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9 - Camera di Commercio di Milano

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<strong>di</strong>aloghi internazionali — città nel mondo — n. 9 <strong>di</strong>cembre 20089Bruno Mondadori


lettere per milano quante sfideper mIlano!<strong>di</strong> Mario Boselli, presidente della <strong>Camera</strong> nazionale della moda italianaLa moda italiana, oltre a essere una voce importantedella bilancia commerciale nazionale, costituisceper il complesso degli elementi che la caratterizzano– tra<strong>di</strong>zione, creatività, impren<strong>di</strong>torialità, tecnologia– il settore più rappresentativo del made inItaly all’estero, con ricadute positive su tutti gli altrisettori, a cominciare da quelli più prossimi.La leadership del sistema moda italiano ha il suopunto <strong>di</strong> forza nel prêt-à-porter alto <strong>di</strong> lusso: quellodegli stilisti, per intenderci, che non produconocapi unici ma collezioni prestigiose che racchiudonoal loro interno un know-how unico. A livellomon<strong>di</strong>ale, e quin<strong>di</strong> anche italiano, è il più importantein assoluto perché origina lavoro e ricchezzaper l’intera filiera produttiva, dal tessile a monte alterziario a valle.<strong>Milano</strong> ha ormai assunto il ruolo <strong>di</strong> punto <strong>di</strong> riferimentoe <strong>di</strong> richiamo internazionale per la stampae per i compratori, sia nel comparto Uomo sia nelcomparto Donna. Infatti le settimane della modapiù attese al mondo sono proprio le nostre.Senza <strong>Milano</strong> tutta la macchina della moda italiananon funzionerebbe, perché <strong>Milano</strong> è <strong>di</strong> fatto lacapitale del made in Italy, il luogo dove si svolgela regia <strong>di</strong> tutto il sistema, l’unica città al mondoche ospita più <strong>di</strong> 600 showroom, non solo <strong>di</strong> caseitaliane ma anche <strong>di</strong> moltissimi marchi stranieri: èil cuore del business.Per la conservazione della leadership <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>,<strong>di</strong>venta sempre più strategico il tema della formazione,che deve riuscire a garantire l’immissione <strong>di</strong>nuovi talenti e rispondere a una serie <strong>di</strong> fabbisogniformativi che la turbolenza dei mercati in evoluzionee l’incertezza della crescente globalizzazionedell’economia fanno emergere come in<strong>di</strong>spensabili.L’ottenimento <strong>di</strong> vantaggi in termini <strong>di</strong> competitività<strong>di</strong>pende dalla professionalità <strong>di</strong> tutte le risorseumane coinvolte. Occorre quin<strong>di</strong> fare in modo cheil know-how acquisito negli anni, le buone prassie la metodologia <strong>di</strong> lavoro possano essere trasferitealle nuove generazioni.Parlare <strong>di</strong> formazione del settore moda vuol <strong>di</strong>reaffrontare il problema della tipologia <strong>di</strong> competenzeda trasferire ai tecnici, agli artigiani, ai creativi eai manager del settore, per fare in modo che questiabbiano le capacità e le conoscenze appropriatealle richieste che arrivano dal mercato del lavoro.La rilevazione e l’intervento sui fabbisogni formativi<strong>di</strong>ventano quin<strong>di</strong> la variabile strategica per laconservazione <strong>di</strong> una leadership italiana e lombardanella moda a livello internazionale. La chiave <strong>di</strong>successo per lavorare nella moda non è solo l’identificazionedella figura professionale più richiesta mala specializzazione e la preparazione messa in camponell’ambito <strong>di</strong> qualsiasi area aziendale.Parigi, Londra, New York, Anversa hanno puntatoda anni sul tema della formazione, dando vita ascuole molto ambite e conosciute a livello internazionale;<strong>Milano</strong> invece, seppur dotata <strong>di</strong> buonescuole <strong>di</strong> moda private, non ha ancora spiccato ilvolo. È per questo che oggi siamo lieti <strong>di</strong> annunciarela più importante novità su questo fronte!Devo onestamente <strong>di</strong>re che il primo che ha avutol’illuminata idea <strong>di</strong> pensare una Città della moda a<strong>Milano</strong> è stato Nicola Trussar<strong>di</strong> più <strong>di</strong> venticinqueanni fa. Dopo la sua scomparsa è stata costituita lafondazione <strong>Milano</strong> Città della moda e del design,che aveva l’obiettivo <strong>di</strong> portare avanti proprio quellasua intuizione.L’intero progetto ha oggi assunto <strong>di</strong>mensionimaggiori, si è evoluto nel tempo e si è ampliatocoinvolgendo importanti attori del mondo culturalee istituzionale, investitori privati e pubblici. Quellache sembrava solo una visione oggi ha un nome eun in<strong>di</strong>rizzo: fashion <strong>di</strong>strict, inserito nel più ampioprogetto <strong>di</strong> riqualificazione <strong>di</strong> Porta Nuova che prevede,così come voluto dal Comune <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>, unrecupero urbanistico dell’area Garibal<strong>di</strong>-Varesine-Isola, che <strong>di</strong>venterà un’area moderna e <strong>di</strong> eccellenzainternazionale.È prevista anche la costruzione <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio, <strong>di</strong>proprietà del Comune <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>, che ospiterà corsiformativi <strong>di</strong> alta specializzazione, un “incubatore”per giovani stilisti e gran<strong>di</strong> iniziative culturali legateal mondo della moda. Il bando <strong>di</strong> concorso per laprogettazione è stato vinto dall’architetto PierluigiNicolin, con un e<strong>di</strong>ficio a forma <strong>di</strong> “cubo” alto circatrenta metri e concepito come un e<strong>di</strong>ficio-mondo peril coinvolgimento globale che ripropone al suo interno.Alla <strong>Camera</strong> nazionale della moda italiana è statoaffidato il ruolo <strong>di</strong> coor<strong>di</strong>namento e <strong>di</strong> regia <strong>di</strong>tutte le attività che confluiranno al suo interno conl’obiettivo <strong>di</strong> realizzare, con l’aiuto delle più importantiuniversità milanesi, l’Istituto nazionale <strong>di</strong>ricerca e innovazione per il settore moda – FashionInstitute of Milan. L’iniziativa, che vuole dareevidenza ai concetti <strong>di</strong> qualità, innovazione, ricercae creatività, rappresenta un’idea progettuale <strong>di</strong>grande visione e generosità per la moda italiana e <strong>di</strong>importante promozione a livello internazionale perla città <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>. Riservare queste attenzioni allamoda significa infatti far crescere <strong>Milano</strong> e favoriretutto il sistema-paese.Finalmente anche <strong>Milano</strong> potrà guardare al futurocon un progetto <strong>di</strong> grande respiro internazionaleper la formazione nel campo della moda, una verapunta <strong>di</strong> <strong>di</strong>amante destinata a competere con lemigliori scuole al mondo.Il piano <strong>di</strong> avanzamento dei lavori è già a buonpunto, gli e<strong>di</strong>fici saranno pronti tra il 2009 e il2011. Il quartier generale della moda italiana saràquin<strong>di</strong> più che rodato per il 2015 e potrà far fronteal meglio all’Expo universale.L’Expo sarà l’occasione per accelerare i tempi ecaricarsi <strong>di</strong> energia, rafforzando ancora <strong>di</strong> più unsettore che continua a crescere e a dare il meglio <strong>di</strong>sé. <strong>Milano</strong> sarà invasa da visitatori che passeggerannonel quadrilatero della moda e faranno shoppingoffrendo al mondo della moda opportunità uniche.Quante sfide per <strong>Milano</strong>!


10 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 11esiste una“quistIone setTentrionale”?<strong>di</strong> Giulio Sapelli, docente <strong>di</strong> Storia economicaall’Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>Debbo confessare in tutta modestia, ma dopo decenni<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>, riflessioni e viaggi alla Piovene in Italia enel mondo, che io, umilissimo intellettuale orgoglioso<strong>di</strong> esserlo, a questa “quistione settentrionale” noncredo. Ovvero, credo che esista una questione tuttaideologica e politica derivante dal blocco, verificatosianni or sono e non previsto, nella circolazione più omeno cleptocratica e neocaciquistica delle classi politichedelle varie sinistre italiche, non più legittimatedal voto. È una “quistione” che esiste solo per gliirriducibili, i “cantori” <strong>di</strong> una sinistra che <strong>di</strong> quellacircolazione sono i meccanici regolatori ideologici.È un bel problema, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> storia e <strong>di</strong> sociologiadella cultura, e nulla più. Interessantissimo. Ilproblema infatti è che, nonostante tutti i nuovi earzigogolati para<strong>di</strong>gmi linguistici <strong>di</strong> cui quei “cantori”si vantano e che incantano ormai solo il nuovoceto me<strong>di</strong>o (gli operai per fortuna non sono toccatida un simile arzigogolare), sono rimasti senza opereda rappresentare. Non basta una terminologia nuovaper fondare un nuovo para<strong>di</strong>gma.Parole nuove <strong>di</strong>lagano sui quoti<strong>di</strong>ani e sono ormaiarcinote: flussi e controflussi, moltitu<strong>di</strong>ni e capitalismipersonali, potere molecolare e ubiquo, plessie bacini, e via <strong>di</strong>scorrendo. Le ho ascoltate con attenzionee santa pazienza, ma non mi sognerei mai


14 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 15monaco. unamegacITtà-RegioneemeRgente<strong>di</strong> Alain Thierstein, docente <strong>di</strong> Sviluppo spaziale eterritoriale alla Munich University of Technology (TUM)Traduzione <strong>di</strong> Laura Dal CarloDescrizione della problematicaÈ sempre più evidente, oggi, l’importanza delleattività economiche a forte contenuto cognitivo,definite unanimemente con il concetto <strong>di</strong>“economia cognitiva”. Essa assorbe sempremaggiori posti <strong>di</strong> lavoro, occupati, e crea valore.Nell’espansione dell’economia cognitiva, lecaratteristiche qualitative delle localizzazionidelle attività economiche giocano un ruolofondamentale. La concorrenza internazionaleè d’incentivo sia all’analisi scientifica sia alla<strong>di</strong>scussione economico-politica a essa relativa.L’economia cognitiva crea una nuova gerarchizzazione<strong>di</strong> localizzazioni, per quanto a livello spazialenon siano ancora percepite tali. Nei centri urbani siconcentrano attività <strong>di</strong> imprese private e pubbliche<strong>di</strong> grande valore. In generale, nel corso dell’ultimodecennio, sociologi, urbanisti e politici hanno in<strong>di</strong>rizzatosempre più la loro attenzione alla rivalutazionedei criteri regionali. Le moderne infrastrutture dei trasporti e delle co-O anche “economia della conoscenza”. M. Storper, The Regional World Territorial Development in a GlobalEconomy, The Guilford Press, New York - London 1997; P. Weichart,“Designerregionen-Antworten an <strong>di</strong>e Herausforderungen des globalenStandortwettbewerbs?”, in “Informationen zur Raumentwicklung”, 2000,pp. 549-564.


18 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 19Il centro principale della regione metropolitana è lacittà <strong>di</strong> Monaco. Se consideriamo come in<strong>di</strong>catori lapopolazione e il numero <strong>di</strong> occupati, essa presenta uncarattere monocentrico. Nell’hinterland più prossimoalla città si trovano ulteriori centri secondari significativi,con bacini d’utenza propri. Il totale dei posti<strong>di</strong> lavoro <strong>di</strong> tutte le altre aree funzionali raggiungequasi il valore dell’area funzionale <strong>di</strong> Monaco.La regione metropolitana <strong>di</strong> Monaco e Monaco stessa,che costituisce il suo fulcro, rappresentano unadelle regioni più attrattive ed economicamente piùfiorenti della Germania. Il prodotto interno lordodella regione pianificata <strong>di</strong> Monaco, con 46.600euro pro capite su base annua, rappresenta il valorepiù alto <strong>di</strong> tutta la Germania e supera nettamentequelli <strong>di</strong> altre regioni metropolitane. Il programma d’incentivi economici denominato“Iniziativa d’incentivazione economica Grande area<strong>di</strong> Monaco” (Greater Munich Area, GMA) promuovetutta l’area economica della Baviera meri<strong>di</strong>onalecome “regione della conoscenza”. Quest’areacomprende, inoltre, le aree funzionali <strong>di</strong> Monaco,Augusta, Ingolstadt, Freising, Landshut e parte <strong>di</strong>Rosenheim. Nella regione metropolitana <strong>di</strong> Monacosi trovano università <strong>di</strong> fama internazionale, importantiistituzioni scientifiche <strong>di</strong> ricerca e <strong>di</strong>versiistituti della Fraunhofer Gesellschaft e Max-PlanckGesellschaft e le loro rispettive se<strong>di</strong> centrali. IHK Munchen, Metropolregion München-das Kraftzentrum Deutschlands.Deutsche Metropolregionen im Vergleich. Industrie – und Handelskammer fürMünchen, München 2003; Institut der Deutschen Wirtschaft Köln ConsultGmbh, Großstadtvergleich. Deutsche Großstädte im Vergleich. IW Consult GmbH,München 2005. INKAR. In<strong>di</strong>Katoren und Karten zur Raum – und Stadtentwicklung.Bundesamt für Bauwesen und Raumordnung, Bonn 2006.La tesi <strong>di</strong> Neil Brenner 10 secondo la quale le impreseinnovative dell’economia cognitiva si concentranoin aree dotate <strong>di</strong> competenze tecnico-scientifichee specialistiche, e provviste <strong>di</strong> una fitta rete <strong>di</strong> collegamenti,trova la sua valida <strong>di</strong>mostrazione nellaregione metropolitana <strong>di</strong> Monaco. La percentualedei “lavoratori della conoscenza” (residenti, con<strong>di</strong>ploma <strong>di</strong> scuola superiore) in quest’area metropolitanaè più alta che in tutto il resto della Baviera.Questo dato era già presente nel 1999, quando,nella regione metropolitana <strong>di</strong> Monaco, la percentualedei “lavoratori della conoscenza” occupati insettori scientifici era del 35%, percentuale più altadell’intera Baviera (28,9%). Nel corso dei sette annisuccessivi tale percentuale è aumentata me<strong>di</strong>amente– sempre nella regione metropolitana – del 4,7%,arrivando così al 39,7%. Nel resto della Baviera l’aumentodegli occupati nei principali settori dell’economiacognitiva, durante lo stesso periodo, è statosolo del 3,6% e l’andamento procede a un livelloinferiore rispetto a quello della regione metropolitana<strong>di</strong> Monaco. Ciò <strong>di</strong>mostra un effetto strutturalepositivo, in quanto la percentuale <strong>di</strong> settori inforte crescita, prendendo in considerazione un’areaparziale rispetto a un’area complessiva, registra unosviluppo superiore alla me<strong>di</strong>a. 11La regione metropolitana <strong>di</strong> Monaco <strong>di</strong>spone <strong>di</strong>centri minori con struttura economica eterogenea.10 N. Brenner, art. cit.11 B. Buser, G. Giuliano, S. Buchli, T. Gsponer, P. Rieder, Shift-Analyse für<strong>di</strong>e Regionen des Wallis, Institut für Agrarwirtschaft, ETH, Zürich 2003, p. 8.Fig. 2 – Occupati nel settore della cognitività nella megacittà-regione <strong>di</strong> MonacoFonte: Thierstein et al. 2007Questo vale anche per i settori dell’economia cognitiva.Le aree funzionali secondarie situate intorno a Monacopresentano una concentrazione <strong>di</strong> settori high-techmaggiore che nell’area funzionale della stessa Monaco.Fa eccezione l’area <strong>di</strong> Freising, che presenta una percentualevisibilmente alta <strong>di</strong> attività <strong>di</strong> servizi (terziario,figura 2). Verosimilmente tale risultato è dovuto alcollegamento <strong>di</strong>retto con l’aeroporto. 1212 A. Thierstein, B. Buser, T. Voßkamp, S. Hampe, Auswirkungendes Vorhabens 3. Start und Landebahn auf Wirtschaft und Siedlung inFlughafenumland, Flughafen München GmbH, München 2007.La rappresentazione delle percentualidella “torta” corrisponde a un totale<strong>di</strong> 500.000 occupatiHigh-tech75% = percentuale dei settoridell’economia cognitivaSocietà fornitrici <strong>di</strong> servizi avanzati alle impreseRicerca & sviluppoResto degli occupatiAree urbane funzionalidella megacittà-regione<strong>di</strong> MonacoLa forte concentrazione <strong>di</strong> alta tecnologia presentea Ingolstadt è dovuta alle industrie automobilistichelì inse<strong>di</strong>ate e alle aziende dell’indotto. L’areafunzionale <strong>di</strong> Monaco detiene il primato, in terminipercentuali, degli occupati nell’economia cognitiva,e risulta significativo anche il peso delle attività <strong>di</strong>servizio a essa relativa.


20 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 21Connessioni locali nella megacittàregione<strong>di</strong> MonacoLa regione metropolitana è costituita da <strong>di</strong>verse areetipologiche: centri densamente urbanizzati, areecircostanti trasformate in centri urbani, aree ruraliche tuttavia presentano un’impronta citta<strong>di</strong>na graziea connessioni funzionali; tutte zone collegate da unarete <strong>di</strong> infrastrutture efficienti. Nella città <strong>di</strong> Monaco,le aree <strong>di</strong> connessione non strettamente legate dainterazioni fisiche e funzionali coprono un raggiod’azione <strong>di</strong> gran lunga più ampio rispetto alle regionipianificate e collegate solo fisicamente. 13 ManuelCastells evidenzia il significato <strong>di</strong> questa tipologia <strong>di</strong>aree <strong>di</strong> spazi interconnessi che si stanno delineandosempre più chiaramente: «Le nostre società sonocostruite intorno a dei flussi: flussi <strong>di</strong> capitale, d’informazioni,<strong>di</strong> tecnologie, d’interazioni organizzative[...] Sono espressione del processo che domina lanostra vita economica, politica, simbolica. Suggeriscoquin<strong>di</strong> l’idea che esista una nuova forma spazialecaratteristica delle <strong>di</strong>namiche sociali che dominano eforgiano una società in rete: lo spazio dei flussi». 14Perché questi “flussi” e lo “spazio dei flussi” sonocosì importanti? Le imprese innovative hannosuccesso sul lungo periodo, creano posti <strong>di</strong> lavoro ein questo modo esercitano un’influenza significativasulla struttura del contesto nel quale operano. Piùun’impresa è coinvolta in tali “flussi”, più si trovain una posizione centrale, prestigiosa e facilmenteaccessibile, maggiore sarà il suo potenziale <strong>di</strong>successo e la sua possibilità <strong>di</strong> apportare continuainnovazione. Le regioni metropolitane comincianoa contrad<strong>di</strong>stinguersi quali aree multipolari ad altadensità, in grado <strong>di</strong> abbinare e valorizzare al massimodue gran<strong>di</strong> qualità. Esse combinano, infatti,le competenze delle imprese operanti nell’ambitodell’economia cognitiva e creano i presupposti chepermettono un confronto internazionale relativoa questa rete. Inoltre, le regioni metropolitanedevono essere in grado <strong>di</strong> fornire alle singolezone d’inse<strong>di</strong>amento delle imprese, sia nelle areea esse a<strong>di</strong>acenti sia in un più vasto comprensorio,un notevole livello qualitativo dal punto <strong>di</strong> vistainfrastrutturale, ambientale, culturale e della “cittàcostruita”. L’incontro tra “spazi <strong>di</strong> flusso” <strong>di</strong> altovalore qualitativo e i cosiddetti “spazi <strong>di</strong> luogo”(spaces of place) <strong>di</strong> livello superiore rende le regionimetropolitane aree strategicamente importanti perl’economia cognitiva. Collegamenti costituiti da unarete immateriale tra attività <strong>di</strong> aziende del settoredell’economia cognitiva possono essere monitoratisia nell’ambito <strong>di</strong> reti aziendali interne sia tra i singoliproduttori <strong>di</strong> valore della catena <strong>di</strong> produzionedel valore esterne alle aziende stesse. 15Analisi delle connettività intraziendaliI network delle aziende multisettore dell’Advanced ProducerService (APS), quelle del settore high-tech, vengonoanalizzate sulla base <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse scale spaziali, e cioè a livelloregionale, nazionale e internazionale. Queste reti forniscono,con una buona approssimazione, dati fondamentalirelativi ai flussi d’informazione e comunicazione.Schemi <strong>di</strong> connettivitàLe imprese APS costituiscono spesso una rete siste-matica e sono collocate in zone <strong>di</strong>verse della megacittà-regione.Esse cercano <strong>di</strong> essere il più possibilevicine ai loro clienti. Monaco è il centro <strong>di</strong> questodenso network ma, nonostante ciò, stanno emergendoconnettività laterali che aggirano la centralitàdominante. Nell’ambito della megacittà-regione,Monaco e Regensburg godono della più solidarete <strong>di</strong> connettività intraziendale. Se posizioniamoMonaco al centro della nostra illustrazione, risultaevidente una rete <strong>di</strong> connessioni relativamente fortecon Ingolstadt e Augsburg (figura 3).Fig. 3 – Connettività intraziendale <strong>di</strong> società fornitrici <strong>di</strong> servizi avanzati alle imprese nella megacittà-regione <strong>di</strong> MonacoConnettività in relazione al collegamentoMonaco-Regensburg (=1)0,8 - 10,6 - 0,80,45 - 0,60,3 - 0,4513 A. Thierstein, S. Lüthi, C. Krause, S. Gabi, L. Glanzmann, N.Grillon, “Raumentwicklung im Verborgenen...”, art. cit.14 M. Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture,Blackwell, Malden 1996, p. 412.15 A. Thierstein, S. Lüthi, C. Krause, S. Gabi, L. Glanzmann, “Thechanging value chain of the knowledge economy. Spatial impact of intrafirmand inter-firm networks within the emerging Mega-City Region ofNorthen Switzerland”, in “Regional Stu<strong>di</strong>es” (<strong>di</strong> prossima pubblicazione).Fonte: Thierstein et al. 2007Aree urbane funzionalidella megacittà-regione<strong>di</strong> Monaco


22 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 23Intensità e gerarchia della connettivitàNell’ambito dell’economia cognitiva i modelli spaziali<strong>di</strong>fferiscono. Vi sono <strong>di</strong>fferenze significative tra leconnettività delle imprese APS e le aziende high-tech.Osservando il settore APS, e cioè le aziende che fornisconoservizi avanzati alle imprese, Monaco è la cittàpiù fortemente connessa a tre gran<strong>di</strong> città nazionali,seguita da Parigi e Londra come città-globali. Monaco,rispetto a tutte le altre aree urbane funzionali, è ilcentro dominante della megacittà-regione (figura 4).Il settore high-tech è caratterizzato da un migliorposizionamento a livello internazionalee Monaco è la città più intensamente connessaalle reti globali. Le altre aree urbane funzionali,tuttavia, sono anch’esse caratterizzate da connessioninazionali e internazionali piuttosto che dacollegamenti primari con Monaco. Ogni regionefunzionale urbana è dotata <strong>di</strong> un profilo in<strong>di</strong>viduale<strong>di</strong> connettività che <strong>di</strong>pende dalle imprese lìsituate (figura 5).Fig. 4 – Grado d’intensità delle connessioni tra le aziende fornitrici <strong>di</strong> servizi avanzati alle imprese APSin aree nazionali e internazionaliFig. 5 – Grado d’intensità delle connessioni tra i centri economici nazionali e internazionali:aziende del settore high-techValutazione delle 6 aree situate all’internodella megacittà-regione <strong>di</strong> Monaco con ilvalore massimo <strong>di</strong> connettivitàValutazione delle 6 aree situate all’internodella megacittà-regione <strong>di</strong> Monaco con ilvalore massimo <strong>di</strong> connettivitàValore alto <strong>di</strong> interconnettivitàValore basso <strong>di</strong> interconnettivitàValore alto <strong>di</strong> interconnettivitàValore basso <strong>di</strong> interconnettivitàAree urbane funzionalidella megacittà-regione<strong>di</strong> MonacoAree urbane funzionalidella megacittà-regione<strong>di</strong> MonacoFonte: Thierstein et al. 2007Fonte: Thierstein et al. 2007


24 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 25Importanza relativa delle <strong>di</strong>verse aree urbane funzionaliSe mettiamo in relazione l’importanza nazionale einternazionale delle <strong>di</strong>fferenti aree che costituisconola megacittà-regione con il numero dei loro abitantie degli occupati, saremo in grado <strong>di</strong> identificare siail surplus sia l’insufficiente peso delle singole localizzazioni(figure 6 e 7).Tra le <strong>di</strong>fferenti aree funzionali urbane si puòconstatare una <strong>di</strong>visione del lavoro in rapporto allaconnettività con <strong>di</strong>verse scale spaziali. Mentre Monacoagisce come un “hub della cognitività” globaleed europeo, le aree urbane funzionali circostantiassumono un ruolo d’importanza prevalentementenazionale.Fig. 6 – Importanza a livello nazionale delle aree urbane funzionali nella megacittà-regione:società fornitrici <strong>di</strong> servizi avanzati alle impreseFig. 7 – Importanza a livello internazionale delle aree urbane funzionali della megacittà-regione:società fornitrici <strong>di</strong> servizi avanzati alle impreseSignificato della localizzazionesu scala nazionale in rapportoal numero <strong>di</strong> abitanti e occupatiSignificato della localizzazionesu scala nazionale in rapportoal numero <strong>di</strong> abitanti e occupatiSurplus rilevanteSurplus rilevanteDeficit rilevanteDeficit rilevanteEquilibrio rilevanteEquilibrio rilevanteAree urbane funzionalidella megacittà-regione<strong>di</strong> MonacoAree urbane funzionalidella megacittà-regione<strong>di</strong> MonacoFonte: Thierstein et al. 2007Fonte: Thierstein et al. 2007Freising, area urbana funzionale minore, è un’eccezione:il suo ampio sovrappiù d’importanza a livellointernazionale è dovuto principalmente alla suavicinanza all’aeroporto internazionale <strong>di</strong> Monaco.In questa prospettiva Freising e Monaco sono daconsiderarsi non tanto sostitute l’una dell’altra,quanto localizzazioni complementari nell’ambitodello stesso spazio urbano funzionale.


26 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 27La vasta area <strong>di</strong> Monaco come sistemalocalizzato <strong>di</strong> catene del valoreLe analisi svolte finora delineano l’organizzazionestrutturale e l’impatto spaziale delle reti intraziendali.Ora presentiamo i risultati dell’analisi extraziendaleche è stata concettualizzata tramite l’approccio della“catena del valore”. La figura 8 evidenzia i modellispaziali della connettività extraziendale <strong>di</strong> impreseAPS su scala regionale, nazionale, europea e globale.Nella legenda, il colore blu illustra la quantità<strong>di</strong> interrelazioni esterne all’impresa (firm-external).Più il colore blu è intenso, maggiore è il numerod’interazioni determinate dalle imprese APS coinvoltenell’indagine. Per queste imprese, le relazioni piùforti sono quelle che si sviluppano all’interno dellaloro megacittà-regione. Le interazioni più frequentisono con altre imprese APS, in particolare quelle delsettore assicurativo, legale e del settore pubblicitarioe dei me<strong>di</strong>a. Lo si deduce osservando i settori <strong>di</strong> coloreblu intenso nel semicerchio sinistro al centro dellafigura 8. Il rapporto extraziendale delle imprese APSrispetto al settore high-tech, d’altra parte, è menoevidente anche se fortemente concentrato dentro lamegacittà-regione. Lo si può osservare nel semicerchiodestro della figura. La prossimità geografica adaltre imprese sembra essere un motore che generanetwork e interazioni extraziendali.Per le aziende high-tech, il modello spaziale dellereti extraziendali è leggermente <strong>di</strong>verso. La figura9 illustra i risultati visti dalla prospettiva delle impresehigh-tech. Come nel caso delle imprese APS, laparte predominante delle reti extraziendali è collocataentro la linea <strong>di</strong> demarcazione della megacittàregioneemergente <strong>di</strong> Monaco. La vicinanza geograficaad altre aziende sembra essere rilevante ancheper le imprese high-tech. Tuttavia, in contrasto conle reti delle imprese APS, quelle high-tech nell’ambitodella megacittà-regione <strong>di</strong> Monaco mostranouna quantità notevole <strong>di</strong> relazioni globali extraziendali.Lo possiamo dedurre osservando i numerosisettori blu situati nell’anello esterno della figura9. Per poter competere con successo nell’ambitodell’economia globale, le aziende high-tech dellamegacittà-regione emergente devono attingere allerisorse e alle competenze <strong>di</strong> imprese appartenenti adaltre aree economiche. In tal senso la vasta area <strong>di</strong>Monaco non è un sistema autonomo ma interconnessocon un ampio spazio <strong>di</strong> flussi d’informazione,<strong>di</strong> capitale, <strong>di</strong> beni e persone che viaggiano suinfrastrutture quali strade, ferrovie, aerei e, semprepiù, telecomunicazioni.Fig. 8 – Relazioni extraziendali <strong>di</strong> società APS della megacittà-regione emergente <strong>di</strong> MonacoFig. 9 – Relazioni extraziendali <strong>di</strong> imprese high-tech situate nella megacittà-regione emergente <strong>di</strong> MonacoVerso imprese APSVerso aziende high-techVerso imprese APSVerso aziende high-techContabilitàChimica e farmaceuticaContabilitàChimica e farmaceuticaAssicurazioniMacchinariAssicurazioniMacchinariBanca e finanzaComputerBanca e finanzaComputerConsulenzaMacchinari elettriciConsulenzaMacchinari elettriciSettore legaleTelecomunicazioniSettore legaleTelecomunicazioniLogisticaStrumentazione me<strong>di</strong>ca e otticaLogisticaStrumentazione me<strong>di</strong>ca e otticaDesign e architetturaPubblicità e me<strong>di</strong>aDesign e architetturaPubblicità e me<strong>di</strong>aCostruzione <strong>di</strong> veicoliCostruzione <strong>di</strong> veicoliNumero <strong>di</strong> relazioni intraziendaliNumero <strong>di</strong> relazioni intraziendaliFonte: Thierstein et al. 2007Fonte: Thierstein et al. 2007


28 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 29La figura 9 mostra che servizi logistici <strong>di</strong> terzo equarto livello (third and fourth party logistics services) 16svolgono un ruolo fondamentale per le impresehigh-tech, anche su scala globale. Come risultatodella competitività globale, basata su tempi equalità, è emersa una generazione <strong>di</strong> aziende chefornisce servizi logistici estremamente sofisticati;alcune <strong>di</strong> esse si sono evolute fuori dalle aziende <strong>di</strong>trasporto tra<strong>di</strong>zionali (ferrovie, strade, trasporti viaacqua e aerei) e altre partendo da grossisti e impresecommerciali; altre ancora costituiscono nuoveforme <strong>di</strong> organizzazione logistica. 17 Queste aziendesi possono definire importanti integratori cheassemblano risorse, capacità e tecnologie proprie e<strong>di</strong> altre organizzazioni allo scopo <strong>di</strong> progettare, costruiree offrire soluzioni complete a tutta la catena<strong>di</strong> fornitura (global supply chain solutions).Come nel caso delle imprese APS, tuttavia, lerelazioni più forti delle aziende high-tech sono alivello <strong>di</strong>: contabilità, assicurazioni, consulenzalegale, pubblicità e me<strong>di</strong>a. Ciò significa che questisettori forniscono importanti servizi all’economiacognitiva della megacittà-regione intesa nella suaglobalità e, in particolare, alle aziende high-tech.Tali settori d’attività svolgono un ruolo importanteanche come rete <strong>di</strong> supporto impren<strong>di</strong>torialedell’emergente regione.16 È un’espressione tecnica per in<strong>di</strong>care quella parte <strong>di</strong> servizilogistici – basata sulla conoscenza e sulla tecnologia – che va oltre ilsemplice trasporto e il carico/scarico delle merci. I third and fourth partylogistics services sono attività che organizzano, gestiscono, concepiscono,supervisionano o seguono le catene <strong>di</strong> trasporto per le società cheeseguono fisicamente il trasporto. Tali servizi non movimentano navi,camion o aerei, ma usano la conoscenza scientifica e la tecnologiainformatica. [N.d.R.]17 N. Coe, P. Dicken, M. Hess, “Global production networks: realizingthe potential”, in “Journal of Economic Geography”, n. 8, 2008, pp.271-295.I dati da noi raccolti <strong>di</strong>mostrano chiaramente chei legami extraziendali delle imprese impegnate inmodo intensivo nel campo dell’economia cognitivasi concentrano su questa megacittà-regione edevolvono in <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> un sistema localizzato <strong>di</strong>catene del valore <strong>di</strong> alta qualità. Va tuttavia sottolineatoche tali sistemi non sono rinchiusi nei sistemiurbani, quanto piuttosto integrati in ampie reti economichesu <strong>di</strong>fferenti scale geografiche.ConclusioniL’economia cognitiva ha bisogno <strong>di</strong> vicinanza spaziale,che tuttavia ha un valore solo nella misura incui gli spazi sono contrad<strong>di</strong>stinti da un alto grado<strong>di</strong> accessibilità. In primo luogo, è importante cheesista una buona accessibilità in ambito regionale,tale da permettere uno scambio <strong>di</strong>retto ed efficientetra la cognitività locale implicita e la sua applicazione;d’altra parte è importante che esista un’accessibilitàa livello sovraregionale e internazionale,perché in questo modo la cognitività formale, siaessa assente o implicita nella regione, possa esserefacilmente accessibile e mobile. Gli aeroporti-croceviainternazionali svolgono un ruolo fondamentalenell’ambito dell’economia cognitiva.L’Aeroporto Internazionale <strong>di</strong> Monaco (MUC),inaugurato nel 1992, è situato trenta chilometri anord della città. Nel 2007 il traffico aeroportualeè stato <strong>di</strong> 34 milioni <strong>di</strong> passeggeri, <strong>di</strong> cui il 35% intransito. Per Lufthansa, il principale vettore aeroportuale,Monaco è il secondo hub nazionale; nellasua strategia multicentro, Francoforte sul Menocostituisce la base principale e Zurigo la terza perimportanza. MUC è uno degli aeroporti europei checresce con maggiore velocità e la sua capacità è invia <strong>di</strong> saturazione. I primi “colli <strong>di</strong> bottiglia” si sonoverificati nel 2006. Per il 2020 si stima un trafficopari a 58 milioni <strong>di</strong> passeggeri, 24 milioni in piùrispetto al 2007. 18 Conseguentemente nel 2005l’aeroporto ha deciso <strong>di</strong> ampliare la sua capacità conuna terza pista <strong>di</strong> decollo/atterraggio. Il corridoiotra l’aeroporto e la città è da considerarsi la spinadorsale della megacittà-regione. Molte multinazionalicome Siemens, Allianz, Munich Re o la <strong>di</strong>visionetedesca della Microsoft e il Centro <strong>di</strong> ricercaeuropeo della General Electric vi si sono inse<strong>di</strong>ate.Un aeroporto centrale come quello <strong>di</strong> Monacoè molto più che una “macchina per far sol<strong>di</strong>”. Èun’infrastruttura, una rete <strong>di</strong> collegamento che offrealle aziende esportatrici e ai turisti un servizio centrale,<strong>di</strong> facile accessibilità e con funzione <strong>di</strong> catalizzatore.19 La necessità <strong>di</strong> ampliamento dell’aeroportoè dettata dal ruolo crescente dell’economia cognitivanella regione metropolitana <strong>di</strong> Monaco. Al momentola percezione del ruolo “catalitico” dell’aeroportomonacense sembra ancora poco marcata, e ciò è18 Flughafen München, “Verkehrsflughafen München. Antrag aufPlanfeststellung”, in “3. Start-und Landebahan”, Flughafen München,München 2007.19 Flughafen München, “Auswirkungen des Vorhabens”, in “3.Start-und Landebahan”, Wirtschaft und Siedlung im Flughafenumland,Flughafen München, München 2007.dovuto anche alla situazione dell’area nord-orientale<strong>di</strong> Monaco, che ancora mentalmente si orienta in<strong>di</strong>rezione sud.Con i Giochi olimpici del 1972, Monaco, risvegliatasida una realtà ancora localistica, si è trovata alcentro <strong>di</strong> una <strong>di</strong>namica <strong>di</strong> “torsione” molto faticosa.La città può essere concepita come un corpo che congrande energia e curiosità volge il proprio sguardoe capo verso nord, mentre il resto continua a essereorientato a sud. Lo sguardo tra<strong>di</strong>zionale del Nordresta quello rivolto alle Alpi cristalline, battute dalföhn. 20 L’orientamento della città e il suo futurosono ormai <strong>di</strong>sposti in quella <strong>di</strong>rezione, dovesi trovano l’aeroporto internazionale e il centrogravitazionale dell’Europa nord-occidentale, luoghiin cui l’economia cognitiva <strong>di</strong> Monaco e della suaregione metropolitana è perfettamente integrata. Lacittà bavarese sente però spesso nostalgia del Sud;il pensiero vivo e pieno <strong>di</strong> energie guarda invece alNord. Il corpo robusto <strong>di</strong> Monaco è ancora in grado<strong>di</strong> compiere questa “torsione”. Ma per quanto?20 Föhn, in italiano favonio. Vento <strong>di</strong> caduta caldo e secco tipico delleAlpi bavaresi, che porta a un improvviso innalzamento della temperaturaanche fino a 30 °C e scioglie le nevi. [N.d.T.]


30 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 31L’inaffeRRabIle expo<strong>di</strong> Alessandro Fornoni, studenteConversazione con Pasquale Alferjmaestro e con gli altri, mettendo a confronto idee e progetti.Non so ancora se proseguirò con la laurea <strong>di</strong> secondo livello.Farò forse l’Erasmus, scegliendo bene la nazione in cui andare.Le mie preferenze vanno alla Spagna e all’Olanda.P.A. Di <strong>Milano</strong> conosci solo la Bovisa?amici a <strong>Milano</strong> è una spinta a conoscere <strong>di</strong> più la città. Se la frequenzauniversitaria è concentrata in tre o quattro giornate, peril momento preferisco vivere a Bergamo dove, oltre agli amici,durante il weekend lavoro: faccio il pony pizza.P.A. Bergamo-<strong>Milano</strong> a confronto?Pasquale Alferj. Quanti anni hai?Alessandro Fornoni. Diciannove.P.A. A che facoltà sei iscritto?A.F. Design della comunicazione al Politecnico <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>.P.A. Fai il pendolare Bergamo-<strong>Milano</strong>?A.F. Esatto, ma non tutti i giorni: solo tre volte la settimana.P.A. Perché hai scelto Design della comunicazione?in rete, consultando Wikipe<strong>di</strong>a e altri siti. Come traccia avevo iltitolo “Nutrire il pianeta. Energie per la vita”. Nel documentarmiho cercato <strong>di</strong> capire il perché <strong>di</strong> questo titolo e poi ho progettatoil manifesto.P.A. Hai progettato un manifesto per l’Expo?A.F. Certo, guardalo. Rappresenta simbolicamente la terra, vistacome un vassoio sul quale viene servita una mela-mondo, cibosemplice e accessibile a tutti.P.A. Che cosa ti aspetti da un evento come l’expo per<strong>Milano</strong> e Bergamo?A.F. No, conosco anche il Duomo, il Castello, la stazione Garibal<strong>di</strong>e la stazione Cadorna, la Triennale <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>, dove ho visto lamostra <strong>di</strong> Andy Warhol. Non sono ancora andato alla Triennale-Bovisa. Conosco la <strong>Milano</strong> underground: quella delle metropolitanee del passante. Mi piacerebbe conoscere <strong>di</strong> più la città, ma ioarrivo al mattino alla stazione Garibal<strong>di</strong> e dalle 9.15 alle 18.15sono in università. Finite le lezioni, corro veloce a Garibal<strong>di</strong> eprendo il treno per Bergamo. Arrivo a casa tra le 20 e le 20.30.Nel secondo semestre l’orario sarà <strong>di</strong>verso: due mattine e duepomeriggi. Mi ritaglierò un po’ <strong>di</strong> tempo per guardarmi attornoe per esplorare la città.La maggior parte degli amici che frequento è a Bergamo, macomincio ad avere qualche amico anche a <strong>Milano</strong>. Ragazzi chevengono da fuori e hanno preso in affitto una casa. Avere degliA.F. Sono due città <strong>di</strong>verse. Bergamo è un po’ chiusa. Ha un’attivagalleria d’arte moderna e contemporanea e un festival della scienza,annuale e carico <strong>di</strong> sorprese. Ma nulla a che vedere con <strong>Milano</strong>, piùricca <strong>di</strong> eventi <strong>di</strong> ogni tipo: mostre, teatro, manifestazioni, incontri.A me piace la musica <strong>di</strong> consumo e i concerti più interessanti e ilocali più attrattivi sono tutti nella provincia <strong>di</strong> Bergamo. Il fattoche io abiti lì, a pochi passi dalla città alta, ha suscitato qualchevolta una punta d’invi<strong>di</strong>a in alcuni miei compagni <strong>di</strong> corso. Ilfascino <strong>di</strong> Bergamo alta, della città murata...P.A. Come immagini <strong>Milano</strong> tra cinque anni?A.F. Devo metterci tanta fantasia per darti una risposta. Posso<strong>di</strong>segnarti come vedo la Bovisa tra cinque anni?A.F. A Bergamo ho frequentato il liceo artistico e lì è nato il miointeresse per la grafica pubblicitaria: dai cartelloni ai manifesti,alle pagine web ecc. È un campo <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> e <strong>di</strong> pratiche che mi èsempre piaciuto. Una vera passione. Mi piace comunicare un’ideao un oggetto in modo originale, imme<strong>di</strong>atamente intuibile ed’impatto. Dopo la maturità ho fatto il test d’ingresso al Politecnico<strong>di</strong> <strong>Milano</strong>, l’ho superato e mi sono iscritto al primo anno.P.A. Sai che cos’è l’Expo?A.F. L’informazione che circola è per il momento insufficiente.Certo, un evento <strong>di</strong> questo tipo è in grado <strong>di</strong> cambiare completamentel’immagine della città. Dei contenuti dell’Expo si sa poco.Ho letto che vogliono costruire dei grattacieli e che è scoppiatauna polemica sulle loro forme tra alcuni favorevoli e altri contrari.Per una città che vuole essere internazionale non è certoun grande <strong>di</strong>battito. Non si parla <strong>di</strong> verde, <strong>di</strong> infrastrutture, <strong>di</strong>parchi, <strong>di</strong> mobilità. Inoltre, vorrei che anche le città vicine, peresempio Bergamo, venissero coinvolte nell’evento.A.F. Sì, e per un fatto curioso. Prima dell’esame <strong>di</strong> maturità, inostri professori ci fecero fare una prova generale interna, simile aquella vera. Per la prova pratica ci fu dato come tema <strong>di</strong> progettareil manifesto informativo-illustrativo dell’Expo <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> del 2015.Avevo già sentito parlare <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> evento internazionale,ma non avevo mai approfon<strong>di</strong>to l’argomento. Il professore cispiegò in che cosa consisteva l’Expo e io andai a documentarmiP.A. Nel 2015 avrai ventiquattro anni. Come immaginiil tuo futuro?A.F. Spero <strong>di</strong> essere già al lavoro in qualche stu<strong>di</strong>o, a <strong>Milano</strong> oaltrove. Magari all’estero. Quello del pubblicitario è un mestiereche ha bisogno <strong>di</strong> buone basi tecniche, tanta curiosità e quell’esperienzache si acquisisce in bottega, lavorando con un bravo


32 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 33paRigi, metRopoLilaboRatorio <strong>di</strong> unagestIone teRRItorialeReinventata<strong>di</strong> Frédéric Gilli, <strong>di</strong>rettore aggiunto,Chaire Ville, Sciences Po, ParigiTraduzione <strong>di</strong> Luisa StellaPianificazione e gestione territoriale <strong>di</strong> una metropolisono due facce <strong>di</strong> una stessa medaglia: lungi dallimitarsi alla sola architettura istituzionale, il modoin cui una metropoli viene governata è il risultato<strong>di</strong> una continua sinergia tra i <strong>di</strong>versi protagonistiregionali. La pianificazione, d’altronde, non corrispondealla semplice applicazione <strong>di</strong> schemi razionalia una città. I piani da una parte sono il risultatodelle strutture istituzionali nel cui ambito vengonoprodotti, mentre dall’altra la loro applicazione èsoggetta ai problemi della gestione operativa.A lungo gestita dallo Stato, la pianificazione del territorio<strong>di</strong> Parigi è stata affidata nel 1995 al ConseilRégional, un’ulteriore tappa nel processo <strong>di</strong> decentralizzazionefrancese. Le numerose sfasature tra leraccomandazioni del programma del 1994 e la suarealizzazione pratica hanno rapidamente condottoa un nuovo schema <strong>di</strong>rettivo: in seguito a una lungaserie <strong>di</strong> consultazioni, che ha coinvolto la maggiorparte dei protagonisti regionali (politici, economici,associativi, scientifici, tecnici), è stato propostoun nuovo assetto territoriale a partire dal 2003. Iltesto è stato poi convalidato nel 2008 dopo lunghe<strong>di</strong>scussioni e a tutt’oggi attende <strong>di</strong> essere definitivamenteratificato.Parallelamente e dopo <strong>di</strong>versi decenni <strong>di</strong> stasi, lacittà <strong>di</strong> Parigi ha cominciato a <strong>di</strong>alogare con la suaperiferia vicina e lontana. Al centro delle <strong>di</strong>scussionila constatazione che la totale assenza <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo traParigi e la sua periferia ha condotto a una vera epropria incapacità comunicativa per mancanza <strong>di</strong>un vocabolario comune. Le “conferenze metropolitane”,luogo d’incontro tra amministratori francilien(relativo all’Île-de-France) <strong>di</strong> ogni schieramento e<strong>di</strong> ogni luogo (benché principalmente della primacintura ) sono servite a questo scopo.Spinto dall’urgenza <strong>di</strong> agire cavalcando l’onda <strong>di</strong>una campagna <strong>di</strong> stampa imperniata sull’immobilismoparigino, pressato dal volontarismo dellapresidenza della Repubblica e dalla sua determinazionea far promulgare una riforma del territorioparigino ma anche dalla realtà <strong>di</strong> una regione ricca<strong>di</strong> squilibri sociali, con trasporti pubblici semprepiù spesso congestionati e una scarsa crescita economica,il <strong>di</strong>battito pubblico si è impadronito dellaquestione della gestione territoriale francilien e deiprogetti da realizzare per ristabilire la competitivitàdella metropoli.Analizzeremo dunque i <strong>di</strong>versi settori (economico,sociale, urbano e istituzionale) prima <strong>di</strong> soffermarcisugli attuali problemi del territorio, dato che perrisolvere i problemi metropolitani sembra più utilecercare <strong>di</strong> risolvere le questioni attuali piuttosto checercare un’improbabile quadratura del cerchio relativamentealla gestione territoriale. Termineremorivedendo le questioni poste dagli attuali <strong>di</strong>battiti. Le SDRIF de 1994: quel bilan?, Synthèse des points de vue du Conseilrégional, de l’Etat et Conseil économique et social régional, Eléments pourun bilan, 21 ottobre 2004. A. Fourcaut, E. Bellanger, M. Flonneau (sotto la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong>), Paris/Banlieues. Conflits et solidarités. Historiographie, anthologie, chronologie 1788-2006, Créaphis, Paris 2007. Dalla metà degli anni sessanta, l’Île-de-France è formata da otto<strong>di</strong>partimenti: Paris, tre <strong>di</strong>partimenti imme<strong>di</strong>atamente contigui chiamati“piccola corona” (o “prima corona”), Hauts de Seine, Seine Saint-Denis eVal de Marne, e quattro <strong>di</strong>partimenti periferici chiamati “seconda corona”,Seine et Marne, Essone, Yvelines e Val-d’Oise.


34 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 35L’Île-de-France, fragile colossoNel 1996, gli amministratori newyorchesi avevanodenominato il loro piano per la gestione delterritorio «A region at risk». Questo è un po’ lostesso sentimento che percepiamo oggi nell’Île-de-France: profondamente riorganizzata negli annisessanta (Plan Delouvrier), la metropoli parigina haa lungo beneficiato <strong>di</strong> una configurazione economicae sociale particolare e <strong>di</strong> infrastrutture urbane <strong>di</strong>altissimo livello che le hanno consentito <strong>di</strong> evitarealmeno in parte la crisi urbanistica che ha colpitonegli anni ottanta Londra e soprattutto New York.Alcune particolarità francilien permangono ancoraoggi, in particolare la grande <strong>di</strong>versificazione delsuo tessuto economico e la relativa eterogeneità delsuo spazio urbano, ma l’organizzazione spazialedel territorio si è oggigiorno mo<strong>di</strong>ficata mettendole sue infrastrutture istituzionali e urbane in unasituazione precaria.Dinamismo economicoLa situazione economica dell’Île-de-France rompecon l’immagine che rimandava fino all’inizio deglianni novanta: la <strong>di</strong>soccupazione non è più così circoscrittacome prima (6,9% nel 2007, cioè 0,7 puntiin meno rispetto alla provincia, mentre nel 2000lo scarto era <strong>di</strong> 1,7 punti) e, anche se la produttivitàper impiego è fortemente aumentata (1,4% all’annorispetto all’1,1% in provincia tra il 1996 e il 2006,il che ne fa la seconda regione dopo la Bretagna per J.-C. Prager, Le management stratégique des grandes métropoles des paysavancés, Rapporto dell’ADIT, 2007. E. Preteceille, “Is gentrification a useful para<strong>di</strong>gm to analyse socialchanges in the Paris metropolis?”, in “Environment and Planning A”, vol.XXXIX, n. 1, 2007, pp. 10-31.ritmo <strong>di</strong> intensificazione della produttività), il tasso<strong>di</strong> crescita cumulativo degli ultimi anni s’inserisceappena nella me<strong>di</strong>a nazionale (2,3% all’anno tra il1996 e il 2006, ma una crescita due volte inferioretra il 2004 e il 2006). L’economia regionale rimanecaratterizzata da una struttura lavorativa molto <strong>di</strong>versada quella dell’economia nazionale, dominatadai servizi alle imprese e dai quadri <strong>di</strong>rettivi.Queste <strong>di</strong>fferenze s’inseriscono nel quadro <strong>di</strong> unoStato che rimane potente e presente, alimentando duepunti <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>fferenti in relazione alla metropoliparigina. Da una parte si pone la questione del nessotra ricchezza prodotta (PIL) e sviluppo (red<strong>di</strong>ti econsumi) sul territorio della regione parigina: la metropoliè sicuramente più ricca, ma la maggior partedei red<strong>di</strong>ti viene spesa al <strong>di</strong> fuori (sia dai franciliensin trasferta sia attraverso il sistema <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>stribuzionenazionale) e in città i prezzi sono più elevati. Infine,se la città produce il doppio per persona rispetto allaprovincia, il red<strong>di</strong>to pro capite è soltanto 1,5 voltepiù elevato (senza considerare il livello dei prezzi).Inoltre questi scarti sono soprattutto il riflesso delle<strong>di</strong>fferenze tra le <strong>di</strong>verse strutture socio-professionali.D’altra parte Parigi è una città mon<strong>di</strong>ale, <strong>di</strong>pen- I servizi alle imprese rappresentano il 25% dell’impiego francilien(13% in provincia), il terziario amministrativo e domestico il 59%(59% in provincia), l’industria l’11% (17% in provincia), il BTP il 5%(7% in provincia) e l’agricoltura lo 0,3% (4% in provincia). A causadella sua <strong>di</strong>mensione, l’Île-de-France resta tuttavia il primo territorioindustriale francese quanto a volume (15% dell’impiego e 21% del valoreaggiunto dell’industria francese), dato che appare in parte più bassopoiché molti impieghi dei servizi alle imprese sono in realtà impieghiindustriali (consulenza, ricerca ecc.). Dunque l’Île-de-France conta il35% dell’impiego e il 37% del valore aggiunto nazionale nei servizi alleimprese. L. Davezies, Croissance ans développement en Île-de-France, Rapporto perla Caisse des Dépôts et Consignations, 2007. M. Fesseau, V. Passeron, M. Vérone, “Les prix sont plus élevés en Îlede-Francequ’en province”, in “Insee Première”, n. 1210.dente dalle gran<strong>di</strong> strategie politiche nazionali, ealcune politiche pubbliche (soprattutto in materia <strong>di</strong>ricerca 10 ) hanno particolari effetti sulla competitivitàrelativa del territorio parigino. Né la fonte dei problemi– parigini o francesi con un impatto più fortesu Parigi (vedere in seguito) – né l’ampiezza realedel problema – congiunturale o strutturale – sonoveramente chiari.Ristrutturazione eco-socio-spazialeNegli ultimi decenni la maggior parte delle gran<strong>di</strong>città ha visto i lavoratori abbandonare il centrocittàper stabilirsi e crescere in periferia. 11 Parigi,sebbene considerata una città monocentrica, non èsfuggita a questa tendenza.Se consideriamo l’evoluzione dell’impiego nell’ambitodel territorio urbano <strong>di</strong> Parigi, includendo anche isobborghi tra il 1975 e il 1999, 12 troviamo 500.000impiegati in più ma soprattutto una trasformazionedella geografia territoriale a tutto vantaggio dellaseconda cintura: Parigi ha perso 300.000 impiegati J.-L. Missika, Paris, ville-monde dans une France endormie,www.laviedesidees.fr, 12 feb. 2008.10 In quanto a volume, l’Île de France resta la prima regione europeanel campo della ricerca secondo la quasi totalità dei criteri impiegati percalcolarla: 14,4 milioni <strong>di</strong> euro investiti nel 2003, cioè il 7,7% dei fon<strong>di</strong>R&D dell’Ue, 3282 richieste <strong>di</strong> brevetti nel 2002, cioè 5,5% delle richiesteeuropee, 3.500.000 persone che lavorano nelle scienza e nella tecnica e, cioè3,4% <strong>di</strong> RHST dell’Ue. Tuttavia, considerata la sua estensione, questo datoappare ri<strong>di</strong>mensionato; soprattutto il livello dell’investimento pubblico eprivato nel R&D che caratterizzava l’Île-de-France è oggi minacciato dallaforte crisi degli investimenti pubblici (B. Flex, Industries de haute technologieet services fondés sur la connaissance – L’importance de la R&D et des ressourceshumaines en science et technologie, Statistiques en bref, Eurostat, 2006).11 A. Anas, R.A. Kenneth, A. Small, “Urban Spatial Structure”, in“Journal of Economic Literature”, American Economic Association, vol.36(3), pp. 1426-1464.12 F. Gilli, “La région parisienne entre 1975 et 1999: une mutationgéographique et économique”, in “Économie et Statistiques”, n. 387,2006, pp. 3-32.sul lungo periodo e queste per<strong>di</strong>te non sono statecompensate dai 100.000 impiegati guadagnati neipoli della prima cintura (La Défense, Boulogne-Issyles Moulineaux, Ivry-sur-Seine, Montreuil, la Plainede France ecc.). Sempre più densamente popolati eintegrati con Parigi, questi poli hanno guadagnatoterreno soprattutto per quanto riguarda i quadri e leprofessioni interme<strong>di</strong>e, mentre la popolazione nellazona Nord-est della prima cintura è soprattutto compostada operai e impiegati.La crescita dell’impiego in periferia è dunque ilfenomeno <strong>di</strong> maggior rilievo degli ultimi trent’anni:400.000 impiegati si sono concentrati nei poli perifericipiù numerosi, più estesi e più importanti (se necontano più <strong>di</strong> quaranta nel 1999) e 300.000 impiegatisi sono trasferiti negli spazi extraurbani, specialmentenella seconda o terza cintura dei poli d’impiegoperiferici o lungo le gran<strong>di</strong> arterie autostradali.Secondo elemento importante, questa decentralizzazioneha comportato una riorganizzazione dell’economiaregionale. Mentre i servizi ai singoli e i serviziamministrativi hanno subito più o meno lo stessoprocesso <strong>di</strong> decentralizzazione, i servizi alle impresee gli impieghi industriali si sono invece ricompostiin poli specializzati <strong>di</strong>sseminati lungo il territorio.L’effetto statistico è lo stesso (si osserva una decentralizzazionedell’impiego, ma la logica spaziale chequesto comporta è ra<strong>di</strong>calmente <strong>di</strong>versa), poichéda una parte otteniamo spazi misti, dall’altra polieconomici specializzati. La crescita economica nellaseconda cintura è stata abbastanza importante daevitare la formazione <strong>di</strong> poli troppo specializzati,ma le conseguenze <strong>di</strong> questa evoluzione sono statecomunque rilevanti. Se consideriamo l’effetto chedrastici squilibri settoriali possono avere non soltantosulla <strong>di</strong>namica economica ma anche sulle <strong>di</strong>fferenze<strong>di</strong> sviluppo tra territori vicini, questa evoluzione può


36 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 37comportare una frammentazione delle <strong>di</strong>namichespaziali. Le gran<strong>di</strong> metropoli si trovano così <strong>di</strong> frontea una forte pressione <strong>di</strong> integrazione <strong>di</strong>namica.Questo ricorda i processi <strong>di</strong> frammentazione socialee politica già osservati in altre metropoli. Nel territorioparigino il livello <strong>di</strong> vita delle fasce più riccheè d’altronde più <strong>di</strong> 5 volte superiore a quello dellefasce più modeste, pari a 1,8 volte la me<strong>di</strong>a nazionale.13 Considerando il territorio nel suo insieme,il 10% delle famiglie più povere (ossia 450.000 famiglie)vive con un red<strong>di</strong>to annuo inferiore a 5580euro. La <strong>di</strong>fferenza con il 10% dei più poveri inprovincia è così inferiore al 2%, mentre nell’ambitodel territorio più ricco d’Europa il costo della vita èpiù elevato del 13% (per esempio, un affitto me<strong>di</strong>onell’Île-de-France si aggira intorno ai 17,2 euro/m 2 ²contro gli 11,8 euro/m 2 della me<strong>di</strong>a nazionale,dunque più del 50% più caro). 14Se la regione parigina resta per la maggior partecomposta da territori socialmente eterogenei, le <strong>di</strong>sparitàintercomunali sono aumentate dal 1980 e visono <strong>di</strong>fferenze importanti anche tra i <strong>di</strong>partimenti.Queste tensioni sono accresciute dalla situazione <strong>di</strong>crisi del mercato degli alloggi: il gap accumulato è atutt’oggi valutato intorno ai 200.000 alloggi e l’Îlede-Franceè quella che ha messo in cantiere il minornumero <strong>di</strong> nuovi progetti in questi ultimi anni (circa3 nuovi alloggi ogni 1000 abitanti nel 2005),soprattutto in considerazione delle richieste localiparticolarmente elevate. Oggi vi sono 340.000richieste <strong>di</strong> case popolari (+20% in 10 anni) e illivello <strong>di</strong> mobilità degli abitanti del parco sociale è<strong>di</strong>ventato assolutamente inadeguato (6,5% all’anno),mentre gli alloggi avrebbero bisogno <strong>di</strong> esserefortemente rinnovati. Un mercato immobiliare fluidoè sinonimo <strong>di</strong> mobilità e consente <strong>di</strong> accogliereprovvisoriamente o stabilmente i nuovi abitanti checostantemente arrivano e ripartono dalla metropoli.Al <strong>di</strong> là del miglioramento della qualità della vitaper le classi più abbienti della popolazione internazionale,la capacità <strong>di</strong> offrire a tutti una casa renderebbepiù competitiva e attraente una zona a rischionel territorio parigino.Il rapporto governance-performance economicaI rapporti tra la <strong>di</strong>namica macroeconomica del territorioe quella del paese sono determinanti. Lo stessovale per il mercato del lavoro e la creazione <strong>di</strong> imprese.Le leggi nazionali s’impongono su quelle delle gran<strong>di</strong>metropoli. Così il tasso <strong>di</strong> occupazione francilien èinferiore a quello <strong>di</strong> Londra, ma questo riflette unacaratteristica francese piuttosto che parigina. 15Più che avvicinarsi a uno schema ottimale <strong>di</strong> governance,è soprattutto importante riuscire a teneresotto controllo gli ostacoli e le ridondanze che, unavolta risolti i punti contrad<strong>di</strong>ttori, consentono adalcuni protagonisti <strong>di</strong> bloccare le decisioni. L’IAU-IFsottolinea che «la maggior parte dei piani urbanisticilocali prevede un aumento relativamente modestodella costruzione <strong>di</strong> nuovi alloggi, aumento cheresta molto al <strong>di</strong> sotto <strong>di</strong> quello che servirebbe perraggiungere l’obiettivo <strong>di</strong> 60.000 alloggi all’anno[sottoscritto da tutti i protagonisti a livello metropolitano,N.d.A.]». Solo un quarto dei comuni pre-vede un aumento delle costruzioni, un terzo invecead<strong>di</strong>rittura una riduzione. Più spesso l’obiettivoè «il punto morto, il ritmo che consentirebbe <strong>di</strong>stabilizzare la popolazione».Lo stesso avviene in materia <strong>di</strong> trasporti. Fino aglianni novanta il territorio parigino <strong>di</strong>sponeva <strong>di</strong> unarete <strong>di</strong> trasporti molto efficace. Ciò che prima eraall’avanguar<strong>di</strong>a oggi non lo è più e sono aumentatele <strong>di</strong>fficoltà nel quoti<strong>di</strong>ano. Negli ultimi trent’anni,a fronte <strong>di</strong> un notevole aumento del traffico e <strong>di</strong>un forte sviluppo della periferia, sono state messein cantiere solo due nuove linee (la RER e la linea14) e nessuna nuova infrastruttura è stata creata dal1990. A parte questi due progetti e l’interconnessionedella linea D – tutti lavori comunque concentratinel centro della capitale –, gli investimenti realizzatidagli anni settanta riguardano unicamente prolungamenti<strong>di</strong> linee preesistenti o la tramvia, investimentinon <strong>di</strong>sprezzabili in sé ma <strong>di</strong> collegamentolocale e che non mo<strong>di</strong>ficano l’architettura della rete.D’altronde le statistiche fornite dall’EMTA 16 evidenzianoproblemi collegati alla struttura stessa deitrasporti pubblici sul territorio parigino: da unaparte un ipercentro tra i meglio serviti al mondo(64% <strong>di</strong> utilizzo dei trasporti pubblici), dall’altrauna periferia tra le peggio servite tra quelle europeeanalizzate (meno del 30% <strong>di</strong> utilizzo dei trasportipubblici). Tutto questo conduce a un <strong>di</strong>vario ecologicoe sociale considerevole.Eppure sul lungo periodo lo Stato, i <strong>di</strong>versi operatori(RATP, SNCF, RFF 17 ) e infine la regione sisono trovati in con<strong>di</strong>zioni istituzionali (progetti dadefinire o semplicemente da finalizzare, operazionida negoziare o gestire) e finanziarie (tassi d’interessealti e poi bassi, crescita economica forte e poidebole ecc.) molto <strong>di</strong>verse. Al <strong>di</strong> là della strutturagestionale, si tratta dunque <strong>di</strong> superare le <strong>di</strong>fficoltàdella gestione territoriale francilien.Difficoltà dell’attuale sistema<strong>di</strong> gestione territorialePotrebbe essere stimolante immaginare uno schemaistituzionale completamente nuovo per il territorioparigino, tuttavia il cimitero delle riforme istituzionaliè già saturo. Questo depone a favore più <strong>di</strong>un approccio basato sull’analisi e la risoluzione deiproblemi specifici che ostacolano la realizzazionedei progetti piuttosto che sulla creazione ex novo <strong>di</strong>nuovi equilibri istituzionali.Stato, regione, comuni: tutti i protagonisti sonocoinvolti: la <strong>di</strong>fficoltà nel gestire la metropoli pariginarimanda ai rapporti problematici tra le <strong>di</strong>versecollettività e alle relative competenze in Île-de-France.Questa situazione, caratteristica dell’insieme delsistema francese, 18 prende una piega particolare nelmomento in cui è immersa in un sistema metropolitanopressato <strong>di</strong> potenziali conflitti. Si moltiplicano,infatti, le occasioni <strong>di</strong> scontro a scapito delleopportunità <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione.13 L. Auzet, M. Février, A. Lapinte, “Niveaux de vie et pauvreté enFrance”, in “Insee Première”, n. 1162, 2007.14 M. Sagot, Île-de-France, province: écarts de revenus, inégalités dessituations, IAURIF, Note Rapide 378, 2005.15 OECD, Territorial Reviews, Competitive Cities: A New EntrepreneurialPara<strong>di</strong>gm in Spatial Development, OECD Publishing, 2007.16 EMTA, Barometer of public transport in the European metropolitan areas, 2007.17 Negli anni ottanta il potere era ufficialmente nelle mani dello Stato,ma a causa delle <strong>di</strong>fficoltà tecniche e finanziarie la maggior parte degliarbitrati è <strong>di</strong>pesa da scelte operative e priorità dei <strong>di</strong>versi operatori.Questi ultimi si sono <strong>di</strong> fatto ritrovati al comando per la loro abilità nellagestione dei mezzi.18 P. Valletoux, Fiscalité et Finances publiques locales: à la recherche d’unenouvelle donne, rapporto del Conseil Economique et Social, 2006; P.Richard, Solidarité et performance: les enjeux de la maîtrise des dépenses publiqueslocales, 2006.


38 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 39Stato: protagonista storico in declino ma comunquepresenteLo Sato occupa un posto importante nella recentestoria della pianificazione del territorio <strong>di</strong> Parigi. Hainfatti per lungo tempo orientato e portato avantila politica regionale, come ricorda il titolo stesso dellibro dell’IAU-IF, 75 ans de planification. 19 In un primotempo, il piano Prost (1934), il PARP 20 (1939), ilPADOG (1960) miravano a controllare l’estensionedell’agglomerato urbano dopo la sfrenata e<strong>di</strong>ficazione<strong>di</strong> villette nel periodo tra le due guerre.Troppo maltusiano, il PADOG è stato spesso soggettoa deroghe in un’epoca in cui lo Stato interveniva massicciamentenelle questioni relative agli alloggi e alle infrastrutture.Viene sostituito nel 1965 dallo SDAURP,che porta avanti un progetto ambizioso e servirà comebase per le azioni dello Stato lungo due decenni. Loschema <strong>di</strong>rettivo è una testimonianza forte del pesostatale al <strong>di</strong> là degli aspetti legali. Non ha alcun valoregiuri<strong>di</strong>co, ma i mezzi utilizzati per metterlo in pie<strong>di</strong>ne faranno il documento base della trasformazione <strong>di</strong>Parigi in capitale <strong>di</strong> livello europeo.Lo Stato resta ancora un protagonista fondamentalesia a livello locale sia su scala metropolitana in forzadel ruolo e degli strumenti che continua ad avere. Dauna parte conserva un’innegabile ruolo “legale”. Seinfatti l’elaborazione dello SDRIF è stata affidata allaregione, lo Stato conserva il potere <strong>di</strong> ratificarla. Aquesto si aggiunge il già citato ruolo <strong>di</strong> primo finanziatoretramite il Contrat de Projet Etat-Région e legran<strong>di</strong> imprese pubbliche.19 F. Dugeny, 75 ans de planification, 2008, www.iau-idf.fr.20 PARP, Plan d’Aménagement de la Région Parisienne; PADOG, Pland’Aménagement et D’Organisation Générale de la région parisienne; SDAURP,Schéma D’Aménagement et d’Urbanisme de la Région Parisienne; SDRIF, SchémaDirecteur de la Région Parisienne.D’altra parte, se è <strong>di</strong>ventato soprattutto un protagonistaoperativo piuttosto che legislativo 21 non ècerto un protagonista qualsiasi. Diversi fattori nefanno sempre più un protagonista essenziale: lo è<strong>di</strong>rettamente attraverso il controllo sui gran<strong>di</strong> operatoriurbani che sono anche proprietari terrieri (acominciare dalla RATP e dalla SNCF, le due societàpubbliche incaricate dei trasporti nell’Île-de-France),attraverso i terreni pubblici convertibili (quellidei ministeri e quelli appartenenti all’Agenzia delleentrate 22 ) e poi anche in<strong>di</strong>rettamente (Opérationsd’Intérêt National, poli <strong>di</strong> competitività, politichedella città ecc.).Conserva inoltre il controllo delle gran<strong>di</strong> politiche<strong>di</strong> settore – alloggi, università – ed è coinvoltonei gran<strong>di</strong> progetti strategici per il paese, che siaa Saclay (tramite i centri <strong>di</strong> ricerca, le universitàe le gran<strong>di</strong> scuole ma anche alcune imprese <strong>di</strong> cuiè azionista, come Thalès) o a Roissy (<strong>di</strong>rezionegenerale dell’aviazione civile, aeroporti <strong>di</strong> Parigi,rete ferroviaria <strong>di</strong> Francia, ma anche Air-France e laSNCF), situazione che riflette quella prevalente innumerose altre metropoli internazionali.Lo Stato conserva anche, in <strong>di</strong>versi territori specifici,pesanti funzioni operative sostituendosi alle collettivitàlocali. È in particolare il caso <strong>di</strong> EPA (EtablissementsPublics d’Aménagement) e <strong>di</strong> OIN (Opération21 In maniera emblematica e senza presagire in alcun modo la nascitadel segretariato <strong>di</strong> Stato, la stampa gli ha attribuito mire specifiche (Saclay,CDG-Express, Métrophérique?) più che una volontà <strong>di</strong> ricomposizionedegli equilibri sociali, proprio mentre lo Stato lanciava la consultazioneinternazionale sulla metropoli!22 L’AFTRP (Agence Foncière et Technique de la Région Parisienne),organo statale storicamente incaricato della gestione territoriale (F.Scherrer, “L’AFTRP”, in “Annales de la recherche urbaine”, n. 51, Laplanification urbaine et ses doubles, pp. 71-82) non si è fuso con l’EPFR(Etablissement Public Foncier Régional sous la tutelle du ConseilRégional) alla nascita <strong>di</strong> quest’ultimo.d’Intérêt National). La creazione del nuovo Secrétariatd’Etat à la Région Capitale accentua il tutto. Èanche il caso delle zone degradate dove si concentranoi maggiori sforzi pubblici. Pur tuttavia la capacitàoperativa dello Stato sta perdendo forza.La ricomposizione dei mezzi d’azione pubblici(<strong>di</strong>simpegno dei gruppi industriali, riconfigurazionedegli incarichi pubblici) implica una parzialerinuncia da parte dello Stato a leve d’azione imme<strong>di</strong>atamenteoperative. Altrettanto se non ancor piùdegli amministratori pubblici, gli operatori privatiinfluiscono sul <strong>di</strong>segno della metropoli. Spingono,determinano, ad<strong>di</strong>rittura costruiscono come nelcaso <strong>di</strong> Euro<strong>di</strong>sney a Marne la Vallée: intorno alparco <strong>di</strong> <strong>di</strong>vertimenti l’impresa ha creato una vera epropria città con i suoi alloggi permanenti, le areericreative e i suoi centri commerciali.In ogni modo, la rinuncia da parte dello Statolo priva dei mezzi necessari per ricomporre gliequilibri francilien, anche nell’ottica <strong>di</strong> una pianificazionepiù in<strong>di</strong>retta, a progetto. L’esempio delrinnovamento urbano è emblematico <strong>di</strong> questori<strong>di</strong>mensionamento: mentre i quartieri popolari delterritorio parigino sono quelli che presentano lesituazioni più estreme e richiedono gli investimentipiù pesanti (a causa della loro interconnessione odella loro struttura), l’Agence Nationale pour la RénovationUrbaine vi si è de<strong>di</strong>cata solo tar<strong>di</strong>vamentee con mezzi inferiori rispetto a quelli mobilitati inprovincia. Incapace <strong>di</strong> trasformare l’infrastrutturaurbana, la potenza pubblica fatica a <strong>di</strong>rottare versotali quartieri le decisioni d’investimento.Il ruolo dello Stato è infine in declino anche a causadella decentralizzazione, che lascia più spazio alleiniziative delle collettività locali. Lo Stato dovrebbeinventare «per l’Île-de-France la “terza età” dellapianificazione territoriale»: dopo la pianificazionevolontarista dei gloriosi anni trenta e quella flessibiledegli anni ottanta, è arrivato il momento della«pianificazione per progetti». 23 L’azione pubblicasul territorio in Île-de-France troverebbe un nuovoequilibrio tra la gestione territoriale quoti<strong>di</strong>anapilotata dalla regione e da Parigi e la pianificazioneper progetti portata avanti dallo Stato.Regione: immobilizzata dalla gestione, debole leadershipLa regione è, caso unico in Francia, dotata <strong>di</strong> unpiano <strong>di</strong>rettivo che unisce urbanismo e pianificazione.Lo SDRIF è quin<strong>di</strong> un documento ambiguo. Lasua funzione è quella <strong>di</strong> formalizzare una strategia<strong>di</strong> gestione e <strong>di</strong> sviluppo territoriale, <strong>di</strong> fornireuno strumento <strong>di</strong> controllo spaziale del territoriofrancilien e <strong>di</strong> in<strong>di</strong>rizzare e focalizzare i documenti<strong>di</strong> interesse territoriale come il Plan de déplacementsurbains d’Île-de-France (PDUIF) e i documenti <strong>di</strong>interesse urbanistico come gli Schémas de cohérenceterritoriale (SCOT) o i Plans locaux d’urbanisme (PLU)in mancanza <strong>di</strong> SCOT. A termini <strong>di</strong> legge, i suoiobiettivi sono quin<strong>di</strong> molto ampi; lo SDRIF «in<strong>di</strong>cai mezzi da impiegare per correggere gli squilibrispaziali, sociali ed economici del territorio, coor<strong>di</strong>narele offerte <strong>di</strong> <strong>di</strong>slocamento e preservare le zonerurali e naturali al fine <strong>di</strong> assicurare le con<strong>di</strong>zioniper uno sviluppo durevole della regione parigina».Per organizzare al meglio la crescita urbana e l’usodegli spazi garantendo l’influenza internazionale delterritorio, lo schema <strong>di</strong>rettivo deve raccomandareazioni per correggere gli squilibri spaziali, socialied economici del territorio, coor<strong>di</strong>nare le offerte <strong>di</strong><strong>di</strong>slocamento e preservare i territori rurali e gli spa-23 D. Béhar, P. Estebe, “La planification au péril du SDRIF?”, in“Urbanisme”, n. 29, 2006, pp. 23-25.


40 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 41zi naturali. Secondo i termini dello schema in corso<strong>di</strong> convalida, la «visione regionale» ha consacratouna volontà collettiva <strong>di</strong> organizzare la gestionedel territorio secondo la logica <strong>di</strong> una eco-regione,portando avanti tre sfide principali: favorire l’uguaglianzasociale e territoriale, anticipare e risolvere icambiamenti e le crisi più importanti (notoriamentelegati ai cambiamenti climatici e al rincaro deicombustibili fossili) e sviluppare un’Île-de-France<strong>di</strong>namica che conservi la sua influenza mon<strong>di</strong>ale.Per ottenere tutto questo traccia cinque punti: unpolicentrismo rafforzato e gerarchizzato; compattezzae densità urbana; vicinanza, accessibilità emobilità; uguaglianza e solidarietà; durata, soli<strong>di</strong>tàe capacità evolutiva degli schemi d’azione.Pur essendo espressione <strong>di</strong> una volontà politica,lo schema rimane prima <strong>di</strong> tutto un documentourbanistico, obbligato a confrontarsi con l’utilizzoe la <strong>di</strong>stribuzione del suolo per portare avanti lesue riforme. Inoltre, la regione si scontra con lamancanza <strong>di</strong> procedure automatiche <strong>di</strong> conciliazionetra collettività locali <strong>di</strong> livelli <strong>di</strong>versi. L’esistenza<strong>di</strong> tale schema nel contesto istituzionale attualerende tuttavia il territorio il principale referentedegli orientamenti regionali. Si è anche parlato <strong>di</strong>«stratega», <strong>di</strong> «pilota» o <strong>di</strong> «coor<strong>di</strong>natore». 24 Inpratica, l’articolarsi <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> visioni necessita <strong>di</strong> unprotagonista forte, che si tratti <strong>di</strong> un’istituzione unica(Stato, regione ecc.) o <strong>di</strong> un collettivo costituito.Dunque, la metropoli parigina non possiede a tutt’oggila capacità <strong>di</strong> intraprendere azioni <strong>di</strong> ampiorespiro. E questo da una parte per una questionelegale, poiché se la decentralizzazione consente alla24 Vedere il dossier “Paris-Île-de-France. Comment gouverner lamétropole régionale?”, in “Pouvoirs Locaux”, n. 73, 2007.regione <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare la sede della programmazionepolitica, il peso dello Stato (che conserva il potereesecutivo) e dei comuni (che conservano il potereoperativo) evidenziano i limiti <strong>di</strong> tale processo <strong>di</strong>decentralizzazione parziale; dall’altra parte per unaquestione pratica: lungi dal <strong>di</strong>pendere dalla solaintendenza, gli aspetti finanziari delle operazionisi <strong>di</strong>mostrano fondamentali per capire chi detieneil potere reale. L’esempio dei trasporti è lampante:sulla carta è prevista la creazione <strong>di</strong> un centinaio<strong>di</strong> nuove infrastrutture nei prossimi vent’anni,senza <strong>di</strong>fferenziare tra linee metropolitane (metro eRER) e linee locali (tram e autobus), né tra primae seconda cintura o tra linee città-periferia e lineeperiferia-periferia. Ma se i finanziamenti si rivelerannoinsufficienti a raggiungere tutti gli obiettivi,a chi toccherà decidere quali linee sacrificare? Allaregione (seguendo le logiche politiche?), all’organooperativo (seguendo le logiche tecniche?) o ai finanziatori(seguendo le logiche produttive?). Dunque,la semplice definizione <strong>di</strong> un piano non <strong>di</strong>ce nientedelle logiche <strong>di</strong> potere che in realtà contribuirannoa creare la metropoli <strong>di</strong> domani.La decentralizzazione parziale ha dunque conseguenzedrammatiche sul piano operativo dei protagonistilocali francilien. 25 Da una parte mantiene ead<strong>di</strong>rittura accentua la confusione <strong>di</strong> ruoli tra le <strong>di</strong>verseautorità locali. La mancanza nella Costituzione<strong>di</strong> un principio <strong>di</strong> sussi<strong>di</strong>arietà tra le collettivitàlocali moltiplica le occasioni <strong>di</strong> conflitto 26 quandoi protagonisti locali e metropolitani si incontrano25 P. Estèbe, P. Le Galès, “La métropole parisienne: à la recherche dupilote?”, in “Revue Française d’Administration Publique”, 2004.26 Il documento giuri<strong>di</strong>co prodotto sullo SDRIF è illuminante (vedereDREIF, Les nouvelles formes de planification de l’Ile de France, Paris 2006,elaborato sotto la responsabilità <strong>di</strong> Gérard Marcou).così sovente. La con<strong>di</strong>visione delle responsabilitàtra collettività che operano a livelli <strong>di</strong>versi è utile inun contesto metropolitano, garantisce una consultazionecontinua e promuove lo sviluppo <strong>di</strong> unademocrazia “multiscalare” che alcuni hanno definito«postmoderna». 27 Tuttavia, se manca una chiararipartizione dei ruoli, questo conduce a una situazionein cui ogni singola collettività può opporsi aun progetto, ma nessuna può spingere perché essovenga portato avanti. Allora lo scontro si sovrapponealla consultazione, conducendo a un congelamentodegli investimenti.Amministrazione locale: fragile e frammentataL’incapacità <strong>di</strong> portare avanti progetti <strong>di</strong> ampio respironon pertiene solo alla sfera metropolitana, mainfluisce profondamente nel quoti<strong>di</strong>ano sull’e<strong>di</strong>ficazioneterritoriale della regione parigina.In Francia i sindaci hanno poteri molto estesi.Definiscono ed eseguono i piani regolatori comunali(se anche esistono alcuni vincoli, 28 ai sindacispettano i piani <strong>di</strong> <strong>di</strong>slocamento, quelli relativi alclima e i piani urbanistici, compresa la concessionedelle licenze e l’attribuzione delle case popolari).Sono più in generale responsabili delle scuole, dei<strong>di</strong>spensari me<strong>di</strong>ci (ai quali si aggiungono anchegli ospedali nel caso <strong>di</strong> Parigi), della polizia locale,delle politiche sociali 29 ecc. In confronto ai loroomologhi europei, i sindaci francesi hanno poteri27 Aca<strong>di</strong>e, Paris en Île-de-France, Matériaux pour un débat, 2002.28 I piani regolatori ricadono nell’ambito dei Plans Locaux d’Habitat,SCOT o SDRIF; la stessa politica degli alloggi deve sottostare al vincolo<strong>di</strong> costruire case popolari secondo la legge Solidarité et RenouvellementUrbain.29 I <strong>di</strong>partimenti sono responsabili delle politiche sociali ma questeultime sono gestite nel quoti<strong>di</strong>ano dagli amministratori municipali.molto più estesi e sono relativamente autonomirispetto alla legge. D’altronde in Francia le entratelocali coprono circa la metà dei budget locali rispettoa meno del 30% negli altri Stati europei, dovela maggior parte delle risorse fiscali proviene dalleimposte statali.Tutta questa libertà non comporta però una piùampia responsabilità politica. 30 Da una parte unastessa imposta è il risultato dell’accorpamento <strong>di</strong> piùaliquote definite in<strong>di</strong>pendentemente da collettività<strong>di</strong>fferenti; dall’altra ogni tassa sod<strong>di</strong>sfa obiettivimultipli e <strong>di</strong>versi per ciascun livello <strong>di</strong> collettività.Questo alimenta le <strong>di</strong>suguaglianze. Così facendo,infatti, le politiche locali <strong>di</strong>pendono da contributilocali piuttosto che metropolitani. E allo stessotempo non favorisce la trasparenza delle azioni deipolitici eletti e quin<strong>di</strong> l’esercizio della democrazia.Tale situazione rafforza i confini amministrativi. A<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> ciò che accade a Londra o in Germania,dove i confini municipali hanno solo un impattominore sui budget locali <strong>di</strong>pendenti dai fon<strong>di</strong>pubblici, la riorganizzazione dei confini conduce inFrancia a importanti ri<strong>di</strong>stribuzioni delle risorse. 31Difficile in questo contesto ricomporre uno spaziopolitico francilien tanto frammentato: l’Île-de-Franceconta 1281 comuni e anche i sindaci constatano laloro impotenza a farsi ascoltare. 32L’impotenza degli eletti locali non riguarda soltantola loro capacità <strong>di</strong> farsi ascoltare. Concerne ugualmentela capacità <strong>di</strong> agire: la maggior parte non ha30 P. Richard, Solidarité et performance, cit.31 T. Travers, “Decentralization London-style: The GLA and LondonGovernance”, in “Journal: Regional Stu<strong>di</strong>es”, vol. XXXVI, n. 7, pp. 779-788.32 Inchiesta condotta dall’Association des maires d’Île-de-France (Amif),citata da “Journal du Dimanche”, 27 aprile 2008.


42 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 43i mezzi economici per portare avanti da solo importantiprogetti urbani (escludendo Parigi, il budgetd’investimento me<strong>di</strong>o dei comuni dell’Île-de-Franceera <strong>di</strong> appena 3.200.000 euro nel 2002 e la superficieme<strong>di</strong>a dei comuni della regione <strong>di</strong> Parigi è <strong>di</strong>circa 900 ettari, 33 <strong>di</strong> cui appena 534 nella primacorona e, al <strong>di</strong> fuori della città <strong>di</strong> Parigi, non sicontano che 34 comuni con più <strong>di</strong> 50.000 abitantinel 2005). Si trovano sempre più <strong>di</strong> fronte a unaframmentazione del potere decisionale (che contribuisconoa creare) e a essere sempre più spesso inconcorrenza per l’adozione o la sospensione <strong>di</strong> unprogetto in una metropoli che potrebbe contenerele 15 maggiori aeree urbane della provincia. 34Combinazione della potenza dei soggetti operativi edella debolezza dello Stato e dei protagonisti locali, lametropoli parigina si gestisce in gran parte da sola.Articolare locale e metropolitanoAl <strong>di</strong> là del solo schema <strong>di</strong>rettivo della regione dell’Île-de-France,il rilancio della metropoli pariginapone alcune questioni operative e solleva problemipolitici.33 1.201.100 ettari per l’Île-de-France per 1281 comuni, cioè 938ettari in totale, 917 se si escludono i casi particolari <strong>di</strong> Parigi, 10.540ettari, e Fontainebleau, 17.205 ettari, e 1.451.800 ettari per l’area urbana<strong>di</strong> Parigi che raggruppa 1584 comuni, cioè 917 ettari in totale e 900ettari senza Parigi né Fontainebleau.34 A titolo <strong>di</strong> esempio, costruire una rete <strong>di</strong> trasporto pesante cheattraversi una metropoli della provincia presuppone <strong>di</strong> mettere d’accordola comunità urbana e una quin<strong>di</strong>cina <strong>di</strong> comuni. Nel caso <strong>di</strong> Parigicostruire una linea RER mobilita <strong>di</strong>rettamentente lo Stato (lo statutodella capitale impone un minimo <strong>di</strong> vincoli <strong>di</strong>pendenti dalla DéfenseNationale), la Regione, <strong>di</strong>versi <strong>di</strong>partimenti, una decina <strong>di</strong> bacini d’utenzae più <strong>di</strong> una decina <strong>di</strong> comuni.Agire o no... e come?In una metropoli che non presenta tassi <strong>di</strong> crescitaa due cifre, portare avanti nuovi progetti pone unaquestione pratica: se paragonati a Shangai, i progettiparigini sono meno rischiosi, ma rendono anchemolto meno e soprattutto molto più a lungo termine.Le conseguenze da un punto <strong>di</strong> vista operativosono molto vaste: nel caso <strong>di</strong> ren<strong>di</strong>menti a cinque osette anni, sono possibili speculazioni urbanistiche.Questo spinge verso un’urbanizzazione freneticae senza regole, ma gli e<strong>di</strong>fici sorgono e i progettidecollano. Le regole <strong>di</strong> una corretta gestione sconsiglianoquesto tipo <strong>di</strong> investimenti quando i progettivengono ammortizzati su 15 o più anni. In questocaso i progetti devono resistere a rovesci congiunturaliper poter essere portati a termine e il ritmo e laquantità <strong>di</strong> realizzazioni ne risentono. Ne risentonoancor più quando, anche a causa <strong>di</strong> problemi interni,i tempi si allungano: se i tempi dell’investimentosono più lunghi rispetto alla fase ascendente delciclo, il rischio è che le finestre <strong>di</strong> opportunità finiscanoper chiudersi prima dell’inizio dei progetti.Per esempio, in seguito alle incertezze del mercatoimmobiliare e alla crisi finanziaria, tali problemiinteressano <strong>di</strong>rettamente il piano <strong>di</strong> rilancio “LaDéfense 2015”.Vi è anche un problema <strong>di</strong> metodo e <strong>di</strong> obiettivi.Al <strong>di</strong> là dei ritocchi istituzionali, qualsiasi riformariguardante la regione parigina dovrà mo<strong>di</strong>ficare indettaglio gli aspetti fiscali, <strong>di</strong> politica immobiliaree delle modalità <strong>di</strong> finanziamento. Ciò rimandaad arbitrati tecnici e insieme a scelte politiche. Perquanto riguarda la fiscalità, per esempio, non sipotrà ottenere una migliore perequazione delle risorsea breve termine senza aumentare quella parte<strong>di</strong> risorse ri<strong>di</strong>stribuita alle collettività, sia attraversoun’attribuzione più selettiva delle dotazioni statali(estensione dei meccanismi esistenti 35 ) sia attraversola generalizzazione dei meccanismi obbligatori <strong>di</strong>trasferimento <strong>di</strong> fon<strong>di</strong> tra collettività. 36Sembra però <strong>di</strong>fficile, nel contesto politico attuale,collocare questi massicci trasferimenti in unaprospettiva a lungo termine. La <strong>di</strong>vergenza tra glischieramenti locali e il livello metropolitano che alimentai <strong>di</strong>scorsi separatisti (Fiandre ecc.) obbliga aconsiderare i trasferimenti e la solidarietà territorialemassiccia in modo <strong>di</strong>verso rispetto a un territoriopiù ristretto. Si tratta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> mobilitare questerisorse non soltanto per compensare le <strong>di</strong>fferenzetra la popolazione ma anche per operare localmenteal riassorbimento dei <strong>di</strong>fferenziali <strong>di</strong> ricchezza inseno alla metropoli. Solo a questo prezzo si riuscirà,a me<strong>di</strong>o termine, a mettere la crescita metropolitanaal servizio dello sviluppo locale.La regione e gli attori regionali hanno verificato,grazie allo sdrif, che erano in grado <strong>di</strong> formularedelle <strong>di</strong>agnosi con<strong>di</strong>vise e <strong>di</strong> elaborare quadri collettivid’azione. Le questioni in sospeso evidenzianotuttavia due problemi: da una parte come crearenon soltanto una visione ma anche un’ambizioneregionale (e come rinnovarla nel tempo); dall’altracome mettere in pratica gli arbitrati collettivi. Sonoqueste due questioni che hanno rilanciato il <strong>di</strong>battitosulla “Grande Parigi”.Grand Paris o Parigi metropoliSperare nel ritorno <strong>di</strong> uno Stato accentratore nelquadro <strong>di</strong> una gestione pubblica, riunificato ed35 Dotation Globale de Fonctionnement, Dotation de SolidaritéUrbaine.36 Fonds de Solidarité Régional d’Île-de-France.efficace è anacronistico e poco realistico. Da unaparte, un forte accentramento dei mezzi d’azionenon farebbe rinascere il prefetto Delouvrier che hari<strong>di</strong>segnato la regione negli anni sessanta, e dall’altraquest’ultimo, per ottenere lo stesso impattostorico sulla regione parigina, dovrebbe lavorare<strong>di</strong>versamente e produrre piani <strong>di</strong>versi. Questo nonsignifica che bisogna accontentarsi della situazioneattuale in cui i mezzi d’azione e gli interventistatali sono <strong>di</strong>visi e non coor<strong>di</strong>nati tra loro econ le altre forze pubbliche. La questione dellalegittimità <strong>di</strong> un Secrétariat d’Etat o <strong>di</strong> un ComitéInterministériel d’Aménagement du Territoire nonsembra assurda se consideriamo che al centro dellaquestione c’è più l’attore (lo Stato e le sue <strong>di</strong>versepropaggini locali) che l’obiettivo (la regione parigina).Al contrario sembra invitare a immaginareuna soluzione innovativa per coor<strong>di</strong>nare i <strong>di</strong>versiattori locali della metropoli.Immaginare un governo locale unico in unametropoli <strong>di</strong> più <strong>di</strong> 11 milioni <strong>di</strong> abitanti è pocorealistico. Diverse soluzioni sono allora possibili permettere degli interme<strong>di</strong>ari tra azioni locali e azionimetropolitane. Nel quadro del <strong>di</strong>battito francilien,troviamo uno scenario elaborato intorno ad alcunedelle gran<strong>di</strong> intercomunalità confinanti con Parigi(chiamate “della margherita”); uno scenario <strong>di</strong>partimentalista,che si baserebbe sugli otto <strong>di</strong>partimentigià esistenti affidandogli una parte dei poteridetenuti adesso dai comuni; uno scenario <strong>di</strong> GrandParis che mira a raggruppare la prima corona (o lazone dense a seconda che vi sia un approccio amministrativoo morfologico) in un solo insieme politico;uno scenario “Haussman bis”, la cui idea è <strong>di</strong> creareuna corona supplementare <strong>di</strong> arron<strong>di</strong>ssements intornoa Parigi a partire dai comuni vicini; uno scenario


44 lente d’ingran<strong>di</strong>mento 45regionalista basato soprattutto su un aumento delpotere regionale in modo da dotare la metropoli <strong>di</strong>un leader operativo; infine, uno scenario per sindacatio agenzie tecniche, incentrato su una governanceper obiettivi tecnici o reti.Ne conseguono quin<strong>di</strong> due letture contrastantidella realtà parigina. Secondo una <strong>di</strong> queste Parigisarebbe troppo piccola e dovrebbe quin<strong>di</strong> cercare <strong>di</strong>sfruttare meglio il suo spazio funzionale. Vi si ritrovanoi <strong>di</strong>versi scenari a base spaziale che, mo<strong>di</strong>ficandonei contorni, consentirebbero un trattamento efficace<strong>di</strong> un maggior numero <strong>di</strong> questioni d’or<strong>di</strong>nemetropolitano. Secondo l’altra, Parigi ha mo<strong>di</strong>ficatola sua logica organizzativa e quin<strong>di</strong> non si tratta piùtanto <strong>di</strong> ingran<strong>di</strong>re la città quanto <strong>di</strong> riarticolare glispazi locali (possibilmente ampliati per essere cre<strong>di</strong>bilisu scala metropolitana) e i <strong>di</strong>versi protagonistimetropolitani in modo che la metropoli funzionicome uno spazio interterritoriale e multiscalare.Cercare oggi <strong>di</strong> ingran<strong>di</strong>re Parigi alla ricerca <strong>di</strong>un profilo pertinente per la prima corona dellametropoli è tuttavia profondamente anacronistico. 37La mon<strong>di</strong>alizzazione non smembra i territori, mal’accresciuta liqui<strong>di</strong>tà degli investimenti industrialicostringe a concepire l’e<strong>di</strong>ficazione territoriale inmodo molto più <strong>di</strong>namico: <strong>di</strong>namico nello spazio,poiché i luoghi si pensano in relazione l’uno conl’altro; <strong>di</strong>namico nel tempo, poiché la vitalità <strong>di</strong>un territorio è in<strong>di</strong>ssolubile dalla sua capacità <strong>di</strong>rapportarsi a un “dopo” sempre da inventare, siaper quanto riguarda le attività del territorio sia ilsuo profilo.La regione parigina è oggi una “città vischiosa”, icui profili sono dati da un luogo e da una durata,ma evolvono costantemente su scala metropolitana(inglobando il bacino parigino 38 ). I luoghi <strong>di</strong>residenza e <strong>di</strong> lavoro <strong>di</strong> ciascuno, le scelte <strong>di</strong> inse<strong>di</strong>amentodelle imprese, le politiche pubbliche produconoquoti<strong>di</strong>ane mo<strong>di</strong>fiche degli spazi funzionali.Alcune scelte implicano permanenze lunghe, altre <strong>di</strong>breve durata. Articolare queste <strong>di</strong>verse temporalitàe dargli senso è il compito del territorio: come intutti i campi, la capacità <strong>di</strong> adattamento presupponenon un’assoluta flessibilità delle strutture, mastrutture sufficientemente solide e legittime perrispondere alle esigenze e alle opportunità <strong>di</strong> cooperazionemultiforme.ConclusioneCon più <strong>di</strong> 1300 amministratori locali e con i suoicinque livelli politico-amministrativi interconnessi,la metropoli parigina presenta se non un’originalità(ogni metropoli rivela sistemi complessi se si scavaoltre la superficie) almeno un caso molto interessante<strong>di</strong> ricomposizione. Tanto più che sta perdotarsi <strong>di</strong> un nuovo piano <strong>di</strong> sviluppo territoriale epensa a una nuova governance.Mentre i faubourgs prolungano la città al <strong>di</strong> là deibastioni, l’attuale metropoli non si ferma né alletangenziali né all’A86, né dopo la prima coronané ai limiti dell’agglomerato e neanche a quellidell’area urbana: è invece multiforme e i suoiprofili variano nel tempo, nello spazio e in base aiprotagonisti. La sfida quin<strong>di</strong> non è quella <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficarei contorni istituzionali ma <strong>di</strong> fare in modoche le nuove problematiche territoriali <strong>di</strong>venganorapidamente una delle preoccupazioni principali deiprotagonisti e delle istituzioni consolidate. In particolare,in uno spazio attraversato da reti passanti,i confini possono al giorno d’oggi essere consideratinon come limiti, come barriere, bensì comemembrane, come ponti che uniscono piuttosto cheseparare.Da questo punto <strong>di</strong> vista, la complessità istituzionalenon è certo un problema in sé. Il territorioriunisce i sottosistemi, i co<strong>di</strong>ci e le connessioni. Iprocessi <strong>di</strong> interferenza vi trovano terreno fertile.Che si tratti <strong>di</strong> conferenze metropolitane o SDRIF,il <strong>di</strong>alogo e la con<strong>di</strong>visione <strong>di</strong> punti <strong>di</strong> vista sono alcentro delle <strong>di</strong>namiche <strong>di</strong> ricomposizione.La metropoli parigina è oggi un formidabile laboratorio<strong>di</strong> modalità <strong>di</strong> organizzazione spaziale,<strong>di</strong>namiche economiche, schemi <strong>di</strong> governance e meto<strong>di</strong>per riformarli. La maggior parte degli elementistrutturanti <strong>di</strong> una metropoli sono oggi sul punto<strong>di</strong> cambiare sensibilmente e tutti nello stesso momento.Una nuova metropoli sta nascendo, ma nonè ancora dato sapere se sarà una vera e propria rivoluzioneo se – com’è assolutamente possibile datele assurde lungaggini che interessano questi campi– sarà solo molto rumore per nulla.37 P. Chemetov, F. Gilli, Une région de projets: l’avenir de Paris,Documentation française, 2006.38 F. Gilli, “Le Bassin parisien. Une région métropolitaine”, in“Cybergeo, Espace, Société, Territoire”, art. 305, messo in rete il 15 aprile2005, mo<strong>di</strong>ficato il 22 giugno 2007.


46 avanguar<strong>di</strong>e 47Banca Prossima è la banca del gruppo IntesaSanpaolo de<strong>di</strong>cata al not for profit, ed è pienamenteoperativa dal febbraio <strong>di</strong> quest’anno. Marco Morgantine è l’amministratore delegato. La Banca nonnasce dal nulla, ma ha avuto almeno cinque annid’incubazione in quel “Laboratorio banca e società”istituito da Corrado Passera pochi mesi dopo il suoingresso in Banca Intesa. A guidarlo chiamò subitoMarco Morganti – una carriera alla Giunti E<strong>di</strong>tore,fino a <strong>di</strong>ventarne segretario generale, e alcuni annia Poste italiane a progettare e seguire innovativeiniziative culturali e territoriali.Compito del Laboratorio è stato <strong>di</strong> pensare erealizzare prodotti – ma anche progetti – bancaseun chicco<strong>di</strong> gRano…<strong>di</strong> Marco Morganti, amministratore delegato <strong>di</strong> Banca ProssimaConversazione con Pasquale Alferj


48 avanguar<strong>di</strong>e 49ri che prima non esistevano e quin<strong>di</strong> veramentenuovi, non in termini retorici. Ne cito alcuni allarinfusa: “Tuttinsieme”, per aiutare le famiglie conun anziano non autosufficiente in casa; l’anticipazionedell’assegno INPS per i cassa integrati;“Intesa Bridge”, prestito d’onore per gli studentiuniversitari; “Universityhouse”, sostegno finanziarioper gli studenti fuori sede alla ricerca <strong>di</strong>un alloggio. Sempre agendo sulla leva del cre<strong>di</strong>to,dunque offrendo finanziamenti da rimborsare macon modalità agevolate e coinvolgendo nel prodotto-servizioenti terzi (comune, provincia, regione,fondazioni locali, università ecc.) che accettino <strong>di</strong>con<strong>di</strong>videre con la Banca il rischio, offrendo qualcosain garanzia.È in questo “atelier” che affondano le ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>Banca Prossima, che per l’attività bancaria or<strong>di</strong>nariautilizza i circa 6000 punti ven<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> Banca IntesaSanpaolo e che per le operazioni complesse <strong>di</strong>spone<strong>di</strong> una struttura leggera: 50 presi<strong>di</strong> locali propri eun organico <strong>di</strong> circa 140 specialisti, <strong>di</strong> cui pochisono i funzionari centrali e la maggior parte è <strong>di</strong>stribuitasul territorio.A costituire il personale della Banca è un «teamformidabile <strong>di</strong> persone», tutte provenienti da societàdel gruppo, frutto <strong>di</strong> una selezione veramente<strong>di</strong>versa dal solito, come riba<strong>di</strong>sce convinto MarcoMorganti: «Abbiamo cercato delle persone motivateche, oltre alle competenze bancarie e generali,avessero un’esperienza non superficiale nel volontariatoe nella cooperazione, in grado <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogare conil mondo al quale devono rivolgersi. Delle personequin<strong>di</strong> speciali».Oggi, a circa un anno dall’inizio delle attività,superata la fase <strong>di</strong> rodaggio, i risultati sono andatioltre le aspettative, con 3000 clienti acquisitifuori dal perimetro Intesa Sanpaolo, più <strong>di</strong> quantila Banca ne aveva previsti. 250 milioni <strong>di</strong> euroraccolti da soggetti come fondazioni, <strong>di</strong>ocesi ecc.affinché la Banca li gestisca, a fronte <strong>di</strong> 180 milioni<strong>di</strong> euro impiegati: già questa “sproporzione” èun segnale forte.Pasquale Alferj. Che cos’è Banca Prossima?Marco Morganti. Banca Prossima è una realtàcompletamente nuova. Non c’è niente <strong>di</strong> similein Europa. È una banca specializzata, interamentede<strong>di</strong>cata al Terzo settore, laico o religioso, e quin<strong>di</strong>a un mercato con regole e bisogni particolari. Nonrinuncia al profitto, ma cerca <strong>di</strong> realizzarlo venendoincontro alle esigenze <strong>di</strong> quei soggetti fino a oggiesclusi dal cre<strong>di</strong>to. L’obiettivo <strong>di</strong> Banca Prossima è<strong>di</strong> creare valore sociale. È “al servizio” dell’economiasociale <strong>di</strong> mercato, non dell’economia sociale <strong>di</strong>assistenza.P.A. Quin<strong>di</strong>, niente beneficenza?M.M. No. Tenga presente che la beneficenza è necessariamenteun’attività limitata e saltuaria; l’attivitàbancaria no.P.A. Perché “prossima”?M.M. Perché vogliamo essere vicini ai soggetti coni quali lavoriamo. “Prossima” non solo come vicinanza<strong>di</strong> valori, ma anche come “prossima” al luogoin cui la domanda sorge. Il not for profit è ra<strong>di</strong>catonel territorio e la nostra scommessa <strong>di</strong> vicinanza èpossibile grazie alla rete bancaria <strong>di</strong> Intesa Sanpaoloche possiamo utilizzare. Si tratta <strong>di</strong> oltre 6000punti ven<strong>di</strong>ta.P.A. Siete un po’ speciali ma pur sempre unabanca…M.M. Sì, anche se la maniera <strong>di</strong> operare <strong>di</strong> BancaProssima non è riconducibile al modello or<strong>di</strong>nario<strong>di</strong> banca. L’approccio bancario tra<strong>di</strong>zionale, peresempio, cerca nei clienti quei criteri <strong>di</strong> affidabilità– a partire dalla soli<strong>di</strong>tà patrimoniale – che spessoquesto mondo non ha, a prescindere dalla bontàdei progetti o delle capacità, <strong>di</strong>mostrate con anni <strong>di</strong>lavoro, <strong>di</strong> saper fare il proprio mestiere.La banca tra<strong>di</strong>zionale finisce <strong>di</strong> solito per considerareil not for profit qualcosa <strong>di</strong> “residuale” e quin<strong>di</strong>in genere seleziona tra i potenziali clienti coloro chedal punto <strong>di</strong> vista cre<strong>di</strong>tizio sono rassicuranti (fon<strong>di</strong>pensioni, istituzioni secolari, fondazioni con gran<strong>di</strong>patrimoni ecc.).Chi opera in questo modo non riesce a vedere queisoggetti che, pur avendo dei bei piani, scontano ilfatto <strong>di</strong> essere nuovi, avere una patrimonializzazionebassa, lavorare in zone <strong>di</strong>fficili del paese e,soprattutto, voler avviare attività mai sperimentateprima e sulle quali, quin<strong>di</strong>, non c’è “storia”.Se qualcuno si propone <strong>di</strong> aprire un’attività nota,non è complicato valutarne il progetto. Ma se avoler aprire un asilo nido sono quattro ragazze che,invece <strong>di</strong> fare le baby sitter in nero, decidono <strong>di</strong> farele impren<strong>di</strong>trici sociali, la banca tra<strong>di</strong>zionale finisceper considerale soggetti non bancabili, perché non èattrezzata ad ascoltarle. Banca Prossima sì: è attrezzata,sa e vuole ascoltare imprese sociali e comunità.P.A. Valutare progetti <strong>di</strong> questo tipo non èsemplice. Quali sono i vostri criteri?M.M. Se pren<strong>di</strong> un soggetto del Terzo settore e lovaluti come se fosse una PMI, il risultato è sicuramentenegativo: non gli dai accesso ai finanziamenti,oppure lo finanzi a breve, gli dai poco, gliapplichi un tasso alto ecc.I nostri strumenti <strong>di</strong> valutazione cre<strong>di</strong>tizia, a partiredal modello <strong>di</strong> rating proprietario che abbiamosviluppato, sono particolari: integrano i tra<strong>di</strong>zionalimeto<strong>di</strong> <strong>di</strong> analisi bancaria per l’erogazione del cre<strong>di</strong>tocon criteri <strong>di</strong>versi, per lo più qualitativi. Certo,da un punto <strong>di</strong> vista tra<strong>di</strong>zionalmente bancario,alcuni nostri criteri possono apparire troppo intangibilie quin<strong>di</strong> “pericolosi”. In realtà, tenendo contodel soggetto in esame, sono importanti. Nel nostromodello <strong>di</strong> rating, la governance dell’organizzazione,per esempio, è molto importante. Quanto più èdemocratica, tanto più è protetta rispetto al rischio<strong>di</strong> crisi interna. La <strong>di</strong>versificazione del portafoglioclienti, e quin<strong>di</strong> dei rischi, è un altro elemento daconsiderare. Poi c’è il flusso del cinque per mille,che è un importante in<strong>di</strong>catore <strong>di</strong> “stabilità”.Altri elementi da prendere in considerazione sonola capacità <strong>di</strong> fund-raising, il successo ottenuto daeventuali progetti da loro avviati e finanziati dallaPubblica amministrazione e dalle fondazioni ecc.P.A. D’obbligo, a questo punto, la domandasui prodotti messi a punto da BancaProssima. Si tratta <strong>di</strong> prodotti ad hoc?M.M. In buona parte sì. Sono prodotti pensati e costruiti,insieme alle organizzazioni del Terzo settore,per rispondere a loro specifiche necessità. Quello checonta, in questi casi, è la tempestività dell’offerta


56 avanguar<strong>di</strong>e 57“not for pRofiT”.è tempo <strong>di</strong>occuparci anche<strong>di</strong> goveRnancee culTuRa deLlatRaspaRenza<strong>di</strong> Alberto Salsi, vicepresidente <strong>di</strong> ARGIS


58 avanguar<strong>di</strong>e 59Che cos’è ARGIS? È l’Associazione <strong>di</strong> ricerca per lagovernance dell’impresa sociale, costituita a <strong>Milano</strong>nel <strong>di</strong>cembre 2006 per rispondere a un’esigenzacresciuta nel corso <strong>di</strong> questi ultimi anni: mutuarei sistemi <strong>di</strong> corporate governance dal profit al notfor profit per favorire la formazione <strong>di</strong> una classe<strong>di</strong>rigente delle imprese sociali, così da legittimare ilruolo <strong>di</strong> queste ultime e il loro valore economico esociale nel nostro paese.Una novità assoluta per l’Italia e una scommessanon facile. Il primo elemento che rende il not forprofit pienamente percepito per il suo effettivo valoreè il poter <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> una buona governance che,oltre ad assicurare efficienza organizzativa e contabilealle imprese sociali, permette loro <strong>di</strong> risponderealle aspettative degli stakeholders. Non c’è nessuna<strong>di</strong>stinzione o <strong>di</strong>fferenza tra la professionalità espressadal not for profit rispetto al sistema del for profit. Ilcelebre Peter Drucker, in uno storico articolo apparsoanni fa sull’“Harvard Business Review”, invitavai manager delle imprese ad andare a scuola dal notfor profit quanto a capacità gestionale, motivazioneecc. Viceversa, i sistemi più evoluti <strong>di</strong> corporategovernance adottati nel profit possono rappresentaredelle “buone pratiche” dalle quali il not for profit puòattingere e ricavare suggerimenti e modelli.Per il not for profit aprirsi al mercato significa: a) adottare“buone pratiche” per il bilanciamento dei poterie per la definizione <strong>di</strong> un sistema che assicuri efficienzaorganizzativa e contabilità adeguata e, quin<strong>di</strong>,una concreta cultura della trasparenza; b) possedereuna corporate governance adeguata e strutturata, affidataad amministratori in<strong>di</strong>pendenti; c) sviluppare unacomunicazione non solo <strong>di</strong> servizio e finalizzata allaraccolta, al fund raising o a situazioni <strong>di</strong> contingenza;d) assumere la piena consapevolezza dell’insostituibileruolo del not for profit come parte integrante delsistema del welfare, partendo dall’enorme impattoche esso genera sul mercato del lavoro.Ecco allora che il compito primo <strong>di</strong> ARGIS è <strong>di</strong>in<strong>di</strong>viduare e determinare il modello <strong>di</strong> governancepiù consono alla tipologia del soggetto not for profit,alla luce della normativa nazionale e delle esperienzeinternazionali più avanzate. E, contestualmente,sviluppare e <strong>di</strong>ffondere una nuova cultura <strong>di</strong> governancein grado <strong>di</strong> affinare le conoscenze e le capacità<strong>di</strong> governo, anche attraverso stu<strong>di</strong> e ricerche, deisoggetti che ne fanno parte, fornendo aggiornamentisulle normative e sviluppando un sistema <strong>di</strong> circolazione<strong>di</strong> “buone pratiche”, in modo da garantireuna con<strong>di</strong>visione <strong>di</strong> regole e valori.Da una posizione <strong>di</strong> assoluta in<strong>di</strong>pendenza e daun osservatorio privilegiato, sia esperienziale sia<strong>di</strong> mercato, ARGIS vuole valorizzare il not for profit,perché questo grande “bene comune” è un patrimonioinestimabile del nostro paese. Il not for profitnon è la mano tesa, non è la questua o la comodacharity, la filantropia o tanto meno il pietismo;non è la tazza del consolo del venerdì pomeriggio,quando tutte le altre incombenze riposano. È comela democrazia: una forma ideale <strong>di</strong> vita. È una“comunità <strong>di</strong> pratiche” non assopita, che rappresentaun tessuto connettivo formato da persone che perterritorialità, cultura, bisogni e ideali si mettonoinsieme senza <strong>di</strong>pendere da logiche <strong>di</strong> consenso.Una confusione da evitare è quella <strong>di</strong> identificareil not for profit con il volontariato o con il terzosettore. Il volontariato è in realtà solo una delle sue<strong>di</strong>verse forme, insieme alla quale esiste tutta unaserie <strong>di</strong> imprese senza fini <strong>di</strong> lucro che presenta unastruttura impren<strong>di</strong>toriale e che opera in prevalenzacon patrimonio e red<strong>di</strong>to allo scopo <strong>di</strong> rispondereai bisogni <strong>di</strong> interesse collettivo delle persone (istruzione,sanità, scuola e cultura). Associando il not forprofit al volontariato, si perde <strong>di</strong> vista la sua specificitàe le sue peculiarità. Inoltre, non è assimilabileal terzo settore perché quest’ultimo viene intesocome qualcosa <strong>di</strong> residuale, ovvero come tertiumtra Stato e mercato. L’espressione è equivoca perchéaccre<strong>di</strong>ta l’idea <strong>di</strong> supplenza: laddove lo Stato nonpuò arrivare e dove il privato non ha convenienzaa intervenire, o meglio non ne è capace, lì si crea lospazio per il not for profit.Il not for profit è dunque espressione <strong>di</strong> creativitàsociale in risposta ai bisogni concreti, anzi alla prepotenzadel bisogno. Una risposta che si riferisce a unatra<strong>di</strong>zione plurisecolare <strong>di</strong> opere e istituzioni sortegià in epoca tardo me<strong>di</strong>evale dall’esperienza del monachesimo,fino a intrecciarsi – con l’affermarsi dellademocrazia e dei movimenti cattolici e operai – allosviluppo del mercato e del progresso scientifico.Quanto al mettersi all’ascolto delle istanze profondedei soggetti più fragili e alla gestione delle loroaspettative i risultati raggiunti sono sorprendenti,e questo è dovuto anche al rapporto che il not forprofit ha intessuto con i propri stakeholders, donatori,utenti, istituzioni.Al not for profit è riconosciuta la straor<strong>di</strong>naria capacitàimpren<strong>di</strong>toriale <strong>di</strong> “mettersi insieme” e <strong>di</strong> crearecon pochi mezzi, opere, servizi. Perciò, a maggiorragione, deve comunicare <strong>di</strong> più la propria eccellenzae il prezioso ruolo che ricopre. Eleganti campagne<strong>di</strong> marketing <strong>di</strong> numerose imprese hannofatto uso del concetto <strong>di</strong> “socialmente responsabile”,sostenendo nobili enti e finalità, ma questo né leassolve né le solleva dal fatto <strong>di</strong> non mettere in <strong>di</strong>scussionela propria attività economica e neppure ilproprio modello <strong>di</strong> relazione con gli stakeholders, inprimis i <strong>di</strong>pendenti e il mercato. Questo, in moltilo pensano ma pochi lo <strong>di</strong>cono.Il not for profit per lungo tempo ha dovuto scontrarsicon steccati ideologici, forze conservatrici o consemplici consuetu<strong>di</strong>ni genericamente ostili. Eppure,anche solo in riferimento alle cifre – dei soggettiche occupa e del peso che ha sull’economia del paese–, esso merita attenzione e grande considerazione.


60 avanguar<strong>di</strong>e 61<strong>di</strong>eci consideRazioniintempesTivesul “not for pRofiT”<strong>di</strong> Giorgio Vitta<strong>di</strong>ni, presidentedella fondazione Sussi<strong>di</strong>arietà ∗La triste scienzaMi hanno detto che gli or<strong>di</strong>nari <strong>di</strong> economia aziendale– a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quelli <strong>di</strong> economia politica– bocciano lo studente che sostiene che il finedell’impresa è il profitto. Il profitto è un’astrazione,è una questione accademica e culturale. Si tratta∗L’articolo riproduce un ampio estratto della conversazione chel’autore ha avuto con Giulio Sapelli e Veronica Ronchi nel giugno del2008. Il testo completo sarà pubblicato prossimamente in un volume acura <strong>di</strong> Veronica Ronchi. La curatrice del volume, per dare continuità al<strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Giorgio Vitta<strong>di</strong>ni, ha preferito non riportare le domande degliintervistatori-<strong>di</strong>aloganti, così da trarre tutto il valore esplicito del pensierodell’autore. La sud<strong>di</strong>visione per paragrafi e la loro impaginazione sono ilrisultato <strong>di</strong> scelte redazionali.<strong>di</strong> una faccenda complessa: se questo è vero, checos’è un’impresa? Che cos’è il mercato? Che cos’è loStato? Uno accanto all’altro formano una rosa deiventi piuttosto che un’antinomia. In questo contestol’impresa si può <strong>di</strong>svelare in molti mo<strong>di</strong>.C’è spazio, dunque, anche per il not for profit, che è unobiettivo non secondario ma finalizzato. Per esempio:se il mio scopo nella vita è curare le persone, io possorealizzarmi anche attraverso l’impresa, non solo nelvolontariato. La mia sod<strong>di</strong>sfazione si può esprimerein mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi dal semplice arricchimento monetario.Qui è descritta l’origine antropologica del not forprofit. Non siamo un po’ meno impresa, la facciamosolo in modo <strong>di</strong>verso. Questo spiega molto <strong>di</strong> più larealtà e l’idea “positiva” che ne abbiamo.Un’antropologia positivaSe anche i broker finanziari ammettono un co<strong>di</strong>ceetico, se alcune imprese non <strong>di</strong>struggono l’ambiente enon fanno lavorare i bambini perché l’immagine reputazionaleconta, vuol <strong>di</strong>re che questi concetti penetranoanche nell’impresa capitalistica. Dunque il problema èpiuttosto quanto pesa questo aspetto “reputazionale”nelle <strong>di</strong>verse imprese, invece <strong>di</strong> cercare <strong>di</strong> definire il notfor profit come una sorta <strong>di</strong> “riserva in<strong>di</strong>ana”.Il primo punto, microeconomico, è l’intrapresaantropologia positiva che genera l’impresa, anchel’impresa profit, anche la piccola e me<strong>di</strong>a impresa.Il fine <strong>di</strong> molti impren<strong>di</strong>tori è quello <strong>di</strong> far lavorarela famiglia, <strong>di</strong> dare occupazione, <strong>di</strong> far crescere ilproprio “intorno”, <strong>di</strong> produrre qualche cosa. Questopercorso dell’uomo positivo, salvo limiti, io lo definisco“un’altra idea d’impresa”.Il secondo punto è macroeconomico. Impreseparticolari rispondono a bisogni particolari. Qui c’èl’evidente questione che l’impresa profit (o l’impresa<strong>di</strong> Stato) su certi settori si trova ad avere comecompetitor almeno un’impresa che è più vicina a certibisogni. Stiamo parlando in particolare del mondodel welfare allargato alla sanità, dove l’idea è che tudestini gli utili al miglioramento continuo dell’impresae questo fatto risponde <strong>di</strong> più alla capacità<strong>di</strong> essere efficiente ed efficace rispetto ai bisognisociali <strong>di</strong> quanto non possa esserlo l’impresa chemassimizza l’utile. Perché se io massimizzo soltantol’utile in sanità, farò solo le rotule, non faròdegli investimenti in settori che possono avere nellungo periodo un ritorno economico. Oppure, unamalattia rara io non posso curarla per uno scopo <strong>di</strong>lucro imme<strong>di</strong>ato. Non a caso nel settore del welfare,l’istruzione, la sanità, l’assistenza, il tempo libero,la cultura, le forme associative come le fondazionio le cooperative, parlando in generale, sono realtàche si sono sviluppate in tutto il mondo al massimolivello, più che le imprese private.Le gran<strong>di</strong> università americane possono essere private,possono essere statali, ma possono essere anchedelle enormi not for profit, e queste funzionano bene,anzi, rispetto a certe università private, sviluppanolinee <strong>di</strong> ricerca molto più avanzate, perché decidonoche certe cose hanno uno scopo non lucrativo. Mentrele private devono avere un ritorno. Nella sanitàè identico, in Italia così come in tutto il mondo. Peresempio, il San Raffaele e la Me<strong>di</strong>oclinic <strong>di</strong>mostrano,con il not for profit, un’incre<strong>di</strong>bile capacità <strong>di</strong>rispondere al bisogno sanitario. Com’è possibileche un ente privato intraprenda questa strada secomunque “ci perde”? Non lo si fa?Elogio del privato socialeAltro tema è quello delle public utilities. Anche quinon c’è solo un problema <strong>di</strong> efficienza. Infatti,se l’efficienza è solo privata, allora sfrutto le retiper vent’anni e poi le butto via. Perché le dovreisistemare? Tutti questi servizi in cui non solo esistela persona, ma lo scopo è il miglioramento delbenessere, fanno la <strong>di</strong>fferenza nelle public utilities.Per questo <strong>di</strong>ciamo che i servizi <strong>di</strong> pubblica utilitàalla persona sono i servizi in cui il primo fattore essenzialeè il servizio relazionale che nasce come interazione.La misura dell’efficacia non è solo l’output,ma “quanto” è cambiato il benessere. Quin<strong>di</strong>, daquesto punto <strong>di</strong> vista, l’organizzazione stessa dellastruttura, rispetto alla finalità, deve essere moltopiù vicina all’interazione con la persona: la personanon può essere solo identificata con la possibilità <strong>di</strong>raggiungere un massimo economico.


62 avanguar<strong>di</strong>e 63Le imprese profit, ad<strong>di</strong>rittura, non vogliono piùquotarsi in Borsa perché questo spesso precludela capacità <strong>di</strong> reinvestire, si percepisce il <strong>di</strong>videndotrimestrale come un cappio al collo; quin<strong>di</strong> sipreferisce limitarsi a fare l’impren<strong>di</strong>tore. Se invecesi opta per investimenti <strong>di</strong> lungo periodo, si decideanche <strong>di</strong> fare utile nel lungo periodo. In questi campi,inevitabilmente, si deve agire così. Ad<strong>di</strong>ritturaimprese profit come l’Humanitas, che però ha allespalle un filantropo come Gianfelice Rocca, fannoimpresa privata con l’idea <strong>di</strong> reinvestire in sanità. Eche cosa fa Humanitas? Anche se è profit continuaa comperare ospedali sempre migliori perché vuolerealizzare un’immagine <strong>di</strong> sanità <strong>di</strong> un certo livello.Investe per migliorare il servizio. La vera obiezioneè l’impresa quotata, la quale ha un azionista che comunquechiede un utile. Invece, da un certo punto<strong>di</strong> vista, l’impresa a proprietà privata non quotataè un’impresa che in qualche modo può decidere <strong>di</strong>graduare gli utili in funzione dell’obiettivo del miglioramentodel servizio. Quin<strong>di</strong>, il privato socialenon è un elemento marginale, ma una possibilitàdestinata a crescere nella misura in cui gli obiettivipersonali e sociali <strong>di</strong>ventano molteplici.Afferrare l’invisibile e accoglierloC’è una vasta area grigia in cui lo Stato non può piùintervenire e in cui il privato non interverrà mai.Faccio un esempio: Luigi Campiglio, con il bancoalimentare. Perché lo sviluppo del banco alimentarenel mondo? Perché c’è un bisogno marginale: piccolicunicoli in cui la grande mano assistenziale delloStato non può arrivare; così deve cedere il passoa realtà che riescono ad agire proprio lì, perché inmolti casi certi bisogni della popolazione non sonovisibili. Si tratta <strong>di</strong> realtà più piccole ma amiche.Alcuni stu<strong>di</strong> sostengono che per cogliere tali bisogniemergenti occorra una realtà <strong>di</strong> “privato sociale” ingrado <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogare con questo “invisibile”. Non puòlo Stato, il quale, il più delle volte, non ci pensaneppure.L’uomo razionale degli economistiL’immagine Stato-mercato dominante è una monocoltura,mentre qui abbiamo una bio<strong>di</strong>versità.Il nostro mondo moderno è una bio<strong>di</strong>versità e inessa occorre vedere mille mo<strong>di</strong> per raggiungerealtri scopi. Quin<strong>di</strong> qual è il problema? Ne parlavocon Eddo Rigotti, uno stu<strong>di</strong>oso <strong>di</strong> linguistica cheinsegna Comunicazione finanziaria a Lugano. Miha detto che l’uomo razionale concepito nell’attualesistema economico è un uomo <strong>di</strong> una razionalitàridotta. Il vero problema è che la razionalitàeconomica viene fatta coincidere con la logica: nonè la capacità <strong>di</strong> leggere la realtà. Mi ha raccontatouna storiella pedagogica, che faccio mia. Ci sono unchimico, un fisico e un economista con una scatola<strong>di</strong> fagioli chiusa, spersi nel deserto. Il fisico <strong>di</strong>ce:«Scal<strong>di</strong>amola, così esplode». Il chimico: «Cerchiamo<strong>di</strong> esaminare in che modo si corrode». L’economista:«Se avessimo un apriscatole potremmo aprirla».L’economista è intriso sempre dell’idea <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioniimpossibili. Questa razionalità si basa su unmodello che non funziona. Gli economisti <strong>di</strong>cono:«Se però l’uomo fosse razionale, funzionerebbe».La prima cosa <strong>di</strong> cui non tengono conto, in questarazionalità, è che essa è costruita in funzione <strong>di</strong> unasod<strong>di</strong>sfazione, e questa può essere raggiunta in millemo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi. Ciò che mi sod<strong>di</strong>sfa, infatti, non èla massimizzazione del conto in banca: ho fatto unascelta <strong>di</strong> vita <strong>di</strong>versa. Però ritengo <strong>di</strong> aver fatto unascelta razionale, non irrazionale. La razionalità haobiettivi più ampi <strong>di</strong> quelli normalmente <strong>di</strong>chiarati,anche in economia. Oltre a questo obiettivo (la razionalitàattraverso una <strong>di</strong>versa concezione) quelloche manca è l’idea <strong>di</strong> limite. Nell’homo economicusnon c’è limite.Pensare il limiteNella concezione cristiana tale limite si chiamapeccato originale, cioè l’idea che in presenza <strong>di</strong> unobiettivo si hanno anche dei limiti per raggiungerlo.Si può chiamare limite sociale, si può pensarealle asimmetrie informative ecc. Questa razionalitàsi concepisce teoricamente e si applica al mondoma, siccome nel mondo c’è un limite, non funzionamai. Occorre invece costruire dei modelli in cui illimite sia incorporato. Che cosa può permetterea un uomo <strong>di</strong> vivere nel mondo attraverso unarazionalità “reale”? Ecco quello che mi ha riferitoun amico che lavora in un fondo finanziario creatoa New York da William Sharpe, premio Nobel.Il primo fondo è fallito. Nell’ultimo mese hannoperso 500 milioni <strong>di</strong> dollari, ma non smettono <strong>di</strong>continuare a perdere sol<strong>di</strong>, perché si basano su unmodello che sostengono sia vincente. Se l’obiettivo èlontano bisogna continuare a investire. Sono riuscitia salvarsi solo perché non possono più investire.Il modello non descrive i limiti umani perché nonriesce a modellizzare l’aspetto del limite, inevitabile.I modelli continuano quin<strong>di</strong> a ripetere, come veritàimpartite, una lezione teorica che non prende inconsiderazione la realtà.Non esistono scartiCome posso tener presente l’errore sociale? C’è unenorme spreco <strong>di</strong> risorse e da qui emerge un altrovalore del privato sociale: esso recupera più risorse.Una scuola che riconquista persone che hanno fattodropout e le reinserisce, come ha fatto Don Bosco,recupera dei soci all’umana convivenza. Se io, invece,continuo a teorizzare quel tipo <strong>di</strong> razionalità checonsidera solo l’eccellenza, non riesco a raggiungerequell’obiettivo. Tu non sei eccellente? Bene, vieniscartato. Le non eccellenze, invece, vengono poirecuperate. Da chi? Dal privato sociale. È come unoche butta via il caviale e l’altro <strong>di</strong>ce: «Lo pren<strong>di</strong>amo elo mangiamo noi, visto che a te non piace». L’assenzadel limite costruisce modelli incapaci, quin<strong>di</strong> questaidea <strong>di</strong> mercato non spiega niente. La pietra che icostruttori hanno scartato è <strong>di</strong>ventata testata d’angolo.Questa è la razionalità. Il mondo ha bisogno <strong>di</strong>eccellenze, a patto però che si salvi il resto.Lavorare sul limiteIl not for profit opera in ambiti dove il limite èinevitabile: pensiamo al <strong>di</strong>sagio fisico e sociale, allapovertà, all’unità <strong>di</strong> persone senza mezzi. Nel not forprofit, i marginali <strong>di</strong>ventano protagonisti. Il limiteè il tempo libero, il limite sono gli anziani che nonhanno più niente da fare, il limite è il ragazzino<strong>di</strong>versamente abile che vuole imparare cose nuove.Ho un amico in California, un immigrato, che halavorato per un po’ <strong>di</strong> anni in una multinazionale.Ora si è <strong>di</strong>messo e ha costituito una not for profit cheprocura lavoro ai reduci <strong>di</strong> guerra. Negli Stati Unitii reduci sono molti e spesso <strong>di</strong>ventano dei relittisociali: il governo garantisce loro una pensione per


64 avanguar<strong>di</strong>e 65alcuni anni e poi sono perduti. L’attività <strong>di</strong> questaassociazione not for profit è cominciata in California,area <strong>di</strong> mercato <strong>di</strong>spiegato. Dei reduci non si parlapiù dai tempi della guerra in Vietnam, invece continuanoa esistere e sono reduci <strong>di</strong> guerre recentissime.Si accre<strong>di</strong>tano tutti per poter stu<strong>di</strong>are gratuitamente.Nel centro della società capitalistica pereccellenza, quella statunitense, esiste un recupero <strong>di</strong>tale limite. Una società dove la fascia dei marginaliè in espansione.L’ho sentito <strong>di</strong>re da Bruno Manghi trent’anni fa,quando citava Verga: che cosa ne facciamo del limite?Da allora questo interrogativo non mi ha maiabbandonato. Forse il 70% dei limiti non può essereutilizzato per un bene comune, ma certamentequesto sì! È necessario recuperare capacità assopite,far lavorare i carcerati, risollevare chi è vittima dellaprostituzione, recuperare i dropout.Il limite è un punto <strong>di</strong> partenza. Un vinto potràavere un percorso <strong>di</strong>verso da quello del vincitore.La razionalità <strong>di</strong> Don BoscoIl not for profit, gli istituti <strong>di</strong> carità, fanno parte <strong>di</strong>una grande tra<strong>di</strong>zione europea. Oggi, per colpaanche dell’Unione europea, ci vengono proposti duescenari in merito ai servizi alla persona: il totalitarismoo la fine dell’universalità del servizio, ossiail modello americano. Gli istituti che non funzionano,spiegano certi commissari, sono destinatia chiudere, non a essere recuperati. Facciamo unesempio: l’anzianità in Olanda. Dopo i settant’annigli in<strong>di</strong>vidui non vengono più curati; esiste un’emigrazionemassiccia <strong>di</strong> questi soggetti in Germania:che cosa fare? Dobbiamo ucciderli? È necessario chelo Stato, se non è in grado <strong>di</strong> mantenere una formaassistenziale, permetta ad altre strutture, ad altrisoggetti <strong>di</strong> sopperire a queste mancanze. In casocontrario, l’antinomia tra Stato e mercato ci porteràal modello statunitense, senza però avere le eccellenzeche quel modello produce. È doveroso pensare apercorsi paralleli.Se non avessimo avuto le not for profit nel campodell’assistenza agli anziani, noi non avremmo avutola possibilità <strong>di</strong> mantenere alti i livelli occupazionali,perché l’aumento <strong>di</strong> produttività porta le impresea rimanere sul mercato e a garantire red<strong>di</strong>to. Madevono esistere anche dei luoghi dove questored<strong>di</strong>to va speso per far lavorare altri soggetti, equin<strong>di</strong> devono esistere altre possibilità: il not forprofit sanitario, oppure il not for profit one-to-one, ilquale garantisce molta più occupazione dell’impresacompetitiva, che pure serve.Devono esistere schemi che tengano conto <strong>di</strong>questo, altrimenti si rischia che la sod<strong>di</strong>sfazione personalesia ridotta a un segmento e che il limite nonvenga tenuto presente in tale percorso. Paradossalmente,immettendo il concetto <strong>di</strong> limite all’internodel modello, esso arriva a un ottimo sociale moltopiù forte, giacché considera l’uomo un essere limitato.Don Bosco, sotto il profilo della razionalitàeconomica, è stato profondamente, logicamenterazionale: ha preso dei semilavorati che altri scartavano,li ha educati e li ha rimessi nella società.In America Latina la formazione professionale ècompletamente in mano ai salesiani, basti pensareall’Università <strong>di</strong> La Paz.Dalla terra si levano i sogniIl not for profit è stato etichettato come “azioneetica”, perché il mainstream non vuole pensare chesia una base dell’economia. Secondo la teoria dellaconcorrenza pura, mi ha spiegato Beccattini, il<strong>di</strong>stretto industriale non avrebbe dovuto esistere.La concorrenza tra due imprese che creano prodottisimili, se non uguali, porta al tentativo <strong>di</strong> acquisizionedella più potente, non a sinergie. Il <strong>di</strong>strettoindustriale non rientra negli schemi razionali primacitati. Facciamo degli esempi: qual è il più grandeproduttore mon<strong>di</strong>ale <strong>di</strong> prodotti per bambini?La Chicco. Quest’impresa nasce a Como, controqualsiasi teoria. L’impren<strong>di</strong>tore che l’ha creata nonè mai entrato in <strong>Camera</strong> <strong>di</strong> <strong>Commercio</strong> della città,poiché tutti producevano tessile e lo consideravanosolo un elemento marginale. Poi c’è Calzedonia, chenasce a Brescia in un settore ormai saturo, quellodelle calze da donna.Tutti questi stu<strong>di</strong> sul rapporto Stato-mercato nonrispondono all’interrogativo <strong>di</strong> Smith: come siorigina ricchezza? Il not for profit è connesso a questointerrogativo. Perché? Perché agisce dove non c’ètra<strong>di</strong>zione, dove altri non intravedono possibilità<strong>di</strong> sviluppo. Nonostante questo viene generataricchezza.Anche nell’impresa non ci si chiede mai perché nascee si sviluppa in un determinato luogo. La teoriadell’uomo razionale è malthusiana: io costruiscol’impresa in base alle risorse che ho a <strong>di</strong>sposizione. Lanascita dell’impresa, invece, ha in sé un quid che riescea superare le scarse risorse. L’impren<strong>di</strong>tore è coluiche crea innovazione anche a partire da risorse scarse.Nel not for profit succede esattamente la stessa cosa.Nel fare impresa è in<strong>di</strong>spensabile mettere al centrola persona. La creatività della persona, invece <strong>di</strong>essere un fattore morale o religioso, <strong>di</strong>venta qui unfattore economico. Mi riferisco alla grande tra<strong>di</strong>zionesocialista ma anche a quella liberale. La creatività,da qualsiasi lato la si guar<strong>di</strong>, non è riducibilealla razionalità come prima la intendevamo. Dallaprospettiva <strong>di</strong> un certo marxismo alternativo deglianni settanta, questo è il soggetto rivoluzionario. Ilnot for profit rimette al centro il tema del soggetto.Ci potremmo riferire anche alla scuola schumpeteriana,oggi completamente emarginata. Schumpeter,infatti, pensava che l’impren<strong>di</strong>tore fosse undeviante. Facciamo un esempio: la se<strong>di</strong>a dove seiseduto serve alla tua como<strong>di</strong>tà. Serve a te. Dunqueio ti guardo e cerco <strong>di</strong> creare un prodotto per te.Invece, se mi baso sul pragmatismo organizzativo,non pongo le mie potenzialità creative al servizio<strong>di</strong> questo scopo. Nel not for profit devo applicare lostesso principio. Ovvero, per garantire il benesserea qualcuno prima devo guardare quel qualcuno infaccia. Il not for profit non è l’assistenza sociale, non èun’agenzia. È l’idea <strong>di</strong> riuscire a cogliere il bisognodell’altro e quin<strong>di</strong> generare il prodotto più capace<strong>di</strong> rispondere a un ottimo sociale. Dopo la crisi delwelfare, il not for profit avrà un ruolo predominante,basti pensare a quanti bisogni sod<strong>di</strong>sfiamo al <strong>di</strong> fuoridelle istituzioni.Il prossimo passaggio sarà garantire gli alloggiattraverso il not for profit. E questo accomuneràculture <strong>di</strong>verse con l’identica esigenza <strong>di</strong> risponderea bisogni sociali. Cattolici e socialisti, per esempio,dovranno camminare insieme.


66 tracce e segni 67quando e peRchésceglIeRe miLano.la cITtà RaccontaTada fuoRi<strong>di</strong> Giuliano Di Caro, giornalista pubblicistaEventi, eventi, eventi. Il nostro è il paese deglihappening; workshop, incontri, seminari, festival<strong>di</strong> ogni fattura: letteratura, musica, matematica,cinema, filosofia, arte, grafica. Ma come funziona ilmeccanismo <strong>di</strong> attrazione e organizzazione? <strong>Milano</strong>contro il resto del mondo o contro il resto dell’’Italia?<strong>Milano</strong>, stavolta, ce la raccontano da fuori.Siamo andati a Reggio Emilia per capire le modalità<strong>di</strong> attrazione della città attraverso le esperienze ele scelte <strong>di</strong> chi, impegnato nel settore della grafica,<strong>Milano</strong> la evita; oppure, viceversa, <strong>di</strong> chi concepiscealtrove iniziative che si terranno, fisicamente, nelcapoluogo lombardo.A sentir parlare Dora Raimondo e Simone Wolf,entrambe impegnate nel settore della creazione <strong>di</strong>eventi nel campo della grafica, la parola chiave nonè “scontro”, come spesso ci immaginiamo. È “sinergia”.L’ufficio <strong>di</strong> Typevents, piccola società fondatanel giugno 2006 da Simone, tedesca <strong>di</strong> Francoforte,si trova a Reggio Emilia. Qui non tira affatto ariada periferia dell’impero. Anzi. Non tutto succede,né deve succedere, a <strong>Milano</strong>. Dora lavora per Inside,agenzia <strong>di</strong> creazione <strong>di</strong> eventi che sta sì a ReggioEmilia ma al contrario opera anche a <strong>Milano</strong>.Sarà perché sono amiche, o ancora <strong>di</strong> più perchésono entrambe giovani, brillanti e conoscono beneil loro campo, fatto sta che un’oretta <strong>di</strong> chiacchieratabasta e avanza a convincerti che la guerra – specielavorando in un ambito così specializzato e <strong>di</strong> nicchiacome l’arte grafica e tipografica – loro due nonse la faranno mai. «È semplice. La mia è una societàpiccola. A <strong>Milano</strong> succedono molte cose, e se volessiandarci la concorrenza sarebbe notevole. Ma seeventi come il mio Immaginae li realizzo a Bologna,o se a Rimini organizzo un tour tipografico cheprende avvio dalle iscrizioni sull’arco <strong>di</strong> Augusto,ecco che allora la storia cambia» spiega Simone.«<strong>Milano</strong> costa, in termini monetari, ma anche per


68 tracce e segni 69lo stress e la raggiungibilità. Nella grafica, emiliani,fiorentini, marchigiani sono molto attivi e propositivi.Gli sponsor non mancano. Il nostro ruolo èquello <strong>di</strong> curare i dettagli, inventarsi manifestazionicapaci <strong>di</strong> attrarre un pubblico preparato, con relatoriinternazionali, idee e prospettive nuove. Così attirigli sponsor e crei una sorta <strong>di</strong> polo alternativo,non migliore o peggiore, rispetto alla metropoli.»Pensi che un settore relativamente piccolo significhiautomaticamente guerra spietata. Che <strong>Milano</strong> impongala sua centralità e il suo piglio internazionaleper impe<strong>di</strong>re un gioco alla pari con altre città. Einvece, semplicemente, si tratta <strong>di</strong> due giochi <strong>di</strong>versi.E con una certa accortezza <strong>Milano</strong> e – poniamo– Bologna non sono destinate a pestarsi per forzai pie<strong>di</strong>. «Il fatto è che gli emiliani a <strong>Milano</strong> non civanno, se possono evitarlo. Se Bologna offre eventiben curati, progettati a dovere da società vicine geograficamente,perché non andarci? Ogni territorioha me<strong>di</strong>e e piccole aziende capaci <strong>di</strong> investire. Dailoro la possibilità <strong>di</strong> mettersi in gioco, <strong>di</strong> guadagnarespazio e visibilità tra un pubblico <strong>di</strong> addettiai lavori, preparato e attento, attratto da noi conrelatori <strong>di</strong> livello e iniziative brillanti, e il meccanismofunziona.»Simone, avendo lavorato per anni alla Linotype,azienda tedesca specializzata in font tipografici,conosce a fondo il suo campo, oltre a parlare perfettamentetedesco, italiano e inglese. E nel suo ufficio<strong>di</strong> Reggio Emilia, frutto del suo mettersi in proprioe rischiare, ti racconta le cose come stanno: «Noicreiamo economia, e strutture piccole significanocura, una rete <strong>di</strong> collaboratori vali<strong>di</strong>, un’offertaprofessionale. In Italia siete abituati agli eventigratuiti, ma la qualità organizzativa va pagata. Nontroppo, il giusto. Qui mi sono accorta che se creibuoni rapporti <strong>di</strong> lavoro e <strong>di</strong> collaborazione, te liporterai <strong>di</strong>etro per anni». Per concepire un eventonella giusta maniera occorre libertà d’azione. «Einfatti non <strong>di</strong>pendo mai da sol<strong>di</strong> pubblici, non cicredo. Pile infinite <strong>di</strong> scartoffie, sei mesi <strong>di</strong> attesae alla fine, se ti va bene, un finanziamento quasisempre inferiore alle attese? Typoberlin, il piùgrande evento del settore, quest’anno alla quattor<strong>di</strong>cesimae<strong>di</strong>zione, non ha mai ricevuto finanziamentistatali.»L’organizzare eventi è insomma ricerca <strong>di</strong> un delicatoequilibrio tra contenuti, utenti, innovazione equalità. «I miei sono eventi multisponsor. In lineateorica si potrebbe cercare sponsor e lasciare chesiano loro a definire i contenuti» spiega Dora. «Ioinvece faccio esattamente il contrario: riempio ilcontenitore vuoto, cioè l’evento, con ciò che credosia migliore per il pubblico e per l’evoluzione delsettore grafico e della sua sensibilità. Nel frattempoascolto le necessità dei miei utenti. Quest’estate holetto 35 pagine che mi hanno scritto, extra, circa350 persone in risposta a un mio questionario. Masi sa, agli italiani piace parlare più che mettere crocette.Allora leggi, ascolti, guar<strong>di</strong> che cosa succedeanche a livello internazionale. E poi fai la tua proposta.»Così ha ragionato Dora quando ha portatoin Italia un evento <strong>di</strong> grafica, Cut and Paste, ormaiconosciuto e ramificato a livello mon<strong>di</strong>ale. Lei lavoracon la società Inside, «che è prima <strong>di</strong> tutto untraining center nel settore grafica, foto, 3D. Da noisi sono formati qualche anno fa quelli che oggi sonoi cosiddetti “adobe guru”, cioè i superesperti italianidel settore, e abbiamo rapporti con designer, grafici,docenti titolati». <strong>Milano</strong> non deve certo muoversi aBologna, bensì rinnovare la sua capacità <strong>di</strong> aperturaverso l’estero, la sua internazionalità data troppospesso come elemento scontato, e che invece richiedesforzi e idee continue. «Io credo che un ambitocruciale della grafica sia l’infotainment, la commistione<strong>di</strong> lavoro e <strong>di</strong>vertimento, anche considerandoche la grafica attira e interessa molti giovani. Pensavoa creare un evento-performance live quando mihanno parlato <strong>di</strong> Cut and Paste, un match <strong>di</strong> improvvisazionegrafica durante una serata in <strong>di</strong>scoteca. Gliorganizzatori decidono il tema, il cosa e il come, ei designer si sfidano dal vivo, mentre i desktop deiloro computer vengono proiettati sui maxischermidel locale.» Inaugurato in sei città americane nel2006, C&P quest’anno si terrà in 50 città in tuttoil mondo. Ha un’agenzia regionale che si occupadell’Europa, a Londra, e richiama professionisti datutto il mondo. Dora è riuscita a portare l’evento a<strong>Milano</strong>, vincendo la concorrenza <strong>di</strong> Amburgo. Perconvincere gli organizzatori a scegliere Inside comeadvisor <strong>di</strong> una possibile e<strong>di</strong>zione milanese, doposvariate mail e conference calls, li ha portati insiemea designer italiani <strong>di</strong> riferimento sulla terrazza <strong>di</strong>via Volta, in cima al Politecnico con vista sulle casetrasparenti, un inno visivo alla vocazione del designmilanese. Ne è venuta fuori una data, il 14 marzo,prima tappa italiana dell’evento.Per una <strong>Milano</strong> che importa e si fa snodo <strong>di</strong> una reteinternazionale, ce n’è anche una che genera e <strong>di</strong>ffondein Italia. Dora si occupa, tra l’altro, del CreativityDay, «l’appuntamento <strong>di</strong> riferimento in Italiade<strong>di</strong>cato a tutte le novità del mondo della creatività<strong>di</strong>gitale, sempre a <strong>Milano</strong>, ogni febbraio. Dall’annoscorso abbiamo però creato eventi collegati in altrecittà, una sorta <strong>di</strong> versione alleggerita. Le tematiche<strong>di</strong>pendono proprio dal territorio che ospita l’evento:fotografia e video a Roma, web e stampa a Venezia,video e web a Napoli, a seconda delle forze creativepresenti nelle singole città».Niente <strong>Milano</strong> versus altri capoluoghi insomma, manemmeno metropoli versus centri me<strong>di</strong>o-piccoli? Simonee Dora lo sanno da par loro. Una consapevolezzache è stata intercettata anche dall’Unione europeacome cambiamento profondo e ra<strong>di</strong>cale delle societàdel continente, una falsariga su cui investire sol<strong>di</strong> edenergie. Reggio Emilia, grazie a una collaborazionetra università, Comune e <strong>Camera</strong> <strong>di</strong> <strong>Commercio</strong>, èentrata nel circuito UrbanAct, un progetto europeotargato OCSE che prevede fon<strong>di</strong> per incoraggiare ilnetworking tra creativi <strong>di</strong> una decina <strong>di</strong> città europee<strong>di</strong> me<strong>di</strong>a grandezza. «Perché in queste città trovi maggiorepropensione a innovare, un valore aggiunto <strong>di</strong>grande rilevanza. Le metropoli hanno gran<strong>di</strong> capitalima spesso strutture pesanti e rigide. Il panorama deipiccoli centri invece è fatto <strong>di</strong> società ad alto contenuto<strong>di</strong> conoscenza» spiega Nicola Bigi, dell’Universitàdegli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Bologna, che ha lavorato insieme a Doraa una mappatura delle potenzialità espresse da chilavora con la cultura in città in vari ambiti: design,e<strong>di</strong>toria, musica, grafica, software houses. «Mi stupiscoche l’Unione europea abbia capito così in fretta l’importanza<strong>di</strong> investire sulle città <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a grandezza,poiché il ruolo della creatività è determinante perevitare che le città si svuotino a favore delle metropoli,alzando così il livello <strong>di</strong> vita nei centri più piccoli. Ilmeccanismo è interessante: non sol<strong>di</strong> a pioggia, bensìfinanziamenti solo per il networking, cioè per eventicapaci <strong>di</strong> collegare tra loro le città presenti nella rete.»Uno specchio fedele <strong>di</strong> come cambiano non solo lepiccole ma <strong>di</strong> riflesso anche le gran<strong>di</strong> città. «<strong>Milano</strong>per molto tempo ha esternalizzato processi produttivimarginali. Oggi invece mantiene la gestione dei clientie la definizione delle strategie, iniziando ad affidareall’esterno realizzazioni più complesse: non più soloun bullone o un logo, bensì sfide complicate che attiranotalenti e creano competenze ovunque.» Sinergia,appunto. Perché farsi la guerra e sprecare capacità,idee, innovazione?


70 tracce e segni 71una domandaai miei amici archItetTI<strong>di</strong> Luca Doninelli, scrittoreRientro ora da un viaggio a New York che ha rimescolato un po’le carte nella mia testa a proposito dei cambiamenti che <strong>Milano</strong>sta vivendo dal punto <strong>di</strong> vista del paesaggio urbano e umano.Ho <strong>di</strong>versi amici che, a più titoli, stanno vivendo da protagonistiquesto cambiamento: architetti, intellettuali, ma anche costruttorie<strong>di</strong>li. Con loro ho con<strong>di</strong>viso il cammino <strong>di</strong> questi anni,comprendendone la necessità.Adesso però vorrei rivolgere, a loro e a tutti, ma prima <strong>di</strong> tuttoa me stesso, una domanda che mi sta sempre più a cuore. Puòessere anche una domanda insensata, ma è sempre meglio tirarlafuori senza troppa vergogna, anche col rischio <strong>di</strong> sentirmi daredello stupido una volta sola, piuttosto che tenersela dentro acreare continue, stupide obiezioni.Le mie non sono osservazioni <strong>di</strong> uno specialista, ma solo <strong>di</strong> unosservatore curioso.Chiunque compia un viaggio a Manhattan rimane colpito dallaquantità <strong>di</strong> città <strong>di</strong>verse che convivono in una superficie relativamenteristretta come quella della penisola newyorkese. I cambiamentisono rapi<strong>di</strong>. Basta prendere una guida della città <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci,quin<strong>di</strong>ci anni fa e confrontarla con una redatta oggi: quartieriallora descritti come malfamati o fatiscenti sono oggi al centrodell’attenzione turistica per i loro negozi “alternativi”, i lororistoranti etnici, i loro musei curiosi, le loro librerie tematiche.L’architettura, nelle sue <strong>di</strong>verse versioni, è stata la protagonista<strong>di</strong> questi mutamenti, facendo sorgere ora nuovi e mastodonticicomplessi <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici, ora rifacendo il profilo <strong>di</strong> un intero quartiere,portando quei ritocchi (interni oltre che esterni) capaci– senza buttare giù un solo e<strong>di</strong>ficio, o quasi – <strong>di</strong> trasformare ilfrutto malandato della vecchia e<strong>di</strong>lizia popolare in un oggetto deldesiderio per i più abbienti.La città è <strong>di</strong>ventata così sempre più sicura, sempre più chic e,possiamo <strong>di</strong>rlo, sempre più bella.Questo è stato reso possibile, non nascon<strong>di</strong>amocelo, anche dauna politica rivolta più alla garanzia della sicurezza delle classiabbienti (senza <strong>di</strong>menticare l’indotto turistico, sempre crescente)che non alla garanzia <strong>di</strong> una casa per le classi meno protette.Di social housing si è parlato sempre meno, gli affitti sono salitialle stelle e chi non se li poteva permettere, e aveva usufruito finoa quel momento <strong>di</strong> una politica della casa tra le più illuminate,ha dovuto fare fagotto e andarsene, spesso in modo rapido e a<strong>di</strong>r poco sgarbato, come nell’East Village.Quello che, però, in questa sede m’interessa maggiormente è unaltro aspetto del problema. Ho visitato il Theatre District, SoHo,TriBeCa, il delizioso East Village, e dopo tanti anni ho rimessopiede nel Lower East Side. Dappertutto – ormai anche in quest’ultimoquartiere un tempo malfamato – si va ripulendo, glie<strong>di</strong>fici vengono ristrutturati, nuovi negozi sostituiscono quellivecchi, tanto che si può <strong>di</strong>re che solo il quartiere cinese e quel cheresta <strong>di</strong> Little Italy resistono al nuovo vento.Intanto, però, mi <strong>di</strong>cono che la creatività se ne va. Arrivano gliarchitetti e la cultura più vivace – musica, arte, letteratura – fale valigie e trasloca, proprio come gli homeless, <strong>di</strong> cui Manhattannon vuole più sapere. La città <strong>di</strong>venta sempre più bella, arrivanoi gran<strong>di</strong> architetti, ma intanto la cultura se ne va a Brooklyn,forse perché gli artisti non ce la fanno a sostenere certi affitti, oforse anche perché tutto questo rilucere ha mo<strong>di</strong>ficato troppora<strong>di</strong>calmente la vita <strong>di</strong> tanti quartieri.Ci sono naturalmente gli artisti al top, che però appartengonoa una società speciale, un mondo a sé che è tanto newyorkesequanto lon<strong>di</strong>nese o (new entry) pechinese. E sono uguali aquesti architetti bravissimi, capaci <strong>di</strong> passare con <strong>di</strong>sinvoltura daun ritocco del paesaggio <strong>di</strong> Vancouver alla realizzazione <strong>di</strong> uncomplesso <strong>di</strong> grattacieli a Shanghai, alla ristrutturazione <strong>di</strong> unantico palazzo romano.Ma, a parte questo mondo che vive tutto sommato una vita a séstante, la vivacità della cultura si appanna perché l’architetto, especialmente quello <strong>di</strong> oggi, insieme con le sue abitazioni nuove,i suoi spazi reinventati, i suoi interni ridefiniti ci comunica unostile <strong>di</strong> vita: una vita che non lascia mozziconi o bottiglie vuoteper terra, né piatti sporchi da lavare; una vita che non conoscetopi o scarafaggi, che non sa cosa sia un bambino <strong>di</strong> strada, unavita bella e pulita ma tutta uguale, dove le persone sono tuttementalmente aperte ma tutte aperte nello stesso modo.È questa la domanda che voglio rivolgere ai miei amici architetti,ai miei amici costruttori, ai miei amici intellettuali milanesi cheriflettono sul destino <strong>di</strong> questa città tra la crisi finanziaria e lasfida dell’Expo 2015: <strong>di</strong>temi, amici, cosa farete, anzi cosa statefacendo affinché i luoghi che andate pensando e costruendo sianobuoni per persone <strong>di</strong>verse da voi, che vivono una vita <strong>di</strong>versadalla vostra, con interessi e passioni <strong>di</strong>verse? Cosa fate, insomma,per mantenere, in quello che fate, la porta aperta alla <strong>di</strong>versità <strong>di</strong>cui (non <strong>di</strong>menticatevelo) siete i servitori?


72 proiezioni globali 73aRtemide.La lampada magica“wIth human LighT”<strong>di</strong> Ernesto Gismon<strong>di</strong>, ingegnere aeronautico,impren<strong>di</strong>tore e designer, presidente <strong>di</strong> ArtemideTesto raccolto da Veronica RonchiIl gruppo Artemide, noto marchio del design italianoper l’illuminazione, avvia la sua attività nel 1960 a<strong>Milano</strong> grazie al genio <strong>di</strong> Ernesto Gismon<strong>di</strong> – ingegnereaeronautico con l’amore per i missili, la luce e il design– e dell’architetto Sergio Mazza. Obiettivo del gruppo,da subito, è quello <strong>di</strong> produrre illuminazione <strong>di</strong> qualitàche racchiuda in sé design, innovazione, funzionalità edefficienza. Ma non solo.All’inizio abbiamo prodotto anche mobili <strong>di</strong> plastica,utilizzando la resina poliestere con fibra <strong>di</strong> vetro.Il risultato era davvero interessante: superfici liscee molto lucide. Certo, ci sono stati dei problemi:gli stampi per produrre questi mobili erano moltocomplessi e anche estremamente costosi. Oggetto <strong>di</strong>plastica spesso è sinonimo <strong>di</strong> basso costo. Non è cosìper questi mobili. E oggi pochi sarebbero <strong>di</strong>sposti apagare tanto per averli e dunque la loro produzioneè ingiustificata. Abbiamo smesso <strong>di</strong> produrli perché,con la crisi petrolifera del 1973, alla plastica venivaassociata la parola petrolio, e oggetti gran<strong>di</strong> <strong>di</strong> questomateriale in casa non se ne volevano avere. Sono,per così <strong>di</strong>re, passati <strong>di</strong> moda. Innovazioni <strong>di</strong> prodottoma anche <strong>di</strong> processo. In Artemide si inventavanomacchine potenti e costose, non convertibili,per produrre mobili e non erano ammessi errori.Poi arrivò TizioArtemide inizia imme<strong>di</strong>atamente una fiorente collaborazionecon i maggiori architetti e designer italiani – perfare qualche nome Giò Ponti e Vico Magistretti, e neglianni settanta anche con importanti nomi internazionalicome Richard Sapper e Santiago Calatrava.Sapper ha <strong>di</strong>segnato per noi la lampada “Tizio”. Cipuò credere? Dal 1972 a oggi ne abbiamo vendutedue milioni. Un design stupendo, quasi una scultura,questa lampada. Un oggetto come questo puòavere una vita lunghissima e continuare a essereprodotto, tanta è l’originalità del pezzo. Questa,per esempio, è una lampada senza fili. Ci sono solobacchette <strong>di</strong> alluminio che portano corrente e deibottoni automatici. Non è possibile renderla piùbella. Chi ci ha provato ha fallito. Resta la lampadapiù venduta al mondo.Un altro designer con cui ancora collaboro con piacereè Enzo Mari, un uomo che ha incarnato l’innovazione<strong>di</strong> prodotto. Ha capito che i materiali utilizzatiper le <strong>di</strong>verse parti della lampada devono essere imigliori per rispondere alle loro rispettive funzioni.Per esempio, le parti meccaniche devono essere fattein materiale resistente: banalmente, il ferro.In quegli anni Gismon<strong>di</strong>, da ingegnere – e quin<strong>di</strong> dauomo che limita, per ragioni <strong>di</strong> produzione, i designer –,<strong>di</strong>venta lui stesso un creativo.Mi sono <strong>di</strong>vertito a <strong>di</strong>segnare. Volevo mettermiin gioco sul fronte creatività. All’inizio usavo unopseudonimo, mi vergognavo. Poi ho pensato chesarebbe stato il mercato a valutare i miei pezzi. Avolte ho avuto successo, altre volte meno. Ma così èil nostro mondo.


74 proiezioni globali 75Rompere gli schemiNel 1981 Artemide contribuisce alla nascita <strong>di</strong> Memphis,movimento internazionale <strong>di</strong> nuove arti applicate creatoda Ettore Sottsass, e lancia Metamorfosi, una tecnologiainnovativa usata per creare colori e sensazioni.Memphis è stata una rivoluzione. Qualcosa dovevacambiare nell’arredamento. Dov’erano i colori? Dov’eranole forme sinuose? Nessuno osava osare. Noisì, e siamo stati premiati. Dal canto mio ho portatoun contributo a livello impren<strong>di</strong>toriale, anche sequalcuno ha cercato <strong>di</strong> <strong>di</strong>rmi che stavo portando lamia azienda alla rovina.Metamorfosi parte invece da una riflessione: qual èil rapporto tra luce e uomo? La risposta è il colore.Mi spiego: luci dai colori <strong>di</strong>versi danno sensazioni<strong>di</strong>verse. Perché allora non poterle ricreare in unambiente <strong>di</strong>ssimile da quello in cui queste lucivengono naturalmente prodotte? Non è impossibilevedere un tramonto in mattinata. E qui entra ingioco la memoria: ci ricor<strong>di</strong>amo, per esempio, chela luce del tramonto fa star bene? Qui entra in giocoanche la tecnologia: per creare queste luci abbiamopensato a un computer che le modulasse.A partire dagli anni novanta Artemide lancia la filosofia“The Human Light”, che riassume l’intenzione <strong>di</strong> usare laluce come elemento <strong>di</strong> miglioramento della vita dell’uomo.Il nostro intento è quello <strong>di</strong> generare innovazione.E <strong>di</strong>etro l’innovazione c’è sempre un pensiero forte,costruito.È già storiaArtemide è stata ed è una delle aziende più vive del designinternazionale. Ha fatto scuola e soprattutto storia. Moltesue lampade sono esposte in musei <strong>di</strong> arte moderna econtemporanea <strong>di</strong> tutto il mondo, come il MoMA o ilMetropolitan Museum of Art <strong>di</strong> New York, The Victoria& Albert Museum <strong>di</strong> Londra, la Galleria nazionale <strong>di</strong> artemoderna <strong>di</strong> Roma e il centro George Pompidou <strong>di</strong> Parigi,solo per citarne alcuni.E oggi?Oggi non possiamo più produrre solo lampade,lampade belle ormai le sanno produrre in molti.C’è anche molto da copiare. Ecco allora una corposadescrizione delle innovazioni inserite recentemente.Artemide ha ideato, sulla scia <strong>di</strong> Metamorfosi,“My White Light”, una tecnologia applicata a unaserie <strong>di</strong> apparecchi che permette l’emissione <strong>di</strong> lucebianca variabile per intensità, temperatura e colore,assumendo tonalità che vanno dalla più calda allapiù fredda.My White Light è un sistema con sorgenti fluorescentiRGB. L’aspetto innovativo <strong>di</strong> tale apparecchioconsiste nella possibilità <strong>di</strong> ottenere, sommando lucirosse, ver<strong>di</strong> e blu in <strong>di</strong>verse e opportune quantità, le<strong>di</strong>verse intensità e temperature <strong>di</strong> colore della lucebianca.Questi apparecchi sono in grado <strong>di</strong> generare lucebianca variabile, da luci calde (sulla tonalità delgiallo-arancio) a luci molto fredde (sulle tonalitàRed, Green, Blue. [N.d.R.]del blu) e possono essere modulate dall’utente perintensità in modo semplice. C’è anche da inserire ilfattore creatività. L’utente non è più adesso soggetto“passivo” che subisce una luce funzionante secondola <strong>di</strong>cotomia acceso/spento, ma è soggetto “attivo”che ricerca autonomamente la tinta e l’intensità <strong>di</strong>luce desiderata. Ecco che cosa proponiamo: il benesseredell’uomo.My White Light, come del resto le ultime innovazioni <strong>di</strong>Artemide, s’impone sul mercato come un “metaprodotto”,una lampada cioè che va oltre le sue caratteristicheprettamente funzionali e tangibili: non rappresenta soloun prodotto <strong>di</strong> elevato livello qualitativo, ma arriva aconnotare l’identità dell’utente.Artemide cerca <strong>di</strong> rispondere alle nuove esigenze <strong>di</strong> un consumatorepostmoderno, che ha appagato le sue esigenze <strong>di</strong> base.Dove filtra la luceLa necessità <strong>di</strong> controllare elementi come la luce e l’ariaha fornito lo spunto ad Artemide, in coerenza con la suafilosofia The Human Light, per mettere a punto Luxerion,la prima linea <strong>di</strong> apparecchi multifunzione in grado <strong>di</strong>integrare illuminazione e purificazione dell’aria.Il funzionamento del modulo <strong>di</strong> purificazione sibasa su un motore interno che aspira l’aria dall’ambiente,depurandola dalle macroimpurità grazie aun prefiltro; successivamente l’aria attraversa unfiltro a carboni attivi che ne elimina i cattivi odori,per venire poi purificata da un filtro HEPA, cheHight Efficiency Particulate Air. [N.d.R.]trattiene tutte le impurità <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensione maggioreo uguale a 0,1 micron, siano esse polveri, pollini,batteri ecc. L’aria in uscita è completamente depuratae reimmessa nell’ambiente.Nel purificatore, poi, abbiamo pensato <strong>di</strong> integrareuna sorgente luminosa che fornisce una emissioneluminosa spot, in aggiunta alle sorgenti per emissione<strong>di</strong>retta o in<strong>di</strong>retta presenti negli apparecchi.La stanza del maestroSono molti i linguaggi in cui si evolve la riflessione <strong>di</strong>Artemide sulla luce. E non esita, Gismon<strong>di</strong>, a rendercipartecipi del suo connubio con una figura certamente <strong>di</strong>spicco del teatro italiano qual è Luca Ronconi.Come uomo <strong>di</strong> teatro, abituato a servirsi <strong>di</strong> luci <strong>di</strong>verseper uno scopo drammatico o narrativo, ci si chiede qualesia il suo rapporto privato con la luce o con l’illuminazione<strong>di</strong> casa.Ho incontrato Luca Ronconi. Gli ho chiesto checosa si aspettava, che cosa voleva dalla luce. Ci hapensato. Poi ci siamo rivisti, sono andato a casa sua.Mi ha spiegato che passa la maggior parte del tempoin un ambiente buio, con luce artificiale. A quelpunto ho pensato a come rendere unica la “stanzadel maestro”.Da questa esperienza Artemide realizza una finestra capace<strong>di</strong> riprodurre, a piacere, il ciclo naturale della luce chepenetra nella stanza. Nell’intimità della sua camera,Ronconi non smette i panni del regista e può chiedere allarealtà <strong>di</strong> farsi rappresentazione. Artemide ha creato unalampada/finestra capace <strong>di</strong> riprodurre tutte le con<strong>di</strong>zionidella luce naturale, attraverso un telecomando programmabilein una scala <strong>di</strong> 11 atmosfere pre<strong>di</strong>sposte.


76 proiezioni globali 77Dalla finestra può partire un’alba pallida, che può<strong>di</strong>ventare aurora a comando, fino alla riproduzionedella luce azzurra <strong>di</strong> un improvviso temporale, ocalda <strong>di</strong> un mattino <strong>di</strong> sole, fino ai tramonti, alleluci della sera e alle notti <strong>di</strong> luna piena.Veste, la “metafinestra”, lo spazio e il tempo dell’intimità<strong>di</strong> una camera, illumina la me<strong>di</strong>tazione dopo una giornata<strong>di</strong> lavoro passata lontano dalla natura. Non è tuttoqui. A letto può sorgere l’esigenza <strong>di</strong> leggere. Basterà <strong>di</strong>re“libro!” per accendere una luce da lettura, un led biancomontato su un supporto flessibile, orientabile a piacere.Poi “spegniti!”.Lo stesso vale per l’acqua: con un comando vocale ilcomo<strong>di</strong>no colora la brocca <strong>di</strong> una luce fresca. La cameradel regista prevede anche una luce per alzarsi dal letto.“Porta!”, e un led ellittico <strong>di</strong>segnerà un taglio <strong>di</strong> lucebianca sulla soglia del bagno, senza costringerlo a cercarea tentoni un interruttore.Interno/esterno: dalla casa alla cittàDall’illuminazione interna a quella urbana. Gismon<strong>di</strong>non vuole smettere <strong>di</strong> stupire.Vogliamo lavorare anche sulle fonti <strong>di</strong> illuminazionealternative. Ci stiamo provando, ma come in tutti ilavori ben fatti non si può improvvisare.Nasce così Bodh Gaya, isola urbana realizzata da RossLovegrove: un luogo d’incontro, sosta e riflessione illuminatodal Solar Tree, l’albero <strong>di</strong> luce a energia solare che crea nuoveprospettive ecosostenibili per l’illuminazione delle città.Solar Tree è il tentativo riuscito <strong>di</strong> far convergere le tecnologiepiù avanzate con le esigenze estetiche dello spazio urbano,attraverso l’uso <strong>di</strong> energie rinnovabili. Artemide haprofuso impegno e competenza nella realizzazione <strong>di</strong> questiobiettivi, animata dall’interesse puramente investigativoe dal carattere sperimentale ed ecosostenibile della ricerca,oltre che dalla connaturata vocazione per il design.È un progetto che celebra design, natura e arte.Rappresenta il dna dei nostri tempi.Un albero sinuoso con “frutti” ecologicamente intelligenti: lebolle con i led si illuminano <strong>di</strong> notte grazie alla luce solareaccumulata durante il giorno dai pannelli solari. Unarisposta concreta al problema del risparmio energetico nellalogica <strong>di</strong> un’illuminazione urbana sempre più sostenibile.CrescereRiusciamo a vendere le nostre lampade nei mercatiemergenti, per esempio Russia e Me<strong>di</strong>o Oriente.Anche i prodotti non più recentissimi esercitano uncerto fascino sulle borghesie nascenti <strong>di</strong> quei paesi.Nel mercato domestico, in Europa, invece, dobbiamoespanderci in settori nuovi.Nel giugno 2008 il gruppo Artemide ha acquisito lamaggioranza <strong>di</strong> Nord Light, società leader nel settore deiled, l’innovativa sorgente luminosa che si sta sempre piùaffermando per via delle ridotte <strong>di</strong>mensioni, la lungadurata, il basso consumo <strong>di</strong> energia e l’altissima resa.«L’acquisizione <strong>di</strong> Nord Light si inserisce pienamentenella strategia Artemide <strong>di</strong> leadership nell’illuminazione <strong>di</strong>alta gamma» ha <strong>di</strong>chiarato Luciano Innuzzi, AD <strong>di</strong> ArtemideGroup. «La nostra posizione nel mercato rafforza eLight Emitting Diode. [N.d.R.]accresce la nostra competitività a livello internazionale inun settore, quello dei led, in forte espansione. L’acquisizione<strong>di</strong> Nord Light ci consente inoltre <strong>di</strong> offrire ai clientiprofessionali, soprattutto nei comparti hotel e retail, nuoviprodotti e innovative soluzioni illuminotecniche <strong>di</strong> altolivello.»Per la tanto attesa quotazione in Borsa, Gismon<strong>di</strong> miinvita a leggere un qualsiasi quoti<strong>di</strong>ano.Non posso più credere nel mercato. Aspetto tempimigliori per fare il mio ingresso a piazza Affari. Perora preferisco vedere la mia impresa orientata adaltri tipi <strong>di</strong> finanziamento.NumeriQuest’anno Artemide <strong>di</strong>stribuirà 2,7 milioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>viden<strong>di</strong>contro i 2,5 milioni del 2006, a fronte <strong>di</strong> un utile 2007<strong>di</strong> 4,3 milioni a livello consolidato e 4,7 milioni nel2006. La società ha chiuso il 2007 con un giro d’affari<strong>di</strong> 116,4 milioni <strong>di</strong> euro (+12%), un ebitda in salita a19,3 milioni (+11%) e un ebit a 19,3 milioni (+11%).Si è registrata una crescita anche nella prima parte dell’anno,nonostante il clima <strong>di</strong> recessione economica <strong>di</strong> unaparte del mondo.«Nei primi quattro mesi dell’anno» spiega l’amministratoredelegato Iannuzzi «sia l’utile che il fatturato sonocresciuti del 10%. È vero che ci sono alcuni paesi in crisie che la debolezza del dollaro non aiuta, ma le nostre performancesono compensate dall’ottimo andamento <strong>di</strong> altrimercati come quello russo, asiatico e del Me<strong>di</strong>o Oriente.»Inoltre Artemide ha chiuso negli ultimi mesi una serie <strong>di</strong>accor<strong>di</strong> anche <strong>di</strong> prestigio. A Deutsche Telecom, per le se<strong>di</strong><strong>di</strong> Bonn e Darmstadt, verranno forniti 3300 elementiper una commessa da 500.000 euro. Un altro accordoappena concluso è con McDonald’s, che sta lanciando inEuropa quello che il gruppo americano ha definito il nuovoconcept store, cui verrà fornita tutta l’illuminazione.In ultimo, la fornitura per tutti i negozi monomarca <strong>di</strong>Bialetti.E l’avventura continuaIl colosso, dunque, non frena la sua ascesa. Artemideha sempre rappresentato la fusione ideale tra design einnovazione, sviluppando concetti e prodotti all’avanguar<strong>di</strong>anella sperimentazione e nella ricerca, con il contributoattivo dei maggiori artefici del design contemporaneo e lacollaborazione con aziende leader nei settori specifici.L’impresa sa dove collocarsi sui mercati europei ed extraeuropei,sa interpretare i particolari bisogni dell’uomonel nuovo millennio, con la consapevolezza che il design,la “bella illuminazione”, contribuisce al miglioramentodel benessere dell’uomo e della qualità della vita. Deimoderni e dei postmoderni.


78 in fuga 79Il coloReè un’enTItàeuRopea<strong>di</strong> Giuliano Di Caro, giornalista pubblicistaQuale città ti racconta Marica Inoue, illustratrice e <strong>di</strong>segnatricegiapponese <strong>di</strong> manga, in Italia per avventureprima, per amore poi? <strong>Milano</strong> per lei rappresenta,come fosse una metonimia, l’intero Belpaese. Nel1997 il salto è da Tokyo, sua città natale, a Firenze.Tre mesi per stu<strong>di</strong>are i ru<strong>di</strong>menti della lingua italiana.Laureata in Visual communication design, puntadritta a <strong>Milano</strong> come fosse La Mecca. In Italia vuolestu<strong>di</strong>are Belle Arti. Così, mentre accavalla il nostroalfabeto ai suoi ideogrammi – oggi il suo italiano èpraticamente perfetto, e viene il sospetto che lo siagià da tempo –, esplora la Pinacoteca <strong>di</strong> Brera. I quattroe i cinquecenteschi ma anche gli artisti moderni,tutti giocano un ruolo <strong>di</strong> primo impatto, <strong>di</strong> primaesplorazione citta<strong>di</strong>na. «E alla fine, la mia carriera<strong>di</strong> illustratrice l’ho iniziata qui a <strong>Milano</strong>, nel 2002»racconta oggi con in braccio la figlia <strong>di</strong> un annoMargo, avuta dal marito Roberto Zaghi, <strong>di</strong>segnatore<strong>di</strong> “Julia” della scuderia Bonelli.Marica sente a pelle la <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> al darsida fare, «un’etica del lavoro declinata in forme <strong>di</strong>verseda quella giapponese, eppure tangibile e quoti<strong>di</strong>ana».Ma poiché non maneggia finanza bensì storie,non sol<strong>di</strong> e transazioni ma favole che si intrufolanonella vita convenzionale, quest’artista <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> raccontala parte nascosta, evocativa, che <strong>di</strong> norma a noisfugge. Sarà che il Giappone, dove non torna moltospesso, è <strong>di</strong> un pragmatismo spietato, <strong>di</strong> un’esclusivitàcor<strong>di</strong>ale ma ferma. «Ho provato a proporre le miestorie in Giappone. Ma là si privilegia un rapportofaccia a faccia. Non posso mandare le tavole originalia Tokyo» racconta. Lei si occupa <strong>di</strong> tutto: storia, testie <strong>di</strong>segni. Cacciare tutto in una busta e sperare chearrivi dall’altra parte del mondo non si può davvero.«Non accettano materiale via mail o in dvd. Mancano<strong>di</strong> quell’apertura mentale che invece ho trovato eapprezzato, pur con i suoi <strong>di</strong>fetti, qui a <strong>Milano</strong>.»Succede così che i tratti originati dalla mano <strong>di</strong>questa giapponese vengano pubblicati in Italia, enon dove questa sensibilità artistica è nata. Sorri<strong>di</strong>a sentirlo, ma nel coacervo <strong>di</strong> temi, tratti culturalie passaggi a vuoto tra cui scegliere, che sguazzanonell’Italia contemporanea, la prima pubblicazione<strong>di</strong> Marica riguarda il calcio. «Mi sono presentata aFabbri e<strong>di</strong>tore come una perfetta sconosciuta, senzaun portfolio <strong>di</strong> settore, solo qualche pagina <strong>di</strong> prova.Eppure questa mentalità aperta, così <strong>di</strong>versa da quellagiapponese con cui, forse, non riesco a comunicarepiù, mi ha affidato l’illustrazione <strong>di</strong> quattro volumi.Ricette <strong>di</strong> consolazione per tifosi milanisti, interisti,juventini e romanisti per mandare giù le sconfittedella loro squadra del cuore.» Due anni <strong>di</strong> lavoro,con alcune pause in mezzo. Avanti con gatti bianconeri,pappagalli nerazzurri, camaleonti rossonerie furetti giallorossi, protagonisti <strong>di</strong> vicende gentili equoti<strong>di</strong>ane e con un pizzico <strong>di</strong> inusualità, con mogliincinte e piante carnivore. Do<strong>di</strong>ci capitoli per ognilibro, il primo lavoro <strong>di</strong> Marica qui da noi.Parliamo <strong>di</strong> Marica ma dovremmo <strong>di</strong>re Mari Mari-Chan, il suo nome d’arte. Nel cortocircuito virtuosotra <strong>Milano</strong> e Tokyo, capita che un nome non siaabbastanza “vero”, non abbastanza giapponese perricordare a noi da dove venga davvero. Quando nonillustra, crea manga, la sua vera passione. Anche noiabbiamo le nostre chiusure, i nostri stereotipi. «Senon viene scritto in ideogrammi, Marica non è nometipicamente giapponese. Il nome d’arte l’ho scelto insiemea un mio amico, fumettista pure lui.» Funzionanocosì, le reti <strong>di</strong> rapporti umani. Arrivi in Italia.<strong>Milano</strong> la esplori da futura artista e anche da giornalista– questo ha fatto Marica all’inizio per camparenel nostro paese – e il lettering delle tue storie è initaliano, non in ideogrammi giapponesi, perché MariMari-Chan è un’artista <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>. Ma il mattoncinomancante, quel nome che non evoca abbastanza ilSol Levante, va cambiato, così da significare un saltoculturale, un passetto da una parte e mille dall’altra,tutti quelli fatti nei suoi quasi <strong>di</strong>eci anni milanesi.E infatti, a leggere i suoi manga, <strong>Milano</strong> è riconoscibilenon solo nei suoi luoghi simbolo ma anchenella mentalità delle persone. Indulge, ogni tanto,nel piazzare i suoi personaggi a Ferrara, la bellissimacittà del marito, dove una bambina nasconde agliocchi degli altri un animaletto sconosciuto che portafelicità. «Di storie ne ho scritte circa una decina,quasi tutte ambientate a <strong>Milano</strong>. Una città così pragmaticache ha bisogno <strong>di</strong> una certa dose <strong>di</strong> magia.Una donna che aspetta il marito al ritorno dal lavoronotturno, per andare insieme in un negozietto chevende fate, come fossero animaletti domestici. Vicendeda realismo magico, che racconto con il colore. InGiappone sono molto tra<strong>di</strong>zionalisti, i manga vannofatti in bianco e nero. Invece a <strong>Milano</strong>, all’Accademia<strong>di</strong> Brera in particolare, ho scoperto il colore, la miavia artistica. Il colore è un’entità europea, occidentale.»Ma <strong>Milano</strong> non dovrebbe essere un po’ grigiae snob? «Un po’ superficiale, a volte. Il colore serveanche a questo, a bypassare la superficie, la scorzaesterna. Anche nella <strong>Milano</strong> lavoratrice, occupazioni esogni sanno scambiarsi il posto <strong>di</strong> continuo.»Conoscere <strong>Milano</strong>, d’altronde, è stato il suo lavoroper parecchio tempo. Marica lavorava per una tvnazionale giapponese. «Abbiamo fatto tantissimi servizi:su calciomercato (nel 2002, l’anno dei mon<strong>di</strong>ali


80 in fuga 81in Giappone e Sud Corea), me<strong>di</strong>cina, pittura, scienza,arte, videoclip. Fu splen<strong>di</strong>do lavorare a un reportagesul design italiano. Parlai con Sottsass e con Branzi,il presidente <strong>di</strong> Alessi. Ma anche con tanti artigianibrianzoli, che da decenni modellano forme tra<strong>di</strong>zionalie affascinanti. Mi è rimasto, nel lavoro. Nei miei<strong>di</strong>segni le case sono quelle degli italiani, sono reali,vere. Vivere nella città del design mi ha fatto scoprirei dettagli del vostro stile <strong>di</strong> vita attraverso gli oggetti,l’armonia domestica. A <strong>Milano</strong> sento una sorta <strong>di</strong><strong>di</strong>sposizione all’innovazione, pur su un impianto definito,mentre in Giappone si paga una certa chiusuratra<strong>di</strong>zionalista. Tutto considerato, <strong>Milano</strong> è una cittàaccogliente e aperta.»I rapporti con il Giappone, li mantiene: con la famiglia,con alcuni vecchi amici e colleghi. Parla nellasua lingua quando è sola con la figlia Margo, cheil sabato frequenta una scuola giapponese. E qui a<strong>Milano</strong> la sua rete <strong>di</strong> amicizie è ripartita equamente,metà italiani e metà giapponesi. «Ho molte amicheche fanno i lavori più <strong>di</strong>sparati, dalla casalingaall’impren<strong>di</strong>trice, fino all’impiegata <strong>di</strong> multinazionaligiapponesi con sede a <strong>Milano</strong>. A me piaceva quellavita instabile che conducevo, essendo venuta qui perstu<strong>di</strong>are arte e una lingua latina. Altre sono arrivatein maniere, <strong>di</strong>ciamo, più ortodosse. Salvo una, che hasognato l’Italia e pensa che nella vita passata fosse italiana…Io sono a cavallo <strong>di</strong> due mon<strong>di</strong>; e così le miestorie, che sto proponendo proprio in questo periodoad alcuni e<strong>di</strong>tori.»Come spesso capita, alla rete personale si sovrapponeuna rete virtuale. Marica ha un blog, http://marimari-chan.blogspot.com,scritto interamente in italiano.Una finestra virtuale sulla città che abita. Per questoil suo spazio sul web parla la stessa lingua che si parlafuori dalla finestra <strong>di</strong> casa sua. «È un blog moltogiapponese, scrivo <strong>di</strong> cose minute, quoti<strong>di</strong>ane: cibo,problemi, aspirazioni, la mia bimba, come fosseun <strong>di</strong>ario.» Impianto giapponese in forma italiana,insomma. «Carico anche molti miei <strong>di</strong>segni. E infattiattraverso il blog ho conosciuto tantissime <strong>di</strong>segnatrici:giovani o già affermate o magari con un bambinopiccolo, come me. Voglio incontrare <strong>di</strong> persona quelleche vivono a <strong>Milano</strong>. Per quelle romane invece, esono tantissime, ci daremo appuntamento a Lucca,al festival dei giochi e del fumetto.» A sentire lei,<strong>Milano</strong> non se ne avrà certo a male.


82 SUL CAMPO 8322 agosto 2008.gente <strong>di</strong> tbILisi<strong>di</strong> Sara Rossi, scrittriceDi soldati a Tbilisi non se ne vedono. Gli abitantidella capitale georgiana, dopo aver passato giorni enotti ad ascoltare le notizie della guerra in Osseziadel Sud, dopo aver aspettato che rientrasse chi stavatrascorrendo le vacanze sul Mar Nero e non potevatornare, dopo aver sentito le bombe che hannocolpito l’aeroporto militare alla periferia <strong>di</strong> Tbilisie aver temuto che l’esercito <strong>di</strong> Putin circondasse eattaccasse la loro città, dopo aver accolto migliaia <strong>di</strong>profughi che si riversavano nella capitale e cercavanoletti, cibo, me<strong>di</strong>cine, insomma dopo aver vissutola guerra, gli abitanti <strong>di</strong> Tbilisi si sentono più pacifistiche mai. Ritornano a bere nei caffè, a passeggiareper le strade, a mangiare nei ristoranti, a fareun giro sulle giostre del parco zoologico. Certo, nonparlano d’altro che <strong>di</strong> politica interna e internazionale,aspettano la fine <strong>di</strong> questa situazione per sposarsi,non cantano nei ristoranti fuori città lungoil fiume, dove <strong>di</strong> solito, a una certa ora, un tavolointona una canzone e tutti gli altri lo seguono.Gli abitanti della città sorridono smarriti e riba<strong>di</strong>sconoche loro, la guerra, non l’avrebbero mai fatta,che se tutti fossero cresciuti come loro, parlandocome minimo tre lingue, a Tbilisi, casa <strong>di</strong> 56 mi-


84 SUL CAMPO 85noranze etniche, con le sue scuole russe, armene,ebraiche, con la sua apertura e allegria, con il suofare moderno ed europeo. Ecco, allora non ci sarebbestato bisogno <strong>di</strong> massacrare civili né <strong>di</strong>struggerevillaggi. O incen<strong>di</strong>are i boschi! Nemmeno Hitler loaveva fatto, anche quando sapeva che i partigiani sinascondevano tra gli alberi, perché gli alberi nonavevano colpa. Questi <strong>di</strong>scorsi, che iniziano chiarie pacati e finiscono con un’arringa appassionata,accomunano i giovani eleganti e raffinati che puoiincontrare in centro, tra un albergo <strong>di</strong> lusso e unapiazza in ricostruzione, le quattro generazioni checonvivono nei quartieri <strong>di</strong> case basse <strong>di</strong> legno estrade non asfaltate, dove chi non lavora (la maggiorparte) trascorre le giornate insieme, seduto suuna panca, sorridente e pronto a chiacchierare, finoai citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> periferia, imprigionati in palazzonialti e fatiscenti tipici dell’era staliniana, passandoai tassisti, ai camerieri o ai ven<strong>di</strong>tori. Con un risoamaro, raccontano che sono scomparsi tutti i canalitelevisivi russi che danno un telegiornale – ORT,NTV, RTVY, RENTV, RTR –, ma anche due canali <strong>di</strong>programmi <strong>di</strong> intrattenimento. In cambio, la televisionegeorgiana passa costantemente film in stilepeplum, in cui un piccolo gruppo <strong>di</strong> uomini onesticombatte e vince un nemico più forte.La guerra in una bottigliaGeorgij ha vent’anni. In primavera ha fatto il serviziomilitare, che ora in Georgia è <strong>di</strong> <strong>di</strong>ciotto giorniogni due anni. Ad agosto lo hanno chiamato alfronte. Ha passato solo tre giorni a Tskhinvali, manegli occhi ha ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> mesi.«Durante l’addestramento ci avevano insegnato amarciare, stare <strong>di</strong>ritti e rispondere ai superiori. Hosparato due volte con il kalashnikov, mai con altrearmi. Quando mi hanno chiamato perché c’era la guerra,non sapevo che cosa dovevo fare. Dopo il primobombardamento ci hanno lasciati lì ad aspettare. Nonmi è mai piaciuta la vodka, a me piacciono il vino e labirra, e basta. Con il mio amico ne abbiamo compratouna bottiglia al negozio: non c’era niente da mangiare,nemmeno un po’ <strong>di</strong> pane per accompagnare la vodka.Volevamo berne solo un sorso, ma quando gli hopassato la bottiglia lui ne ha bevuta metà e allora dopoio l’ho finita, tutta d’un fiato. Ci hanno fatti salire suun autobus. Ci hanno detto: “Tra due ore comincerannoa bombardare”. Da dove? Che cosa dovevamo fare?Questo nessuno lo sapeva. Ero pieno <strong>di</strong> armi, ma nonsapevo come usarle. Ho chiesto a un superiore che <strong>di</strong>fferenzac’era tra me e un civile. “Che <strong>di</strong>fferenza c’è trame e te?” ha risposto senza nemmeno guardarmi negliocchi. Penso che ci fossero delle spie tra i nostri, perchégli elicotteri sapevano esattamente dove eravamo, anchequando eravamo nascosti tra gli e<strong>di</strong>fici della città.Per fortuna, per caso, io mi sono salvato, e alla mattinadel terzo giorno ci hanno fatto tornare a casa.»Non gli ho chiesto dove fosse il suo amico, perchégià me lo avevano detto.Georgia multinazionaleQuesta mattina arriva una notizia, non <strong>di</strong> quelle che siannunciano in ra<strong>di</strong>o o che si pubblicano sul giornale,ma che passano <strong>di</strong> bocca in bocca e chi la sa la raccontasubito a chiunque gli capiti a tiro, in ufficio, a casa,sull’autobus. Il fatto si è svolto in un grande mercato,nel reparto dei latticini. Una ven<strong>di</strong>trice ha commentatoin russo con un tono <strong>di</strong> voce un po’ troppo forte:«Saakashvili è un pazzo instabile, è stato lui a bombardareGori come propaganda antirussa, basta vedere dache lato sono state colpite le case: da sud!».


86 SUL CAMPO 87La risposta, in georgiano, arriva prontamente daun’altra ven<strong>di</strong>trice <strong>di</strong> formaggio, che da anni, aquanto si <strong>di</strong>ce, lavora gomito a gomito con la donnarussa. Parole poco gentili su Putin e tutti i suoiconnazionali, compresa la collega. Pochi minutidopo due uomini devono venire a separarle, a staccarloro le mani dai capelli e dai vestiti.Lo racconta uno dei coor<strong>di</strong>natori dell’organizzazionePer una Georgia multinazionale, appena entra inufficio, in georgiano. Tamara, una ragazza armenacresciuta a Tbilisi e in procinto <strong>di</strong> sposarsi con unsiberiano, mi traduce il racconto in russo.Tamara ama la sua città e non se ne andrebbe mai,nemmeno in Armenia, perché là sono tutti armeni,proprio tutti, e allora che interesse c’è? «Sicuramentesi tratta <strong>di</strong> donne cresciute in campagna»mi spiega con aria d’indulgenza nei riguar<strong>di</strong> delledue ven<strong>di</strong>trici <strong>di</strong> formaggio. «Qui in città noisiamo abituati a vivere in un cortile italiano, così lochiamiamo: ogni appartamento è in contatto conaltri quattro o cinque e ogni famiglia ha un’origine<strong>di</strong>versa, le finestre sono più gran<strong>di</strong> delle portee stanno sempre spalancate, <strong>di</strong> modo che se miamamma prepara il caffè può passarne una tazzina aivicini. Il gabinetto ce l’abbiamo in comune. Fin dapiccoli impariamo le lingue degli altri bambini, ledonne si scambiano le ricette. Uno come noi, unocosì, non si metterebbe mai a urlare o picchiare.»Fa una pausa. «Perlomeno, così credo.» Abbassa gliocchi. «Così spero.»L’organizzazione <strong>di</strong> Tamara si occupa <strong>di</strong> integrare neltessuto citta<strong>di</strong>no le comunità o i singoli in<strong>di</strong>vidui <strong>di</strong><strong>di</strong>verse provenienze etniche o regionali. I georgianicostituiscono l’83% della popolazione totale, cosìcome gli italiani in Italia sono l’86%. La <strong>di</strong>fferenza èche vent’anni fa, qui da noi, i citta<strong>di</strong>ni italiani eranoil 99%. Invece, le proporzioni tra georgiani e minoranzesono sui quattro quinti da secoli, e come sempre,se i sud<strong>di</strong>ti dello zar e i citta<strong>di</strong>ni sovietici hannodovuto assopire qualsiasi riven<strong>di</strong>cazione nazionale, lademocrazia tende a risvegliarla.L’associazione Per una Georgia multinazionale offrecorsi <strong>di</strong> georgiano, inglese, informatica; si occupa<strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto delle minoranze e tiene uno sportelloaperto al pubblico per dare informazioni sui <strong>di</strong>rittie i doveri <strong>di</strong> ogni persona che arriva a Tbilisi o civive già; pubblica un giornale, “MnogonarodnajaGruzia” (Georgia multinazionale) che racconta i successi<strong>di</strong> convivenza e le attività delle comunità piùorganizzate della città. Tali sono quelle <strong>di</strong> armeni,assiri, azeri, bulgari, cechi, cur<strong>di</strong> yazi<strong>di</strong>, greci, lettoni,lituani, osseti, polacchi, russi, tedeschi, ucraini.Altri gruppi etnici o nazionali abitano la città, macollaborano solo saltuariamente con l’associazione<strong>di</strong> Tamara: abkhazi, ebrei, uzbeki, tatari, turchi,bielorussi, coreani, kazachi, ceceni, baschiri, moldavi,ingusci, kirghizi, bulgari, zingari ecc.Parlate <strong>di</strong> noiNegli ultimi giorni i membri dell’organizzazionehanno ricevuto decine <strong>di</strong> telefonate, e <strong>di</strong> fronteall’emergenza profughi hanno deciso <strong>di</strong> sospendereogni attività per de<strong>di</strong>carsi a questo problemaa tempo pieno. Nelle scuole sono accampate circa140.000 persone fuggite dai bombardamenti in Osseziadel Sud e nella regione il cui capoluogo è Gori,città natale <strong>di</strong> Josif Dzugasvili, meglio conosciutocome Stalin. Donne, bambini, uomini giovani epersone anziane scappati a pie<strong>di</strong>, senza sol<strong>di</strong>, senzavestiti, chi per paura, chi perché non aveva piùuna casa, chi perché ha visto bruciare il propriovillaggio.


88 SUL CAMPO 89A Tbilisi, come in tutte le città postsovietiche, lescuole e gli asili hanno un numero. Poche hannoanche un nome. Qui le scuole primarie vanno dall’1al 206 e quelle materne arrivano fino al numero209. Quando le scuole non sono più state sufficienti,i profughi si sono rifugiati negli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong>sabitatidella città, dove mancano i servizi igienici, la luce,il gas per cucinare, le pentole, i mobili, i vetri allefinestre. Gli aiuti umanitari sono arrivati tre giornidopo i bombardamenti. Si sono concentrati principalmentenelle zone <strong>di</strong>strutte durante il conflitto,mentre a Tbilisi uomini, donne, vecchi e bambinihanno aspettato a lungo, a volte per giorni, sedutisulle minuscole panchine degli istituti scolastici.Sono sopravvissuti grazie agli abitanti del quartiere,che hanno portato sol<strong>di</strong>, cibo, sapone, vestiti,pannolini. Dopo <strong>di</strong>eci giorni dal loro arrivo, alcunigruppi <strong>di</strong> rifugiati – in particolare quelli che hannotrovato posto in qualche scuola o e<strong>di</strong>ficio in periferia– non hanno ancora ricevuto nessun aiuto,altri mostrano a chi li sta a sentire le due patate algiorno a testa che ricevono dal governo.Nella sede dell’associazione Per una Georgia multinazionalec’è qualcuno che sta al telefono tutto ilgiorno: telefona alle scuole, 1, 2, 3... 6... 206 scuolee 209 asili, parla con il portavoce, in totale 415donne, e chiede: quante persone sono accampate lì?Quanti bambini? Può <strong>di</strong>rci per favore esattamenteil numero e l’età dei bambini tra i quattro mesi e iquattro anni? Di che cosa avete bisogno?Poi c’è qualcuno che va al mercato con una jeep, acquistaprodotti <strong>di</strong> prima necessità trattando il prezzo:patate, cipolle, pomodori, fagioli secchi, riso,lenticchie, olio, farina, pacchi <strong>di</strong> pannolini, cibo perneonati, saponette, assorbenti, scatole <strong>di</strong> detersivo,materassi, e riporta tutto all’ufficio, che per fortunaè grande come un appartamento. In ogni angolo uncartello con un numero e qualcun altro che smista<strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là. Niente patate alla 177, solo pomodori,hanno finito il gas. Quanti <strong>di</strong>abetici alla 91? Tre.Quanti mesi ha il bebè della 20? Due, ma ha giàbisogno <strong>di</strong> pappine, la mamma non ha più latte dadopo il bombardamento. Hai scritto <strong>di</strong> comprare ilgas per la 177?La sera, la stessa jeep riparte e inizia il giro dellescuole: oggi numero 11, numero 106, asilo 29,asilo Africa. L’asilo Africa si trova in periferia, anord della città, è il più <strong>di</strong>fficile da trovare. Stannoriasfaltando la strada, per cui ai lati due cumuli<strong>di</strong> terra lasciano una sola corsia libera. Tutte lemacchine, però, vogliono passare per prime, e cosìci troviamo in un ingorgo senza fine. La nostra jeepabbandona il pezzo <strong>di</strong> strada asfaltata e schiaccia lamontagna <strong>di</strong> ghiaia e sabbia. In qualche modo si vaavanti. In mezzo a un complesso <strong>di</strong> palazzi enormi,separati da piccoli sentieri e giar<strong>di</strong>netti, troviamola nostra Africa. Un’ottantina <strong>di</strong> persone vi abita daotto giorni. Dopo che sono state registrate, alcunefamiglie sono riuscite a ritrovarsi. Ci accoglie lagiovane donna che coor<strong>di</strong>na il gruppo, la cucina, idormitori, che fa da tramite per bisogni e richieste.Un’anziana signora invece sente il bisogno <strong>di</strong> raccontare,<strong>di</strong> presentarci tutti, soprattutto i bambini.«Lui ha perso la mamma, lui la sorella, lei è natadurante la prima guerra, hanno bruciato la casa <strong>di</strong>suo padre, si sono spostati in città dai parenti e oratutto il quartiere è <strong>di</strong>strutto.» Si copre gli occhi.«Hanno ucciso i bambini...»Alla fine però si mettono tutti insieme in cucinaper fare una bella fotografia <strong>di</strong> gruppo e chiedonocon gentilezza: «Racconta <strong>di</strong> noi, fa’ che ci prestinoattenzione».


90 sul campo 91vienna in tReistantanee<strong>di</strong> Clau<strong>di</strong>a Sonino, docente <strong>di</strong> Letteratura tedescaall’Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Pavia«Vienna resta sempre Vienna» era solito <strong>di</strong>re EliasCanetti, lo scrittore premio Nobel nato a Rustschuknel 1905, allora impero ottomano, ma formatosi aVienna, la città della sua giovinezza alla quale rimarràsempre legato così come rimarrà sempre legato altedesco, la lingua “salvata” dalla barbarie nazista enella quale lui, proprio perché ebreo, deciderà <strong>di</strong>scrivere. Con quella affermazione Canetti coglievadue aspetti antitetici ma in realtà complementari <strong>di</strong>Vienna: quello <strong>di</strong> chi in essa sempre si ritrova, è semprea casa, si sente sempre atteso e accolto, e in essa siriconosce; ma anche l’aspetto <strong>di</strong> ripetizione ossessiva,<strong>di</strong> coazione a ripetere <strong>di</strong> una città chiusa e ripiegatain se stessa, come sembra alludere il suo Ring, l’anelloche eternamente ritorna su se stesso, come se nullafosse accaduto e potesse accadere.Città per uomini senza qualitàVienna non ha mai lasciato in<strong>di</strong>fferenti i suoiscrittori, persino quando neppure la nominano,come nel caso <strong>di</strong> Robert Musil e del suo grande eincompiuto romanzo L’uomo senza qualità, pubblicatonegli anni trenta. In realtà essa è lo sfondo idealedel romanzo, essendo l’unica città che può accogliereuomini senza qualità come il suo protagonistaUlrich: uomini nuovi, protesi al futuro, che pensanoe vivono la vita non all’in<strong>di</strong>cativo ma al con<strong>di</strong>zionale,uomini che trattano la «realtà come un compitoe un’invenzione». «Non <strong>di</strong>amo dunque particolare importanza alnome della città. Come tutte le metropoli eracostituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni,intermittenze, collisioni <strong>di</strong> cose e <strong>di</strong> eventi, e,frammezzo, punti <strong>di</strong> silenzio abissali; da rotaie e daterre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno<strong>di</strong>saccordo e sconvolgimento <strong>di</strong> tutti i ritmi;e nell’insieme somigliava a una vescica ribollenteposta in un recipiente materiato <strong>di</strong> case, leggi, regolamentie tra<strong>di</strong>zioni storiche». Ciò che Musil sottolinea<strong>di</strong> Vienna è il suo carattere <strong>di</strong> metropoli, il suocarattere plurimo, possibile, il suo non essere unmondo organico, chiuso su se stesso. Vienna, comeil suo romanzo, sembra essere nata come frammento,incarnare il mutamento stesso, il <strong>di</strong>venire piùche l’essere. Vienna nel romanzo non ha un centro,proprio perché è aperta al <strong>di</strong>venire, al possibile. Inquesta Vienna ciascuno è protagonista assoluto, ciascunoun’eccezione consapevole del proprio <strong>di</strong>rittoalla singolarità. È la vita spirituale della metropoli,infatti, a stimolare e soprattutto a permettere «l’in<strong>di</strong>pendenzadell’in<strong>di</strong>viduo», «il bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>stin- R. Musil, L’uomo senza qualità, Einau<strong>di</strong>, Torino 1970, p. 12. Ivi, p. 6. G. Simmel, “La metropoli e la vita spirituale”, in Tecnica e cultura. Il<strong>di</strong>battito tedesco tra Bismarck e Weimar, a cura <strong>di</strong> T. Maldonado, Feltrinelli,<strong>Milano</strong> 1979, p. 74.guersi e <strong>di</strong> staccarsi dagli altri […] <strong>di</strong> farsi notare». Vienna è presente nel romanzo musiliano in formaastratta, come carattere <strong>di</strong> metropoli, in cui dominala vita spirituale, nervosa. Quasi del tutto assenteè infatti la descrizione, il rinvio a luoghi specifici,determinati, chiamati per nome; e assente è ilriferimento a strade, ubicazioni, abitazioni. Tuttoè depurato dal particolarismo, la città si è <strong>di</strong>latatain una grande cartina immaginaria dove mancano iconsueti riferimenti, i nomi, i cognomi, i simboli,i segnali e le in<strong>di</strong>cazioni; solo vi è l’eco snervante,confusa e lontana, caotica e casuale, dei rumorie «dei punti <strong>di</strong> silenzio abissali». Per lo scrittoreHermann Broch, che molto ha riflettuto sulla cittàin cui era nato nel 1886, Vienna è la capitale delkitsch, proprio perché è la città della decorazione, incui l’ornamento e la citazione storicistica e musealedegli stili hanno sostituito l’arte – come mostra laRingstrasse con la sua falsa architettura. In quantosede dell’apparenza e della finzione, essa è l’epicentrodel vuoto dei valori che per Broch caratterizza laciviltà contemporanea. Grande città barocca – ossiateatrale –, essa gli appare «l’antitesi <strong>di</strong> una grandecittà internazionale e, pur senza <strong>di</strong>ventare una piccolacittà, <strong>di</strong> questa cercò tuttavia la pace, l’orizzontelimitato, la gioia, il fascino antico». E siamo così giunti a un’altra rappresentazione <strong>di</strong>Vienna, quella restituitaci dallo scrittore Heimitovon Doderer. Una rappresentazione più vicina aquella che ne dà Broch, ma che Doderer – scrittoreantideologico – ritiene positiva. Nelle pagine Ivi, p. 77. R. Musil, op. cit., p. 6. H. Broch, “Hofmannsthal e il suo tempo”, in Id., Poesia e conoscenza,Lerici, <strong>Milano</strong> 1965, p. 108.


92 sul campo 93del suo romanzo I demoni – ultimato negli annicinquanta ma pensato e ideato negli anni trenta, eambientato ai tempi della prima Repubblica, cioènegli anni venti – Vienna è un reticolo <strong>di</strong> passioniprivate e <strong>di</strong> affetti domestici <strong>di</strong> cui amministra laregolarità e la conservazione, l’intreccio, la casualitàe la necessità. Piccola comunità in cui ogni strada èl’eco e la custo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> un evento dell’anima, Viennaè sede <strong>di</strong> eventi e <strong>di</strong> passioni personali. Al contrario<strong>di</strong> Musil, Doderer precisa con puntigliosa meticolosità,anzi con rigore maniacale, i nomi delle strade,delle piazze e dei luoghi, «insiste come nessun altroscrittore sulla topografia esatta <strong>di</strong> questa città». Vienna è città <strong>di</strong> provincia in quanto è centro escenario della vita del sentimento, dove i rapportiaffettivi e personali prevalgono e predominano:«nelle città <strong>di</strong> provincia […], quasi tutte le personeche si incontrano sono persone note». I passi sulselciato non possono che essere noti e familiari,e soprattutto scan<strong>di</strong>re, proteggere e preservare ilprivato. Vienna esiste per Doderer come intreccio<strong>di</strong> strade e <strong>di</strong> personaggi. Le creature dodererianepossono qui soltanto compiere l’arco della propriavita, <strong>di</strong>venire persone, suggerisce lo stesso autorenel suo romanzo del 1951 La scalinata. Il nono<strong>di</strong>stretto – il <strong>di</strong>stretto più “dodereriano” <strong>di</strong> Vienna,sede delle cliniche universitarie e luogo in cui, tral’altro, risiedeva Freud – <strong>di</strong>viene qui la metaforaconcreta delle passioni e dei sentimenti, dello scorreredell’inquieta folla <strong>di</strong> personaggi che a un certopunto dell’esistenza passeranno l’uno accanto all’al- A. Reininger, Introduzione a H. von Doderer, I demoni, Einau<strong>di</strong>, Torino1979, p. X. G. Simmel, op. cit., p. 71. H. von Doderer, La scalinata, Einau<strong>di</strong>, Torino 1965.tro, si congiungeranno, si perderanno, sempre sullosfondo <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>mensione comune che è appuntoVienna. La scalinata Strudlhof è il luogo esemplareda cui si snoda, per ricongiungervisi, tutta una serie<strong>di</strong> vicende umane: «Le scale erano lì per chiunque,per la plebe e la canaglia, ma la loro costruzione eradestinata a preparare gli uomini al passo del destinoche non sempre vuole pie<strong>di</strong> corazzati, ma spessorichiede <strong>di</strong> compiersi silenziosamente, con suoleleggerissime, in scarpine <strong>di</strong> raso, oppure coi passetti<strong>di</strong> un povero cuore schietto che corre fischiettando,coi suoi pie<strong>di</strong>ni, coi minuscoli nu<strong>di</strong> pie<strong>di</strong>ni del cuore,nella sua ambascia: anche a questo le scale conla loro pomposa cascata fanno da scorta, ed esse cisono sempre, non si stancano mai <strong>di</strong> <strong>di</strong>rci che ognivia ha la sua <strong>di</strong>gnità e in ogni caso è sempre <strong>di</strong> piùdella sua meta». 10 È una Vienna, quella <strong>di</strong> Doderer,che è ancora la capitale della prima Repubblica,anche se pensata attraverso la realtà del secondo dopoguerra,quella dell’Austria occupata dalle truppealleate fino al 1955.La città come campo magneticoMa che rapporto hanno avuto con la città altriscrittori che hanno vissuto in una Vienna più vicinaa quella attuale? Non si sbaglia se si <strong>di</strong>ce che ilrapporto che i due maggiori scrittori austriaci delsecondo dopoguerra, Thomas Bernhard e IngeborgBachmann, hanno avuto con Vienna è un rapportosofferto, <strong>di</strong>sturbato, ambivalente.Per Thomas Bernhard, che l’ha raffigurata in molti10 Ivi, p. 249.dei suoi romanzi, è il male, anche se, aveva anchedetto, non c’è luogo migliore <strong>di</strong> Vienna. Bernhardne ha parlato spesso come <strong>di</strong> una follia silenziosa, <strong>di</strong>una città in cui non c’è più storia, in cui l’arte e gliuomini vengono macinati, ridotti a poltiglia informe.I suoi luoghi sono la Innere Stadt, cioè il centrostorico racchiuso dal Ring, ma anche i quartieripiù periferici <strong>di</strong> Währing e Döbling, in ogni casoluoghi, appartamenti, toilette in cui si è raggrumatauna sporcizia che è concreta e simbolica al tempostesso, sintomo <strong>di</strong> quella malattia e perversione checaratterizza anche i suoi personaggi, abitanti <strong>di</strong>una città, <strong>di</strong>rà in ultimo, che è un cimitero che stamorendo.Ambivalente è l’immagine che <strong>di</strong> Vienna ci restituisceIngeborg Bachmann in Malina (1971). 11In questo romanzo, o meglio monologo o deliriointeriore, l’Io narrante, il suo alter ego o doppiomaschile, Malina e Ivan, vivono in un percorso cheva dall’Ungargasse 9 al 6: «il luogo è solo una via,o meglio un breve tratto della Ungargasse, e questo<strong>di</strong>pende dal fatto che abitiamo là tutti e tre, Ivan,Malina e io». 12 «A Vienna ci sono […] strade moltopiù belle, ma si trovano in altri <strong>di</strong>stretti, e conesse accade come con le donne troppo belle, che siguardano subito con l’omaggio dovuto, senza maipensare <strong>di</strong> entrare in relazione con loro. […] Cosìnon voglio cominciare a fare affermazioni inconsistentisulla mia, sulla nostra strada, farei meglioa cercare in me stessa la ragione dell’attaccamentoche ho per la Ungargasse, perché solo in me descriveil suo arco, fino al numero 9 e al numero 6, e midovrei chiedere perché sono sempre nel suo campo11 I. Bachmann, Malina, Adelphi, <strong>Milano</strong> 1973.12 Ivi, p. 14.magnetico […]». 13 La Ungargasse, nel terzo <strong>di</strong>stretto<strong>di</strong> Vienna, è il luogo psichico in cui l’Io narrantee i suoi fantasmi sono <strong>di</strong> casa, ma è anche prigioneda cui a tratti si immagina <strong>di</strong> evadere. Però «èchiaro che restiamo nella Ungargasse». 14 Vienna èaltresì in Malina anche il luogo sinistro e oscuro delmercato nero, «fatta apposta per la prostituzioneuniversale», 15 dove tutti hanno a che fare con tutti«nei mo<strong>di</strong> più aberranti». 16 Vienna è dunque perla Bachmann ancora il fantasma della Vienna delGirotondo <strong>di</strong> Schnitzler, dove tutti si accoppiano contutti e dove regna l’ipocrisia universale. Ma è anchela città dell’utopia, della felicità, dell’incontro, forsesolo pensato e desiderato, tra la protagonista delromanzo e Ivan: «Felice, felice è felicità, deve esserefelicità, perché tutta la Ringstrasse ha un sottofondo<strong>di</strong> musica, io debbo ridere [...]». 17 Vienna è soprattuttoun luogo psichico, che si ottenebrerà verso lafine, quando l’incontro e l’unione con l’immaginatoe inaccessibile Ivan non sarà più pensabile, rappresentabilepsichicamente: «Vienna non ha più moltotempo, scivola via, le case si addormentano, la gentespegne la luce sempre più presto, nessuno ormaiè sveglio, interi quartieri sono presi da una forma<strong>di</strong> apatia, non ci si avvicina, non ci si allontana, lacittà scivola nella rovina». 18«Vienna resta sempre Vienna» <strong>di</strong>ceva Canetti, e nelsuo contrad<strong>di</strong>ttorio e multiforme porsi racchiude i<strong>di</strong>lemmi e le ansie della nostra contemporaneità.13 Ivi, p. 16.14 Ivi, p. 286.15 Ivi, p. 242.16 Ivi, p. 243.17 Ivi, p. 55.18 Ivi, p. 217.


94 saggio metropolitano 95I “vILlaggi in cITtà” deLlacina che cambia: Il casodI yang cheng a canton<strong>di</strong> Li Peilin, <strong>di</strong>rettore dell’Istituto <strong>di</strong> sociologiadell’Accademia <strong>di</strong> scienze sociali (CASS) <strong>di</strong> Pechinoe vicepresidente esecutivo dell’Associazione cinese <strong>di</strong>sociologia ∗Traduzione <strong>di</strong> Paul De Leonar<strong>di</strong>s∗L’articolo è tratto dalla raccolta sulla sociologia cinesecontemporanea curata da Laurence Roulleau-Berger, Guo Yuhua, LiPeilin e Li Shi<strong>di</strong>ng, La nouvelle sociologie chinoise, CNRS É<strong>di</strong>tions, Paris2008 (traduzione <strong>di</strong> Hu Yu e Pierre Miége). L’originale cinese è apparsoin “Zhongguo shehuixue” [Sociologia cinese], n. 3, 2004 e riprende inparte l’articolo “Duchi li de cunzi de yanjiu” [Villaggi in città nel Sud dellaCina]. Per la nostra traduzione abbiamo utilizzato la versione francese.Per i temi trattati in questo articolo, si veda anche “Archivio <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>urbani e regionali”, n. 92, 2008, interamente de<strong>di</strong>cato alle trasformazioniurbanistiche nel Sud della Cina e in cui il tema dei “villaggi in città” èampiamente trattato (pp. 81-107) con un taglio meno sociologico e piùurbanistico. [N.d.T.]


96 saggio metropolitano 97IntroduzioneDiciassette anni fa ho tradotto La Fin des Paysans, l’opera ormai classica <strong>di</strong> Henri Mendras, il celebresociologo francese specialista del mondo rurale. Sequesta traduzione, pubblicata in Cina nel 1971, haattirato l’attenzione del mondo accademico, eranoperò in molti a ritenere che i problemi trattati nonriguardavano la realtà <strong>di</strong> un grande paese agricolocome la Cina. In seguito alla sua rie<strong>di</strong>zione nel 2005,il confronto con quest’opera è <strong>di</strong>ventato inevitabileper chiunque voglia stu<strong>di</strong>are la trasformazione dellecampagne cinesi. Infatti il cambiamento fondamentalerappresentato dalla “scomparsa dei conta<strong>di</strong>ni” e deivillaggi rurali è già iniziato in Cina.Da un lato, si tratta della scomparsa dei conta<strong>di</strong>ni:da circa vent’anni, più <strong>di</strong> 200 milioni <strong>di</strong> questi sono<strong>di</strong>ventati operai e, grazie al sistema <strong>di</strong> hukou, formanoun importante gruppo sociale <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni-operai.Secondo un’inchiesta dell’Ufficio nazionale <strong>di</strong> statisticarealizzato nel 2004 in 31 province tra circa 600.000famiglie conta<strong>di</strong>ne e in 7100 villaggi, pressappoco120 milioni <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni erano partiti per andare alavorare in città, cioè il 24% della manodopera rurale.Se a questi si aggiunge i rurali impiegati nelle imprese<strong>di</strong> borgo o <strong>di</strong> paese, l’insieme dei conta<strong>di</strong>ni-operairaggiunge le 200 milioni <strong>di</strong> unità, che lavoranoprincipalmente nei settori manifatturiero, e<strong>di</strong>le e deiservizi, con un’età me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> ventotto anni e un livelloscolastico secondario. H. Mendras, La Fin des Paysans, Actes Sud, Arles 1984. Certificato <strong>di</strong> residenza che <strong>di</strong>stingue tra rurali e urbani e che dàaccesso al lavoro, all’alloggio, all’istruzione e alla protezione sociale, il cuilivello e <strong>di</strong>ritto sono ancora definiti dalla <strong>di</strong>fferenza tra lavoratore agricoloe non agricolo. [N.d.T.]Gruppo <strong>di</strong> ricerca dell’Ufficio degli affari <strong>di</strong> Stato, ZhongguoDall’altro lato, si tratta della scomparsa dei villaggi. Trail 1985 e il 2005 i villaggi che avevano un’esistenzaamministrativa hanno visto il loro numero ridursidrasticamente da 940.617 a 539.210. Un processo chesi è accelerato particolarmente in questi ultimi anni acausa della rapida urbanizzazione e della fusione deivillaggi, tanto che nel 2005 si contavano 170.047villaggi amministrativi in meno rispetto al 2001– erano spariti cioè in me<strong>di</strong>a 116 villaggi al giorno. Eparecchi villaggi millenari vengono smantellati senzarumore, senza canti funebri, senza elogi, senza rituali,senza neppure un ad<strong>di</strong>o. Le sole cerimonie visibilisono quelle che segnano la posa della prima pietra, poil’inaugurazione e, infine, l’e<strong>di</strong>ficazione della civiltàmoderna sulle rovine dei villaggi.In La Fin des Paysans, Mendras scrive: «Uno odue miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni alla soglia della civiltàindustriale: è il problema più grande che, in questaseconda metà del XX secolo, il mondo attuale ponealle scienze sociali. Perché nel secolo scorso, messoa confronto con lo sviluppo accelerato dell’industria,la lenta evoluzione dell’agricoltura potevadare l’impressione <strong>di</strong> una rassicurante stabilità e <strong>di</strong>un equilibrio millenario. Di contro, con la febbreindustriale, la saggezza conta<strong>di</strong>na sembrava eterna:la città e l’industria attraevano tutte le energie, mala campagna alimentava sempre i sogni bucolici<strong>di</strong> una felicità possibile, <strong>di</strong> sicurezza e <strong>di</strong> eternità.Ora, le regole implacabili dell’industrializzazione edell’urbanizzazione spezzano l’equilibrio esistente etrasformano l’insieme della struttura sociale». Se per l’insieme della Cina questa mutazione si ènongmingong <strong>di</strong>aoyan baogao [Rapporto <strong>di</strong> ricerca sui conta<strong>di</strong>ni-operai inCina], Zhongguo yanshi chubanshe, Beijing 2006. H. Mendras, op. cit.svolta in tempi lunghi a causa del carattere inegualedello sviluppo locale, alcune regioni più sviluppatene conoscono già un’accelerazione. Molti pensavanoche i due processi – scomparsa dei conta<strong>di</strong>ni escomparsa dei villaggi – fossero in realtà la stessacosa, cioè che ci saremmo trovati <strong>di</strong> fronte alladesertificazione rurale, all’industrializzazione e allatrasformazione del sistema dell’hukou. Ora in realtàil villaggio, che è contestualmente istituzione <strong>di</strong> vitae rete <strong>di</strong> relazioni sociali, conosce un’agonia piùlenta e <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong> quella dei conta<strong>di</strong>ni. L’urbanizzazionenon si limita ad accompagnare l’industrializzazione,presenta anche una traiettoria <strong>di</strong>fferente.Oggetto della ricerca e metodologiad’indagineOggetto e problemiFenomeno originale legato alla rapida urbanizzazionedella Cina, i “villaggi in città” (cheng zhongcun) offrono un’eccellente accesso allo stu<strong>di</strong>o dellascomparsa dei villaggi in Cina. Essi sono il prodottodell’integrazione <strong>di</strong> alcuni antichi villaggi con lacittà grazie alla rapida espansione urbana. Alcuni<strong>di</strong> questi villaggi si situano ad<strong>di</strong>rittura nei centricittà.Contestualmente, a causa delle <strong>di</strong>fferenze trala città e la campagna nell’ambito della proprietàfon<strong>di</strong>aria, dell’hukou e della protezione sociale, i“villaggi in città” costituiscono in effetti uno “spaziofluttuante” dentro le città, che acquistano un corpourbano e uno rurale. Essi ci appaiono molto lontanida quanto avevamo immaginato: nelle zone centralie prospere, tra alti immobili accostati uno all’altro,ogni “villaggio in città” rassomiglia a un mostro<strong>di</strong> cemento armato <strong>di</strong> 20 metri d’altezza e alcunichilometri <strong>di</strong> <strong>di</strong>ametro. La sorpresa non si fermaqui: questo mostro <strong>di</strong> cemento non è stato costruitoda un’impresa o una collettività economica mada famiglie, ognuna delle quali ha tirato su il suopalazzo. Tuttavia, a causa della ren<strong>di</strong>ta dei suolie degli affitti degli alloggi, tali costruzioni hannoperso la loro originalità ed estetica e sono prive delsignificato culturale che avevano gli inse<strong>di</strong>amentiarmoniosi dei villaggi tra<strong>di</strong>zionali. Tra e<strong>di</strong>fici fra loro incollati e uguali, <strong>di</strong> 7 o 8 piani,la larghezza della strada conserva il vecchio intervallotra le residenze, cioè tra 1,5 e 2 metri. Tuttavia,a partire dal primo piano, gli e<strong>di</strong>fici posti ai due latidalla strada si accostano. In questo modo ogni spaziolasciato aperto viene imme<strong>di</strong>atamente riunito,formando un paesaggio che i locali chiamano «e<strong>di</strong>ficicon le facciate incollate», «e<strong>di</strong>fici che si abbracciano»,«una sola linea del cielo». La maggior partedegli abitanti ha bisogno <strong>di</strong> lasciare le luci accesedurante il giorno e, in questi villaggi, le stradehanno l’aspetto <strong>di</strong> paesaggi sotterranei. Eppure, inun tale ambiente, i villaggi attirano folla e attivitàcommerciali. Insegne, drogherie e servizi animanoqueste vie strette e buie. Gli abitanti del villaggiocon<strong>di</strong>vidono lo spazio con parecchie decine <strong>di</strong> migliaia<strong>di</strong> inquilini venuti da fuori per lavorare.I “villaggi in città” sono molto simili a rovine storichee, contestualmente, a entità nuove nate dallarapida urbanizzazione. Talvolta le storie stravagantiche su <strong>di</strong> essi circolano sono state oggetto <strong>di</strong> critichesemplicistiche da parte dei me<strong>di</strong>a e dei ricercatori,uno dei quali ha scritto: «La pianificazione, lacostruzione e la gestione dei “villaggi in città” sono Li Peilin, Wang Chunguang, Xinshehui jiegou de shengzhang<strong>di</strong>an.Xiangzhen qiye shehui jiaohuanlun [Punto <strong>di</strong> sviluppo <strong>di</strong> una nuova strutturasociale. Scambi sociali nelle imprese <strong>di</strong> borgo e <strong>di</strong> villaggio], Shandongrenmin chubanshe, Jinan 1993.


98 saggio metropolitano 99state condotte in modo <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nato, le popolazionimigranti non smettono <strong>di</strong> crescere; le camere inaffitto con le finestre rivolte all’interno non soltantosono degli spazi propizi allo sviluppo della prostituzione,ai giochi illegali, allo spaccio <strong>di</strong> droga, manascondono pure le famiglie numerose che violanola politica del figlio unico. […] Tutto ciò contrastamolto con l’ecologia, la pulizia e il comfort dellacittà moderna». Un giornalista descrive così i conta<strong>di</strong>ni che hannoabbandonato il lavoro dei campi: «Essi non hannobisogno <strong>di</strong> lavorare, perché i premi <strong>di</strong>stribuitidal villaggio così come gli affitti sono sufficientia eliminare qualsiasi loro preoccupazione. […]Diventano un gruppo particolare della città – nefrequentano i luoghi pubblici, ma non hanno nél’abbigliamento adatto né il comportamento richiesto.Al contrario, <strong>di</strong>ffondono in tutto il villaggioil concetto <strong>di</strong> clan, la credenza negli spiriti e lavenerazione <strong>di</strong> Buddha. Le città evolvono, i villaggispariscono tra queste due tendenze e i suoi abitantisi sdoppiano. Le persone anziane trascorrono gliultimi anni della loro vita davanti al tavolo <strong>di</strong>mahjong; gli adulti poco qualificati ed espulsi dall’industriainnovativa <strong>di</strong>fendono lo status quo, ogninovità politica relativa ai “villaggi in città” costituisceuna minaccia alle loro con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> esistenza». Il 6 settembre 2000 la municipalità <strong>di</strong> Canton haorganizzato una riunione <strong>di</strong> lavoro sulla costru- Ma Zhongzhu, “Gaizao chengzhongcun shi jianshe xiandaihuachengshi de xuyao” [Per la costruzione <strong>di</strong> città moderne è una necessitàtrasformare i villaggi urbani], in “Guangdong jingshen wenmingtongxun” (Comunicato stampa sulla cultura spirituale nel Guangdong),e<strong>di</strong>zione speciale, n. 87-88, 2000. Antico gioco cinese da tavolo. [N.d.T.] Dichiarazione del giornalista all’autore (2000).zione e la gestione della città e, per i cinque annisuccessivi, ha deciso <strong>di</strong> accelerare il processo <strong>di</strong>unificazione della città e della campagna, e <strong>di</strong> creareun sistema urbano armonioso.Un impegno importante consiste nel completare latrasformazione dei “villaggi in città” situati nell’areacentrale, nel promuovere la costruzione <strong>di</strong> abitazioniper i conta<strong>di</strong>ni all’interno dell’agglomerato,nel proporre una riconversione professionale deiconta<strong>di</strong>ni senza terra che non esercitano più l’attività<strong>di</strong> agricoltori e nel realizzare un miglior governodell’urbanizzazione. 10 Il sindaco <strong>di</strong> Canton, tuttavia,per bilanciare questa forma <strong>di</strong> pianificazioneottimista, nel corso <strong>di</strong> un’intervista accordata a ungiornalista ha dato prova <strong>di</strong> prudenza e riservatezza.A suo avviso, la trasformazione dei “villaggi incittà” «non sarà imme<strong>di</strong>ata, forse saranno necessarieuna o due generazioni. La realizzazione <strong>di</strong> questatransizione non potrà avvenire nello spazio <strong>di</strong> tre,cinque o <strong>di</strong>eci anni». 11Da un punto <strong>di</strong> vista macrosociologico, l’urbanizzazioneè un passaggio obbligato per delocalizzarel’eccesso <strong>di</strong> mano d’opera rurale, aumentare il red<strong>di</strong>todei conta<strong>di</strong>ni e trasformare la struttura socialedei villaggi. In più, abbiamo la tendenza a credereche l’urbanizzazione sia un processo che riempie <strong>di</strong>gioia, felicità e sogni i conta<strong>di</strong>ni. Tuttavia, comespiegare nel corso <strong>di</strong> quest’ultima fase <strong>di</strong> urbanizzazionela scomparsa dei villaggi rurali, cioè la <strong>di</strong>fficoltàche incontra la mutazione <strong>di</strong> una millenariaciviltà del villaggio? La domanda che ci poniamo,10 Zheng Yi et al., “Guangzhou gaizao chengzhongcun mubiaoque<strong>di</strong>ng” [Definizione degli obiettivi <strong>di</strong> trasformazione dei villaggi urbania Canton], in “Nanfang doushi bao”, 6 settembre 2000.11 Intervista con il sindaco <strong>di</strong> Canton (2000).e alla quale cerchiamo <strong>di</strong> rispondere in questoarticolo, è la seguente: perché nella storia mon<strong>di</strong>aledell’urbanizzazione i “villaggi in città” sono apparsiunicamente nel delta del fiume delle Perle, la regionepiù sviluppata della Cina? È una scelta razionaledei conta<strong>di</strong>ni o una costruzione irrazionale? Qualisono le <strong>di</strong>namiche o le funzioni che permettonola persistenza <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> villaggi? Da doveiniziare per avviare la loro trasformazione?Meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> ricercaPoiché l’oggetto <strong>di</strong> questo stu<strong>di</strong>o è un processo – lascomparsa dei villaggi –, l’osservazione partecipanteci è apparsa come la metodologia <strong>di</strong> ricerca socialepiù appropriata. Un’indagine me<strong>di</strong>ante questionarioeffettuata in un dato momento presenta uncarattere limitato e impe<strong>di</strong>sce l’analisi <strong>di</strong> un processo.Anche se il metodo del questionario è moltoprogre<strong>di</strong>to nel quadro delle ricerche sulle traiettorie<strong>di</strong> vita, i dati quantitativi sembrano non renderesempre conto della sostanza e della vita relativi aiprocessi. Tuttavia, lo stu<strong>di</strong>o dei casi prodotti dall’osservazionerischia <strong>di</strong> chiudersi nelle particolarità <strong>di</strong>ognuno <strong>di</strong> essi a scapito <strong>di</strong> una comprensione piùgenerale. Forse il nostro obiettivo è troppo vasto.La nostra ambizione è <strong>di</strong> formulare un “tipo ideale”dotato <strong>di</strong> una capacità <strong>di</strong> comprensione generale,così da rendere conto della fine dei villaggi in Cina.Il metodo è ispirato alle teorie <strong>di</strong> Max Weber, mapresenta qualche <strong>di</strong>fferenza.Come molti pensatori tedeschi, Weber è stato profondamentesegnato dalla filosofia speculativa, secondola quale più un pensiero è formalizzato e piùcorrisponde alla logica delle idee, più è suscettibile<strong>di</strong> riflettere la natura delle cose. Questo <strong>di</strong>fferisce inmaniera considerevole dall’approccio ai fatti socialidel sociologo francese Émile Durkheim, a sua voltainfluenzato dall’empirismo. Per Durkheim, più unateoria è provata dall’esperienza e più si avvicina allaverità; <strong>di</strong> fronte a realtà complesse e <strong>di</strong>versificate,non è possibile usare la logica filosofica. Per Weber,al contrario, l’essenza trascende l’esperienza. Inquesto modo solo la formalizzazione delle azionidotate <strong>di</strong> fini e <strong>di</strong> senso può essere analizzata. Mail “tipo ideale” che noi vogliamo formulare non èun’architettura astratta costruita dai filosofi, è qualcosadotata <strong>di</strong> carne e <strong>di</strong> sangue, viene dalla vita etuttavia non può essere ridotta a vita.Chiamiamo Yang Cheng 12 questo “tipo ideale” <strong>di</strong> villaggioche sta sparendo nella regione del delta del fiumedelle Perle. Se ci serviamo <strong>di</strong> un villaggio reale dausare come “tipo ideale”, numerosi sono gli altri chehanno fornito materiali al nostro stu<strong>di</strong>o. Abbiamoestratto le particolarità e le storie più rappresentativeda tutti questi materiali e ne abbiamo fatto una sintesi.Si tratta <strong>di</strong> storie vere, non inventate, ma abbiamolasciato da parte i dettagli per far emergere meglio lelinee <strong>di</strong> forza dei problemi in esame.Per quanto riguarda il processo <strong>di</strong> urbanizzazionedei villaggi dopo le riforme, sono già state realizzateparecchie ricerche sociologiche <strong>di</strong> vario tipo.Citiamo, per esempio, lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Zhou Daming 13sul villaggio <strong>di</strong> Naujing a Canton, quelli effettua-12 Yang Cheng significa alla lettera “città delle capre” ed è uno deisoprannomi <strong>di</strong> Canton.13 Zhou Daming, “Chengxiang jiehebu shequ de yanjiu: guangzhounanjingcun wushinian de bianqian” [Stu<strong>di</strong>o sui quartieri al confine trala città e la campagna: cinquanta anni <strong>di</strong> cambiamenti del villaggio <strong>di</strong>Nanjing a Canton], in “Shehuixue yanjiu”, n. 4, 2001.


100 saggio metropolitano 101ti da Wang Chunguang, 14 Xiang Biao 15 e WangHansheng 16 sul villaggio <strong>di</strong> Zhejiang a Pechino,dove si concentrano conta<strong>di</strong>ni migranti e piccolicommercianti; la ricerca <strong>di</strong> Zhe Xiaoye 17 sul villaggioWenfreng, molto industrializzato e situato nelSud-est della Cina; quella <strong>di</strong> Lu Xueyi 18 sul villaggioXingrenzhuang all’inizio dell’industrializzazione delNord; quella <strong>di</strong> Wang Mingming 19 sui villaggi Meicune Tangdong nel Sud della provincia sviluppatadel Fujian e, infine, la ricerca su otto villaggi <strong>di</strong>quattro province tra le meno sviluppate, <strong>di</strong> cui sonooriginari numerosi conta<strong>di</strong>ni-operai (mingong). 20Attraverso la costruzione <strong>di</strong> un “tipo ideale” perogni anello della catena del processo <strong>di</strong> urbanizzazionedei villaggi noi possiamo rendere conto, suun piano teorico, della vita ma anche della ricchezza<strong>di</strong> tale processo.Dal punto <strong>di</strong> vista dell’oggetto della ricerca, non abbiamoavuto con gli abitanti dei villaggi maggiori14 Wang Chunguang, Shehui liudong yu shehui chongzu. Jingchengzhejiangcun yanjiu [Mobilità sociale e riconfigurazione sociale. Stu<strong>di</strong>odel villaggio <strong>di</strong> Zhejiang nella capitale], Zhejiang Renmin chubanshe,Hangzhou 1995.15 Xiang Biao, “Shequ hewei? Dui Beijing liudong renkou juju<strong>di</strong> deyanjiu” [Che cosa fanno i quartieri? Stu<strong>di</strong>o dei quartieri delle popolazionimigranti], in “Shehuixue yanjiu”, n. 6, 1998.16 Wang Hansheng et al., “Zhejiangcun: Zhongguo nongmin jinruchengshi de yizhong teshu fanghi” [Il villaggio <strong>di</strong> Zhejiang: un modod’accesso particolare dei conta<strong>di</strong>ni nella città], in “Shehuixue yanjiu”, n.1, 1997.17 Zhe Xiaoye, Cunzhuang de zaizao: yge chaoji cunzhuang de shehuibianqian [Come si reinventa un villaggio e la trasformazione sociale <strong>di</strong> unvillaggio], Zhongguo shehui kexue chubanshe, Bejijng 1997.18 Lu Xueyi, Neifa de cunzhuang: Xingrenzhuang [Villaggio spontaneo:Xingrenzhuang], Shehui kexue wenxian chubanshe, Bejijng 2001.19 Wang Mingming, Cunluo shiye zhongde wenhua yu quanli. Minnan sancun<strong>di</strong>aocha [Cultura e potere nell’approccio rurale. Inchiesta su tre villaggi nelsud del Fujian], anlian shu<strong>di</strong>an, Beijing 1997.20 Huang Ping, Xuqiu shengcun: dangdai zhongguo nongcun waichu renkoude shehuixue yanjiu [Per sopravvivere. Su<strong>di</strong>o sociologico sulla popolazione deiconta<strong>di</strong>ni migranti in Cina], Yunnan Renmin chubanshe, Kumming 1997.<strong>di</strong>fficoltà rispetto alle imprese, gli organismi pubblicie quelli <strong>di</strong> quartiere. Tuttavia, i “villaggi in città”si collocano al livello più basso della società cinese.I ricercatori che non provengono da questi villaggisono generalmente considerati come appartenentialle classi superiori della società o, almeno, ai verticidel sistema e sono accolti con rispetto e serietà.Essendo poi i villaggi delle società basate sulle conoscenzefamiliari, <strong>di</strong> clan ecc., è facile socializzarepassando attraverso le relazioni personali. I conta<strong>di</strong>nisono persone semplici, ospitali e poco <strong>di</strong>ffidenti.Contrariamente alle imprese che spesso riservanoai ricercatori uno sguardo vigile e sospettoso, inquesto secondo tipo d’inchiesta si rischia <strong>di</strong> passareper persone che invadono l’altrui vita privata oper giornalisti con una videocamera nascosta allaricerca <strong>di</strong> scandali. Anche se passano attraverso uncanale ufficiale, gli intervistatori si trovano spesso<strong>di</strong> fronte a risposte generiche, preconfezionate.Infine, nei villaggi non c’è una <strong>di</strong>stinzione chiara enetta tra vita privata e attività produttiva, tra spaziper la famiglia e spazio <strong>di</strong> lavoro, tra pubblico e privato.È relativamente facile avvicinare l’intervistatoa partire dai fatti quoti<strong>di</strong>ani e, in seguito, spostarel’attenzione sul tema centrale dell’indagine. Nel villaggio,poi, i segreti hanno vita breve. Ogni donna èuna specie <strong>di</strong> Sherlock Holmes locale, dotata <strong>di</strong> unaforte capacità <strong>di</strong> decifrare i segreti. Anche quandosi tratta <strong>di</strong> documenti scritti, non è <strong>di</strong>fficile farseliprestare e fotocopiarli. Tuttavia, appena un’indaginecoinvolge la polizia, le cose si complicano.Avremmo voluto fotocopiare i registri degli hukou ei documenti <strong>di</strong> residenza temporanea degli affittuari<strong>di</strong> un villaggio, ma nonostante tutti i nostri sforzinon ci siamo riusciti.Per portare a termine questa ricerca, abbiamo avutoaccesso ai villaggi senza troppe <strong>di</strong>fficoltà, passandoattraverso i canali amministrativi e le relazionipersonali. La prima volta, nell’ottobre del 2001,abbiamo svolto la nostra inchiesta in nove “villaggiin città” della municipalità <strong>di</strong> Canton: Shipaicum,Tangxiacun, Yaotaicun, Sanyuanlicun, Tongdecun,Xiancuncun, Yangjicun, Linhecun e Liedecun.Abbiamo somministrato le interviste a un certo numero<strong>di</strong> funzionari, quadri del villaggio e residenti– sia ad abitanti originari (gli ex conta<strong>di</strong>ni) sia alavoratori provenienti da altre regioni. In seguito,abbiamo definito una griglia per le interviste <strong>di</strong>rettivee poi incaricato degli studenti (previa formazione)a effettuarle.La prima serie <strong>di</strong> interviste ha dato luogo a trascrizioni<strong>di</strong> 400.000 parole ciascuna. A quel punto cisiamo resi conto che un certo numero <strong>di</strong> interviste<strong>di</strong> buona qualità mancava <strong>di</strong> profon<strong>di</strong>tà, perché glistudenti, seguendo troppo rigidamente la griglia,finivano per voler esplorare tutti gli argomenti.L’abbiamo allora mo<strong>di</strong>ficata ponendo l’accento sulle“storie” <strong>di</strong> vita quoti<strong>di</strong>ana e orientato l’indaginesulle “storie <strong>di</strong> vita”. In tal modo abbiamo ottenutodei “racconti” <strong>di</strong> 800.000 parole e ampliatola nostra ricerca toccando 40 villaggi urbani. Nelcorso della redazione del presente articolo siamotornati <strong>di</strong>verse volte “sul campo” per ottenere delleinformazioni aggiuntive.Secondo le statistiche, la città <strong>di</strong> Canton conta 139“villaggi in città”. Tali villaggi possono essere <strong>di</strong>stintisecondo tre tipologie: a) i villaggi che si trovanonelle zone urbane prospere e che non utilizzanomolta terra per fini agricoli; b) quelli che si trovanoal confine con la città e conservano ancora alcuneterre de<strong>di</strong>cate all’agricoltura; c) quelli che sonosituati nei sobborghi più lontani e con terre in granparte coltivate. Nella nostra ricerca ci occupiamosolo della prima categoria, in quanto presenta lecaratteristiche più salienti relative al processo <strong>di</strong>scomparsa dei “villaggi in città” e questa fotografaall’incirca un terzo dei 139 villaggi urbani <strong>di</strong>Canton.Il villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng <strong>di</strong>venta un“villaggio in città”: l’impatto dei beneficirealizzati sui terreni e sugli affittiPer comprendere le ragioni per cui sono apparsied esistono i “villaggi in città”, è necessario prima<strong>di</strong> tutto affrontare le caratteristiche particolari deldualismo città/campagna in Cina. Se si può parlaredell’esistenza <strong>di</strong> un’“economia mista” tra mercato ere<strong>di</strong>stribuzione, allora il “villaggio in città” può essereconsiderato un quartiere che prende in prestitodalla città e dal villaggio le sue specificità. Il modo<strong>di</strong> vita nel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng è completamenteurbano. Gli abitanti risiedono tutti nel centrocitta<strong>di</strong>no; non praticano più, o quasi, le attivitàagricole; sono tutti, o quasi, registrati nel sistemahukou come citta<strong>di</strong>ni. Perché allora continuare congli appellativi <strong>di</strong> villaggio e “abitante originario delvillaggio”? Gli aspetti prima elencati non sono proprioi criteri sui quali generalmente ci appoggiamoper riconoscere i villaggi e i suoi “abitanti originari”?Il termine mingong non si spiega solo con ilpossesso <strong>di</strong> un hukou rurale?Le caratteristiche del villaggio <strong>di</strong> Yang Chengrivelano alcuni elementi <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinzione tra cittàe campagna. Per prima cosa bisogna considerarele <strong>di</strong>fferenze tra i regimi <strong>di</strong> proprietà deisuoli. Secondo la legge, i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietà deiterreni in città appartengono allo Stato, mentrenella campagna appartengono collettivamente aivillaggi. Nel corso del processo <strong>di</strong> urbanizzazio-


102 saggio metropolitano 103ne, lo Stato può espropriare ai conta<strong>di</strong>ni le terreagricole ma non i terreni sui quali sono costruitele loro abitazioni, perché esse sono considerate risorsevitali. Di conseguenza, fino a oggi, i terrenisui quali sono costruite le abitazioni in<strong>di</strong>vidualio collettive dei “villaggi in città” accorpati allecittà stesse appartengono sempre collettivamenteal villaggio. Vedremo in seguito l’importanza ele ripercussioni <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>fferenze <strong>di</strong> regimi <strong>di</strong>proprietà.La seconda categoria <strong>di</strong> elementi riguarda le<strong>di</strong>fferenze nei sistemi <strong>di</strong> gestione amministrativa.Secondo la legge, i quartieri residenziali sonogestiti da comitati, organismi che rappresentano ilgoverno locale, essendo le spese <strong>di</strong> gestione a caricodel budget del governo; invece nei villaggi, che<strong>di</strong>pendono dalla responsabilità dei suoi collettivi– organizzazioni autonome degli abitanti originaridel villaggio –, le spese sono a carico <strong>di</strong> detticollettivi (la gestione in larga parte è separata dalsistema urbano e autorganizzata). Ciò rappresentaun elemento fondamentale nella costituzione del“sistema <strong>di</strong> villaggio - unità <strong>di</strong> lavoro” che analizzeremopiù avanti.La terza categoria <strong>di</strong> elementi riguarda lo statutodegli abitanti originari dei villaggi ex agricoli,sistema legato allo stesso tempo al regime <strong>di</strong> proprietàdella terra e alla struttura amministrativa. Lepersone sono portate a credere che l’hukou costituiscauna barriera forte all’urbanizzazione e che laconversione dell’identità dei conta<strong>di</strong>ni consista nellasostituzione <strong>di</strong> un hukou rurale in uno urbano. Segli abitanti originari dei “villaggi in città” hannoquasi tutti già acquisito un hukou urbano, hannoperò conservato – nonostante l’esproprio dei loroterreni agricoli da parte dello Stato – il loro statuto<strong>di</strong> “abitanti originari”, per essi molto più importantedell’hukou. Grazie alla loro appartenenza originariaal villaggio, infatti, sono attori della potenteeconomia collettiva dello stesso, che dà loro unaposizione economica molto <strong>di</strong>versa da quella degliaffittuari non originari, ugualmente citta<strong>di</strong>ni. Diconseguenza, preferiscono essere “abitanti originari”piuttosto che citta<strong>di</strong>ni.Trattandosi <strong>di</strong> <strong>di</strong>sposizioni applicate in modoeguale in tutto il paese, ci si chiede: perché questaformazione architettonico-urbanistica è apparsanel delta del fiume delle Perle con due specifichecaratteristiche, l’estrema densità e l’ottimizzazionedello sfruttamento dei suoli? I conta<strong>di</strong>ni non sisono resi conto che questa “mostruosità”, costruitacontro le regole dell’habitat umano, è fin dallanascita votata a una vita effimera e a una <strong>di</strong>struzionefinale? Anche dal punto <strong>di</strong> vista dell’interesseeconomico, perché i conta<strong>di</strong>ni non cercano <strong>di</strong>rendere la propria abitazione più elegante? Ciòpermetterebbe <strong>di</strong> aumentare gli affitti, come fannoi promotori <strong>di</strong> residenze moderne... È forse perchéquesti abitanti originari non <strong>di</strong>spongono delcapitale finanziario dei promotori immobiliari, néconoscono le loro intenzioni?Di fronte a queste domande, sono numerosi iricercatori che sviluppano le loro analisi a partiredai cambiamenti <strong>di</strong> sistema. Spiegano quanto staaccadendo partendo dalla constatazione dell’enormeforbice esistente tra la rapi<strong>di</strong>tà con la qualeprocede l’espansione urbana e le trasformazioni <strong>di</strong>un sistema <strong>di</strong> villaggio pericolosamente arretrato.Tale <strong>di</strong>vario alimenta le contrad<strong>di</strong>zioni e i conflittitra la razionalità sociale dell’urbanizzazione el’azione in<strong>di</strong>viduale irrazionale dei conta<strong>di</strong>ni. Il“villaggio in città”, in base a questo ragionamento,sarebbe il prodotto <strong>di</strong> tali contrad<strong>di</strong>zioni econflitti. Noi, per far emergere le ragioni per cuiquesti “villaggi in città” sono apparsi, preferiamoadottare il punto <strong>di</strong> vista della razionalità dellescelte in<strong>di</strong>viduali, così da comprendere perchéhanno <strong>di</strong>fficoltà a trasformarsi.Appoggiandosi sulla razionalità delle scelte in<strong>di</strong>viduali,un insieme architettonico e un sistema <strong>di</strong>villaggi come Yang Cheng appaiono come il frutto<strong>di</strong> una ricerca tesa a massimizzazione i profittidelle terre e degli affitti da parte dei conta<strong>di</strong>niin un contesto in cui il prezzo dei primi e deisecon<strong>di</strong> crescono molto rapidamente. Ma i conta<strong>di</strong>nisono provvisti <strong>di</strong> una razionalità economicache permetta la massimizzazione dei profitti? Nelmondo accademico questo argomento è da tempoal centro <strong>di</strong> una vivace polemica. La maggior partedei sociologi e degli antropologi che insistonosu concetti quali “piccole tra<strong>di</strong>zioni” e “saperilocali” è d’accordo sull’assenza <strong>di</strong> razionalità economicamoderna tra i piccoli conta<strong>di</strong>ni. Ma nonsi può valutare in modo arbitrario che sono irrazionali;la razionalità della piccola proprietà terrieraaltro non è che strumentale e si costruisceattraverso un sistema peculiare. Tra i conta<strong>di</strong>niricchi, si tratta <strong>di</strong> una filosofia <strong>di</strong> vita che traduceun’autarchia e un atteggiamento moderato (unaspecie <strong>di</strong> saggezza della moderazione), in un contesto<strong>di</strong> mancanza <strong>di</strong> accumulazione <strong>di</strong> capitale e<strong>di</strong> debole stimolo dei prezzi. Presso i conta<strong>di</strong>ni,conoscere le <strong>di</strong>fficoltà ed evitare i rischi rappresentanouna «razionalità esistenziale». 21Contro quest’altro tipo <strong>di</strong> razionalità espressa daipiccoli conta<strong>di</strong>ni, un buon numero <strong>di</strong> economisti e21 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973;A. Chayanov, The Theory of Peasant Economy, University of Wisconsin,Ma<strong>di</strong>son 1986; J. Scott, The Moral Economy of Peasant: Rebellion andSubsistence in the South.east Asia, Yale University Press, New Haven 1976.qualche storico hanno esposto e <strong>di</strong>feso un modelloteorico <strong>di</strong> razionalità economica per comprendereil loro comportamento economico universale. Glistu<strong>di</strong>osi avanzano l’idea che il potenziale <strong>di</strong> questinon è molto <strong>di</strong>verso da quello degli investitoriimmobiliari e che essi sono incapaci <strong>di</strong> liberarsidella logica esistenziale e optare per la ricerca dellamassimizzazione dei propri interessi in presenza <strong>di</strong>nuovi stimoli provenienti dall’esterno. 22 In realtà,dal punto <strong>di</strong> vista dell’analisi dei processi, questedue tesi non sono fondamentalmente né conflittualiné <strong>di</strong>fferenti. Appaiono tali solo se supponiamo cheuna mutazione importante porterà la transizione dauna “razionalità esistenziale” a una razionalità economica.Tra i gli abitanti originari <strong>di</strong> Yang Cheng,il cui villaggio è prossimo alla scomparsa, questamutazione ha avuto luogo.Secondo la nostra indagine, ciascuna famiglia<strong>di</strong> Yang Cheng possiede un immobile <strong>di</strong> circa70 m 2 <strong>di</strong> superficie, su un terreno <strong>di</strong> più <strong>di</strong> unfen. 23 Questo miracolo del fen creato dai conta<strong>di</strong>nisi regge sull’ottimizzazione dell’utilizzo delsuolo. Costruendo immobili da sei a otto piani,essi aumentano la superficie <strong>di</strong> costruzione finoa raggiungere tra i 400 e i 600 m 2 . In più, apartire dal primo piano, le facciate si sporgonoa tal punto da occupare ampiamente lo spaziopubblico al <strong>di</strong> sopra delle strade, senza intaccareil terreno propriamente stradale. Gli abitanti22 T. Schultz, Trasforming Tra<strong>di</strong>tional Agriculture, Yale University Press,New Haven 1964; S. Popkin, The Rational Peasant: The Political Economyof Rural Society in Vietnam, University of California Press, Berkeley 1979;Huang Zongzhi, Changjiang sanjiaozhou xiaonong jiating yu xiangcun fazhan[Foyers <strong>di</strong> piccoli conta<strong>di</strong>ni nel delta del Yangtsé e sviluppo rurale],Zhonghua Shuju, Beijing 2000.23 Fen e mu sono due misure tra<strong>di</strong>zionali per superfici: 100 fencorrispondono a un mu; 15 mu equivalgono a un ettaro.


104 saggio metropolitano 105originari generalmente abitano al pianoterra eaffittano il resto dell’immobile, mentre il localeche dà sulla strada viene affittato per attivitàcommerciali; gli affitti <strong>di</strong> questi spazi varianoconsiderevolmente in funzione della loro localizzazione.Al contrario, gli affitti degli appartamentivariano in genere tra i 10 e i 15 yuan perm 2 al mese, un prezzo a buon mercato dato che sitratta <strong>di</strong> immobili situati nel centro città. Di regola,ci sono due appartamenti per piano. Poichémolti affittuari sono lavoratori migranti celibi,ogni appartamento ospita spesso più persone inco-locazione. Abbiamo notato un fenomeno interessantein questi “villaggi in città”: l’affitto <strong>di</strong> unappartamento non è mai fisso. Se è una famigliaad affittarlo, il canone mensile è <strong>di</strong> 600 yuan, mase quattro persone sono in co-locazione l’affittosale a 800 yuan, cioè 200 yuan a persona; cinqueco-locatari si <strong>di</strong>vidono 900 yuan, cioè 180 yuana persona; sei 1000 yuan, cioè più <strong>di</strong> 160 yuana testa. Questa logica non continua all’infinito,perché gli “originari” hanno assimilato l’ideadell’ammortamento: si mantengono all’interno <strong>di</strong>un rapporto ottimale tra il numero dei locatari ela superficie dell’abitazione.La storia del villaggio Yang Cheng mi ricordala celebre teoria del mezzadro Zhang Wuchangapplicata all’Asia. Un tempo i ricercatori occidentaliconcordavano nel <strong>di</strong>re che un affitto stabilefavoriva la massimizzazione dei profitti più <strong>di</strong> unsistema <strong>di</strong> commissione sulla produzione agricola,perché un canone fisso spinge <strong>di</strong> più i mezzadria lavorare e a investire che non un pagamentoproporzionale alla produzione. Zhang Wuchangha <strong>di</strong>mostrato che in particolari con<strong>di</strong>zioni – forteconcorrenza e offerta abbondante <strong>di</strong> manod’opera a causa della mancanza, rispetto al numerodei conta<strong>di</strong>ni, <strong>di</strong> terre agricole <strong>di</strong>sponibili– il sistema <strong>di</strong> red<strong>di</strong>to fisso si presenta come uncontratto che favorisce la massimizzazione dellaproduzione. La logica della sua argomentazioneproviene da una considerazione semplice: se unproprietario affitta un grande terreno a un mezzadro,ha la garanzia <strong>di</strong> una commissione moltoelevata, perché la gestione <strong>di</strong> un vasto terrenopromette importanti profitti che il mezzadro nonvorrà abbandonare a vantaggio <strong>di</strong> altre attività.Ora, se il proprietario non si accontenta <strong>di</strong> ciò e<strong>di</strong>vide il suo terreno per affittarlo a due mezzadri,benché la sua percentuale <strong>di</strong> commissionescenda, la riduzione della quantità <strong>di</strong> terreni faaumentare il tasso d’investimento su un’unità<strong>di</strong> superficie e la crescita della produzione totalefarà aumentare il red<strong>di</strong>to totale del proprietario.Anche questa logica non si estende all’infinito: aun certo punto, il red<strong>di</strong>to totale del proprietarioraggiungerà il suo punto massimo; o, detto altrimenti,su una curva che rappresenta i profitti realizzatidal proprietario in funzione del numero<strong>di</strong> parcelle in cui <strong>di</strong>vide le sue terre, c’è un puntoche corrisponde al momento in cui i suoi profittiraggiungono il loro massimo senza minacciarel’equilibrio della concorrenza. In alcune regionidell’Asia, le riforme fon<strong>di</strong>arie fissano il tasso <strong>di</strong>commissione al 37,5% del red<strong>di</strong>to agricolo, vicinogiustamente al punto ottimale. Questi sono isuccessi della riforma fon<strong>di</strong>aria sotto l’impulsogovernativo in certi paesi, ma è egualmente unasorta <strong>di</strong> successo del contratto concorrenziale. 2424 Zhang Wuchang, Diannong lilun: yingyong yu yazhou de nongye heTaiwan de tu<strong>di</strong> gaige [Teoria del mezzadro: applicazione all’agricoltura in Asiae alle riforme fon<strong>di</strong>arie a Taiwan], Shangwu yinshuguan, Beijing 2000.C’è una similitu<strong>di</strong>ne tra la logica degli affitti delvillaggio Yang Cheng e questa relativa all’affittodelle terre <strong>di</strong> Zhang Wuchang. Infatti, datal’esistenza <strong>di</strong> un prezzo d’equilibrio nella liberaconcorrenza, sotto alcune costrizioni istituzionalie con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> gestione, accade che iltasso <strong>di</strong> profitto dei terreni urbani scenda eche l’affitto sparisca. In realtà non sparisce maicompletamente, è compensato con altri mezzi ograzie al prezzo <strong>di</strong> costo fissato dal governo. Lacostruzione <strong>di</strong> abitazioni nei “villaggi in città”non è in<strong>di</strong>pendente dai vincoli istituzionali: laregolamentazione fissa l’altezza degli immobili atre piani e mezzo, e la mancata osservanza dellanorma comporta una multa. Ma gli abitanti deivillaggi costruiscono tutti gli e<strong>di</strong>fici tra i 6 e gli8 piani, perché l’ammontare dei profitti generatidagli affitti supera largamente il costo dellacontravvenzione. Quando i prezzi del settoreimmobiliare si surriscaldano, tali abitazione nonnecessariamente contigue <strong>di</strong> 6-8 piani non possonovalere tanto quanto il prezzo d’equilibriodei red<strong>di</strong>ti delle terre. Sapendo che i 6 o 8 pianihanno già raggiunto il limite massimo tolleratodal governo, i conta<strong>di</strong>ni non possono fare altroche sfruttare al massimo gli spazi <strong>di</strong>sponibili percompensare la <strong>di</strong>fferenza tra i profitti sulla loroterra e il prezzo d’equilibrio della concorrenza.Ecco qui spiegata l’apparizione <strong>di</strong> mostruosità architettonichecosì evidenti nei “villaggi in città”:non volendo gli abitanti perdere i propri profittisugli affitti, in quanto il governo rifiuta <strong>di</strong> pagareindennizzi troppo alti, il solo mezzo rimastoloro per raggiungere o avvicinarsi al prezzod’equilibrio <strong>di</strong> mercato dei profitti della terra èquello <strong>di</strong> aumentare l’altezza degli immobili e, intal modo, i profitti sullo spazio affittato.Dal “villaggio - unità <strong>di</strong> lavoro”al “villaggio impresa”: vita comune,proprietà comune e premiIl “sistema dell’unità <strong>di</strong> lavoro” – danwei 25 – designaall’origine una forma <strong>di</strong> organizzazione dellestrutture statali nel quadro del sistema <strong>di</strong> re<strong>di</strong>stribuzioneeconomica. Su questo tema sono statecondotte numerose ricerche. 26 Nel sistema dell’unità<strong>di</strong> lavoro, le istituzioni dello Stato, le imprese <strong>di</strong>Stato e i servizi pubblici sono non soltanto unità <strong>di</strong>lavoro e <strong>di</strong> gestione ma anche unità <strong>di</strong> vita socialee <strong>di</strong> gestione politica. I loro membri ne <strong>di</strong>pendonofortemente in <strong>di</strong>versi ambiti: statuto sociale, impiego,pensionamento, salute e protezione sociale.Nei “villaggi in città” abbiamo scoperto un sistemasimile a questa forma <strong>di</strong> organizzazione: il sistemadel villaggio - unità <strong>di</strong> lavoro.Anche se gli abitanti originari dei villaggi nonhanno più terra da coltivare e molti non lavoranopiù nel villaggio, conservano dei legami <strong>di</strong> <strong>di</strong>pendenzastretta con esso, non solo a livello <strong>di</strong> relazioni25 Unità <strong>di</strong> lavoro (una grande impresa, una scuola ecc.), più cheluogo <strong>di</strong> lavoro e <strong>di</strong> produzione. Ma è ugualmente una unità <strong>di</strong> vita che sifa carico dei bisogni essenziali degli in<strong>di</strong>vidui (salute, istruzione, alloggiecc.). Le riforme hanno ri<strong>di</strong>mensionato le sue capacità <strong>di</strong> controllo.[N.d.T.]26 Walzer, Communist Neo-Tra<strong>di</strong>tionalism: Work and Authority in ChineseIndustry, University of California, Berkeley 1986; Li Hanlin, Xunqia xinde xietiao. Zhongguo chengshi fazhan de shehuixue [Alla ricerca <strong>di</strong> una nuovaarmonia. Analisi sociologica dello sviluppo delle città cinesi], Cehui chubanshe,Bejijing 1988; Lu Feng, “Danwei: yizhong teshu de shehui zuzhi” [Danwei:un’organizzazione sociale <strong>di</strong> tipo particolare], in “Zhongguo shehui kexue”,n. 1, 1989; Li Peilin et al., Zhuanxing zhongde zhongguo qiye. Guoyou qivezuzhi chuangxinlun [Aziende cinesi in transizione. Discussione sulla creativitàorganizzativa delle aziende <strong>di</strong> Stato], Shandong Renmin chubanshe, Jinan1992; Li Hanlin, “Zhongguo danwei xianxiang yu chenghsi shequ dezhenghe jizhi” [Il fenomeno dell’unità <strong>di</strong> lavoro e la <strong>di</strong>namica d’integrazionenei quartieri urbani], in “Shehuixue yanjiu”, n. 4, 1993; Li Peilin, Zhang Yi,Guoyou qiveshehui chengben fenxi [Analisi del costo sociale delle imprese <strong>di</strong> Stato],Shehui kexue wenxian chubanshe, Bejijng 2000.


106 saggio metropolitano 107affettive e sentimentali o <strong>di</strong> frequentazioni socialima anche sul piano economico.Questo sistema <strong>di</strong> villaggio - unità <strong>di</strong> lavoro èprodotto, da una parte, dalle reti <strong>di</strong> relazioni socialiche si formano nella vita comune nella gestione delvillaggio e, d’altra parte, dai “premi” <strong>di</strong>stribuitigrazie ai <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietà del collettivo sull’economiacollettiva. In questo sistema, i “villaggi in città”rassomigliano a isolati immersi nell’oceano urbano.Il mare è un mondo straniero, mentre gli isolatisono società in cui tutti si conoscono.La governance dei villaggi ha pochi punti in comunecon quella dei quartieri urbani, dove la competenzadel comitato <strong>di</strong> quartiere è limitata a un certo numero<strong>di</strong> servizi sociali come l’educazione, la sanità,la sicurezza, l’acqua, l’elettricità, le strade, l’ambientee il servizio militare, ambiti gestiti <strong>di</strong>rettamenteda organismi specializzati. Al contrario, nei villaggi,il comitato <strong>di</strong> villaggio, composto dagli abitantioriginari, è responsabile <strong>di</strong> tutto ciò che ha a chefare con la vita del villaggio, e il capo del villaggiodeve assumere una responsabilità illimitata come fail capo <strong>di</strong> una grande famiglia.Le spese <strong>di</strong> costruzione e <strong>di</strong> gestione dei comitati<strong>di</strong> quartiere sono finanziati dal budget dello Stato,mentre per i villaggi se ne fa carico il collettivodello stesso. Nel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng ci sono6000 abitanti originari e 30.000 lavoratori arrivatidalle altre province. Per gestire la vita comunitaria,la collettività recluta più <strong>di</strong> 100 agenti <strong>di</strong>sicurezza, una trentina <strong>di</strong> persone che svolgono attività<strong>di</strong> pulizia, 25 gestori <strong>di</strong> mercati, 6 ispettoridel planning familiare, una ventina <strong>di</strong> spazzini. Aciò si aggiungono le pensioni <strong>di</strong> più <strong>di</strong> un milione<strong>di</strong> anziani, le assicurazioni me<strong>di</strong>che, le allocazioniextrasalariali degli insegnanti delle scuole primarie,l’equipaggiamento <strong>di</strong> quest’ultima, la costruzione<strong>di</strong> strade e <strong>di</strong> linee <strong>di</strong> telecomunicazioni, icontributi per il servizio militare e le donazioni <strong>di</strong>sangue e, infine, i contributi per l’educazione superiore.Se i benefici annui netti dell’economia collettivaraggiungono all’incirca una me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> 100milioni <strong>di</strong> yuan, dal 12 al 15% <strong>di</strong> questa sommaè destinato alle spese pubbliche per le costruzionie i servizi. La percentuale è pressappoco la stessain tutti gli altri villaggi urbani. Per esempio, nelvillaggio <strong>di</strong> Stipai, che conta più <strong>di</strong> 9000 abitantioriginari e 40.000 lavoratori provenienti da altreregioni, i benefici netti annuali arrivano a più <strong>di</strong>90 milioni <strong>di</strong> yuan. Le entrate fiscali sono tra icinque e gli otto yuan. Le spese per l’amministrazionecorrente rappresentano parecchi milioni <strong>di</strong>yuan, le spese per i servizi sociali ammontano apiù <strong>di</strong> 10 milioni. Restano, quin<strong>di</strong>, da 40 a 50milioni <strong>di</strong> utili che possono essere <strong>di</strong>stribuiti sottoforma <strong>di</strong> premi. Questo farsi carico della vita dellacomunità da parte dei <strong>di</strong>rigenti del villaggio portacon sé la <strong>di</strong>pendenza degli stessi abitati ruraliverso l’unità <strong>di</strong> lavoro, la danwei, che costituisce ilvillaggio. Tuttavia esiste ugualmente una ragionepiù profonda <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>pendenza: il sistema deipremi è riservato soltanto ai citta<strong>di</strong>ni originari enon è aperto agli altri abitanti del villaggio.All’inizio, la fonte principale dei red<strong>di</strong>ti collettividel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng era costituita da impresecreate dalla collettività in settori a forte intensità<strong>di</strong> manodopera: filande, fabbriche <strong>di</strong> birra, cantieri,fornaci, fabbriche <strong>di</strong> tè, lavorazioni della pietra,industria dell’abbigliamento. Ma, a causa dell’altocosto della manodopera e del prezzo dei suoli,queste industrie a forte intensità <strong>di</strong> lavoro hannoconosciuto un declino e il “villaggio in città” hasubito un processo <strong>di</strong> deindustrializzazione. Oggigli oneri mensili <strong>di</strong> gestione degli immobili rappresentanola principale fonte <strong>di</strong> red<strong>di</strong>to del villaggio.La società cooperativa centrale gestisce l’economiacollettiva del villaggio e, sotto la sua autorità, dellecooperative economiche. Queste ultime <strong>di</strong>spongono<strong>di</strong> una contabilità autonoma e, per quanto riguardala gestione amministrativa, sono fortemente uniteal comitato <strong>di</strong> villaggio e ai gruppi <strong>di</strong> abitanti dellostesso. Qui si notano le tracce della vecchia strutturadei tre livelli <strong>di</strong> gestione che formavano la comunepopolare, la brigata <strong>di</strong> produzione e le équipe <strong>di</strong>produzione. Nei “villaggi in città”, le comuni popolarisi sono completamente <strong>di</strong>sintegrate, ma l’ere<strong>di</strong>tàdell’organizzazione in brigate e in équipe sonorimaste in pie<strong>di</strong>, costituendo la struttura a partiredalla quale i conta<strong>di</strong>ni si sono riorganizzati attraversocooperative. Gli abitanti originari dei villaggisono al tempo stesso soci della “società cooperativacentrale” e delle “cooperative economiche”.Questi due tipi <strong>di</strong> cooperative mettono in pratica unsistema che <strong>di</strong>fferisce sia dalle società per azioni sia dalleimprese private. In realtà, è il prodotto dell’unificazioneamministrativa e dell’economia <strong>di</strong> villaggio. Nelsistema delle società per azioni, un’azione rappresentauna voce, mentre in quello delle cooperative è unapersona specifica a rappresentare una voce. In più, nelsistema delle imprese private, gli azionisti possiedonol’impresa e hanno la possibilità <strong>di</strong> ritirare il lorocapitale. Nelle cooperative, gli abitanti del “villaggio incittà”, che sono soci, non hanno potere decisionale enon possono ritirare la loro partecipazione. Esiste peròun punto in comune con gli altri sistemi ed è rappresentatodal fatto che il possesso <strong>di</strong> quote permette agliabitanti dei villaggi <strong>di</strong> ricevere dei premi.La <strong>di</strong>stribuzione delle quote si effettua in base adue principi: a) secondo la residenza – cioè, ognicitta<strong>di</strong>no originario del villaggio, senza <strong>di</strong>stinzioni<strong>di</strong> età, possiede cinque quote e queste sono “quotepro capite”; b) in base all’anzianità: ogni anno dà<strong>di</strong>ritto a una quota chiamata “quota d’annata”. Unabitante originario non può detenere più <strong>di</strong> 25-30quote, siano esse pro capite o d’anno. Le quotepossono essere oggetto <strong>di</strong> successione, ma nonpossono essere cedute, né rimborsate, né utilizzateper saldare un debito. Poiché l’essenziale dei red<strong>di</strong>tidel “villaggio in città” proviene dalla gestione degliimmobili e non già dall’industria, le “quote da capitale”,le “quote tecniche” e le “quote <strong>di</strong> relazioni” 27non sono state prese in considerazione, contrariamentea quanto è accaduto nei villaggi industrialipiù sviluppati.In questi ultimi anni il villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng haconosciuto due importanti cambiamenti organizzativi.Il primo riguarda il sistema economico: la societàcooperativa centrale è stata sostituita da un gruppod’imprese; a scegliere questo cambiamento sono statigli abitanti originari del villaggio. Il secondo riguardala gestione amministrativa del villaggio: un comitato<strong>di</strong> quartiere ha preso il posto del collettivo degli abitantioriginari; quest’ultimo accomodamento istituzionale,però, è il risultato <strong>di</strong> una decisione governativa.Questi due cambiamenti si inscrivono in due processi:il primo è stato rapido sia nel merito sia nella forma,mentre il secondo ha conosciuto una <strong>di</strong>namica inversa.Nella trasformazione del sistema economico duranteil periodo 1994-1995, allo scopo <strong>di</strong> evitare l’insorgere<strong>di</strong> conflitti sul possesso <strong>di</strong> quote provocatidalle migrazioni degli abitanti originari dei villaggie l’arrivo <strong>di</strong> nuovi abitanti, oltreché precisare qualisono le frontiere della proprietà collettiva e dei27 Quote <strong>di</strong>stribuite a persone che non appartengono al villaggio eofferte sia per intrattenere delle relazioni e tessere dei legami (si offronoper esempio ai militari con il grado <strong>di</strong> ufficiali) sia per saldare, in parte,una transazione.


108 saggio metropolitano 109<strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietà, il villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng, allarichiesta dei primi e con il sostegno del governo,ha avviato una riforma del sistema dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong>proprietà detta “recisa con un colpo <strong>di</strong> coltello”,cioè applicata a tutti in maniera uguale. A partireda questo momento, sono stati applicati i seguentiprincipi: il numero delle quote non si moltiplicacon la nascita o l’arrivo al villaggio, né si riduce conla morte o la partenza dal villaggio. Ormai l’aumentoo la riduzione del capitale totale dell’economiacollettiva sono determinati dal numero <strong>di</strong> quotedetenute dai soci. Stabilire il numero <strong>di</strong> quote dapossedere ha permesso ai citta<strong>di</strong>ni dei villaggi rurali<strong>di</strong> accedere a un <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> proprietà quasi completo.Non solo ogni socio <strong>di</strong>spone <strong>di</strong> un <strong>di</strong>ritto sui benefici,ma è anche autorizzato a cedere le sue quote,a impegnarle e trasmetterle agli ere<strong>di</strong>. Il ritiro dellequote ha tuttavia luogo sotto alcune con<strong>di</strong>zioni.Così, il funzionamento dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietà nonsegue più il sistema ufficioso delle convenzionidegli originari abitanti del villaggio, ma ne applicaormai uno ufficiale retto dalla legge. Su questa base<strong>di</strong>venta logico che il funzionamento segua il modellodelle società anonime. Tuttavia, dato che questasocietà anonima attinge l’essenziale dei suoi red<strong>di</strong>tidalla gestione degli immobili senza prezzo <strong>di</strong> costo,i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> proprietà e i benefici possiedono uncarattere comunitario chiuso. L’apporto <strong>di</strong> capitaliesteri è dunque escluso, perché ciò comporterebbela trasformazione della struttura <strong>di</strong> proprietà e lacon<strong>di</strong>visione dei profitti.Il secondo cambiamento si è verificato nel campodella gestione amministrativa. Nel 2000, per accelerarel’urbanizzazione, il governo vara un progetto<strong>di</strong> rinnovo pianificato dei “villaggi in città”, esigendoda questi la separazione tra amministrazione edeconomia. Secondo tale progetto, l’organizzazioneeconomica collettiva deve essere gestita come unasocietà, e le competenze amministrative del vecchiocomitato degli abitanti originari del villaggio devonoessere trasferite al comitato <strong>di</strong> quartiere. Ora,quando abbiamo condotto la nostra inchiesta, questapolitica non si era ancora concretizzata a causadelle sostanziali trasformazioni dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> gestione.Se il villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng non è più incaricatodella registrazione della popolazione migrante,le altre funzioni sociali restano sempre sotto la suaresponsabilità. Il gruppo non è che un personaggiofantasma, perché il governo non sembra tantoimpaziente <strong>di</strong> liberare le risorse <strong>di</strong> budget necessarieper finanziare le spese pubbliche finora a carico delcomitato degli abitanti originari. La sostituzione deivillaggi con i quartieri doveva essere una trasformazioneistituzionale fondamentale, mirante allascomparsa dei “villaggi in città”; trasformazione chenon sembra aver prodotto gran<strong>di</strong> cose.Il sistema dell’unità <strong>di</strong> lavoro è posto <strong>di</strong> fronte allestesse sfide: che ciò avvenga nel quadro dei villaggio in quello delle imprese <strong>di</strong> Stato non ha importanza.L’esclusiva dei profitti e la ricerca dei vantaggisociali rafforzano la coesione interna, ma nellostesso tempo limitano la circolazione delle risorse eappesantiscono il costo della gestione del sociale. Lachiave per trasformare il sistema della danwei, chesi tratti <strong>di</strong> villaggi o <strong>di</strong> organizzazioni statali, nonrisiede in una semplice trasformazione superficialedel sistema, ma consiste nel trovare i mezzi <strong>di</strong> sostituzioneo per far sparire le spese sociali dei danwei.Nella transizione – da danwei composta da abitantioriginari del villaggio a impresa – in cui il villaggio<strong>di</strong> Yang Cheng è impegnato, se il costo dei servizisociali fosse stato preso in carico dal budget pubblico,si sarebbe verificato un miglioramento realedell’efficacia e dei benefici. Ora, secondo la nostraindagine, i quadri del villaggio non sembranomanifestare un grande entusiasmo nei confronti <strong>di</strong>questa prospettiva. Non sappiamo se ciò sia dovutoalla per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> forza del potere amministrativo oal fatto che lo sviluppo dell’economia del villaggio<strong>di</strong>penda dal sostegno <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> potere.Stratificazione e trasformazionenei villaggi in cittàSono quattro i fattori che contribuiscono allastratificazione sociale nel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng:l’identità, la proprietà immobiliare, il potere organizzativo,il capitale e il saper fare.Decisivo per l’identità è possedere lo statuto <strong>di</strong>abitante originario del villaggio. I red<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> coloroche non hanno questo titolo provengono unicamentedal loro lavoro, mentre i primi possono contaresu tre fonti <strong>di</strong> red<strong>di</strong>to: i premi, gli affitti e i red<strong>di</strong>tida lavoro – con i primi due, il più delle volte,ampiamente più alti non solo rispetto al red<strong>di</strong>todei lavoratori non originari del villaggio ma ancheai livelli salariali dei citta<strong>di</strong>ni me<strong>di</strong>. Molti abitantioriginari dei villaggi vivono con l’affitto e i premie conducono una vita oziosa, formando una nuovaclasse sociale. Anche quando possiedono il locale chedà sulla strada, lo affittano ad altri che in questomodo gestiscono l’attività commerciale; gli abitantioriginari dei villaggi <strong>di</strong>sdegnano queste attivitàfaticose che apportano profitti molto bassi e si consideranoappartenenti alle classi superiori del villaggio.Alcuni <strong>di</strong> loro, ricchi, hanno già acquistato unaltro alloggio in un ambiente più confortevole edelegante, ritenendo che mescolarsi con i lavoratorivenuti dall’esterno sia negativo per l’educazione e lacrescita dei propri figli.Tra gli abitanti originari dei villaggi, la stratificazionesi produce guidata da un potere che organizza.Se il villaggio de Yang Cheng è una minuscolasocietà, il suo sistema <strong>di</strong> gestione possiede numerosilivelli. La sola società cooperativa centrale è compostada <strong>di</strong>versi <strong>di</strong>partimenti: contabilità, gestionedegli immobili, risorse umane, amministrazione,consigli giuri<strong>di</strong>ci. Le cooperative economiche che ne<strong>di</strong>pendono possiedono ugualmente una strutturaa più livelli. Inoltre, il personale incaricato dellequestioni <strong>di</strong> sicurezza, <strong>di</strong> salute, <strong>di</strong> sorveglianza deimercati, <strong>di</strong> planning familiare, <strong>di</strong> educazione e <strong>di</strong>pensionamento è a carico degli abitanti originaridel villaggio, che <strong>di</strong>spongono <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenti risorsein termini organizzativi. Tali responsabilità sonomolto ben remunerate e assicurano a un <strong>di</strong>rigente,per esempio, un salario annuale <strong>di</strong> 100.000 yuan.L’effetto stratificante del potere organizzativo non siferma qui. I detentori del potere possono valorizzarela loro proprietà fon<strong>di</strong>aria e trasformare i lororisparmi in capitale attivo.Una <strong>di</strong>fferenziazione sociale si produce tra ilavoratori arrivati dall’esterno e che risiedono nelvillaggio, a seconda che <strong>di</strong>spongano o meno <strong>di</strong>capitale. Le dozzine <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> lavoratori chevivono nel villaggio possono essere sud<strong>di</strong>visi in duecategorie: quelli che sono dotati <strong>di</strong> un capitale perchéesercitano un’attività commerciale o nei servizi– e che in genere vengono chiamati impren<strong>di</strong>toriin<strong>di</strong>viduali (getihu); e quelli che non possiedonocapitali e che vivono unicamente grazie ai red<strong>di</strong>ti dalavoro. Va sottolineato che la <strong>di</strong>fferenza tra questedue categorie non è così netta come si potrebbepensare. Ciò si spiega, probabilmente, con il fattoche gli impren<strong>di</strong>tori in<strong>di</strong>viduali non gestiscono chepiccoli affari, nei quali spesso impiegano membridella loro famiglia; una volta pagati gli affitti e le


110 saggio metropolitano 111tasse, il loro red<strong>di</strong>to alla fine non è che leggermentesuperiore al livello dei salari generalmente percepitidai salariati. Intuiamo la complessità del settore terziario:nel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng, i proprietari deibeni immobiliari e i padroni dei piccoli commerci eservizi appartengono tutti a questo settore. Tuttavialo statuto economico e la posizione sociale dei duegruppi <strong>di</strong>fferiscono considerevolmente. Questa<strong>di</strong>fferenza è talvolta più importante <strong>di</strong> quella chesepara l’agricoltura e l’industria. Del resto, noi abbiamoanche osservato che in questa zona <strong>di</strong>namicaesiste una consistente “economia sommersa”, comeper esempio la locazione d’appartamenti, che nonemerge dalle statistiche del Pil.Infine, l’ultimo elemento <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziazione riguardai salariati, a seconda che essi siano dei lavoratorimanuali o possiedano un know-how tecnico. I lavoratorisi <strong>di</strong>stinguono in “colletti bianchi” e “collettiblu”. I colletti bianchi che risiedono a Yang Chengsono in genere tecnici, commercianti, insegnanti,me<strong>di</strong>ci, taxisti, e<strong>di</strong>tori, giornalisti e piccoli impiegatinelle imprese; i colletti blu spesso lavorano nelsettore manifatturiero, nell’e<strong>di</strong>lizia, nella ristorazione,nei trasporti ecc. A queste due popolazioni è necessarioaggiungere i “colletti rosa” – giovani donneche lavorano nei saloni <strong>di</strong> bellezza – e i “collettineri” – che si guadagnano la vita illegalmente.Durante la nostra indagine abbiamo notato una tendenzain via <strong>di</strong> sviluppo da qualche anno: una partecrescente <strong>di</strong> questi lavoratori non proviene più solodalle campagne ma anche da città piccole e gran<strong>di</strong>,e forse si sta delineando l’inizio <strong>di</strong> un nuovo tipo <strong>di</strong>mobilità professionale; un numero sempre crescente<strong>di</strong> persone abbandona le regioni o le città meno sviluppateo <strong>di</strong>namiche per recarsi in città più ricche. Ènecessario segnalare che nel villaggio <strong>di</strong> Yang Chengi colletti blu provengono specialmente dal mondorurale, mentre i bianchi sono più spesso dei citta<strong>di</strong>ni.Abbiamo presentato in questo modo l’attuale strutturasociale del villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng, ma questa,come sappiamo, non è mai fissa. Influenzato dallescelte razionali in<strong>di</strong>viduali, il processo <strong>di</strong> stratificazionenon produce una semplice riproduzionedella struttura sociale. Grazie al loro forte spiritod’innovazione o al loro know-how tecnico, i piccolicommercianti e i colletti bianchi beneficiano <strong>di</strong>eccellenti prospettive <strong>di</strong> ascesa sociale. Il villaggio<strong>di</strong> Yang Cheng ha visto emergere una serie <strong>di</strong> impren<strong>di</strong>toriche ce l’hanno fatta. Al contrario, gli appartenentialla classe superiore composta da coloroche vivono unicamente <strong>di</strong> ren<strong>di</strong>te dovute agli affittisi scontrano con le <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> trovare un impiegosod<strong>di</strong>sfacente, a causa della loro insufficiente qualificazione;l’ozio e una vita tranquilla hanno fattosparire il loro spirito d’intrapresa. Di conseguenza,essi rischiano realmente <strong>di</strong> conoscere una traiettoriasociale <strong>di</strong>scendente. Una parte <strong>di</strong> loro finirà per <strong>di</strong>ventaredei semplici guar<strong>di</strong>ani della civiltà agricola,incapaci <strong>di</strong> trasformare il loro statuto sociale.La rete delle relazioni sociali: le famigliesi <strong>di</strong>vidono e la ricchezza non va oltretre generazioniUn villaggio è una comunità <strong>di</strong> vita costituita dareti <strong>di</strong> relazioni sociali basate su legami <strong>di</strong> sangue,<strong>di</strong> parentela, <strong>di</strong> clan e <strong>di</strong> origine geografica. YangCheng non fa eccezione. Un tempo, durante il processo<strong>di</strong> organizzazione dei villaggi, le persone hannotentato <strong>di</strong> spezzare queste reti <strong>di</strong> relazioni socialiper sostituirle con legami più moderni, giuri<strong>di</strong>ci eamministrativi, o con delle forme <strong>di</strong> organizzazioneeconomica. Ma rari sono stati i successi. Inserite inqueste reti <strong>di</strong> relazioni, le strutture moderne introdottedall’esterno hanno subito delle trasformazioni<strong>di</strong>screte ma profonde. Così, i conta<strong>di</strong>ni migranti installatinelle città, che sono un po’ come dei “nuovihakka”, 28 sono riusciti a trasferire le loro reti socialiin città, dando vita a comunità come il villaggioZhejiang a Pechino. Molte persone non arrivano acomprendere perché queste reti rurali <strong>di</strong> relazionisociali conservino una tale forza.I mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vita nel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng, situatonel centro citta<strong>di</strong>no, sono già molto urbani, tuttaviala vecchia rete <strong>di</strong> relazioni sociali è sempreattiva. La comunità degli abitanti originari del villaggio<strong>di</strong> Yang Cheng si <strong>di</strong>stingue molto da quelle<strong>di</strong> quartiere e dalle unità <strong>di</strong> lavoro. Infatti, questo“villaggio in città” non è una comunità formata dapersone estranee le une alle altre (com’è il caso dellecomunità <strong>di</strong> quartiere o dei complessi residenziali);non rappresenta, a maggior ragione, una comunità<strong>di</strong> relazioni e conoscenze basata unicamente sulegami professionali (come nei complessi residenzialiche accolgono gli impiegati <strong>di</strong> una stessa unità<strong>di</strong> lavoro), ma – come ho già scritto – su legami <strong>di</strong>sangue, parentela, clan e origine geografica.Il villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng presenta delle caratteristichecomuni a ogni “villaggio in città”. In uninsieme costruito in modo molto denso, sono soltantotre i “tipi” <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici che godono <strong>di</strong> un qualcheprivilegio in termini <strong>di</strong> spazio, superando la logicache comanda la massimizzazione degli affitti. Si trattadei templi degli antenati, della scuola materna/primaria e del Centro <strong>di</strong> animazione per le persone28 Hakka significa “famiglia ospite”; l’autore pensa all’omonimapopolazione cinese che in tre ondate (IV, X e XIII secolo) emigrò dalle pianuredel fiume giallo verso le province meri<strong>di</strong>onali del Guangdong e del Fujian perpoi <strong>di</strong>stribuirsi in tutto il territorio asiatico nel XIX secolo. [N.d.T.]in pensione. Questi esistono in quanto simboli <strong>di</strong>valori comuni: venerazione degli antenati, rispettoper le persone anziane e amore verso bambini. Ingenerale ci sono da tre a cinque gran<strong>di</strong> famiglie inun villaggio, ognuna delle quali possiede il propriotempio degli antenati, il cui aspetto riflette il ruolodel clan all’interno del villaggio stesso. Generalmente,per garantire la pace in comunità, la ripartizionedel potere deve corrispondere a questa struttura. Lerelazioni claniche sembrano largamente più <strong>di</strong>ffusenei villaggi del Sud del paese che in quelli del Nord,probabilmente perché le persone, dopo una migrazionecollettiva, accordano maggiore importanzaalle loro ra<strong>di</strong>ci.Nel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng i legami <strong>di</strong> parentelae quelli matrimoniali tra gli abitanti originaridel villaggio sono complessi. In me<strong>di</strong>a, un nucleofamiliare è legato a 20 altri attraverso legami <strong>di</strong>sangue o <strong>di</strong> parentela, cifra che può salire a 50 eanche 1000 per le gran<strong>di</strong> famiglie. Le comunitàclaniche sono sud<strong>di</strong>vise in gruppi familiari; il clanpuò essere assimilato a un gruppo che controlla uncerto numero <strong>di</strong> società o, ancora, a una casa madredalla quale <strong>di</strong>pendono un certo numero <strong>di</strong> filiali. Lastruttura <strong>di</strong> proprietà nell’organizzazione economicaè interamente retta da tali reti.La forza <strong>di</strong> coesione della “grande famiglia” degliabitanti originari del villaggio è eminentementelegata al carattere chiuso delle reti, le quali assicuranoche la collettività che “produce la torta” èla stessa che poi se la <strong>di</strong>vide. Un tempo l’entratae l’uscita delle donne in e da un clan attraverso ilmatrimonio erano equilibrate e gli interessi collettivirestavano intatti. Questo equilibrio, dovutoall’esistenza <strong>di</strong> una rete chiusa, non si è più potutoconservare dopo gli anni novanta. I matrimoni mistitra citta<strong>di</strong>ni originari dei villaggi e gli “urbani”


112 saggio metropolitano 113sono sempre più frequenti, al punto da minacciaregli interessi dell’economia collettiva che costituiscela base della rete sociale del villaggio; perché,se aumenta il numero <strong>di</strong> quelli che “mangiano latorta”, significa che <strong>di</strong>minuisce la parte che spetta aciascuno. Di conseguenza, a metà degli anni novanta,i “villaggi in città” hanno applicato il sistema <strong>di</strong>limitare la <strong>di</strong>stribuzione delle quote, a prescinderedalla situazione matrimoniale.In Cina c’è un vecchio detto popolare che recita:«La ricchezza non dura più <strong>di</strong> tre generazioni».L’espressione può essere tradotta con: «La legge delciclo della prosperità e del declino delle famiglie».Il suo significato morale è che i figli delle famigliericche sono per la maggior parte dei “figli <strong>di</strong> papà”che non fanno altro che spendere senza fare i conti.Questa legge è lontana dall’essere universale, perchéla teoria della riproduzione familiare del capitaleumano è facile da <strong>di</strong>mostrare. Sembra più affidabileinterpretarla attraverso la scappatoia del regimeere<strong>di</strong>tario. Il sistema ere<strong>di</strong>tario delle famiglie tra<strong>di</strong>zionalisi <strong>di</strong>fferenzia da quello europeo ma ancheda quello del potere imperiale. Non è il regime delprimogenito che ere<strong>di</strong>ta l’insieme dei beni – sistemache concentra il denaro e il potere in una solapersona –; al contrario è un sistema <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione deibeni familiari che mira a sud<strong>di</strong>videre tra fratelli laricchezza e il potere. La funzione <strong>di</strong> questo regimesi avvicina all’imposta <strong>di</strong> successione praticata neipaesi moderni ed è una concezione da parte delloStato, che non permette a una famiglia <strong>di</strong> estenderesenza limiti la sua potenza, perché così rischierebbe<strong>di</strong> rivaleggiare con il potere imperiale o con quellodello Stato stesso. La <strong>di</strong>visione della famiglia allamorte del fondatore che ha avviato il ciclo degli affaricostituisce non <strong>di</strong> rado una svolta a partire dallaquale sospetto, conflitti e declino aspettano al varcola famiglia. Spesso possiamo osservare gli effettidella legge nella storia della prosperità e del declinodelle imprese familiari. Per questa ragione, per sfuggireal rischio del declino, le gran<strong>di</strong> famiglie hannosempre preferito non fare delle <strong>di</strong>visioni, perchéchi <strong>di</strong>ce <strong>di</strong>visione <strong>di</strong>ce ri<strong>di</strong>stribuzione dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong>proprietà e ricomposizione delle relazioni sociali.Yang Cheng è in realtà come una “grande famiglia”,legata da una rete <strong>di</strong> relazioni <strong>di</strong> sangue, <strong>di</strong>parentela, <strong>di</strong> filiazione. Tale tipo <strong>di</strong> rete sociale tragli abitanti originari del villaggio è dotato <strong>di</strong> unafunzione reale <strong>di</strong> raccolta <strong>di</strong> ricchezze e <strong>di</strong> capitali:il sistema proibisce in maniera assoluta la ven<strong>di</strong>tadelle quote. I conta<strong>di</strong>ni restano <strong>di</strong>pendenti dallarete sociale del villaggio anche dopo aver cambiatoidentità professionale e dunque perso il propriostatuto <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>no; infatti, in un contesto nuovoe sconosciuto, essi hanno bisogno <strong>di</strong> resisterecollettivamente <strong>di</strong> fronte ai rischi e alle pressioniche arrivano dall’esterno. La forza della rete socialenel villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng è il risultato dell’ostinazionedegli abitanti originari a non separare ibeni familiari allo scopo <strong>di</strong> conservare la prosperitàacquisita. Essi si appoggiano sulle proprie scelterazionali per far assicurare continuità al soffio vitaledella loro “grande famiglia”.ConclusioneIn passato le ricerche sull’urbanizzazione dei villaggisi concentravano principalmente sulla riforma delsistema dell’hukou e molti credevano che una suariforma ra<strong>di</strong>cale avrebbe garantito il trionfo dell’urbanizzazione.Tuttavia, come abbiamo visto conla scomparsa dei “villaggi in città”, questo sistemaha avuto poca influenza e il processo <strong>di</strong> urbanizzazioneè lontano dall’essersi concluso. La scomparsadei villaggi impone una ridefinizione dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong>proprietà e una dolorosa ricomposizione sociale. Seil villaggio <strong>di</strong> Yang Cheng presenta una particolaritàè che annuncia dei conflitti <strong>di</strong> portata universale.Quando vi siamo tornati, nel 2006, la previstaristrutturazione urbana non aveva avuto luogo. Daun lato perché i costi erano troppo elevati, dall’altroperché il governo temeva <strong>di</strong> accendere dei conflittisociali. Tuttavia, la maggior parte degli abitantioriginari del villaggio si era trasferito in alti immobilirealizzati dalle collettività del villaggio. Questeavevano venduto gli appartamenti agli abitantioriginari a prezzi più bassi <strong>di</strong> quelli <strong>di</strong> mercato ei loro vecchi appartamenti, a questo punto, eranostati dati in affitto. L’ambiente urbano – strade equartieri – era molto migliorato e lo stile <strong>di</strong> vitadegli abitanti originari non era cambiato, malgradoil contesto d’incertezza. Una società rurale profondamentestrutturata per sangue, parentela, suolo,genealogia, credenze, costumi non necessariamentesparisce con la desertificazione rurale o l’industrializzazione.Le fratture e le trasformazioni nondanno, però, neppure luogo a speranze lievi e felici.La scomparsa progressiva dei villaggi urbani può esseredefinita come un processo segnato da conflitti echoc culturali, fatto <strong>di</strong> <strong>di</strong>sillusioni e contrad<strong>di</strong>zioni.


114 saggio metropolitano 115aRchIteTTuRaIconica eglobaLizzazIonecapItaLista<strong>di</strong> Leslie Sklair, professore emerito <strong>di</strong> Sociologiaalla London School of Economics and Political Sciences ∗Traduzione <strong>di</strong> Laura Gherar<strong>di</strong>∗ Abbiamo ascoltato Leslie Sklair intervenire alla VIII conferenzadella Global Science Association, <strong>di</strong> cui è presidente, tenutasi il 5settembre 2008 alla Oxford Brookes University. L’intervento aveva pertema l’iconicità, in riferimento al presente articolo e al precedente ecomplementare “The transnational capitalist class and contemporayarchitecture in globalizing cities” (in “International Journal of Urbanand Regional Research”, n. 29, 2005, pp. 485-500). Il titolo originaledell’articolo qui pubblicato, apparso su “City”, n. 1, nell’aprile 2006 etradotto con l’assenso dell’autore, è “Iconic architecture and capitalistglobalization”.«Icona 1952. 1. Immagine, figura o rappresentazione;ritratto; illustrazione in un libro; immaginetri<strong>di</strong>mensionale; statua. 2. Chiesa orientale ortodossa.Rappresentazione <strong>di</strong> qualche personaggio sacroconsiderata anch’essa sacra e venerata con cultode<strong>di</strong>cato.»Adattamento dall’Oxford EnglishDictionary, varie e<strong>di</strong>zioni«Penso che [icona] sia solo un termine per riabilitareil sorpassato.»Bob Dylan, 1988, citato in Knowles, 1999«Iconico. Un incitamento a spendere denaro.»Anonimo, 2004L’obiettivo <strong>di</strong> questo articolo è definire una corniceall’interno della quale possa essere analizzato ilruolo dell’architettura iconica nella globalizzazionecapitalista. Poiché la letteratura sulla globalizzazioneè sterminata ed esistono molti approcci che si contendonoil primato <strong>di</strong> spiegarla, qualsiasi tentativo<strong>di</strong> <strong>di</strong>re la parola definitiva su “globalizzazionee architettura” (o su globalizzazione e qualsiasialtro tema) è condannato a fallire. In questa sedeespongo una specifica concezione <strong>di</strong> globalizzazionee come essa si leghi a quelle che possono esserechiamate “icone architettoniche” – e sono proprioqueste ultime a costituire il tema principale del miocontributo.Nell’economia del mio lavoro, il “pilota” della globalizzazionecapitalista in atto è la classe capitalistatransnazionale (TCC). Ho suggerito in un articolocomplementare (Sklair 2005) come la teoria e laricerca sugli agenti e sulle istituzioni della TCC possanoaiutarci a spiegare il modo in cui sorgono leforme dominanti dell’architettura iconica contemporaneae il modo in cui esse servono gli interessidegli “attori” che guidano la globalizzazione. Lo La più ampia raccolta <strong>di</strong> voci sulla globalizzazione <strong>di</strong> cui oggi<strong>di</strong>sponiamo, quella <strong>di</strong> Lechner-Boli (2003), ne conta 58. Il mio testosulla globalizzazione <strong>di</strong>vide questa letteratura in: sistema-mondo, culturaglobale, politica globale e società, approcci del capitalismo globale (Sklair2002, cap. 3).


116 saggio metropolitano 117spessore storico della ricerca è dato dalla constatazioneche la produzione e la rappresentazione delleicone architettoniche dell’epoca preglobale (a gran<strong>di</strong>linee prima del 1950) erano guidate principalmenteda chi controllava lo Stato e/o la religione, mentrele forme dominanti dell’iconicità architettonicadell’era globale sono sempre più spesso richieste dachi possiede e controlla le gran<strong>di</strong> aziende. L’iconicitàdell’architettura costituisce una risorsa nelle lotteper il significato e, <strong>di</strong> conseguenza, per il potere.Per spiegare come l’architettura iconica si leghi allaglobalizzazione dobbiamo porci delle domandespecifiche su significato e potere.In seno alle scienze sociali, al centro <strong>di</strong> tutti gliapprocci contemporanei alla globalizzazione, vi èl’idea che alcuni importanti problemi attuali nonpossano essere adeguatamente stu<strong>di</strong>ati a livello degliStati, quin<strong>di</strong> in termini <strong>di</strong> società nazionali o <strong>di</strong> relazioniinternazionali, ma che necessitino invece <strong>di</strong>essere teorizzati in termini <strong>di</strong> processi globalizzanti,al <strong>di</strong> là del livello statale. Sono molti gli architetti ei critici intervenuti nel <strong>di</strong>battito sulla globalizzazione(Ibelings 1998; Migayrou e Brayer 2003 ecc.). Globalizzazione è evidentemente un concetto-ombrellodai molti significati che trarrebbe beneficioda una misura decostruttiva che abbiamo avviatoscindendolo in tre <strong>di</strong>stinte nozioni: globalizzazionegenerica, globalizzazione capitalista e globalizzazionialternative.Globalizzazione genericaL’idea <strong>di</strong> globalizzazione generica concentra la nostraattenzione su quattro nuovi fenomeni <strong>di</strong>ventatisignificativi a partire dalla metà del XX secolo:1) la rivoluzione dell’elettronica, in particolare letrasformazioni del supporto tecnologico e del raggiod’azione globale dei mass me<strong>di</strong>a non cartacei, esoprattutto dell’infrastruttura materiale (McChesney1997; Castells 2000);2) la rivoluzione postcoloniale, da cui prende iniziola decostruzione del primo e del terzo mondo subito dopo la loro concettualizzazione (negli annicinquanta);3) la conseguente creazione <strong>di</strong> spazi sociali transnazionali;4) la creazione <strong>di</strong> forme qualitativamente nuove <strong>di</strong>cosmopolitismo. Ognuna <strong>di</strong> queste caratteristiche della globalizzazionegenerica è importante per l’architettura contemporanea.Tombesi (2001) mostra come le nuovetecnologie, nello specifico il software del computer,abbiano promosso una nuova <strong>di</strong>visione internazionaledel lavoro tra stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> architettura nel primo enel terzo mondo, e Chung et al. (2001) bene illustranolo sviluppo <strong>di</strong> questo fenomeno in Cina.Oggi molti architetti famosi sono pronti ad afferma-Fig. 1 – Swiss Re Buil<strong>di</strong>ng (2003) <strong>di</strong> Foster, una nuova icona si staglia nel cielo <strong>di</strong> Londra.Fonte: Leslie Sklair La globalizzazione occupa un ruolo centrale negli scritti <strong>di</strong> RemKoolhaas, uno dei più <strong>di</strong>scussi architetti contemporanei, che assume unaposizione eccentrica sostenendo che «la globalizzazione è una particolarebranca dell’architettura [e questo fatto] potrebbe, infine, portare a unapuntuale messa in <strong>di</strong>scussione dell’architettura così come la conosciamo»(Koolhaas 1996, p. 232). Sebbene la prima grande ondata <strong>di</strong> decolonizzazione politicaabbia avuto luogo in America Latina nel XIX secolo, ritengo che ilpostcolonialismo sia più il prodotto della seconda grande ondata, iniziatain Asia, Africa e Caraibi nella seconda metà del XX secolo. Cfr. Desai eNair 2005; Krishnaswamy e Hawley (<strong>di</strong> prossima pubblicazione). Chiamata globalizzazione dall’alto e dal basso (cfr. Sorkin 1992;Marcuse-Kempen 2000). Sulla creazione <strong>di</strong> spazi sociali transnazionalidal basso da parte e all’interno delle comunità <strong>di</strong> immigrati, cfr. Smith eGuarnizo 1998; Faist 2000. Teorizzati, in modo <strong>di</strong>verso, da Beck 1999 e Vertovec-Cohen 2002.Fig. 2 – Disney Concert Hall <strong>di</strong> Gehry (2003), un’icona costruita appositamente per emergerenel nuovo centro <strong>di</strong> Los Angeles. Fonte: Leslie Sklair


118 saggio metropolitano 119re che, senza l’aiuto del CAD (Computer-Aided Design),non avrebbero potuto realizzare i loro <strong>di</strong>segnipiù celebri, tra cui il Reichstag a Berlino (Foster), laGreat Court nel British Museum (Pawley 1999), loSwiss Re Buil<strong>di</strong>ng a Londra, il Guggenheim a Bilbaoe la Disney Concert Hall a Los Angeles (Friedmann1999), quest’ultimi entrambi <strong>di</strong> Frank Gehry. Swiss Re e la Disney Concert Hall sono spesso citaticome esempio <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici iconici che trasformano ilvolto delle città (figura 1 e 2).La rivoluzione postcoloniale ha avuto profondeconseguenze in tutto il mondo – illustrate nellospecifico dalle importanti riflessioni <strong>di</strong> King (2004)sugli «spazi della cultura globale» – su architettura,morfologia urbana e identità. Gli architetti sonoresponsabili anche della creazione <strong>di</strong> molti spazisociali transnazionali, come i centri commercialia marchio globale, i parchi a tema, gli sviluppilitoranei e le aree <strong>di</strong> trasporto che, potendo inrealtà essere praticamente ovunque nel mondo,non sono senza conseguenze sul senso dello spazioda parte dei fruitori. Le nuove forme <strong>di</strong> cosmopolitismosono più <strong>di</strong>fficili da definire, ma nella lorocreazione ha un’importanza crescente il ruolo degliarchitetti oggi più famosi, le “archistar”. Questi nuovi fenomeni – la rivoluzione dell’elettronicae quella postcoloniale, gli spazi socialitransnazionali, le nuove forme <strong>di</strong> cosmopolitismo– costituiscono le caratteristiche salienti della globalizzazionein senso generico e sono irreversibili The Tyranny of Computer Graphics (Perez-Gomez, in Ratterbury 2002,p. 20) è comunque fortemente contestata. Cfr., per esempio, Larsen 1993 e Twombly 1995, ma anche unnumero qualsiasi <strong>di</strong> riviste quali “El Croquis”, “Blueprint” o “Domus”.Ockman (2002) scre<strong>di</strong>ta brillantemente Koolhaas definendolo lo «YE$Man» (Y come yen, E come euro e $ come dollari!).sul lungo periodo (salvo catastrofe globale), perchéla globalizzazione generica potrebbe essere utile aiprincipali interessi <strong>di</strong> un ampio numero <strong>di</strong> personeal mondo – ricchi o poveri, uomini o donne, neri obianchi, giovani o vecchi, abili o <strong>di</strong>versamente abili,istruiti o non istruiti, omosessuali o eterosessuali,laici o credenti – senza che lo sia necessariamentenel presente.La globalizzazione ha un impatto forte su moltepersone: sui gran<strong>di</strong> proprietari terrieri e sui bracciantiagricoli in campagna; sui <strong>di</strong>rigenti d’aziendae su chi fa lavori pesanti nelle maggiori città; suiprofessionisti ben pagati e sui lavoratori in neronelle località turistiche; sui lavoratori manuali stabilizzaticome sui migranti <strong>di</strong>sperati che si spostano incerca <strong>di</strong> una vita migliore. Queste polarità in<strong>di</strong>cano,inelu<strong>di</strong>bilmente, che non viviamo in un mondoin cui vige una generica globalizzazione astrattabensì in un mondo in cui è effettivamente in atto laglobalizzazione capitalista. All’inizio del XXI secoloil sistema globale dominante è, dunque, il sistemaglobale capitalista.La teoria del sistema globaleLa teoria del sistema globale capitalistico si basasulla nozione <strong>di</strong> pratiche transnazionali, pratiche cheattraversano i confini nazionali, ma che non sonooriginate da attori o da istituzioni statali (sebbenequesti ultimi siano spesso coinvolti). Questa sceltaconcettuale offre un’ipotesi <strong>di</strong> lavoro su uno deipunti cal<strong>di</strong> del <strong>di</strong>battito tra teorici della globalizzazionee loro oppositori, ovvero in che misura ipoteri dello Stato siano in declino. Il concetto <strong>di</strong>pratiche transnazionali può rendere più concreti iproblemi sollevati da tali questioni in seno al <strong>di</strong>battitosulla globalizzazione; “transnazionale” implica,infatti, che gli Stati ancora esistano e che quellipotenti abbiano ancora potere, ma in<strong>di</strong>ca pure che,a partire dalla metà del XX secolo, il bilancio delpotere nel sistema globale si è volto decisamente afavore delle forze transnazionali non statali (globalizzanti).Analiticamente, le pratiche transnazionalioperano in tre sfere – economica, politica e cultural-ideologica–, il cui insieme costituisce ciò chechiamo “sistema globale”. All’inizio del XXI secolotale sistema non è sinonimo <strong>di</strong> capitalismo globale,ma le forze dominanti del capitalismo globale losono anche del sistema globale.In<strong>di</strong>vidui, gruppi, istituzioni e persino intere comunità– locali, nazionali o transnazionali – possonoesistere, e forse perfino prosperare, come hanno semprefatto, al <strong>di</strong> fuori dell’orbita del sistema capitalisticoglobale, ma ciò sta <strong>di</strong>ventando sempre più <strong>di</strong>fficile,poiché la globalizzazione capitalista nel <strong>di</strong>ffondersipenetra oggi più capillarmente e profondamente chemai. Gli elementi che strutturano la teoria del sistemaglobale sono: le imprese transnazionali, come formaistituzionale caratteristica delle pratiche economichetransnazionali; la classe capitalista transnazionale,che è in continua evoluzione nella sfera politica; lacultura-ideologia del consumismo. Se l’importanzadelle imprese transnazionali e del consumo è oggiampiamente riconosciuta dai sostenitori della globalizzazione,dai suoi detrattori e da coloro che rispettoa essa si <strong>di</strong>chiarano neutrali, l’idea <strong>di</strong> classe transnazionalecapitalista è invece meno <strong>di</strong>ffusa e molto piùcontroversa. Per un approfon<strong>di</strong>mento, cfr. Sklair 2002, terza e<strong>di</strong>zione (e conun nuovo titolo) <strong>di</strong> un libro pubblicato nel 1991, con l’aggiunta <strong>di</strong> uncapitolo sulle alternative alla globalizzazione capitalista, tema non trattatoin questa sede.Innanzitutto, è necessario precisare che i membridella classe capitalista transnazionale (TCC) sono <strong>di</strong>solito persone che hanno prospettive globalizzantio, piuttosto, in <strong>di</strong>saccordo con le prospettive localizzanti(Sklair 2001). Si tratta <strong>di</strong> persone, in molteparti del mondo, per le quali operare transnazionalmenterientra tra le mansioni abituali della propriavita lavorativa, e che molto spesso possono chiamare“casa” più <strong>di</strong> un posto. Il che riflette le relazioni cheessi hanno con gli spazi sociali transnazionali e conle nuove forme <strong>di</strong> cosmopolitismo della globalizzazionegenerica, forme che incoraggiano sia il ra<strong>di</strong>camentolocale sia la visione (globalizzante) transnazionale.Ovviamente questo è reso possibile, inmodo storicamente ine<strong>di</strong>to, dalle nuove modalità <strong>di</strong>trasporto su lunga <strong>di</strong>stanza, rapide e agevoli, e dalletecnologie <strong>di</strong> informazione e <strong>di</strong> comunicazione. Edè per questa ragione che il nuovo concetto <strong>di</strong> globalizzazioneè più propriamente riservato a quellecon<strong>di</strong>zioni economiche, tecnologiche e sociali il cuisviluppo è iniziato nella metà del XX secolo, per poisubire una forte accelerazione. Possiamo definire laTCC come l’insieme <strong>di</strong> quattro frazioni (sebbene gliin<strong>di</strong>vidui che istituzionalmente rientrano in primisin una frazione possano in realtà appartenere anchead altre): aziendale, statale, tecnica, consumistica.Coloro che possiedono e/o controllano le maggiori impresetransnazionali e i loro affiliati locali (frazione aziendale)Nel settore dell’architettura, si tratta <strong>di</strong> chi possiedee/o controlla i principali stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> architettura, le maggiorisocietà <strong>di</strong> architettura e ingegneria, oltre chedella valorizzazione e della commercializzazione deipatrimoni e<strong>di</strong>lizi. Queste imprese sono <strong>di</strong> due tipi,i quali possono sovrapporsi solo in minima parte:1) le aziende <strong>di</strong> maggiori <strong>di</strong>mensioni; 2) le aziende<strong>di</strong> architettura più riconosciute e famose. La rivista


120 saggio metropolitano 121“World Architecture” ha pubblicato le classificheannuali delle prime società che operano in questosettore, per fatturato e per stipen<strong>di</strong>ati (<strong>di</strong>sponibilesul sito web della rivista): nel 2004 le aziende <strong>di</strong>maggiori <strong>di</strong>mensioni hanno guadagnato attorno ai200-300 milioni <strong>di</strong> dollari impiegando fino a circamille architetti; per cui, rispetto alle maggiori impreseglobali, esse sono piuttosto piccole (per entrarenelle classifiche dei top 500 <strong>di</strong> “Fortune” è necessarioregistrare entrate superiori ai 10 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> dollari).In ogni caso, sono relativamente poche le 50 aziende“tipo” <strong>di</strong> architettura guidate da architetti famosi oche costruiscono e<strong>di</strong>fici celebri; molto più peso dellarelativa debolezza finanziaria e aziendale hanno lacostruzione dell’ambiente, soprattutto nelle città, e lavalenza culturale oggi riconosciuta agli architetti noti(ve<strong>di</strong> Sklair 2005).Politici e funzionari che globalizzano (frazione statale)Si tratta <strong>di</strong> politici e funzionari – a tutti i livelli <strong>di</strong>responsabilità e <strong>di</strong> potere amministrativo in senoa comunità, città, Stati, istituzioni internazionali eglobali – che soggiacciono agli interessi della globalizzazionecapitalista in accordo con, o in opposizionea, coloro che li hanno eletti o nominati. Essidecidono che cosa va costruito e dove, e la regolamentazionedei cambiamenti dell’ambiente e<strong>di</strong>ficato.Per questo giocano un ruolo assai importantenella conservazione e nella pianificazione urbana(Tung 2001) e nelle competizioni per i progetti piùgran<strong>di</strong>, molti dei quali si traducono nella creazione<strong>di</strong> quelle che sono conosciute come icone architettoniche(Haan e Haagsma 1988; Lipsdtadt 1989).Professionisti che globalizzano (frazione tecnica)Gli appartenenti a questa frazione – dai tecnici chehanno un ruolo chiave nel processo <strong>di</strong> definizionedelle caratteristiche strutturali dei nuovi e<strong>di</strong>fici airesponsabili dell’educazione degli studenti e delpubblico all’architettura – operano, per scelta oper circostanze, a favore delle aziende globali edell’agenda <strong>di</strong> globalizzazione capitalista.Ven<strong>di</strong>tori e me<strong>di</strong>a (frazione consumistica)Annoveriamo in questa frazione i responsabili delmarketing dell’architettura, in tutte le sue manifestazioni,il cui principale obiettivo è inserirel’industria dell’architettura nella cultura-ideologiadel consumismo.Questa trattazione vuole suggerire che occorrericontestualizzare simbolismo ed estetiche <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficie spazi iconici nei termini delle specifiche connessionitra le quattro frazioni della TCC e la produzione-rappresentazionedell’architettura iconica (cfr.Sklair 2005). Come opera, dunque, l’iconico nellaglobalizzazione capitalista?L’icona: storia e teoria <strong>di</strong> un’ideaChe cosa significa che un e<strong>di</strong>ficio, uno spazio oun architetto sono “iconici”? Il termine è <strong>di</strong> usocomune tra chi opera nell’architettura 10 e ha unanotevole copertura me<strong>di</strong>atica. Il concetto <strong>di</strong> iconicoè caratterizzato da due tratti: innanzitutto coincidecon famoso, almeno per qualche connotazione; in10 Questo articolo tiene conto dei risultati <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> intervisterealizzate nel 2004 (e ancora in corso) negli Stati Uniti e in Europacon coloro che si occupano <strong>di</strong> architettura. L’espressione “coloro che sioccupano <strong>di</strong> architettura” include architetti e costruttori, pianificatoriurbani, professori, critici e altri che, in ambito architettonico, sono a<strong>di</strong>retto contatto con questi.secondo luogo, un giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> iconicità è anche ungiu<strong>di</strong>zio simbolico/estetico, in altre parole un’architetturaiconica è imbevuta <strong>di</strong> un significato specialeche è simbolico per una cultura e/o per un’epocae tale significato ha una componente estetica. Èquesta combinazione unica <strong>di</strong> fama, simbolismo equalità estetica a fare l’icona. Inoltre l’iconicità hauna durata, non è necessariamente per sempre.Queste caratteristiche costituiscono la mia definizioneoperativa del concetto ai fini della trattazione.Poiché l’idea <strong>di</strong> icona ha una veneranda storia, manon ha catalizzato alcuna potenziale <strong>di</strong>scussionenell’alveo delle scienze sociali, è necessario siaabbozzarne la storia sia esplicitarne il modo in cuiè ricondotta all’idea <strong>di</strong> teoria e alla pratica dellaglobalizzazione capitalista.Prima, però, devo chiarire un’importante questioneepistemologica. Alcuni sostengono che la vitacontemporanea, e <strong>di</strong> conseguenza l’iconicità architettonica,sia una questione <strong>di</strong> immagine, essendoquest’ultima una componente essenziale della svoltapostmoderna nella teoria e nella pratica culturale.L’importanza della fotografia e del <strong>di</strong>segno neldeterminare lo statuto iconico <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici o spazi èampiamente con<strong>di</strong>visa, sebbene non sia altrettantoargomentata nell’architettura contemporanea (tragli altri, cfr. per esempio Rattenbury 2002). Senzaminimizzare in alcun modo la centralità dell’immaginenella produzione e nell’iterazione dell’iconicità,tralasciare <strong>di</strong> che cosa un’immagine sia l’immaginesignifica fraintendere del tutto tale centralità.L’analogia migliore è la pubblicità: le immaginipubblicitarie possono avere qualità simboliche in<strong>di</strong>pendentementedal fatto che riescano a convincerele persone a comprare i prodotti che rappresentano,ma dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> chi guida la globalizzazionecapitalista l’essenziale è che la pubblicità vendai prodotti; il “simbolismo” (per esempio immaginifigurative, cubiste, surrealiste o dell’espressionismoastratto) va bene se aiuta a vendere il prodotto, mal’immagine serve il circuito del capitale al <strong>di</strong> fuoridel quale, salvo poche eccezioni, ha scarsa esistenzaautonoma. Certo non ne devia il corso, né vi sisostituisce. 11Allo stesso modo, l’essenziale delle immagini dell’architetturaiconica è che esse convincano le persone acomprare (nel duplice senso <strong>di</strong> consumare e <strong>di</strong> darecre<strong>di</strong>to a) gli e<strong>di</strong>fici, e con essi gli spazi, gli stili <strong>di</strong>vita e, in alcuni casi, gli architetti che rappresentano.Quin<strong>di</strong>, per quanto queste immagini possanoessere gran<strong>di</strong> opere d’arte, non sono le cose <strong>di</strong> cuisono immagine. L’iconicità non è semplicementequestione <strong>di</strong> immagine o, da qui, <strong>di</strong> moda, mafunziona e ha una durata perché gli e<strong>di</strong>fici a cuiinerisce sono costruiti dagli architetti, e da squadre<strong>di</strong> altre persone, per simboleggiare qualcosa (possibilmentepiù cose), a prescindere dal programma(dalle funzioni) degli e<strong>di</strong>fici stessi. Nelle nuove con<strong>di</strong>zioni<strong>di</strong> globalizzazione capitalista, la natura e ilraggio della fama delle icone, e <strong>di</strong> ciò che simboleggiano,sono stati trasformati dagli interessi dell’impresain un modo storicamente senza precedenti.La relazione tra immagine e realtà può essere complessa.Molti architetti riferiscono che l’immagineche si erano fatti <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici e spazi iconici non liaveva per niente preparati all’esperienza emozionale(in qualche caso, spirituale) del vedere dal vivo e<strong>di</strong> trovarsi in un certo e<strong>di</strong>ficio e nei suoi spazi. Neè un esempio emblematico Ronchamp – il nome11 Come al solito esistono delle eccezioni. Le immagini delle lattinedella zuppa Campbell’s firmate Andy Warhol hanno naturalmente unvalore molto più grande sul mercato dell’arte rispetto a quello delle lattinesul mercato delle zuppe.


122 saggio metropolitano 123completo <strong>di</strong> questa chiesa <strong>di</strong> Le Corbusier è Chiesadel Pellegrinaggio <strong>di</strong> Notre-Dame-du-Haut <strong>di</strong> Ronchamp–, frequentemente oggetto <strong>di</strong> pellegrinaggiarchitettonici ma anche pastiche nelle vesti <strong>di</strong> unafiliale <strong>di</strong> Bank of America a Palm Springs, in California(figura 3). 12 Questo processo funziona anchenella <strong>di</strong>rezione opposta, per la quale le esperienzereali <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici e <strong>di</strong> spazi non corrispondono alleimmagini iconiche. Riprenderemo questo argomentopiù avanti, nel contesto delle <strong>di</strong>verse modalitàdell’iconicità architettonica.Come emerge dalla definizione dell’Oxford EnglishDictionary citata all’inizio <strong>di</strong> questo articolo, iconasignificava, originariamente, rappresentazione– un’immagine, una figura, un ritratto, un’illustrazioneo, in tre <strong>di</strong>mensioni, una statua. La Chiesaorientale ortodossa ne volse il significato in rappresentazione<strong>di</strong> qualche personaggio sacro, e perciòanch’essa sacra, oggetto <strong>di</strong> venerazione. Nella storiadell’arte, sono state definite iconiche le antichestatue raffiguranti gli atleti vittoriosi e, da qui, lestatue e i busti in memoria <strong>di</strong> qualcuno (l’etichetta<strong>di</strong> icona applicata alle star dello sport ha quin<strong>di</strong>origini classiche). E l’iconografia e l’iconologia sono<strong>di</strong>ventate branche della conoscenza nell’ambito dell’artefigurativa, per cui la storia dell’icona è legataa rappresentazione, simbolismo ed espressione.Spiega Gombrich, prima <strong>di</strong> decostruire tali nozioni(ve<strong>di</strong> anche Panofsky 1955): «Queste tre funzionior<strong>di</strong>narie delle immagini possono essere presenti inun’immagine concreta: un motivo in un <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong>Hieronymus Bosch può rappresentare un uovo rotto,simboleggiare il peccato <strong>di</strong> gola ed esprimere una fan-12 Come scrive Jencks (2005, p. 56): «L’e<strong>di</strong>ficio iconico è oggiinimmaginabile senza riferirsi a […] Ronchamp».tasia sessuale inconscia» (Gombrich 1972, p. 124).Nella teoria architettonica, l’icona come rappresentazione(da qui in poi, Iconico I) ha uno spessorestorico, per quanto lieve. Broadbent (1973), peresempio, <strong>di</strong>stingue quattro approcci al <strong>di</strong>segno:quello pragmatico (che consiste nell’utilizzo deimateriali e dei meto<strong>di</strong> <strong>di</strong>sponibili); quello iconico(quando si copiano e magari anche mo<strong>di</strong>ficano lesoluzioni pragmatiche); quello canonico (l’uso <strong>di</strong>regole); quello analogico (quando si utilizzano delleanalogie mutuate da altri campi o contesti). 13 Chequesto significato <strong>di</strong> iconico (non molto <strong>di</strong>versodal suo significato canonico) sia ancora in auge inqualche scuola <strong>di</strong> architettura appare evidente da uninteressante forum telematico <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione, svoltosinel 2003, in cui il <strong>di</strong>segno iconico in architetturaviene definito nei termini seguenti: «una culturaha un’immagine fissa <strong>di</strong> come un oggetto dovrebbeessere e […] le generazioni successive, nell’alveo <strong>di</strong>quella cultura, continuano a costruire quell’oggettonello stesso modo e con la stessa forma». 14ArchNet è un forum <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione organizzato alMIT per coloro che si interessano, nello specifico,all’architettura islamica, come suggerito anche dagliinterventi. Un partecipante vi definì l’icona comesinonimo <strong>di</strong> stereotipo, dal momento che la parola“moschea” evoca l’immagine della cupola e del mi-13 Dovey (1999, p. 198, n. 3) asserisce che il significato <strong>di</strong> iconico inarchitettura è passato da mimetico (copia) a sineddoche (una parte per iltutto). Affronterò il tema più avanti e in modo <strong>di</strong>verso.14 Cfr. www.archnet.org/forum. Questo argomento ha prodotto seipagine <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione. Comunque, circa due settimane più tar<strong>di</strong>, il tema“Perché sono famosi gli architetti famosi?” ha prodotto novantotto pagine.Se ne può dedurre che gli studenti <strong>di</strong> architettura sono più interessatia come gli architetti <strong>di</strong>ventano iconici che non a come lo <strong>di</strong>ventano glie<strong>di</strong>fici. Come mostrerò più avanti, ciò si lega certamente alla culturaideologiadel consumismo e al culto della celebrità che lo accompagna.Fig. 3 – “Ronchamp” Palm Springs, ironico riferimento all’iconico Ronchamp inun’architettonicamente sviluppata città “modernista” nel deserto. Fonte: Leslie SklairFig. 4 – Villa in “stile palla<strong>di</strong>ano” e minareto con moschea, Regents Park, London (Iconico I).Fonte: Leslie Sklair


124 saggio metropolitano 125nareto, e che tutte le cupole e tutti i minareti sonopiù o meno simili (Iconico I). Nello stesso tempo– continua questo partecipante – l’architetturapotrebbe produrre un’icona per ogni cultura, comela Statua della Libertà per gli Stati Uniti, la SydneyOpera House per l’Australia o il Barcelona Pavilion<strong>di</strong> Mies, che è <strong>di</strong>ventato icona della nuova Germaniadel dopoguerra. 15 Quest’osservazione ha stimolatoun vivace <strong>di</strong>battito. Infatti, se un’icona è un “tipo”,ovviamente non può essere anche qualcosa <strong>di</strong> unicocome i tre esempi citati, e in architettura iconapuò riferirsi all’or<strong>di</strong>nario, al canonico, al ripetutoin modo costante, in un senso che si avvicina aquello espresso dalla risposta <strong>di</strong> Bob Dylan all’esserechiamato icona: «Penso che sia solo un termine perriabilitare il sorpassato». Questa accezione <strong>di</strong> iconicoriprende, seppure in modo cinico, il significatooriginario dell’iconica villa palla<strong>di</strong>ana – o moscheao perfino palazzo <strong>di</strong> uffici –, che è semplicementeuna copia <strong>di</strong> un archetipo <strong>di</strong> villa – o <strong>di</strong> moschea, o<strong>di</strong> cattedrale o <strong>di</strong> palazzo <strong>di</strong> uffici –, perché apparecome ciò che è supposto essere (figura 4).Attualmente, però, iconico è più spesso utilizzatoin un’accezione <strong>di</strong>ametralmente opposta. Quando,per esempio, Will Alsop (architetto che ha condottoun proprio programma televisivo in Inghilterra)si è aggiu<strong>di</strong>cato il prestigioso concorso per <strong>di</strong>segnareil Fourth Grace a Liverpool da 225 milioni<strong>di</strong> sterline (circa 400 milioni <strong>di</strong> dollari) e la suaproposta è risultata ultima – secondo le preferenzeespresse nel corso <strong>di</strong> un’indagine su un campione <strong>di</strong>15 In The Myths of the Mies Pavilion, alla DOCOMOMO Conference (Paris2002), E.M. Coad ha asserito che sono state le fotografie progettate daMies a essere ampiamente responsabili del suo passaggio alla storia «comeun tempio all’architettura modernista» piuttosto che l’e<strong>di</strong>ficio originale insé. Ciò non ha mancato <strong>di</strong> creare <strong>di</strong>ssensi.15.000 abitanti della città, in una classifica piena <strong>di</strong>star, con uno scarto notevole da Foster & Partners eRichard Rogers. Il commento del portavoce <strong>di</strong> AlsopArchitects è stato: «Se si propone un’icona, la primareazione è negativa, perché la natura stessa <strong>di</strong> un’iconaè sfidare la percezione. Nessuno degli altri progettipresentati era un’icona, erano tutte delle “pietre miliari”calate su Liverpool». David Dunster, preside <strong>di</strong>Architettura dell’Università <strong>di</strong> Liverpool, ha sostenutola Alsop <strong>di</strong>cendo che le altre proposte, per la maggiorparte, «ripetevano semplicemente cose già viste che siera provato a “rifilare” a Liverpool». 16Questo senso <strong>di</strong> ripetizione rappresentativa ricordail più mondano, sebbene amato, sistema <strong>di</strong> riferimentoutilizzato da Lynch (1960). Secondo Alsop e isuoi sostenitori, dunque, iconico è un e<strong>di</strong>ficio o unospazio (e forse perfino un architetto) <strong>di</strong>verso e unico,destinato a essere famoso e ad avere delle specialiqualità simbolico-estetiche. Nel testo che segue in<strong>di</strong>chiamoquesta accezione con Iconico II, aggiungendoche tali icone possono essere proclamate “iconiche”prima <strong>di</strong> essere costruite. Si <strong>di</strong>ce comunementeche tutte le produzioni artistiche rappresentano,simboleggiano, esprimono cose o sentimenti, il cherisulta relativamente comprensibile per le arti visive,o anche per la musica e per la danza, nel senso cheun <strong>di</strong>pinto o una scultura, una sinfonia o un ballettopossono rappresentare, simboleggiare o esprimere16 Citazioni da “Buil<strong>di</strong>ng Design” (13 <strong>di</strong>cembre 2002). Nell’estate del2004 è stato annunciato l’annullamento dei fon<strong>di</strong> per la Fourth Gracee per altri progetti “iconici” <strong>di</strong> Libeskind e Vinoly, da cui la domanda,nella prima pagina del “Buil<strong>di</strong>ng Design” (23 luglio 2004): «Fine dell’eraiconica?». Cfr. anche Jencks e Sudjic (2005). Jencks (2005) – pubblicatodopo che il mio articolo era sostanzialmente già scritto – tratta l’idea <strong>di</strong>iconicità in architettura in termini <strong>di</strong> significanti enigmatici, certamenteun “tipo” della <strong>di</strong>mensione simbolico-estetica della mia definizione.Discuto questo importante lavoro in un testo <strong>di</strong> prossima pubblicazione.un paesaggio o un gruppo familiare o, più astrattamente,la nostalgia o l’amore. Ma come si può <strong>di</strong>reche un e<strong>di</strong>ficio o uno spazio rappresenti, simboleggio esprima qualcosa? Effettivamente alcuni e<strong>di</strong>ficisembrano oggetti: il Guggenheim Museum <strong>di</strong> FrankLloyd Wright a New York è comunemente ritenutorappresentare la naturale forma a spirale (figura 5);la Sydney Opera House <strong>di</strong> Jorn Utzon le vele <strong>di</strong> unanave (o gli spicchi <strong>di</strong> un’arancia); il Guggenheim Museum<strong>di</strong> Frank Gehry a Bilbao le squame <strong>di</strong> un pesce;la Swiss Re Tower <strong>di</strong> Norman Foster a Londra (figura1) è una delle ultime rappresentazioni falliche <strong>di</strong> unalunga serie <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici sviluppati in altezza. Si potrebbecontinuare... Ciò è possibile perché, in qualche modo,tutti gli e<strong>di</strong>fici menzionati sembrano effettivamenteversioni reali o stilizzate <strong>di</strong> ciò a cui sono dettiassomigliare. In Learning from Las Vegas, Venturi etal. (1977, parte II) <strong>di</strong>vidono, come noto, tutti glie<strong>di</strong>fici in «anatre» e «facciate decorate». Le anatre– da un fast food a forma <strong>di</strong> anatra situato a LongIsland – sono un tipo <strong>di</strong> «e<strong>di</strong>ficio che si fa scultura»,in cui tutti i sistemi architettonici sono «sommersie <strong>di</strong>storti da una forma simbolica sovrastante». Lefacciate decorate rinviano a e<strong>di</strong>fici in cui «i sistemispaziali e strutturali sono <strong>di</strong>rettamente al serviziodel programma [le funzioni che l’e<strong>di</strong>ficio è destinatoa svolgere] e il cui ornamento è realizzato in mododa esso in<strong>di</strong>pendente» (Venturi et al. 1977, p. 87).Come esempio <strong>di</strong> anatra il testo riporta la cattedrale<strong>di</strong> Chartres (sebbene, confusamente, Chartres siaanche detta una facciata decorata). Come esempio <strong>di</strong>facciata decorata si cita Palazzo Farnese a Roma.È semplice liquidare questa <strong>di</strong>stinzione come unabizzarria <strong>di</strong> un libro (neanche per sogno!) sullequalità architettoniche <strong>di</strong> Las Vegas, ma ci sono duebuone ragioni per prenderla sul serio. La prima èche il libro <strong>di</strong> Robert Venturi e Denise Scott Brownha avuto una grande influenza sul pensiero <strong>di</strong> chisi occupa <strong>di</strong> architettura – e non solo sui cosiddettipostmodernisti che lottano per la contestualizzazionedegli e<strong>di</strong>fici, degli spazi e degli stessi architetti,contro la visione canonica dell’architettura propriaall’arte alta –, la seconda è che tale <strong>di</strong>stinzione èsignificativa per la trattazione dell’iconicità e dellaglobalizzazione capitaliste. Se anatra e facciatadecorata sono termini improbabili per <strong>di</strong>scutere <strong>di</strong>architettura iconica, gli esempi forniti sono peròmolto significativi. Molti lettori <strong>di</strong> Learning from LasVegas dovevano aver sentito parlare della cattedrale<strong>di</strong> Chartres, che è senza dubbio un’icona dell’architetturame<strong>di</strong>oevale e un e<strong>di</strong>ficio ancora oggi riveritoda architetti e turisti <strong>di</strong> tutto il mondo, mentrePalazzo Farnese, meno noto fuori dall’Europa, ècelebrato nella storia dell’architettura come uno deigran<strong>di</strong> palazzi monumentali dell’Alto Rinascimentoromano la cui costruzione, dopo la morte del suoprimo architetto (il non molto celebre Sangallo ilGiovane) è stata portata a termine da altri, tra cuiMichelangelo. Entrambi questi esempi riguardano,quin<strong>di</strong>, “e<strong>di</strong>fici illustri”, secondo il senso architettonicocon<strong>di</strong>viso, ed è sulla <strong>di</strong>stinzione tra anatre efacciate decorate, e non su tali frivole denominazioni,che occorre concentrarsi.La <strong>di</strong>fferenza maggiore è il simbolismo. Venturiet al. (1997, p. 87) scrivono: «L’anatra è lospeciale e<strong>di</strong>ficio che è un simbolo; la facciatadecorata è un capanno convenzionale che applicadei simboli». E illustrano questo punto condue fotografie: quella del famoso Long IslandDuckling, più un <strong>di</strong>segno dell’e<strong>di</strong>ficio accompagnatodalle parole “Duck” e “Highway”, dovecompare una piccola automobile da cui, presumibilmente,si può vedere l’anatra; e quella <strong>di</strong>un tipico scorcio <strong>di</strong> strada americana (ora tipico


126 saggio metropolitano 127Fig. 5 – Guggenheim Museum <strong>di</strong> Frank Lloyd Wright a New York (1959), un’icona persistentenonostante le lamentele degli artisti riguardo la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> appendere i quadri sulle sue paretia spirale. L’opera d’arte è l’e<strong>di</strong>ficio. Fonte: Leslie SklairFig. 6 – La piramide <strong>di</strong> ingresso al Louvre (1993), <strong>di</strong> I.M. Pei; trasparenza e nuove tecnologieal servizio del consumo grazie all’eccitazione visiva. Fonte: Leslie Sklairin tutto il mondo), con <strong>di</strong>stributori <strong>di</strong> benzina ecartelloni pubblicitari, più un <strong>di</strong>segno dal titoloDecorated Shed, che raffigura un piccolo capannodalla grande insegna “Eat” e un altro capannocon la scritta “Eat” sulla facciata esterna. Gliautori dettagliano poi ulteriormente la <strong>di</strong>stinzioneconfrontando due e<strong>di</strong>fici contemporanei,entrambi progettati per ospitare anziani, ovveroil Crawford Manor in New Haven (1962-1966)<strong>di</strong> Paul Rudolph – che è stato <strong>di</strong>rettore del <strong>di</strong>partimento<strong>di</strong> architettura dell’Università <strong>di</strong> Yale dal1958 al 1965 – e la Guild House <strong>di</strong> Philadelphia(1960-1963) dell’azienda dello stesso Venturi.In tono tipicamente provocatorio, Venturi etal. contrappongono le caratteristiche «eroiche eoriginali» del Crowford Manor a quelle <strong>di</strong> «bruttezzae or<strong>di</strong>narietà» della Guild House, per poiconcludere che c’è bisogno <strong>di</strong> più <strong>di</strong> quest’ultima(architettura <strong>di</strong> significato, simbolismo, rappresentazionedella realtà, messaggi sociali ecc.) e<strong>di</strong> meno della prima (architettura espressiva,astrazione ed espressionismo astratto, contenutoarchitettonico ecc.).La <strong>di</strong>stinzione anatra versus facciata decorata, neldelineare <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> iconicità, suggerisce perché(almeno) qualche e<strong>di</strong>ficio <strong>di</strong>venti iconico, in varisistemi sociali, <strong>di</strong>versamente dall’ampia maggioranzadegli altri. Se tutti gli e<strong>di</strong>fici sono sia anatre chefacciate decorate, l’iconicità può essere considerataun modo <strong>di</strong> celebrare l’“anatricità” <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici specialiattraverso ciò che sono considerati simboleggiare oesprimere.Gombrich (1962, p. 21) sostiene che «l’iconologiadeve cominciare con lo stu<strong>di</strong>o delle istituzioni inveceche con quello dei simboli», e questa affermazione,riferita dall’autore all’arte del Rinascimento chene costituisce lo specifico interesse accademico, èrilevante anche per l’architettura iconica contemporanea.Mentre le icone del tipo Iconico I, in quantoriferimenti, non pongono necessariamente questioniinerenti a simbolismo ed espressione, quelledel tipo Iconico II le sollevano, ed è precisamentenei mo<strong>di</strong> in cui lo fanno che possiamo ritrovare lequalità speciali, uniche e <strong>di</strong>verse degli e<strong>di</strong>fici, deglispazi e degli architetti Iconico II. Per trovare taliqualità dobbiamo, come suggerisce Gombrich, iniziarestu<strong>di</strong>ando le istituzioni piuttosto che i simboli,nel nostro caso le istituzioni della globalizzazionecapitalista.Abbiamo visto che l’utilizzo del termine iconicopresenta, per chi si occupa <strong>di</strong> architettura, un altogrado <strong>di</strong> ambiguità, se non <strong>di</strong> confusione; nel testoche segue intendo abbandonare l’accezione <strong>di</strong> rappresentativo,mimetico (Iconico I), e restringere iltermine al suo uso più <strong>di</strong>ffuso nelle <strong>di</strong>scussioni attualisull’architettura, in riferimento al simbolismoe all’espressione della <strong>di</strong>fferenza, all’essere specialee unico, allo “status <strong>di</strong> icona” <strong>di</strong> insigni architetti,e<strong>di</strong>fici e spazi o luoghi in cui sono iscritti (IconicoII). Sebbene entrambe le forme dello status iconicoabbiano una rilevanza simbolica, sono le struttureistituzionali a determinare i tempi, i luoghi e i pubbliciche rendono famosi e<strong>di</strong>fici, spazi e architetti,e a fornire quelle motivazioni dell’iconicità chele qualità simbolico/estetiche in sé non possonodare. Qualità che, comunque, nella globalizzazionecapitalista devono passare il vaglio della classecapitalista transnazionale – <strong>di</strong>versamente, sarebbemolto <strong>di</strong>fficile, anche se non impossibile, e<strong>di</strong>ficareicone su larga scala, visto il rischio finanziario checiò comporta.Icons as Magnets of Meaning – libro sull’esposizionetenutasi nel 1996 al San Francisco Museum of ContemporaryArt – pare la sola trattazione contempo-


128 saggio metropolitano 129ranea esaustiva riguardo le icone. 17 Essa attribuisceloro le seguenti caratteristiche: 1) provocano stuporeed eccitazione; 2) sono capaci <strong>di</strong> ingenerare tantola confusione quanto la comunicazione; 3) nonhanno nulla <strong>di</strong> intrinseco, ciò che importa è comeappaiono e che cosa sembrano; 4) sono formatesia dal contesto (società, cultura, presentazione)sia dal contenuto; 5) danno corpo a fattori umanie <strong>di</strong>segni emotivi; 6) sono fluide, non possonoarticolare le proprie parti; 7) sono ben levigate e aero<strong>di</strong>namicheperché prodotte in serie. E, quando sitratta <strong>di</strong> icone architettoniche, 8) hanno un senso <strong>di</strong>monumentalità; 9) sono sinuose e leggere, translucide<strong>di</strong>versamente dalla trasparenza moderna; 10)incarnano la perfezione e 11) un senso <strong>di</strong> densità,carattere enigmatico, che rimpiazza simboli o segni,e sono in genere mute esercitando, nel loro senso <strong>di</strong>estraneità, una qualità ipnotica (Betsky 1997, pp.20-51). 18Le prime sette caratteristiche (1-7) si concentranosui beni <strong>di</strong> consumo, le altre si riferiscono <strong>di</strong>rettamentealle icone architettoniche – in termini<strong>di</strong> monumentalità, translucentezza, perfezione e,<strong>di</strong>ciamo così, “enigma extra” – e costituiscono scelteinteressanti sebbene eterodosse. È vero che alcuni,o forse anche molti, degli e<strong>di</strong>fici comunementeritenuti avere uno status iconico sono <strong>di</strong> proporzio-17 Naturalmente c’è una formidabile letteratura in pieno svilupposulle icone religiose. Una guida eccellente è il catalogo dell’esposizione delMetropolitan Museum <strong>di</strong> New York su “Bisanzio” (Evans 2004).18 L’unico architetto che compare nel libro è Robert Venturi, il qualesceglie i “Golden Arches” <strong>di</strong> McDonald’s come sua icona americanapreferita (chiaramente una scelta Iconico I). Sebbene tutti vali<strong>di</strong> per lostu<strong>di</strong>o delle icone architettoniche, nessuno dei seguenti testi contiene una<strong>di</strong>scussione sull’iconicità in quanto tale: Boime 1998 sulle icone nazionali;Koening 2000 sulle icone nazionali; Dovey 1999 (ve<strong>di</strong> la sezione sulleicone <strong>di</strong> Melbourne, cap. 11); Seidler 2004 (nella serie intitolata “Icons”).ni monumentali (ve<strong>di</strong> oltre nel testo), ma questanon è una definizione, così come la translucentezza– che pure sicuramente nella metà degli anninovanta, con l’invenzione <strong>di</strong> nuove tecnologie per levetrate architettoniche, rientrava spesso nella fisionomiadegli e<strong>di</strong>fici iconici, soprattutto nella Parigidei grands projets <strong>di</strong> cui è esemplare la Piramide delLouvre <strong>di</strong> Pei (figura 6) – non può essere considerataun tratto <strong>di</strong>stintivo dell’iconicità. 19 Ugualmente,perfezione e un più <strong>di</strong> enigma – che pure possonoessere criteri legittimi <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio sulle icone – nonsi devono considerare caratteristiche che definisconol’iconicità.Le cose si complicano ulteriormente quando a essereiconico è l’architetto, nello specifico caso in cui <strong>di</strong>ventifamoso grazie a un particolare e<strong>di</strong>ficio e poi nefaccia altri che assomigliano all’icona originale – quest’ultimapuò essere considerata ripetitiva nel senso <strong>di</strong>rappresentativa, mentre nel conferimento agli e<strong>di</strong>ficiseguenti dello status <strong>di</strong> icona si possono confondereIconico I e Iconico II –, caso che ha costituito labase per un rifiuto del valore in sé dell’iconicità eper una messa in <strong>di</strong>scussione dei meriti <strong>di</strong> quelli chesi è iniziato a chiamare signature architects (architettiil cui stile e linguaggio unici sono trasferiti imme<strong>di</strong>atamentenei loro e<strong>di</strong>fici). I <strong>di</strong>rettori del ForeignOffice Architects – giovane stu<strong>di</strong>o transnazionale 20<strong>di</strong> architettura molto alla moda, con sede principalea Londra – hanno affermato che con l’emergeredell’“architettura iconica” in ogni città gli e<strong>di</strong>ficiiniziano ad annullarsi l’uno con l’altro: «Gehry sta19 Per un’utilissima <strong>di</strong>scussione sul vetro nell’architettura dei grandsprojets ve<strong>di</strong> Fierro 2003. Il capitolo IV <strong>di</strong> questo libro espone la piùilluminante <strong>di</strong>scussione sulle pirami<strong>di</strong> al Louvre.20 Farshid Moussavi e Alejandro-Zaera-Polo, i titolari, sono originaririspettivamente dell’Iran e della Spagna.cospargendo il mondo <strong>di</strong> fac-simili del GuggenheimBilbao e una volta vista una costruzione <strong>di</strong> Calatravao <strong>di</strong> Meier le hai viste tutte». 21Tale strategia <strong>di</strong>scorsiva, che applica la legge deiren<strong>di</strong>menti decrescenti agli architetti iconici, pone laquestione <strong>di</strong> che cosa significhi <strong>di</strong>re che un architettolo è. Certamente, solo alcuni architetti nel corso dellastoria sono stati in<strong>di</strong>cati come iconici, ma il problemaè spiegare perché, quando l’iconicità è attribuitaa uno o due e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> qualche architetto, essa inizia aestendersi a tutte le sue costruzioni passate, presentie future. Le Corbusier è considerato senza dubbioiconico da chi si occupa <strong>di</strong> architettura anche per lesue prime costruzioni, e all’epoca neppure moltoconosciute, incluse quelle che esistono solo sullacarta, come testimonia il risvolto <strong>di</strong> copertina <strong>di</strong> unlibro recente: «Questo volume esplora un progetto,non e<strong>di</strong>ficato ma iconico, <strong>di</strong> Le Corbusier [l’Ospedale<strong>di</strong> Venezia]» (Sarkis 2001). Inoltre, Fayolle-Lussacalla DOCOMOMO Paris Conference del 2002 22 hasollevato il problema dell’«ipertutela del lavoro <strong>di</strong> LeCorbusier», in riferimento al complesso residenziale<strong>di</strong> Pessac e ad altre località il cui status è cresciuto perl’effetto “perverso” della pubblicità che ha accompagnatoil centenario della nascita del celebre architetto– tesi che pare confermata dallo stu<strong>di</strong>o condotto daBoudon (1972) sulle opinioni, riguardo il complessoresidenziale <strong>di</strong> Pessac, sia dei suoi abitanti sia dellastampa sia <strong>di</strong> Le Corbusier.21 Citato in “The Guar<strong>di</strong>an”, 17 novembre 2003. Questa affermazionesarebbe più convincente se il Foreign Office Architects non si fosseaggiu<strong>di</strong>cato alcuni importanti progetti e non avesse concorso, senzasuccesso, per altri gran<strong>di</strong> progetti iconici, incluso quello del sito del WorldTrade Center.22 Tutti i riferimenti ai documenti <strong>di</strong> questa conferenza sono tratti dalsito web del DOCOMOMO www.docomomo.com.Questa è un’idea davvero sovversiva – avrebbe maipotuto Corbu (o Mies, o Wright) <strong>di</strong>segnare une<strong>di</strong>ficio or<strong>di</strong>nario o perfino non riuscito? (il cheequivale a chiedersi se Shakespeare avrebbe potutomai scrivere una brutta comme<strong>di</strong>a o un bruttosonetto, o Beethoven comporre una sinfonia nonbella ecc.). Nella prospettiva della storia dell’architettura,i teorici – così come gli storici – sonochiamati a esprimere giu<strong>di</strong>zi estetici, cosa chein effetti fanno. 23 Neppure nel libro più grandedel mondo potrebbero essere presentate tutte ledozzine, a volte centinaia, <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong>segnati dagliarchitetti menzionati e da altri gran<strong>di</strong>, ma occorrenotare che la scelta, per i libri <strong>di</strong> testo e per lestorie, cade solitamente sempre sugli stessi, pochi,lavori dei maestri. Risulterebbe inusuale, peresempio, presentare Wright senza la Fallingwater,Corbu senza Ronchamp e Mies senza il SeagramBuil<strong>di</strong>ng. In ogni caso, in quella che potrebbeessere chiamata l’industria <strong>di</strong> Wright o <strong>di</strong> Corbu o<strong>di</strong> Mies (nello stesso senso <strong>di</strong> “industria culturale”della Scuola <strong>di</strong> Francoforte), più siti ci sono <strong>di</strong>questi e <strong>di</strong> altri gran<strong>di</strong> architetti e meglio è, poichéognuno contribuisce alla cultura-ideologia delconsumismo. 24 E nella globalizzazione capitalista èquesto il tratto che definisce l’architettura iconica:e<strong>di</strong>fici, spazi e architetti sono iconici nella misurain cui simboleggiano i variegati frutti della cultura-ideologiadel consumismo.Esposte le concezioni dell’iconicità, tra loro <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>,che prevalgono negli attuali <strong>di</strong>battiti <strong>di</strong> architettura,23 Curtis 1996, la guida all’“architettura moderna” che pre<strong>di</strong>ligo,contiene più <strong>di</strong> 800 illustrazioni, e ognuna <strong>di</strong> esse, in un certo senso,potrebbe essere considerata dagli architetti “iconica”.24 Questo tema verrà affrontato, in riferimento all’attività <strong>di</strong> FrankLloyd Wright, in un prossimo lavoro.


130 saggio metropolitano 131possiamo procedere alla decostruzione delle iconedel tipo Iconico II sulla base <strong>di</strong> tre domande. Iconicoper chi? Iconico rispetto a dove? Iconico quando?Iconico per chi?Il modo più consueto <strong>di</strong> affrontare questa domandaconsiste nel <strong>di</strong>stinguere specialisti dell’architettura egrande pubblico: in che senso un e<strong>di</strong>ficio può esseredetto iconico in architettura ma non dal grandepubblico? E in che senso, al contrario, può essere ritenutoiconico dal grande pubblico ma non secondoi criteri dell’architettura? La risposta più semplice,che mantiene alte le quotazioni dei professionisti eche ad<strong>di</strong>rittura alimenta lo snobismo professionale,è che l’iconicità è semplicemente una questione <strong>di</strong>pubblicità, <strong>di</strong> moda e <strong>di</strong> autopromozione da partedel cliente e <strong>di</strong> chi con quest’ultimo si scontra,dell’architetto e <strong>di</strong> chi produce le immagini. Questoprocesso, <strong>di</strong> cui l’esempio più frequentemente riportatoè lo sfruttamento commerciale dell’arte dellafotografia architettonica – uno dei casi più conosciutiè la serie <strong>di</strong> fotografie iconiche <strong>di</strong> Julius Shulmandelle Case Study Houses in California, e in particolarele Case Study Houses #22 a Los Angeles (figura 7 e,per gli originali, Serraino 2003) 25 – si lega all’idea,che abbiamo già <strong>di</strong>scusso, che non ci siano e<strong>di</strong>fici oarchitetti iconici ma solo immagini iconiche.Lipstadt esprime bene questo punto nel suo stu<strong>di</strong>osul St. Louis Arch <strong>di</strong> Eero Saarinen, in cui traccia25 Ringrazio Julius Shulman per il colloquio informativo su questoargomento che abbiamo avuto nel febbraio 2004, e Carlota e Buck Stahlche mi hanno gentilmente invitato a trascorrere del tempo nella Case StudyHouse #22 a Los Angeles perché «vedessi io stesso da vicino».una <strong>di</strong>stinzione tra canonico e iconico, 26 definendoil canonico nei termini <strong>di</strong> che cosa l’architettocompetente considererebbe più <strong>di</strong> valore, mentre«lo status <strong>di</strong> iconico viene conferito da comunità <strong>di</strong>non architetti» (Lipstadt 2001, p. 11). La <strong>di</strong>stinzioneha senso, ma non è confermata dai dati <strong>di</strong>cui <strong>di</strong>sponiamo. Come già abbiamo sottolineato,le fonti documentarie (così come anche le mie interviste)mostrano che architetti, critici, stu<strong>di</strong>osi e chilavora con costruzioni, spazi e architetti utilizzanocomunemente il termine iconico per enfatizzare lospeciale status degli oggetti che apprezzano. E ciòè suffragato anche da altri esempi che mutuiamoda fonti eterogenee a cui abbiamo avuto accessotramite i rispettivi siti internet: il preside del Chan<strong>di</strong>garhCollege of Architecture non esita a definireil Chan<strong>di</strong>garh <strong>di</strong> Le Corbusier «un’icona dell’architetturamoderna» (“The Tribune”, 7 ottobre 2003);la Scuola <strong>di</strong> Architettura del quartiere Palermo, aBuenos Aires, tiene un corso <strong>di</strong> Great Buil<strong>di</strong>ngsPerspective, il secondo dei suoi tre meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> basedella ricerca e dell’appren<strong>di</strong>mento dell’architettura,articolato sullo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> due “case iconiche” – VillaRotonda <strong>di</strong> Palla<strong>di</strong>o e Villa Savoia <strong>di</strong> Corbu – chesono «senza alcun dubbio dei capolavori secondostorici, teorici, turisti, critici e appassionati<strong>di</strong> architettura», assolutamente iconiche secondoi professionisti e, <strong>di</strong> conseguenza, secondo unacerchia <strong>di</strong> pubblico (la Barlett School dell’Universityof London propone qualcosa <strong>di</strong> simile); sul sito26 Parte <strong>di</strong> uno speciale dell’“Harvard Design Magazine” (estate 2001)dal titolo: What Makes a Work Canonical. Il notevole articolo “Evolutionarytree of the 20th century architecture” <strong>di</strong> Charles Jencks, che menzionaquattrocento architetti, contrasta seriamente con la nozione <strong>di</strong> canoneesposta, pur non senza contrad<strong>di</strong>zioni, dalla maggior parte dei mieiintervistati.Fig. 7 – Case Study House #22 <strong>di</strong> Pierre Koenig (1960), immagini e realtà nella creazionedell’iconicità. Fonte: Leslie Sklairinternet della Mies Society dell’Illinois Institute ofTechnology è scritto che «il campus principale delIIT è uno dei capolavori dell’architettura iconica»;«l’architetto Colin St. John Wilson <strong>di</strong>rà oggi aigoverni <strong>di</strong> Russia e Finlan<strong>di</strong>a perché un e<strong>di</strong>ficio iconico<strong>di</strong> Alvar Aalto, in Russia, debba essere restaurato»(“Bid to save iconic Aalto library”, in “Buil<strong>di</strong>ngdesign”, 28 marzo 2003, p. 6); alla DOCOMOMO(2002), nella sessione in cui Lipstadt presentò unaversione del suo testo sul St. Louis Arch <strong>di</strong> Saarinen,Edwin Brierley della Leicester School of Architectureparlò <strong>di</strong> «status <strong>di</strong> icona e significato storico delLeicester University Engineering Laboratory progettatoda Stirling e Gowan». Anche se a Leicestermolti profani avevano già sentito parlare <strong>di</strong> questoe<strong>di</strong>ficio, per quanto lo status iconico <strong>di</strong> Stirlingne avesse assicurato un’ampia <strong>di</strong>ffusione su libri eriviste <strong>di</strong> architettura in tutto il mondo, si trattavapur sempre <strong>di</strong> un’icona per i professionisti, non peril grande pubblico.Ancora più interessante rispetto alla tesi <strong>di</strong> Lipstadtè la possibilità che, nel caso lo status iconico vengaconferito a un e<strong>di</strong>ficio da non architetti senza esserefondato su un canone, i responsabili del canonestesso siano costretti ad attribuirgli lo status <strong>di</strong>icona perché tale è per il pubblico. Sarebbe utileporsi queste domande a proposito <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici moltopubblicizzati, quali per esempio il Guggenheim<strong>di</strong> Bilbao e la Disney Concert Hall a Los Angeles<strong>di</strong> Gehry, o certi grattacieli nelle città cinesi, o ciòche rimpiazzerà le Twin Towers a New York. Laprima fase delle interviste che ho effettuato tra LosAngeles, Boston, New York e <strong>di</strong>ntorni si è svoltada gennaio a giugno 2004, periodo in cui due


132 saggio metropolitano 133costruzioni <strong>di</strong> Frank Gehry – la Disney Concert Halla Downtown, Los Angeles, e lo Stata Center al MIT<strong>di</strong> Cambridge, vicino a Boston – erano onnipresentisui mass me<strong>di</strong>a e si parlava molto anche <strong>di</strong> un suoprogetto a Brooklyn (New York). Dagli articolisulla stampa e dalle mie interviste appariva chiaroche Gehry e i suoi e<strong>di</strong>fici erano considerati iconici,e questo anche da chi non era del tutto a proprioagio con tale terminologia. Koenig ha scritto: «Nonè frequente che un e<strong>di</strong>ficio raggiunga lo status <strong>di</strong>icona ancora prima <strong>di</strong> essere costruito, ma la DisneyConcert Hall è sotto i riflettori da quando ha lasciatoil tavolo da <strong>di</strong>segno [… Le sue scaglie] incarnanolo spirito, l’esuberanza e l’essenza stessa <strong>di</strong> LosAngeles» (2000, p. 107) 27 – nonostante l’opposizionedei senzatetto della zona, allontanati duranteil lavoro <strong>di</strong> costruzione, e le proteste da parte degliabitanti del condominio <strong>di</strong> fronte alla costruzioneperché la ritenevano fonte <strong>di</strong> riflessi accecanti e <strong>di</strong>surriscaldamento.Occorre però notare che storicamente non è insolitoche l’iconicità degli e<strong>di</strong>fici emerga a seguito <strong>di</strong>un’iniziale opposizione pubblica, come è avvenutoper esempio, tra le molte altre architetture iconichepiù menzionate, dalla Torre Eiffel al CentroPompidou (figura 8a) e alla Sydney Opera House.La <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> Lipstadt tra canonico e iconico ètroppo rigida per trattare queste problematiche, al<strong>di</strong> là della sovrapposizione che può occasionalmenteverificarsi. È più utile invece <strong>di</strong>stinguere le iconeprofessionali (intese come i canoni dei <strong>di</strong>versi grup-pi <strong>di</strong> professionisti) dalle icone pubbliche, tenendoaperta, anziché restringerla, la possibilità che leprime <strong>di</strong>ventino icone pubbliche senza perdere lapropria iconicità professionale. In altre parole, une<strong>di</strong>ficio o uno spazio non perde necessariamentequelle qualità che l’avevano reso famoso tra i professionisti,nella comunità architettonica, per il solofatto <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare celebre al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> tale cerchia.Le frasi che abbiamo citato – «i fac-simili del Guggenheim<strong>di</strong> Bilbao» e «una volta visto un e<strong>di</strong>ficio<strong>di</strong> Calatrava e <strong>di</strong> Meier li hai visti tutti» – sono manifestamentefalse, poiché ignorano, per esempio,che per il Guggenheim e per la Disney Concert Hallsono stati utilizzati materiali <strong>di</strong>versi e che le scagliedello Stata Center <strong>di</strong> Cambridge sono <strong>di</strong>verse daquelle <strong>di</strong> entrambi, oltre alle <strong>di</strong>verse localizzazioni<strong>di</strong> questi e<strong>di</strong>fici. E lo stesso vale per Calatrava, perMeier e per altri architetti iconici.È molto più probabile che le persone che restanocolpite da un e<strong>di</strong>ficio <strong>di</strong> Gehry, <strong>di</strong> Calatrava o<strong>di</strong> Meier siano stimolate a cercarne altri anzichépensare <strong>di</strong> averli già visti tutti, ed è qui che <strong>di</strong>ventarilevante quel simbolismo/estetica unico, proprioper le icone architettoniche – in termini <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>ziocorporativo su una specifica produzione architettonica– che compiono con successo il “passaggio” daiprofessionisti al grande pubblico. Questa <strong>di</strong>stinzioneci porta a pensare, tramite l’analisi delle <strong>di</strong>namichesecondo le quali le icone passano da uno status a unaltro, i processi <strong>di</strong>fferenziali della produzione sociale<strong>di</strong> icone, e come gli e<strong>di</strong>fici e gli spazi possanoperdere, oppure conquistare, l’iconicità. 28Fig. 8a – Centre Pompidou <strong>di</strong> Rogers e Piano (1977): internoesterno,vedere ed essere visti. Fonte: Leslie Sklair27 Sebbene il punto <strong>di</strong> Koenig sia ampiamente assunto, la mia ricercamostra che la pratica <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>care in anticipo l’iconicità degli e<strong>di</strong>fici ècomune. Questo può essere spiegato in termini <strong>di</strong> imperativo <strong>di</strong> marketingconnaturato alla cultura-ideologia del consumismo. Per una trattazionecritica delle politiche del lavoro <strong>di</strong> Gehry cfr. Davis 1992, pp. 236-240.28 Il libro pubblicato da Thiel-Siling (2005, prima e<strong>di</strong>zione 1998)presenta in doppia pagina 87 «icone dell’architettura del XX secolo»secondo criteri <strong>di</strong> storia dell’architettura, popolarità, originalità o valoresimbolico; dunque icone professionali e popolari appaiono “mischiate”.Fig. 8b – Il modello monumentale dell’aspirante iconico ChinaCenter Television Buil<strong>di</strong>ng <strong>di</strong> Rem Aas OMA a Pechino


134 saggio metropolitano 135Liberare l’iconico dai suoi riferimenti professionalie <strong>di</strong> rappresentazione è un’operazione che paradossalmentegli conferisce un grande potenzialeesplicativo, quando viene applicato in architettura.Analiticamente, l’iconicità in architettura non puòessere considerata semplicemente come giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong>eccellenza o unicità ma, quale celebrità nella culturapopolare, anche come risorsa nella lotta per il significatoe, <strong>di</strong> conseguenza, per il potere. Nella globalizzazionecapitalista l’iconicità è una componenteessenziale della cultura-ideologia del consumismo– per riprendere l’espressione con cui ho definitol’assiologia sottesa al sistema della globalizzazionecapitalista –, da cui: «Iconico. Un incitamento aspendere denaro» (Anonimo 2004). Il potere <strong>di</strong>conferire lo status <strong>di</strong> icona a un e<strong>di</strong>ficio, a unospazio o a un architetto è una risorsa importanteche la TCC può mobilitare per facilitare l’assimilazionedel grande pubblico nella cultura-ideologiadel consumismo, per fare in modo che le personecontinuino a spendere, e questo al fine <strong>di</strong> massimizzarei profitti delle imprese transnazionali e dei loroproseliti, e per portare alle stelle il prestigio dellaclasse nel suo insieme.È in questi termini che possiamo spiegare il fenomenodelle icone deliberatamente realizzate in un’eraglobale in cui chi possiede e gestisce i progettiarchitettonici ne annuncia anticipatamente lo status<strong>di</strong> icona, secondo una pratica transnazionale dellacultura-ideologia del consumismo. Ve<strong>di</strong>amonequalche recente esempio emblematico, riportato daime<strong>di</strong>a <strong>di</strong> architettura.«Il dubbio […] <strong>di</strong>pende dal fatto che l’iconico Sta<strong>di</strong>oOlimpico <strong>di</strong> Santiago Calatrava sia finito nei tempiprevisti» (“UK shuns Beijing gold”, in “Buil<strong>di</strong>ngDesign”, 21 marzo 2003, p. 6) – in riferimentoallo Sta<strong>di</strong>o Olimpico <strong>di</strong> Atene. «Tony Blair intercedeperché Foster & Partners e Arup si aggiu<strong>di</strong>chinola commissione da 1,2 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> sterlineper l’ampliamento dell’aeroporto <strong>di</strong> Pechino [...] Èstato annunciato questa settimana […] il rappresentante<strong>di</strong> RIBA in Cina, Martin Iles, ha apprezzatoil coinvolgimento <strong>di</strong> Blair […] Lo stesso Foster hautilizzato alcuni contatti chiave, volando spesso aPechino e incontrando l’ambasciatore […] la squadra<strong>di</strong> progettisti si è impegnata a “creare una nuovaicona per la Cina”» (“Blair aids Foster win”, in“Buil<strong>di</strong>ng Design”, 7 novembre 2003, p. 1). «Ciè voluto del tempo alla comunità architettonica <strong>di</strong>New York solitamente poco innovativa per aprirsidopo l’11 settembre. “Per noi sono cambiate tantecose” <strong>di</strong>ce Derek Moore, un associato alla SOM icui uffici erano a<strong>di</strong>acenti al World Trade Center.L’azienda aveva appena consegnato i documenti perla costruzione <strong>di</strong> un nuovo grattacielo per la Borsa(“una nuova icona del capitalismo” <strong>di</strong>ce in modosecco Moore) che poi è stata accantonata» (“Say itwith Towers”, in “Buil<strong>di</strong>ng Design”, 13 settembre2002, p. 11). Infine, il sito internet della ICA <strong>di</strong>Boston nel 2004 riportava che il nuovo <strong>di</strong>rettore,Jill Medvedow, «ha condotto con successo l’offerta<strong>di</strong> appalto per la costruzione <strong>di</strong> un nuovo museo,sul litorale <strong>di</strong> Boston, che creerà una presenza iconicaper l’arte contemporanea a Boston». La TCC, inarchitettura, si trova quin<strong>di</strong> a effettuare una delicataponderazione dei suoi sforzi per alimentare il flusso<strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici, spazi e architetti iconici, dal momento cheaverne troppo pochi significa un mancato profitto,ma troppi portano alla svalutazione dell’architetturaiconica. La sua espansione su scala globale è untema delicato da affrontare.Iconico rispetto a dove?Mentre gli e<strong>di</strong>fici iconici devono, ovviamente,essere localizzati in punti precisi, 29 la scala geograficadella loro iconicità è variabile, poiché le iconepossono avere significato e riconoscimento locale,nazionale o globale, o qualsiasi combinazione <strong>di</strong>questi tre livelli. Questo vale per le icone professionalicome per quelle pubbliche e per quelle chehanno acquisito lo status <strong>di</strong> icone sia presso glispecialisti sia presso il grande pubblico; ma nel regime<strong>di</strong> globalizzazione capitalista, sotto la pressionedella cultura-ideologia del consumismo, le relazionisociali <strong>di</strong> produzione delle icone sono simili, qualunquesia la scala designata o effettiva dell’iconicità<strong>di</strong> queste ultime. Non credo fosse lo stesso per leicone statali e/o religiose dell’era che ha preceduto laglobalizzazione capitalista.Come abbiamo accennato, se è vero che moltie<strong>di</strong>fici o spazi possono essere sistemi <strong>di</strong> riferimento,non tutti però sono necessariamente icone pergli specialisti o per il pubblico in senso ampio. Ipunti <strong>di</strong> riferimento tendono a svettare in relazioneal contesto circostante, quin<strong>di</strong> c’è un elemento <strong>di</strong>fisicità specifica che non sempre appartiene invecealle icone locali – sebbene anche molte icone localisiano “alte”. Le icone professionali, così comequelle pubbliche, hanno invariabilmente specifichequalità simbolico/estetiche, i sistemi <strong>di</strong> riferimentono. Il fatto che <strong>di</strong>verse qualità simbolico/estetichepossano essere riven<strong>di</strong>cate per le icone professio-29 Come sempre, alcune eccezioni confermano la regola. Per esempio,nel 1971 il London Bridge è stato smontato e rimontato in Arizona (Dana2004) e c’era stata la proposta, da parte <strong>di</strong> un potenziale acquirente, <strong>di</strong>spostare la Farnsworth House dall’Illinois al Wisconsin. Naturalmente gliarchitetti sono molto più mobili dei loro e<strong>di</strong>fici!nali in contrapposizione a quelle pubbliche rendei relativamente rari casi <strong>di</strong> architettura iconicatrasversali – ovvero e<strong>di</strong>fici e spazi riconosciuti siadai professionisti che dal pubblico – particolarmentesignificativi per le <strong>di</strong>scussioni su gusto, arte alta ecultura popolare.Le icone locali sono e<strong>di</strong>fici e spazi molto conosciuti,seppure non necessariamente molto amati, entroaree circoscritte, <strong>di</strong> solito in città e <strong>di</strong>ntorni, chehanno in tali luoghi un significato simbolico definito.Esse possono essere conosciute da chi è interessatoalle città che le ospitano, anche se non le abita,e sicuramente le icone locali <strong>di</strong> Londra, New Yorke Parigi saranno più conosciute <strong>di</strong> quelle locali <strong>di</strong>Leeds (Inghilterra), Rochester (Stato <strong>di</strong> New York)o Nancy (Francia). Abbiamo già accennato al St.Louis Arch (Lipstat 2001). Un altro caso interessanteè l’e<strong>di</strong>ficio Pirelli <strong>di</strong> Marcel Breuer – sull’Interstatale95 fuori da New Haven, sulla costa orientaledegli Stati Uniti – originariamente costruito perArmstrong Rubber e che nel 1969 venne rilevatoda Ikea. Quest’ultima tagliò la parte posterioredell’e<strong>di</strong>ficio per ricavarvi lo spazio per un parcheggio(Breuer, per ironia, era stato <strong>di</strong>rettore del <strong>di</strong>partimento<strong>di</strong> arredo al Bauhaus <strong>di</strong> Weimar negli anniventi). Non solo l’e<strong>di</strong>fico fornisce un’entrata iconicaa New Haven – nel senso che è famoso localmente efornisce un’impressionante entrata simbolica nellacittà – ma Ikea, come Wal-Mart, «mantiene uniforme,iconico l’aspetto del proprio enorme magazzino»(come da sito internet della US National Trust).Cosicché un buon operatore nell’ambito della conservazionenon deve porsi il problema <strong>di</strong> mescolareIconico I e Iconico II. È il contesto a guidare l’interpretazione.Una notazione pertinente è illustrata dalleopinioni della giuria dell’AIA Honor Award vintonel 2003 dall’Hypo Center <strong>di</strong> Klagenfurt, Austria,


136 saggio metropolitano 137<strong>di</strong>segnato dall’azienda <strong>di</strong> Thom Mayne, la Morphosis<strong>di</strong> Santa Monica: «La struttura dei quartieri generalidelle banche si annuncia come un’istituzione civicaiconica. […] È una grande realizzazione che utilizzal’architettura per inserire questa città sulle guide. 30È il consueto fenomeno del marketing territoriale:la promozione urbana è la ragione più comune dellacreazione deliberata <strong>di</strong> icone architettoniche. Nonè quin<strong>di</strong> un caso che le tre opere sopra menzionatefossero intese come icone per le città (St. Louis, NewHaven, Klagenfurt), dal momento che chi possiedee governa le città vuole sempre <strong>di</strong> più che esse sianofacilmente riconoscibili, sia per scopi commercialisia per orgoglio civico – per molti tra i due concettic’è poca <strong>di</strong>fferenza, come Dovey (1999, capitolo11) illustra nel caso <strong>di</strong> Melbourne. Chi guida ilmarketing urbano tenta <strong>di</strong> creare, deliberatamente,delle icone architettoniche al fine <strong>di</strong> attrarre turistie partecipanti a convention e gran<strong>di</strong> eventi purchéportino denaro, e anche le immagini che fa circolaresono rivolte a questo obiettivo. Si tratta <strong>di</strong> un businessdavvero globalizzante – certo in tutto il NordAmerica e in tutta l’Europa (Jonas e Wilson 1999;Sklair 2005) –, dalla TelstraClear Pacific a Manukau,«che combina architettura iconica e funzionalitàper far vetrina al tuo evento» (Auckland 2005), alletante pubblicità dei resort hotels <strong>di</strong> Dubai (ora vendutaper nuova “città iconica”) e altri posti che allostesso modo promettono “architettura iconica” comefosse una delle tante attrazioni, o meglio, una delleattrazioni necessarie.Se la standar<strong>di</strong>zzazione dell’architettura e la promozioneurbana sono nate solo alla fine del XX30 Da www.aia.org/me<strong>di</strong>a. Mayne nel 2005 vinse il premio Pritzker.secolo, si conviene però sul fatto che parallelamenteal <strong>di</strong>ffondersi della globalizzazione capitalista qualemodo dominante <strong>di</strong> produzione, <strong>di</strong>stribuzione escambio, dagli anni cinquanta circa siano cambiateanche le pratiche architettoniche. Nell’articolo“The architecture of plenty”, Kieran (1987, p. 28)riassume bene il concetto: «Il modello emergente <strong>di</strong>cliente è quello <strong>di</strong> un acquirente <strong>di</strong> servizi architettoniciin un libero mercato. […] Quando si sente lamancanza <strong>di</strong> un’immagine tangibile, oggi l’architetturasi vende spesso per un’icona collettiva», e perillustrare la sua tesi riporta la visione del costruttoreGerald Hines, il concorso del Chicago ArchitecturalClub Tops e i progetti del Best Store Design. 31 Più<strong>di</strong> recente, lo stesso processo è stato (per quantoin modo deprimente) confermato da un eminentefunzionario dell’architettura del Regno Unito, ilvicepresidente del CABE (Commission for Architectureand the Built Environment, sponsorizzata dalgoverno), che ha <strong>di</strong>chiarato che gli architetti devonospostarsi verso il prodotto commerciale dando almercato una parvenza <strong>di</strong> creatività senza fare, inrealtà, nulla <strong>di</strong> rischioso. Il contesto delle sue puntualizzazioniè una <strong>di</strong>scussione sul lavoro dell’azienda<strong>di</strong> “idee” ABK, che non è riuscita a ottenere ilcontratto per l’estensione della National Gallery<strong>di</strong> Londra – costruita da Venturi, Scott Brown – acausa, si <strong>di</strong>ce, dell’intervento della cricca tra<strong>di</strong>zionalistaraccolta attorno al principe Carlo (Rattenbury2002, cap. 11). Notando l’assenza <strong>di</strong> «e<strong>di</strong>fici iconicicommerciali nel portafoglio della ABK, il committentesi chiede se un’azienda che rifiuti qualsiasi tipo31 Una prima intervista con Hines, uno dei cosiddetti “New YorkFive”, è piuttosto rivelatrice (cfr. Eisenman 1982). Sui trascorsi politicidella “Downtown Inc.” cfr. Frieden-Sagalyn 1991 e, sulle conseguenzeculturali, Zukin 1996.<strong>di</strong> mercificazione possa sopravvivere nelle con<strong>di</strong>zioniattuali» (“Buil<strong>di</strong>ng Design”, 22 marzo 2002,p. 20). Negli ultimi decenni, la National Gallery<strong>di</strong> Londra – con la sua nuova ala Sainsbury (chet’invita a chiamarla “supermarket dell’arte”) – è <strong>di</strong>ventata,alla pari <strong>di</strong> tutti i gran<strong>di</strong> musei del mondo,molto più commercializzata.Come in<strong>di</strong>cano le fonti documentarie e le interviste,ogni luogo ha propri e<strong>di</strong>fici e spazi iconici localiche contribuiscono in modo forte alla sua identità,favorendo la <strong>di</strong>fferenziazione dei luoghi. Per quantopossa suonare un po’ ri<strong>di</strong>colo definire iconici la PlaceVille Marie <strong>di</strong> Montreal, il nuovo Ponte Erasmus<strong>di</strong> Rotterdam e la Rotunda Tower <strong>di</strong> Birmingham,giacché pochi al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> queste città ne avrannosentito parlare o visto le immagini, questi e<strong>di</strong>fici espazi sono iconici per le località in cui si trovano,per coloro che regolarmente li usano e li vedono.Molti <strong>di</strong> coloro che si occupano <strong>di</strong> architetturapotrebbero riconoscere le icone – e<strong>di</strong>fici e spazilocali – <strong>di</strong> cui chi abita nei loro <strong>di</strong>ntorni, o anchenelle città, deve aver sentito parlare. Si tratta, peresempio, <strong>di</strong> luoghi <strong>di</strong> ritrovo per i giovani adultio, più spesso, <strong>di</strong> posti in cui la gente si ritrova inoccasioni speciali.Negli anni sessanta, quando è stata costruita, PlaceVille Marie era vista come il primo “simbolo” veramente“fantastico e all’avanguar<strong>di</strong>a” <strong>di</strong> Montreal inquanto città <strong>di</strong> rango mon<strong>di</strong>ale, ed era chiamata dagliabitanti del posto «il nostro Rockefeller Center».Era il periodo dell’Expo 1967. Oggi invece PlaceVille Marie appare banale, un’icona smarrita, persatra i grattacieli della città.Il Ponte Erasmus, d’altro canto, è ciò che potremmochiamare la sostituzione <strong>di</strong> un’icona locale, una fasedella successione iconica a livello citta<strong>di</strong>no, poichéha preso il posto dell’Euro Space Tower – quella chea partire dagli anni sessanta era stata la più importanteicona locale, il simbolo della nuova Rotterdamnata dalle ceneri della Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale,un simbolo “modernista” che veniva riprodottocontinuamente nel marketing della città – comesua icona tanto fisica quanto simbolica, nell’immaginee nel marketing della città (per esempio sullacopertina della mappa della pianta della città che sitrova all’aeroporto e riprodotta sul sacchetto per lalavanderia). L’immagine del Ponte Erasmus è quella<strong>di</strong> una struttura elegante e tecnologica, un po’ instile Calatrava, che contribuisce alla rigenerazionedel litorale <strong>di</strong> Rotterdam (cfr. Meyer 1999).La Rotunda è stato il primo importante palazzorotondo a Birmingham ed è sopravvissuto comeicona locale grazie alla sua forma (non si intravedenessun’altra ragione, è un esempio <strong>di</strong> quelle che hodefinito le “specificità estetiche” delle icone), mentreil Bull Ring, che domina il centro della città, è statodemolito e poi ricostruito. Potrebbe essere stataproprio la roton<strong>di</strong>tà del primo, in contrasto conl’architettura neobrutalista del secondo, a spiegarelo status <strong>di</strong> icona locale della Rotunda, che nel2005 è stata trasformata in condominio <strong>di</strong> lussodalla modaiola Urban Splash, il cui portavoce hacommentato entusiasta: «È eccezionale. Siamo statiinondati <strong>di</strong> richieste ancora prima <strong>di</strong> avere fattopubblicità. Tutti vogliono vivere in un’icona» (“BirminghamPost”, 5 settembre 2005). Si apre qui laquestione del legame tra gli utilizzi <strong>di</strong> alcune iconearchitettoniche e la classe sociale <strong>di</strong> fruitori, unargomento che meriterebbe ulteriori ricerche.Possiamo operare delle generalizzazioni su ciò che<strong>di</strong>stingue le icone locali da tutti gli altri e<strong>di</strong>fici espazi <strong>di</strong> un quartiere o <strong>di</strong> una città? Come ho giàscritto, la nozione <strong>di</strong> sistema <strong>di</strong> riferimento è presentenella teoria urbana, specialmente nel lavoro


138 saggio metropolitano 139<strong>di</strong> Kevin Lynch. Ma questi sistemi, in generale, sivedono da lontano (e <strong>di</strong> solito svettano) e la definizione<strong>di</strong> sistema <strong>di</strong> riferimento non prevede nessunparticolare significato simbolico; invece le icone– che non necessariamente si vedono da lontanoné svettano per forza (nell’esempio <strong>di</strong> Rotterdam,un’alta cuspide è stata scalzata da un ponte relativamentebasso) – devono, per essere tali, a qualsiasilivello, avere qualche significato simbolico/esteticoistituzionalmente sancito. È questa sanzione cherestituisce il senso delle loro qualità simbolico/estetiche percepite a renderle iconiche e, quin<strong>di</strong>,“famose” nel contesto locale. Nell’era globale, questiprocessi sono guidati tendenzialmente dalle aziende,in<strong>di</strong>pendentemente dal fatto che specifici e<strong>di</strong>ficie spazi siano sponsorizzati dallo Stato, dal settoreprivato o da entrambi. Che il business del businesssia business è ovvio, meno scontato è che anche ilbusiness dello Stato sia, sempre <strong>di</strong> più, business(Sklair 2001).Nella storia, le icone nazionali – in genere e<strong>di</strong>ficie spazi costruiti dallo Stato e/o dalle istituzionireligiose – sono state, quando tra<strong>di</strong>zionali, invariabilmentecaratterizzate da grande leggibilità intermini <strong>di</strong> monumentalità, spesso accompagnata damotivi scultorei e figurativi. Oggi <strong>di</strong>sponiamo <strong>di</strong>una letteratura considerevole sul tema “architetturae potere”, che analizza i mo<strong>di</strong> in cui e<strong>di</strong>fici e spazi,specialmente se monumentali, esprimono relazioni<strong>di</strong> potere e come da essi il citta<strong>di</strong>no comune e/oil credente può trarre valori politici e religiosi. 32L’architettura iconica degli Stati potenti, compresi32 Particolarmente utili, per lo sviluppo delle mie teorie, sono statiLehamnn-Haupt 1954, Holston 1989, Vale 1992, Wharton 2001 e Fierro2003.quelli che lo sono stati in passato e che ora non losono più, spesso valica i confini, e anche la tematica“architettura e imperialismo” ha attirato l’attenzione<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi stu<strong>di</strong>osi. 33Poiché, naturalmente, continuano a essere costruitie<strong>di</strong>fici e spazi creati da Stati e da istituzionireligiose, lo stu<strong>di</strong>o dell’architettura iconica e dellaglobalizzazione capitalista porta a chiedersi se processisimili, antecedenti l’era globale (che consideroiniziare attorno agli anni cinquanta), l’abbianoanche accompagnata e se persistano ancora oggi. Uncorollario al tema <strong>di</strong> questo articolo è l’ipotesi secondola quale, mentre l’architettura iconica dell’erapreglobale era guidata principalmente dalla Chiesae dallo Stato (incarnati spesso dalle stesse istituzionied élite), l’architettura iconica dell’era globalesia sempre più guidata da interessi aziendali a cuidanno corpo i principali appartenenti alla classecapitalista transnazionale e si concretizzi nelle loroimprese (Sklair 2005). Per quanto l’oggetto principale<strong>di</strong> questa trattazione siano le icone dell’era globale,dagli anni cinquanta in poi, è utile prenderein considerazione anche quelle più antiche.In prospettiva storica, le icone nazionali inizianola propria carriera come icone locali <strong>di</strong> importanticittà in cui sono, o erano, residenti i detentori delpotere economico o politico o della cultura-ideologiadominante, come è evidente nel caso dei piùforti poteri imperialisti del passato e del presente.Negli Stati Uniti, le icone nazionali si trovano aWashington (il Capital, il Lincoln Memorial) e aNew York (certamente la Statua della Libertà e il33 Per approcci <strong>di</strong>versi, confronta Crinson 1996 e Cody 2003. Diparticolare interesse è la critica costruttiva <strong>di</strong> Crinson all’applicazioneall’architettura della nozione <strong>di</strong> «Orientalismo» (Said 1978).Ponte <strong>di</strong> Brooklyn, ma anche le Torri Gemelle delWord Trade Center che molti dei miei intervistatihanno sottolineato essere <strong>di</strong>ventate icone nazionalidopo l’11 settembre). In Inghilterra le icone sonoa Londra – Buckingham Palace, Westminster e ilBig Ben sono quelle nazionali più frequentementecitate –, in Francia a Parigi – la Tour Eiffel e NotreDame –, in Italia a Roma – il Colosseo e il Pantheon–, in Cina a Pechino – la Piazza Tienanmen e laCittà Proibita. Si potrebbe continuare. È interessanteosservare che la maggior parte <strong>di</strong> queste iconenazionali risalgono a prima del XX secolo e chemolti tentativi <strong>di</strong> costruire nuove icone nazionalinel Novecento sembrano essere falliti, come peresempio il tar<strong>di</strong>vo Second World War Memorial <strong>di</strong>Washington (anche se si potrebbe portare il caso delVietnam Memorial Wall <strong>di</strong> Maya Lin), e lo sfortunatoMillennium Dome <strong>di</strong> Londra. In questi paesi iveri e<strong>di</strong>fici iconici del XX secolo, in termini <strong>di</strong> famae fascino estetico/simbolico, sia per gli architetti siaper il pubblico, sono con ogni probabilità aziendali.È il caso dell’Empire State Buil<strong>di</strong>ng e del ChryslerBuil<strong>di</strong>ng a New York (antecedenti gli anni cinquanta,si intende), <strong>di</strong> Canary Wharf e dei Lloyds aLondra, dell’e<strong>di</strong>ficio dell’HSBC a Hong Kong e dellaJin Mao Tower a Shanghai. Il <strong>di</strong>scusso e<strong>di</strong>ficio dellaChina Central Television a Pechino viene ritenutoiconico nonostante la sua fama e il suo simbolismoappaiano più aziendali che nazionali, senza dubbio“stranieri” (figura 8b).Esistono delle icone autenticamente globali? Rispettoa questa domanda, è rilevante il <strong>di</strong>battito delperiodo imme<strong>di</strong>atamente successivo l’11 settembresulle Torri Gemelle e sulle conseguenze della loroper<strong>di</strong>ta, ben sintetizzato in un articolo pubblicatodal “Dallas Morning News” il 18 settembre 2001 efirmato da David Dillon, dal titolo “Attack on iconicbuil<strong>di</strong>ngs robs us of emotional compasses” (L’attaccoagli e<strong>di</strong>fici iconici ci deruba delle bussole emotive):«Gli e<strong>di</strong>fici iconici – la Tour Eiffel, la SydneyOpera House, il Gateway St. Louis, il Pentagono e ilWorld Trade Center – ci <strong>di</strong>cono, a colpo d’occhio,dove siamo. Sono gran<strong>di</strong> e ben visibili, per cui bastaun’occhiata per orientare la nostra bussola visivaed emotiva e, quando spariscono, arriva un vuotopsicologico; è come se la nostra memoria, improvvisamente,ci tra<strong>di</strong>sse e ci <strong>di</strong>sorientassimo».I luoghi degli e<strong>di</strong>fici che vengono <strong>di</strong>strutti <strong>di</strong>ventanoiconici (figura 9). L’idea che le icone globalidebbano essere gran<strong>di</strong> è molto comune e collega iltema dell’iconicità a quelli della monumentalità, 34dei profili delle città e a quella che Van Leeuwen(1988) chiama «la linea del pensiero che svetta nelcielo» (ve<strong>di</strong> anche King 2004, capitolo I). Attoe(1981, capitolo 6) offre un’utile argomentazionesu come i profili delle città possano <strong>di</strong>ventare icone,come nel caso specifico <strong>di</strong> Manhattan, naturalmente,e sulla rappresentazione che ne offrono i me<strong>di</strong>a,in particolare i film (Sanders 2001).E<strong>di</strong>fici e spazi inquadrati e/o ripresi in primo pianonei film e negli spettacoli televisivi famosi a livelloglobale hanno oggi uno status <strong>di</strong> icona pubblicapressoché garantito, anche se questo non significache i membri del pubblico che riconoscono gli e<strong>di</strong>-34 Per le <strong>di</strong>scussioni sul tema della “monumentalità” nel XX secolo,ve<strong>di</strong> Collins-Collins 1984 e la ristampa dell’articolo <strong>di</strong> Gie<strong>di</strong>on del 1944“The need for a new monumentality” sullo stesso numero della “HarvardArchitetture Review”. Gie<strong>di</strong>on (1984) sosteneva che la monumentalitàdovesse essere liberata dalle <strong>di</strong>storsioni totalitarie che presentava e ricreatain una forma emozionalmente colta e democratica. Per ragioni <strong>di</strong> spazio,non mi addentro in questa sede nelle relazioni tra monumentalità eiconicità – basti sottolineare che i membri della transnational capitalist classpaiono pre<strong>di</strong>ligere la propria iconicità in forma <strong>di</strong> grattacielo, senza peròescludere in blocco altre forme innovative (Frank Gehry, per esempio, nonha ancora costruito grattacieli!).


140 saggio metropolitano 141Fig. 9 – La costruzione dell’iconico. La targa riporta: «Per tre deca<strong>di</strong>questa scultura si è innalzata nella piazza del World Trade Center.Denominata “La Sfera” è stata ideata dall’artista Fritz Koenig comesimbolo della pace nel mondo. Danneggiata durante i tragici eventidell’11 settembre 2001, perdura come icona della speranza e dello spiritoin<strong>di</strong>struttibile <strong>di</strong> questo paese […]». Fonte: Leslie Sklairfici sono anche in grado <strong>di</strong> dare loro un nome o <strong>di</strong><strong>di</strong>re da quali architetti siano stati creati. Quanti traquelli, esclusi gli abitanti <strong>di</strong> Miami, che hanno vistoMiami Vice sanno dare il nome all’Atlantis Buil<strong>di</strong>ng ohanno sentito parlare degli architetti Arquitectonica?E quanti, fuori da Los Angeles, dopo aver visto BladeRunner sanno il nome del Bradbury Buil<strong>di</strong>ng o conosconoGeorge Wyman? Allo stesso modo, quanti, tracoloro che hanno visto Men in Black e che non sono<strong>di</strong> New York sanno del Guggenheim o conosconoFrank Lloyd Wright (che pure è indubbiamente ilpiù famoso architetto mai esistito)? Dunque, ciò chetrasforma le icone nazionali e locali in icone globaliè una miscela <strong>di</strong> pubblicità, <strong>di</strong> simbolismo, <strong>di</strong> estetichepeculiari dell’iconicità. Indubbiamente questoprocesso, sorretto in modo ine<strong>di</strong>to dalla rivoluzionedell’elettronica – prima caratteristica della globalizzazionegenerica – che ha trasformato i mass me<strong>di</strong>a,si applica oggi sia all’architettura del passato sia aquella del presente, anche se non necessariamenteallo stesso modo.Iconico quando?Ai fini <strong>di</strong> questo articolo è utile tracciare uno spartiacquetra le icone dell’era preglobale (prima deglianni cinquanta) e quelle dell’era globale, poichéquesta cronologia ha a che fare con la domandaposta nel paragrafo precedente: fino a che puntoè possibile sostenere che prima dell’avvento dellaglobalizzazione capitalista gran parte dell’architetturaiconica fosse prodotta dallo Stato e/odalla religione, e che, invece, a partire dagli annicinquanta il “pilota” dell’architettura iconica siail grande gruppo industriale? E, se questo è vero,come si spiega? Perché proprio gli anni cinquanta?La risposta sta nei criteri con cui ho definito laglobalizzazione generica. È negli anni cinquantache sono iniziate le rivoluzioni elettronica e postcolonialee che – dalla riorganizzazione, in tutto ilmondo e più o meno rapida, della vita economica,sociale e culturale – la creazione <strong>di</strong> spazi socialitransnazionali e <strong>di</strong> nuove forme <strong>di</strong> cosmopolitismoha stimolato alcune forme <strong>di</strong> espressione e <strong>di</strong>produzione architettonica (per esempio, grazie allenuove tecnologie e ai nuovi materiali) a scapito <strong>di</strong>altre (pensiamo, per esempio, a come la <strong>di</strong>ffusionee la rapida circolazione delle immagini abbianoaumentato l’importanza, in architettura, dell’originalitàdell’aspetto visivo). 35Oggi, sorprendentemente, c’è un consenso pressochéunanime su quali e<strong>di</strong>fici e spazi costituiscano leprincipali icone storiche globali sia per i professionistisia per il pubblico profano. Si tratta in genere<strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici monumentali che hanno superato leinsi<strong>di</strong>e del tempo, mantenendo forme più o menoriconoscibili e il cui elenco tipico include le (Gran<strong>di</strong>)Pirami<strong>di</strong> egizie e la Sfinge (<strong>di</strong> Giza) – e questisono, evidentemente, nomi sia <strong>di</strong> un tipo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficioe <strong>di</strong> scultura sia <strong>di</strong> specifiche icone (Curl 1994) –,il Pantheon e il Colosseo <strong>di</strong> Roma, l’Acropoli-Partenone<strong>di</strong> Atene, il Taj Mahal, il Pichu, le principalimoschee del mondo islamico e le cattedrali gotiche.Architetti, professori e critici (come probabilmenteanche <strong>di</strong>rettori <strong>di</strong> marketing e pubblicità) consumanoore e ore nel tentare <strong>di</strong> spiegare che cosa rendagran<strong>di</strong>oso un e<strong>di</strong>ficio gran<strong>di</strong>oso, che cosa rende famosoun e<strong>di</strong>ficio famoso, e la natura del legame tra35 Ve<strong>di</strong> anche la <strong>di</strong>stinzione tra age-value e newness value (Riegl 1998)nella trattazione <strong>di</strong> quello che l’autore chiamava nel 1928 il «cultomoderno dei monumenti».


142 saggio metropolitano 143Fig. 10 – Il Palazzo del Congresso <strong>di</strong> Niemeyer a Brasilia (1960), un’icona nazionale dai molteplicisignificati. Fonte: Leslie Sklairgran<strong>di</strong>oso e famoso. A conservare la fama <strong>di</strong> questiposti famosi, tralasciando la questione <strong>di</strong> che cosali renda gran<strong>di</strong>osi, è chiaramente, come accennatosopra, la pubblicità <strong>di</strong> ogni tipo. Ne sono una provale guide turistiche e la letteratura pubblicitaria deiluoghi che ospitano queste icone. La cultura-ideologiadel turismo consumista assicura che il bacino <strong>di</strong>queste icone storiche venga continuamente ampliato,fenomeno definito da Vale (1999) «monumentime<strong>di</strong>atici».ConclusioniL’architettura iconica contemporanea è oggiaziendale a un livello storicamente ine<strong>di</strong>to, comemostrano i grattacieli che proclamano la ricchezzae il potere delle maggiori imprese transnazionali,siano esse banche, società che producono beni eservizi o, come spesso avviene, quartieri generali<strong>di</strong> aziende <strong>di</strong> cui la maggior parte delle persone sadavvero poco. In più, molti e<strong>di</strong>fici e spazi iconici(specificatamente i centri e i parchi a tema) sonoaziendali, anche se non sempre identificati conun’azienda specifica.Sicuramente esistevano icone <strong>di</strong> questo tipoprima del 1950, così come sono state e<strong>di</strong>ficateicone <strong>di</strong> Stato e/o religiose dopo la seconda metàdel XX secolo. Brasilia, la capitale del Brasilecreata artificialmente, fu indubbiamente volutae costruita dalle persone che amministravanolo Stato negli anni cinquanta, tuttavia, comeha sostenuto Holston (1989), le imprese localied estere erano profondamente coinvolte nellacreazione <strong>di</strong> questa città modernista, nonostantela retorica egualitaria dei suoi fondatori (figura10). E se abbiamo molti esempi <strong>di</strong> ricostruzioni<strong>di</strong> città-capitali nazionali intraprese dagli Stati,questa potrebbe essere l’ultima grande cittànuova costruita da uno Stato democratico. Lepiù recenti teorie della città infinita e della città<strong>di</strong>spersa, tra le altre, suggeriscono che – all’epocadella globalizzazione capitalista – lo Stato localee/o nazionale non ha il potere <strong>di</strong> in<strong>di</strong>rizzare lapianificazione urbana in alcun senso. I politici ei professionisti che globalizzano possono sostenerela creazione <strong>di</strong> icone locali, nazionali e ancheglobali <strong>di</strong> successo nelle città, solo se restano all’internodella “cornice” definita dal settore delleimprese, come membri <strong>di</strong> minor peso all’internodella classe capitalista transnazionale.La TCC sostiene la produzione <strong>di</strong> architetturaiconica allo stesso modo, e per gli stessi motivi, <strong>di</strong>tutte le icone culturali, ovvero coinvolgendo artisticreativi, a <strong>di</strong>versi livelli, per costruire significati eper rappresentare efficacemente il proprio potere alfine <strong>di</strong> massimizzare i benefici commerciali per laclasse capitalista. La natura dell’ambiente costruitorafforza potentemente i sistemi valoriali, e la scelta<strong>di</strong> quali e<strong>di</strong>fici e spazi <strong>di</strong>ventano iconici non è maiarbitraria, come conferma la storia delle icone <strong>di</strong>resistenza.Per alcuni aspetti ciò somiglia ai mo<strong>di</strong> in cui loStato e/o le élite religiose sostenevano la produzione<strong>di</strong> architettura iconica. In altri se ne <strong>di</strong>scosta. Ulterioristu<strong>di</strong> sull’architettura iconica nell’era globalee preglobale – che si concentrino, per esempio, sucome l’iconicità possa essere persa e conquistata esul perché molte “icone” deliberatamente prodottenon abbiano successo – amplieranno la nostra conoscenzae la nostra comprensione non solo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici,spazi e architetti, ma del più ampio ruolo giocatodalla rappresentazione, dal simbolismo e dalle estetichenel fare e nel rifare il nostro mondo.


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146 vista sulla città 147la pinacoteca <strong>di</strong> bReRa.una stoRia mIlanese<strong>di</strong> Dario Trento, docente <strong>di</strong> Storia dell’arteall’Accademia <strong>di</strong> Belle Arti <strong>di</strong> BreraNel corso del 2009 la Pinacoteca <strong>di</strong> Brera ha progettatoi festeggiamenti per il secondo centenario dallasua fondazione, facendo riferimento all’inaugurazionedel museo avvenuta il 15 agosto 1809 nellesale ricavate dalla chiesa <strong>di</strong> Santa Maria <strong>di</strong> Brera. Inrealtà la Pinacoteca dell’Accademia delle Belle Arti<strong>di</strong> <strong>Milano</strong> era già stata inaugurata tre anni prima,nel maggio 1806, con una <strong>di</strong>versa collocazione nelpalazzo <strong>di</strong> Brera e con un or<strong>di</strong>namento significativamente<strong>di</strong>fferente. Sarebbe ingeneroso sostenereadesso che la scelta <strong>di</strong> festeggiare il 2009 in alternativaal 2006 sia dovuta a un orientamento precisodel museo, perché il suo calendario è dettato moltopiù dai tempi dei restauri del palazzo e dal logorantesforzo <strong>di</strong> realizzare il tante volte progettato (esempre aleatorio) ampliamento. Resta il fatto che ilfesteggiamento “sghembo” si incastra perfettamentenella storia del museo, sempre <strong>di</strong>viso tra due animee due vocazioni: quella <strong>di</strong> museo principe lombardoe quella <strong>di</strong> testimone autorevole dell’arte italiana. Inogni caso resta una riprova del forte carattere civilee civico che impronta tutta la sua storia.


148 vista sulla città 149Vienna non con<strong>di</strong>videvaAlla fine del secolo XVIII, quando a <strong>Milano</strong> hapreso forza la consapevolezza della necessità <strong>di</strong> unacollezione pubblica d’arte, occorreva fare i conti conle conseguenze del vuoto <strong>di</strong> un’autonoma produzioneartistica in città che durava da più <strong>di</strong> un secolo.L’arte lombarda era stata sovrana in Italia ed Europanei secoli XIV e XV, ma si era ridotta a <strong>di</strong>mensioniprovinciali dopo il 1535, quando lo Stato <strong>di</strong><strong>Milano</strong> aveva perso l’autonomia politica. La <strong>di</strong>fesadella sua autonomia, tentata dagli artisti lombar<strong>di</strong> edalla Chiesa milanese (con la formazione delle duecollezioni pubbliche dell’Ambrosiana e del car<strong>di</strong>nalMonti nell’arcivescovado nel secolo XVII), non haimpe<strong>di</strong>to che dalla metà del Seicento la liquidazionedell’identità artistica milanese <strong>di</strong>ventasse inevitabile.Così, quando gli eru<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> fine Settecento hannocercato <strong>di</strong> recuperare le vicende storiche <strong>di</strong> quellaciviltà artistica, si sono trovati <strong>di</strong> fronte alla voragine<strong>di</strong> un vuoto <strong>di</strong> memoria.È stata la ripresa delle arti nella seconda metà delSettecento ad accendere la volontà <strong>di</strong> ricostruire lamemoria dell’arte in Lombar<strong>di</strong>a. Già nel 1773 ilprogetto <strong>di</strong> un’Accademia <strong>di</strong> Belle Arti per <strong>Milano</strong>prevedeva, al suo interno, la costituzione <strong>di</strong> unacollezione <strong>di</strong> pittura. Quando poi l’Accademia èstata effettivamente fondata nel 1776, il primo segretarioa essere scelto per la sua conduzione è statoFrancesco Albuzio, un eru<strong>di</strong>to che raccoglieva memoriesui pittori milanesi. Stessa cosa vale per il suosuccessore, l’abate bolognese Carlo Bianconi, che haraccolto mappe e <strong>di</strong>segni dei monumenti <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>con l’intento <strong>di</strong> realizzare, attraverso una guida dellacittà (1783, 1787 e 1795), il primo censimentodel suo patrimonio artistico. Ma l’amministrazioneaustriaca non con<strong>di</strong>videva il progetto <strong>di</strong> un museod’arte pubblico milanese, considerando l’Accademiauna scuola finalizzata a formare maestranzequalificate. I sol<strong>di</strong> pubblici che venivano spesi per ilpatrimonio erano <strong>di</strong>rottati a <strong>Milano</strong> sulla bibliotecada poco fondata nel palazzo <strong>di</strong> Brera.Quin<strong>di</strong>, in assenza <strong>di</strong> un’azione governativa, laconservazione e la memoria del patrimonio artisticolombardo restavano affidate all’iniziativa dei privati.Perciò Albuzio e Bianconi (assieme al funzionariostatale Venanzio De Pagave) affiancavano agli stu<strong>di</strong>sulle arti il collezionismo <strong>di</strong> <strong>di</strong>segni e <strong>di</strong>pinti, enello stesso periodo l’aristocratico Giacomo Melziaveva raccolto la prima collezione intenzionalmentespecializzata nell’arte lombarda del Rinascimento.Essa comprendeva un insieme <strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti <strong>di</strong> qualitàforse mai eguagliata in seguito, con opere <strong>di</strong> Perugino,Bramantino, Luini, Cesare da Sesto, Zenale,Bergognone e altri. Che l’esigenza <strong>di</strong> una pubblicaraccolta d’arte per <strong>Milano</strong> restasse fortemente sentitalo <strong>di</strong>mostra, per esempio, il dono all’Accademia<strong>di</strong> <strong>Milano</strong> <strong>di</strong> un cartone ritenuto <strong>di</strong> GaudenzioFerrari (in realtà <strong>di</strong> Lanino) fatto da Venanzio DePagave l’8 giugno 1790 con la seguente motivazione:«Ho inteso con particolare sod<strong>di</strong>sfazione che ilR. Governo siasi determinato già da alcun tempo<strong>di</strong> unire in Brera ad eccitamento della Gioventùiniziata alle Belle Arti tutte quelle Pitture, che per lariforma <strong>di</strong> alcune malagiate chiese <strong>di</strong> questa Capitalesono rimaste inoperose e che per la loro vetustàe qualità meritavano <strong>di</strong> essere collocate nel Sacrariodelle Arti e delle Scienze». Ma anche quella volta siera trattato <strong>di</strong> una falsa partenza.Quattro anni prima, nel 1786, Giacomo Melziaveva chiesto al governo <strong>di</strong> acquistare sei <strong>di</strong>pintidepositati in Accademia. Si trattava <strong>di</strong> tre tavole <strong>di</strong>Perugino e <strong>di</strong> tre ritenute <strong>di</strong> Bernar<strong>di</strong>no Luini (inrealtà <strong>di</strong> Giovanni Agostino da Lo<strong>di</strong>) provenientidalla Certosa <strong>di</strong> Pavia e portate a <strong>Milano</strong> da GiulianoTraballesi, non ancora per avviare la sospiratacollezione d’arte della scuola ma per offrirle indono all’imperatore. Rifiutate dal museo <strong>di</strong> Viennache già possedeva opere significative <strong>di</strong> quegli autori,queste erano state messe a <strong>di</strong>sposizione del mercatocon il rischio concreto <strong>di</strong> uscire dal territoriodello Stato. Nella sua richiesta d’acquisto Melzi fanotare la cosa esplicitamente, richiamando l’esportazionedella Vergine delle rocce <strong>di</strong> Leonardo avvenutasolo un mese prima: «Anche l’antico <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong>Leonardo trasportato dalla chiesa <strong>di</strong> San Francesco<strong>di</strong> questa città nello spedale <strong>di</strong> S.ta Caterina, avendoincontrato la stessa sorte, è stato venduto nello scorsomese <strong>di</strong> Agosto al Professore Inglese Amilton». Ilcollezionista milanese aveva giustificato la propriaofferta come atto <strong>di</strong> salvaguar<strong>di</strong>a del patrimoniomilanese: passando alla sua collezione, infatti, quelleopere sarebbero «continuate a rimanere nello Stato,a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Leonardo <strong>di</strong>ggià trasmessaa Londra».Con Napoleone la prospettiva cambiaNel 1796 l’arrivo <strong>di</strong> Napoleone in Lombar<strong>di</strong>a avevacambiato ra<strong>di</strong>calmente le prospettive. Il pittore AndreaAppiani, tra i primi milanesi andati a rendereomaggio al generale francese, aveva infatti ricevutol’incarico <strong>di</strong> presiedere una commissione per lerequisizioni artistiche che solo una malattia gli haimpe<strong>di</strong>to <strong>di</strong> espletare concretamente.Il governo francese aveva ripreso le soppressionidei beni ecclesiastici il 27 luglio 1796, questa voltacon il progetto <strong>di</strong>chiarato <strong>di</strong> trattenere in proprietàpubblica le opere alienate <strong>di</strong> maggior pregio. La<strong>di</strong>sposizione, però, in una prima fase era rimastalettera morta. Solo nel 1799 sei <strong>di</strong>pinti eranoarrivati effettivamente in Accademia, provenientidalla chiesa milanese dei Santi Cosma e Damiano:due pale <strong>di</strong> Subleyras e una, rispettivamente, <strong>di</strong>Pompeo Batoni, Giuseppe Bottani, Francesco Gessie Alessandro Tiarini. E solo il 21 maggio 1802Appiani era stato nominato ufficialmente commissario<strong>di</strong> Belle Arti, mentre solo a partire dall’agosto1803 aveva ricevuto l’istruzione <strong>di</strong> inviare nelle dueAccademie nazionali <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> e Bologna le opere<strong>di</strong> prima scelta delle requisizioni, per «formare inentrambe una Collezione, che offra agli studenti lastoria progressiva dell’arte da’ suoi primor<strong>di</strong> sino alpresente, e gli esempi delle <strong>di</strong>verse maniere d’unostesso artista». Il progetto <strong>di</strong> una collezione pubblicanell’Accademia <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> entrava finalmente infase <strong>di</strong> realizzazione.Dall’interno dell’Accademia il segretario GiuseppeBossi, nominato nel 1801, si era nel frattempo messoin moto autonomamente nella stessa <strong>di</strong>rezione: il22 maggio dello stesso anno, coinvolgendo un commissariogovernativo del <strong>di</strong>partimento dell’Agogna(Novara), aveva cercato <strong>di</strong> recuperare un’Assunta <strong>di</strong>Lanino munita <strong>di</strong> “nome e data” dell’autore (quin<strong>di</strong>particolarmente adatto alle esigenze <strong>di</strong> una collezionepubblica) proveniente da San Francesco <strong>di</strong>Novara. Attraverso i nuovi Statuti dell’Accademia,pubblicati il 1° settembre 1803, il segretario avevaprogettato <strong>di</strong> dotare la scuola degli strumenti delleesposizioni annuali (che avrebbero dovuto fornirei modelli in ogni ramo della produzione artistica) edel museo (che avrebbe dovuto proporre gli esempiantichi), per farla <strong>di</strong>ventare il motore del sistemadell’arte milanese.Bossi ha inaugurato <strong>di</strong> fatto il museo dell’Accademianel maggio 1806, contemporaneamente all’aperturadella seconda Esposizione <strong>di</strong> Brera, accompa-


150 vista sulla città 151gnandolo con una guida che ne forniva le chiavid’uso. Le sale si <strong>di</strong>videvano in modo equilibrato trapittura e scultura, e la pittura era raggruppata inprecisi insiemi. Un gruppo <strong>di</strong> autoritratti e ritratti<strong>di</strong> artisti, prevalentemente milanesi, in buona partegià pubblicati da Francesco Antonio Albuzio nel suoMuseo Milanese del 1776 e acquistati personalmenteda Bossi per donarli all’Accademia, veniva presentatoin un apposito “Gabinetto” come base argomentativaper stimolare l’avvio della storiografia sull’artemilanese. Seguivano poi tre sale, la prima de<strong>di</strong>cata aBramante (dalla presenza al suo interno della Crocifissione<strong>di</strong> Bramantino), la seconda a Raffaello (per lapala dello Sposalizio) e la terza a Luini (da due suoiaffreschi provenienti dalla cappella <strong>di</strong> San Giuseppenella chiesa <strong>di</strong> Santa Maria della Pace). I riferimentierano quin<strong>di</strong> a tre pittori del Rinascimento modelli<strong>di</strong> classicismo, quello universale <strong>di</strong> Raffaello, quellointrodotto da Bramante a <strong>Milano</strong> a fine Quattrocentoe quello lombardo <strong>di</strong> Luini. Per la scultura erastata operata una scelta <strong>di</strong> calchi dalle statue anticheco<strong>di</strong>ficate negli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Ennio Quirino Visconti,completata con aggiunte <strong>di</strong> scultura rinascimentale(il calco della Porta del Para<strong>di</strong>so <strong>di</strong> Ghiberti e il sepolcromilanese in marmo del vescovo Bagaroto) e gessimoderni <strong>di</strong> Canova. Che il museo <strong>di</strong> Bossi intendessepromuovere un classicismo declinato in chiave programmaticamentelombarda lo <strong>di</strong>mostrava la primasala. De<strong>di</strong>cata alle opere moderne, essa presentavalavori <strong>di</strong> artisti contemporanei lombar<strong>di</strong> per lo piùformati dall’Accademia, esibiti come modelli per le<strong>di</strong>verse necessità della produzione artistica, dall’iconografianapoleonica al rapporto con i modelliantichi, alla promozione dei prototipi d’avanguar<strong>di</strong>a.Nel museo <strong>di</strong> Bossi l’incarico <strong>di</strong> Appiani per il patrimonioartistico risultava quasi ignorato e le stesseopere del pittore, escluse significativamente dallaSala delle opere moderne, comparivano in posizionemarginale.Per entrare nel museo dell’Accademia le opere selezionateda Appiani avevano dovuto passare il filtroulteriore del segretario. D’altra parte Bossi avevacontinuato a cercare autonomamente opere per laraccolta. Saputo che, per la morte del collezionistaSannazzaro, lo Sposalizio della Vergine <strong>di</strong> Raffaello erapassato nel patrimonio dell’Ospedale Maggiore, neaveva proposto l’acquisto per l’Accademia al ministrodell’Interno. La lettera <strong>di</strong> richiesta <strong>di</strong> Bossi eradatata 10 giungo 1804, le trattative erano proseguitefino al 30 <strong>di</strong>cembre 1805 e la tavola era arrivataa Brera il 27 aprile 1806, alla vigilia dell’aperturadel museo. Ma in tutta l’operazione Appiani avevafigurato solo per la firma apposta alla ricevuta <strong>di</strong>ritiro dell’opera.L’impostazione marcatamente militante data daBossi al museo dell’Accademia non era con<strong>di</strong>visada tutti i membri dell’Accademia e nemmeno dallaparte del governo che sosteneva Appiani. Di conseguenzaquando, nel febbraio 1807, Bossi aveva datole <strong>di</strong>missioni da segretario, subito Appiani era statonominato conservatore della Pinacoteca. Stava infattiprocedendo un progetto alternativo <strong>di</strong> museo cheintendeva dare una <strong>di</strong>versa visibilità alla massa <strong>di</strong><strong>di</strong>pinti pervenuti dalle soppressioni, in gran<strong>di</strong> salericavate dalla parte superiore della navata centrale<strong>di</strong> Santa Maria <strong>di</strong> Brera.Il 15 agosto 1809, giorno onomastico <strong>di</strong> Napoleone,Appiani aveva presentato la nuova Pinacoteca,or<strong>di</strong>nata in modo molto più convenzionaledella precedente. Se il museo <strong>di</strong> Bossi presentava85 <strong>di</strong>pinti, la Pinacoteca <strong>di</strong> Appiani ne allestiva139. Erano <strong>di</strong>sposti a parete con rigida simmetria,i quadri delle medesime <strong>di</strong>mensioni posizionatiin corrispondenza, quelli <strong>di</strong> soggetto religiosoaffrontati con altri <strong>di</strong> soggetto religioso e le scene <strong>di</strong>genere con le scene <strong>di</strong> genere. Le opere erano esibitein doppia fila, in basso quelle <strong>di</strong> piccole <strong>di</strong>mensionie <strong>di</strong> preferenza <strong>di</strong> autori celebri, in alto quelle piùgran<strong>di</strong> e <strong>di</strong> autori secondari o ignoti. Ora il caratterelombardo non era più in evidenza programmatica,ma la raccolta presentava una più genericaillustrazione della pittura italiana.Anche l’allestimento del 1809 era destinato a durarepochi mesi. Nel 1810 la ripresa delle soppressionireligiose aveva infatti costretto Appiani a nuovericognizioni e selezioni, ora non più solo in Lombar<strong>di</strong>a,Veneto, Emilia e Romagna, ma anche nelleMarche e in Umbria, con il risultato <strong>di</strong> far arrivarea Brera, nel corso del 1811, 468 nuovi <strong>di</strong>pinti. Ancheil nuovo museo “scoppiava” e in più si mostravapesantemente sbilanciato sui soggetti religiosi: inpratica risultava una mappa capillare della pitturaecclesiastica delle regioni del Nord e Centro Italia.Per correggerne la monotematicità erano state introdottealcune correzioni. Nel febbraio 1811 eranostati inseriti sei <strong>di</strong>pinti “da cavalletto” del Seicentobolognese provenienti dalla collezione Sampieri <strong>di</strong>Bologna; tra febbraio 1811 e aprile 1812 eranostate prelevate altre <strong>di</strong>ciotto tele della medesimatipologia e cinque <strong>di</strong>segni dalla collezione del car<strong>di</strong>nalMonti depositata in Arcivescovado, mentre nel1813 Vivant Denon aveva inviato i cinque <strong>di</strong>pintiche ancor oggi formano la spina dorsale della sezionestraniera della Pinacoteca (Rubens, Van Dyck,Rembrandt e Joardaens), in sostituzione <strong>di</strong> cinqueopere italiane scelte per il Musée Napoleon <strong>di</strong> Parigi– la Pala Casio <strong>di</strong> Boltraffio, due tavole <strong>di</strong> Moretto,un Marco d’Oggiono e un Carpaccio.Nell’aprile 1813 un colpo apoplettico aveva colpitoAppiani, interrompendone l’azione <strong>di</strong> commissariodelle Arti e conservatore della Pinacoteca. Alla suauscita <strong>di</strong> scena era corrisposto il rientro <strong>di</strong> Bossicon il proseguimento del suo <strong>di</strong>verso progetto: il 14maggio 1813 il pittore risultava presente al conventodelle Vetere <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> a scegliere brani <strong>di</strong> affresco<strong>di</strong> Luini da far trasportare in Pinacoteca. Infattil’abbandono della carica <strong>di</strong> segretario non avevainterrotto il progetto dell’artista per il patrimonioartistico milanese. Come già gli eru<strong>di</strong>ti suoi predecessori,anch’egli si era impegnato personalmente inacquisti <strong>di</strong> opere e materiali d’arte, fino a mettereinsieme una ricchissima biblioteca, una collezione<strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti, una stupenda raccolta <strong>di</strong> <strong>di</strong>segni, oltre amateriali <strong>di</strong> archeologia e ceramiche rinascimentali.Nell’intenzione <strong>di</strong> Bossi questi materiali dovevanocontribuire a valorizzare l’arte lombarda nell’ambitodella civiltà artistica italiana.Liberato dalla gestione dell’Accademia, Bossi si erabuttato in un progetto <strong>di</strong> ricostruzione del Cenacolo<strong>di</strong> Leonardo. Aveva realizzato sistematici rilievi dall’originalee da copie o derivazioni dei seguaci lombar<strong>di</strong>dell’artista, allo scopo <strong>di</strong> produrre una restituzionea mosaico dell’opera che ne fissasse l’aspettoiniziale (perduto nell’originale) in forma permanente.Il lavoro era stato accompagnato da Bossi con unlibro che conteneva una sofisticata interpretazioneiconografica del <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Leonardo, la primaricostruzione della storia dell’arte lombarda del Rinascimentoe un manifesto ideologico per la nuovagenerazione degli artisti lombar<strong>di</strong>. Appena terminatal’impresa Bossi era poi passato alla redazione<strong>di</strong> quella storia dell’arte lombarda che gli eru<strong>di</strong>tisettecenteschi avevano più volte auspicato e avviato,senza però mai riuscire a concretizzarla. La morteprecoce gli ha impe<strong>di</strong>to <strong>di</strong> terminare il progetto.Se la storia degli artefici milanesi fosse arrivata allestampe e le raccolte dell’artista fossero confluite nelpatrimonio dell’Accademia, la storiografia artisti-


152 vista sulla città 153ca lombarda avrebbe anticipato la propria ripresa<strong>di</strong> mezzo secolo e il patrimonio pubblico dell’artemilanese sarebbe balzato tra i nuclei d’arte significativid’Europa. Anche così, quello che delle collezionidell’artista è confluito nel patrimonio pubblico <strong>di</strong><strong>Milano</strong>, le raccolte <strong>di</strong> antichità e le ceramiche rinascimentali,oltre al Cristo morto <strong>di</strong> Mantegna, bastaper segnarne il profilo in modo indelebile.Nel patrimonio milanese, comprata dallo Stato perl’Accademia, era entrata a far parte anche la copiaa olio del Cenacolo realizzata da Bossi. Nella Guidadel 1822 essa apriva la raccolta dei <strong>di</strong>pinti modernipremiati nei Gran<strong>di</strong> concorsi, mentre l’ultimasala, anticamera alla Pinacoteca de<strong>di</strong>cata agli artistilombar<strong>di</strong> moderni, conteneva nella volta l’affresco<strong>di</strong> Apollo ra<strong>di</strong>ante circondato dalle Ore <strong>di</strong> Appiani.Gli accademici <strong>di</strong> Brera avevano scelto <strong>di</strong> aprire echiudere la sezione moderna del museo pubblicomilanese con opere dei due padri fondatori dellaraccolta d’arte dell’Accademia.Il ritorno degli austriaciNel 1815, con il ritorno del governo austriaco,un’accurata ricognizione inventariale aveva fotografatolo stato della Pinacoteca. Le opere eranoradunate in quattro sale in successione sostanzialmentecronologica, a partire dal fondo della gallerianapoleonica. Le sale prendevano il nome dall’autoredell’opera più prestigiosa in esse contenuta e cosìdalla sala <strong>di</strong> Gentile Bellini si passava a quella <strong>di</strong>Paolo Veronese, poi a quella <strong>di</strong> Domenichino, deipittori del Settecento e della collezione dei ritratti eautoritratti degli artisti, infine alla cosiddetta Saladei professori, che conteneva un gruppo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ciassetteopere. Alle quattro sale gran<strong>di</strong> si aggiungevanodue salette laterali de<strong>di</strong>cate a Lorenzo Costa eRaffaello. Complessivamente la raccolta comprendeva301 <strong>di</strong>pinti esposti, a cui andavano aggiunti 34affreschi del Rinascimento lombardo collocati in unatrio esterno alla Pinacoteca.Una relazione del febbraio 1815, redatta probabilmentedal segretario Zanoia, aveva prospettato lanecessità <strong>di</strong> selezionare, all’interno dell’allestimento,una sala <strong>di</strong> pittura lombarda: «Sarebbe poi <strong>di</strong> unnecessario decoro alla Lombar<strong>di</strong>a il formare unacollezione in serie della Scuola Lombarda cominciandodai quattrocentisti fino ai nostri tempi». Lasala era stata poi allestita nel 1817 per la cura <strong>di</strong>Ignazio Fumagalli.Nel 1822 la Guida, pubblicata alla vigilia delmezzo secolo <strong>di</strong> vita dell’Accademia e a se<strong>di</strong>ci annidall’apertura del primo museo <strong>di</strong> Brera, contenevauna dettagliata descrizione delle collezioni presentia quella data. La serie dei premi per i concorsi dal1805 al 1822 aveva prodotto una <strong>di</strong>mostrazionesistematica dell’arte lombarda moderna. A essa siaggiungeva la Pinacoteca con opere <strong>di</strong>verse, dove– nell’atrio degli affreschi e nella sala dei pittorilombar<strong>di</strong> – era possibile ottenere una presentazionesistematica dell’arte lombarda antica e moderna. LaPinacoteca comprendeva ora cinque sale gran<strong>di</strong> equattro piccole, nel complesso tre vani in più dell’allestimentodel 1815.L’impianto della Guida spiega la concomitanza <strong>di</strong>due sontuose pubblicazioni in corso <strong>di</strong> realizzazionenegli stessi anni. La prima, de<strong>di</strong>cata alla Pinacotecadell’Accademia, era stata iniziata nel 1812 per curadell’incisore Michele Bisi, con i commenti del <strong>di</strong>rettoredella Biblioteca Braidense Robustiano Gironi,continuando a uscire in <strong>di</strong>spense negli anni della restaurazioneaustriaca fino al 1833. Il primo volumeera de<strong>di</strong>cato alla pittura veneta, il secondo a “scuolevarie” e il terzo alla scuola lombarda. Se consideriamoche nel 1815 la Pinacoteca esponeva 335 tra<strong>di</strong>pinti e affreschi mentre il catalogo del 1838 necontava 498, possiamo misurare il valore documentativodelle 258 opere illustrate nelle guide.La seconda pubblicazione, de<strong>di</strong>cata all’illustrazionedella parte moderna del museo dell’Accademia, èstata impresa altrettanto ingente, <strong>di</strong> lunga gestazionee dai confini non definiti, perché rimasta incompiuta.I due frontespizi <strong>di</strong>sponibili in<strong>di</strong>cano duedate, 1821 e 1825, che segnano forse solo un cambio<strong>di</strong> e<strong>di</strong>tore (da Pogliani e Destefanis), mentre c’èun terzo passaggio all’e<strong>di</strong>tore Pirola nel 1846 chenon ha avuto fortuna. Variamente legati a secondadelle collezioni, i fascicoli dell’opera documentanotutti i lavori premiati dall’anno 1805 al 1843 nelleclassi <strong>di</strong> Architettura, Ornato, Pittura, Scultura, Figurae Incisione. L’e<strong>di</strong>zione si è prolungata per più<strong>di</strong> venticinque anni, dal 1821 a poco dopo il 1846.Insieme le due gran<strong>di</strong> imprese e<strong>di</strong>toriali venivanoa illustrare dettagliatamente le collezioni pubblichemilanesi, <strong>di</strong>mostrando il prestigio da esse ottenuto apoco meno <strong>di</strong> mezzo secolo dal loro avvio.La Guida della Pinacoteca uscita nel 1838 sembravafotografare un or<strong>di</strong>ne completamente rivoluzionatorispetto a quello del 1822, ma la verifica dettagliatadelle <strong>di</strong>sposizioni permette <strong>di</strong> riscontrare che,<strong>di</strong> fatto, i cambiamenti sono stati limitati. Motivodell’apparente variazione, in realtà, è stato lo spostamentodell’entrata del museo con il conseguentecambio della numerazione delle sale. Invece chedalle sale delle opere moderne, ora si entrava inPinacoteca dal corridoio degli affreschi, con il risultato<strong>di</strong> rivoluzionare completamente la percezionedella collezione; ma la <strong>di</strong>sposizione delle opere erarimasta pressoché invariata. In verità una sostanzialemutazione era subentrata nella percezionedell’intera raccolta <strong>di</strong> pittura antica dell’Accademia,che da punto finale <strong>di</strong> un organismo più vasto oracominciava a presentarsi come museo autonomo.Il senso del percorso del 1838 è quello che vigeancora oggi. Nel catalogo <strong>di</strong> quell’anno le opereallestite risultavano 428, a cui si aggiungevano i 70affreschi dell’atrio, per un totale <strong>di</strong> 498 unità.Il catalogo successivo è uscito nel 1863, venticinqueanni dopo il precedente, e dopo una rivoluzione edue guerre che avevano trasferito <strong>Milano</strong> dall’imperoasburgico al Regno d’Italia. Nel museo, nelfrattempo, erano cambiate solo 25 collocazionie il numero delle opere esposte era aumentato <strong>di</strong>sole 25 unità. Il catalogo era il ricalco <strong>di</strong> quello del1838, a parte un’aggiunta smilza ma fondamentale:due paginette che correggevano l’attribuzione <strong>di</strong> 80opere. Nella sua Storia della Pinacoteca Corrado Ricciinforma che Giovanni Morelli era stato incaricatonel 1861 <strong>di</strong> re<strong>di</strong>gere un nuovo catalogo <strong>di</strong> Brera.Le note del catalogo del 1863 risultano derivare dasuoi suggerimenti e vanno quin<strong>di</strong> considerate comela prima delle sue celebri revisioni dei musei europeiche hanno rivoluzionato i meto<strong>di</strong> della storiadell’arte. (Nel 1855 era arrivata in dono a Brera lacollezione Oggioni, ma per volontà del donatore erastata allestita come museo autonomo e quin<strong>di</strong>, peril momento, non poteva entrare nel catalogo dellaPinacoteca.)Se poco si era mosso all’interno della Pinacoteca, unsegno evidente delle rivoluzioni in corso arrivavadal cortile <strong>di</strong> Brera, dove il 1° aprile 1864 erastata collocata la statua in bronzo <strong>di</strong> Napoleone,modellata da Canova per il Foro de<strong>di</strong>cato da <strong>Milano</strong>all’imperatore. In questo modo veniva forzato ilprogramma <strong>di</strong> utilizzo del luogo assestato dagliinizi dell’Ottocento, che prevedeva <strong>di</strong> farne la sede<strong>di</strong> celebrazione <strong>di</strong> uomini illustri lombar<strong>di</strong>.


154 vista sulla città 155Il nuovo Stato italiano aveva programmato <strong>di</strong>rendere autonome le pinacoteche dalle Accademiee rior<strong>di</strong>narle con criteri aggiornati alle nuovemetodologie della storia dell’arte. Il modello piùavanzato in Europa, rappresentato dal museo <strong>di</strong>Berlino, in Italia era già stato seguito dalle galleriedell’Accademia a Firenze e dal museo <strong>di</strong> Perugia.A Brera la Guida della Pinacoteca redatta nel 1872dal suo conservatore Felice De Maurizio ricalcavaancora l’or<strong>di</strong>namento del 1838 e del 1863, consolo 50 nuove acquisizioni. Invece quella del 1877registrava un profondo rior<strong>di</strong>no, come avvenuto.Poiché si entrava nel museo dalla galleria degliaffreschi lombar<strong>di</strong>, nel nuovo allestimento eranostati trasferiti nella prima sala i <strong>di</strong>pinti lombar<strong>di</strong>dal Quattrocento al Seicento. Poi seguivano i <strong>di</strong>pintiveneti, in una sala quelli del Quattrocento e in duequelli del Cinquecento. A quel punto si passava allecinque salette laterali, le prime due occupate da pittori“veneti minori” del Quattrocento, la terza coni capolavori del museo – lo Sposalizio <strong>di</strong> Raffaello, ilCristo morto <strong>di</strong> Mantegna e la Vergine col Bambino <strong>di</strong>Giotto dal polittico <strong>di</strong> Bologna (sarebbe stata restituitaalla Pinacoteca <strong>di</strong> quella città nel 1894) –, laquarta con opere bolognesi e ferraresi del Cinquecentoe del Seicento e la quinta con opere <strong>di</strong> piccoloformato fiamminghe e olandesi. Tornando quin<strong>di</strong>alle gran<strong>di</strong> sale, in una si incontrava la pittura delCinque-Seicento dell’Italia Centrale con gli “oltralpini”(Rembrandt, Rubens, Van Dyck), nella successivai bolognesi e i loro seguaci e nell’ultima l’Appianicon i lombar<strong>di</strong> contemporanei.Nel 1882 la Pinacoteca veniva trasformata in entegiuri<strong>di</strong>co autonomo. In concreto la separazionedall’Accademia è stata realizzata solo qualche annodopo, il 30 giugno 1889, con un atto che annettevaal nuovo organismo anche il Cenacolo <strong>di</strong> Leonardo,l’Arco della Pace, i monumenti celebrativi del cortiled’ingresso e delle logge del Palazzo <strong>di</strong> Brera, i <strong>di</strong>pintiesposti nelle sale della Pinacoteca e una parte dei<strong>di</strong>pinti nei magazzini, la collezione Oggioni e partedegli affreschi depositati nel Museo Patrio d’Archeologia.Si è trattato <strong>di</strong> un’operazione amministrativainnestata in un organismo cresciuto coerentementeper quasi un secolo. Essa si giustificava in parte conil fatto che non provocava nell’imme<strong>di</strong>ato mutazioniconcrete nell’allestimento delle collezioni, magli effetti sarebbero arrivati pochi anni dopo. Dellaserie <strong>di</strong> ritratti d’artista avviata da Bossi, cresciutanel tempo fino a includere i ritratti dei professori<strong>di</strong> Brera e <strong>di</strong> artisti antichi e moderni, la Pinacotecaaveva trattenuto solo gli esemplari considerati <strong>di</strong>pregio, lasciando gli altri all’Accademia. La Galleriad’arte moderna, cresciuta a partire dal 1859 finoa comprendere circa 200 opere, era stata <strong>di</strong>visa trale opere acquistate dall’Accademia con il suo fondoesposizioni (che restavano alla scuola) e quelleacquistate dal ministero dell’Istruzione pubblica odonate dai privati (che passavano alla Pinacoteca).C’erano poi i casi singoli. Le quattro scene <strong>di</strong> genere<strong>di</strong> Vincenzo Campi giunte a Brera per soppressionenel 1809 dal convento <strong>di</strong> San Sigismondo <strong>di</strong> Cremona,già esposte nella prima sala della Pinacoteca nellostesso anno, nell’allestimento del 1822 risultavano ridottea due (la “pescivendola” e la “fruttarola”, alloraattribuite a Giulio Campi) mentre le altre due (alloraattribuite a Vincenzo Campi) erano finite nei magazzinidell’Accademia. Lì sono riemerse solo una trentinad’anni fa: «Delle quattro nature morte <strong>di</strong> VincenzoCampi […] due furono date all’accademia e duealla pinacoteca. Quest’ultima finì con l’esporne unasoltanto, lasciando l’altra in deposito. Fu per purocaso che trovai una <strong>di</strong> quelle affidate all’accademia,ridotta in brandelli, nella stanza del presidente dellastessa accademia, che, con pronta intelligenza, me laconsegnò per il restauro, e fu in seguito che la quartafu trovata, in peggiore stato, nelle scansie dei depositidell’accademia». Le soppressioni avevano portato aBrera due gran<strong>di</strong> nature morte <strong>di</strong> Evaristo Baschenische al momento della spartizione erano rimasteall’Accademia, dall’interno della quale sono riemersesolo una quin<strong>di</strong>cina d’anni fa. Ma nel frattempo, nel1912 e 1915, per documentare l’artista lombardo laPinacoteca aveva comprato due altre nature morte <strong>di</strong>minor grandezza e qualità. La tela <strong>di</strong> Carlo Bononecon l’Apparizione della Vergine a san Bruno era arrivatadalla Certosa <strong>di</strong> Ferrara con le soppressioni del 1808ed era stata documentata nell’inventario del 1815,nei volumi della Pinacoteca <strong>di</strong> Bisi e Gironi e nella Guidadel 1822; ma era scomparsa a partire dalla guidadel 1838 e finita nei magazzini per restare, con la<strong>di</strong>visione, nel patrimonio dell’Accademia.Nel 1892 ancora un professore <strong>di</strong> Brera, GiulioCarotti, aveva stilato il catalogo della Pinacoteca<strong>di</strong>venuta ente autonomo ed è stato lo stesso Carottia effettuare la ricognizione dei <strong>di</strong>pinti del museo indeposito esterno nelle chiese milanesi e lombarde,in due relazioni inviate al ministero il 12 ottobre1893 e il 26 settembre 1895. C. Bertelli, Brera <strong>di</strong>spersa, Carialo - Arti Grafiche Amilcare Pizzi,<strong>Milano</strong> 1984.Fine Ottocento:Brera e Castello SforzescoNel 1898 <strong>di</strong>viene nuovo <strong>di</strong>rettore della PinacotecaCorrado Ricci, a <strong>di</strong>fferenza dei suoi predecessoriproveniente non più dall’Accademia ma dalla schieradei funzionari dello Stato impegnati a dare unor<strong>di</strong>namento al patrimonio artistico nazionale. Nonè possibile afferrare il suo progetto a Brera senza tenerconto <strong>di</strong> quanto parallelamente realizzava LucaBeltrami al Castello Sforzesco.Nella fortezza rinascimentale, che l’architetto e storicodell’arte milanese aveva salvato dalla <strong>di</strong>struzionee restaurato, ben presto si era affermata l’idea <strong>di</strong>allestire il secondo polo museale della città. Alla suarealizzazione servivano però molti fon<strong>di</strong> musealiconservati a Brera. Così il trasferimento al Castellodell’intera Galleria d’arte moderna (che abbiamo vistoappartenere in parte all’Accademia e in parte allaPinacoteca) aveva dato corpo al progetto museografico<strong>di</strong> Beltrami e contemporaneamente offertoa Ricci nuove sale dove poter espandere la Pinacoteca.Il passo successivo era stato il <strong>di</strong>sallestimentodella galleria dei gessi che affacciava su via Brera, laquale, a sua volta, aveva permesso alla Pinacoteca <strong>di</strong>raddoppiare la propria estensione. Così la collezione<strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti era stata <strong>di</strong>sposta in un nuovo or<strong>di</strong>ne: gliaffreschi recuperati dal Museo Patrio d’Archeologiaerano stati uniti a quelli dell’atrio, a sua voltatrasformato in prima sala del museo; la collezioneOggioni e alcuni importanti <strong>di</strong>pinti trasferiti dai depositiesterni e dalle chiese, e integrati nella collezionegenerale e infine l’insieme così ottenuto era statoor<strong>di</strong>nato in progressione cronologica per scuole <strong>di</strong>appartenenza, con l’intento <strong>di</strong>chiarato <strong>di</strong> dare allacollezione il carattere <strong>di</strong> Galleria nazionale.Poiché contemporaneamente alle collezioni raduna-


156 vista sulla città 157te nel Castello Sforzesco veniva affidato il ruolo <strong>di</strong>illustrare prevalentemente il percorso dell’arte lombarda,da quel momento si definiva una precisa attribuzione<strong>di</strong> ruoli tra Pinacoteca <strong>di</strong> Brera e CastelloSforzesco: all’una spettava il compito <strong>di</strong> rappresentareil percorso nazionale dell’arte e all’altro quello<strong>di</strong> documentare l’area milanese e lombarda.Oltre a questo, il ritrovamento <strong>di</strong> una decorazionerealizzata da Leonardo per Ludovico il Moro in unasala dell’antica Reggia Sforzesca aveva fornito almuseo del Castello un’opera autografa del principedegli artisti lombar<strong>di</strong> che la Pinacoteca <strong>di</strong> Brera nonera riuscita ad avere in più <strong>di</strong> un secolo <strong>di</strong> tentativi.Di conseguenza, la presentazione dell’arte lombardanel nuovo complesso museale era stata organizzatasotto l’egida <strong>di</strong> quest’opera. Oltre alle collezionimoderne <strong>di</strong> Brera, al Castello Sforzesco era statotrasferito il Museo Patrio <strong>di</strong> Archeologia, il cui progetto<strong>di</strong> fondazione e la prima raccolta dei materialirisaliva ancora a Bossi (la sua collezione <strong>di</strong> antichità,composta in previsione <strong>di</strong> un trasferimento allaproprietà pubblica, era stata venduta dagli ere<strong>di</strong> almuseo). Allestito in un primo tempo a Brera nel1862 e amministrato fino a quel momento da unaConsulta formata per lo più da membri dell’Accademia,con il trasferimento al Castello aveva trovato,per la parte me<strong>di</strong>evale e rinascimentale, una contestualizzazionecosì forte nell’architettura che da quelmomento si è identificato con il monumento comepresentazione esemplare della civiltà lombarda.Infine, istituendo nel 1905 all’interno del Castellola “Raccolta Vinciana”, Luca Beltrami aveva sottrattoall’Accademia un’altra delle prerogative che avevaconservato fino a quel momento, quella <strong>di</strong> bibliotecapubblica milanese <strong>di</strong> storia dell’arte. Conl’apertura delle collezioni e dell’archivio del Castellol’ulteriore riduzione <strong>di</strong> ruolo dell’Accademia nelsistema dell’arte milanese <strong>di</strong>ventava evidente.Il rior<strong>di</strong>no realizzato da Corrado Ricci aveva datoalla Pinacoteca la struttura e l’estensione <strong>di</strong> unagrande galleria internazionale <strong>di</strong> pittura. Era statoottenuto con l’integrazione alla fine del percorso <strong>di</strong>tre sale finali, in gestione congiunta tra la Pinacotecae l’Accademia, contenenti la collezione <strong>di</strong> StefanoStampa (arrivata in dono all’Accademia nel 1900)e i premi dei concorsi governativi <strong>di</strong> pittura. Quellesale, restate l’ultima presenza museale della scuolaall’interno del palazzo Brera, costringevano ancorale due istituzioni braidensi a una convivenza <strong>di</strong>fficilee reciprocamente onerosa.Accademia e PinacotecaIntanto, su <strong>di</strong>sposizione ministeriale, erano continuatele <strong>di</strong>visioni patrimoniali tra Accademia e Pinacoteca.Nel 1901 Francesco Malaguzzi Valeri aveva selezionatodalla collezione <strong>di</strong> <strong>di</strong>segni dell’Accademia ungruppo <strong>di</strong> fogli in<strong>di</strong>viduati con un criterio <strong>di</strong> qualitàbasato sull’autografia e sulla fama degli autori,nonché sulla tipologia delle composizioni. Ignorandole “accademie” <strong>di</strong> nudo, i <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> architettura,ornato, prospettiva e scenografia, lo storico dell’arteaveva scelto i fogli rinascimentali e seicenteschi, conparticolare riguardo alle carte bolognesi della collezioneAcqua entrate in Accademia nel 1857.Malaguzzi Valeri, storico dell’arte a cui si deve unoscavo archivistico sistematico sull’arte lombarda delRinascimento, è stato il compilatore del catalogoscientifico della Pinacoteca nel rior<strong>di</strong>namento<strong>di</strong> Corrado Ricci, dove per la prima volta è stataricostruita la storia relativa alle attribuzioni <strong>di</strong> ognisingola opera esposta.Nel 1908 è arrivato a <strong>di</strong>rigere la Pinacoteca EttoreMo<strong>di</strong>gliani, destinato a rimanere alla sua guida– salvo l’allontanamento dal 1934 al 1946 per lasua incompatibilità con il fascismo e per le conseguenzedelle leggi razziali – fino al 1947. Per qualificarela collezione, Mo<strong>di</strong>gliani ne aveva miglioratola presentazione estetica riallestendo nel 1924-1925alcune sale e rinnovando le cornici delle opere<strong>di</strong> maggior valore. Nel 1911 se<strong>di</strong>ci affreschi <strong>di</strong>Bernar<strong>di</strong>no Luini del ciclo della Pelucca erano statitrasferiti dal Palazzo Reale <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> e dalla VillaReale <strong>di</strong> Monza a Brera, realizzando un’integrazionefondamentale alla collezione lombarda. Mo<strong>di</strong>gliani,però, si era preoccupato soprattutto <strong>di</strong> rafforzare ilcarattere nazionale della raccolta, acquisendo opereper le zone ancora scoperte della collezione, peresempio il Settecento veneziano.Il nuovo <strong>di</strong>rettore mal sopportava che in Pinacotecal’Ottocento fosse rappresentato dai modelli accademici.Il collezionismo ora privilegiava la correntenaturalistica del secondo Ottocento, quasi assentea Brera, e Mo<strong>di</strong>gliani, non potendo contare su unacampagna <strong>di</strong> acquisti o su donazioni, si era risolto aprocedere per grossi sfrondamenti nell’allestimento.Nel catalogo della Pinacoteca del 1930 ne aveva datola ragione: «In queste sale [...] sono esposti parecchi<strong>di</strong>pinti del sec. XIX che in gran parte sono proprietàdella R. Accademia <strong>di</strong> Belle Arti <strong>di</strong> Brera». Peril <strong>di</strong>rettore questi «non costituiscono una raccoltaorganica che serva a comporre un quadro ancheapprossimativo della pittura italiana <strong>di</strong> quel periodo:tuttavia, essendo presenti fra essi opere <strong>di</strong> alcuniinsigni artisti [...] essi possono, con queste figure rappresentative,dare una qualche eco al visitatore dellequalità dell’arte italiana anche nell’epoca moderna».Perciò era stata privilegiata la figura <strong>di</strong> Hayez con isuoi ritratti dei protagonisti del Risorgimento nazionale:«La prima sala […] è de<strong>di</strong>cata quasi per interoa Francesco Hayez, <strong>di</strong> cui il mirabile complesso <strong>di</strong>gran<strong>di</strong>ssimi italiani: Manzoni, D’Azeglio, Cavour,Rosmini, è tale da dare all’artista, non adeguatamenteapprezzato finora, la giusta fama».Nelle sale della Pinacoteca la presenza dell’Accademiasi faceva così più ridotta e mal sopportata.Eppure, <strong>di</strong> lì a qualche anno, anche la contiguitàcon la scuola d’arte avrebbe contribuito a attribuirealla Pinacoteca un ruolo decisivo nell’affermazione<strong>di</strong> più adeguati valori artistici all’interno della societàcivile. Con lo scoppio della guerra tutti i <strong>di</strong>pintierano stati riparati in se<strong>di</strong> più sicure e nelle salevuote della Pinacoteca il Centro <strong>di</strong> azione per le artiaveva organizzato mostre <strong>di</strong> arte contemporanea. Laprima, allestita da Franco Albini e de<strong>di</strong>cata a Scipione,si è tenuta tra l’8 e il 23 marzo 1941. Un’altra,tra maggio e giugno 1942, è stata de<strong>di</strong>cata a CarloCarrà (nominato professore <strong>di</strong> pittura all’Accademiaa fine 1941) e una terza, tra ottobre e novembredello stesso anno, alla collezione Ferol<strong>di</strong> <strong>di</strong> Brescia.La raccolta, che conteneva le Muse inquietanti e Ettoree Andromaca <strong>di</strong> De Chirico, oltre a opere centrali<strong>di</strong> Carrà, Moran<strong>di</strong> e Scipione, nel 1949 sarebbeentrata nel patrimonio d’arte <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> con il suoacquisto da parte <strong>di</strong> Gianni Mattioli.Il programma dell’arte lombarda<strong>di</strong> Roberto LonghiParallelo a questi fatti, un evento in apparenzaseparato era destinato a provocare gran<strong>di</strong> ricadutenel sistema dell’arte milanese del dopoguerra. Il 16maggio 1942 Roberto Longhi aveva tenuto la conferenzasu Carlo Braccesco alla Società del Giar<strong>di</strong>no,dove aveva esposto il programma <strong>di</strong> ricostruzionedell’arte lombarda che avrebbe svolto con le mostre


158 vista sulla città 159milanesi degli anni cinquanta.Nell’ottobre 1942 e soprattutto nell’agosto 1943pesanti bombardamenti hanno provocato l’incen<strong>di</strong>oe il crollo dei soffitti della Pinacoteca. Nella stessacircostanza l’Accademia, per evitare danneggiamentio trafugamenti, aveva collocato alcuni dei suoi<strong>di</strong>pinti in uffici pubblici <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> e della Lombar<strong>di</strong>a.Il ripristino della Pinacoteca è stata una dellepriorità della ricostruzione <strong>di</strong> <strong>Milano</strong>. Iniziato daEttore Mo<strong>di</strong>gliani, è stato portato a termine nel1950 da Fernanda Wittgens, nuova soprintendentee <strong>di</strong>rettrice della Pinacoteca.Le conseguenze della conferenza <strong>di</strong> Roberto Longhidel 1942 <strong>di</strong>ventavano concretamente visibili.Mentre lavorava alla ricostruzione della Pinacoteca,Fernanda Wittgens preparava una monografiasu Vincenzo Foppa accostandosi alla letturadell’arte lombarda proposta da Longhi. Non solo:nel rior<strong>di</strong>nare la Pinacoteca, la stu<strong>di</strong>osa riportava agalla con forza la sua componente lombarda comeessenziale alla sua identità. Nell’atrio d’entrata,infatti, a fianco degli affreschi rinascimentalilombar<strong>di</strong>, erano stati sistemati gli affreschi trecenteschidella cappella Porro <strong>di</strong> Mocchirolo, testimonianzadella scuola lombarda vicina alla sensibilitàluministica <strong>di</strong> Giovanni da <strong>Milano</strong>. Longhi avevafatto partire la vicenda dell’arte lombarda dal passaggio<strong>di</strong> Giotto in Lombar<strong>di</strong>a; dalle conseguenze<strong>di</strong> questo, ora la Pinacoteca faceva partire la sua<strong>di</strong>mostrazione <strong>di</strong> pittura.La riapertura della Pinacoteca era stata preceduta,tra novembre 1948 e maggio 1949, dalla mostrasui “Tesori d’arte <strong>di</strong> Lombar<strong>di</strong>a” al Kunsthaus <strong>di</strong>Zurigo, nella quale erano stati presentati capolavoridell’arte italiana da musei pubblici e da raccolteprivate lombarde, ma con all’interno una presentazionedell’arte lombarda che privilegiava la lineadefinita da Toesca e Longhi. La mostra <strong>di</strong> Zurigoera stata seguita, nel 1951, da quella de<strong>di</strong>cata a<strong>Milano</strong> a Caravaggio, a cura dello stesso Longhi,e dalla pubblicazione l’anno dopo, nel 1952, delcatalogo illustrato della mostra <strong>di</strong> Zurigo, dove lanuova lettura dell’arte lombarda veniva presentatacome programma <strong>di</strong> ricerca e <strong>di</strong> or<strong>di</strong>namento museale.Nello scritto introduttivo al volume, riconosciutii meriti <strong>di</strong> Cavalcaselle, Morelli e Berenson,è a Longhi che Wittgens attribuisce la definitivaidentificazione dei «“valori lombar<strong>di</strong>” per quellasua acuta, originale, rivoluzionaria ricerca deinessi vitali della pittura italiana fuor del chiusocampo <strong>di</strong> Toscana». Il tutto vale per la stagionedel gotico, ma anche per il Rinascimento, con lamessa in evidenza della personalità <strong>di</strong> Foppa e conlo smantellamento della «persistente tra<strong>di</strong>zione delLeonar<strong>di</strong>smo come fatto sostanziale del Cinquecentolombardo», da sostituire con i valori dellapittura bresciana del Cinquecento, prefigurazione<strong>di</strong> Caravaggio e della rivoluzione da lui portatanella pittura europea del Seicento.Gli effetti <strong>di</strong> questa visione si sono tradotti subitoin netti rivolgimenti dell’allestimento della Pinacoteca.Nel 1953 un gruppo <strong>di</strong> affreschi del Rinascimentolombardo, per la gran parte <strong>di</strong> Luini edella sua scuola, è stato trasferito al nuovo Museodella Scienza e della Tecnica nato sotto l’egida<strong>di</strong> Leonardo da Vinci. Quale Leonardo, a questopunto? L’astro toscano sottratto al cielo dell’artelombarda che aveva dominato per un secolo emezzo era stato spostato a brillare su altre aree del“genio lombardo”, ingegneristiche e tecnologiche.Gli affreschi trasferiti da Brera sono stati messi adarredare le sale del complesso monastico rinascimentale<strong>di</strong> San Vittore (in parte vi si trovanotuttora), dove era stata allineata la parata dei modellinidelle invenzioni tecniche dello “scienziato”rinascimentale realizzata per la mostra leonardescamilanese dell’anteguerra. Parallelamente all’uscitadei <strong>di</strong>pinti rinascimentali lombar<strong>di</strong> dalla Pinacoteca,si registra l’entrata in essa delle testimonianzedella linea naturalistica lombarda, da CristoforoMoretti (1951) a Bonifacio Bembo (1951), daCariani (1957) a Ceruti (1969), da Giovanni da<strong>Milano</strong> (1970) a Vincenzo Foppa (1986).Il rior<strong>di</strong>no del 1950 aveva operato un ulterioresfoltimento nella sezione dell’Ottocento, nel qualeerano state ancora una volta coinvolte opere provenientidal patrimonio dell’Accademia (anche sea questo punto se ne era persa la memoria esplicita).«È noto infatti come il nucleo maggiore dellesale ottocentesche <strong>di</strong> Brera – aggiunte a modo <strong>di</strong>appen<strong>di</strong>ce al corpo vero e proprio della Galleria– fosse appunto costituito, prima degli ultimi allestimenti,da opere <strong>di</strong> tal genere, <strong>di</strong> mano <strong>di</strong> Hayezstesso e dei suoi seguaci ed imitatori, nonché <strong>di</strong>artisti premiati dall’Accademia <strong>di</strong> Belle Arti locale. Ilmodesto interesse <strong>di</strong> quei laboriosi componimentinon poteva non far nascere l’esigenza <strong>di</strong> adeguare,me<strong>di</strong>ante ripetuti sfollamenti e sostituzioni, anchequesta più moderna sezione al livello qualitativodelle sale antecedenti.» G.A. Dell’Acqua, F. Russoli, La Pinacoteca <strong>di</strong> Brera, Silvana E<strong>di</strong>tore,<strong>Milano</strong> 1960.Il progetto della “Grande Brera”Con il passare del tempo, <strong>di</strong>ventava evidente a tuttele istituzioni che avevano sede nel palazzo <strong>di</strong> Brerala <strong>di</strong>fficoltà a convivere. Per denunciare la gravitàdella situazione, nel 1974 il <strong>di</strong>rettore FrancoRussoli era arrivato a chiudere polemicamente la Pinacoteca.Doveva trattarsi <strong>di</strong> un’interruzione breve:Russoli aveva progettato un allargamento del museoa collezioni <strong>di</strong> opere dell’Ottocento e del Novecento,al recupero <strong>di</strong> importanti <strong>di</strong>pinti dai magazzinie un nuovo allestimento, <strong>di</strong>stribuito tra il primopiano del Palazzo <strong>di</strong> Brera e il vicino Palazzo Citterio,collocato in via Brera. Intendeva così realizzarela “Grande Brera”, la terza forma del museo, dopoquella iniziale <strong>di</strong> Bossi e Appiani e quella novecentesca<strong>di</strong> Ricci. Invece, tra aperture parziali e blocchisfibranti, l’interruzione si è prolungata per più <strong>di</strong>vent’anni, paralizzando progressivamente il museo.Alla riapertura provvisoria del 1982 sono state presentatedue straor<strong>di</strong>narie collezioni del Novecentoche rinnovavano alla ra<strong>di</strong>ce il profilo del museo: ladonazione Jesi e il deposito della collezione Jucker,collocati nell’“ex appartamento dell’astronomo”su allestimento <strong>di</strong> Ignazio Gardella. Il museo hatuttavia mostrato <strong>di</strong> non poter sostenere a lungoquesto accrescimento e ha dovuto chiudere la nuovasezione del Novecento, con il risultato <strong>di</strong> perdereil deposito Jucker, salvato al patrimonio pubblicomilanese (ma perduto per Brera) solo grazie all’acquistoda parte del Comune.Tuttavia nel ventennio <strong>di</strong> precarietà, tra il 1974 eil 1995, sono state poste le basi per una riorganizzazioneancora in corso d’opera. L’iniziativa piùimportante è stata la realizzazione del catalogoscientifico della Pinacoteca, iniziato nel 1988 conil primo volume sulle scuole lombarda e piemon-


160 vista sulla città 161tese e chiuso nel 1996 con il nono volume contenentele “Addenda” e gli apparati. Scelta fausta èstata l’inclusione dei <strong>di</strong>pinti <strong>di</strong> proprietà dell’Accademianei due volumi de<strong>di</strong>cati alla pittura dell’Ottocentoe del Novecento (usciti nel 1993 e 1994)e in quello delle “Addenda”: in questo modo lastoria collezionistica che le <strong>di</strong>visioni patrimonialisuccessive al 1882 avevano separato è statavirtualmente ricomposta, riportando in evidenza,in uno strumento <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, le anime irriducibilidella collezione. In esso rimangono infatti leggibilila matrice bossiana – che punta alla realizzazionedella collezione esemplare <strong>di</strong> arte lombarda –, ilprogetto <strong>di</strong> Appiani – che aspira a comporre unacollezione nazionale –, e la vocazione cresciuta neidue secoli <strong>di</strong> vita dell’istituzione – che trova la suadefinizione complessiva nel progetto civile per <strong>Milano</strong>.Infatti i concorsi nella prima metà dell’Ottocentohanno perseguito un progetto <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficazionecivile, mentre i concorsi privati e la lunga lista<strong>di</strong> donazioni, da quelle <strong>di</strong> Hayez e dei suoi ere<strong>di</strong> aquella <strong>di</strong> Stefano Stampa, a quelle del Novecento,esprimono la memoria del Risorgimento italianoe del ruolo civile svolto da <strong>Milano</strong> nella nazioneitaliana tra Ottocento e Novecento.L’allestimento <strong>di</strong>sposto con la riapertura del 1995ha recepito le revisioni storiografiche degli ultimidecenni e i recuperi provocati dalle ricognizionidei magazzini del museo e dalle conoscenze sullesingole opere. Ma la mancanza <strong>di</strong> spazio ha provocatoper un decennio il sacrificio della galleriadegli affreschi, tenuta in deposito per poter esporrele opere del Novecento. Così gli affreschi trecenteschi<strong>di</strong> Mocchirolo si sono trovati isolati dalla partestorica della collezione, circondati dai Moran<strong>di</strong>, daiCarrà e dai De Pisis. Nel maggio 2004 il corridoiodegli affreschi è stato in parte ripristinato con ilriallestimento degli Uomini illustri <strong>di</strong> Bramante e deiLuini della Pelucca, mentre le opere della collezioneJesi, la donazione <strong>di</strong> Lamberto Vitali del 1997 e leopere del Novecento che la Pinacoteca nel frattempoha acquistato sono state allestite nell’ala Albini dellaPinacoteca. È stato così trovato un nuovo equilibrio,il più ampio realizzato finora, in attesa dell’effettivarealizzazione della “grande” – e comunquenecessariamente “nuova” – Brera.Nell’estate 2008 è iniziato il restauro del cortile,dopo la pulitura delle facciate del palazzo <strong>di</strong> Brera.Sta procedendo un programma <strong>di</strong> lavori che intendeoffrire entro l’inaugurazione dell’Expo 2015 unaPinacoteca raddoppiata, senza però avere ancoraaffrontato concretamente la questione <strong>di</strong> fondo:trovare per l’Accademia <strong>di</strong> Brera una sede sostitutivaagli spazi che deve prendersi il museo. Trent’anni <strong>di</strong>progetti e investimenti non hanno ancora aggiuntouna sola nuova sala importante alla Pinacoteca.Negli ultimi anni ogni governo che si è succedutoha presentato un proprio programma, puntualmenteabortito. La Pinacoteca <strong>di</strong> Brera è una delleprove evidenti della fatica <strong>di</strong> <strong>Milano</strong> a plasmarsiun futuro. Nello stesso tempo è una delle memoriein<strong>di</strong>spensabili per la sua identità, necessaria a progettareogni futuro che voglia costruirsi sulla storiae sul corpo effettivo della città.1. 15 agosto 1809, inaugurazione della Pinacoteca <strong>di</strong>Brera (da M. Bisi e R. Gironi, Pinacoteca del Palazzo Reale,Stamperia reale, <strong>Milano</strong> 1812)2. Luigi Sacchi, foto dello Sposaliziodella Vergine <strong>di</strong> Raffaello, prima del1860 (Accademia <strong>di</strong> Brera, <strong>Milano</strong>)3. Le sale napoleoniche dopo il rior<strong>di</strong>no <strong>di</strong> Corrado Ricci del 1902 (Civico archivio fotografico, <strong>Milano</strong>)


162 vista sulla città 1634. Il corridoio degli affreschi lombar<strong>di</strong> nel 1903(Civico archivio fotografico, <strong>Milano</strong>)5. La sala VIII nel rior<strong>di</strong>namento <strong>di</strong> Corrado Ricci (Civico archivio fotografico, <strong>Milano</strong>)


164 vista sulla città 1656. Mauro Pelliccioli (a destra) con un collaboratore nella sala XXV della Pinacoteca, verso il 1925 (Civico archivio fotografico, <strong>Milano</strong>) 7. Mauro Pelliccioli e un collaboratore davanti alla Madonna della candeletta <strong>di</strong> Carlo Crivelli, verso il 1925(Civico archivio fotografico, <strong>Milano</strong>)


166 vista sulla città 1678. Mauro Pelliccioli e un collaboratore davanti alla Pre<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> San Marco <strong>di</strong> Gentile e Giovanni Bellini, verso il 1925(Civico archivio fotografico, <strong>Milano</strong>)9. Estate 2008, il cortile <strong>di</strong> Brera in restauro


Ristampa0 1 2 3 4 5Anno2008 09 10 11Stampato per conto della casa e<strong>di</strong>trice pressoBianca & Volta, Trucazzano (mi)

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