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Viceversa, nella concezione di Schafer «l’esperienza è una costruzione dell’indivi<br />

duo. Quella che l’analizzando riferisce in forma introspettiva come esperiexza può<br />

essere interpretata come un suo modo di dire qualcosa su ciò in cui ci si è imbattuti<br />

nel mondo o nel corpo, o su ciò su cui si è riflettuto» (p. 128).<br />

Così per Schafer «il mondo interiore dell’esperienza è un modo di raccontare,<br />

non un luogo» (p. 128).<br />

Mondo interno, oggetti etc. costituiscono una strategia narrativa basata su<br />

metafore spaziali, strutturali e ontologiche antropomorfiche, piuttosto che essere<br />

entità psicologiche «scoperte» dagli psicoanalisti in qualche parte della «mente».<br />

Molti concetti tradizionali della psicoanalisi appartengono quindi ad un modo<br />

psicologizzato di esprimersi, una psicologia psicoanalitica popolare, che accomuna<br />

psicoanalisti e pazienti che «giungono a dire, per esempio, che la loro mente ha un<br />

interno e un esterno, delle suddivisioni contrapposte una all’altra e un modo di<br />

funzionare, come affrettarsi, bloccarsi, o scaricarsi, che essa pone in opera indipen<br />

dentemente dalle loro intenzioni. Allo tempo stesso, dicono di avere un Sé o vari Sé,<br />

o un’identità con o senza confini, o un insieme di coazioni irresistibili. È così che<br />

imparano a comporre la loro esperienza, a raccontare a se stessi come sono fatti»<br />

(Schafer, 1983, p. 128).<br />

Schafer afferma che per tutta la vita non facciamo che raccontare noi stessi.<br />

Possiamo ritenere, per diverse finalità, che raccontare queste storie su di noi agli altri<br />

equivalga a eseguire dei veri e propri atti narrativi. Tuttavia, nel dire che raccontiamo<br />

queste storie anche a noi stessi, noi racchiudiamo una storia in un’altra. E la storia<br />

che c’è un Sé a cui raccontare qualcosa, qualcun altro che funga da pubblico, che è se<br />

stessi o il proprio Sé. «Quando le storie che noi raccontiamo agli altri su noi stessi<br />

riguardano nostri altri Sé, quando diciamo per esempio: ‘non sono padrone di me<br />

stesso, ancora racchiudiamo una storia entro un’altra’» (p. 211).<br />

Da questo punto di vista il Sé è un raccontare. Questo raccontare può variare a<br />

seconda delle occasioni e delle persone, e può essere più o meno unificato, stabile e<br />

accettabile.<br />

In questa posizione di Schafer riconosciamo l’idea di pensiero proposta da<br />

James ed una concezione del Sé ricorsiva, basata sull’inclusione di storie all’interno<br />

di altre storie, che mostra lo stratificarsi dei livelli delle azioni secondo modalità<br />

ricorsive ben note nell’ambito dell’intelligenza artificiale (Hofstadter, 1979).<br />

Per quanto riguarda il processo psicoanalitico secondo Schafer (1983) i fini della<br />

psicoanalisi sono la costruzione di un resoconto psicoanalitico della vita in cui il<br />

paziente diviene progressivamente un agente singolo, unitario, responsabile del suo<br />

comportamento e irresponsabile di accadimenti al di fuori della sua portata.<br />

L’attività psicoanalitica si centra sull’esame della costruzione del significato<br />

all’interno dell’interazione psicoanalitica, tale costruzione coordina e tratta azioni<br />

umane che sono in quanto tali narrazioni attuali o potenziali. Il terapeuta entra nelle<br />

narrazioni (azioni) del paziente trasformandole in altre più articolate, complesse, tali<br />

da ampliare la gamma di possibilità di scelta del paziente creando dei meta-contesti in<br />

cui reinterpretare e ricostruire eventi e ricordi.<br />

La narrazione, più o meno frammentaria, del paziente è una delle molte storie<br />

possibili della sua vita.<br />

Gli interventi dell’analista stimolano nuove narrative (azioni) ed in tal modo<br />

eventi significativi della vita del paziente vengono ad includere fatti, ricordi, senti-<br />

menti (azioni) che prima non vi comparivano, così che l’esperienza e il significato<br />

della vita cambia lentamente nel ricordo che il soggetto può a questo punto costruire<br />

da sé del proprio passato «analizzato».<br />

Quest’ultimo ora è un po’ differente da come appariva precedentemente. I vari<br />

tipi di intervento stimolano infatti nuove versioni parziali del passato, e del presente<br />

della seduta che è ricostruito hic et nunc al pari del passato. I ricordi nuovi, l’insight,<br />

le emozioni nuove, emergono dall’utilizzo di criteri di rilevanza differenti, come da<br />

una differente contestualizzazione di un’esperienza. Le «conseguenze pratiche» delle<br />

azioni in analisi modificano l’idea che il soggetto ha di taluni eventi tipici della vita.<br />

In questo processo l’analista e l’analizzato si concentreranno non solo sul contenuto,<br />

ma anche sulla forma della narrazione (Schafer la definisce l’azione della narrazione)<br />

in cui il raccontare viene trattato come l’oggetto da descrivere, piuttosto che come un<br />

medium trasparente. Il Sé dell’analizzato non è considerato un semplice produttore di<br />

racconti, ma una narrazione con un suo proprio stile che viene curato e affinato<br />

tramite l’analisi fino ad ottenere retroattivamente delle modificazioni dell’autostima<br />

attraverso la valorizzazione delle conseguenze pratiche di questa specifica azione<br />

narrativa psicoanalitica del Sé narrante del soggetto.<br />

Spence<br />

Il contributo di Spence (1982) prende le mosse da una raffinata discussione dei<br />

tipi di «verità» trattati dal lavoro analitico. Spence si chiede se un paziente in analisi<br />

recuperi il passato dalla memoria così come un archeologo recupera, scavando,<br />

oggetti appartenuti a una civiltà sepolta, oppure l’analisi renda possibile la creazione<br />

di una nuova narrazione che è ancora abbastanza vicina alla realtà da poter innescare<br />

un processo ricostruttivo. Questa verità narrativa funziona solo se si accorda con la<br />

«vera» storia del paziente, se in qualche modo riesce a cogliere, all’interno della sua<br />

logica, il vero problema del paziente. L’autore distingue cioè tra una verità storica<br />

caratterizzata da una tendenziale corrispondenza ad eventi accaduti e potenzialmente<br />

documentabile ed una verità narrativa che in via di principio può fare a meno di tale<br />

corrispondenza e cionondimeno apparire «vera». La discussione dell’autore muove da<br />

una concezione classica della psicoanalisi che prevede tale distinzione in modo netto,<br />

cui consegue una distinzione altrettanto netta tra interpretazioni e ricostruzioni esatte<br />

o inesatte per approdare infine ad una concezione in cui la differenza appare sfumata,<br />

e le concezioni tradizionali sulla qualità delle costruzioni analitiche paiono modificate<br />

radicalmente. Addirittura la posizione espressa nel suo secondo contributo (1987)<br />

parrebbe convergere con la posizione «enactive» (Varela, 1992) che sta facendo la sua<br />

comparsa sulla scena delle scienze cognitive.<br />

In effetti la posizione di Spence parte da un dibattito epistemologico tradizionale<br />

centrato sulla verificabilità delle interpretazioni e delle ricostruzioni, ma finisce con<br />

l’approdare ad un nuovo modello in cui le vecchie questioni perdono di senso ed<br />

assumono nuova rilevanza le caratteristiche delle formulazioni degli interventi e delle<br />

interpretazioni, come le modalità utilizzate dall’analista nel gestire la situazione<br />

clinica per i fini del trattamento.<br />

Se «la differenza fra verità narrativa e storica è parallela a quella fra costruzione<br />

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