato dal ricatto del bisogno può permanere fino alla<br />

fine del progetto, progetto che può anche essere di successo, raggiungere tutti gli obiettivi<br />

e risultati.<br />

Ma lo sviluppo è qualcosa in più, non solo tecnicalità.<br />

C’è qualcosa che accade quando una persona aiuta l’altra prima di tutto a capire che<br />

non coincide con il suo stato di necessità da un lato né con l’aiuto che porta dall’altro.<br />

Il bisogno, la malattia, la povertà possono tenerti in scacco se non li percepisci come<br />

una contingenza che non può scalfire la sostanza della tua persona. E, d’altra parte, l’illusione<br />

di poter rendere felici gli altri ti chiude in una arida altalena tra delirio di onnipotenza<br />

e delusione.<br />

Accade che il bisogno smette di essere l’essenza del rapporto. La persona gradualmente<br />

percepisce il proprio valore, la propria consistenza al di là della circostanza,<br />

per cui inizia a fidarsi dell’altro, ad amare l’altro, nel senso di condividere l’avventura<br />

della vita.<br />

Ma cosa rompe questo circolo vizioso che ingabbia la persona in uno schema di ruoli,<br />

l’uno del dare e l’altro del ricevere<br />

Un gesto di solidarietà che abbraccia la realtà integrale delle persone verso cui si va.<br />

E proprio questa esperienza insegna a chi svolge il ruolo di «aiutare» che se è vero che<br />

il bisogno è enorme, è ancora più vero che nessuna soluzione, nessun aiuto, case nuo-<br />

15


IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

ve, lavoro, o servizi, lo possono soddisfare compiutamente, perché il vero bisogno di<br />

quelle persone è il bisogno di un significato. «È la scoperta del fatto che proprio perchè<br />

li amiamo, non siamo noi a farli contenti; e che neppure la più perfetta società, l’organismo<br />

legalmente più saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro,<br />

la bellezza più pura, la civiltà più educata li potrà mai fare contenti. È un Altro che<br />

li può fare contenti.» 1<br />

Quindi il metodo più realistico della cooperazione tra popoli sembra essere quello<br />

della «condivisione», che permette un processo molto simile a quello che Edith Stein<br />

chiama empatia, un comprendere, «un afferrare, ossia un intendere del valore della<br />

persona.»<br />

La vicinanza affettiva permette di leggere il bisogno parziale espresso dalle persone<br />

in funzione della totalità dell’essere umano. Ogni necessità, quand’anche essa fosse solo<br />

materiale o limitata, rimanda sempre ad un desiderio che la supera e che, con la condivisione,<br />

può essere ascoltato e dilatato in altre direzioni per una sua utilizzazione più<br />

edificante sul piano della crescita individuale e sociale. Una presenza esterna, amicale e<br />

autorevole, quindi educativa, ha una funzione essenziale 2 , determinante perché l’altro<br />

diventi soggetto protagonista.<br />

Allora fondamentale per l’aiuto allo sviluppo è un rapporto umano basato sulla coscienza<br />

che tutte le persone hanno qualcosa in comune: lo stesso cuore 3 e lo stesso desiderio<br />

di felicità.<br />

Incontrare l’altro con questo sguardo vuol dire essere presenti come soggetti attivi,<br />

con una umanità totale, fatta di cuore, di ragione. Questa vera e propria esperienza di<br />

«allargamento della ragione» permette poi di trovare i mezzi operativi e progettuali adeguati<br />

per rispondere alle necessità che via via si manifestano. Nelle storie raccontate si<br />

va dagli asili famigliari alle scuole professionali, da centri per l’inserimento lavorativo<br />

di persone altrimenti emarginate alla creazione di luoghi aggregativi per donne malate<br />

di AIDS.<br />

In questo senso, è impressionante la capacità operativa e creativa che si legge tra le<br />

righe delle esperienze raccontate, l’intelligenza di trovare soluzioni alle problematiche<br />

16


IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

più complesse, spesso mettendo mano in quello zainetto di patrimonio di saperi che<br />

ciascuna persona ha ricevuto da chi l’ha educata. Nel rapporto con l’altro, si dischiude<br />

un «positivo», un patrimonio di cui ciascuno è portatore, che attraverso una reciproca<br />

responsabilità si sviluppa in modo sorprendente.<br />

Le energie che alimentano lo sviluppo sono insite nel portato della persona e della<br />

comunità e il processo educativo che si instaura in una «sana» relazione di aiuto permette<br />

di «attivare» questo patrimonio, valorizzando la tradizione cui la persona e la comunità<br />

appartengono. L’intervento esterno può aggiungere tecnicalità, strumenti,<br />

competenze. Questo è un altro fattore fondamentale dell’aiuto allo sviluppo: l’investimento<br />

sul capitale umano, centrato da Lovaglio come elemento essenziale per dotare<br />

la persona, consapevole e cosciente del proprio valore, di strumenti e conoscenze utili<br />

a interagire efficacemente con la realtà. Questa è quella che comunemente si chiama<br />

capacity building degli attori locali: incontro tra persone e contaminazione tra tradizioni<br />

e accrescimento dei saperi.<br />

Ciò che accende la miccia di questo «carburante» è la libertà del soggetto, la persona,<br />

che cerca e usa delle risorse per far fronte a un bisogno che non è più una condanna,<br />

ma una situazione che può essere superata. Cioè il perno dello sviluppo non è l’attore<br />

esterno, non sono le risorse, non sono le regole. È la consapevolezza di un soggetto<br />

che, proprio per amore di sé e della vita, cerca e costruisce.<br />

Nell’asilo di Novos Alagados a Salvador Bahia dedicato al papa Giovanni Paolo II,<br />

costruito nel 1993, primo atto di una presenza in quest’area che ha generato oggi opere,<br />

progetti e programmi di sviluppo, è riportata a grandi lettere una frase di Luigi Giussani<br />

che ne ricorda l’origine:<br />

Il cuore dell’uomo è sete d’infinito. Per questo educhiamo, lavoriamo, costruiamo.<br />

L’empowerment più efficace, per usare un linguaggio da addetti ai lavori, parte dal riconoscimento<br />

di sé come creatura unica e irripetibile.<br />

Dalla lettura che i ricercatori svolgono nella prima parte del libro sulle esperienze<br />

descritte da Fontolan, quattro fattori emergono dunque come essenziali nell’aiuto allo<br />

sviluppo: la dignità della persona, l’educazione come processo che la rende protagoni-<br />

17


IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

sta, il desiderio come tensione alla realizzazione di sé, il capitale umano come bagaglio<br />

di attrezzi e saperi per concretizzare un cammino di sviluppo.<br />

A questo punto sorgono le domande tipiche degli operatori del settore. Ma si può<br />

davvero dire che questi fattori generano processi di sviluppo, o sono condizioni specifiche<br />

non replicabili Cosa suggeriscono all’efficacia, efficienza, trasparenza, misurabilità<br />

tanto fondamentali in tutti i documenti sull’aiuto allo sviluppo Le politiche di aiuto<br />

allo sviluppo possono trovare in questi elementi indicazioni chiare<br />

Vediamo nuove sfide apparire all’orizzonte, per affrontare le quali non possiamo più<br />

solo «marciare sul posto» come «europei impagliati 4 ». Abbiamo anzitutto la necessità<br />

di investire su una nuova generazione di persone che raccolga la sfida di questi fattori<br />

come qualcosa di reale. Ciò significa investire su una generazione di giovani sia dei cosiddetti<br />

Paesi in Via di Sviluppo, sia dei cosiddetti Paesi evoluti, per cui è necessario<br />

pensare a strumenti legislativi, relazionali, progettuali flessibili, di lungo termine, calati<br />

nel reale.<br />

Può sembrare una banalità, ma la portata culturale di questa svolta è decisiva e radicale.<br />

Significa superare il nichilismo che serpeggia e prende la fisionomia della religione<br />

umanitaria, delle regole, del denaro come elemento risolutorio dei problemi<br />

dell’umanità.<br />

Occorre una generazione di persone che rispolveri lo sviluppo come progresso (parola<br />

che oggi ha smarrito la sua origine, progredior, corro in avanti), ovvero come tensione<br />

in avanti, verso una meta, verso cui c’è la strada ma a cui mai si arriva definitivamente,<br />

come dice San Bernardo: «La nostra perfezione consiste nel non illuderci mai di essere<br />

arrivati, ma nel protenderci sempre in avanti».<br />

Occorre una generazione di persone educate a riconoscere nell’essere umano un valore<br />

e dal potenziale infinito, in quanto creature a immagine e somiglianza di Dio.<br />

18


IL VOLTO DELLO SVILUPPO. PERSONA, EDUCAZIONE E DESIDERIO<br />

NOTE<br />

1<br />

Luigi Giussani, Il senso della caritativa, in «Tracce», ristampa del 2006 del documento del 1961, p. 10.<br />

2<br />

«La prima condizione della comprensione – osserva Hans Urs von Balthasar – è l’accettazione<br />

del dato così come ci si dà. La prima cosa di cui abbiamo bisogno per vedere obiettivamente è lasciare<br />

essere quello che si mostra. La prima cosa non è impadronirsi, attraverso le categorie del soggetto,<br />

del materiale pronto per la percezione, ma mettersi al servizio dell’oggetto, adorare… L’imponenza<br />

della realtà non lascia indifferente la ragione… la realtà agisce sulla ragione come un invito inaggirabile<br />

a scoprire il significato», cit. in Julián Carrón, L’urgenza della ragione, in «Allargare la Ragione», V&P,<br />

2006, p. 33.<br />

3<br />

«L’esigenza della verità, dell’amore, della giustizia, della felicità: queste domande costituiscono il<br />

cuore dell’uomo, costituiscono l’essenza della ragione, cioè della coscienza che l’uomo ha della realtà<br />

secondo la totalità dei suoi fattori», Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000, p. 36.<br />

4<br />

Cfr. T.S. Eliot, Gli uomini vuoti, in ID., «Poesie», Oscar Mondadori, Milano 1971, p. 249.<br />

19


RIFLESSIONI<br />

SU UN’ESPERIENZA


INTRODUZIONE<br />

CAPITALE UMANO<br />

E CRESCITA ECONOMICA.<br />

TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

di Piergiorgio Lovaglio<br />

Secondo una consolidata tradizione di pensiero, una delle cause fondamentali del mancato sviluppo<br />

di un paese risiede nell’insufficiente dotazione di capitale fisico (accumulazione di impianti,<br />

macchinari, materie prime ecc.), dovuta all’incapacità a risparmiare a causa del basso livello dei<br />

redditi pro-capite. L’investimento in infrastrutture e in impianti è infatti considerata la base della crescita<br />

(qui la parola sviluppo è considerata sinonimo di crescita).<br />

Questo approccio al problema non ha riscontrato evidenze empiriche soddisfacenti ed è stato oggetto<br />

di crescenti critiche negli anni Settanta e Ottanta. Tale (almeno parziale) fallimento è servito a evidenziare<br />

l’importanza del fattore umano per mettere a frutto le potenzialità economiche delle risorse<br />

disponibili e della dotazione in fattori produttivi. In effetti, il capitale fisico è formato da beni che sono<br />

a loro volta il frutto del lavoro umano e della sua produttività. Quest’ultima è legata al livello del capitale<br />

umano.<br />

DEFINIZIONI<br />

Già dalla metà degli anni Cinquanta, il concetto di capitale umano è stato variamente definito e analizzato.<br />

Non si è tuttavia giunti a una teoria completamente condivisa.<br />

Molteplici sono le definizioni adottate di capitale umano. Una definizione implica una possibilità di misurare;<br />

perciò spesso le definizioni di capitale umano sono legate ai problemi di misurazione dello stesso,<br />

che non sono di facile soluzione, in relazione sia alla natura multidimensionale dello stesso, sia al livello<br />

di analisi (micro o macro) nel quale ci si pone.<br />

Nella letteratura due grandi approcci hanno inteso misurare il capitale umano: il primo stima il valore<br />

dello stock di capitale umano ai costi di mantenimento, di istruzione e di formazione degli individui<br />

dalla nascita fino all’ingresso nel mondo del lavoro (metodo retrospettivo); l’altro fa coincidere tale stima<br />

con la quantità di reddito da lavoro percepita da un individuo di una determinata età fino alla morte<br />

o all’età pensionabile (metodo prospettivo).<br />

Si noti che tali metodologie sono state criticate perché più che una definizione di capitale umano, esse propongono<br />

metodi per una sua misura o contabilizzazione, attraverso i costi di mantenimento e di istruzione<br />

di un individuo (a patto che i costi coincidano con gli investimenti) o i redditi da lavoro nel ciclo vitale.<br />

Infatti, l’ammontare di capitale umano non coincide necessariamente con i costi sostenuti in capitale<br />

23


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

umano (approccio retrospettivo), né con i suoi benefici monetari per i lavoratori (approccio prospettivo).<br />

A fronte della crescente attenzione al capitale umano come fattore che sostiene la crescita economica,<br />

verso la metà degli anni Cinquanta il Department of Economic Affairs delle Nazioni Unite definì investment<br />

in human capital l’investimento compiuto per accrescere la produttività della forza lavoro e dunque da<br />

una parte gli investimenti in educazione e formazione professionale, dall’altra le politiche di immigrazione,<br />

di acquisizione di conoscenza, di miglioramento della salute dei lavoratori, infine azioni connesse<br />

ad altri fattori intangibili (miglioramento degli standard sociali e familiari), fenomeni tutti collegati<br />

alla produttività del lavoro.<br />

Sulla scia di tale approccio, negli anni Sessanta un gruppo di studiosi della Scuola di Chicago cercò di chiarire<br />

teoricamente il concetto di capitale umano dal punto di vista dell’analisi economica: esso veniva definito<br />

come lo stock di conoscenze e competenze, riassunto nel patrimonio di istruzione (anni di scolarità),<br />

di formazione ricevuta direttamente sul lavoro (anni di esperienza professionale e/o durata dei periodi di<br />

training) e di attività tese al miglioramento delle condizioni psicofisiche, aventi un effetto diretto sulla capacità<br />

di produrre reddito da parte dei lavoratori nel corso della vita lavorativa (Mincer 1958, Becker 1962).<br />

In seguito, la letteratura economica ha allargato il concetto di capitale umano evidenziandone il ruolo<br />

anche nella produzione di capitale sociale (Coleman, 1988). Si sostiene infatti che l’investimento in capitale<br />

umano può avere un forte impatto sociale oltre a quello misurato in termini economici sulla produttività<br />

dei lavoratori, avendo riflessi positivi sulla salute pubblica, sul livello di criminalità e sulla coesione<br />

sociale di una comunità. In particolare il capitale umano diventa un fattore fondamentale del sistema<br />

delle relazioni interpersonali che generano il capitale sociale di una comunità o di un paese, definibile<br />

come l’insieme delle relazioni interpersonali formali e informali essenziali anche per il funzionamento<br />

di società complesse e altamente organizzate.<br />

Al lettore attento non sarà sfuggito che le varie definizioni fin qui presentate non forniscono necessariamente<br />

un’accezione univoca e concorde del concetto di capitale umano.<br />

Per questo motivo, ancor oggi gli organismi internazionali (in particolare Nazioni Unite, OECD, Eurostat)<br />

evitano di scegliere univocamente una delle definizioni e preferiscono invece pubblicare un’ampia<br />

informazione riferibile ai più importanti indicatori di capitale umano (es. percentuale di giovani diplomati,<br />

tassi di laurea in discipline scientifico-tecnologiche, quota di lavoratori adulti che fruiscono di<br />

formazione continua ecc.). Molti di tali indicatori sono inseriti tra gli indicatori strutturali, decisi sulla<br />

base degli obiettivi di Lisbona 1 , su cui l’Europa ha scelto di misurare la propria evoluzione economico-sociale.<br />

Tra le varie definizioni di capitale umano presenti nei documenti delle istituzioni internazionali, ci sembra<br />

interessante citare quella generale riportata in un Rapporto dell’OECD (OECD, 1998) che tratta della<br />

relazione tra capitale umano, capitale sociale e benessere delle nazioni. Il capitale umano è definito<br />

come «l’insieme di conoscenze, capacità e competenze e di attributi individuali che facilitano il benessere<br />

personale, sociale e economico.»<br />

24


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

Già in tale definizione, che fa riferimento alle molteplici caratteristiche del capitale umano 2 e ai fattori<br />

che ne influenzano il livello e l’evoluzione, si riflette la complessità di tale concetto, che non può coincidere<br />

con nessuno di tali aspetti presi singolarmente.<br />

Questo allargamento del modo di concepire il valore del capitale umano, non più solo sulla produttività<br />

del lavoratore, ma anche come fattore di miglioramento sociale, ha fatto breccia anche nella riflessione<br />

delle istituzioni internazionali.<br />

Oggi le istituzioni internazionali affermano che il capitale umano è la principale risorsa di cui dispone<br />

un sistema paese per il proprio sviluppo sociale ed economico ed è indubbio che la valorizzazione del<br />

capitale umano, inteso non solo come bagaglio di scolarità acquisita, ma soprattutto come l’insieme di<br />

conoscenze, capacità, motivazioni dei singoli individui, possa determinare benefici sotto il profilo della<br />

qualità della vita, dell’occupazione e della coesione sociale. Il capitale umano viene considerato una<br />

delle espressioni fondamentali della cittadinanza europea, poiché concorre alla coesione sociale, alla<br />

tolleranza e trova riscontro normativo in molti atti politici dell’Unione Europea (OECD, 1998), dal Trattato<br />

di Amsterdam (1997) ai documenti della Strategia di Lisbona (e successivi approfondimenti), sulle<br />

nuove prospettive di rilancio dell’idea di Europa, traducendosi nell’obiettivo di arrivare a un tasso<br />

globale di occupazione pari al 70% e a un tasso di occupazione femminile pari al 60% nei paesi dell’Unione,<br />

di migliorare le attività di ricerca, la spesa per le quali dovrebbe raggiungere l’obiettivo del 3%<br />

del PIL; si tratta di obiettivi già raggiunti, ad esempio negli USA, in Giappone, Inghilterra, Olanda e nei<br />

paesi scandinavi.<br />

I RIFERIMENTI TEORICI<br />

Il modello teorico di riferimento per la spiegazione di come si accumula il capitale umano, in una definizione<br />

abbastanza ristretta che lo lega alla decisione di proseguire gli studi, è proprio di Gary Becker<br />

(1962), uno degli esponenti, insieme a Schultz, del filone di studi in materia all’interno della Scuola di<br />

Chicago. Il modello di Becker ipotizza che gli agenti economici decidono di investire una quota della<br />

propria vita in istruzione, formazione professionale e altre forme di acquisizione della conoscenza sulla<br />

base di un bilancio fra benefici e costi. I primi includono gli incrementi nelle retribuzioni legate a un<br />

maggior livello di istruzione, i secondi includono sia i costi legati alla scolarità, sia i costi da mancato guadagno<br />

durante gli anni spesi in istruzione e formazione.<br />

Jacob Mincer, della Columbia University, tradusse operativamente il modello teorico di Becker ipotizzando<br />

una forte relazione tra redditi individuali e abilità (Mincer 1958, 1974). Egli introdusse il concetto<br />

di capitale umano (misurato dagli anni di scolarità e dal livello di esperienza professionale) come fonte<br />

di produttività sul lavoro. In termini semplici, egli assume che i redditi da lavoro di un individuo siano<br />

legati positivamente al suo livello di scolarità (a livello micro) e quindi, a livello macro, abbiano ricadute<br />

positive sul prodotto nazionale e la sua crescita.<br />

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CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

Sulla base di tali argomentazioni, da circa un trentennio, studi empirici hanno valutato le relazioni esistenti<br />

tra capitale umano personale e retribuzioni da lavoro, a livello micro e tra livelli pro-capite di capitale<br />

umano e redditi nazionali a livello macro.<br />

L’applicazione del modello minceriano su dati individuali (approccio micro) ha dato risultati convergenti<br />

in pressoché tutti i paesi (per una rassegna si veda Psacharopoulos, 1985), confermando che la<br />

relazione tra scolarità e redditi da lavoro è significativa ed elevata.<br />

A livello macro gli studi empirici hanno mostrato che differenze nell’accumulazione di capitale umano<br />

(misurato generalmente a livello di paese con il tasso di scolarizzazione della scuola secondaria)<br />

riuscivano a spiegare una quota abbastanza ampia (circa 2/3) della variabilità dei livelli nel prodotto<br />

nazionale pro-capite fra le diverse economie. Tale decisivo ruolo del capitale umano è spiegato anche<br />

dal fatto che mentre il capitale fisico può trascinare la crescita solo fino a un certo punto (rendimenti<br />

decrescenti), il capitale umano è un motore inesauribile di aumento della produttività 3 .<br />

Recentemente Camilo Dagum, uno dei pionieri degli studi sul capitale umano e autore di rilevanti contributi<br />

sulla relazione fra disuguaglianza economica e differenze nella dotazione di capitale umano a livello<br />

individuale, è giunto a risultati analoghi. A differenza di molti altri autori, che fanno coincidere il<br />

capitale umano con gli anni di scolarità attraverso metodologie raffinate, Dagum fu il precursore di una<br />

stima quantitativa dello stesso a livello micro, di lavoratori e famiglie. Le considerazioni dello studioso<br />

argentino confermano che le differenze di redditi tra lavoratori sono determinate largamente dai differenziali<br />

di capitale umano previsti per svolgere tali occupazioni e che una parte elevata della disuguaglianza<br />

dei redditi si deve alla disuguaglianza esistente nei livelli di istruzione dei lavoratori. Questo si<br />

traduce, a livello macro, nel fatto che la disuguaglianza tra paesi in termini di reddito pro-capite dipende<br />

largamente dalla diseguale dotazione di capitale umano.<br />

POLITICHE DIFFUSE DI SCOLARIZZAZIONE E LORO EFFETTI<br />

Vi sono molti studi che hanno cercato di mettere in evidenza come la disponibilità di una forza lavoro<br />

adeguatamente istruita sia una condizione cruciale del miracolo economico di alcuni paesi (Lucas,<br />

1992). Di conseguenza, sul piano delle politiche per lo sviluppo, sono stati fatti notevoli sforzi da parte<br />

dei governi nazionali, fin dagli anni Sessanta, per favorire la scolarità, allo scopo sia di eliminare l’analfabetismo<br />

sia di aumentare la partecipazione ai cicli più elevati di istruzione da parte dei giovani. Tali<br />

politiche di scolarizzazione avevano indirettamente come obiettivo la riduzione della povertà e la crescita<br />

economica.<br />

Ma le evidenze empiriche confermano le aspettative in termini di crescita di produttività e di riduzione<br />

della povertà suscitate da tali politiche<br />

Indubbiamente, paesi più ricchi hanno una dotazione di forza lavoro più istruita rispetto a paesi più<br />

poveri, tuttavia molti economisti dubitano se l’istruzione sia una chiave della strategia di sviluppo di al-<br />

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CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

cuni paesi oppure se essa stessa sia solo una delle conseguenze di tale strategia. Vari autori (Pritchett,<br />

1995) hanno mostrato che la crescita dell’istruzione in alcuni casi non è correlata con la crescita del<br />

prodotto nazionale e, in alcuni casi, quando un effetto significativo è presente, è negativo; ovvero i paesi<br />

in cui la scolarità media è cresciuta di più negli ultimi venti o trenta anni sono anche quelli in cui il<br />

reddito è cresciuto meno. Pritchett illustra la relazione tra tassi di crescita annua dell’istruzione e della<br />

produttività tra il 1960 e il 1985 per diverse aree geografiche, sintetizzata in tabella 1.<br />

TABELLA 1 – Tassi di crescita medio-annua dell’istruzione e del PIL nel mondo<br />

(periodo 1960/1985).<br />

REGIONE<br />

CRESCITA %<br />

(ANNI ISTRUZIONE)<br />

CRESCITA ASSOLUTA<br />

(ANNI ISTRUZIONE)<br />

CRESCITA % PIL<br />

(PRO-LAVORATORE)<br />

Africa<br />

sub-sahariana<br />

4,56 1,97 0,75<br />

Nord Africa 4,74 3,19 3,99<br />

Asia<br />

meridionale<br />

America<br />

Latina<br />

Asia<br />

orientale<br />

2,54 1,66 1,05<br />

2,74 2,44 1,58<br />

4,00 2,83 3,66<br />

OECD 0,60 0,97 2,45<br />

Essa mostra che la crescita relativa dei livelli di istruzione della forza lavoro nei paesi africani è stata più<br />

elevata di qualunque altra regione del mondo (derivante dal fatto che essi partivano da condizioni più<br />

svantaggiate). Ciononostante, il tasso di crescita della produttività del lavoro (PIL per lavoratore) in tali<br />

paesi (0,75% annuo) è stato fra il 1960 e il 1985 pari alla metà di quello dei paesi dell’America Latina<br />

(1,58%), e circa un quinto di quello dei paesi del Sud-Est asiatico (3,66%). Inoltre nei paesi OECD il tasso<br />

di crescita della scolarità è stato inferiore a un quarto rispetto a quello del Sud dell’Asia, ma la dinamica<br />

del PIL per lavoratore è stata pari a due volte e mezzo (2,45 contro 1,05). Vi sono dunque traiettorie<br />

diverse: l’efficacia della scolarizzazione sembra dipendere fortemente da altri fattori 4 .<br />

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CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

I RISULTATI: EFFICACIA SULLA RIDUZIONE DELLA POVERTÀ<br />

In sintesi, rispetto alla questione se il divario tra paesi industrializzati e in via di sviluppo sia aumentato<br />

o diminuito a seguito del processo di massiccio investimento in istruzione negli ultimi 50 anni, i dati<br />

non sono confortanti. Secondo un recente studio della Banca Mondiale (Chen e Ravallion, 2004),<br />

sebbene nel periodo 1981-2001 la quota di individui che viveva con meno di un dollaro al giorno (estremamente<br />

poveri) si sia quasi dimezzata passando dal 40,3% al 21,3% della popolazione mondiale, i dati<br />

aggregati celano importanti differenze sull’andamento del numero dei poveri nelle varie parti del pianeta.<br />

Se si esclude la performance della Cina (nell’Asia orientale gli estremamente poveri al 2001 erano<br />

il 15% della popolazione, contro il 60% del 1980, mentre nell’Asia meridionale tale quota è scesa al<br />

30% della popolazione, contro il 50% del 1980), il numero dei poveri estremi è addirittura aumentato,<br />

specialmente nell’Africa sub-sahariana, in America Latina e addirittura in Europa orientale. Inoltre, al<br />

2001 più della metà della popolazione dei paesi in via di sviluppo viveva con meno di due dollari al giorno<br />

e nel ventennio considerato il numero assoluto di persone con meno di due dollari al giorno è aumentato<br />

di circa 300 milioni, mostrando che il tenore di vita di coloro che si trovavano in prossimità<br />

della soglia dei due dollari non è cambiato in modo significativo.<br />

Gli investimenti in capitale umano, misurati dall’ammontare di risorse che le nazioni destinano (in termini<br />

di sanità pubblica, risorse in istruzione ecc.) come quota del prodotto nazionale, non hanno mostrato<br />

un significativo impatto sulla riduzione della povertà e dell’indigenza: in particolare la spesa pubblica<br />

per la sanità non ha effetti significativi sugli indicatori di salute nei paesi in via di sviluppo, mentre<br />

in altri contesti si è osservata una debole relazione tra spesa pubblica destinata all’istruzione e indicatori<br />

di privazione relativi ad alcuni beni primari.<br />

LE RAGIONI<br />

Cerchiamo di capire perché, come già osservato, i risultati empirici forniscono indicazioni contrastanti<br />

circa il ruolo della scolarizzazione nella riduzione della povertà e nella crescita di un paese.<br />

L’aumento della scolarità e il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione hanno benefici<br />

economici per il lavoratore, come visto, ma possono avere anche ricadute positive sul resto della<br />

società attraverso quelle che gli economisti chiamano «esternalità». Da un lato, la scelta degli individui<br />

di aumentare il proprio livello di istruzione (e di salute) ha ricadute positive sulla vita civile, sulla coesione<br />

sociale, sulla fiducia e capacità di dialogo, con effetti che vanno ben oltre il mondo del lavoro e<br />

della produzione. In sostanza, il capitale umano produce effetti sia a livello personale sia per gli altri.<br />

Dall’altro, il rendimento individuale – anche in termini economici – dipende dalle scelte fatte dagli altri.<br />

Se gli altri non hanno investito in capitale umano, il mio stesso investimento può subire effetti negativi:<br />

sono come un «pesce fuor d’acqua» in un contesto che non valorizza il capitale umano. In luo-<br />

28


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

go di simili esternalità, può essere che il rendimento dell’investimento in capitale umano sia legato a investimenti<br />

complementari. In un’economica ferma e chiusa studiare non paga, la scelta di investire in<br />

capitale umano si rivela poco efficace dal punto di vista economico per chi ha investito. Inoltre si ingenera<br />

sfiducia verso tali forme di investimento, con pesanti ricadute sul benessere sociale delle generazioni<br />

esistenti e future.<br />

Insomma è verosimile che una relazione «positiva» fra capitale umano e sviluppo esista, ma la sua forza<br />

dipende da una serie di fattori non secondari. Occorre valutare in maniera più approfondita quali<br />

condizioni rendono il capitale umano (in particolare la scolarizzazione) un fattore di crescita. Nei seguenti<br />

paragrafi verranno esplorati tre fattori che ben mettono in luce sotto quali condizioni l’investimento<br />

in capitale umano produce effetti sulla crescita: il contesto tecnologico, la qualità della scolarizzazione<br />

e l’apertura commerciale di una economia.<br />

Il contesto tecnologico<br />

Indubbiamente, in un’era di economia globalizzata come l’attuale, l’economia di un paese in via di sviluppo<br />

potrebbe avere dei vantaggi nella produzione di merci «mature»; tuttavia se si trascura la formazione<br />

del capitale umano necessario a gestire il progresso tecnologico si corrono nel lungo periodo forti<br />

rischi di declino. Vi sono evidenze che il processo di crescita, e più in generale di sviluppo, è tanto<br />

più forte quanto più elevata è la capacità del lavoro di creare tecnologia e di utilizzarla in modo appropriato.<br />

In particolare l’investimento in capitale umano dovrebbe coincidere con l’investimento in formazione<br />

tecnica, professionale e scientifica in quei settori ad alto valore aggiunto che di per sé costituiscono<br />

stock di capitale umano di alta qualità (es. Ricerca e Sviluppo). Gli autori di tale scuola di pensiero<br />

sostengono che la vera potenzialità economica dei PVS sta nella conoscenza e nel capitale umano<br />

applicato alla produzione, ovvero nella tecnologia e nella capacità di utilizzarla. Per molti paesi, soprattutto<br />

i più poveri e meno dotati sul piano tecnologico, è cruciale la capacità di imitare tecnologie sviluppate<br />

altrove e di adattarle alle proprie specifiche esigenze.<br />

La diffusione di tecnologie importate richiede in primo luogo competenze tecnologiche autoctone,<br />

perché le tecnologie non sono pronte all’uso in qualunque momento e in qualunque luogo. Hanno bisogno<br />

al contrario di essere adattate alle caratteristiche locali del paese importatore. Ma, anche a prescindere<br />

da questo aspetto, l’uso quotidiano di nuove tecnologie richiede competenze tecniche superiori<br />

a quelle generalmente esistenti in un’economia arretrata. Di qui l’importanza di disporre di una<br />

forza lavoro adeguatamente istruita, ma inserita in contesti produttivi e settori fortemente dinamici. Il<br />

Giappone storicamente ha rappresentato l’esempio più significativo di crescita attraverso l’imitazione,<br />

ma un ampio gruppo di paesi in via di sviluppo, localizzati soprattutto in Asia, è entrato in questi ultimi<br />

anni nei mercati globali riuscendo a trasformare l’abbondanza di lavoro – qualificato – in un fattore<br />

competitivo nelle produzioni industriali; l’ulteriore investimento in capitale umano, aumentando la<br />

produttività, ha generato circoli virtuosi e veri e propri miracoli economici, come è accaduto in Corea,<br />

29


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

Taiwan e altri paesi. È un esempio di complementarietà: occorre dinamismo nel sistema per valorizzare<br />

il capitale umano; se questo paga, l’ulteriore investimento in capitale umano favorirà ulteriore crescita.<br />

Se invece non esiste questa virtuosa relazione tra investimento in capitale umano, dinamismo dei settori<br />

ad alto valore aggiunto e creazione di infrastrutture adatte (poli scientifici, distretti dell’informazione<br />

ecc.), anche l’offerta di capitale umano altamente specializzato, specie in ambito scientifico, potrebbe<br />

essere scoraggiata ed emigrare in altri paesi, come già successe a diversi paesi europei prima e a<br />

molti PVS ancor oggi.<br />

In senso opposto, il caso Egitto rappresenta un’anomalia eclatante, ma offre anche utilissime indicazioni<br />

per spiegare perché, in alcuni casi, promuovere l’istruzione tout court da sola può non essere<br />

un valido contributo allo sviluppo economico. Negli anni Settanta e Ottanta, il governo egiziano<br />

prestò particolare attenzione alle politiche dell’istruzione promuovendo la scolarizzazione di<br />

massa e garantendo un posto di lavoro nel settore pubblico a tutti coloro che avessero ottenuto un<br />

titolo di studio da una delle scuole statali. Il risultato fu un’esplosione dell’occupazione nel settore<br />

pubblico, che si tramutò in un forte deficit della spesa governativa a fronte di impatti inesistenti o,<br />

addirittura, negativi sulla produttività della pubblica amministrazione.<br />

In sostanza, pur essendo la forza lavoro egiziana fra le più istruite nell’ambito dei paesi in via di sviluppo,<br />

il tasso di crescita dell’economia egiziana negli anni Ottanta è stato fra i più bassi in assoluto a causa<br />

di una politica che, di fatto, ha trasferito le tasse dei cittadini verso il finanziamento dell’istruzione<br />

di coloro che – poi – sarebbero diventati remunerati dipendenti in settori a dinamica nulla in termini<br />

di produttività.<br />

La qualità del capitale umano e le sue determinanti<br />

Come abbiamo visto, politiche che mirino genericamente all’accrescimento dei livelli d’istruzione e di<br />

formazione non sono sufficienti se avvengono in contesti e in strutture istituzionali/economiche che<br />

non consentono di sfruttare il potenziale produttivo del capitale umano.<br />

Vi è tuttavia un secondo elemento, non meno importante, quello della «qualità» del capitale umano<br />

(misurata in termini di apprendimenti e abilità). Un anno di scolarità infatti può avere un valore enormemente<br />

differente in termini di apprendimento a seconda di fattori quali l’istituzione erogante e il<br />

contesto sociale in cui è inserita, i servizi forniti, i docenti, il clima stesso che si respira all’interno<br />

delle classi.<br />

Seguendo tali considerazioni, uno dei filoni di studio relativamente nuovi del capitale umano, l’Accountability<br />

Theory, mira a valutare quali condizioni (fattori istituzionali, politici, sociali) sono associate a<br />

un’elevata «qualità di capitale umano» di una nazione, spostando l’attenzione non sulla quantità di capitale<br />

umano ma sulla sua effettiva qualità, misurata dagli apprendimenti degli studenti delle scuole superiori<br />

nelle discipline fondamentali, matematica, lingua e scienze (in indagini campionarie – PISA,<br />

30


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

TIMSS – standardizzate tra i vari paesi), ritenute un buon paradigma dell’apprendimento in generale.<br />

Il principale risultato che emerge è che i tassi di sviluppo economico dei diversi paesi sono fortemente<br />

correlati con la qualità del capitale umano (Hanushek, 2001), giustificando dunque l’ipotersi che misurare<br />

la qualità del capitale umano prodotto in un paese è cosa differente dalla pura contabilizzazione<br />

della quantità di istruzione.<br />

Tra le variabili che significativamente influenzano la qualità del capitale umano prodotto (via processi<br />

di scolarizzazione) in una nazione spicca quella relativo alla qualità, alla capacità e alla motivazione degli<br />

insegnanti. Le politiche pensate per la crescita di capitale umano dovrebbero andare, innanzitutto,<br />

nella direzione di «educare» e preparare il corpo docente.<br />

L’importanza dell’apertura commerciale<br />

Un terzo fattore che incide fortemente sul valore del capitale umano è il grado di apertura dell’economia<br />

al commercio internazionale.<br />

L’apertura al commercio internazionale ha come esito quello di rendere più produttiva la forza lavoro<br />

istruita, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, in primo luogo perché la produzione per mercati internazionali<br />

coincide con l’utilizzo di tecnologie più avanzate che richiedono abilità lavorative che implicano<br />

una più elevata istruzione. Inoltre, mercati più ampi consentono di remunerare meglio il capitale<br />

umano, creando così incentivi all’investimento in tale direzione. L’apertura agli scambi internazionali<br />

da parte dei paesi in via di sviluppo facilita il trasferimento di tecnologie, l’aumento della produttività<br />

dei fattori per effetto delle economie di scala derivanti dall’allargamento dei mercati, il miglioramento<br />

dell’efficienza dell’organizzazione economica.<br />

Vi sono critici della globalizzazione (intesa qui come sinonimo di apertura commerciale) che, anche<br />

con ragioni, affermano che l’accettazione indiscriminata della pura apertura commerciale da parte di<br />

paesi con strutture fragili (tecnologie, tasso d’accumulazione, produttività del lavoro non appropriati)<br />

non è favorevole all’aumento del benessere e delle condizioni di vita. Come è noto, in tutti i processi<br />

di cambiamento – e l’apertura al commercio internazionale è un tale caso –, c’è chi immediatamente<br />

guadagna e chi perde. Recenti rapporti della Banca Mondiale mostrano che il processo di integrazione<br />

internazionale negli ultimi anni si è associato a un aumento dell’ineguaglianza interna in taluni paesi in<br />

via di sviluppo (la Cina è il caso più evidente). Tuttavia, molte analisi affermano che a questo tipo di<br />

costi si contrappongono benefici di maggiore crescita per i paesi che sono capaci di accettare la sfida<br />

dell’apertura commerciale. Le considerazioni avanzate fanno emergere una visione complessa del ruolo<br />

della globalizzazione come processo che, se da un lato può favorire il trasferimento di tecnologie<br />

dalle economie ricche a quelle arretrate, dall’altro può causare anche flussi di forza lavoro qualificata<br />

in direzione contraria. Il dibattito è aperto. Certamente, dal punto di vista che qui ci interessa una posizione<br />

chiusa e la mancanza di capacità di dialogo e competizione sui mercati internazionali hanno effetti<br />

deleteri sulle scelte individuali e sociali quanto alla crescita del capitale umano.<br />

31


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

CAPITALE UMANO E SVILUPPO<br />

Le considerazioni addotte evidenziano che, specialmente nelle economie arretrate, la disponibilità di<br />

una massa critica di forza lavoro istruita è solo una pre-condizione perché il processo virtuoso che lega<br />

capitale umano a crescita e riduzione della povertà possa verificarsi.<br />

Per fare in modo che la formazione e l’accumulazione del capitale umano contribuiscano all’aumento<br />

della produttività del lavoratore e alla riduzione della disuguaglianza dei redditi, favorendo infine un clima<br />

di pace sociale, occorre un investimento in capitale umano non genericamente inteso, ma qualificato,<br />

contestualizzato in settori ad alto valore aggiunto e affiancato al potenziamento di infrastrutture<br />

adatte a recepirlo. In secondo luogo, non va sottovalutata l’importanza del contesto socio-politico entro<br />

cui tale processo di investimento si attua. È auspicabile un contesto che possa valorizzare il capitale<br />

umano e favorire attività di ricerca e sviluppo rendendole più appetibili per i giovani talenti, prevedendo<br />

una struttura di incentivi in grado di orientare gli investimenti in capitale umano verso attività imprenditoriali<br />

innovative e verso quei settori dove il contributo alla crescita è maggiore. Infine occorre<br />

scoraggiare nello stesso tempo le attività che tendono al conseguimento di rendite e al mantenimento<br />

di privilegi.<br />

Questo rinnovato clima sociale aperto allo sviluppo non deve essere limitato esclusivamente alle attività<br />

imprenditoriali, al mondo produttivo o della ricerca, ma dovrebbe essere esteso anche a contesti<br />

come la qualità della pubblica amministrazione e la scuola, attraverso politiche e atteggiamenti che diano<br />

maggiore riconoscimento «sociale» (ed economico) a chi (scuole, insegnanti, dirigenti) si fa carico<br />

di progetti che vadano nella direzione della creazione di capitale umano di qualità.<br />

UNA DEFINIZIONE ALLARGATA DI CAPITALE UMANO<br />

L’idea di capitale umano più diffusa e condivisa nei rapporti della Commissione Europea si riferisce al<br />

potenziale di produttività di un individuo, al suo stato di salute e di benessere come elementi che contribuiscono<br />

alla produttività della forza lavoro. Tuttavia, anche in seno agli organismi internazionali si<br />

sta affermando un concetto di capitale umano più ampio, meno legato al binomio scolarità-crescita<br />

economica.<br />

Alla fine degli anni Novanta, il presidente della Commissione Europea Jacques Delors, che aveva chiuso<br />

la sua presidenza nel 1994 con il Libro Bianco sull’occupazione, argomentava che l’educazione formale<br />

sembrava aver perso legittimità nel mondo occidentale non solo in relazione all’esistenza di un<br />

sapere diffuso, disponibile attraverso i media e i computer, ma anche in relazione a una situazione nella<br />

quale l’istruzione non produceva necessariamente occupazione. Lo stesso Delors, presidente della<br />

Commissione incaricata della stesura del rapporto UNESCO ultimato nel 1996 e avente l’obiettivo di<br />

identificare quale progetto educativo potesse rispondere al modello di sviluppo che si andava affer-<br />

32


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

mando a livello planetario, indicava che, ai consueti due pilastri dell’educazione (imparare a conoscere,<br />

imparare a fare) se ne dovessero considerare altri due, di cui uno poteva essere riassunto nella formula<br />

«educare ad essere» (il quarto pilastro riguardava «educare a vivere insieme»), elevando così il concetto<br />

di capitale umano a un’accezione più ampia, legata alla crescita della personalità nel suo complesso.<br />

In tal senso il capitale umano perde la sua connotazione strumentale-tecnica, che identifica la persona<br />

come risorsa produttiva funzionale alla produzione, e diviene esso stesso lo scopo di ogni processo<br />

umano: ha un valore oggettivo che svela la scoperta del valore di ciascuna persona 5 .<br />

IL CAPITALE UMANO INTANGIBILE: IL DESIDERIO<br />

L’enfasi posta sui concetti di «educare ad essere» e di «collocare le persone al centro dello sviluppo»<br />

sottende indirettamente un aspetto immateriale, non misurabile, ma non per questo meno reale, del capitale<br />

umano.<br />

Questo capitale umano immateriale è il desiderio che l’uomo ha di verità, di giustizia e di bellezza e ha<br />

riflessi non solo sulla vita personale, ma anche sulla vita sociale. Molti economisti, tra cui anche il premio<br />

Nobel Arrow, sostengono che il raggiungimento di un «massimo sociale» non può che essere basato<br />

su valori condivisi che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri<br />

socializzanti che sono nel cuore di ciascuno. Questo desiderio per sé e per la società permette alle<br />

persone di essere coscienti di una scoperta di sé che le rende protagoniste nella società.<br />

Questo desiderio spalancato al reale, questa gratuità volta al bene comune, sono il dinamismo costitutivo<br />

e ispiratore di tutte le forze umane e costituiscono il nous profondo e nascosto del capitale umano.<br />

Il desiderio, definito da Luigi Giussani «la scintilla con cui si accende il motore», è frutto di un processo<br />

di educazione del cuore dell’uomo da cui è stata generata in tantissimi, nella storia dei nostri paesi –<br />

in Italia, in Europa – una capacità di rischio, un senso di solidarietà, entusiasmo e intelligenza di creatività<br />

sociale che sono sotto gli occhi di tutti.<br />

Ne sono esempio moltissime realtà educative, associative, caritative, tra le quali possiamo citare associazioni<br />

non-profit impegnate nell’ambito dei progetti di aiuto ai paesi poveri, che continuano una tradizione<br />

di carità che ha avuto già nei passati millenni tantissime espressioni e incarnano quotidianamente<br />

quella che, secondo una felice espressione, Giovanni Paolo II definiva «una nuova fantasia della<br />

carità, […] cioè forme nuove di solidarietà, a livello bilaterale e multilaterale che si dispieghino non<br />

tanto e non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre,<br />

così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione»<br />

(Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, 2001).<br />

33


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

Becker G. (1962), «Investment in Human Capital: a Theoretical Analysis», The Journal of Political Economy,<br />

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York.<br />

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The Journal of Human Resources, Vol. 20, N. 4, Autumn, pp. 583-604.<br />

Unione Europea (2004), DG Regio, Third Report on Economic and Social Cohesion, Office for Official Publications<br />

of the European Communities, Luxembourg.<br />

NOTE<br />

1<br />

La Strategia di Lisbona, sviluppata nel corso di diversi consigli europei successivi a quello di Lisbona,<br />

si fonda su tre pilastri. In particolare il pilastro economico si riferisce alla transizione verso un’economia<br />

competitiva, dinamica e fondata sulla conoscenza. L’accento è posto sulla necessità di adattarsi<br />

continuamente alle evoluzioni della società dell’informazione e sulle iniziative da incoraggiare in<br />

materia di ricerca e di sviluppo.<br />

2<br />

In questo ambito si noti che una delle dimensioni di maggiore incertezza circa la misurazione del<br />

capitale umano consiste nella possibilità, da un lato, di misurare lo stock di capitale umano in un deter-<br />

34


CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA. TEORIE, EVIDENZE E CONDIZIONI<br />

minato istante temporale e dall’altro di valutare l’incremento relativo tra due istanti consecutivi (riferiti<br />

a due differenti coorti di popolazioni).<br />

3<br />

Sebbene la relazione fra il livello di capitale umano e livello del PIL pro-capite sia sempre positiva<br />

e statisticamente significativa, meno chiare appaiono le evidenze empiriche sulla relazione fra accumulazione<br />

di capitale umano e tassi di crescita dei prodotti nazionali lordi o pro-capite. La differenza fra<br />

le due relazioni ha portato a domandarsi quale sia la relazione di causalità: è il capitale umano accumulato<br />

che favorisce la crescita o è la crescita che favorisce l’accumulazione di capitale umano<br />

4<br />

Un altro esempio (stavolta riferito allo stock di scolarità e non alla crescita relativa nel periodo considerato)<br />

è quello dei paesi dell’Est europeo che, a fronte di livelli d’istruzione molto più alti di quelli<br />

delle regioni del Sud Europa negli anni Ottanta, hanno evidenziato una crescita del prodotto nazionale<br />

pro-lavoratore inferiore della metà.<br />

5<br />

Anche nel dibattito sulla formulazione di politiche volte a favorire lo sviluppo dei paesi poveri negli<br />

organismi istituzionali di cooperazione internazionale è recentemente emerso che troppo spesso è<br />

stata posta eccessiva enfasi sul concetto di crescita economica, identificandola come sviluppo, trascurando<br />

invece aspetti e conseguenze sociali dello sviluppo. Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni<br />

Unite (UNDP) si propone di seguire un approccio che «colloca le persone al centro dello sviluppo»,<br />

intendendo che il vero obiettivo dello sviluppo dovrebbe essere quello di creare un ambiente in grado<br />

di consentire una vita più lunga, sana e creativa.<br />

35


L’EDUCAZIONE<br />

È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

di Giuseppe Folloni e Gabriella Beroffa<br />

DIVERSE TRAIETTORIE<br />

Alla fine del ventesimo secolo 34 paesi (Europa occidentale, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti,<br />

Canada e Giappone), comprendenti il 14% della popolazione mondiale, producevano più<br />

della metà del PIL mondiale (53%) 1 .<br />

Un secondo gruppo di paesi, che alcuni chiamano «Asia in rinascita» (Cina, Hong Kong, Malaysia, Singapore,<br />

Corea del Sud, Taiwan, Thailandia, India, in particolare), ha conosciuto negli ultimi decenni<br />

una forte crescita, anche se molti dei paesi che lo compongono sono ancora ad un livello basso di PIL<br />

pro-capite (fra questi le due nazioni più grandi, Cina e India). Essi rappresentano oltre la metà della popolazione<br />

mondiale (51%) e producono circa un quarto del prodotto complessivo mondiale.<br />

Per quanto riguarda le altre regioni del mondo, si evidenziano traiettorie diverse, ma nessun gruppo di<br />

paesi ha mostrato una crescita robusta.<br />

Nell’ultimo trentennio la crescita è stata molto bassa per i paesi dell’America Latina (meno dell’1% annuo)<br />

e gli altri paesi asiatici (0,5% annuo); è stata negativa per le economie in transizione (che non hanno<br />

ancora recuperato la forte diminuzione del prodotto nazionale legata ai cambiamenti politico-istituzionali<br />

degli anni Novanta); infine la variazione del PIL pro-capite è sostanzialmente nulla per i paesi<br />

dell’Africa sub-sahariana (0,01% annuo).<br />

Queste differenti traiettorie di sviluppo fra paesi hanno fatto sì che l’ineguaglianza fra le diverse società<br />

sia aumentata. Nel 1820 la grande parte dell’ineguaglianza a livello mondiale era spiegata da differenze<br />

(fra ricchi e poveri) «interne» ai singoli paesi; attualmente gran parte dall’ineguaglianza è spiegata<br />

da differenze «fra i paesi» e solo una quota minore da differenze interne agli stessi 2 .<br />

L’esistenza di diversi sentieri di crescita nelle differenti regioni ha acceso un forte dibattito sulle determinanti<br />

della crescita. Ha anche posto dei dubbi sull’efficacia degli aiuti internazionali concessi ai paesi<br />

meno sviluppati. Vi sono paesi che hanno ricevuto aiuti internazionali pari a diversi punti percentuali<br />

del PIL ogni anno e che non hanno conosciuto alcuna dinamica di crescita. Perché<br />

È interessante ripercorrere, anche se sommariamente, tale dibattito, le conclusioni a cui esso è giunto<br />

e le domande che ancora restano aperte e senza convincente risposta.<br />

FINANZIARE L’INVESTIMENTO IN CAPITALE FISICO<br />

Le due grandi idee che hanno dominato per decenni il dibattito sull’uso delle risorse internazionali per<br />

l’aiuto allo sviluppo si possono sintetizzare nel modo seguente:<br />

37


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

1. Lo sviluppo presuppone la crescita economica. Aiutando un paese a svilupparsi economicamente, se ne aiuta<br />

lo sviluppo. Che cosa debba intendersi per sviluppo è ancora da chiarire; tuttavia, qualunque cosa<br />

si voglia indicare con questa parola (prospettive di salute e condizioni di vita migliori per tutti, un sistema<br />

politico più libero e democratico, istituzioni capaci di coinvolgere attivamente gran parte della<br />

popolazione in processi di cambiamento ecc. – si veda su questo l’intervento di Colombo in questo<br />

stesso volume), l’idea forte era che la crescita economica avrebbe «trascinato» con sé lo sviluppo.<br />

2. La crescita economica è guidata dall’investimento in capitale fisico e umano. L’investimento, poi, dipende<br />

dalla capacità di risparmio di un paese. Se questa capacità manca, l’aiuto internazionale può supplire<br />

ad essa fino a quando, avviata la crescita, anche la capacità di risparmio aumenterà e ogni paese<br />

sarà capace di camminare sulle proprie gambe. L’idea di una forte relazione fra risparmio (o il suo<br />

sostituto, l’aiuto), l’investimento e la crescita si appoggia su modelli teorici largamente condivisi.<br />

Di fatto, se si cerca di verificare empiricamente la relazione fra le dimensioni indicate (aiuto, investimento<br />

e crescita), si trovano risultati ambigui e non concludenti: le analisi non permettono di confermare<br />

quanto suggerito dalla teoria. Molto spesso la relazione fra aiuti e crescita è nulla (o persino negativa).<br />

Perché Le ragioni sono diverse. Spesso gli aiuti spiazzano il risparmio (i governi e le amministrazioni,<br />

ad esempio, sapendo che riceveranno aiuti, aumentano le spese correnti e con ciò diminuisce la quota<br />

risparmiata del PIL al netto degli aiuti) per cui non è detto che a maggiori aiuti corrispondano maggiori<br />

investimenti. In altri termini, gli aiuti possono suggerire (ai diversi attori, gli stati e le amministrazioni<br />

in primis) comportamenti sbagliati, che annullano l’effetto delle risorse aggiuntive. A volte tali comportamenti<br />

possono anche essere giustificati: di fronte a catastrofi naturali viene spontaneo «spostare»<br />

risorse per rispondere alle urgenze che si generano. Tuttavia, simili «spostamenti di risorse» (che la letteratura<br />

chiama fungibilità degli aiuti) avvengono molto spesso anche senza ragioni evidenti come<br />

quella citata. Inoltre, dal punto di vista che qui interessa, l’effetto di simili comportamenti è quello di<br />

annullare l’efficacia diretta degli aiuti sulla crescita.<br />

Anche la presenza di forme di corruzione, una burocrazia inefficiente, un sistema istituzionale non<br />

adeguato sono fattori che contribuiscono ad abbattere l’efficacia degli aiuti per la crescita. Proprio perché<br />

i comportamenti delle amministrazioni pubbliche sono decisivi nel definire l’efficacia degli aiuti<br />

ufficiali, che passano in gran parte dalle loro mani, negli ultimi decenni si è insistito continuamente sulla<br />

necessità di orientare il comportamento degli stati, favorire forme di buon governo e l’eliminazione<br />

della corruzione e di comportamenti basati su bad policies. Le politiche di aiuto condizionale attuate dalle<br />

istituzioni internazionali negli anni Ottanta e Novanta sono nate dall’idea di «controllare» il comportamento<br />

dei governi.<br />

Ma le cause della mancata efficacia possono addebitarsi anche ad altri attori, ad esempio i gruppi sociali<br />

o le etnie.<br />

38


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

Forme di polarizzazione sociale o di frazionamento etnico generano comportamenti redistributivi: le<br />

priorità di un paese non vengono definite sulla base di un principio di bene comune, ma si attuano pressioni<br />

affinché le risorse vengano distribuite fra i diversi gruppi sociali per mantenere il bilancio delle<br />

forze fra le diverse componenti. È evidente che spesso chi è al potere ha interesse a cedere a simili pressioni<br />

per garantire stabilità al sistema (e quindi al proprio potere). Oppure, viceversa, il ceto al potere<br />

distribuisce in maniera ineguale le risorse e in tal modo accentua la polarizzazione sociale e le potenziali<br />

forme di conflitto.<br />

L’effetto negativo di simili comportamenti non si ferma alle conseguenze dirette prima accennate, perché<br />

induce comportamenti non favorevoli alla crescita anche in altri attori. Se un ceto burocratico è<br />

corrotto e ha un comportamento orientato alla ricerca di rendite di posizione, gli altri attori saranno<br />

indotti a fare scelte inefficienti pur di sottrarsi alla «spoliazione» da parte della burocrazia. Se, ad esempio,<br />

la decisione di passare a coltivazioni orientate al mercato (in sé più redditizie e con un maggiore<br />

potenziale di crescita nel tempo) abbandonando forme di agricoltura di sussistenza mette i contadini<br />

nelle mani di burocrati che chiedono il «pizzo» e rendono difficile la vita, i contadini sceglieranno di<br />

continuare un’agricoltura di sussistenza non interessante per chi cerca rendite e quindi non sottoposta<br />

a controllo, inchiodando però le aree rurali di molti paesi a condizioni di marginalità e povertà. È un<br />

esempio di trappola della povertà generata dalle caratteristiche del contesto istituzionale: tutto il sistema<br />

viene «bloccato» in un equilibrio di basso livello, di mancato sviluppo 3 .<br />

Simili trappole di povertà sono molto diffuse e possono annullare l’efficacia di determinati progetti o,<br />

a livello aggregato, di intere politiche. Il caso precedente relativo alle scelte dei prodotti da coltivare è<br />

un esempio di comportamento che può portare al fallimento di politiche di crescita in ambiente rurale.<br />

A livello di progetto è noto, a chi opera nell’ambito della cooperazione internazionale, che possono<br />

accadere fenomeni non cooperativi che conducono a situazioni non efficienti: una volta assicurate le<br />

risorse per il progetto, gli attori tendono a minimizzare gli sforzi o le possibilità di essere sanzionati.<br />

Per quanto riguarda il comportamento delle ONG, ad esempio, si risponde agli obiettivi «formali» del<br />

progetto, perché questo è ciò che importa per avere un buon rapporto con i finanziatori, ma non si fa<br />

lo sforzo ulteriore di incontrare veramente la gente e concordare con essa il cammino comune del progetto.<br />

La gente si mette in moto per la speranza suscitata da un incontro: se questo incontro non c’è,<br />

se non si genera un soggetto «diverso», l’efficacia del progetto è molto bassa: si costruiscono muri o<br />

strade, ma non cambia la posizione della gente. Senza un incontro, inoltre, gli stessi beneficiari facilmente<br />

rimangono in una posizione rivendicativa: chiedono (e la lista di bisogni è potenzialmente infinita)<br />

e pretendono, ma non si mettono in moto veramente.<br />

39


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

INVESTIRE IN CAPITALE UMANO. COSA SIGNIFICA<br />

L’altra grande politica legata agli aiuti, accanto all’investimento in capitale fisico, è coincisa con l’nvestimento<br />

in capitale umano, attraverso massicce forme di scolarizzazione. Il «capitale umano» di per sé<br />

non coincide con la semplice scolarizzazione: ha diverse altre dimensioni (sulle definizioni di capitale<br />

umano si veda l’intervento di Piergiorgio Lovaglio in questo stesso volume). Le abilità cognitive hanno<br />

genesi diverse, non derivano solo dall’istruzione formale, ma anche da percorsi di esperienza non<br />

scolastici: la famiglia e il tipo di educazione in essa, il contesto sociale in cui si cresce, l’esperienza lavorativa<br />

contribuiscono a definire il rapporto con la realtà sociale anche nei suoi aspetti economicamente<br />

rilevanti (la concezione del lavoro, ad esempio). Le differenze nelle abilità possono essere innate, tuttavia<br />

gli aspetti sociali, familiari e di qualità del sistema scolastico sono spesso decisivi nel definire in<br />

media le abilità individuali e, sinteticamente, il tipo di comportamento e di assetto nei confronti dei dati<br />

di realtà (lavoro, legami sociali ecc.); ne segue che una corretta misura del capitale umano dovrebbe<br />

opportunamente misurare tali dimensioni.<br />

Tuttavia, in letteratura, spesso si identifica il capitale umano con il livello di studi raggiunto (in quantità)<br />

e con la qualità di esso. Nel presente paragrafo commenteremo la relazione fra capitale umano e<br />

crescita secondo questa ridotta definizione di capitale umano.<br />

Ci sono almeno tre meccanismi attraverso cui l’istruzione (considerata come dimensione rilevante del<br />

capitale umano) incide sulla crescita.<br />

Innanzitutto l’istruzione, aumentando le abilità individuali, permette un aumento di produttività del<br />

lavoro e questo si riflette sulla crescita del paese.<br />

Inoltre, elevati e diffusi livelli di istruzione favoriscono la capacità innovativa di un’economia nel suo<br />

complesso (e quindi dinamiche di crescita migliori).<br />

Infine, l’istruzione facilita la diffusione di conoscenze necessarie a comprendere i nuovi processi e le<br />

nuove tecnologie e – anche per tale via – favorisce la crescita.<br />

L’istruzione è certamente un fattore importante per la crescita: non esiste paese sviluppato senza un<br />

elevato livello medio di istruzione. Esistono tuttavia paesi che hanno investito pesantemente nella scolarizzazione<br />

senza ottenere risultati. Gli investimenti in scolarizzazione di molti paesi poveri, spesso<br />

sulla base di aiuti internazionali, hanno dato risultati controversi e non sembrano aver inciso sulle dinamiche<br />

di crescita. L’Africa, uno dei continenti in cui lo sforzo di scolarizzazione negli ultimi trenta<br />

anni è stato fra i maggiori, ha avuto tassi di crescita nulli.<br />

I risultati delle ricerche empiriche confermano solo in maniera parziale e debole le ipotesi avanzate sulla<br />

relazione fra livello di istruzione e crescita.<br />

Qui occorre distinguere fra effetti a livello individuale ed effetti aggregati, a livello dell’intera società e<br />

delle sue dinamiche di crescita.<br />

A livello individuale, i risultati delle indagini mettono in evidenza un impatto sostanzialmente positivo<br />

40


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

del livello di istruzione sulla retribuzione dei lavoratori, sia pure con forte variabilità dei rendimenti fra<br />

le diverse situazioni. La retribuzione del lavoro è una proxy della sua produttività e quindi è collegata<br />

positivamente con le dinamiche di crescita. Dunque, dal punto di vista delle scelte individuali, andare<br />

a scuola paga.<br />

Tuttavia, se si analizza la relazione macroeconomica fra livello medio di istruzione della forza lavoro e<br />

dinamiche di crescita del paese, l’attesa relazione positiva non emerge in modo chiaro. Le cause sono<br />

diverse 4 : la qualità del sistema scolastico, le caratteristiche del mercato del lavoro, la qualità delle istituzioni<br />

presenti nella società.<br />

Per quanto riguarda il sistema scolastico, è sotto accusa la qualità dell’istruzione, che può essere così<br />

bassa da non incrementare veramente le abilità e la produttività dell’individuo. Andare a scuola allora<br />

è un segnale di appartenenza a un determinato ceto sociale, o di un temperamento individuale più deciso<br />

e determinato (è più facile che siano gli individui con determinate capacità a investire maggiormente<br />

in istruzione), ma non ha effetti di per sé sulle abilità della gente.<br />

Perché allora nei trenta anni che abbiamo alle spalle si è speso molto in scolarizzazione spesso di bassa<br />

qualità, se questa non paga Una possibile spiegazione è che ciò che vale politicamente sono la costruzione<br />

di scuole e l’assunzione di insegnanti, non il lavoro molto meno «visibile» di crescita della<br />

qualità scolastica. Inoltre, mentre spesso la costruzione delle scuole può essere finanziata dall’aiuto internazionale,<br />

la loro manutenzione e la formazione degli insegnanti gravano sugli sforzi locali, che<br />

spesso sono intermittenti e – appunto – di bassa qualità.<br />

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, l’incremento dell’offerta di forza lavoro istruita, in un contesto<br />

in cui la domanda di lavoro qualificato è bassa e stagnante, può causare una riduzione delle retribuzioni;<br />

il rendimento ex-post sarà minore di quello che le aspettative ex-ante avrebbero suggerito.<br />

Un paese «bloccato» e sottratto agli stimoli del progresso tecnico e dell’innovazione non avrà reale bisogno<br />

di manodopera più istruita formalmente e con maggiori capacità sul piano del lavoro. Se il mercato<br />

del lavoro non valorizza l’investimento in istruzione, la scoraggia. A Lima tanti ingegneri e letterati<br />

fanno i tassisti con retribuzioni bassissime: evidentemente costoro non saranno propensi a investire<br />

sulla scuola per i figli, se qualcosa non cambia. Una scuola di bassa qualità non invoglia a investire<br />

sull’istruzione in futuro. Per questo la politica che è stata abbracciata dalle istituzioni internazionali<br />

(finanziare nuove scuole in paesi «fermi» perché ciò li avrebbe messi in movimento) non basta. Occorre<br />

che chi ha rischiato investendo in istruzione trovi delle opportunità.<br />

È il problema della direzione di causalità: è l’aumentata istruzione che induce la crescita (come le politiche<br />

di scolarizzazione suggeriscono) o è la crescita che, richiedendo forza lavoro più skilled, induce<br />

maggior investimento in istruzione Probabilmente entrambe le direzioni causali sono vere. Ma questo<br />

significa che le politiche per il capitale umano, anche solo definito in termini di più elevata scolarità,<br />

devono essere pensate in modo diverso, più adeguato alle dinamiche della società nel complesso, e<br />

devono essere capaci di coinvolgere diversamente gli attori. Ciò è tanto più vero in quanto la questio-<br />

41


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

ne decisiva per l’effettiva crescita del capitale umano non è la pura scolarizzazione, ma l’educazione,<br />

come vedremo.<br />

L’istruzione può essere usata per scopi redistributivi e non produttivi. Se le abilità acquisite attraverso<br />

l’istruzione sono applicate ad attività non produttive, i rendimenti privati possono essere positivi e contemporaneamente<br />

l’impatto sullo sviluppo del paese può essere nullo. Il problema può essere riassunto<br />

dalla metafora dei pirati (North 1990) 5 . La scelta su come «usare» il capitale umano acquisito dipende<br />

dal contesto: in un contesto istituzionale in cui dominano ceti che vivono sulla redistribuzione e<br />

hanno bisogno di un ceto istruito che li sostenga, comportamenti che attuano forme di redistribuzione<br />

saranno facilitati. In molti paesi in via di sviluppo il settore pubblico è considerato un settore che<br />

assorbe la crescente offerta di forza lavoro istruita, rispondendo a pressioni politiche 6 . Nel contributo<br />

di Piergiorgio Lovaglio, in questo stesso volume, si ricorda come nel caso egiziano i ceti «scolarizzati»<br />

in forza delle politiche di istruzione trovarono sbocchi sostanzialmente nella pubblica amministrazione.<br />

In Egitto il settore pubblico occupava, nel 1998, il 70% di tutti i laureati e il 63% dei lavoratori con<br />

livelli medi di istruzione.<br />

Dunque, l’efficacia per la crescita dell’accumulazione di capitale umano, anche nel significato ridotto<br />

di una maggiore scolarizzazione, dipende da diversi elementi, mette in gioco una pluralità di attori e il<br />

modo in cui questi si pongono di fronte all’educazione dei più giovani. La scuola sarà «di qualità» se le<br />

famiglie e gli insegnanti sono effettivamente motivati nell’aiutare i ragazzi a vivere l’avventura scolastica.<br />

L’efficacia della scolarizzazione, poiché dipende dalle opportunità offerte sul mercato del lavoro,<br />

implica un ceto imprenditoriale attento al bene comune e capace di coinvolgere larghi strati della popolazione<br />

nelle dinamiche di cambiamento. Lo stesso si dica di un ceto politico e di una burocrazia<br />

orientate al benessere comune e non ancorate a comportamenti redistributivi. Si tratta di comportamenti<br />

e di modi di fare che sono l’esito di un’educazione. È l’educazione – non la semplice scolarizzazione<br />

– il motore dello sviluppo.<br />

COMPLESSITÀ E SPECIFICITÀ<br />

L’evidenza empirica ha messo in luce che i fattori che contribuiscono alla crescita sono numerosi e –<br />

soprattutto – che la mancanza di alcuni può inficiare il ruolo e l’apporto di altri (vi è cioè interdipendenza).<br />

In altri termini, il governo della crescita è assai più complicato di quanto non si pensasse e coinvolge<br />

diverse dimensioni. Qualsiasi modello interpretativo che pretenda di basarsi su poche determinanti<br />

non resiste alla prova dei fatti.<br />

È il tema della complessità, messo in luce da vari recenti rapporti della Banca Mondiale e di altre istituzioni.<br />

Implicato nel tema della complessità vi è quello della specificità. Molti dei fattori di contesto<br />

rilevanti per l’efficacia delle politiche sono specifici dei singoli paesi e variano fortemente fra un paese<br />

e l’altro: non esiste una ricetta «uguale per tutti» 7 . Sul piano metodologico, dall’evidenza della specifi-<br />

42


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

cità discende il principio della titolarità (ownership): sono i singoli paesi i titolari e responsabili delle proprie<br />

strategie di sviluppo; senza titolarità non vi può essere efficacia.<br />

La consapevolezza d’essere di fronte a una sfida complessa è alla base dello strumento principale che<br />

da circa un decennio le istituzioni internazionali, Banca Mondiale e Fondo Monetario, hanno proposto<br />

ai paesi non sviluppati per controllare tutti i fattori rilevanti nel definire politiche di successo per la<br />

crescita e lo sviluppo. I Poverty Reduction Strategy papers (PRSP) – cioè tale strumento – sono la raccolta ragionata<br />

delle politiche che si ritiene debbano essere adottate (sia in ambito strettamente economico sia<br />

in ambito sociale ed istituzionale) per l’efficacia delle azioni. È come un «grande piano» che non dovrebbe<br />

dimenticare nulla di quanto è rilevante.<br />

Ma i grandi piani funzionano Su questo ritorneremo.<br />

Nell’incontro fra i rappresentanti di oltre 100 paesi, svoltosi a Parigi nel 2005, su come riguadagnare<br />

efficacia alle attività di cooperazione internazionale, il principio della titolarità è stato identificato come<br />

pilastro fondamentale nella ridefinizione delle politiche di aiuto 8 . L’evidenza degli insuccessi ha<br />

condotto a riconoscere che bisogna «avvicinare» le risorse alle specifiche realtà e conferirle direttamente<br />

agli attori; tuttavia, come vedremo più avanti, ci si ferma all’attore «stato» e al livello politico di gestione<br />

delle risorse, senza arrivare ad un vero approccio sussidiario.<br />

LE DETERMINANTI FONDAMENTALI DELLA CRESCITA:<br />

MA SENZA FINIRE NEL DETERMINISMO<br />

La complessità rende confusi. Un modo con cui si è cercato di affrontarla è individuare, nella numerosa<br />

lista di fattori correlati alla crescita, quelli che hanno il carattere di determinanti fondamentali (da cui<br />

gli altri cioè dipendono). È stato osservato che la mancanza di capitale umano, una tecnologia arretrata,<br />

mercati deboli e mal funzionanti (tutte «cause» di mancata crescita), sono da considerarsi cause<br />

«prossime» della crescita, ma non cause «originanti» l’incapacità a crescere. Perché infatti un paese non<br />

è stato capace di acquisire tali fattori Che cosa genera tale incapacità La risposta starebbe nella mancanza<br />

o nella debolezza delle determinanti fondamentali della crescita (si veda per una sintesi divulgativa<br />

del dibattito Acemoglu 2003).<br />

Vi sono due principali candidati al ruolo di «determinanti fondamentali», la geografia e le istituzioni. I<br />

sostenitori del determinismo geografico sono molti: e in effetti, se si guarda una mappa del mondo, si<br />

nota che gran parte dei paesi più poveri si trova nella zona equatoriale, dove il clima e il regime delle<br />

piogge non sono favorevoli a un’agricoltura sviluppata e dove la presenza di malattie diffuse genera effetti<br />

sfavorevoli sulla produttività del lavoro.<br />

Tuttavia, se il determinismo geografico fosse vero, dovremmo aspettarci che un paese con geografia<br />

sfavorevole sia stato sempre e sia ancora nella parte bassa della scala dello sviluppo; viceversa, paesi<br />

con clima favorevole dovrebbero essere stati fin dall’inizio all’avanguardia. Non è così: ci sono nume-<br />

43


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

rosi casi di «mutamenti di fortuna» (reversal of fortune): regioni e paesi un tempo sviluppati, come l’India<br />

dell’impero Mughal o il Centro America sotto gli Aztechi, sono divenuti aree molto più povere di<br />

altre. Viceversa, regioni povere come il Nord America sono divenute fra le più ricche del globo.<br />

Simili cambiamenti sono favorevoli all’altra ipotesi: che siano le istituzioni il fattore fondamentale che<br />

plasma, nel lungo periodo, le opportunità di crescita. Basta guardare a quell’«esperimento» naturale che<br />

fu la colonizzazione del mondo da parte di popoli europei a partire da cinquecento anni or sono. L’espansione<br />

europea condusse talvolta alla colonizzazione diretta, con insediamento da parte di coloni<br />

europei (in aree geograficamente adatte: con terra abbondante, popolazione indigena scarsa, assenza<br />

di agenti epidemici come la malaria o altre malattie). Qui i coloni generarono «buone istituzioni» perché<br />

le pensarono per sé, per la propria avventura umana.<br />

Si intende per buone istituzioni un sistema di difesa dei diritti di proprietà per una quota consistente<br />

della popolazione, vincoli chiari ed efficaci all’azione del ceto politico o di determinate élites (salvaguardia<br />

delle forme di democrazia e delle libertà fondamentali), un certo grado di eguaglianza nelle opportunità<br />

sociali.<br />

In altri casi (in aree non adatte all’insediamento diretto dei coloni, con presenza di malattie diffuse, terreni<br />

non adatti all’agricoltura di tipo europeo, piogge torrenziali ecc.) gli europei svilupparono istituzioni<br />

legate ad attività di piantagione o di miniera basate sulla forza lavoro indigena spesso ridotta in<br />

schiavitù; in altri termini si formarono istituzioni finalizzate all’estrazione del surplus e al mantenimento<br />

di una netta differenza fra l’élite dominante e la popolazione locale. In tali aree non ci fu sviluppo,<br />

anzi, poiché il passato largamente decide delle possibilità future di cammino, tali aree furono «bloccate»<br />

in un assetto istituzionale non favorevole ai cambiamenti e rese incapaci di cogliere le opportunità<br />

di crescita. In tali paesi, anche dopo l’indipendenza (nel XIX o XX secolo), il sistema istituzionale rimase<br />

assai spesso e in gran parte quello impostato in quel periodo.<br />

La geografia entra anche in tali vicende: sono fattori geografici quelli che stanno alla base delle decisioni<br />

iniziali di comportamento dei colonizzatori e quindi del sistema di istituzioni che è venuto instaurandosi.<br />

Si torna dunque al determinismo geografico<br />

In realtà, se ci si fermasse qui si dimenticherebbe l’elemento più importante. Quando i gesuiti iniziarono,<br />

alla fine del Cinquecento nell’attuale Bolivia e poi più compiutamente nel XVIII secolo in Paraguay,<br />

l’esperienza delle reducciones, fecero una scelta culturale precisa: la loro avventura umana e quella della<br />

gente che stavano incontrando era sentita come una stessa avventura. Non c’era una divisione tra «noi<br />

e voi», c’era un «noi»: con tutti i limiti e i difetti che qualsiasi tentativo porta con sé, ma questa posizione<br />

era chiara, e in pochi decenni generò istituzioni capaci di mettere «in movimento» la gente fino a farla<br />

diventare capace di esportare in Europa cereali, vino, strumenti musicali e bestiame. In ambienti geograficamente<br />

sfavorevoli si ebbe la stessa dinamica che emerse in aree «geograficamente adatte». Fu<br />

ancora una decisione delle potenze coloniali che, distruggendo simili esperienze, costrinse a reintrodurre<br />

la divisione fra élite dominante e popolazioni locali, fra «noi e voi». È dunque una decisione cul-<br />

44


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

turale, un giudizio sulla realtà che si incontra la causa determinante il modo con cui le istituzioni si formano<br />

e avvengono. È dunque il soggetto che viene formandosi che decide della direzione di cammino:<br />

può essere un soggetto diviso oppure unitario, può essere un incontro che costituisce un «noi» oppure<br />

una separazione fra «noi e voi». È una scelta che, dapprima come concezione personale di sé, poi<br />

anche a livello sociale, spetta sempre alla libertà di ciascuno.<br />

Chi vive l’esperienza della cooperazione internazionale e dei progetti sa benissimo che la questione decisiva<br />

è la stessa, anche a livello «micro», di singoli progetti. Costruire una scuola, con muri, materiali<br />

didattici e volontari non basta. Coinvolgere la gente nell’avventura della scuola per i propri figli, fino a<br />

farla diventare protagonista del percorso educativo dei ragazzi (e, a questo punto, del loro stesso percorso<br />

educativo: di genitori, madri e padri), è la condizione perché la scuola abbia veramente efficacia<br />

e perché la gente possa fare esperienza di un cambiamento possibile per sé, per la propria famiglia e<br />

comunità. Si genera un soggetto – dall’incontro tra persone, anche diverse – che riconosce di vivere<br />

una stessa avventura. È qui che «accade» l’originarsi dello sviluppo. I casi riportati nella seconda parte<br />

di questo libro lo documentano con impressionante semplicità ed evidenza.<br />

I GRANDI PIANI E IL LORO ATTORE: LO STATO<br />

Se la precedente posizione riguardava un tentativo di «semplificare» dal punto di vista interpretativo la<br />

complessità dei sentieri di crescita, altre proposte si propongono di superare l’ostacolo della complessità<br />

sul piano delle politiche da attuare.<br />

Nel mondo delle istituzioni internazionali e dei grandi donors (i governi dei paesi sviluppati, alcune grandi<br />

fondazioni), ad esempio, si sta imponendo come politica quella dei grandi piani contro la povertà e<br />

per la crescita.<br />

Di fronte alla complessità, la soluzione è considerare simultaneamente le diverse variabili rilevanti per<br />

la crescita e tenerle sotto controllo. Solo gli stati, allora, sono nella posizione di poterlo fare: essi quindi<br />

non solo restano, come nel passato, i partner principali nelle attività di cooperazione internazionale,<br />

ma lo divengono ancor più.<br />

È una direzione giusta o sbagliata<br />

A nostro avviso ci sono due errori in questa posizione.<br />

Il primo è che non si tiene in considerazione il fatto che quanto più una politica è complessa e, necessariamente,<br />

indiretta (cioè filtrata dal sistema di governo, amministrativo e istituzionale), tanto più è<br />

soggetta al rischio che i diversi attori (anche e in primo luogo gli attori pubblici) assumano comportamenti<br />

sbagliati: decidano cioè non secondo criteri di bene comune, ma per favorire élites o ceti specifici,<br />

generando forme di corruzione e comportamenti inefficienti. Atteggiamenti prevaricatori da parte<br />

delle élites, per catturare quote rilevanti del valore aggiunto a proprio favore, non vengono cambiati perché<br />

il «piano» sulla cui base si distribuiscono risorse è integrato, intersettoriale, con obiettivi globali e<br />

45


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

riguarda sia gli aspetti economici che i soggiacenti aspetti sociali, come richiesto dallo strumento del PRSP.<br />

Anzi, accade il contrario. La stessa complessità, in forza della quale è difficile stabile rapporti di causa<br />

ed effetto fra input e risultati, perché le ragioni di questi ultimi possono essere varie, è una tentazione<br />

a «firmare» contratti impegnativi, perché un governo che non ha intenzione di onorarli può addurre<br />

motivi a propria scusa se i risultati non sono quelli attesi.<br />

Vi sono numerose evidenze che la presenza di forme di corruzione «politica» (cioè la corruzione a livello<br />

degli organi di governo: si contrappone alla corruzione amministrativa che può esistere nel sottostante<br />

ceto burocratico) abbatte l’efficacia degli aiuti che passano al filtro delle decisioni politiche e<br />

può condurre a risultati netti negativi.<br />

L’Unione Europea sta attuando da alcuni anni una politica di cooperazione internazionale che ha come<br />

principio cardine il sostegno al bilancio degli stati beneficiari, perché attuino politiche concertate,<br />

condivise e con un continuo monitoraggio dei risultati per evitare comportamenti devianti e di azzardo<br />

morale come quelli precedentemente descritti: la politica del budget support. È il tentativo di garantire<br />

stabilità e chiarezza nell’uso delle risorse concesse dai donors internazionali, educando gli attori pubblici<br />

dei paesi beneficiari a comportamenti corretti. Questo tipo di politica non pretende di attuare<br />

grandi piani, ma di usare «bene» le risorse, almeno a livello settoriale (di politiche sanitarie, ad esempio,<br />

o scolastiche), e in questo è certamente più realista dei grandi pianificatori. Tuttavia, a nostro avviso<br />

anche questa politica dimentica che la stabilità dello sviluppo si ha quando le persone e i gruppi sociali<br />

sono coinvolti in un rapporto diverso con la realtà. In tali politiche manca un coinvolgimento reale<br />

degli attori di base – una mancanza che è già stata fatta notare all’Unione e che dovrà essere corretta se<br />

si vuole giungere a modalità di utilizzo delle risorse della cooperazione veramente efficaci 9 . Le famiglie<br />

mandano i figli a scuola (sacrificando un loro potenziale immediato apporto al reddito familiare attraverso<br />

il lavoro) non innanzitutto per una politica governativa, ma per un’esperienza (che le politiche<br />

possono facilitare) che conferma che vale la pena fare tale sacrificio.<br />

Il secondo errore è appunto la mancanza di sussidiarietà. Le persone, i gruppi sociali, la società civile<br />

non vengono coinvolti: l’esperienza che la gente fa, se vige la politica dei grandi piani, è che è possibile<br />

aspettarsi qualche vantaggio da determinati comportamenti dello stato. Ne consegue un atteggiamento<br />

di dipendenza e rivendicativo che non mette veramente in moto la gente, persone e realtà sociali.<br />

L’intervento di Colombo in questo volume sottolinea alcune conseguenze negative, in termini di<br />

efficacia, di tale errore di metodo consistente nel partire da «obiettivi» e non dalle persone e dalle realtà<br />

sociali. Chi fa così pensa lo sviluppo come soluzione di problemi (ad esempio nutrizionali o sanitari)<br />

e non come educazione di persone e gruppi sociali a un atteggiamento responsabile e adeguato, da<br />

protagonista, di fronte alla realtà.<br />

46


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

EDUCAZIONE DELL’IO, FATTORE DELLO SVILUPPO<br />

Il principio del coinvolgimento della società civile, per divenire pratica effettiva dei governi dei singoli<br />

paesi, partner privilegiati nel metodo dei «grandi piani», ha bisogno di due elementi che spesso<br />

mancano.<br />

Uno è l’effettiva propensione dei governi al dialogo con la società civile. Questo si impara per esperienza,<br />

non per dichiarazione di principio: è cioè il termine di un cammino educativo degli stessi governi<br />

e delle amministrazioni.<br />

L’altro è l’esigenza di un equilibrio di strumenti e di potere fra governo e società civile. Se questo equilibrio<br />

manca, le dichiarazioni di intenti si fermano alle parole o ai documenti e non diventano esperienza<br />

quotidiana di dialogo. Non basta dunque il «controllo» dei donors sull’uso delle risorse, anche se può<br />

essere utile, perché avvenga un cammino educativo. Occorre – come alcuni dei casi che verranno presentati<br />

nel libro documentano con chiarezza – l’esperienza di un reale dialogo fra dimensione politica<br />

e società civile, che è tra l’altro l’essenza della democrazia. È il principio della partnership. Questo è da<br />

chiedere alle politiche di budget support, non solo la trasparenza contabile e amministrativa.<br />

Tuttavia, anche queste due «regole» di comportamento da sole non sono sufficienti, sarebbero «sospese<br />

sul vuoto». Occorre che la società civile sia fatta di persone consapevoli delle opportunità, attive e<br />

in cammino. Che cosa permette questo<br />

In un provocatorio articolo apparso sul Financial Times lo scorso maggio 10 , Easterly critica aspramente<br />

il paradigma dello sviluppo basato sui grandi piani che, ritiene, porta a danni enormi e a ingenti<br />

sprechi e afferma che l’unica possibilità per uno sviluppo effettivo è lasciare all’indipendenza dei molti<br />

(la gente, quelli che Easterly chiama provocatoriamente i searchers) e alla loro ricerca competitiva delle<br />

opportunità che via via si presentano il compito di trovare la strada per un uso efficiente delle risorse.<br />

Così, a mo’ di sfida, Easterly sottolinea che vi sono al mondo 7 miliardi di esperti (i singoli individui)<br />

a cui bisogna lasciare libertà d’azione. Gli stati, invece di fare grandi piani, dovrebbero garantire<br />

lo spazio per l’iniziativa.<br />

Questa posizione liberista è parziale. Come si è accennato nell’esempio dei piccoli coltivatori nelle aree<br />

rurali dei paesi in via di sviluppo, vi possono essere comportamenti dei singoli che sono bloccati in forme<br />

di auto-sussistenza e in condizioni di povertà perché il contesto non è favorevole e non si ha esperienza<br />

di un altro ragionevole e più opportuno cammino: manca l’esperienza di un percorso possibile.<br />

I movimenti dei Senza Terra in Brasile, ad esempio, restano spesso rivendicativi e quindi dipendenti<br />

dal potere politico, se non c’è l’esperienza (per un incontro, per la testimonianza di amici e conoscenti)<br />

che vi sono altre vie, più libere, più responsabilizzanti (per certi aspetti più faticose) e possibili, che<br />

rendono persone e gruppi sociali protagonisti del proprio cammino. È il costituirsi del soggetto dello<br />

sviluppo. Non basta l’iniziativa degli individui.<br />

Può essere altrettanto parziale e ideologico un approccio di tipo partecipativo come nella tradizione<br />

47


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

communitarian. Se l’approccio liberista ritiene l’individuo già «formato» e pronto a reagire agli stimoli del<br />

reale, la tradizione «partecipazionista» a volte afferma che è la comunità il soggetto già costituito: essa,<br />

che si auto-conosce, è soggetto adeguato dello sviluppo. È vero che ogni comunità umana, con le sue<br />

esperienze e la sua cultura, può sapere meglio di altri ciò di cui ha bisogno e ciò che sente consono al<br />

proprio cammino. Tuttavia, come sa chi opera in attività di cooperazione internazionale, questa conoscenza<br />

si amplia e si approfondisce nell’esperienza che si fa, può arricchirsi e inverarsi proprio nell’incontro<br />

con altri soggetti e con l’esperienza di cui questi sono tramite. In un simile incontro, lo stesso<br />

bisogno e le stesse esigenze di un individuo o di un gruppo sociale possono ritrovarsi definite meglio<br />

di quanto individui e gruppi sappiano fare da soli. La singola persona, la comunità, con le loro esperienze<br />

passate, con la loro cultura e il loro modo di fare, sono sfidati da un incontro con una tale esperienza<br />

e spalancati ad una nuova ipotesi e a un assetto più adeguato di fronte ai dati di realtà. Così, non<br />

si cancella solo un bisogno da una «lista» (in sé inesauribile) di carenze e mancanze, ma si riconosce<br />

possibile una propria mossa – sviluppo – per il bene proprio e comune.<br />

È questa l’idea di educazione, un’introduzione più piena e profonda alla realtà, nel suo significato e nel<br />

suo valore per il cammino umano. E vale sia per le comunità che sono aiutate da una politica e da un<br />

progetto, sia da chi intende attuare le azioni di aiuto. Per entrambi è l’avventura di una introduzione più<br />

adeguata al reale e al suo significato, da cui nasce l’avventura del cammino, dello sviluppo. È l’educazione<br />

– non la semplice scolarizzazione – il motore dello sviluppo.<br />

Mi ha sempre colpito il fatto che chi opera in progetti di sviluppo, in campo sanitario – un centro di<br />

nutrizione ad esempio –, se è intelligente ed «educato» nel senso detto è attento non solo a curare i piccoli<br />

(pesarli, stabilire una dieta, fornire il necessario per la stessa) ma soprattutto a dialogare con le madri<br />

perché nel cambiamento del modo di vivere e di guardare la realtà delle stesse madri (modo di abitare,<br />

igiene, rapporti con altre madri) il bisogno che esse hanno – curare i figli – si chiarisce e diventa<br />

più adeguato. È un cammino educativo che approfondisce la conoscenza dei propri stessi problemi, se<br />

chi dialoga con loro sente realmente simpatia per il loro cammino e lo condivide «a tutto campo». Come<br />

afferma il «principio» bellissimo e vero che ha sempre guidato l’attività dell’AVSI: occorre condividere<br />

a tutto campo, fino al senso della vita, perché la condivisione del bisogno sia reale e concreta e generi<br />

una mossa stabile di cambiamento, cioè sviluppo.<br />

48


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

Acemoglu D. (2003), «Root Causes. A historical Approach to assessing the Role of Institutions in<br />

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Review, 92, pp. 727-744.<br />

Gelb A., Knight J.B., Sabot R.H. (1991), «Public Sector Employment, Rent Seeking and Economic<br />

Growth», Economic Journal, 101, 408, pp. 1186-1199.<br />

Lavergne R., Wood J. (2006), «Aid Effectiveness and non-State partnerships: analytical considerations»,<br />

CIDA Working Papers, December.<br />

Maddison A. (2001), The World Economy: A Millennial Perspective, Development Centre Studies, OECD,<br />

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Murphy K., Shleifer A., Vishny R. (1989), «Industrialization and the Big Push», Journal of Political Economy,<br />

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North D.C. (1990), Institutions, Institutional Change, and Economic Performance, Cambridge University<br />

Press, Cambridge.<br />

Pritchett L. (2001), «Where Has All the Education Gone», The World Bank Economic Review, 15, 3, pp.<br />

367-391.<br />

World Bank (2005), Economic Growth in the 1990s- Learning from a Decade of Reforms, Washington, D.C.<br />

NOTE<br />

1<br />

Dati relativi al 1998. Il riferimento è Maddison (2001).<br />

2<br />

Vedi Bourguignon e Morrison (2002), anche se altri affermano che attualmente stanno recuperando<br />

spazio le differenze di reddito interne ai paesi (disuguaglianza within) rispetto a quelle fra paesi.<br />

3<br />

Si veda a tale proposito il famoso lavoro di Murphy, Schleifer e Vishny (1989).<br />

4<br />

Vedi Pritchett (2001).<br />

5<br />

«Per essere un pirata di successo è necessario conoscere a fondo i metodi di combattimento navale,<br />

le rotte commerciali, le armi, le attrezzature e l’equipaggio delle potenziali vittime, nonché le opportunità<br />

di rivendere il bottino. Per essere un industriale di successo nel settore chimico agli inizi del<br />

secolo ventesimo negli Stati Uniti, era necessaria la conoscenza della chimica, dell’uso dei prodotti chimici<br />

nella produzione dei diversi beni intermedi e finali e dei problemi propri delle organizzazioni di<br />

49


L’EDUCAZIONE È IL MOTORE DELLO SVILUPPO<br />

larga scala. Se il sistema istituzionale di base fa dell’attività redistributiva (pirateria) l’opportunità economica<br />

preferibile, possiamo attenderci uno sviluppo molto differente delle conoscenze e delle abilità<br />

rispetto a un sistema dove è la crescita della produttività che paga economicamente (come per un<br />

imprenditore chimico del ventesimo secolo). Gli incentivi generati dal sistema istituzionale hanno un<br />

ruolo decisivo nel plasmare il tipo di abilità e conoscenze che danno migliore remunerazione» (North,<br />

1990; nostra traduzione).<br />

6<br />

Gelb, Knight e Sabot (1991).<br />

7<br />

Vedi le dichiarazioni di Gobind Nankani, vice presidente della Banca Mondiale per l’Africa, nella<br />

prefazione al rapporto della Banca su Economic Growth in the 1990s – Learning from a Decade of Reforms,<br />

del 2005.<br />

8<br />

Vedi la Paris Declaration on Aid Effectiveness, Parigi, 2005. Ad Accra in Ghana, nel settembre 2008, si<br />

è svolto l’incontro che dà continuazione alla Conferenza di Parigi del 2005, il «3 rd High Level Forum<br />

on Aid Effectiveness».<br />

9<br />

Si veda al riguardo Lavergne e Wood (2006).<br />

10<br />

W. Easterly, «Trust the development experts - all 7bn», Financial Times, May 28, 2008.<br />

50


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

di Emilio Colombo<br />

CHI SONO I POVERI<br />

Tutti noi, quando pensiamo ai paesi in via di sviluppo, pensiamo a paesi caratterizzati da un livello<br />

di PIL pro-capite relativamente basso; allo stesso modo, quando pensiamo al «povero» pensiamo<br />

a qualcuno che sia economicamente o materialmente povero, ovvero che non abbia di<br />

che sussistere. L’identificazione di sviluppo e povertà con i propri corrispettivi economici è una semplificazione<br />

a cui non riusciamo mai a sottrarci.<br />

Eppure, se ci pensiamo bene, questa semplificazione è profondamente errata.<br />

In fondo chi è il povero È chi ha un reddito basso È evidente che questa risposta non solo è parziale,<br />

ma potrebbe essere anche fuorviante.<br />

Consideriamo infatti una persona non economicamente povera che vive in un paese (si pensi ai paesi<br />

dell’Africa sub-sahariana) in cui vi sono numerose malattie infettive (si pensi alla malaria) che riducono<br />

fortemente l’aspettativa di vita alla nascita. Dovremmo considerare questa persona come povera<br />

Certamente sì, non tanto con riferimento alla propria condizione economica quanto al suo potenziale<br />

stato di salute.<br />

Oppure la stessa persona potrebbe non aver avuto alcun livello di istruzione. Anche in questo caso sarebbe<br />

povera di qualcosa di fondamentale anche se non facilmente quantificabile dal punto di vista economico 1 .<br />

Infine potremmo pensare che questa persona non economicamente povera viva in un ambiente in cui<br />

le condizioni sanitarie siano adeguate, il livello di istruzione sufficiente ma molte libertà individuali e<br />

sociali (libertà di espressione, libertà religiosa, democrazia ecc.) vengano di fatto represse. Non sarebbe<br />

difficile definire questa persona come povera!<br />

I semplici esempi di cui sopra fanno emergere due elementi fondamentali e tra loro correlati. Il primo<br />

elemento è evidente dagli esempi riportati: non possiamo analizzare il tema dello sviluppo né quello<br />

della povertà in un’ottica unidimensionale, ovvero considerando solamente l’aspetto economico, quello<br />

sanitario, quello educativo ecc. Sviluppo e povertà hanno infatti caratteristiche multidimensionali,<br />

sono fenomeni complessi che devono essere affrontati ed analizzati da molti punti di vista.<br />

COME MISURIAMO LA POVERTÀ<br />

Questo primo elemento pone immediatamente un problema pratico: come misuriamo la povertà Utilizziamo<br />

solamente indicatori di carattere economico oppure li integriamo con indicatori di altra natu-<br />

51


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

ra Il primo approccio è ancora quello maggiormente utilizzato, tanto è vero che moltissime organizzazioni<br />

e istituzioni internazionali definiscono i paesi come poveri in relazione al livello del PIL pro-capite<br />

oppure con riferimento alla quota della popolazione che vive con meno di 1 o di 2 dollari al giorno.<br />

Negli ultimi anni sono stati fatti molti tentativi per allargare la misurazione ad altri elementi: le Nazioni<br />

Unite (in particolare lo UNDP) elaborano da anni l’Indice di Sviluppo Umano calcolato come media<br />

ponderata tra PIL pro-capite, aspettativa di vita alla nascita e un indice di educazione (tasso di analfabetismo<br />

e media del livello di istruzione). Sempre le Nazioni Unite, nel 2000, con la cosiddetta «Dichiarazione<br />

del Millennio» hanno definito i Millennium Development Goals (MDG) che, se raggiunti,<br />

porterebbero una sostanziale riduzione della povertà nel mondo entro il 2015. Gli MDG definiscono<br />

una serie di indicatori raggruppati in 8 aree tematiche diverse (riduzione povertà, aumento livello di<br />

educazione, superamento delle discriminazioni di genere, riduzione mortalità infantile, miglioramento<br />

delle condizioni di salute delle donne madri, riduzione dell’incidenza delle malattie – AIDS e malaria<br />

in particolare –, miglioramento della sostenibilità ambientale, promozione della cooperazione e delle<br />

politiche per lo sviluppo). Sia l’Indice di Sviluppo Umano che gli MDG costituiscono due tentativi di<br />

dare alla misurazione della povertà e dello sviluppo caratteristiche di multidimensionalità.<br />

IL FALLIMENTO DELLA MISURA<br />

Nonostante i tentativi doverosi e interessanti volti ad allargare ed approfondire le modalità di misurazione<br />

dello sviluppo e della povertà, è immediato realizzare come essi siano destinati all’insuccesso. Qui<br />

entra in gioco il secondo elemento citato precedentemente, strettamente correlato al primo. È vero che<br />

sviluppo e povertà hanno caratteristiche multidimensionali, ma è altrettanto vero che esse non sono<br />

definibili con precisione.<br />

Possiamo dire che la povertà ha tre dimensioni: quella economica, quella educativa e quella sanitaria<br />

Probabilmente sì, ma che dire di quella politica (democrazia) E se aggiungessimo la dimensione della<br />

libertà di espressione Potremmo indicare decine e decine di diversi indicatori di sviluppo, qualitativi<br />

e quantitativi, eppure non riusciremmo a definire con precisione lo sviluppo stesso.<br />

In altri termini potremmo stilare un elenco dettagliato di tutte le dimensioni che caratterizzano il concetto<br />

di povertà e quello di sviluppo; in questo modo arriveremmo ad una definizione maggiormente<br />

completa, tuttavia mai realmente esaustiva.<br />

Perché ogni tentativo di misurare esaurientemente la povertà o lo sviluppo è destinato a fallire Senza<br />

dubbio non per mancanza di dati o di appropriate tecniche statistiche. Se ci pensiamo bene il motivo è<br />

più profondo e va alla radice stessa del concetto di sviluppo.<br />

52


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

Se andiamo alla radice del problema ci rendiamo conto che in ultima analisi la povertà e lo sviluppo<br />

hanno a che fare con i desideri della persona. Possiamo dire che ultimamente una persona è povera se<br />

non è in grado di soddisfare i propri desideri più profondi, originari e costitutivi (il desiderio di verità,<br />

di giustizia, di bellezza ecc.). Ne consegue che lo sviluppo non è una questione che riguarda solo le economie,<br />

i governi, le istituzioni internazionali o le ONG, è principalmente una questione che riguarda la<br />

persona umana che, all’interno di una trama di rapporti, si muove per soddisfare le proprie esigenze<br />

costitutive (i desideri di cui sopra). Non possiamo pensare allo sviluppo se non mettiamo la persona<br />

umana al centro e da essa partiamo.<br />

«L’uomo, nella sua singolare realtà (perché è ‘persona’), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto,<br />

una propria storia della sua anima. L’uomo che, conformemente all’interiore apertura del suo spirito<br />

ed insieme a tanti e così diversi bisogni del suo corpo, della sua esistenza temporale, scrive questa<br />

sua storia personale mediante numerosi legami, contatti, situazioni, strutture sociali, che lo uniscono<br />

ad altri uomini, e ciò egli fa sin dal primo momento della sua esistenza sulla terra, dal momento del suo<br />

concepimento e della sua nascita» (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, n. 14).<br />

Questo uomo è il soggetto dello sviluppo ed è a questo uomo, nella sua complessità ma soprattutto<br />

nella sua interezza, che devono essere indirizzate le politiche di sviluppo.<br />

LO SVILUPPO RIGUARDA ANCHE NOI<br />

A molti queste considerazioni potrebbero sembrare ovvie e scontate, ma in realtà le implicazioni di<br />

questo approccio sono profonde ed estremamente interessanti.<br />

La prima implicazione è che se lo sviluppo ha a che fare con i desideri della persona non può essere un<br />

problema circoscritto ai poveri (intendendo quelli economicamente poveri). È invece una questione<br />

che riguarda tutti, anche noi che viviamo in condizioni economiche favorevoli e agiate. Infatti poiché<br />

i desideri e le esigenze fondamentali sono infiniti e non pienamente realizzabili (almeno non in questa<br />

vita) siamo tutti sempre «in sviluppo». Detto in altri termini, mettere la persona umana al centro dello<br />

sviluppo significa in primo luogo riconoscere che lo sviluppo è un percorso da seguire piuttosto che<br />

un obiettivo da raggiungere. Questo riconoscimento costituisce il primo fondamentale elemento nel<br />

passaggio dalla teoria alla pratica, ovvero nella definizione ed implementazione delle azioni atte a promuovere<br />

lo sviluppo, cioè le politiche dello sviluppo.<br />

La seconda implicazione è più operativa ma altrettanto importante. La frase di Giovanni Paolo II riportata<br />

sopra suggerisce che nel declinare le politiche di sviluppo partire dalla persona non basta, occorre<br />

fare un passo in più. Si corre infatti il rischio di commettere l’errore, evidente nelle società avanzate, di<br />

confondere la persona con l’individuo singolarmente inteso e avulso dalla realtà sociale in cui è inseri-<br />

53


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

to. Le parole del Papa ci ricordano con forza che l’uomo è sì «apertura di spirito» e «bisogni» (ovvero i<br />

desideri di cui sopra) ma è anche «legami, contatti, situazioni, strutture sociali, che lo uniscono ad altri<br />

uomini». Le politiche per lo sviluppo devono soprattutto valorizzare i corpi sociali intermedi in cui la<br />

persona umana cresce, permettendole di esprimere la dimensione relazionale che la costituisce dalle<br />

fondamenta. D’altronde, se ci pensiamo bene, è stato proprio il ruolo dei corpi intermedi e in particolare<br />

della famiglia che ha permesso alle economie avanzate di svilupparsi ben prima che una errata concezione<br />

del welfare state instillasse la falsa convinzione che di essi si potesse fare a meno.<br />

LE POLITICHE DELLO SVILUPPO<br />

Le considerazioni appena effettuate relative alla misurazione delle povertà e alle difficoltà nella sua definizione<br />

possono sembrare sterili o quantomeno inutili. In fondo, si dice, è evidente che certi popoli<br />

stiano soffrendo e, al di là delle disquisizioni circa quanto stiano soffrendo (il problema della misura),<br />

è urgente intervenire per fare qualcosa. In realtà è proprio a questo livello che viene spesso compiuto<br />

l’errore più importante, perché la logica dell’interventismo finisce con il «tagliar fuori» la riflessione di<br />

fondo arrivando a commettere gravi errori di metodo. Se lo sviluppo riguarda la persona umana e i suoi<br />

desideri, le politiche per lo sviluppo, per essere realmente efficaci, devono permettere l’espressione e<br />

la realizzazione di questi desideri, aiutando le persone nel compimento del proprio percorso di sviluppo.<br />

Sino ad ora al contrario le politiche per lo sviluppo, sia quelle realizzate dai governi dei paesi interessati<br />

che quelle realizzate dalla istituzioni internazionali o dai paesi ricchi, si sono limitate a definire<br />

una lista di obiettivi da raggiungere. L’errore di metodo è sostanziale: anziché porre l’enfasi sul soggetto<br />

che intraprende il percorso di sviluppo ci si focalizza sull’obiettivo da raggiungere lasciando al soggetto<br />

un ruolo marginale. La storia degli ultimi decenni è piena di esempi di obiettivi di sviluppo mai<br />

raggiunti: ad esempio nel 1977 le Nazioni Unite avevano fissato per il 1990 il termine per l’accesso universale<br />

ad acque pulite, nel 1990 è stato invece fissato per il 2000 l’obiettivo della fornitura universale<br />

dell'istruzione primaria. Ora entrambi gli obiettivi sono parte degli MDG e sono fissati per il 2015, ma<br />

già si sa che molti paesi non riusciranno a rispettare i tempi previsti.<br />

Il caso dell’istruzione merita un piccolo inciso, anche se è l’oggetto di analisi maggiormente approfondite<br />

negli altri contributi di questo libro. Tutti sanno che istruzione e capitale umano sono un elemento<br />

cruciale per la crescita e lo sviluppo. Allo stesso modo è evidente che l’uomo ha bisogno non tanto<br />

di istruzione, intesa come insieme di nozioni, quanto di educazione, intesa come introduzione al significato<br />

della realtà. Fermarsi alla prima equivale a compiere l’errore di metodo di cui sopra, mentre se<br />

vogliamo mettere il soggetto al centro dello sviluppo è necessario disegnare le politiche che favoriscono<br />

il capitale umano, orientate alla promozione di una maggiore educazione della persona. È certamente<br />

semplice fissare obiettivi di istruzione, molto di meno se ci riferiamo all’educazione, ma è pur vero<br />

che è quest’ultima che determina in modo decisivo lo sviluppo di una società.<br />

54


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

Questo significa che non devono essere più fissati obiettivi nelle politiche di sviluppo Certamente no,<br />

essi sono un importante e utile strumento, tuttavia non possono esaurire l’orizzonte di definizione delle<br />

politiche divenendo l’unico parametro secondo il quale esse debbano essere valutate.<br />

Se infatti lo sviluppo riguarda i desideri delle persone, definire le politiche fissando obiettivi da raggiungere<br />

equivarrebbe a conoscere già la risposta ai problemi degli individui, con il rischio concreto di fare<br />

grossolani errori e di raggiungere scarsi risultati.<br />

LA SUSSIDIARIETÀ E LA SOLIDARIETÀ NELLO SVILUPPO<br />

L’esempio dei progetti che AVSI ha realizzato, alcuni dei quali sono rappresentati in questo libro, testimonia<br />

invece come è possibile ribaltare l’approccio mettendo la persona al centro dei progetti di sviluppo.<br />

L’efficienza (e quindi gli obiettivi raggiunti) è la logica conseguenza di un approccio che, proprio<br />

perché parte dalla persona, riesce ad essere più adeguato alle sue esigenze e quindi a risultare più<br />

efficiente, dato che l’uomo si muove in ultima analisi per soddisfare le proprie esigenze e i propri desideri.<br />

Nel realizzare i progetti, AVSI non fa altro che dare compimento al principio di sussidiarietà nello<br />

sviluppo.<br />

Infatti affrontare lo sviluppo come un percorso centrato sulla persona suggerisce di definire le politiche<br />

per lo sviluppo sulla base di un principio sussidiario, secondo il quale le politiche devono essere disegnate<br />

al fine di mettere la persona nelle condizioni di esprimere e di fare fruttare i propri talenti.<br />

Per tanti anni invece le politiche di sviluppo si sono fermate alla dimensione della solidarietà tralasciando<br />

quella relativa alla sussidiarietà. Le due dimensioni non sono alternative, bensì complementari. La<br />

dimensione della solidarietà è principalmente quella dei cosiddetti donatori (governi, istituzioni internazionali<br />

o semplici cittadini) che, con un atto di liberalità e di generosità, cercano di soddisfare i bisogni<br />

dei più poveri. Senza la scintilla della solidarietà non ci sarebbero le numerose iniziative che tutti<br />

conosciamo a favore dei più bisognosi. Tuttavia la solidarietà non basta, essa deve essere resa operativa<br />

per poter essere realmente efficace. Qui entra in gioco la sussidiarietà, che definisce una modalità<br />

con la quale la solidarietà è resa operativa. Non solo. Essa definisce la modalità più appropriata proprio<br />

perché parte da chi è il principale protagonista dello sviluppo, ovvero la persona.<br />

IL CASO DELL’AIUTO ALLO SVILUPPO<br />

Un chiaro esempio di come la solidarietà senza una declinazione sussidiaria comporti un approccio errato<br />

alla questione della povertà e dello sviluppo e in definitiva una chiara perdita di efficienza è costituito<br />

dagli aiuti allo sviluppo erogati ai paesi poveri.<br />

Per anni i paesi maggiormente sviluppati hanno finanziato, direttamente o indirettamente tramite le<br />

istituzioni internazionali, iniziative più o meno grandiose di aiuto allo sviluppo; tra le più recenti e no-<br />

55


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

te possiamo ricordare l’iniziativa di Gleneagle effettuata dai paesi del G8 nel 2005, l’iniziativa legata al<br />

Giubileo nel 2000 e l’iniziativa HIPC (highly indebted poor countries) avviata nel 1996 dal Fondo Monetario<br />

Internazionale e dalla Banca Mondiale per ridurre il debito ai paesi poveri.<br />

Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, negli ultimi cinquant’anni i paesi sviluppati e le istituzioni<br />

internazionali hanno speso circa 2300 miliardi di dollari in aiuto allo sviluppo (aid). A fronte di<br />

questa considerevole cifra (si consideri che il PIL di tutto il continente africano nel 2007 è stato pari a<br />

circa 1000 miliardi di dollari) i risultati prodotti sono stati inferiori alle aspettative. Al di là dell’evidenza<br />

aneddotica sui fallimenti degli aiuti umanitari in Africa, esiste un’ampia letteratura scientifica che<br />

mostra come i flussi di aid non abbiano comportato alcun guadagno in termini di crescita da parte dei<br />

paesi riceventi. In altri termini, a livello macro l’aid non è correlato con la crescita.<br />

Come è possibile che flussi di aiuti così consistenti non abbiano portato benefici tangibili Perché allora<br />

i progetti di AVSI (e di altre organizzazioni non governative) funzionano La differenza sta largamente<br />

nell’approccio. I flussi di aiuti ufficiali non seguono un approccio sussidiario, ma tendono a trasferire<br />

i fondi direttamente ai governi dei paesi poveri saltando completamente tutti i corpi intermedi<br />

della società civile, che sono espressione concreta dei bisogni degli individui. Così da una parte i flussi<br />

di aiuto finiscono per seguire logiche spesso politiche (se i referenti sono i governi e non le persone, i<br />

donors preferiscono indirizzare i flussi di aiuto verso governi più «vicini») e dall’altra vengono indirizzati<br />

a stati in cui corruzione e clientelismo ne riducono fortemente l’efficacia.<br />

La logica sussidiaria invece ribalta completamente l’approccio: le iniziative di aiuto allo sviluppo sono<br />

costrette a confrontarsi con i protagonisti dello sviluppo stesso, le persone e la società civile. Questo<br />

confronto da una parte palesa i desideri e i bisogni delle persone facilitando così l’efficacia delle iniziative<br />

e dall’altra permette un maggiore controllo (eseguito dal basso) dell’iniziativa stessa favorendo una<br />

maggiore efficienza.<br />

Ecco spiegato perché se da una parte gli aiuti hanno una scarsa efficacia a livello macro, esiste una corposa<br />

evidenza di successi di iniziative micro.<br />

Un esempio emblematico, tra i tanti presentati nel prosieguo del libro, è quello del progetto «Ribeira<br />

Azul». L’iniziativa è un cosiddetto progetto di urban upgrading che contempla una riqualificazione urbanistica,<br />

ma anche sociale ed economica, di un’area fortemente depressa. Si può fare urban upgrading semplicemente<br />

costruendo nuove abitazioni funzionali, magari firmate da qualche architetto di grido, per<br />

la popolazione locale. L’esempio dei quartieri popolari di numerose città italiane mostra che da queste<br />

premesse non possono che nascere conseguenze disastrose.<br />

AVSI è partita invece dal presupposto che il valore della persona umana non può essere ridotto nemmeno<br />

dalle condizioni di estremo disagio e povertà come quelle riscontrate nell’area del progetto. La<br />

scommessa principale è stata dunque la valorizzazione di tutte le esperienze esistenti offerte dalla comunità<br />

locale e principalmente dai suoi corpi intermedi, che costituivano un primo tentativo di risposta<br />

ai bisogni esistenti. «Partire dalla realtà» è già di per sé un’azione educativa che testimonia come pro-<br />

56


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

prio le persone più povere e disagiate possono essere protagoniste del cambiamento. È intorno ad esse<br />

che viene costruito il percorso di sviluppo, il che permette di raggiungere una forte efficacia, ma soprattutto<br />

ne garantisce la sostenibilità nel tempo.<br />

L’IDEOLOGIA DELLE POLITICHE ALLO SVILUPPO<br />

Partire dalla persona per definire le politiche di sviluppo permette anche di evitare le derive ideologiche<br />

che spesso caratterizzano le iniziative di aiuto internazionale. Questo aspetto è curioso, dato che la<br />

comunità internazionale è sempre molto attenta (almeno sulla carta) a dare spazio a tutti senza discriminare<br />

alcuno. Prendiamo due esempi eclatanti: ad oggi, nell’Africa sub-sahariana, circa il 50% dei malati<br />

di AIDS è curato dalle cosiddette faith based organisations (organizzazioni confessionali) 2 ; allo stesso<br />

tempo queste organizzazioni sono responsabili per l’erogazione di circa il 50% dell’istruzione primaria<br />

nella stessa regione. Ovviamente le organizzazioni confessionali ricevono scarsissimi aiuti «ufficiali»<br />

da parte di governi o istituzioni internazionali, ma devono raccogliere fondi per le proprie iniziative<br />

tramite donatori privati. Il motivo è evidente: essendo queste organizzazioni confessionali, esse sono<br />

da un certo punto di vista «di parte», e non possono ricevere finanziamenti da istituzioni internazionali<br />

che sono super partes. Queste ultime infatti erogando fondi a una organizzazione cattolica potrebbero<br />

essere accusate di discriminazione nei confronti di organizzazioni di altre confessioni, e preferiscono<br />

implementare iniziative direttamente rivolte ai governi locali.<br />

Proprio per salvaguardare un atteggiamento non discriminatorio i governi e le istituzioni internazionali<br />

finiscono per assumere una posizione ideologica e discriminatoria in cui le persone discriminate<br />

sono proprio i beneficiari delle iniziative di sviluppo che hanno un trattamento sub-ottimale. L’inefficienza<br />

dell’approccio è infatti evidente: come possiamo valutare positivamente gli scarsi progressi nella<br />

lotta all’AIDS e nell’innalzamento del livello di istruzione primaria sapendo che i grandi progetti finanziati<br />

dalle istituzioni internazionali sono indirizzati solo al 50% delle persone bisognose<br />

Partire dalla persona elimina questo circolo vizioso. Non importa se chi cura il malato di AIDS sia un<br />

frate comboniano piuttosto che un missionario protestante. Ciò che importa è che il servizio risponda<br />

effettivamente a un bisogno e che sia erogato in modo adeguato. In questo modo solidarietà e sussidiarietà<br />

concorrono ad accompagnare le persone nel loro percorso di sviluppo.<br />

IL RUOLO DELLO STATO<br />

Anche in questo caso, esattamente come avviene in altri campi dell’economia, l’approccio sussidiario<br />

non riduce il ruolo del governo o delle istituzioni internazionali, anzi ne valorizza il compito. Essi non<br />

sono più infatti direttamente responsabili dell’erogazione del servizio (istruzione, sanità), ma ne divengono<br />

i controllori. Inoltre a loro viene demandato il compito di definire le linee guida in cui inserire le<br />

57


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

singole iniziative affinché il servizio erogato da organizzazioni diverse sia uniforme nel paese (si tratta<br />

di definire e far rispettare i programmi nazionali nel campo dell’istruzione e gli standard sanitari nel<br />

campo sanitario) di modo da dare a tutti un eguale trattamento e pari opportunità.<br />

L’IDEA DELLA TRAPPOLA DELLA POVERTÀ<br />

Se i flussi di aid non producono il beneficio sperato, per quale motivo essi costituiscono ancora il principale<br />

strumento di solidarietà verso i paesi poveri I motivi sono numerosi, alcuni fondati sulla teoria<br />

economica. Infatti le politiche per lo sviluppo basate su massicci afflussi di aiuti non nascono dal caso,<br />

ma hanno un chiaro fondamento teorico. Esiste una vasta letteratura che sottolinea come i paesi possano<br />

rimanere bloccati in una «trappola di povertà» che rende persistente il loro stato. Le cause della<br />

trappola della povertà sono molteplici e vanno dalla crescita della popolazione alla cattiva struttura istituzionale.<br />

Quale che sia la causa, è teoricamente possibile uscire dalla trappola della povertà con una<br />

grossa spinta (il cosiddetto big push) che indrizzi questi paesi verso un equilibrio più virtuoso. Il big push<br />

può ovviamente essere determinato o favorito da un massiccio programma di aiuti.<br />

Nonostante il fatto che teoricamente una soluzione di questo tipo sia realizzabile, in pratica non si conosce<br />

un singolo caso in cui un paese sia riuscito a emergere dalla povertà grazie agli aiuti allo sviluppo.<br />

Recentemente si sono registrati timidi segnali di cambiamento da parte delle principali istituzioni multilaterali,<br />

che hanno riconosciuto l’inefficacia delle politiche di aiuto allo sviluppo tout court.<br />

UN PRIMO CAMBIAMENTO DALL’AID ALL’AID FOR TRADE<br />

Nel mondo globalizzato in cui viviamo non potremmo mai pensare che il commercio internazionale<br />

sia un fenomeno dannoso per lo sviluppo. In effetti una delle più solide determinanti della crescita dei<br />

paesi è proprio costituita dal loro grado di apertura commerciale (misurato dal rapporto tra importazioni<br />

ed esportazioni rispetto al PIL). Tuttavia l’analisi empirica mostra un aspetto molto interessante a<br />

questo proposito: noi osserviamo una correlazione positiva tra apertura commerciale e crescita quando<br />

misuriamo l’apertura come l’esito del processo di scambio (ovvero quanto esportiamo o quanto importiamo).<br />

Se invece misuriamo l’apertura in termini di politiche adottate (misurate dal livello di tariffe<br />

e dazi doganali) la correlazione scompare. In altri termini osserviamo i paesi che commerciano di<br />

più crescere anche di più, ma non necessariamente osserviamo i paesi che liberalizzano gli scambi crescere<br />

di più. Queste semplice evidenza empirica suggerisce che il commercio è un potente motore di<br />

sviluppo ma la liberalizzazione di per sé non è sufficiente, occorre implementare le politiche affinché<br />

i paesi che hanno liberalizzato gli scambi commerciali possano effettivamente commerciare di più. Il<br />

caso dell’Africa sub-sahariana è emblematico: i paesi di quest’area, tra i più poveri al mondo, hanno di<br />

fatto un accesso duty-free (ovvero privo di dazi) nei confronti del mercato europeo e americano, in vir-<br />

58


POVERTÀ, SVILUPPO E DESIDERI<br />

tù di un trattamento di favore che Stati Uniti ed UE offrono ai paesi poveri. Tuttavia, nonostante questo<br />

vantaggio commerciale, questi paesi riescono ad esportare nei nostri mercati ben pochi beni. Possiamo<br />

paragonare il conferimento dell’accesso duty-free ai propri mercati da parte dei paesi ricchi come<br />

una sorta di aiuto allo sviluppo. Che di per sé non è sufficiente. Occorre che nella fattispecie i paesi africani<br />

siano messi nelle condizioni di sfruttare l’opportunità che viene loro concessa dalle preferenze<br />

commerciali. Nel dicembre 2005 alla conferenza interministeriale di Hong Kong è stato istituito un<br />

programma di lavoro sotto la supervisione del WTO chiamato Aid for trade, finalizzato ad orientare i flussi<br />

di aiuti ai paesi poveri verso quelle attività ed iniziative che possano favorire lo sviluppo del commercio<br />

(ad esempio costruzione di porti, della rete dei trasporti ecc.). Questo costituisce un primo tentativo<br />

di finalizzare gli aiuti allo sviluppo verso iniziative che mettano le persone e le istituzioni nelle condizioni<br />

di giocare i propri talenti e le proprie capacità, e, in ultima analisi, la propria libertà.<br />

NOTE<br />

1<br />

Peraltro, come sottolineato dagli altri contributi in questo libro, il capitale umano ha implicazioni<br />

formidabili per lo sviluppo di un paese.<br />

2<br />

Il termine faith based organisation è assolutamente generico e racchiude iniziative di varie confessioni,<br />

anche se, almeno per quanto riguarda il continente africano, sono per la maggioranza cattoliche.<br />

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ESPERIENZE


PRIMA LE DONNE E I BAMBINI


PRIMA LE DONNE E I BAMBINI<br />

Se non ci fossero le donne... qui tutto poggia su di loro. Per chi frequenta<br />

realtà e società del mondo povero è un’esperienza<br />

abituale riconoscere questo dato di fatto: alla precarietà maschile<br />

si oppone la stabilità femminile. Gli uomini lavorano poco<br />

(se lavorano), sono infedeli, fanno la guerra, si abbandonano all’alcol<br />

e alla violenza, fanno figli senza assumersene la responsabilità,<br />

e infine fuggono, con la mente anche se non lo fanno con il<br />

corpo. Tocca alle donne riempire il vuoto lasciato da uomini fragili.<br />

Curando la microeconomia domestica, badando ai figli, garantendo<br />

un ordine nella giornata familiare. Spesso è la genealogia<br />

delle mamme ad assicurare la piattaforma vitale. Nonne e bisnonne<br />

in età ancora attiva vivono circondate da figli e nipoti,<br />

contribuiscono al reddito familiare, cucinano e puliscono, mantengono<br />

i legami con la comunità.<br />

Tutto ciò si acuisce quando scoppiano le crisi: guerra, epidemie,<br />

carestie costringono le donne a un impegno ancora più grande, a<br />

una responsabilità ancora più incessante. Nei campi degli sfollati<br />

acholi del Nord Uganda la situazione più normale vedeva gli uomini<br />

giocare e bere all’ombra degli alberi e le donne e i bambini in<br />

fila davanti alle pompe d’acqua e in coda per gli aiuti alimentari. In<br />

un progetto AVSI sulle mine antiuomo che prevedeva la «tournée»<br />

di una compagnia teatrale dilettante nei campi dei rifugiati per allestire<br />

piccole pièces di vita quotidiana, il momento forte era lo<br />

scontro tra nonna e nonno, sempre risolto a favore della prima: un<br />

uomo dai capelli appena imbiancati ma tanto indolente e poco lucido<br />

per via delle gran bevute veniva coperto di contumelie tra il<br />

finto compatimento dei nipoti. Scena che strappava entusiastici<br />

applausi da parte di tutto il pubblico, femminile, maschile e infantile,<br />

poiché tutti vi si specchiavano.<br />

Nel caso dell’Uganda poi, come si vedrà nelle pagine successive,<br />

occorre parlare di una doppia vulnerabilità delle donne, dovuta al<br />

concatenarsi di guerra al Nord e diffusione dell’AIDS in tutto il<br />

paese. Si possono facilmente immaginare i fattori di questo fenomeno,<br />

con soldati regolari e miliziani della guerriglia come primi<br />

agenti del dilagare dell’epidemia.<br />

Se tante volte la distruzione del tessuto sociale dipende dagli uomini,<br />

la sua tenuta dipende dalle donne; e ciò è ancora più vero<br />

nelle situazioni estreme. Questo fa capire l’importanza dei progetti<br />

centrati sull’aiuto alle donne in una logica che le veda trasformarsi<br />

da oggetti (della violenza, delle malattie, dell’abbandono) in<br />

soggetti (della vita quotidiana, della salute, del benessere dei figli).<br />

È l’esperienza di Novosibirsk, nel cuore del deserto siberiano.<br />

Qui non si parla di Terzo Mondo né di paesi in via di sviluppo, ma<br />

di un mondo apparentemente sviluppato uscito da una catastrofe<br />

ideologica che ha provocato incalcolabili danni culturali e sociali.<br />

Per alcuni anni successivi al crollo del comunismo l’aspettativa di<br />

vita dei russi era addirittura diminuita, il nucleo fondante di ogni<br />

società, la famiglia, era stato sottoposto a decenni di bombardamento<br />

ideologico, al punto che era difficile parlare di «società» in<br />

Russia. Nel terreno della vita comune erano disseminati ordigni<br />

antiuomo, pronti a deflagrare se appena sfiorati, devastando anime<br />

e psicologie così come in Afghanistan le bombe vere, nascoste<br />

tra i campi, distruggono gambe e braccia. La vita ricomincia se<br />

ricominciano i gesti semplici, quelli che nessuno faceva più, a causa<br />

del furore ideologico o dell’inaridimento del cuore: accogliere,<br />

ascoltare, condividere le giornate, prendersi qualche responsabilità,<br />

guardare a chi ti sta vicino, imparare cose antiche e cose nuove.<br />

Una riabilitazione, così come accade dopo un intervento chirurgico<br />

e occorre riaffermare i movimenti e i tempi di reazione.<br />

Una riabilitazione delle madri, per ritrovarsi dentro se stesse e per<br />

65


PRIMA LE DONNE E I BAMBINI<br />

ritrovarle dentro la vita pubblica: donne e ragazze in compagnia<br />

dei propri figli, ma sole nelle responsabilità di costruire con loro<br />

una storia positiva.<br />

La catastrofe si era abbattuta sulla Romania in modo ancor più<br />

grave. Non solo niente famiglia, ma persino niente più madri.<br />

Bambini abbandonati negli istituti e orfani si sono ritrovati figli<br />

dello stato. L’idea di una paternità più alta, priva di sentimenti e di<br />

cedimenti, che avrebbe portato a un uomo nuovo, si è rivelata un<br />

incubo popolato di morte e malattia. È nata anche una formula<br />

per definire la nuova mostruosità: AIDS pediatrico. Cioè l’epidemia<br />

si diffonde non per via sessuale e non per via genetica, ma per<br />

«altre cause». Vaccinazioni con aghi infetti, trasfusioni: il virus arriva<br />

dal camice bianco, da chi ti sta curando, da chi esegue ordini.<br />

Una storia che ha fatto della Romania un caso mondiale. Migliaia<br />

di bambini che innanzitutto dovevano riscoprirsi amati, magari<br />

anche per solo una parte della vita, l’ultima. Dovevano trovare una<br />

casa, una mamma, una famiglia, amici. In questo caso i «progetti»<br />

hanno un carattere del tutto speciale, perché in fondo coincidono<br />

con un elenco di nomi propri, la loro riuscita contempla un fattore<br />

non misurabile: la speranza.<br />

È diverso essere orfani in Romania o in Rwanda ed esserlo altrove,<br />

nel «nostro mondo». Ci sono situazioni capaci di aggravare<br />

terribilmente una condizione che per definizione è di fragilità e<br />

di debolezza. A causa della guerra, della povertà, delle malattie<br />

la vulnerabilità di certi bambini si estende a dismisura. Puoi curare<br />

dalla malaria, ma non basta se l’acqua dei pozzi non è sicura<br />

e se la guerriglia minaccia il villaggio. In certi posti del mondo<br />

occorre affrontare tutto, e tutto insieme; nessun progetto<br />

funziona se occupa soltanto un segmento. È il caso della regione<br />

africana dei Grandi Laghi, che in questi decenni ha conosciuto<br />

ogni tipo di emergenza. Qui occuparsi dei bambini orfani e<br />

vulnerabili significa misurarsi con bisogni che sorpassano le distinzioni<br />

e le definizioni: salute, cibo, sicurezza. Si opera secondo<br />

una misura che è il bambino-persona intera (un tema che riprenderemo<br />

nel prossimo capitolo): una dinamica che porta a<br />

scoperte meravigliose in mezzo a difficoltà enormi.<br />

66


UNA CASA NELLA STEPPA<br />

Viste da Novosibirsk, Mosca e San Pietroburgo sono due<br />

punti lontanissimi, raggiungibili dopo diversi giorni di<br />

Transiberiana, la linea ferroviaria che attraversa la Federazione<br />

Russa da est ad ovest. Novemila chilometri di binari realizzati<br />

in poco più di un ventennio a cavallo tra Otto e Novecento.<br />

A metà strada, tra San Pietroburgo e Vladivostock, si incontra<br />

Novosibirsk. Siamo oltre gli Urali, nel cuore del deserto siberiano,<br />

a 400 chilometri dal confine con il Kazakhstan. Una distanza che<br />

andrebbe percorsa sette volte per raggiungere la capitale. Qualcuno<br />

l’ha soprannominata «Chicago della Siberia», perché in meno<br />

di settant’anni ha raggiunto il milione di abitanti. Oggi, Novosibirsk<br />

ha doppiato quel numero e, secondo tutti i parametri, risulta<br />

la terza città russa dopo le due «capitali».<br />

Grazie alla centralità della sua posizione si trova ad essere un pun-<br />

67


RUSSIA<br />

to nodale per i trasporti della Federazione. Questo fattore<br />

l’ha resa, durante il regime sovietico, una città di<br />

grande importanza scientifica e industriale.<br />

Negli anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino<br />

e il crollo del regime, anche Novosibirsk è stata raggiunta<br />

dall’onda lunga della crisi. Le fabbriche sono fallite o<br />

sono state chiuse e la gente si è trovata tutto d’un tratto<br />

senza soldi e prospettive. Per sopravvivere le persone<br />

sono costrette a svolgere più lavori contemporaneamente.<br />

Tutti piccoli, tutti saltuari. Le case di una volta,<br />

quelle di migliaia di operai, si sono ridotte a fatiscenti casermoni.<br />

Una crisi aggravata dall’inadeguatezza delle strutture assistenziali,<br />

che tuttora non riescono a rispondere ai bisogni<br />

crescenti dei cittadini. Ma il dramma più grande rimane<br />

quello della mancanza di un’idea di famiglia. Dell’amore<br />

per un progetto comune. Un’attenzione alla famiglia<br />

centrale per Chiesa Ortodossa e Chiesa Cattolica,<br />

punto nodale sul quale anche lo stato sta lavorando.<br />

La crisi economica, la mancanza di opportunità lavorative,<br />

la fragilità dei legami tra le persone hanno favorito<br />

la creazione di un cortocircuito che ha nella disgregazione<br />

familiare il risultato principale. «Fate figli – si diceva<br />

in Russia come in tutti i paesi dell’Est – la Nazione se ne<br />

occuperà!» Ma non è stato così. Oggi, a distanza di anni<br />

dal crollo sovietico, la situazione è cambiata in meglio,<br />

ma i problemi sono rimasti e difficilmente saranno risolvibili<br />

nell’immediato. La sanità e molti servizi sono ancora<br />

fragili. Il liberismo ha spazzato via il comunismo,<br />

favorendo in realtà un consumismo sfrenato dove l’uomo<br />

è ridotto a merce di scambio a basso costo. Nulla di<br />

più. Ecco le ragioni che hanno portato e portano molte<br />

donne, abbandonate dal compagno e dalle famiglie, ad<br />

interrompere la gravidanza o a lasciare il bambino in orfanotrofio.<br />

Nel 2001 sorge a Novosibirsk – con il partner locale Mak-<br />

68


UNA CASA NELLA STEPPA<br />

69


RUSSIA<br />

sora – la Casa di accoglienza Golubka. Golubka vuol dire colomba.<br />

Forse a testimoniare – come quella del racconto biblico – la vicinanza<br />

di una terra cui approdare. Testimonianza di una vita che<br />

rinasce.<br />

Rosalba Armando è la responsabile di AVSI in Siberia. È arrivata<br />

negli anni Novanta: «Non capivo e non conoscevo la lingua. Ero<br />

disperata!». Poi la telefonata dall’Italia. Gli amici di AVSI volevano<br />

aiutarla e rispondere alle domande che quelle ragazze le ponevano.<br />

Donne giovanissime. Con un passato drammatico e un marchio<br />

che la società difficilmente perdona e dimentica. Ma nonostante<br />

tutto protagoniste di un cambiamento visibile, perché<br />

sinceramente amate e accolte.<br />

«Casa Golubka – spiega Rosalba – è nata per curare questa ferita.<br />

Per combattere contro l’abbandono dell’essere umano, in modo<br />

semplice e concreto.» Con lei lavorano una decina di persone e sono<br />

48 le madri che Casa Golubka ha ospitato dal 2001.<br />

Karina è una di queste. Aveva sedici anni quando ha scoperto di<br />

essere incinta. Non voleva abortire e l’orfanotrofio dov’era cresciuta<br />

l’ha espulsa. Arriva a Casa Golubka senza neppure aver terminato<br />

la scuola dell’obbligo e pochi mesi più tardi nasce suo figlio.<br />

Maksora le ha permesso di iscriversi a una scuola professionale<br />

e di trovare lavoro. È una delle tante storie che si conoscono<br />

visitando la casa di accoglienza. Un appartamento all’interno di<br />

un condominio in cui le mamme hanno una loro camera privata.<br />

Ci accompagna Vladimir, l’amministratore sociale della casa. Si<br />

occupa di rimettere in ordine i documenti delle «donne di Maksora»,<br />

permettendo loro di usufruire dei servizi sociali gratuiti. Arriviamo<br />

verso sera. Nadja è una delle mamme ospiti della Casa. Sta<br />

stirando un vestitino rosa. Quello della figlia che però – ci avvisa<br />

– «sta dormendo». Non dobbiamo fare rumore.<br />

Le donne si occupano quotidianamente dei lavori domestici. Hanno<br />

dei turni. Qualcuno pulisce e mette ordine le stanze, qualcuno<br />

cucina. Una serie di attività utili a sensibilizzare il livello di responsabilità<br />

di queste giovani madri.<br />

Ma il progetto italo-russo non si ferma con l’accoglienza. Le donne<br />

non sono abbandonate una volta divenute madri. Le si aiuta a<br />

trovare lavoro, ad essere indipendenti e a trovare una casa. Tante<br />

sono diventate brave sarte, altre parrucchiere. E quando serve si interviene<br />

economicamente attraverso il sostegno a distanza di AVSI.<br />

Asel è arrivata dal Kazakhstan per studiare a Novosibirsk. Rimasta<br />

incinta e cacciata dalla scuola, povera, senza un soldo e nemmeno<br />

cittadina russa, non avrebbe potuto partorire il suo bambino.<br />

Un’assistenza invece la trova grazie al lavoro di Vladimir. Ottiene<br />

la cittadinanza e con questa la possibilità di partorire gratuitamente.<br />

Casa Golubka l’ha accolta, le ha insegnato un lavoro e<br />

grazie al sostegno a distanza di AVSI una famiglia italiana le permette<br />

di mantenere il bambino.<br />

L’equipe di Rosalba è composta da diversi tecnici, tutti molto giovani.<br />

Anastasia è la psicologa e pedagoga del gruppo. Quella che<br />

insegna alle mamme come prendersi cura dei propri figli. Ma è anche<br />

responsabile della casa e controlla che i vari compiti siano assolti.<br />

Zhenia è la «cuoca», l’esperta di cucina e alimentazione che<br />

ogni due, tre giorni a settimana insegna alle neo-mamme come cucinare<br />

correttamente. Un medico segue costantemente la salute<br />

dei bambini e tre assistenti si occupano a turno delle donne con le<br />

doglie e di quelle che hanno appena partorito.<br />

Da anni Maksora collabora in stretto contatto con i servizi sociali<br />

di Novosibirsk, per i quali Casa Golubka è un modello da favorire<br />

e replicare. E proprio per questo, recentemente, hanno dato<br />

la propria disponibilità a fornire un appartamento più spazioso<br />

capace di accogliere un numero maggiore di mamme. Il più delle<br />

volte, poi, sono gli stessi servizi sociali a segnalare le ragazze madri<br />

in difficoltà che per vari motivi necessitano di un luogo che le<br />

accolga e le aiuti. Le alternative sono l’aborto o l’abbandono del<br />

bambino.<br />

Non c’è una regola per lasciare la casa. Il momento viene definito<br />

individualmente. Ogni donna ha i suoi tempi.<br />

Iemilija è nata in un villaggio del nord siberiano. Un posto in cui<br />

la temperatura scende tutti gli inverni a 40 gradi sottozero. La madre<br />

e il padre, alcolizzati, l’hanno lasciata in orfanotrofio. A 16 anni<br />

esce dall’istituto. È incinta e cerca un appartamento. Il padre del<br />

bambino, però, l’abbandona.<br />

70


UNA CASA NELLA STEPPA<br />

La svolta coincide con il suo arrivo a Casa Golubka. Il bambino<br />

nasce, la mamma trova un lavoro e anche una nuova casa. Il figlio<br />

viene inserito in uno degli asili statali con cui collabora in<br />

città Casa Golubka, sostenuto a distanza da AVSI. Ma la storia di<br />

Iemilija non finisce qui. Incontra un ragazzo, semplice e onesto,<br />

con il quale decide di sposarsi. La sua festa di nozze A Casa Golubka,<br />

naturalmente. Nuovamente tra gli amici che non ha più<br />

abbandonato.<br />

71


QUELL’INVITO ANDATO A VUOTO<br />

La chiamavano slim disease, malattia del dimagrimento, per la<br />

sistematicità con cui provocava ingenti perdite di peso. Solo<br />

negli anni Ottanta si capì che era una nuova malattia e<br />

che al momento non c’era alcuna cura. Era l’AIDS, la Sindrome da<br />

Immunodeficienza Acquisita. Il morbo presto si trasformerà nella<br />

più rapida pandemia mondiale, raggiungendo ogni angolo della<br />

terra in meno di un decennio.<br />

Sono 25 milioni i morti dal 1981 e 33,2 milioni – stando al rapporto<br />

UNAIDS del 2007 – i sieropositivi nel mondo. Ogni anno cinque<br />

milioni di persone contraggono il virus e l’Africa subsahariana,<br />

con il 90% dei casi di AIDS, è la regione più colpita.<br />

«L’epidemia si è diffusa con una serie di ondate distruttive – spiega<br />

Filippo Ciantia, medico in Uganda da 25 anni e rappresentante<br />

di AVSI nel paese –. La prima onda anomala è data dal vastissimo<br />

numero di persone raggiunte dal virus. Una sciagura che ha<br />

causato enormi difficoltà nelle famiglie, chiamate ad avere cura<br />

dei malati, spaventate e provate dalla sofferenza. Poi l’ondata delle<br />

innumerevoli morti e quella di milioni di orfani dell’AIDS. Ora il<br />

difficilissimo compito di aumentare i servizi a milioni di persone<br />

malate, garantendo loro l’accesso alla terapia antiretrovirale. Solo<br />

un malato su dieci in Africa e uno su sette in Asia riceve realmente<br />

la terapia.»<br />

Dal 1986 ad oggi la malattia, che ha colpito pesantemente l’Uganda,<br />

ha provocato oltre 900.000 morti infettando 2 milioni di persone.<br />

L’Uganda, però, viene spesso citata come success story nella lotta contro<br />

l’AIDS, avendo ridotto la prevalenza del virus HIV da circa il 21%<br />

della popolazione verso la fine degli anni Ottanta al 6,4% di oggi.<br />

Infatti, mentre in molti paesi africani la diffusione dell’epidemia veniva<br />

tenuta nascosta, arrivando in modo paradossale a negarne l’esistenza,<br />

lo stato ugandese ha affrontato diversamente il problema.<br />

«Si tratta di una malattia fatale, che potrebbe devastare il nostro<br />

paese – dicevano voci di governo –. Ma la malattia può essere prevenuta.<br />

I malati possono essere accuditi, possono continuare a vivere<br />

e poi morire con dignità.» Una peculiarità rintracciabile anche<br />

nelle parole pronunciate dal Presidente dello stato africano, Yoweri<br />

Museveni, durante la conferenza internazionale sull’AIDS di Firenze:<br />

«Ho sempre sottolineato la necessità di tornare alle nostre<br />

tradizioni culturali provate dal tempo, che enfatizzano la fedeltà e<br />

denunciano i rapporti prima e fuori dal matrimonio. Credo che la<br />

miglior risposta alla minaccia posta dall’AIDS e dalle altre malattie<br />

trasmesse per via sessuale sia riaffermare pubblicamente e senza<br />

esitazioni il rispetto e la venerazione che ogni persona deve al suo<br />

prossimo. I giovani devono essere educati alle virtù dell’astinenza,<br />

del sacrificio, dell’autodisciplina e della rinuncia al piacere.»<br />

Era il 1991. Da allora ha iniziato a svilupparsi la ABC strategy. Una<br />

strategia fondata sulla prevenzione dell’infezione attraverso un<br />

cambiamento delle abitudini sessuali delle persone, alle quali era<br />

consigliato di astenersi dai rapporti (Abstinence), di essere fedeli al<br />

proprio partner (Being faithful) oppure – in casi particolari e per<br />

certe categorie di persone – di usare correttamente il profilattico<br />

(Condom use). In vent’anni di applicazione del metodo ABC l’incidenza<br />

della malattia nel paese si è dimezzata.<br />

Dunque, lo stato sembrava aver capito che la migliore strategia contro<br />

l’AIDS è «culturale», ma c’è un altro pilastro che insieme alla risposta<br />

governativa ha permesso di ottenere risultati significativi: il<br />

fattore comunitario. Una serie numerosissima di organizzazioni<br />

che si sono fatte carico della responsabilità di sostenere la rete di solidarietà<br />

della famiglia estesa, accudendo malati, prendendosi cura<br />

degli orfani e indirizzando l’educazione delle giovani generazioni.<br />

Un contributo fondamentale senza il quale non sarebbe stato<br />

possibile combattere il primo grande dramma che la malattia portava<br />

con sé: il marchio dell’AIDS e la conseguente emarginazione.<br />

73


UGANDA<br />

All’inizio degli anni Novanta, quando la malattia aveva cominciato<br />

la sua espansione, questo stigma era una barriera invalicabile.<br />

L’ignoranza e la paura portavano a credere che una stretta di mano<br />

o la condivisione dello stesso piatto, la puntura di una zanzara<br />

o una semplice conversazione potessero essere vie di contagio. I<br />

parenti malati venivano nascosti dai propri familiari e lasciati morire<br />

in condizioni di totale abbandono. Una situazione che non riuscirono<br />

a migliorare neanche i diversi tentativi di sensibilizzazione<br />

volti a spiegare le modalità reali di trasmissione del contagio.<br />

Sono tante le organizzazioni che si sono fatte carico di questa responsabilità.<br />

Tante come le persone che hanno cercato di rompere<br />

questo muro. È il caso di Noerine Kaleeba, fondatrice dell’organizzazione<br />

TASO (The AIDS Support Organization), una delle prime<br />

realtà comunitarie a combattere l’AIDS, e di Elly Ongee, fondatore<br />

del Meeting Point di Kitgum. Storie di speranza fiorite nella più<br />

cupa desolazione.<br />

74


QUELL’INVITO ANDATO A VUOTO<br />

Elly era malato di AIDS. È Irene, sua moglie morta dopo pochi mesi,<br />

a presentargli padre Alfonso Poppi, missionario di Modena nel<br />

paese, e con lui alcuni volontari di AVSI. Un incontro che ha vinto<br />

la malattia riportando la speranza nelle loro vite.<br />

Era il luglio del 1990. Tutto inizia con un volantino appeso sulla parete<br />

di una piccola stanza nell’ospedale pediatrico di Kitgum. Un volantino<br />

che terminava con le firme del prete modenese, di Elly Ongee,<br />

di George William, studente ugandese di medicina, e di tre italiani<br />

di AVSI. Una storia che nessuno si immaginava e che nel giro di<br />

qualche anno ha visto il Meeting Point di questa città occuparsi di<br />

2000 pazienti sieropositivi, ma anche di 500 orfani dell’AIDS.<br />

C’era scritto che un gruppo di amici colpiti dalla malattia direttamente<br />

o indirettamente aveva deciso di incontrasi. Che quell’amicizia<br />

li aveva aiutati ad affrontare il dramma dell’AIDS e a scoprire<br />

al suo interno una libertà e una gioia mai provate prima. Era un invito<br />

per tutti: ammalati e non. «Se vuoi puoi incontrarci al ‘Meeting<br />

Point’ ogni venerdì pomeriggio nella nuova ala dell’ospedale<br />

governativo di Kitgum. Firmato: Alfonso, Elly, George...»<br />

Un invito che inizialmente nessuno accoglie. La paura di essere<br />

contagiati era molto forte, ce lo conferma padre Poppi. «Quando<br />

portavo Elly sul motorino per le strade della città gli occhi di tutti<br />

non erano rivolti al ‘pallido bianco’ che guidava, ma allo ‘scheletro’<br />

che trasportava sul sellino. Elly spesso mi chiedeva se la gente<br />

lo odiasse. Gli rispondevo che il problema era la morte: le persone<br />

davanti a lei sono vuote. Non hanno niente da offrire perché<br />

non hanno nessuna spiegazione, nessuna risposta.»<br />

Oggi Meeting Point è partner di AVSI in Uganda e insieme collaborano<br />

a molti progetti di cura e prevenzione dell’AIDS. Un’esperienza<br />

d’amore più contagiosa del virus. E in breve tempo anche<br />

Kampala e Hoima – altre due città del paese – hanno avuto il loro<br />

Meeting Point.<br />

«Quando Rose Akumu, la mia giovane segretaria, risultò sieropositiva<br />

– spiega Filippo Ciantia – volle partecipare a un incontro nel<br />

quale Elly Ongee offriva la sua coraggiosa testimonianza. Quella<br />

di un modo di affrontare l’AIDS pieno di significato, tentando di<br />

trasmettere ad altri la convinzione che la vita potesse avere senso<br />

ed essere positiva, nonostante la malattia mortale che lo aveva colpito.»<br />

Rose decise di dedicare il suo tempo libero all’aiuto delle<br />

persone affette e infettate dal virus. Così l’ufficio di AVSI si trasforma<br />

nelle ore di pausa in luogo d’incontro con decine di persone.<br />

Akumu muore nel maggio del 1992 dopo una lunga lotta con la<br />

malattia. Nello stesso anno, in ottobre, è un’altra Rose a raccogliere<br />

il testimone. Con Rose Busingye, giovane infermiera all’ospedale<br />

Nsambya, nasce il Meeting Point di Kampala, oggi una delle<br />

più note organizzazioni della città e della sua periferia.<br />

«Un paziente mi chiese di seguirlo fino a casa – racconta Rose –.<br />

Quello che vidi fra le foglie piangenti era uno spettacolo squallido.<br />

Persone ammassate in piccole case di fango, servizi igienici completamente<br />

assenti. Bambini che giocavano in mezzo alla spazzatura<br />

e gente che moriva.» A pochi metri dalle case una strada portava<br />

alla cava. Qui donne e bambini passavano intere giornate sotto<br />

il sole cocente a spaccare pietre da rivendere ai costruttori.<br />

«Negli occhi di quelle donne vedevo il mio sguardo di qualche<br />

anno prima, alla ricerca di qualcosa che mi rendesse felice, ma<br />

che mi sfuggiva. L’incontro con un prete italiano mi cambiò la<br />

vita. Per la prima volta mi sentii guardata e amata solo per il fatto<br />

di esistere con tutte le debolezze e i difetti che mi portavo<br />

dietro. Volevo che anche loro potessero essere guardate così.»<br />

Oggi l’Acholi Quarter dove abitano le «donne di Rose» non è più<br />

squallido come allora. Molte case sono di mattoni, non c’è più il<br />

colera e le donne ogni giorno puliscono il quartiere.<br />

Sono circa 500. Tutte malate di AIDS. Il Meeting Point International<br />

offre corsi di alfabetizzazione, corsi d’igiene e di salute. Ma anche<br />

lezioni per imparare a cucire, a «fare la maglia» e a ricamare.<br />

Distribuisce cibo e favorisce prestiti per le attività lavorative. Molte<br />

di queste donne hanno cominciato il trattamento antiretrovirale,<br />

aiutandosi a vicenda a prendere le medicine. Se una di queste<br />

muore, i figli vengono presi in casa da un’altra. «Io vivo perché<br />

qualcuno mi ha voluto bene. Adesso anche io voglio voler bene»,<br />

dicono a Rose le sue «pazienti».<br />

È con partner come Meeting Point che AVSI ha affrontato la sfida<br />

dell’AIDS secondo un approccio olistico. Il virus rappresenta in<br />

75


UGANDA<br />

molti casi un «entry point» per un supporto integrato al malato, alla<br />

sua famiglia e alla comunità. Con questo metodo si svolgono da<br />

anni le attività di AVSI nel campo della prevenzione, dell’assistenza<br />

e della cura delle persone.<br />

Attraverso i propri partner AVSI porta aiuto ai casi più isolati e trascurati.<br />

L’assistenza a domicilio dei malati, infatti, è stata la prima<br />

risposta. Una risposta che ha coinvolto immediatamente anche i<br />

figli di queste persone: gli orfani lasciati da parenti o amici. Sono<br />

2,4 milioni questi bambini; una famiglia su quattro vive con un orfano<br />

in casa, e la metà a causa dell’AIDS. Settemila di questi hanno<br />

potuto o possono frequentare le scuole grazie al progetto di sostegno<br />

a distanza che AVSI, insieme a Meeting Point e ad altre organizzazioni,<br />

ha realizzato.<br />

In Uganda ogni anno 77.000 donne sieropositive danno alla luce<br />

bambini. In un paese colpito da un virus che si propaga per l’80%<br />

tramite rapporti sessuali e per il 15% con trasmissione maternofetale,<br />

prevenire significa soprattutto lavorare con le donne. Come<br />

spiega Luciana Bassani, medico AVSI in Uganda da un venten-<br />

76


QUELL’INVITO ANDATO A VUOTO<br />

nio: «La scoperta che la Nevirapina riduce il rischio di trasmissione<br />

del virus HIV del 70% se somministrata alla donna durante le<br />

doglie e al neonato entro 72 ore dalla nascita, ha spinto nel 2000<br />

il Ministero della Salute ugandese a lanciare il programma Prevention<br />

of Mother To Child Transmission in quattro ospedali». Programma<br />

esteso a tutto il paese due anni più tardi. Un’applicazione a largo<br />

raggio virtuale dato che solo il 30% dei servizi prenatali offre<br />

tale programma. Nel 2002, con il sostegno in termini di personale,<br />

medicine, strumenti e alimenti, AVSI inaugura il programma in<br />

due ospedali di Kitgum, in quello di Kolongo e Hoima nel distretto<br />

di Pader e in 30 nuclei sanitari specifici.<br />

I numeri sono sorprendenti: nei centri seguiti da AVSI 38.000 donne<br />

incinte ricevono servizi prenatali, il 99% è stato raggiunto da<br />

messaggi di prevenzione e il 95% si sottopone al test. Per queste<br />

donne – conclude Luciana – sottoporsi al PMTCT coincide con<br />

l’entrare a far parte della famiglia di AVSI: «La scoperta della propria<br />

sieropositività da parte di una madre non coincide più necessariamente<br />

con l’inizio della fine».<br />

77


UGANDA<br />

78


QUELL’INVITO ANDATO A VUOTO<br />

79


GLI OSPEDALI DELL’ORRORE<br />

Aportare AVSI in Romania è l’incontro «casuale» con un prete<br />

ortodosso. Siamo nella primavera del Novanta, qualche<br />

mese dopo la caduta di Ceausescu, il padre-padrone comunista<br />

che per 24 anni aveva retto con pugno di ferro, in un’atmosfera<br />

paranoica, il paese.<br />

L’incontro con padre Pop e la sua richiesta d’aiuto costituiscono i<br />

primi passi di questa storia. Una storia di cooperazione nella cooperazione<br />

che vede il lavoro di AVSI intrecciarsi con quello di altre<br />

organizzazioni non governative in progetti di sostegno allo<br />

sviluppo per l’ex repubblica socialista.<br />

Tra il 1991 e il 1995 sono più di mille i bambini che hanno passato<br />

le loro vacanze in Italia grazie all’ospitalità dell’associazione Fa-<br />

81


ROMANIA<br />

miglie per l’Accoglienza. Una novantina gli adulti. La miseria<br />

che traspariva dai racconti di quei ragazzi, la familiarità con la<br />

Romania e l’idea del giornalista Mino Damato di realizzare un<br />

padiglione per bambini sieropositivi nell’ospedale Victor Babes<br />

di Bucarest spingono alcune persone di queste famiglie legate ad<br />

AVSI a interessarsi della proposta lanciata durante una trasmissione<br />

televisiva.<br />

Il reparto viene realizzato in pochissimo tempo. Petru Calistu –<br />

allora direttore dell’Ospedale – si ricorda benissimo<br />

com’è andata. «I lavori per la ristrutturazione sono iniziati<br />

il 2 maggio del 1995 e sono terminati nel dicembre<br />

dello stesso anno. Ero stupito dalla velocità dell’intervento,<br />

ma soprattutto dalla passione per l’uomo<br />

che muoveva l’organizzazione italiana.»<br />

A questo intervento, finanziato con donazioni private<br />

italiane, tra cui Barilla, Moschino e l’ospedale Bambin<br />

Gesù di Roma, AVSI, con il contributo dell’Unione Europea<br />

e della Regione Lombardia, ha fatto seguire altri<br />

progetti come quello della formazione del personale<br />

medico e paramedico, amministrativo e di volontari operanti<br />

al Victor Babes e in altri ospedali della capitale.<br />

L’efficienza di queste costruzioni e di questi progetti si<br />

scontra subito con una terribile scoperta, quella dei bambini<br />

rinchiusi negli ospedali e negli istituti: la tragedia<br />

dell’AIDS pediatrico.<br />

Qui fra il dicembre 1985 e lo stesso mese del 2003 i casi<br />

di AIDS sono stati 14.387. 11.153 bambini, solo 3.234<br />

gli adulti (dati attualizzati al 31 dicembre 2007: 15.085 i<br />

casi, di cui 9.737 bambini e 5.348 adulti; fonte: univ.<br />

cnlas.ro, Commissione Nazionale Anti SIDA).<br />

La Romania è il paese in cui i casi di HIV o AIDS dovuti a<br />

trasmissione orizzontale non sessuale rappresentano<br />

ancora oggi, 25 anni dopo l’inizio della pandemia, la<br />

maggior parte dei casi registrati. È l’unico paese al mondo<br />

dove il numero di bambini morti a causa di AIDS supera<br />

quello degli adulti e la maggioranza assoluta degli<br />

infettati in vita è costituita da adolescenti tra i 15 e i 19<br />

anni. Il 60,1% del totale.<br />

Un dato allarmante che non trova cause in trasmissioni di tipo<br />

sessuale né materno-fetale – meno di 500 sono stati i casi di questo<br />

tipo in 18 anni –, ma nell’abbandono e nell’incuria del sistema<br />

sanitario nazionale durante gli ultimi anni, quelli fra il 1984 e<br />

il 1988, del regime di Ceausescu.<br />

Insomma, verso la fine degli anni Ottanta le strutture sanitarie<br />

82


GLI OSPEDALI DELL’ORRORE<br />

della Romania, incluse quelle interne alle scuole e agli<br />

orfanotrofi, da presidi della salute si sono trasformate<br />

velocemente nel loro contrario. Un’iniezione, una vaccinazione,<br />

una trasfusione di sangue, una microtrasfusione<br />

per trattare una immaturità alla nascita o per «rinforzare<br />

la debole costituzione fisica del bambino» sono divenute<br />

un «biglietto per l’inferno» a causa di aghi contaminati<br />

o di prodotti ematici importati dal Sud del mondo<br />

sui quali non si era effettuato il test anti-HIV.<br />

Lo raccontano le statistiche del Ministero della Sanità<br />

rumeno. Nel 1990 sono stati 1.123 i nuovi casi riscontrati<br />

di AIDS pediatrico. 589 attribuiti a «trasmissione nosocomiale»,<br />

vale a dire durante un’ospedalizzazione, 361<br />

legati a «trasfusione o ad assunzione di prodotti ematici»<br />

e 129 di «causa sconosciuta», ma non riferibile alla<br />

trasmissione materno-fetale.<br />

L’AIDS, quarta causa di morte al mondo, si è diffuso sempre<br />

più rapidamente in questi ultimi anni soprattutto<br />

nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica e nell’Europa<br />

dell’Est.<br />

Secondo il rapporto 2006 dell’UNAIDS – il programma<br />

delle Nazioni Unite per la lotta contro l’epidemia –, in<br />

quest’area, dove l’infezione interessa già 1,6 milioni di<br />

persone, il tasso di crescita dei nuovi casi è il più alto al<br />

mondo, con l’80% dei sieropositivi al di sotto dei 25 anni.<br />

In seguito a questo allarme il governo russo – insieme a<br />

Fondo Globale MTA (Malaria, TBC, AIDS), UNAIDS, Banca<br />

Mondiale e ambasciata di Francia in Russia – ha organizzato<br />

a Mosca nel maggio 2006 la prima conferenza<br />

internazionale sull’HIV/AIDS per l’Est Europa e l’Asia Centrale.<br />

Per Fundatia – partner rumena di AVSI – a raccontare la decennale<br />

esperienza di sostegno ai bambini malati e abbandonati in<br />

istituti c’era Calin Pop.<br />

Un filo rosso lega le vicende di AVSI a Novosibirsk con quelle di<br />

Bucarest in Romania, come di tanti altri centri dell’Est. Quello<br />

della deistituzionalizzazione seguita, con la spinta dell’Occidente,<br />

al crollo dei regimi sovietici. Ma anche quello di famiglie costrette<br />

dalla povertà ad abbandonare i propri figli in orfanotrofi e istituti<br />

che con la caduta del muro hanno assistito alla fine dei propri<br />

finanziamenti e dei mezzi di sussistenza.<br />

Una storia che si ripete e che vede AVSI in prima linea insieme a diversi<br />

partner locali. È il caso di Maksora e di Casa Golubka in Russia,<br />

ma anche quello di Sotas – l’ONG che collabora con AVSI – in<br />

Lituania.<br />

83


ROMANIA<br />

Fundatia Dezvoltarea Popoarelor nasce nel 1996. Conta cinquanta<br />

dipendenti e progetti per un budget annuo di oltre un milione di euro.<br />

In 10 anni di attività 1900 bambini e 1300 famiglie hanno beneficiato<br />

degli interventi, sono stati realizzati sette servizi sociali accreditati<br />

o riconosciuti dallo stato e sono stati aperti, oltre alla sede<br />

centrale di Bucarest, tre filiali di Fundatia a Cluj, Arad e Cojasca.<br />

L’avventura nell’ospedale della capitale è solo la prima. In poco<br />

tempo si viene a conoscenza di un’ulteriore realtà drammatica.<br />

Quella di un centinaio di bambini sieropositivi abbandonati in un<br />

ospedale a venti chilometri da Bucarest, l’ospedale per distrofici Vidra.<br />

Una struttura fatiscente in cui personale sottopagato e senza<br />

nessuna competenza deve prendersi cura dei bambini.<br />

Nel 1998, in collaborazione con UNICEF, AVSI e Fundatia danno vita<br />

a un nuovo progetto finalizzato al sostegno di famiglie con il problema<br />

AIDS pediatrico a rischio abbandono. Contemporaneamente<br />

avviano la ricerca della famiglie d’origine di molti ragazzi dimenticati<br />

negli ospedali. È un’impresa ardua, bisogna affrontare la diffidenza<br />

degli operatori ospedalieri e la mancanza dei dati anagrafici<br />

utili per risalire ai genitori.<br />

Poche famiglie vengono rintracciate, il più delle volte con storie<br />

drammatiche di povertà e desolazione. Ma anche storie di «bugie di<br />

stato»: figli dichiarati morti e rapiti dal regime, come nel caso che ci<br />

racconta la madre di una ragazza. «Una volta nata mia figlia era stata<br />

trattenuta in ospedale perché prematura… ero tornata a casa e in<br />

ospedale mi avevano detto che mi avrebbero avvisata quando la situazione<br />

sarebbe migliorata. Dopo un mese sono tornata a chiedere<br />

informazioni e mi hanno fatto capire che mia figlia non era sopravvissuta.<br />

Da allora non ho saputo più nulla.»<br />

Dopo nove anni Giovanna – è il nome che le abbiamo dato – ha potuto<br />

riabbracciare per la prima volta la madre. Ma le storie a lieto fine<br />

sono pochissime: una su cento. Tra il 2001 e il 2002 vengono<br />

aperte attorno a Bucarest tre case d’accoglienza: Casa Emilia, Casa<br />

Joy e Casa Edimar.<br />

L’attività di Fundatia e AVSI non termina qui. C’è la collaborazione<br />

con la Regione Lombardia ad Arad finalizzata alla prevenzione dell’abbandono<br />

di minori in orfanotrofi e il grande impegno con la comunità<br />

rom del villaggio di Iazu, a 45 chilometri da Bucarest. Un<br />

impegno nato dal lavoro negli ospedali con i bambini sieropositivi<br />

che ha permesso di conoscere le storie e i figli malati della comunità<br />

rom. «Avevamo incontrato alcune famiglie che andavano periodicamente<br />

in ospedale – ricorda Calin Pop – per far curare i loro figli<br />

sieropositivi. Come gli altri, anche questi erano malati, ma la cosa<br />

che ci stupì fu che i loro genitori non li avevano abbandonati.»<br />

Storie lontane dalle cronache rumene dei nostri giornali. «Uno di<br />

questi bambini, dopo pochi mesi dal nostro incontro in ospedale,<br />

torna a casa e muore. Muore in casa, accompagnato, accudito e voluto<br />

fino all’ultimo istante della sua breve vita dalla madre.» Gli operatori<br />

di Fundatia vanno a trovare la donna e per la prima volta entrano<br />

nel villaggio rom. Un luogo poverissimo dove non esiste<br />

asfalto sulle strade. Non ci sono automobili, ma carri trainati da cavalli,<br />

le case non hanno i servizi, per l’acqua bisogna andare al pozzo<br />

e per l’elettricità ci si attacca informalmente al palo della luce più<br />

vicino. Una comunità molto coesa che non concepisce l’abbandono<br />

e l’emarginazione a causa della malattia.<br />

Fundatia decide di aiutare queste famiglie. Risale al 2000 il progetto<br />

di sostegno a distanza finalizzato all’educazione dei bambini in<br />

età scolare e prescolare grazie al partenariato con l’ONG spagnola<br />

CESAL. Si costruisce una scuola materna con mensa scolastica in<br />

grado di accogliere 150 alunni e se ne ristruttura una elementare con<br />

il contributo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Viene organizzata<br />

e curata la formazione degli insegnanti, si coinvolgono i genitori<br />

nella crescita dei figli con attività extrascolastiche e sportive e<br />

insieme si promuovono corsi d’igiene e salute. Nello stesso tempo<br />

a scuola viene avviato un ambulatorio medico, si realizzano laboratori<br />

professionali e, in collaborazione con il Comune di Milano, i ragazzi<br />

più meritevoli vengono sostenuti da borse di studio per scuole<br />

superiori e stage aziendali.<br />

«Dieci anni fa non c’era nulla – conclude Pop – solo un gruppo di<br />

persone che cominciava a sperimentare l’amicizia, malgrado situazioni<br />

difficili senza risposte adeguate. Tutte queste opere oggi<br />

non sarebbero potute crescere senza la fede, il coraggio e l’entusiasmo.»<br />

86


NELLA TERRA DELLE EMERGENZE<br />

«<br />

Avevo nove anni quando i ribelli mi hanno catturato. Stavo<br />

ritornando a casa da scuola. Mi hanno fatto marciare fino<br />

in Sudan, nei campi di addestramento. Per strada mancava<br />

l’acqua. Molti bambini sono morti.»<br />

Odung Sunday ha 22 anni e 7 li ha passati con la guerriglia del<br />

Nord Uganda. La sua storia è come quella di Charles e di tanti altri<br />

bambini. «Ci hanno rapito e dicevano che ci avrebbero ucciso<br />

con i ‘panga-panga’ se fossimo fuggiti. Poi un giorno mi hanno<br />

chiesto di uccidere un mio amico come esempio per chiunque<br />

avesse tentato di scappare. Mi hanno detto che se mi fossi rifiutato<br />

mi avrebbero ucciso. Ho dovuto prendere il bastone e ammazzare<br />

il mio amico e poi altre persone.»<br />

89


PROGETTO OVC<br />

Siamo nel cuore dell’Africa, nella regione dei Grandi Laghi.<br />

Dal 1986 i guerriglieri della Lord’s Resistance Army<br />

(LRA), capeggiati dal famigerato Joseph Kony, combattono<br />

una guerra civile contro il governo ugandese.<br />

I villaggi del Nord, quelli al confine con il Sudan, primo<br />

sostenitore della guerriglia, sono vuoti. Il 95% della popolazione<br />

dell’area ha lasciato il proprio villaggio dopo un attacco<br />

o un assedio. Solo negli ultimi tempi, dopo vent’anni<br />

di saccheggi, rapimenti e un numero di morti che supera<br />

le 20.000 unità, la situazione ha accennato a mutare.<br />

La presenza di AVSI risale alla fine degli anni Ottanta,<br />

qualche anno dopo la scoperta di un nuovo terribile virus:<br />

l’AIDS.<br />

L’Uganda è il primo paese al mondo per la percentuale di<br />

abitanti tra gli 0 e i 14 anni (49,4%), un dato che condiziona<br />

l’età media della popolazione (15,3 anni) e il numero di<br />

ragazzi iscritti alle scuole elementari (quindicesimo paese<br />

al mondo). 77 bambini ogni mille abitanti non superano<br />

l’infanzia: tubercolosi e AIDS sono ancora molto diffusi.<br />

Gli orfani sono una vera e propria emergenza: orfani dell’AIDS,<br />

ma anche orfani come Charles. Orfani di guerra, rapiti,<br />

sequestrati e costretti ad uccidere.<br />

Odung è stato ferito e arrestato in un’imboscata del governo.<br />

Gli hanno amputato una gamba, quella sinistra, e<br />

con l’amnistia ha guadagnato la libertà. Cammina grazie<br />

alla protesi che gli hanno messo nel laboratorio ortopedico<br />

nel Nord dell’Uganda, quello di Gulu, sostenuto da<br />

AVSI. Ora sta meglio. Ha imparato a fare il sarto e con il<br />

microcredito ha aperto un negozio nella città dove vive<br />

con la famiglia. Ha due figli e può pagare loro la scuola<br />

grazie al contributo di AVSI.<br />

Sono più di un milione gli orfani in questo stato. Per aiutarli<br />

AVSI crea all’inizio degli anni Novanta il sostegno a<br />

distanza. Un progetto che fino al 2005 ha interessato<br />

circa 7000 bambini tra Uganda, Kenya e Rwanda, aiutati<br />

a vivere e a crescere nel proprio ambiente.<br />

90


NELLA TERRA DELLE EMERGENZE<br />

Il progetto funziona. Viene scelto e finanziato da USAID<br />

– la cooperazione americana – nell’ambito di una grande<br />

iniziativa globale voluta e lanciata dal presidente George<br />

W. Bush per sconfiggere l’AIDS in Africa e nei Caraibi.<br />

Nasce così una nuova iniziativa. I finanziamenti del President’s<br />

Emergency Plan For Aids Relief (PEPFAR) si sviluppano<br />

intorno a tre componenti principali: prevenzione,<br />

trattamento e cura. E proprio all’interno di quest’ultima<br />

si colloca l’Annual Program Statement (APS). Il piano, finalizzato<br />

all’assistenza di OVC affetti da HIV/AIDS, ha permesso<br />

ad AVSI di vincere nell’aprile 2005 un progetto di<br />

quattro anni intitolato: Increased Care and Support for Orphans<br />

and Vulnerable Children in East-Africa.<br />

OVC significa Orphans and Vulnerable Children, bambini<br />

orfani e vulnerabili. Un progetto iniziato nel 2005 che<br />

terminerà nell’aprile 2009, finanziato dal sostegno a<br />

distanza di AVSI e da USAID. Un’esperienza che permette<br />

di assistere 12.400 bambini facendo terminare loro<br />

un ciclo scolastico, ma anche di rafforzare le capacità<br />

delle loro famiglie e delle comunità con piccole attività<br />

generatrici di reddito e cessioni di microcredito e, allo<br />

stesso tempo, di far crescere e trasferire know how alle<br />

associazioni locali (corpi intermedi) che già operano<br />

sul territorio.<br />

«Quando conosci questi bambini non puoi chiamarli<br />

vulnerabili – spiega Lucia Castelli di AVSI, medico e responsabile<br />

del progetto nei tre paesi –, vuoi dire che<br />

ognuno di loro ha valore. Così l’abbiamo ribattezzato<br />

Our Valuable Children, i nostri bambini di valore.»<br />

L’educazione è l’anello centrale del progetto, che comprende<br />

anche doposcuola, cure sanitarie, attenzione ai bisogni<br />

psico-sociali. Un progetto che tiene insieme ragazzi<br />

e famiglie, facendo crescere la comunità. Aiutando<br />

sempre di più questi gruppi a svilupparsi, a prendersi cura<br />

dei propri bisogni e degli stessi figli. La chiave del progetto<br />

è il coinvolgimento di partner locali. Una soluzione<br />

91


PROGETTO OVC<br />

vincente: più di cento associazioni e realtà comunitarie impegnate,<br />

piccole e fragili a volte, ma con grande sensibilità e conoscenza del<br />

territorio. Scolarizzazione, ma anche formazione e sostegno economico<br />

per gli adulti sono una realtà. Rose ne sa qualcosa. Cinquant’anni,<br />

di Gulu, la guerra le ha portato via la famiglia. È stata ferita.<br />

Vive come la maggior parte della popolazione del Nord Uganda in<br />

uno dei tanti campi per sfollati. Con i soldi ricevuti ha acquistato<br />

una bicicletta per andare al mercato a vendere la verdura. Simon, invece,<br />

ha perso una gamba nell’esplosione di una mina e deve prendersi<br />

cura dei suoi sette figli. Il denaro di AVSI gli serve per comperare<br />

carbone e poi rivenderlo. Non si tratta di grandi guadagni, ma<br />

sufficienti per tornare ad avere fiducia e ricominciare davvero.<br />

A Kitgum AVSI sostiene un centro di recupero per ex ribelli. La cosa<br />

più traumatica «è quando sono costretti a fare del male ai loro<br />

amici… ed è uno dei metodi con cui i ribelli catturano il loro volere<br />

e la loro persona. Spesso sono costretti a picchiare fino alla<br />

morte un compagno che è scappato. Questo – continua Lucia Castelli<br />

– genera un senso di colpa da cui è difficile tirarsi fuori». Il<br />

bambino ucciso viene tagliato per mostrarne il sangue. Gli viene<br />

rotto il cranio e i bambini sono costretti a calpestarne i pezzi. Lo<br />

raccontano gli stessi fuggitivi. Immagini che ritornano negli incubi<br />

notturni e nei loro disegni.<br />

Nell’ospedale missionario St. Joseph di Kitgum la vera grande sfida<br />

in corso è l’AIDS: fare nascere figli sani da madri sieropositive<br />

grazie alle terapie antiretrovirali è possibile. Da anni AVSI porta finanziamenti<br />

e conoscenze, mettendo insieme progetti e donatori<br />

in base alle necessità reali della popolazione. Qui mamme incinte<br />

partecipano a corsi di formazione sanitaria e accettano di sottoporsi<br />

al test dell’AIDS. Le donne che risultano positive entrano<br />

fin da subito nel programma di prevenzione materno-fetale che le<br />

accompagnerà durante la gravidanza – ma anche dopo il parto –<br />

attraverso cure mediche, psicologiche e nutrizionali. I figli, invece,<br />

una volta cresciuti andranno a scuola grazie all’aiuto a distanza:<br />

«Oltre ad accompagnare nella quotidianità le persone malate,<br />

con diverse attività, sosteniamo gli orfani – spiega Ketty Opoke,<br />

direttrice del Meeting Point di Kitgum, un partner locale –. Abbiamo<br />

iniziato nel 1993 con 13 bambini. Oggi ne seguiamo 447».<br />

Abbandoniamo il Nord e scendiamo fino a Kampala, nel quartiere<br />

di Kireka, su una delle sette colline della capitale. Qui si incontra l’Acholi<br />

Quarter. «Sosteniamo circa 2000 bambini, quasi tutti orfani, e<br />

lavoriamo con altrettanti adulti.» A parlare è Rose Businguye, direttrice<br />

del Meeting Point International, ONG locale impegnata nella cura<br />

dei malati di AIDS. Sono donne del Nord, scappate dalla guerra, ferite<br />

dalla vita e dalla malattia (Cfr. «Un invito andato a vuoto», p. 69).<br />

Lasciamo l’Uganda per Nairobi, la capitale del Kenya, secondo paese<br />

del progetto. La popolazione in cerca di benessere ha abbandonato<br />

la campagna riversandosi ai bordi delle città, luogo dove il desiderio<br />

di vita migliore si è arenato.<br />

Kibera è una delle più grandi baraccopoli del mondo, in cui vivono<br />

oltre 750.000 persone. L’ambiente è degradato. Manca tutto:<br />

servizi, luce, acqua potabile e sistema fognario. La spazzatura è<br />

ovunque. Le case Plastica, avanzi di legno e tante lastre arrugginite.<br />

Ed è proprio qui, in questa foresta di lamiere, che è nata una<br />

scuola tutta particolare.<br />

Little Prince, costruita nel 1999 per soli nove bambini, oggi accoglie<br />

circa 200 studenti. In brevissimo tempo è divenuta un punto di riferimento<br />

per le famiglie della comunità e nel maggio 2005 è stata<br />

inaugurata ufficialmente dal ministro dell’Educazione keniota. Leonida<br />

Capobianco è il responsabile di AVSI in Kenya. Ci racconta del<br />

progetto nato per educare bambini, a cui sono seguiti corsi di alfabetizzazione<br />

per adulti e prestiti per le famiglie che volessero iniziare<br />

piccole attività.<br />

Nelle zone rurali la dispersione scolastica è molto alta. Andare a<br />

prendere l’acqua, per aiutare i genitori, significa camminare mezza<br />

giornata e non avere tempo per lo studio. Ma c’è un’altra difficoltà:<br />

il sovraffollamento. Classi di 120 studenti con un solo insegnante.<br />

Una situazione difficile da gestire. A spiegarlo è Cyprian Kaliunga,<br />

direttore della Don Bosco Association, una ONG con cui AVSI lavora<br />

dal 1999 nella zona di Mutuati. La sua scuola conta 1757 ragazzi e<br />

«riusciamo a mantenere un’educazione di qualità».<br />

Il terzo paese coinvolto nel progetto OVC è il Rwanda, la terra del genocidio<br />

del 1994 e oggi delle epidemie che uccidono 17 persone ogni<br />

92


NELLA TERRA DELLE EMERGENZE<br />

mille abitanti. Un dato che ha fatto salire il paese al tredicesimo posto<br />

nella classifica mondiale per tasso di mortalità.<br />

Con le violenze il valore della vita si è offuscato. AVSI ha iniziato a<br />

lavorare per riaffermarlo e il tentativo più significativo è quello che<br />

i volontari della ONG chiamano «Tende»: le attività itineranti per la<br />

prevenzione e la sensibilizzazione sull’AIDS. È un paese caratterizzato<br />

da colline dove molti villaggi sono isolati. «Non si può pretendere<br />

che la gente cammini interi giorni per raggiungere un centro di<br />

salute o una scuola.» Siamo a Kigali, la capitale, con Riccardo Bevilacqua,<br />

responsabile di AVSI in Rwanda. «Per vincere la povertà – di-<br />

93


NELLA TERRA DELLE EMERGENZE<br />

ce – è necessario che sia l’educazione a raggiungere la popolazione<br />

e non viceversa. Serve stimolare un fattore educativo affinché le<br />

persone si mettano in moto insieme.»<br />

Così è successo a Humure. Qui la «tenda» mobile è diventato un centro<br />

nutrizionale in pianta stabile a cui si sono aggiunti un reparto di<br />

maternità dove le mamme possono partorire i propri figli senza paure<br />

e un centro per combattere la malattia.<br />

La filosofia delle «tende» è proprio questa: assistenti sociali, educatori<br />

e animatori tengono insieme bambini, uomini e donne. Giocano<br />

con i primi, sensibilizzano i secondi. Filmati, rappresentazioni<br />

teatrali, balli e canti fanno da contorno.<br />

Eric ha 17 anni. È reduce da un corso sul valore della vita. Aveva<br />

messo incinta una ragazza e l’aveva abbandonata. Il corso gli ha<br />

fatto capire le conseguenze del suo gesto. Ora anche se ancora non<br />

l’ha sposata ha deciso di aiutarla a crescere il loro bambino. Marceline<br />

ha 24 anni, il sostegno a distanza le ha permesso di studiare. La<br />

sua famiglia, povera e numerosa, si era rifugiata nella Repubblica<br />

Democratica del Congo durante il genocidio. Con molte difficoltà<br />

è riuscita ad ottenere un diploma di assistente sociale. «Ho potuto<br />

crescere e uscire dalla povertà, imparando quanto sia rilevante<br />

avere accanto delle persone che ti sostengono.» Ha deciso di lavorare<br />

nel suo paese in un progetto insieme all’AVSI.<br />

95


PERSONE E COMUNITÀ


PERSONE E COMUNITÀ<br />

Tempo fa un articolo dello scrittore israeliano David Grossman<br />

raccontava della disperata invidia per la riuscita del<br />

negoziato di pace tra repubblicani e unionisti nell’Irlanda<br />

del Nord. Come hanno fatto, si chiedeva lo scrittore E qual è la<br />

ricetta Non possiamo applicarla anche qui da noi per trovare una<br />

soluzione alla guerra israelo-palestinese Come facciamo ad imparare<br />

il cammino Fateci un corso, diceva Grossman, fateci partecipare<br />

alle vostre riunioni. E aggiungeva: dobbiamo cominciare<br />

dalle cose semplici: rivolgerci la parola con interesse reciproco (e<br />

non soltanto per affermare la propria posizione), «spendere» del<br />

tempo insieme, essere disponibili, manifestare una sincera volontà<br />

di incontro, anche personale (forse soprattutto personale). Perché<br />

non ne siamo capaci<br />

Qualche anno dopo, l’intervento pronunciato al Meeting di Rimini<br />

2007 dal giornalista irlandese John Waters (e pubblicato in La<br />

verità, il nostro destino, Mondadori Università, Milano 2008) pareva<br />

involontariamente rispondere alle questioni poste dolorosamente<br />

da Grossman. Waters parlava del premier e del vice premier<br />

nord-irlandesi, che per anni erano stati acerrimi nemici e che ora<br />

sedevano insieme al governo: «Eppure per molti anni non sono<br />

stati capaci di pronunciare i reciproci nomi senza tremare d’odio<br />

e di disprezzo. Non si tratta semplicemente di buona educazione:<br />

sembra davvero che si stimino reciprocamente, dimostrano una<br />

sintonia reciproca fatta di affetto e di rispetto. Forse è l’immagine<br />

più forte che abbiamo visto in una vita di cronache del conflitto.<br />

È vera. È umana. Si avvicina molto all’impossibile, ma si sta riproponendo<br />

quasi quotidianamente. Di rado una immagine è stata<br />

capace di modificare la pubblica percezione, di farci riflettere profondamente<br />

sulla natura del conflitto che portò protestanti a massacrare<br />

cattolici e cattolici a spezzare giovani vite protestanti. Perché<br />

suggerisce che è successo qualcosa di trascendente, qualcosa<br />

che supera il normale ambito d’azione della politica». Più avanti<br />

Waters prova a descrivere questo «qualcosa di trascendente»:<br />

«Non si è trattato di una riconciliazione sdolcinata realizzata nell’interesse<br />

della pacificazione, ma di un profondo rapporto umano<br />

che ha superato le barriere ideologiche, storiche e politiche tra<br />

questi due uomini… Questa riconciliazione umana è stata alimentata<br />

da un contesto assai più ampio, da un profondo mutamento<br />

nella cultura circostante e questa riconciliazione personale, di due<br />

persone, ha a propria volta alimentato i mutamenti che le hanno<br />

dato vita». Ci sono stati pensieri e bisogni che hanno toccato la volontà,<br />

che si sono tramutati in parole e decisioni, in programmi<br />

condivisi: Waters racconta bene il processo che lui definisce simile<br />

«allo sbrinamento di un frigorifero», in cui la pazienza e la determinazione<br />

si sono alleate per un lungo tempo.<br />

Le prossime pagine di questo capitolo non hanno alcuna relazione<br />

storica, politica e nemmeno geografica con il Medio Oriente o<br />

con l’Irlanda del Nord. Ma c’è una profondissima relazione culturale.<br />

«Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano<br />

il cuore dell’uomo» diceva don Luigi Giussani: è esattamente quello<br />

che John Waters descrive a proposito della pace di Belfast, un<br />

cammino che si dipana dal cuore alla storia e viceversa; viene da<br />

pensare che se la pace in Medio Oriente non arriva è perché non<br />

riesce compiere lo stesso itinerario.<br />

Ma in che senso si parla qui di una relazione culturale tra realtà<br />

tanto distanti È nel senso della frase di don Giussani. Nelle<br />

esperienze di Haiti, del Brasile e del Paraguay emerge il tema della<br />

persona. Di quella singola, inimitabile, irripetibile, unica persona.<br />

E del suo rapporto con la comunità, con l’ambiente (con<br />

la «storia»). Rinascita della persona è rinascita della comunità,<br />

poiché la persona rinasce nella comunità, rinasce per la comunità.<br />

Un principio che vale in tutto il mondo, in tutti i mondi. In Ir-<br />

99


PERSONE E COMUNITÀ<br />

landa del Nord come tra le devastazioni di Haiti, in Medio Oriente<br />

come nelle favelas di Salvador de Bahia. Attenzione: si tratta<br />

di un principio, non di una ricetta. Nelle cose umane non ci sono<br />

garanzie a priori, né tempi predeterminati. Tutto parte dalla<br />

persona, dalla sua centralità, dalla sua indispensabilità, dal suo<br />

mistero. È incredibile l’energia di cui una persona è capace, il suo<br />

cuore come una batteria pronta a ricaricarsi al sole di ogni giorno.<br />

Nelle pagine successive si vedrà cosa accade quando si mette<br />

la persona al centro. La persona e la comunità di persone. Non<br />

sono concetti astratti o simbolici. Si tratta di quella madre di Novos<br />

Algados, di quel malato della parrocchia di San Rafael, di quel<br />

giovane di Cité Soleil (che a dispetto del nome è uno dei quartieri<br />

urbani più tristi e poveri del pianeta). Sono loro e i loro amici<br />

che iniziano a «sbrinare» il frigorifero e così come hanno fatto<br />

gli antichi nemici di Belfast, da una goccia si può arrivare alla pace<br />

o a risanare una intera favela. Cambiano i contesti e le condizioni,<br />

quel principio è all’opera dovunque ci sia qualcuno che lo<br />

fa suo.<br />

100


IL QUARTO MONDO DEI CARAIBI<br />

«<br />

Abbiamo fame!» gridava la gente marciando con violenza<br />

nella zona più rurale di Haiti. Sedie scagliate sulle vetrine<br />

dei negozi, auto bruciate ed echi di spari ovunque. Migliaia<br />

di persone riversate sulle strade.<br />

Carlo Maria Zorzi – rappresentante di <strong>Avsi</strong> – non dimenticherà<br />

mai quel mese di rivolta. Era l’aprile 2008: «Interi quartieri distrutti,<br />

caos totale su tutta l’isola. Il Palazzo Nazionale quasi assaltato<br />

dai manifestanti, fermati dalla sicurezza con mezzi da controguerriglia<br />

urbana. La situazione a Les Cayes, nel Sud-ovest del<br />

Paese, era terribile.»<br />

Il prezzo di riso, fagioli e latte condensato – non c’è quello fresco<br />

ad Haiti – era cresciuto del 50%, quello della pasta raddoppiato.<br />

Le persone si scatenavano contro gli aumenti: gli ennesimi in pochi<br />

anni. Volevano che il presidente René Preval se ne andasse, così<br />

come l’ONU e il contingente della Minustah, la missione delle<br />

Nazioni Unite con il compito di riportare ordine nel paese. «Il Ministero<br />

del Commercio è stato distrutto da lanci di pietre, il senatore<br />

del Sud – racconta Zorzi – è stato picchiato e salvato dal linciaggio<br />

dalla polizia. La sua casa data alle fiamme, stessa sorte riservata<br />

all’auto del ministro dell’Agricoltura.»<br />

Haiti è uno dei paesi più poveri al mondo, il più povero dell’America<br />

Latina. Insomma il quarto mondo dei Caraibi. Nota come<br />

«perla delle Antille» negli anni Sessanta, è il primo stato a ottenere<br />

l’indipendenza nell’America centro-meridionale e da sempre<br />

protagonista di una storia tormentata.<br />

Il 78% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno,<br />

mentre il 47% è analfabeta. 23 bambini su cento sotto i cinque anni<br />

sono denutriti, il 46% dei ragazzi non termina la scuola primaria<br />

e solo il 2% completa quella secondaria.<br />

Nel febbraio 2004 il capo di stato di Haiti, l’ex-prete cattolico Jean<br />

Bernard Aristide, è costretto a lasciare il paese squassato da scioperi<br />

e fazioni in lotta. Da allora una missione dell’ONU a guida brasiliana<br />

ha il compito di riappacificare l’isola. Preval, ministro dal<br />

1995 al 2000 e politicamente vicino ad Aristide, vince le elezioni<br />

nel 2006. Si trova ad affrontare una situazione troppo complessa<br />

dove la povertà non è il solo grave problema. C’è quello della ripresa<br />

economica e di un apparato pubblico inesistente, la sicurezza<br />

dei cittadini, la lotta al narcotraffico e quello della crisi alimentare.<br />

E se la crescita di prezzo degli alimenti di base è dovuta a cause<br />

più internazionali che interne al paese, la crisi alimentare ha<br />

messo in luce un altro dato negativo: quello di un potere d’acquisto<br />

debolissimo.<br />

<strong>Avsi</strong> arriva ad Haiti nel 1999. A chiamare l’ONG italiana è il nunzio<br />

apostolico Cristophe Pierre per un progetto di supporto alla Facoltà<br />

di Agraria dell’Università Cattolica di Les Cayes. Sull’isola, infatti,<br />

il sistema economico si regge sul settore agricolo, che impiega<br />

il 67% della forza lavoro del paese. Un sistema ancora orientato<br />

verso la sussistenza secondo quello che i tecnici chiamano mixed<br />

cropping, vale a dire la coltivazione simultanea di diverse colture in<br />

un unico appezzamento di terra. Ciò che caratterizza questo settore<br />

però è un’arretratezza cronica che vede di anno in anno sempre<br />

più ridotto il livello di autosufficienza alimentare. Dal 1985 al 2003<br />

questo indice è passato dall’85 al 50%. Un deficit solo in parte coperto<br />

da aiuti alimentari e da importazioni, che inevitabilmente genera<br />

un aumento dei tassi di malnutrizione.<br />

Un paese, quindi, dai grandi primati negativi a cui si deve aggiungere<br />

l’allarme sulla mortalità infantile e giovanile, oggi rispettivamente<br />

intorno all’80‰ e al 119‰.<br />

<strong>Avsi</strong>, in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di<br />

Milano, l’Università Notre Dame di Haiti e con l’aiuto dei fondi<br />

8x1000 della Conferenza Episcopale Italiana, dà vita in pochi mesi<br />

ad un’azienda agricola sperimentale dove ricerca universitaria e<br />

cultura contadina potessero incontrarsi. Una compenetrazione<br />

che ha consentito ad alcuni agricoltori, con il favore del clima tro-<br />

101


HAITI<br />

picale, di raggiungere i tre raccolti annui, quadruplicando la produzione<br />

di riso.<br />

L’azienda è divenuta un riferimento per lo sviluppo agricolo locale<br />

e nei prossimi anni è prevista una progressiva meccanizzazione<br />

delle coltivazioni che consentirà ai contadini di migliorare ulteriormente<br />

la produzione.<br />

La diffusione di nuove conoscenze tecniche e le competenze acquisite<br />

dagli studenti della Facoltà di Agraria di Les Cayes costituiscono<br />

un fattore importantissimo di innovazione per la lavorazione<br />

della terra e il corretto sfruttamento delle risorse naturali<br />

al fine di garantire alimenti sufficienti al fabbisogno della popolazione.<br />

La dilatazione di tecniche agricole e di allevamento anche minima<br />

si è dimostrata fondamentale per la crescita del paese. Nasce così<br />

il secondo programma di sviluppo rurale.<br />

Siamo nel 2004 e decisivo si rivela il contributo economico<br />

dell’8‰ dello Stato italiano volto a sostenere 200 famiglie con<br />

bambini denutriti. Il lavoro di UNICEF e FAO, coordinato da AVSI,<br />

fa sì che nel 2007, attraverso centri nutrizionali creati ad hoc per<br />

l’occasione, le madri di 350 ragazzi venissero coinvolte in attività<br />

102


103


104


IL QUARTO MONDO DEI CARAIBI<br />

di formazione ed educazione. Un intervento globale che contemporaneamente<br />

ha interessato – attraverso un supporto tecnicostrumentale<br />

– anche l’attività agricola dei padri di questi bambini.<br />

Haiti occupa un terzo dell’isola di Hispaniola, sugli altri due terzi<br />

sorge la Repubblica Dominicana. Un territorio in prevalenza<br />

montuoso, fortemente soggetto a disboscamento e desertificazione.<br />

Un fattore che – secondo stime dell’United Nations Development<br />

Programme (UNDP) – dal 1987 al 2000 ha ridotto della<br />

metà – dal 9 al 4% – il tasso di copertura forestale, con una diminuzione<br />

annua delle riserve legnose pari al 3,25%.<br />

Il problema è vastissimo, in gran parte dovuto alla cattiva gestione<br />

delle risorse naturali (suolo, acqua, copertura vegetale ecc.), a<br />

cui vanno aggiunte la crescente richiesta di legna necessaria a<br />

soddisfare il fabbisogno energetico delle famiglie, l’assenza di<br />

una politica e di un quadro legislativo specifici, e gli esiti degli<br />

uragani che annualmente colpiscono l’area.<br />

Per contribuire alla riforestazione del territorio AVSI, in collaborazione<br />

con le organizzazioni contadine, ha preparato vivai a crescita<br />

rapida di piante da foresta e da frutto formando, insieme alle autorità<br />

pubbliche in loco, organizzazioni di base per la piantumazione.<br />

105


HAITI<br />

Spesso agli haitiani si rimprovera scarsa capacità di iniziativa,<br />

una certa apatia dovuta al clima ma soprattutto a progetti di sviluppo<br />

assistenzialistici, caratterizzati da una grande distribuzione<br />

di prodotti alimentari che azzerano lo spirito d’intrapresa e<br />

generano dipendenza verso le organizzazioni umanitarie. Non è<br />

il caso delle tredici famiglie di Houck, famiglie con bambini denutriti<br />

coinvolti nel secondo progetto di <strong>Avsi</strong>. Siamo in una zona<br />

della costa vicino a Les Cayes dove le persone sono dedite<br />

principalmente alla pesca, una pesca primitiva che si avvale di canoe<br />

ricavate da tronchi d’albero. Imbarcazioni molto fragili con<br />

cui non è possibile allontanarsi dalla costa. Questi tredici nuclei<br />

familiari avevano deciso di organizzarsi in cooperativa di pesca<br />

e con il sostegno di <strong>Avsi</strong> hanno potuto recuperare tutto il materiale<br />

necessario per la costruzione di una barca a vela, un mezzo<br />

robusto con cui pescare in alto mare.<br />

Risale al 2000 il progetto di sostegno a distanza nella capitale Port<br />

au Prince. Un progetto realizzato insieme all’organizzazione SA-<br />

PHA e finalizzato alla scolarizzazione e alla cura di circa 400 bambini.<br />

Quattro anni più tardi <strong>Avsi</strong> ha favorito il reintegro nella società<br />

di 25 giovani legati a gruppi armati. Un’esperienza positiva<br />

che ha portato l’ONG italiana ad estendere la sua missione in uno<br />

dei quartieri più poveri della capitale: Cité Soleil.<br />

Qui <strong>Avsi</strong> realizza diversi progetti per i diritti umani di adolescenti<br />

ed ex combattenti, come l’abbandono delle armi in cambio di<br />

un’educazione e di un’istruzione: attività svolte insieme alla Commissione<br />

Episcopale Giustizia e Pace di Haiti, finanziate dall’Unione<br />

Europea e realizzate in collaborazione con realtà locali come<br />

scuole, centri educativi e parrocchie, a cui <strong>Avsi</strong> fornisce testi<br />

scolastici e tutto il materiale necessario a rinforzare le strutture e<br />

la formazione del personale.<br />

Nella stessa capitale, questa volta con UNICEF, l’ONG interviene<br />

nelle carceri. Si occupa di programmi educativi per giovani donne<br />

provenienti da contesti di profondo disagio attraverso attività<br />

scolastiche, corsi di formazione professionale e sostegno psicologico<br />

per superare i traumi vissuti.<br />

Quella di <strong>Avsi</strong> ad Haiti è una presenza recente. Una sfida che incarna<br />

le parole di Benedetto XVI del giugno 2008 durante il vertice FAO<br />

di Roma: «Occorre incrementare la disponibilità del cibo valorizzando<br />

l’industriosità dei piccoli agricoltori e garantendone l’accesso<br />

al mercato. L’aumento globale della produzione agricola potrà,<br />

tuttavia, essere efficace, solo se sarà accompagnato dall’effettiva<br />

distribuzione di tale produzione e se essa sarà destinata primariamente<br />

alla soddisfazione dei bisogni essenziali. Si tratta di un cammino<br />

certamente non facile, ma che consentirebbe, fra l’altro, di riscoprire<br />

il valore della famiglia rurale: essa non si limita a preservare<br />

la trasmissione, dai genitori ai figli, dei sistemi di coltivazione, di<br />

conservazione e di distribuzione degli alimenti, ma è soprattutto<br />

un modello di vita, di educazione, di cultura e di religiosità.»<br />

106


LA CITTADELLA DELL’AMORE<br />

In tutta Asunción è difficile trovare qualcuno che non conosca<br />

la parrocchia San Rafael. Recentemente il parroco, l’italiano<br />

padre Aldo Trento, è stato insignito delle «chiavi della città»<br />

con una cerimonia che ha stupito persino la CNN. Ma la fama della<br />

parrocchia non si limita alla capitale del Paraguay. A quattrocento<br />

chilometri c’è Ciudad del Este, città contrabbandiera e selvaggia<br />

per antonomasia. Capita spesso che i giudici del tribunale locale si<br />

rifacciano alla legge che concede ai condannati per reati pecuniari<br />

di espiare la pena versando denaro alle iniziative di carità (in alternativa<br />

il carcere): le opere parrocchiali sono tra le più gettonate.<br />

San Rafael è un posto che vuole assomigliare a una «riduzione», reducción,<br />

le comunità degli indios guaraní create nel 1600 dai missionari<br />

gesuiti. A loro (Ruiz de Montoya, Antonio Sepp, che sono tra<br />

i preferiti qui) sono dedicate molte delle scritte che decorano il recinto<br />

parrocchiale, così come molti dei libri della piccola casa editrice<br />

omonima.<br />

Il Paraguay, che prima delle varie guerre era molto più esteso, è la<br />

terra delle reducciones. Oggi non ne rimangono che rovine, da pochi<br />

anni disseppellite e restaurate, così come solo da pochi anni la<br />

lontana memoria di quei centocinquanta anni di «cristianesimo fe-<br />

107


PARAGUAY<br />

lice» – come scrive Ludovico Antonio Muratori – sta tornando a<br />

galla. Le reducciones sono state un luogo di vita comunitaria eretto<br />

per l’evangelizzazione, la libertà e la difesa degli indios, altrimenti<br />

destinati alla schiavitù o alla morte. Esperienza di straordinaria intensità<br />

cristiana, le riduzioni vennero spazzate via a metà del 1700<br />

con la ferocia di un potere invidioso e inumano. Una civiltà sepolta<br />

troppo presto e che ai più resta purtroppo sconosciuta.<br />

Quattro secoli dopo quei gesuiti (che il film Mission con Robert<br />

De Niro e Jeremy Irons rese celebri), la parrocchia San<br />

Rafael si presenta come una reducción. Padre Aldo viene da<br />

Belluno e alle orecchie di un italiano il suo spagnolo è reso allegro<br />

e comprensibile dalla movenze della parlata veneta.<br />

Appartiene alla Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San<br />

Carlo Borromeo, una delle esperienze più tipiche e originali<br />

nate dal movimento di Comunione e Liberazione. Fu proprio<br />

don Giussani a parlare ad Aldo delle reducciones nel momento<br />

in cui gli propose di partire nel 1989.<br />

Il Paraguay è un paese pieno di tanti mondi diversi. I pochi<br />

ricchissimi e i tanti poveri, gli indios e gli spagnoli, le donne,<br />

moltissime senza marito, e gli uomini che una sociologia a<br />

buon mercato dipinge come sfaccendati buoni a nulla. Ma<br />

soprattutto la città e la campagna. E cioè Asunción, fondata<br />

nel Cinquecento dagli spagnoli sulle rive del rio Paraguay, e<br />

un paio di altri centri degni di nota, accanto a tutto il resto del<br />

paese. Dalla piazza della Cattedrale di Asunción, sulla quale<br />

campeggia il grande stemma della Repubblica, lo sguardo si<br />

perde verso il Chaco, che comincia al di là del fiume: una<br />

grande steppa tropicale. Come le altre realtà urbane dell’America<br />

Latina anche Asunción si trova a cavallo tra Terzo<br />

Mondo e Duemila, ma è più modesta, più provinciale delle<br />

cugine del Cono Sur, priva di slanci architettonici e strade<br />

maestose.<br />

Nel 1870, alla fine di un spaventoso conflitto con Argentina,<br />

Uruguay e Brasile, il rapporto tra donne e uomini in Paraguay<br />

era di tre a uno, la popolazione era diminuita di una percentuale<br />

oscillante tra il venti e il cinquanta per cento. Secondo i<br />

paraguaiani risalgono a quel momento le difficoltà del paese,<br />

mai più risolte, tra cui anche quella delle famiglie rette dalla sola<br />

forza delle donne.<br />

La vita di San Rafael offre un contrasto spettacolare con i ritmi e<br />

le immagini del resto del paese. La gente che popola gli spazi parrocchiali,<br />

i volontari, la quantità e varietà di opere di carità, di cultura<br />

e missione. La scuola, il caffè letterario, il coro polifonico, la<br />

108


LA CITTADELLA DELL’AMORE<br />

pizzeria, il Centro di aiuto alla vita, l’ambulatorio, il sistema<br />

di assistenza medica, la distribuzione di cibo e vestiti e poi il<br />

«gioiello» della clinica per malati terminali, lo scrigno che racchiude<br />

il cuore di padre Aldo e padre Paolino, che l’hanno voluta<br />

sfidando tutto e tutti: la «Casa della Divina Provvidenza»<br />

dedicata a San Riccardo Pampuri. È già stata l’ultima casa per<br />

centinaia e centinaia di malati, raccolti dalle strade e dagli altri<br />

ospedali che non volevano più tenerli. Un addio alla vita<br />

dato tra lenzuola candide e infermiere amorevoli, soccorsi e<br />

medicati come in nessun altro luogo, circondati di amore e<br />

tenerezza.<br />

La clinica dipende dalla parrocchia, dalla sua storia recente<br />

e da quella di padre Aldo. Nasce nel maggio 2004 e col passare<br />

degli anni si è trasformata e allargata più volte. Oggi sono<br />

in costruzione nuovi spazi. Da allora sono quasi 600 i<br />

malati di AIDS (18%), cancro (63%) o altre patologie ospitati<br />

dalla clinica, 500 dei quali accompagnati alla morte. Ridare<br />

dignità umana a questi poveri abbandonati è una delle sfide<br />

principali della clinica «di modo che – dice uno dei volontari<br />

– quando arriva il momento finale, quello della morte,<br />

possano essere pronti e riposare veramente in pace».<br />

Ma la San Riccardo non è l’unica opera nata in seno alla parrocchia<br />

San Rafael. Da essa si dipana una lunga catena di<br />

opere caritatevoli realizzate grazie al contributo privato e<br />

personalissimo della gente. La casa di accoglienza Padre<br />

Pio, ad esempio, raccoglie malati di AIDS emarginati e abbandonati<br />

che, non necessitando di stare nella clinica perché<br />

«nonostante tutto in buone condizioni», non hanno un<br />

luogo dove vivere.<br />

Il policonsultorio Juan Pablo II, invece, nasce nel 2002. Qui,<br />

con la carità di alcuni amici medici che offrono il proprio tempo<br />

libero, viene fornita un’assistenza sanitaria gratuita. Dalla cardiologia<br />

alla ginecologia, dalla pediatria alla psicologia o all’odontoiatria,<br />

passando per la chirurgia vascolare, sono 14.872 le persone assistite<br />

dall’ambulatorio tra il 2003 e l’aprile 2008. Si distribuiscono farmaci<br />

e si effettuano visite o si accerta la necessità di interventi specialistici<br />

presso studi convenzionati. Poi la distribuzione di indumenti<br />

e alimenti legata all’attività del Centro di aiuto alla vita, grazie<br />

al quale 70 famiglie della parrocchia sono aiutate, e quella del<br />

Centro di Formazione Umana Integrale grazie al quale centinaia di<br />

persone vengono formate e informate per quel che concerne salute,<br />

cultura ed evangelizzazione. Così può capitare di visitare la parrocchia<br />

mentre è in corso un seminario sulla salute riproduttiva o<br />

109


PARAGUAY<br />

sull’educazione sessuale e, un’altra volta, sulla cura della salute e<br />

sulla vita spirituale. Ma la lista di iniziative è difficile da esaurire. La<br />

parrocchia San Rafael è un luogo vivo, un movimento che genera<br />

in continuazione cultura. Il bollettino settimanale della parrocchia<br />

ricorda tutto questo. È il suo XI anno di pubblicazione e quando<br />

abbiamo visitato San Rafael stavano stampando il numero 533.<br />

Con esso si affrontano i principali temi d’attualità, si ricordano gli<br />

appuntamenti e le iniziative della parrocchia. Un altro strumento<br />

culturale è l’«Observador Semanal», un inserto del quotidiano Ultima<br />

Hora, curato da una redazione di parrocchiani i quali, oltre a<br />

pubblicare la catechesi di Benedetto XVI, offrono commenti, analisi<br />

e giudizi sulla realtà politica e sociale del paese.<br />

Ultima arrivata è la Casita de Belén, creata per accogliere i bambini<br />

a rischio, innanzitutto gli orfani di mamme e papà morti nella<br />

Casa della Divina Provvidenza. Fondata l’8 febbraio 2008, la casa<br />

ospita 20 bambini tra i 3 e gli 11 anni. Qui hanno trovato nuovi genitori,<br />

persone che si occupano della loro salute, dell’alimentazione<br />

e del loro sviluppo integrale. Padre Aldo li saluta tutte le mattine<br />

prima di andare a scuola, il cuore giovane della parrocchia,<br />

frequentata da duecento bambini di famiglie povere, aiutati dal sostegno<br />

a distanza dell’AVSI. La scuola, prende il nome da padre Alberto,<br />

altro missionario della Fraternità, per dieci anni parroco ad<br />

Asunción, ora in Ecuador; è stata riconosciuta e abilitata dal Ministero<br />

dell’Educazione nel 2003.<br />

110


IL SEGRETO PER COSTRUIRE SULL’ACQUA<br />

ANovos Alagados le «case» sono costruite su palafitte. Baracche<br />

sul mare che hanno il vantaggio di non essere proprietà<br />

di nessuno. Un luogo dove installarsi abusivamente,<br />

in cui il degrado sociale, ambientale e urbano si fa compagno<br />

alle decine di migliaia di persone che ci vivono.<br />

Arrivando a Novos Alagados la prima immagine che si impressiona<br />

nella mente è quella di tanti pali di legno incastonati nell’acqua<br />

immobile, quasi stagnante e verdastra, non azzurra come quella<br />

della famosissima costa di Copacabana. Pali di legno: resti di vecchie<br />

capanne sul mare; sorelle delle baracche ricostruite poco a lato<br />

con assi che ricordano tanto quelle utilizzate dai muratori italiani<br />

nei ponteggi delle impalcature negli anni Settanta.<br />

Queste passerelle primitive circoscrivono le abitazioni, si incrociano<br />

sull’acqua che riaffiora incorniciata dal legno mentre ci si<br />

addentra nella favela galleggiante. Gli specchi d’acqua sono in buona<br />

parte rivestiti di spazzatura, sacchetti di plastica e nylon abbandonati.<br />

Manca tutto in queste zone.<br />

Salvador de Bahia, Brasile. Una città con cinque secoli di storia.<br />

111


BRASILE<br />

Fondata dai portoghesi nel 1549 e divenuta subito capitale del loro<br />

impero coloniale. Oggi Salvador è la quarta città brasiliana per<br />

numero di abitanti, 3,5 milioni, di cui il 45% abita in aree povere.<br />

L’Università Federale di Bahia ne ha individuate più di quattrocento<br />

e Novos Alagados è una di queste.<br />

La palafitta normalmente è abitata da tre, quattro persone. Difficilmente<br />

si trovano nuclei familiari completi, composti da marito,<br />

moglie e figli. Quasi sempre è la donna che gestisce ed è attenta ai<br />

problemi familiari.<br />

Anche le baracche sono di legno, di due stanze le più spaziose,<br />

separate da tendaggi improvvisati e mai più sistemati. Entrando<br />

troviamo letti ammassati uno accanto all’altro, oggetti sparsi,<br />

pentole appoggiate su mobili rudimentali. Sedie di plastica bianca,<br />

quelle dei nostri giardini per intenderci, incastrate una sull’altra.<br />

Gli «accampamenti» si caratterizzano per il disordine.<br />

Nell’«atrio» c’è una vecchia poltrona di pezza, qualche foto e disegno<br />

affissi alla parete. Una TV 16 pollici e uno stereo ci riportano<br />

al mondo contemporaneo: quello di un Brasile dalle mille<br />

contraddizioni.<br />

I 796 miliardi di dollari di PIL mettono il Brasile all’undicesimo posto<br />

nel mondo. Ma anche terzo, dopo Cina e Russia, nella classifica<br />

dei paesi con il maggiore debito estero. Al quarantanovesimo,<br />

invece, per il tasso di disoccupazione e ancora undicesimo per<br />

produzione industriale.<br />

Il primo tentativo di recupero dell’area Novos Alagados risale agli<br />

anni Settanta. Fasi di risanamento si alternano a fasi di sviluppo,<br />

ma l’esperimento fallisce e la gente torna ad abitare le palafitte. Sono<br />

i «nuovi allagati», appunto.<br />

Nel 1987 diventa arcivescovo di Salvador di Bahia il futuro cardinale<br />

Moreira Neves. È lui, colpito dal degrado degli alagados, a<br />

chiedere il soccorso di AVSI.<br />

L’ONG italiana arriva a Bahia negli anni Novanta. Non è una new<br />

entry nel grande paese. Da anni, 1300 chilometri più a sud, AVSI collabora<br />

con la pastorale delle favelas di Belo Horizonte. L’esperienza<br />

decennale maturata sul campo attraverso progetti di legalizzazione<br />

e miglioramento delle condizioni di vita dei favelados facilita<br />

la sua immedesimazione con la popolazione di quest’area degradata<br />

tutta particolare.<br />

In poco tempo, il primo gruppo di «volontari» guidati da don<br />

Giancarlo Petrini, oggi vescovo ausiliare di Salvador, riesce ad entrare<br />

nella vita delle famiglie locali, individuandone le esigenze.<br />

Da lì a poco sorge un asilo per l’infanzia, destinato ad ampliarsi<br />

nel centro educativo Giovanni Paolo II quando i ragazzini cominciano<br />

ad entrare nell’età scolastica. Questa prima opera, inaugurata<br />

nel 1993 dal cardinale di Bahia, viene ampliata nel 1999 grazie<br />

alla collaborazione con la Federazione Italiana Umano Progresso.<br />

Tre anni prima, nel 1996, gli interventi di Salvador Bahia e di Belo<br />

Horizonte vengono presentati tra le migliori 100 best practices alla<br />

Seconda Conferenza delle Nazioni Unite Habitat II di Istanbul,<br />

finalizzata ad approfondire le tematiche legate al fenomeno dell’urbanizzazione.<br />

«Parallelamente alla crescita dei ragazzi era evidente – racconta<br />

uno dei ‘volontari’ – che il momento critico dei 12-14 anni diventava<br />

uno scoglio talvolta insormontabile. Il richiamo della violenza,<br />

della droga, dell’illegalità è spesso irresistibile». Da questa consapevolezza<br />

è sorto poi, con il contributo della Regione Lombardia,<br />

un centro di formazione professionale nel settore edile. È<br />

proprio «la mancanza di speranza – spiega monsignor Giancarlo<br />

Petrini, anche direttore dell’Istituto di Studi per la Famiglia a Salvador<br />

– che fa crescere tanto gli indici della violenza, soprattutto<br />

nelle città. I ragazzi di 15, 16, 17 anni cominciano a rendersi conto<br />

che difficilmente, attraverso il sacrificio e lo sforzo, riusciranno<br />

a superare le loro circostanze di miseria e questo, forse, è il dramma<br />

più grande del Brasile attuale: la difficoltà di trovare la vera<br />

strada della speranza.»<br />

Il 1993 è la data di inaugurazione del progetto pilota, quello che i<br />

tecnici chiamano di urban upgrading, o riqualificazione urbana. Un<br />

piano che avrebbe dovuto interessare 500 famiglie, ma che in realtà<br />

ha coinvolto tutta la comunità di Novos Alagados. 3713 nuovi<br />

nuclei abitativi per un totale di 14.415 abitanti coinvolti, di cui il<br />

38% proveniente da palafitte. Questi alcuni numeri del Progetto<br />

ampliato grazie alle sovvenzioni del governo di Bahia, del Mini-<br />

112


113


BRASILE<br />

stero degli Affari Esteri italiano e della Banca Mondiale. Le infrastrutture,<br />

il progetto di urbanizzazione, quello di rimozione delle<br />

palafitte e di costruzione e miglioramento delle case fatiscenti, ma<br />

anche quello di riduzione della povertà, sarebbero state tuttavia insufficienti<br />

se non fossero stati accompagnati da un supporto per lo<br />

sviluppo delle comunità coinvolte, necessario per garantire la sostenibilità<br />

dei miglioramenti acquisiti con gli interventi.<br />

Nelle comunità, anche le più carenti, si celano capacità e risorse<br />

umane e sociali che per AVSI costituiscono il loro vero patrimonio<br />

nascosto. Il progetto pilota, chiuso nel 1999, lo ha dimostrato. E<br />

in forza di questo, mantenendo al centro delle proprie azioni la dignità<br />

della persona, AVSI ha deciso di estendere a tutta l’area intorno<br />

a quella di Novos Alagados il proprio intervento.<br />

Nasce così il programma «Ribeira Azul», un insieme di aree situate<br />

nella zona del suburbio: quattro chilometri quadrati di superficie<br />

per 135 mila abitanti, considerata fra le aree più degradate<br />

della città. Qui il 45% della popolazione in età attiva<br />

non genera reddito, il 59% ha un reddito familiare di<br />

45 dollari al mese, la metà del salario minimo, il 21% della<br />

popolazione in età scolare ha abbandonato la scuola e<br />

il 71% è in ritardo con il piano di studi. C’è poi un altro<br />

45% che dichiara di avere difficoltà ad accedere ai servizi<br />

di salute pubblica e un 20% che pratica l’automedicazione.<br />

Si tratta di un progetto da 60 milioni di dollari, quasi tutti<br />

reperiti nel 1999 grazie al contributo di enti come il<br />

Banco interamericano di sviluppo, la Cassa Economica<br />

e Federale, la Banca Mondiale, il governo dello stato e la<br />

Municipalità di Bahia. Ma decisivo si rivela l’intervento<br />

del Ministero degli Esteri italiano che nel 2000 decide in<br />

favore del progetto lo stanziamento di 5 milioni di euro<br />

alla Banca Mondiale, con il coinvolgimento della giovane<br />

«Cities Alliance», l’ONG che ha come testimonial Nelson<br />

Mandela.<br />

Siamo nel 2000. Ha inizio la prima fase del programma.<br />

Vale a dire quella serie di indagini censorie e a campione,<br />

che attraverso il contatto diretto con le famiglie e le organizzazioni<br />

del territorio si rivela utile a definire le caratteristiche<br />

socio-economiche, antropologiche ed educative delle persone. Un<br />

«ritratto» costantemente condiviso, attraverso diversi incontri, con<br />

la popolazione che ha permesso di individuare i principali campi di<br />

intervento: innanzitutto infrastrutture e area socio-educativa. Ma<br />

l’indagine ha anche un altro merito. Quello di mostrare – come peraltro<br />

l’esperienza precedente – una trama, seppur fragile, di aggregazioni<br />

della società civile, soprattutto in ambito educativo, per far<br />

fronte alle necessità quotidiane. Asili, luoghi di educazione informale<br />

come di aggregazione per adolescenti. E doposcuola, case di<br />

accoglienza e di sostegno per ragazze madri, associazioni per il diritto<br />

alla casa. Insomma, una serie lunghissima di «corpi intermedi»<br />

già operativi su servizi alla persona, che si sono rivelati attivi<br />

protagonisti del progetto «Ribeira Azul».<br />

114


IL SEGRETO PER COSTRUIRE SULL’ACQUA<br />

Il miglioramento urbano, lo sviluppo economico e sociale,<br />

il coinvolgimento e il rafforzamento di questi «corpi<br />

intermedi» come quello delle istituzioni non sono un<br />

discorso astratto. Un rafforzamento anche in termini finanziari<br />

verso i progetti – selezionati attraverso processi<br />

competitivi – gestiti e realizzati dalle associazioni locali,<br />

con l’assistenza tecnica di AVSI. Una modalità che ha<br />

offerto opportunità di sviluppo e di curriculum alle ONG<br />

locali, favorendone il processo di crescita e consolidamento.<br />

Questa forma di assistenza tecnica ha garantito<br />

l’apertura dei finanziatori (Banca Mondiale, governo<br />

ecc.) verso le associazioni comunitarie e un dialogo sempre<br />

più aperto e costruttivo che tanto ha contribuito alle<br />

valutazioni positive, in termini di partecipazione comunitaria,<br />

date dalle associazioni stesse.<br />

Dopo cinque anni dall’avvio del Progetto di Appoggio Tecnico<br />

e Sociale (PATS) sono 73 le organizzazioni comunitarie<br />

rafforzate e 13 le strutture (asili, scuole ecc.) costruite<br />

o ristrutturate. 78 i progetti sociali realizzati<br />

nell’ambito di educazione, famiglia e salute. 7 le cooperative<br />

di lavoro costituite e/o formate nel settore tessile,<br />

alimentare e di costruzione civile e altrettante le<br />

opere educative realizzate o ampliate. 1268 palafitte<br />

sono state rimosse, 373 le nuove case costruite e 221<br />

quelle migliorate. Dal 2000 al 2006, inoltre, il collegamento<br />

alla rete idrica è passato dal 36,6% al 70,7%,<br />

quello della rete elettrica dal 72,2% all’ 88,4%. Ancora<br />

più sorprendente è il dato relativo al sistema fognario, se<br />

si pensa che all’inizio era quasi del tutto assente. Nel<br />

2006 è passato dal 21,4% all’84,4% e nello stesso anno<br />

la percentuale di abitazioni senza unità sanitaria si è notevolmente<br />

ridotta, dal 30,6% al 3%.<br />

Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza la valorizzazione<br />

e il finanziamento di quei «corpi intermedi»<br />

– veri e propri stakeholder del progetto – , principali<br />

interlocutori comunitari protagonisti dalla pianificazio-<br />

115


BRASILE<br />

ne all’attuazione delle azioni, in un processo intenso di riunioni,<br />

visite e incontri.<br />

«L’aiuto di un popolo – ha detto Giovanni Paolo II – non deriva<br />

né dal denaro, né dagli aiuti materiali […], bensì dalla maturazione<br />

della mentalità e dei consumi. È l’uomo il protagonista dello<br />

sviluppo non il denaro o la tecnica.» Sono 1339 gli operatori sociali<br />

con una formazione qualificata acquisita nel corso del progetto<br />

e 306 le persone formate in corsi professionalizzati. 204<br />

quelle delle comunità locali che hanno lavorato per la costruzione<br />

di opere e cooperative, 114 i giovani formati in corsi professionali,<br />

562 quelli coinvolti in attività ricreative e 79 gli operatori educativi<br />

che hanno ricevuto il titolo necessario secondo la legge sull’educazione<br />

infantile.<br />

José Eduardo Ferriera Santos è uno di questi. La sua famiglia fino a<br />

dieci anni fa viveva su una palafitta. Oggi, dopo la laurea in pedagogia<br />

e il dottorato in psicologia dello sviluppo, opera come professionista<br />

all’interno della componente socio-educativa del programma<br />

di Ribera. Ma è anche il coordinatore di un asilo,<br />

quello dedicato a don Giussani, nato nell’area. Nessuno<br />

meglio di lui può testimoniare il valore di una presenza<br />

creativa e operativa che cambia la vita.<br />

José è uno dei primi adolescenti coinvolti dal «Progetto<br />

Novos Alagados» dei primi anni Novanta. Per noi ritorna<br />

a quegli anni. Ricorda che l’arrivo di iniziative sociali<br />

ed educative ha permesso agli adolescenti dell’area di fare<br />

esperienza di qualcosa di nuovo e diverso. Di conoscere<br />

il mondo esterno. «L’urbanizzazione – continua –<br />

ha portato opportunità di lavoro. La mobilitazione sociale,<br />

indotta dagli interventi, ha creato vincoli tra le persone<br />

e le famiglie.» Ha trovato una via di speranza e si è<br />

fatto compagno di tanti ragazzi della sua comunità. Lo<br />

scrive nella sua pubblicazione Travessias, a adolescência em<br />

Novos Alagados. Con l’arrivo delle prime iniziative educative<br />

informali gli adolescenti hanno trovato adulti che<br />

iniziavano a diventare riferimenti. Riferimenti che avevano<br />

perduto. Queste iniziative hanno favorito la scolarizzazione<br />

fino a portare diversi gruppi di giovani all’università. E<br />

questa possibilità ha cambiato la vita di molti adolescenti abituati<br />

alla violenza. Di fronte a due possibilità – racconta – «da un lato<br />

lo sport, la cultura e l’educazione, dall’altro la droga e il furto, alcuni<br />

hanno seguito la speranza, altri la marginalità».<br />

Eduardo ci racconta questa alternativa attraverso le storie di quattro<br />

ragazzi che ha seguito come educatore. Uno di questi ha passato<br />

un’adolescenza tra la vita regolare e la delinquenza. Determinante<br />

fu il rapporto con un adulto del centro educativo che frequentava.<br />

La musica e lo sport, la proposta di una vita orientata al<br />

bello lo portano, una volta concluso il percorso educativo, intorno<br />

ai 18 anni, a desiderare un lavoro regolare che trova. A 24 anni<br />

però, mentre si precipita in soccorso al cognato ferito da un aggressore,<br />

viene colpito e muore. La madre, con cui aveva avuto un<br />

rapporto di rispetto e amore, certo, ma molto conflittuale, ha detto<br />

che il desiderio di suo figlio, quello di uscire dalla marginalità,<br />

116


IL SEGRETO PER COSTRUIRE SULL’ACQUA<br />

in fondo si era realizzato. «Giovane elettricista ucciso» titolava il<br />

giornale locale. Non uno sbandato, ma un lavoratore era stato ucciso<br />

dalla violenza.<br />

Come questa sono tante le storie che parlano di persone la cui vita<br />

cambia attraverso l’incontro con adulti e proposte che rispondono<br />

al desiderio umano. I ragazzi, ma anche gli adulti, di fronte<br />

ad una proposta di bellezza e di bene, anche se immersi nella violenza,<br />

nell’emarginazione e nella precarietà ne sentono il fascino.<br />

La sfida sta nel metterli in condizione di poter fare la scelta. Questa<br />

è la valenza educativa di ogni progetto.<br />

117


LAVORARE SALVA


LAVORARE SALVA<br />

Una recente indagine ha rivelato che per il 75% degli americani<br />

la paura più profonda – un vero incubo – non riguarda<br />

il terrorismo, ma la perdita del lavoro e di conseguenza<br />

la perdita della propria posizione sociale. Il dato contiene<br />

due elementi interessanti. Primo, il senso di assoluta precarietà<br />

con cui si vive la dimensione del lavoro nelle società industrializzate.<br />

Nell’era della globalizzazione ogni giorno milioni di persone<br />

si svegliano nel timore che quello potrebbe essere l’ultimo giorno<br />

di un impiego in fabbrica o in ufficio. Quello che per molti anni<br />

nel dopoguerra è stato un quadro stabile di esistenza e relazioni,<br />

un percorso chiaro e quasi «garantito», ciò che appunto veniva assicurato<br />

al lavoro, da un lavoro, da tempo si è sbiadito e ingrigito.<br />

Del resto, uno scenario al 2030 delineato nel 2006 dalla Banca<br />

Mondiale metteva in chiaro che nel grande sommovimento planetario<br />

della globalizzazione ci sarebbero stati certamente dei perdenti:<br />

i lavoratori privi di specializzazione nei paesi ricchi a causa<br />

della concorrenza di una forza lavoro che preme sulle economie<br />

avanzate e che da 3 miliardi di individui aumenterà (entro venticinque<br />

anni) a 4,1 miliardi. Uomini e donne, ma con particolare<br />

gravità per le donne. Il secondo elemento di interesse di quell’indagine<br />

è il legame indissolubile tra lavoro e posizione sociale. Non<br />

dobbiamo intendere posizione sociale nel senso dell’onorabilità e<br />

della rispettabilità (almeno non in primo luogo), ma nel senso del<br />

rischio concreto che la perdita dell’impiego trascini con sé la perdita<br />

della casa, poiché non si può pagare il mutuo o l’affitto, della<br />

scuola per i figli, poiché non si può più pagare la retta, dell’assicurazione<br />

sanitaria, poiché non si può più pagare il premio. Il timore<br />

di essere risucchiati nella povertà: un fenomeno sociale che negli<br />

Stati Uniti è stato ben studiato e raccontato sia dal linguaggio<br />

scientifico, sia da quello simbolico del cinema o del romanzo.<br />

Questi due elementi, l’arbitrarietà cui è sottoposto il lavoro e il peso<br />

che ha rispetto a tutto il complesso dell’esistenza, suggeriscono<br />

fattori reali, veri, evidenti. È quasi ovvio riconoscere il valore<br />

del lavoro nella vita dell’uomo. Il fatto è che questo valore ha<br />

subìto una trasformazione mostruosa, passa attraverso gli specchi<br />

deformanti della non cultura, della non educazione, e ci viene<br />

restituito come un mero espediente per restare agganciati al<br />

treno che passa. Un mestiere, un contratto, un salario, un orario:<br />

la povera umiliante nevrosi con cui nel nostro mondo si vive il<br />

lavoro e che inevitabilmente genera gli incubi (così come il sonno<br />

della ragione).<br />

Scriveva l’allora cardinale Ratzinger: «La persona umana non è<br />

mai sola, essa viene plasmata da una comunità che le offre le forme<br />

del pensare, dell’agire, del sentire. Questo insieme di forme di<br />

pensare e di rappresentare, che plasma in antecedenza l’essere<br />

umano, la chiamiamo cultura […] Nel mondo greco al nostro<br />

concetto di cultura corrisponde quale termine più adeguato la parola<br />

paideia – educazione nel senso più alto in quanto conduce<br />

l’uomo alla vera umanità; i latini hanno espresso la stessa cosa con<br />

la parola eruditio: l’uomo viene di-rozzato, viene formato quale vero<br />

essere umano». Se il valore del lavoro è stato distrutto è per la<br />

mancanza di paideia e di eruditio. E se vogliamo ricostruirlo è da qui<br />

che occorre partire. Ciò risulta più chiaro nelle situazioni estreme,<br />

nei deserti (anche umani) del Kazakhstan o nelle baraccopoli del<br />

Kenya. Un mestiere non basta a riempire il bisogno, nemmeno<br />

quello materiale. Perché qualunque mestiere, anche il più semplice<br />

e modesto, è legato indissolubilmente non alla «posizione sociale»,<br />

ma al modo con cui si pensa a se stessi, alla propria dignità,<br />

alla responsabilità verso la famiglia e la comunità, all’intero spazio<br />

della propria esistenza.<br />

A Nairobi, per progettare l’avviamento al lavoro serve paideia, serve<br />

cultura, serve una connessione con il tutto, serve uno sguardo<br />

121


LAVORARE SALVA<br />

integrale sulla persona. E lo stesso ad Almaty, la vecchia capitale<br />

kazakha, per poter coinvolgere duemila giovani nel processo di<br />

costruzione del proprio futuro. E come si sarebbe potuto fare diversamente<br />

a Belo Horizonte, in Brasile, per far crescere quell’«Albero<br />

della vita» che ha visto protagonista addirittura la Fiat Automobili<br />

Brasile Così nel sud del Libano è possibile (possibile, non<br />

garantito) stemperare conflitti e tensioni tra le comunità, aiutando<br />

l’attività dei contadini, ricreando condizioni materiali e morali<br />

del vivere insieme. Ecco quello che si coglie nella lettura delle<br />

prossime pagine. Ogni singolo progetto è frutto di eruditio, di una<br />

cultura, di una «forma del pensare, dell’agire, del sentire». Cioè:<br />

nelle società «altre», povere o in via di sviluppo, si fa l’esperienza<br />

del lavoro che le nostre società hanno fatto all’origine e che ha<br />

permesso loro di raggiungere livelli di progresso e benessere senza<br />

pari. Solo che oggi non riescono più a fare quell’esperienza e temono,<br />

come registra la Banca Mondiale, la «concorrenza» che<br />

porterà via impieghi e posizioni sociali. Ma c’è un’altra possibilità:<br />

tornare alla cultura, alle parole del greco e del latino, che oggi<br />

occorre imparare di nuovo, magari attraverso l’esempio di una<br />

scuola africana o di una cooperativa nella valle della Bekaa.<br />

122


UN FIUME PER RICOMINCIARE<br />

Baalbek – la città sacra dei regni fenici – ha una storia antica<br />

e tormentata. Qui venivano consumati i sacrifici umani<br />

pretesi dai sacerdoti del crudele Baal, il dio del sole. Qui i<br />

romani edificarono gli imponenti templi di Bacco, Giove e Venere,<br />

sopravvissuti alle guerre e ai secoli.<br />

Oggi questa città leggendaria è centro dell’integralismo sciita, culla<br />

di Hezbollah – il partito di Dio –, protagonista negli ultimi anni<br />

degli scontri con Israele e della tumultuosa vita politica libanese.<br />

Da Baalbek seguiremo il flusso di solidarietà, impegno e finanziamenti<br />

che contribuisce a trasformare fiumi e corsi d’acqua in<br />

frutto di benessere e convivenza.<br />

Siamo in Libano, nella valle della Bekaa, settanta chilometri circa<br />

a nord-est di Beirut. In questa fertile pianura, sulle rive del fiume<br />

Litani, si sono stabilite decine di migliaia di persone delle più diverse<br />

comunità. Sciiti, cristiani, sunniti e drusi vivono della stessa<br />

risorsa, l’acqua, fondamentale per il loro fabbisogno e per quello<br />

dei loro campi. E ci sono anche contadini o lavoratori stagionali<br />

provenienti dalla vicina Siria. A spiegarcelo è uno di loro: «Venia-<br />

123


124


125


LIBANO<br />

mo all’inizio dell’estate e ce ne andiamo quando comincia<br />

a fare inverno. Guadagniamo 400 lire libanesi, mentre<br />

in Siria ce ne danno 300».<br />

L’acqua non è solo una risorsa indispensabile. In un paese<br />

diviso fra comunità e confessioni religiose, lacerate in<br />

passato da sanguinosi conflitti, questa fonte primaria<br />

può divenire facilmente un pericoloso fattore di divisione.<br />

Farla scorrere, strapparla a montagne e rocce, portarla<br />

a irrigare campi e piantagioni contribuisce a favorire<br />

il benessere delle diverse comunità, sviluppando un’equilibrata<br />

e pacifica convivenza.<br />

A Baalbek vivono più di centomila persone. Dipendono<br />

da due fonti – le sorgenti del fiume Litani sulle alture<br />

circostanti – e da altrettanti depositi idrici.<br />

Nell’estate 2006 esplode la guerra. Hezbollah invade il<br />

territorio israeliano distruggendo un’unità militare. La<br />

controffensiva non si fa attendere. Hassan Nasrallah,<br />

leader del partito di Dio, è obiettivo delle operazioni<br />

israeliane: i centri di Hezbollah vengono bombardati e<br />

con essi gran parte delle infrastrutture. A farne le spese,<br />

insieme alla popolazione, è anche una cisterna da tre milioni<br />

di litri d’acqua. Un capolavoro ingegneristico, costruito<br />

sulle ceneri di un antico acquedotto romano, finalizzato<br />

all’approvvigionamento idrico di 150.000 abitanti<br />

nella valle della Bekaa.<br />

In meno di un anno AVSI, con il contributo di ECHO, il<br />

programma europeo per l’emergenza umanitaria, ha<br />

portato a termine la ricostruzione del deposito idrico<br />

che rifornisce di acqua potabile Baalbek. Ma per riportare<br />

l’acqua nei canali è stato necessario riabilitare il<br />

complesso sistema di imbrigliamento delle sorgenti sulle<br />

creste montagnose a poche centinaia di metri dalla<br />

frontiera siriana.<br />

La sorgente di Juini è una di queste. Si trova a meno di<br />

un chilometro dal confine con la Siria. «A pochissimi<br />

metri dalla fonte – spiega Marco Perini di AVSI in Liba-<br />

126


UN FIUME PER RICOMINCIARE<br />

no – abbiamo trovato tracce di fortificazioni romane<br />

ancora intatte.» I vecchi gradini utilizzati in passato per<br />

ridurre in modo naturale la pressione dell’acqua sono<br />

stati sostituiti da moderni centri di depressurizzazione<br />

collocati tra la fonte e la città di Baalbek e collegati da un<br />

sofisticato sistema di tubature. Insomma, un complesso<br />

lavoro di ripristino che ha permesso la ripresa dell’agricoltura<br />

e delle coltivazioni anche nella pianura della Bekaa<br />

a sud di Baalbek.<br />

«Quando è stata colpita questa valle – racconta un pastore<br />

– siamo rimasti senz’acqua, non potevamo irrigare<br />

i campi. Non potevamo più coltivare e raccogliere<br />

nulla.» L’acqua pompata dal lago Karaoun al Canale<br />

900, appena riabilitato, attraversa per 45 chilometri la<br />

pianura permettendo l’irrigazione di tutta l’area sotto ai<br />

900 metri d’altitudine.<br />

Ma irrigare a volte non basta. Nelle zone della Bekaa gli<br />

agronomi devono riuscire a coniugare acqua e nuove<br />

tecnologie. Mescolare tradizioni agricole con nuove conoscenze<br />

per trasformare argilla in zolle fertili e rigogliose.<br />

Per questo motivo a Kartaba, grazie a fondi del<br />

Ministero degli Affari Esteri italiano, della Conferenza<br />

Episcopale Italiana e dell’Unione Europea (Programma<br />

MEDA), è stato creato un centro di formazione e di assistenza<br />

tecnica per più di 100 agricoltori e allevatori della<br />

regione di Jbeil-Byblos. Centro che, dal giugno 2006,<br />

è divenuto partner del progetto per la «Promozione dell’Agricoltura<br />

sostenibile in Libano» finanziato dalla Regione<br />

Lombardia. L’introduzione di questo centro per<br />

lo studio dei terreni, di nuove tecniche agricole e d’allevamento<br />

con la conseguente produzione e commercializzazione<br />

di prodotti tipici per il mercato locale, ha permesso<br />

che a beneficiarne fossero indirettamente 100<br />

mila persone.<br />

A Beirut incontriamo Fedi Khomair, direttore del Ministero<br />

libanese delle Acque e delle Risorse Energetiche.<br />

127


LIBANO<br />

Da anni collabora con AVSI e Unione Europea per trasformare le<br />

risorse idriche del paese in fonte di sviluppo e convivenza. «Nella<br />

Bibbia – ci dice –, nel Nuovo Testamento e pure nel Corano, l’acqua<br />

è usata per purificare. È usata per annunciare quello che chiamiamo<br />

vita. Con le attività di AVSI è stata data l’acqua a libanesi<br />

sciiti, cristiani, sanniti o drusi, senza alcuna differenza.»<br />

Nel sud del paese le rovine della recente guerra sono ancora uno<br />

scenario consueto. Bunker, fortificazioni e bandiere ricordano come<br />

esercito israeliano e miliziani di Hezbollah continuino a studiarsi<br />

e a fronteggiarsi. È in queste terre, dove il fiume Litani piega<br />

a ovest per sfociare nel Mediterraneo, che sono stanziati dall’estate<br />

2006 i 13 mila caschi blu delle Nazioni Unite della missione<br />

UNIFIL.<br />

Nei villaggi a ridosso di questa frontiera la vita deve comunque<br />

andare avanti: i campi devono venire irrigati e coltivati, e i raccolti<br />

incrementati. «La sorgente di Dardara si trova proprio nel mezzo<br />

della piana di Marjayoun e serve a irrigare molti terreni – spiega<br />

Maya Aoun –. La sua acqua viene utilizzata dai contadini di entrambe<br />

le comunità: da quelli di Khiam, musulmani sciiti, e da<br />

quelli di Klaya e Bourj al Muluk, cristiani.» Proprio qui AVSI, con i<br />

fondi della Cooperazione Italiana (Programma ROSS) e la collaborazione<br />

tecnico-scientifica della Facoltà di Agraria dell’Università<br />

degli Studi di Milano, sta riabilitando il sistema di distribuzione<br />

della fonte lungo oltre 5000 metri.<br />

Ripartire dalle sponde del Litani, il ribattezzato «fiume della convivenza»,<br />

per rilanciare il Libano dopo i sanguinosi combattimenti<br />

di luglio e agosto 2006 ha significato e significa quindi sostenere<br />

decine di migliaia di persone delle diverse comunità. AVSI, attiva<br />

in Libano dal 1996, è presente con uffici a Beirut, Jounieh, Marjayuon<br />

e in West Bekaa, e un’equipe composta da cinque esperti<br />

italiani e una ventina di persone reclutate in territorio libanese.<br />

Oggi sono cinque i progetti realizzati nel paese, alcuni dei quali<br />

con i finanziamenti della Cooperazione Italiana. Progetti di grandi<br />

dimensioni come quello denominato «Acqua sorgente di convivenza:<br />

interventi di sviluppo socio-economico e agro-ambientale<br />

nella Kaza di Marjayoun e in West Bekaa», l’ultimo di cui abbiamo<br />

parlato. Un progetto che vedrà 4700 beneficiari diretti e<br />

20.650 indiretti, attraverso la gestione del sistema irriguo della piana,<br />

la creazione di un network di commercializzazione dei prodotti<br />

agricoli, la riduzione della filiera commerciale e un sistema di<br />

monitoraggio dei prezzi. Ma anche il sostegno scolastico e sanitario<br />

di 300 bambini vulnerabili, attività socio-educative (pubbliche<br />

e private) in 10 scuole e quelle psicosociali in altrettante, la formazione<br />

di 40 insegnanti e di 30 assistenti sociali e la redazione e diffusione<br />

di un giornalino interscolastico sono alcuni dei tanti interventi<br />

previsti e in via di completamento.<br />

«Acqua sorgente di convivenza: fiume Nahr El Kalb» è la denominazione<br />

di un altro progetto, iniziato nel 2007 con il contributo<br />

della Regione Lombardia. E questa volta a beneficiarne saranno<br />

circa un milione di persone tra la regione del Kesrouan e la capitale.<br />

La descrizione generale delle caratteristiche del bacino per<br />

le acque superficiali e sotterranee, l’individuazione delle aree sensibili<br />

e vulnerabili e la mappa delle reti di monitoraggio, l’indicazione<br />

degli obiettivi di qualità e quella delle misure per il loro raggiungimento<br />

sono solo una parte delle azioni previste da questo<br />

intervento, che durerà fino all’aprile 2009.<br />

Nel 2006, durante il conflitto, era scattato un progetto d’emergenza<br />

per sfollati con la distribuzione di cibo e generi di prima necessità.<br />

Dopo il conflitto, oltre ad azioni di post-emergenza, AVSI ha<br />

sostenuto la ripresa delle attività nel settore agricolo, fonte di sostentamento<br />

di gran parte della popolazione libanese. È il progetto<br />

di «Promozione dell’Agricoltura sostenibile in Libano», in collaborazione<br />

con Regione Lombardia, di cui hanno beneficiato direttamente<br />

250 persone, ma che ne ha coinvolte indirettamente altre<br />

1250. L’intervento ha visto la formazione di 40 tecnici sulle<br />

metodologie Integrated Pest Managemant (IPM), 15 Farmers Field<br />

Schools, la realizzazione di tre Protocolli di Produzione (patata,<br />

melo e pesco) e l’accompagnamento degli agricoltori alla commercializzazione<br />

di tali prodotti.<br />

Insomma, progetti recentissimi e di lunga data come quello del<br />

sostegno a distanza, con 1800 bambini delle diverse comunità aiutati<br />

attraverso il pagamento delle rette scolastiche e la fornitura di<br />

128


UN FIUME PER RICOMINCIARE<br />

materiali didattici, l’assistenza sanitaria e attività generatrici di<br />

guadagno per le famiglie. Attività ricreative e socio-culturali utili a<br />

ricostruire una speranza messa a dura prova da decenni di scontri<br />

e conflitti.<br />

La casa di Fatima, nel villaggio di Khiam, è stata colpita almeno<br />

tre volte durante il conflitto del 2006. «Certo che ho paura che torni<br />

la guerra. Ho paura di dover scappare, lasciare la mia casa e andarmene<br />

di nuovo.» A casa di Laila, una bambina cristiana di Klaya,<br />

le paure e le ansie sono le stesse: «Ho trent’anni. Sono nata durante<br />

la guerra, mi sono sposata con la guerra, ho partorito mentre<br />

c’era la guerra – afferma la mamma –. Non riesco proprio a<br />

sperare nella pace.»<br />

Qui a sud, per ridare speranza alle famiglie AVSI investe nell’educazione<br />

e nella creazione di microimprese familiari. I fondi del sostegno<br />

a distanza, messi a disposizione di circa 150 bambini di<br />

questa zona, servono soprattutto a coprire i costi dell’istruzione.<br />

Vengono pagate le spese a Laila, iscritta alla scuola delle suore nella<br />

cittadina di Klaya, e a Fatina, che frequenta la scuola pubblica di<br />

Khiam. Ma il sostegno più importante è quello al lavoro: «Sono<br />

venuti a trovarci e ci hanno fatto avere una mucca, poi è nato il vitello<br />

e ora la mucca ci dà latte e yogurt. Papà li vende, ci guadagna<br />

dei soldi e può comperare da mangiare per noi». A casa di Faris sono<br />

invece arrivate cinque arnie di api: «A sud c’è molto da fare. Ci<br />

vive poca gente e non c’è lavoro. Avevo perso il mio perché non<br />

c’era più richiesta. Mi hanno offerto un’opportunità, pagandomi<br />

cinque arnie e aiutandomi a far partire questo piccolo progetto.<br />

Assieme a un nuovo lavoro ho trovato anche la possibilità di un<br />

futuro migliore».<br />

129


DUEMILA GIOVANI IN MEZZO ALL’ASIA<br />

Almaty, Alma-Ata in russo, è la città più popolata del Kazakhstan;<br />

è la capitale della Repubblica Socialista Sovietica<br />

dal 1929 al 1991 e poi della Repubblica kazaka fino al<br />

1998, quando le sedi governative vengono trasferite nella più centrale<br />

Astana. Il nome significa «padre delle mele» quasi a suggerire<br />

il luogo d’origine leggendaria del frutto. Qui nel 1991 venne firmato<br />

il trattato che pose fine all’Unione Sovietica e qui abitano oltre<br />

un milione di persone, poco meno del 10% di tutto il paese.<br />

Siamo nel Kazakhstan sudorientale, in Asia centrale, a poche centinaia<br />

di chilometri dalla muraglia cinese. Una terra di deserti e rari<br />

agglomerati urbani. Luoghi bruciati dal sole d’estate e ricoperti<br />

di neve nei mesi invernali. Posti in cui le temperature possono<br />

sfiorare i quaranta gradi e precipitare al di sotto dello zero di 20,<br />

25 gradi durante l’inverno.<br />

Nella seconda metà del XIX secolo queste terre vengono conquistate<br />

dagli eserciti zaristi, diventano parte dell’impero russo e della<br />

sua colonia meridionale, quel Turkestan che prendeva il nome<br />

dalle parlate dialettali turche della popolazione locale.<br />

Nel 1917 una rivolta antizarista viene sobillata dagli stessi coloni<br />

russi e tutta la regione entra definitivamente nell’orbita bolscevica;<br />

nel 1924 viene divisa in cinque repubbliche: Turkmenistan,<br />

Tadzikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e – a tappe successive –,<br />

Kazakhstan. Abbandonate le repressioni di massa, Kruscev e poi<br />

Breznev adottano una nuova politica di dominazione: «A capo di<br />

ogni istituzione stava di regola un obruscony locale – scrive il giornalista<br />

polacco Ryszard Kapuscinski, in Imperium – ma il suo vice<br />

era sempre un russo che prendeva ordini da Mosca. Un obruscony<br />

era un russo dell’Asia centrale che aveva preso il posto dell’esigua<br />

intelligencija, vittima delle repressioni staliniane assieme alle masse<br />

contadine e al clero musulmano. A capo di ogni repubblica stava<br />

un visir, primo segretario del Comitato Centrale del partito locale.<br />

Una carica a vita, secondo la tradizione orientale. Diumuchammed<br />

Kunaev fu primo segretario del Kazakhstan per ventisei anni,<br />

ci volle Gorbachev per destituirlo.»<br />

Un paese – nono al mondo per superficie quadrata – lacerato dalla<br />

corruzione, utilizzato per esperimenti nucleari e per lanci spaziali.<br />

Un paese sincopato, a tante – troppe – velocità, con un sottosuolo<br />

ricco di petrolio e minerali, ma con la maggior parte della<br />

società dilaniata da povertà.<br />

Almaty è una città scomposta, dal panorama caotico, caratterizzata<br />

da un complesso snodo di condotti nei quali scorrono, per interminabili<br />

chilometri, le risorse energetiche del sottosuolo. Un<br />

groviglio di tubi, linee argentate che sembrano determinare la fisionomia<br />

degli edifici, così disomogenei gli uni dagli altri. Paradigma<br />

di una popolazione dai tratti somatici differenti.<br />

Una città ai confini del mondo in un paese distante e isolato: vicina<br />

alla Cina, ma con radici nella lontanissima Mosca.<br />

In questo «sobborgo del pianeta» il problema dei minori – orfani<br />

naturali o sociali – è di notevole rilievo. I collegi e le «scuole internato»<br />

dello stato hanno l’obbligo di accogliere i minori fino all’età<br />

di 16 anni e non oltre i 18. Ma una volta fuori da queste strutture la<br />

maggior parte di loro, anche se maggiorenni, non è pronta a camminare<br />

da sola e si perde per strada. Aiutare questi giovani con la<br />

formazione per introdurli nel mercato del lavoro è fondamentale.<br />

Stare con loro, non farli sentire soli, sostenerli nella crescita mostrando<br />

diverse opportunità e aiutarli nella scoperta dei propri talenti<br />

è uno stimolo che accende la scintilla dello sviluppo. Un’attività<br />

che AVSI svolge dal 2002 attraverso diversi progetti realizzati<br />

insieme al partner locale International Association for Social Projects,<br />

(MASP).<br />

Oggi troppi giovani faticano a inserirsi nel mondo del lavoro.<br />

Qualcuno abbandona la scuola non riuscendo poi a trovare un’occupazione,<br />

altri lasciano il lavoro per la mancanza di motivazioni<br />

adeguate. Gli operatori le chiamano «porte verso il disagio», che<br />

131


132


DUEMILA GIOVANI IN MEZZO ALL’ASIA<br />

tradiscono la fatica delle persone nel concepirsi utili, importanti,<br />

insomma un valore. Ecco il motore delle iniziative<br />

in Kazakhstan: la convinzione che a ogni essere<br />

umano deve essere fornita la possibilità di accedere a<br />

percorsi formativi e trovare un lavoro.<br />

«All’origine del lavoro, infatti – spiega Elmira Frizorger,<br />

responsabile di MASP –, c’è la convinzione che i fattori<br />

costitutivi della persona emergano solo dentro l’azione<br />

nei confronti della realtà. Per questo il lavoro è un bisogno<br />

fondamentale della persona, non semplicemente<br />

un dovere o un diritto.»<br />

Già da diversi anni MASP si occupa prevalentemente di<br />

giovani provenienti da esperienze di abbandono o con<br />

situazioni familiari molto difficili. Situazioni nelle quali<br />

è assente il concetto di famiglia, in cui il tasso di istruzione<br />

è estremamente basso e il lavoro manca.<br />

Mentre una fetta della società kazaka sta scoprendo il<br />

«benessere» legato alle attività delle industrie del gas e<br />

del petrolio, l’altra parte sembra andare sempre più alla<br />

deriva: niente istruzione, niente lavoro… e lo stato Lo<br />

stato c’è, ma distratto dai benefici di una nuova e frenetica<br />

economia, non si impegna per consolidare le fragili<br />

basi di una società in cui i cittadini – soprattutto i giovani<br />

– faticano a trovare un futuro e servizi adeguati alla<br />

persona.<br />

Le attività sono diverse, mirano a costruire ponti tra i<br />

giovani e il mondo della scuola o quello del lavoro, seguendo<br />

la scia dello sviluppo urbano che richiede in numero<br />

sempre maggiore nuove aziende, nuove strutture<br />

alberghiere e servizi per accogliere gli investitori. Formare<br />

in queste nuove professioni è un compito fondamentale<br />

e necessario.<br />

L’avventura, incominciata grazie ai primi aiuti economici<br />

provenienti della campagna di AVSI legata alle Tende<br />

del 2002, ha visto differenziarsi diversi progetti, e con<br />

questi i finanziamenti provenienti successivamente an-<br />

133


KAZAKHSTAN<br />

che dalla Commissione Europea, dal governo austriaco e da diverse<br />

associazioni tedesche.<br />

AVSI inizia a lavorare in Kazakhstan nel 1997, dove un sacerdote<br />

italiano era stato nominato direttore della Caritas. Don Adelio<br />

Dell’Oro propone il sostegno a distanza a favore di bambini e famiglie<br />

molto povere della città di Karagandà. Da qui, attraverso il<br />

percorso del sacerdote e di alcuni suoi confratelli, AVSI approda ad<br />

Almaty.<br />

Tre i progetti fondamentali. Il primo è quello che i tecnici chiamano<br />

«Sportello di orientamento e di aiuto all’inserimento lavorativo».<br />

A beneficiarne sono state già 1400 persone. Lo sportello di<br />

Almaty vuole offrire un servizio di orientamento e accompagnamento<br />

scolastico/professionale ai giovani della città e, in particolare,<br />

a quelli provenienti da situazioni difficili. Così, attraverso criteri<br />

suggeriti dal contesto locale e dai singoli utenti, lo sportello<br />

organizza un servizio di accoglienza e un primo colloquio. Crea e<br />

134


DUEMILA GIOVANI IN MEZZO ALL’ASIA<br />

propone un pacchetto individuale di orientamento prodotto da<br />

personale specializzato e, allo stesso tempo, divulga presso istituti<br />

e realtà operanti con ragazzi disagiati informazioni relative alle<br />

possibilità di percorsi di studio. Collabora con istituti, scuole professionali<br />

e strutture pubbliche e organizza seminari di orientamento<br />

per gli studenti. Eroga borse di studio o stipendi per garantire<br />

la frequenza scolastica.<br />

Tra gli scopi c’è anche l’assistenza agli utenti nel processo di inserimento<br />

al lavoro. E sono circa 100 le persone che ne hanno beneficiato<br />

dal 2002. Colloqui, raccolta dati, orientamento occupazionale,<br />

divulgazione informativa e stesura del curriculum. Ma anche consultazione<br />

di giornali e collaborazioni con aziende fino all’organizzazione<br />

di periodi formativi sul campo sono alcune delle azioni<br />

principali. Da anni poi i rapporti con alcune scuole professionali di<br />

Almaty sono sfociati in una collaborazione che vede questi istituti<br />

accogliere ragazzi che MASP invia loro per effettuare percorsi triennali<br />

con specializzazioni richieste dal mercato del lavoro.<br />

Una seconda attività, strettamente connessa alla funzione dello<br />

sportello, è quella dei «Seminari di orientamento e di supporto ai<br />

giovani nella ricerca del lavoro»: seminari per l’orientamento scolastico,<br />

frequentati da almeno 150 ragazzi, e seminari per l’inserimento<br />

lavorativo (100 beneficiari). Si tratta, nello specifico, di una<br />

serie di incontri offerti a ragazzi provenienti da situazioni di abbandono,<br />

disagio e povertà. Un’iniziativa nata dall’esperienza maturata<br />

in questi anni e che ha mostrato la necessità di interventi più<br />

intensivi e specializzati per i giovani che vengono dagli orfanotrofi,<br />

dalle «scuole internato» e dagli istituti speciali. Luoghi estremamente<br />

difficili, veri «deserti umani», nei quali hanno vissuto fin da<br />

bambini e nei quali sono cresciuti. Luoghi che hanno lasciato un<br />

profondo disagio.<br />

I seminari durano 14 giorni e si organizzano in due parti. Nella<br />

prima sezione, «autosviluppo della personalità», gli adolescenti<br />

vengono accompagnati in una maggiore conoscenza di sé, «nell’individuazione<br />

dei propri punti di forza e dei propri punti di debolezza,<br />

focalizzando una strada da percorrere», dice Elmira. La<br />

seconda parte, invece, vuole fornire tutte le informazioni necessarie<br />

sulle possibilità di formazione scolastica e professionale presenti<br />

ad Almaty.<br />

C’è infine il progetto – il terzo, finalizzato alla formazione-lavoro<br />

– legato all’attività del Centro Giovanile di cui hanno beneficiato<br />

circa 100 ragazzi. I corsi – di informatica, segreteria e quelli per<br />

camerieri-barman e aiuto cuoco – terminano con la stesura di un<br />

curriculum vitae e con la preparazione seminariale a un colloquio di<br />

lavoro.<br />

135


KAZAKHSTAN<br />

136


IL CUORE PULSANTE DI UNA BARACCOPOLI<br />

Inurbamento, crescita vertiginosa e squilibrata della popolazione<br />

sono fenomeni di moda a Nairobi da almeno 15 anni.<br />

Da quando, cioè, la città si è trovata protagonista di un clamoroso<br />

sviluppo industriale favorito dagli investimenti di numerosi<br />

paesi occidentali.<br />

Rispetto a dieci anni fa la capitale del Kenya ha triplicato il numero<br />

di abitanti – sono tre milioni le persone che vivono in questa metropoli<br />

africana. Vivono negli slums, le baraccopoli, che circondano il<br />

centro cittadino. Qualcosa del genere era successo in Europa nel XIX<br />

secolo, quando folle di uomini abbandonavano le campagne per riversarsi<br />

nelle catapecchie cittadine vicino alle fabbriche.<br />

In questi insediamenti miseria e precarietà della vita sono condizioni<br />

normali. L’alimentazione insufficiente – pesanti sono le ripercussioni<br />

sulla crescita di bambini e ragazzi –, le condizioni igieniche<br />

e sanitarie precarie, la disgregazione sociale e familiare spesso<br />

causata dall’assenza di lavoro, la mancanza di adeguata formazione<br />

scolastica per i giovani caratterizzano la quotidianità di chi<br />

vive negli slums e nelle zone periferiche della città.<br />

137


KENYA<br />

«Nei giovani – ci spiega Leo Capobianco, country representative di<br />

AVSI in Kenya – il senso di frustrazione e di ribellione è alimentato<br />

dall’impossibilità di trovare un lavoro che assicuri una vita dignitosa.»<br />

Pochi terminano le scuole primarie – un ciclo di studi<br />

dura otto anni – e pochissimi hanno una formazione tecnica professionale.<br />

Vivono di espedienti e di furti, diventano facile preda<br />

della delinquenza.<br />

Chi accede alla scuola secondaria spesso l’abbandona prima dell’esame<br />

finale e solo il 10% di chi completa gli studi può permettersi<br />

anche l’università. Alcuni trovano un’occupazione, la maggioranza,<br />

però, resta disoccupata e tra le cause c’è la scarsa qualifica professionale<br />

– tranne per indirizzi tecnici specifici – offerta dalla<br />

scuola secondaria, mentre la manodopera specializzata è richiestissima<br />

nel settore terziario e nella produzione artigianale.<br />

138


IL CUORE PULSANTE DI UNA BARACCOPOLI<br />

A Nairobi, e in tutto il Kenya, la formazione è certificata dagli esami<br />

«Grade III, II e I» organizzati dal Ministry of Education, Science and<br />

Technology attraverso il National Industrial Vocational Training and<br />

Trade Test Centre. Un livello superiore di istruzione tecnica è costituito<br />

dai corsi professionali «Artisan» e «Craft» a conclusione dei<br />

quali vengono rilasciati dal Ministero dell’Educazione i corrispondenti<br />

titoli di studio. Questi corsi, accanto a una buona formazione<br />

pratica, offrono un’approfondita preparazione teorica.<br />

Oggi in Kenya i corsi di formazione tecnico-professionale (Nairobi<br />

Politechnic) sono offerti da alcuni importanti istituti statali, ma<br />

soprattutto da circa 800 scuole gestite da enti privati, organizzazioni<br />

non governative e ordini religiosi. Il St. Kizito Vocational Training<br />

Institute è una di queste.<br />

La sua storia inizia nel 1991 grazie all'impegno di alcuni volontari<br />

139


KENYA<br />

dell’AVSI e al suggerimento dell’arcivescovo di Nairobi, il cardinale<br />

Maurice Michael Otunga: «Il Kenya e particolarmente Nairobi<br />

hanno un urgente bisogno di luoghi di educazione – scriveva il<br />

cardinale –, specialmente nel settore tecnico: molti sono preoccupati<br />

dei giovani che sono senza lavoro e che spesso rischiano di cadere<br />

nella disperazione o nella criminalità. La nostra preoccupazione<br />

e il nostro impegno verso questo fondamentale bisogno ci<br />

spingono a cercare continuamente delle risposte e sono contento<br />

che AVSI possa offrire assistenza per costruire una scuola tecnica<br />

a Nairobi, che raccolga quei giovani che vivono nella periferia della<br />

città. Sono sicuro che in questa iniziativa saranno presi in considerazione<br />

non solo gli aspetti tecnici, ma anche quelli umani.»<br />

Nello stesso anno comincia la costruzione degli edifici del centro<br />

di formazione che sorge nell’area periferica di Githurai-Kimbo,<br />

con l’urbanizzazione di oltre 20.000 metri quadrati e la realizzazione<br />

di capannoni, aule ed uffici per circa 8000 metri quadrati.<br />

Una superficie utilizzata per le attività della scuola che ospiterà laboratori<br />

di produzione completamente attrezzati e concepiti per<br />

consentire agli studenti di svolgere attività pratiche inerenti al tipo<br />

di corso a cui sono iscritti. Nel 1994 vengono completati i lavori.<br />

Prendono il via i primi corsi di formazione: quelli per falegname,<br />

meccanico ed elettricista. L’anno d’esordio vede 65 iscritti<br />

e otto docenti.<br />

Due anni più tardi, è il 1996, iniziano i corsi per segretaria d’azien-<br />

140


141


KENYA<br />

da e quelli di sartoria rivolti alle giovani donne, nello stesso periodo<br />

con il contributo dell’Unione Europea, la scuola viene ampliata<br />

e nasce la succursale di Roysambu, un quartiere a metà strada<br />

tra Istituto e centro città. Nel 1997, seguendo il consiglio del Ministry<br />

of Technical Training, viene avviato il secondo anno di corsi<br />

per elettricisti, falegnami e meccanici. È l’anno del corso per elettrauto<br />

e quello di computer. Un anno significativo anche dal punto<br />

di vista del partenariato. Dal 1997, infatti, nasce la collaborazione<br />

con Companionship of Work Association (CoWa), una realtà locale<br />

che ha lo scopo di mettere in contatto studente e mercato del<br />

lavoro aiutando nella ricerca di un’occupazione. Ma la lista delle<br />

collaborazioni non termina qui: ci sono anche AREP (Association<br />

Refugee Program), DOSRA (Domenican Sisters Refugee Agency)<br />

e AMECEA (Association of Members of Episcopal Conference of<br />

Eastern Africa).<br />

Nel 2000 si avvieranno i percorsi destinati alla formazione di idraulici<br />

e di tecnici elettricisti, nel 2002 quelli riservati alla preparazione<br />

di tecnici per reti informatiche, Internet e macchine d’ufficio.<br />

La scuola festeggia il decimo anniversario nel 2004. In quell’occasione<br />

gli iscritti sono 350 e 25 gli insegnanti. Tra questi molti dei<br />

primi studenti dell’istituto. I percorsi per meccanici ed elettricisti<br />

vengono riformulati l’anno seguente in modo da preparare i ragazzi<br />

alla prova finale: quella per il titolo di Artisan e Craft rilasciato<br />

dal Ministero dell’Educazione o quella rilasciata dall’ente internazionale<br />

City & Guilds. Il dato è sorprendente. Nel 2006 l’80%<br />

dei ragazzi che ha frequentato i corsi consegue i certificati, richiesti<br />

dalle aziende e utili per chi volesse studiare all’università. Nasce<br />

(e siamo nella storia recente) l’associazione St. Kizito voluta<br />

per dare stabilità alla gestione dell’Istituto Professionale.<br />

C’è una peculiarità che caratterizza la scuola. Rispondendo alla richiesta<br />

dell’allora cardinale di Nairobi, quella di offrire un luogo<br />

educativo soprattutto per i giovani con maggiori difficoltà, economiche<br />

e non, l’istituto ha da sempre aperto le proprie porte anche<br />

a ragazzi che hanno superato l’età scolare. Si tratta per lo più<br />

di ex ragazzi di strada, adolescenti che, grazie al lavoro di alcune<br />

organizzazioni internazionali, hanno abbandonato la strada per<br />

una vita regolare. Ma si trovano spesso anche tanti rifugiati provenienti<br />

da zone e paesi martoriati dalla guerra come Sudan, Congo<br />

o Rwanda. La loro età non supera i vent’anni, a volte sono già<br />

padri di famiglia. La St. Kizito li accoglie offrendo loro l’opportunità<br />

di migliorare la propria condizione di vita.<br />

Gli studenti partecipano alle spese della scuola, versando una<br />

quota pari a 10 euro mensili. Un importo simbolico sufficiente a<br />

motivare e responsabilizzare la loro partecipazione alle attività<br />

proposte. Ciononostante è solo grazie al progetto di sostegno a<br />

distanza che i ragazzi possono far fronte al pagamento dell’intera<br />

retta scolastica, permettendo all’istituto di offrire loro una formazione<br />

completa.<br />

142


L’INDUSTRIA, LA FAVELA E UN NUOVO ALBERO<br />

Il comune di Betim si trova nell’area metropolitana di Belo Horizonte<br />

in Brasile. Qui Fiat Automobili dà lavoro direttamente<br />

a 15.000 persone e indirettamente ad altre 8000. La presenza<br />

di questa zona industriale ha riacceso la speranza di trovare lavoro<br />

e fortuna in una grandissima fetta della popolazione. Così, nel corso<br />

degli anni, l’area limitrofa agli stabilimenti del gruppo torinese<br />

ha visto il sorgere di una baraccopoli di 35.000 abitanti: la favela di<br />

Jardim Terezopolis, un’area molto povera e violenta.<br />

L’immaginario collettivo degli ultimi tempi mostra un’interpretazione<br />

controversa sul ruolo delle imprese nello sviluppo dei paesi<br />

poveri. Le aziende, infatti, sarebbero da una parte soggetti indispensabili<br />

alla soluzione delle situazioni di povertà e dall’altra causa<br />

di conflitti sociali tra ricchi e poveri. Molte imprese hanno voluto<br />

ricollocarsi decisamente dalla parte positiva del dilemma avviando<br />

programmi di responsabilità sociale, cioè azioni visibili<br />

che potessero dimostrare un impegno reale anche nello sviluppo<br />

della società: Fiat è una di queste.<br />

Nel 2004 l’azienda italiana si orienta verso un’azione organica e integrata<br />

sul territorio: un’intuizione di Marco Lage, direttore della<br />

comunicazione Fiat Brasile, consistente nell’entrare con la propria<br />

specificità d’impresa nel paese, mobilitando tutte le risorse tipiche<br />

di un’azienda vincente. Nel frattempo Clodorvino Bellini,<br />

presidente della Fiat e premiato nel 2005 come imprenditore,<br />

mette a disposizione le proprie capacità per favorire la riduzione<br />

della violenza nell’area citata. È in questo momento che Fiat e AV-<br />

SI entrano in contatto grazie all’allora ambasciatore italiano in<br />

Brasile, Vincenzo Petrone: presente a Belo Horizonte da vent’anni,<br />

AVSI risultava un partner solido e affidabile.<br />

Fiat propone un progetto pilota, utile a verificare la sostenibilità<br />

della partnership. Un primo anno di azioni di studio territoriale e,<br />

in un secondo frangente, operative (corsi di formazione, sostegno<br />

alle strutture educative e sportive) in un confronto serrato, ricco<br />

e produttivo.<br />

«L’impresa, abituata a lavorare per obiettivi tutti raggiungibili pagando<br />

un prezzo, ha dovuto aprirsi a un nuovo mondo, con i suoi<br />

ritmi – ci dice Giorgio Capitanio, per oltre 11 anni in Brasile con<br />

AVSI – dettati dalla necessità di un approccio educativo alla questione<br />

della povertà e dalla necessità di un rapporto positivo con<br />

la comunità locale.»<br />

Arvore da vida, cioè «Albero della vita», è il nome del progetto<br />

inaugurato nel 2004. Una collaborazione fatta di incontri costanti<br />

e di confronti continui sulle azioni da intraprendere. Un<br />

progetto che è andato focalizzandosi intorno alla formazione<br />

professionale, al rafforzamento delle realtà educative, scolastiche<br />

e ricreative dell’area. Ma che ha visto anche l’avvio di una cooperativa<br />

di gadget prodotti con gli scarti di produzione, di maglie<br />

e tute da lavoro destinate principalmente alla rete di concessionari<br />

Fiat o alle numerose imprese del territorio. Il progetto<br />

prende il bel nome dal fatto che la crescita è lenta e progressiva,<br />

richiede cura e nutrimento. Insomma, non basta il denaro per lo<br />

sviluppo. Occorrono un lavoro con le persone e la scoperta della<br />

vita come valore.<br />

Il piano ha preso le mosse dalla radiografia socio-economica di<br />

Jardim Terezopolis, dai suoi punti di forza e da quelli vulnerabili.<br />

Una comunità molto complessa dove il 29,2% delle adolescenti<br />

tra i 15 e i 20 anni è protagonista di una gravidanza precoce, dove<br />

il tasso di mortalità infantile è pari all’11‰, dove i bambini colpiti<br />

da denutrizione sfiorano il 45% e dove il 31% delle morti avviene<br />

per cause esterne legate ad incidenti, omicidi e suicidi.<br />

Qui il 9% degli adulti sopra i 15 anni era analfabeta, il 55% della<br />

popolazione non era in possesso di un diploma di scuola dell’obbligo,<br />

solo il 27% degli adolescenti terminava gli studi di secondo<br />

grado e il ritardo scolastico medio dei ragazzi era di tre anni.<br />

L’educazione è uno dei fattori di intervento più significativi. A Jardim<br />

Terezopolis il 57% delle famiglie si trovava sotto la soglia di<br />

povertà, solo un componente lavorava nel 40% dei nuclei familia-<br />

143


BRASILE<br />

ri (composti in media da quattro persone) e dei 1800 giovani tra i<br />

16 e i 24 anni, il 26% si trovava disoccupato.<br />

In questo contesto la strategia ha dovuto privilegiare azioni inerenti<br />

a sviluppo umano, educazione e lavoro, attraverso il coinvolgimento<br />

globale di tutti gli attori presenti sul territorio. Gli 11 operatori<br />

implicati nel 2004 sono diventati 29 nel 2007, 19 dei quali<br />

aziende fornitrici di Fiat. Una partnership che ha interessato società<br />

civile, sistema pubblico e imprese private e che ha permesso<br />

di incidere su tutti i fattori in modo significativo: educazione e<br />

scolarizzazione in primis.<br />

Da allora si sono susseguiti programmi di alfabetizzazione e formazione<br />

professionale per migliorare l’accesso al mondo del lavo-<br />

144


145


146


L’INDUSTRIA, LA FAVELA E UN NUOVO ALBERO<br />

ro di migliaia di adulti, ma anche per le giovani generazioni. Partenariati<br />

con imprese finalizzati all’inserimento dei ragazzi nel<br />

mercato del lavoro a partire dalle esigenze delle imprese stesse,<br />

come per esempio i sistemi di alternanza. Microimprenditorialità<br />

e microcredito per sviluppare il reddito delle famiglie. E ancora:<br />

sostegno personale, familiare e sviluppo umano attraverso<br />

gli attori della società civile.<br />

La proposta fatta a giovani e adolescenti, in gran parte con casi<br />

di violenza alle spalle, è un «ciclo educativo» che inizia al termine<br />

della scuola media (13-14 anni) attraverso attività complementari<br />

(musica, sport, danza) in nesso con la scuola dell’obbligo.<br />

In tal modo si punta a fare emergere nei ragazzi la propria<br />

creatività e le proprie potenzialità. Successivamente si collocano<br />

i corsi di professionalizzazione del centro di formazione<br />

Fiat, gli stage in azienda e la contrattazione definitiva nelle varie<br />

imprese legate all’industria automobilistica.<br />

Ma c’è un ultimo aspetto da sottolineare: favorire lo sviluppo<br />

del territorio significa favorire le iniziative presenti sul territorio.<br />

Questo concetto, fatto proprio dall’azienda torinese, ha permesso<br />

fin da subito il coinvolgimento e la collaborazione con<br />

diversi «corpi intermedi», quella rete di associazioni locali – statali<br />

e non – che hanno potuto allargare le proprie strutture e acquistare<br />

nuove attrezzature grazie a un contributo economico.<br />

Il sostegno ai giovani, l’accompagnamento della famiglia e il rafforzamento<br />

delle 35 associazioni o istituzioni locali rappresentano<br />

la sfida di una comunità-favela che sta iniziando a camminare<br />

da sola. Sono 850 i ragazzi che hanno svolto corsi professionali<br />

dal 2004 e il 55% si è inserito nel mercato del lavoro. Il<br />

92% dei bambini oggi ha migliorato il proprio comportamento<br />

frequentando attività socio-educative, 160 educatori delle 6<br />

scuole di Jardim Terezopolis hanno fatto corsi di aggiornamento<br />

e l’indice di permanenza nella scuola è passato dall’83%<br />

(2004) al 98% (2006). Le gravidanze precoci si sono ridotte da<br />

169 a 148.<br />

Non è un caso, allora, se lo United Nations Development Program<br />

(UNDP) ha inserito il progetto, che dal 2007 ha visto anche<br />

il coinvolgimento di Cooperazione Italiana, tra le migliori pratiche<br />

brasiliane relative all’obiettivo del millennio «partnership<br />

per lo sviluppo». Si può dire senza tema di smentite che l’albero<br />

fiorito a Belo Horizonte rappresenta un esempio sorprendente<br />

di che cosa può fare l’alleanza tra una organizzazione di volontariato<br />

e una grande impresa, due mondi che uno schema ideologico<br />

superficiale e antistorico vuole per forza nemici. È ora di<br />

esportare questo nuovo modello brasiliano.<br />

147


SOSTEGNO A DISTANZA


IL PARTITO DEI SIGNORI SCHMIDT<br />

Numeri nascosti racchiudono forze potenti. Numeri che<br />

non si conoscono. O che quando si conoscono non stupiscono,<br />

se la testa non è disposta a leggerli per bene.<br />

Ora, è decisivo sapere, non solo per il nostro benessere mentale,<br />

ma soprattutto per il benessere sociale, che in Italia ci sono due<br />

milioni di sostegni a distanza. Dietro l’espressione Sostegno a Distanza<br />

(SAD, che ha preso il posto della più ambigua eppure più<br />

eloquente «adozione a distanza») c’è un bambino in povertà. È orfano,<br />

oppure la sua famiglia è in condizioni di estrema indigenza.<br />

Due milioni di bambini che noi italiani sosteniamo. Sostenere è<br />

una azione più precisa e diretta di un generico aiuto. Sostenere è<br />

un verbo che dice di un portare, di un sorreggere, di un accompagnare<br />

solido, fattivo. Altri numeri: il valore globale del SAD è di seicento<br />

milioni di euro (ma diventa incalcolabile se consideriamo<br />

l’indotto di un bambino che può andare a scuola, mangiare in modo<br />

decente, vestirsi ecc.), quattrocento le organizzazioni promotrici<br />

(ma ci sono diverse altre realtà meno formalizzate), sei milioni<br />

gli italiani coinvolti tra singoli, famiglie, aziende, gruppi. Ci si<br />

potrebbe fare un partito… Sono o non sono bei numeri, è o no<br />

un indice di benessere, tra i tanti che declamano la ultradecennale<br />

paralisi nazionale È vero che questi nostri tempi sono ritmati dai<br />

numeri della decrescita: di figli, di stipendi, di aria pulita; mai o<br />

quasi mai da quelli della crescita: del 5 per mille, del sostegno a distanza,<br />

dei progetti andati a buon fine.<br />

Perché fare questa scelta Perché spendere 312 euro all’anno per<br />

sostenere Meriem, Joseph, Fernando, Natalia Impossibile raccontare<br />

le singole vicende dei 35 mila bambini sostenuti a distanza<br />

dall’AVSI. Ma si sappia che per ognuno di loro, e 35 mila sono<br />

tanti, il SAD è stato un’ancora per la vita. Lo descrivono bene i tre<br />

esempi proposti nelle prossime pagine: Nigeria, Ecuador, Brasile,<br />

ecco il rendimento pazzesco ottenuto da una (buona) azione immessa<br />

in un mercato che non si misura a dividendi annuali ma a<br />

malattie guarite, classi frequentate, famiglie ritrovate. Un’azione<br />

semplice, diretta, efficace. Diceva un grande uomo, capace di stupire<br />

con verità elementari (don Giussani): «Bisognerebbe essere<br />

un sasso per non accorgersi del bisogno che ti circonda.» Già, ci<br />

hai mai pensato, sasso che non sei altro Di là dal mondo (dall’oceano,<br />

dalla nostra vita quotidiana, dalla nostra mente) c’è un<br />

bambino che ti aspetta, aspetta che tu gli renda la vita migliore, almeno<br />

un po’. Aspetta (anche da te) la soddisfazione di un diritto<br />

fondamentale, l’educazione. In che senso<br />

Quando a un bambino manca la famiglia, quando gli manca chi gli<br />

assicura il cibo, quando non c’è la scuola che lo istruisce, la comunità<br />

che lo accoglie, il medico che lo cura, il libro che lo aiuta o l’amicizia<br />

che lo consola; quando al posto di tutto questo trova lo<br />

sfruttatore, il rapitore, il ladro, l’assassino, il pedofilo, il plagiatore,<br />

quando trova il disprezzo e l’odio; che cosa manca, che cosa non<br />

trova Noi pensiamo che gli manchi l’educazione, che non trovi<br />

l’educazione. Educazione non è camminare impettiti in fila per<br />

due in un cortile né entrare in un edificio pieno di corridoi e di lavagne,<br />

non è superare un test e nemmeno rispondere a una serie<br />

di domande. Educazione è essere presi per mano da un amore che<br />

apre alla realtà; è camminare con qualcuno che si affeziona al tuo<br />

destino. Chi ama il bene del bambino vuole anche assicurargli anche<br />

il cibo e la protezione, lottare per la sua salute e la sua istruzione,<br />

inserirlo in una comunità di affetti, impegnarsi per il suo futuro.<br />

Ecco cosa fa chi educa. Quando manca questo viene meno un<br />

diritto fondamentale, uno dei pochi diritti davvero fondamentali.<br />

Non possiamo confonderlo con gli altri, annegarlo nel mare dei<br />

tanti diritti di prima, seconda o terza generazione (qualcuno già<br />

151


SOSTEGNO A DISTANZA<br />

parla della «quarta serie») che investono a ondate le organizzazioni<br />

internazionali e l’opinione pubblica mondiale. Infatti c’è un gioco<br />

a confondere e ad annacquare, a mettere tutto sullo stesso piano<br />

come se il diritto alla vita e quello all’igiene, il diritto all’educazione<br />

e quello alla mobilità fossero più o meno la medesima cosa.<br />

Lavorare per il diritto all’educazione significa dunque (ri)trovare<br />

delle gerarchie, tracciare distinzioni, stabilire priorità in un mondo<br />

che ha più voglia di mescolare che di selezionare. Il che vuol dire<br />

assumersi grandi e nuove responsabilità in ordine al mondo e al<br />

suo futuro. Lo sviluppo è innanzitutto un processo educativo.<br />

Attraverso il SAD, con un gesto di attenzione e pochi soldi si accende<br />

un motore potente, capace di arrivare chissà dove, come si<br />

vedrà. Ne sono testimonianza emozionante le lettere che due volte<br />

all’anno arrivano all’«amico a distanza». In esse i bambini, questi<br />

nostri bambini, narrano vicende semplici insieme mirabolanti,<br />

proprio come è la vita guardata con i loro occhi: un bel voto a<br />

scuola, una amicizia, un sogno, un sorriso della mamma, un cielo<br />

azzurro. L’esistenza come un prodigio.<br />

Qualche anno fa il Sostegno a Distanza è stato anche protagonista<br />

di un film, interpretato da Jack Nicholson: A proposito di Schmidt,<br />

la storia struggente di un uomo normale arrivato alla pensione e<br />

con i figli lontani. È solo, e tra giornate tutte vuote e tutte tristi, si<br />

domanda disperatamente come quell’assoluta normalità sia potuta<br />

coincidere con un’assoluta insensatezza. Ma un giorno arriva<br />

una lettera dall’Africa: il suo bambino, per il quale tempo prima<br />

aveva distrattamente firmato l’adesione a una proposta di sostegno,<br />

lo ringraziava. Era andato a scuola ed era prossimo alla laurea,<br />

grazie a lui, a quell’uomo qualunque che si sentiva così inutile.<br />

Nicholson-Schmidt sorride, era tanto tempo che non gli riusciva,<br />

ha combinato qualcosa di buono, gli è arrivato il segno di un<br />

Senso. In molti ci possiamo ritrovare in questa storia di un sasso<br />

che diventa uomo. Il nostro partito, quello dei sostenitori a distanza<br />

dell’AVSI (che, come vedrete nelle prossime pagine, aiuta 35 mila<br />

bambini in tutto il mondo), lo ha scelto come film-culto. Chiunque<br />

può iscriversi, la tessera costa 312 euro, in cambio si ricevono<br />

due lettere all’anno e un sorriso per sempre.<br />

152


UNA SCUOLA TIRA L’ALTRA<br />

Tutto inizia nel 1988 quando un gruppo di amici italiani si<br />

ritrova nella periferia di Lagos per aiutare gli abitanti di<br />

un piccolo villaggio di pescatori immigrati in Nigeria dal<br />

vicino Benin.<br />

Vivono in capanne erette sulla sabbia e molti su palafitte. Le loro<br />

imbarcazioni sono strette e lunghe. L’etnia Egun, cui appartengono,<br />

ha una storia travagliata di continui spostamenti, nomadi sempre<br />

in fuga.<br />

I più anziani della comunità raccontano con chiarezza l’esperienza<br />

dello sradicamento dai loro villaggi da parte del governo e dei<br />

proprietari delle terre. Negli anni Trenta i loro padri erano stati costretti<br />

ad abbandonare i villaggi a causa della costruzione di un<br />

153


154


UNA SCUOLA TIRA L’ALTRA<br />

ponte che collega Lagos all’isola Victoria. Da allora un continuo<br />

peregrinare fino a questa periferia, Ikate Waterside. L’impegno,<br />

che comincia in quel periodo grazie agli sforzi del prete della locale<br />

parrocchia, è quello di rendere stabile quel precario insediamento.<br />

Si comincia dalla scuola, la Ss. Peter and Paul, che accoglie<br />

i cento bambini del villaggio dei pescatori. È una struttura informale,<br />

senza pareti, un fragile tetto appoggiato sui pali, due insegnanti<br />

qualificati e cinque traduttori. Nessuno di loro è pagato.<br />

Nel 1991, riconoscendo il valore dell’iniziativa, AVSI stanzia i primi<br />

finanziamenti e aiuta i bambini con il sostegno a distanza. Intanto<br />

le «scuoline» arrivano a quattro. È il 1996. Il sostegno a distanza<br />

consente di fornire ai bambini anche l’assistenza sanitaria,<br />

usufruendo della preziosa esperienza e vicinanza della Clinica St.<br />

Kizito di AVSI che cura principalmente la denutrizione infantile e<br />

svolge intensi programmi contro l’AIDS. È un punto di svolta. I<br />

bambini vengono seguiti uno a uno, le loro mamme coinvolte con<br />

attività per migliorare la conoscenza dell’alimentazione e dell’igiene<br />

personale e, se sieropositive, curate con programmi e farmaci<br />

ad hoc. Oggi alcuni di quei bambini sono arrivati alle scuole superiori<br />

e all’università: il sostegno a distanza si trasforma per loro in<br />

una sorta di borsa di studio.<br />

Nel 2003 viene inaugurata la nuova scuola Ss. Peter and Paul, grazie<br />

alla campagna Tende AVSI e a un finanziamento dell’Unione Europea.<br />

L’edificio accoglie gratuitamente 800 bambini ed è un punto<br />

di riferimento per tutta la zona. Ma la storia continua. Un gruppo<br />

di pescatori decide di acquistare un terreno per mettere la parola<br />

fine a quasi un secolo di peregrinazioni. Nel nuovo villaggio al di<br />

là della laguna nasce nel 2007 la scuola St. John. E si ricomincia.<br />

155


CRESCITA A TRE DIMENSIONI<br />

AVSI approda in Ecuador nel 2000, per aiutare con un<br />

progetto di sostegno a distanza le attività educative di<br />

un sacerdote italiano, don Dario Maggi, oggi vescovo<br />

ausiliare di Guayaquil, missionario in America Latina da molti<br />

anni.<br />

Il progetto comincia con le attività di educazione prescolastica<br />

di bambini provenienti da famiglie molto povere delle aree rurali<br />

della Provincia di Manabì. Si tratta di un lavoro di grande<br />

importanza dal momento che riguarda un’età decisiva, dove si<br />

compiono i primi passi per lo sviluppo completo della persona.<br />

Si pensi alla rilevanza che l’educazione prescolastica sta assumendo<br />

nel mondo e in particolare nei paesi più poveri, grazie<br />

157


ECUADOR<br />

158


ECUADOR, CRESCITA A TRE DIMENSIONI<br />

159


ECUADOR<br />

anche alle iniziative legate agli obiettivi del Millennio, e all’enfasi<br />

che l’Unesco ha iniziato a dare a questo segmento educativo.<br />

Il programma si fonda sul riconoscimento che la famiglia è il principale<br />

ambito educativo del bambino. Perciò il progetto mira a sostenere<br />

la famiglia in questo compito, affinché possa offrire le<br />

condizioni per uno sviluppo sano e integrale del bambino, intervenendo<br />

nelle tre dimensioni fondamentali della crescita (educazione,<br />

salute e nutrizione).<br />

Iniziato come «prescolar en la casa», ovvero come attenzione alla<br />

prima infanzia realizzata presso le famiglie, si è gradualmente<br />

esteso anche alla fascia di età scolare coinvolgendo oggi complessivamente<br />

oltre 1.300 bambini, ciascuno dei quali è seguito personalmente<br />

in una delle modalità in cui si articola il programma.<br />

Questi interventi educativi si attuano sia nelle aree rurali sia in<br />

quelle delle periferie urbane di Quito.<br />

Sono state rivitalizzate due scuole pubbliche rurali, dove le famiglie<br />

hanno ricominciato a portare i propri figli perché sia l'ambiente<br />

che la qualità dell'insegnamento è migliorato. Sono stati avviati<br />

una decina di asili famigliari, dove una mamma si occupa di altri<br />

5-6 bambini, permettendo alle altre mamme di lavorare ed avendo<br />

lei stessa una fonte di ricavo.<br />

È stato aperto un asilo che fa da punto di riferimento sia per le<br />

mamme che per gli altri asili della zona periurbana di Quito.<br />

È stato avviato un doposcuola per i ragazzini che dopo la fase prescolare<br />

hanno iniziato le scuole.<br />

Infine per alcuni adolescenti espulsi dal percorso scolastico formale<br />

si è avviato il reinserimento ed il recupero.<br />

Grazie al sostegno a distanza ciascun bambino è seguito in modo<br />

personalizzato.<br />

160


DENUTRIZIONE NEL MIRINO<br />

Alla fine degli anni Ottanta, un gruppo di giovani professionisti<br />

del settore sanitario inizia ad andare in favela a<br />

prendersi cura delle famiglie maggiormente a rischio. La<br />

questione della denutrizione si presenta come la più evidente ed<br />

urgente. Sorge così l’idea di un’opera che stabilmente si occupi<br />

di questi bambini. Il gruppo studia il problema e, sulla base di<br />

esperienze già svolte in Indonesia e Cile, identifica un centro in<br />

cui svolgere un «semi-internato», soluzione che permette un recupero<br />

uniforme, rapido e a un costo 10 volte inferiore rispetto<br />

a un ricovero. Quel gruppo informale di professionisti si costituisce<br />

in associazione e nel 1993 inizia un progetto per la costruzione<br />

di un Centro de recuperaçao e educaçao nutricional<br />

(CREN), il suo start-up con il contributo della campagna<br />

Tende AVSI e un finanziamento del Ministero degli<br />

esteri italiano.<br />

Da allora ad oggi l’esperienza del CREN si è confermata<br />

e ampliata: ha realizzato due ulteriori centri e<br />

decine di progetti specifici in alcune aree povere delle<br />

grandi città, ha fatto formazione in 40 asili di San<br />

Paolo, svolge formazione nei contesti in cui si presenta<br />

la piaga della denutrizione – in Perù, Haiti, Mozambico<br />

–, e formazione specialistica anche attraverso<br />

master in collaborazione con l’Università Federale<br />

di San Paolo.<br />

Nel 2004 il CREN ha preso in carico le attività che la<br />

Fondazione Parmalat stava svolgendo all’epoca della<br />

crisi a favore di bambini denutriti in un’area limitrofa<br />

a San Paolo, Hundaì. Questo anche grazie al sostegno<br />

a distanza di AVSI, che ha permesso che il CREN si potesse<br />

prender cura di circa 80 bambini.<br />

Oggi i numeri sono significativi: in un anno, il CREN visita<br />

oltre 1600 bambini, cura in semi-internato circa 150 bambini,<br />

e ne segue circa un migliaio in ambulatorio.<br />

Con il programma Vencendo a desnutriçao ha realizzato una serie di<br />

strumenti editoriali per mamme, educatori e operatori del settore<br />

socio-educativo, per fornire un metodo di affronto dell’aspetto<br />

nutrizionale.<br />

La questione chiave del metodo di lavoro riguarda la mamma o comunque<br />

la figura più prossima al bambino e il recupero della sua dignità<br />

personale. Le altre componenti riguardano il bambino e le sue<br />

relazioni. Oltre al recupero alimentare vero e proprio del bambino,<br />

si punta al rafforzamento delle sue risorse personali, psico-motorie,<br />

161


162


BRASILE, OBIETTIVO DENUTRIZIONE<br />

di apprendimento, relazionali. Si tenta inoltre di rafforzare i rapporti<br />

con gli adulti che si possono prendere cura di lui, dai parenti ai vicini,<br />

alle strutture della società civile, asili e centri educativi anzitutto.<br />

Perciò, delle varie componenti del lavoro del CREN, quella con<br />

le famiglie è forse la più delicata e determinante. Le mamme<br />

fanno anzitutto l’esperienza di qualcuno che si prende cura di<br />

loro, poi dei loro bambini, e quindi iniziano a comprendere il<br />

rapporto affettivo con i loro figli. Imparano a prendersi cura dei<br />

bambini, e, attraverso l’esperienza di essere accolte nel Centro, il<br />

valore della vita e delle cose, anche quelle della vita quotidiana: cucinare<br />

con cibi che costano poco, alimentare adeguatamente i figli,<br />

le basilari norme igenico-sanitarie.<br />

163


GLI AUTORI<br />

GABRIELLA BERLOFFA<br />

Professore di Scienze economiche e statistiche – Università degli Studi di Trento<br />

EMILIO COLOMBO<br />

Professore di Economia politica – Università dell’Insubria<br />

GIUSEPPE FOLLONI<br />

Professore di Scienze economiche e statistiche – Università degli Studi di Trento<br />

ROBERTO FONTOLAN<br />

Giornalista<br />

PIERGIORGIO LOVAGLIO<br />

Professore di Statistica – Università degli Studi di Milano-Bicocca<br />

ALBERTO PIATTI<br />

Segretario Generale di <strong>Avsi</strong><br />

LUCA PEZZI<br />

Giornalista<br />

165


La Fondazione AVSI è una organizzazione non governativa, ONLUS, nata nel 1972 e impegnata con oltre 100 progetti<br />

di cooperazione allo sviluppo in 39 paesi del mondo.<br />

Oggi AVSI è presente in Africa, America Latina, Est Europa, Medio Oriente, Asia e opera nei settori della<br />

sanità, igiene, cura dell’infanzia in condizioni di disagio, educazione, formazione professionale, recupero delle<br />

aree marginali urbane, agricoltura, ambiente, microimprenditorialità, sicurezza alimentare, ICT ed emergenza<br />

umanitaria.<br />

La sua missione è promuovere la dignità della persona attraverso attività di cooperazione allo sviluppo con<br />

particolare attenzione all’educazione, nel solco dell’insegnamento della Dottrina Sociale Cattolica.<br />

AVSI è associata alla Compagnia delle Opere Impresa Sociale, che con le sue oltre 1000 realtà non profit<br />

in tutta Italia, offre ad AVSI una grande possibilità di attingere know how per i progetti e i partner nei paesi in<br />

cui opera.<br />

AVSI è riconosciuta dal 1973 dal Ministero degli Esteri italiano come organizzazione non governativa di<br />

cooperazione internazionale (ONG); è registrata come Organizzazione Internazionale presso l’Agenzia per lo Sviluppo<br />

Internazionale degli Stati Uniti (USAID); è accreditata dal 1996 presso il Consiglio Economico e Sociale delle<br />

Nazioni Unite di New York (ECOSOC); è accreditata con Status consultivo presso l’Organizzazione delle Nazioni<br />

Unite per lo Sviluppo dell’Industria di Vienna (UNIDO) e presso il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia<br />

di New York (Unicef); è inserita nella Special List delle organizzazioni non governative dell’Organizzazione<br />

Internazionale dell’Onu per il Lavoro di Ginevra (ILO); è iscritta nella lista dell’Agenzia delle Entrate come organizzazione<br />

non lucrativa, per il 5 per mille. AVSI è anche un Ente autorizzato dalla Commissione del governo<br />

italiano per le Adozioni internazionali a curare le procedure di adozione internazionale.<br />

I suoi maggiori finanziatori sono Unione Europea, Agenzie delle Nazioni Unite, Ministero degli Esteri<br />

Italiano e istituzioni governative italiane, enti locali, aziende private e singoli cittadini.<br />

Molte storie dei protagonisti raccontate in questo libro sono state promosse e sostenute, negli anni, dalla<br />

Campagna delle Tende.<br />

Un importante gesto di carità nato nel 1990 per sostenere i primi volontari di <strong>Avsi</strong>, raccogliendo fondi e facendo<br />

conoscere il loro lavoro nel mondo a favore delle popolazioni più fragili. La «prima Tenda» era un semplice<br />

banchetto allestito fuori da un supermercato in Lombardia, ricalcando la fine degli Anni Cinquanta quando<br />

i giovani studenti guidati da don Giussani andavano nella «Bassa», la periferia povera di Milano, a portare gratuitamente<br />

attenzione e compagnia alle famiglie indigenti, senza il pretesto di trovare risposte, né realizzare<br />

azioni filantropiche, bensì imparare attraverso un gesto esemplare che la legge ultima dell’esistenza è la gratuità,<br />

la carità, contro ogni possesso egoistico.<br />

Da allora nel periodo natalizio le Tende sono diventate una campagna di sensibilizzazione e raccolta<br />

fondi realizzata grazie al coinvolgimento di una rete di oltre 12 mila sostenitori volontari, AVSI Point, in Italia e all’estero.<br />

Ogni anno viene presentato un tema specifico, con uno slogan che vuole far riflettere sulla condizione<br />

dell’essere umano nel mondo, e che detta anche la scelta di progetti che hanno particolare necessità di essere<br />

sostenuti.<br />

167


Finito di stampare nel mese di novembre 2008<br />

presso grafiche GECA


In questo volume raccontiamo una storia di sviluppo che non è fatta di numeri. Ci sono anche<br />

quelli, dai bambini aiutati dal Sostegno a distanza, alle mamme in difficoltà accolte nella casa di<br />

Novosibirsk.<br />

Troverete innanzitutto fatti, che racchiudono persone – le singole vicende di singoli nomi che vivono<br />

in luoghi geografici precisi e che tracciano una storia d’insieme – come un percorso unico<br />

capace di avvicinare le distanze dei continenti e dei decenni.<br />

(Fontolan)<br />

Negli ultimi anni, lo sviluppo è entrato nel dibattito quotidiano: la globalizzazione, le migrazioni,<br />

il terrorismo internazionale hanno forzato nella comoda vita di noi occidentali le questioni dei<br />

Paesi in via di sviluppo. Leggendo la vitalità che ribolle tra le righe delle esperienze progettuali<br />

raccolte, pare emergere qualche fattore che non si riesce a incasellare nelle tradizionali misurazioni.<br />

C’è l’avventura umana della condivisione e del desiderio, della libertà e dell’intelligenza<br />

creativa, dell’amore per l’altro e della riscoperta della dignità.<br />

(Piatti)<br />

Questa pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di un progetto di Educazione<br />

allo sviluppo di AVSI con il contributo della Direzione Generale Cooperazione allo<br />

Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri Italiano.<br />

Copia omaggio<br />

euro 18,00 (i.i.)<br />

www.guerini.it

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