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MARCO CASONATO<br />

Osservatore, costrutti e narrative in psicoanalisi<br />

«Una tradizione di sapere è come un bosco di<br />

sequoie, che può esistere per migliaia di anni<br />

e il legno rappresenta la pioggia e il sole di<br />

molti secoli fa» (N. Wiener, 1950).<br />

«Si può forse dire che Freud è un pragmatista<br />

come James che concepisce la ridescrizione<br />

come strumento invece che come pretesa rive<br />

lazione» (R. Rorty, 1989).<br />

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta comparve sulla scena della<br />

psicologia americana la nozione di Sé narratore, cioè di un Sé che narra storie in cui<br />

la descrizione del Sé fa parte della storia stessa ricorsivamente. Gli psicoanalisti Roy<br />

Schafer e Donald Spence furono tra i primi ad occuparsene, e costituiscono quindi<br />

uno dei rari casi in cui alcuni psicoanalisti divengono un riferimento per la psicologia<br />

che in quel periodo ha cominciato ad interessarsi seriamente di narrazioni.<br />

Ben presto però si disse che i concetti di narrazione e narrativa avevano poco a<br />

che fare con la realtà della clinica e risultavano al di fuori della scienza a cui la<br />

psicoanalisi si ispirava.<br />

L’idea di narrativa pareva un qualcosa di artificioso che ha spinto taluni ad<br />

affermare che allora qualsiasi cosa può andar bene. Ciò sembrava allontanare lo<br />

psicoanalista «narratologo» dalla retta via del processo analitico.<br />

Vorrei mostrare, viceversa, come l’approccio narrativo sia saldamente radicato<br />

nella cultura psicologica americana, nella psicologia cognitiva contemporanea, nell’e<br />

pistemologia e nel modo attuale di concepire la storia. Inoltre esso costituisce<br />

un’interfaccia preziosa con le neuroscienze visto che l’approccio neo-connessionista<br />

metodologicamente a cavallo tra neuroscienze, psicologia e scienze dell’artificiale<br />

vede tra i suoi fondatori Rumelhart cui si devono stimolanti studi proprio sulla<br />

struttura delle storie, sullo sviluppo delle capacità narrative nel bambino e sulla<br />

possibilità di simulare tali processi. Papert inoltre ha studiato un programma per<br />

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insegnare la logica attraverso storie, ed io stesso ho studiato come il bambino<br />

costruisca semplici storie per darsi ragione di eventi quotidiani (1981).<br />

Secondo la psicologia cognitiva la narrazione è un modo del discorso ed una<br />

modalità di organizzare l’esperienza che ha una forte presa sull’immaginazione ed è<br />

tipicamente umana. La si può cioè usare proprio come si può saper usare la<br />

televisione senza doversi intendere di elettronica.<br />

Bruner (1990) sostiene che «una delle forme di discorso più diffuse e più potenti<br />

nella comunicazione umana è la narrazione. La struttura narrativa è anche insita<br />

nella prassi dell’interazione sociale, prima di trovare espressione linguistica)> (p. 81).<br />

La tendenza a strutturare l’esperienza in senso narrativo si manifesta nel corso<br />

dell’acquisizione del linguaggio. I bambini inventano e comprendono storie (Rumel<br />

hart), ne sono consolati e spaventati assai prima di essere capaci di gestire proposizio<br />

ni logiche (Hoffer).<br />

cioè venuto delineandosi un approccio narrativo che, pur coinvolgendo in<br />

prima persona la psicoanalisi, era derivato da ricerche psicologiche nell’ambito dello<br />

sviluppo, da ricerche etnologiche, letterarie e persino neuropsicologiche.<br />

Ciò si verificava comunque all’interno della principale tradizione psicologica<br />

americana alternativa al comportamentismo: la psicologia di William James. James<br />

nel suo I principi della psicologia (1890) aveva trattato in modo approfondito la<br />

nozione di Sé nell’ambito della sua concezione pragmatista della psicologia.<br />

Il cosiddetto filone ermeneutico della psicoanalisi - io credo - può a ragione, ed<br />

anzi deve, essere considerato all’interno della tradizione del pragmatismo americano<br />

sviluppatosi nella scuola filosofica di Chicago ed alla Columbia University di New<br />

York durante gli anni in cui in Europa andava sviluppandosi proprio la psicoanalisi.<br />

Appare cioè vantaggioso collocare l’opera di Autori come Schafer e Spence<br />

all’interno della tradizione psicologica derivante dalla colossale opera di William<br />

James.<br />

James<br />

William James, fratello maggiore del romanziere Henry, nel 1894 fu il primo<br />

americano a richiamare l’attenzione sul lavoro di Breuer e Freud. Egli fu uno dei<br />

pilastri del pragmatismo definito scherzosamente «il risultato di una errata interpreta<br />

zione data da James all’opera di Pierce».<br />

Il pragmatismo comparve infatti nel 1870 in occasione delle lectures di Pierce al<br />

Metaphysical Club di Harvard. In questa occasione Pierce sottolineò che le «conse<br />

guenze pratiche», poniamo dell’elettricità, corrispondono al suo concetto globale.<br />

Il pragmatismo si proponeva come metodo per risalire al significato delle idee. E<br />

il pensiero di Pierce si poneva in contrasto con le posizioni degli empiristi inglesi, ed<br />

in particolare con quelle di Berkeley che nel XVIII secolo sosteneva che il significato<br />

di un enunciato consiste nell’immagine mentale che noi ci formiamo. Il significato di<br />

«sedia» sarebbe cioè per gli empiristi inglesi l’immagine della sedia.<br />

Viceversa, secondo l’opinione di Pierce, il significato di sedia consisterebbe nelle<br />

conseguenze dell’atto di sedersi. Se dunque nel 1878 la mente era ridotta dagli<br />

empiristi a sensazioni elementari, immagini e sentimenti, il contributo di Pierce trovò<br />

nella visione di un universo pluralistico sviluppata da James la sua collocazione<br />

psicologica ideale.<br />

Nel 1870 James, in un volume intitolato Pragmatismo, sviluppò le concezioni di<br />

Pierce rispetto al problema della verità di un enunciato. James estendeva alle<br />

operazioni psicologiche la nozione di effetti pratici dovuta a Pierce, ed affermava che<br />

dire a qualcuno che un enunciato «è vero» significa dirgli che lo può credere. Cioè<br />

asserire che «P è vero» significa «se credete P, gli effetti vi soddisferanno».<br />

Pierce rilevò comunque che il credere e la relativa soddisfazione sono personali,<br />

mentre la verità è pubblica.<br />

Per James si aveva a che fare con una verità per l’individuo, per Pierce si doveva<br />

puntare ad una verità intersoggettiva. Credo che in questo dibattito si ritrovino i temi<br />

che animano molte critiche ai contributi di Spence e Schafer.<br />

Non è forse un caso che l’opera del terzo pragmatista, John Dewey, si sviluppas<br />

se nel campo dell’educazione in un’epoca in cui, come ricorda George Miller (1962)<br />

«la frase ‘Apprendere dall’esperienza’ era degenerata in un vuoto slogan» (p. 100).<br />

La psicologia pragmatica si distingueva radicalmente dalle coeve ricerche intro<br />

spettive del laboratorio di Wundt. E l’attenzione dei pragmatisti si dedicava alle<br />

funzioni mentali, fino al successivo sorgere del comportamentismo che prenderà ben<br />

presto una direzione differente.<br />

Miller, Buckhout (1962) sostengono infatti che «se Watson non fosse stato così<br />

inetto come filosofo, avrebbe potuto presentare il comportamentismo come una teoria<br />

pragmatista della mente paragonabile alla teoria pragmatista del significato di Pierce,<br />

alla teoria pragmatica della verità di James, a quella del valore di Dewey» (p. 102).<br />

Invece, anche in virtù di una differente concezione dell’uomo e del suo universo,<br />

il comportamentismo si distanziò velocemente proseguendo per la sua strada così che,<br />

secondo la velenosa definizione di Miller & Buckhout (1962), Watson «sottolineò<br />

semplicemente il fatto che tutto ciò che noi facciamo consiste, in ultima analisi, nel<br />

movimento di oggetti materiali da un posto all’altro» (p. 102).<br />

Per quel che riguarda lo sviluppo della psicologia di James la svolta determinan<br />

te della sua vita giunse quando nel 1870, nel pieno di una crisi depressiva che lo<br />

paralizzava, egli scoprì una serie di saggi sul libero arbitrio di Charles Renouvier in<br />

cui si sosteneva che gli atti mentali hanno effetto sul corpo. James annoterà nel suo<br />

diario: Il mio primo atto di libero arbitrio sarà quello di credere nel libero arbitrio.<br />

Nella sua psicologia James rifiutò dunque la concezione propria degli empiristi<br />

inglesi di una coscienza fatta di scene discrete legate da associazioni e proiettate su<br />

una sorta di schermo interiore. La concezione di James invece prevede «rapidi voli e<br />

soste» distinguendo tra parti transitive e sostantive nella corrente del pensiero.<br />

Ritroveremo, anche se trasfigurata, tale concezione nella psicologia cognitivista, nel<br />

neo-connessionismo ed in una rilevante parte delle scienze dell’artificiale.<br />

L’empirismo radicale di James è molto distante da quello inglese, così che nel<br />

1904, quando egli era ormai divenuto un filosofo a tutti gli effetti, poteva scrivere:<br />

«Ogni cosa reale deve poter essere in qualche modo sperimentata e ogni cosa<br />

sperimentata deve essere in qualche modo reale». Queste posizioni lo rendono di fatto<br />

uno dei riferimenti impliciti dei costruttivisti contemporanei visto che egli considera<br />

«la soggettività in senso mentale e l’oggettività in senso fisico come modi particolari<br />

di esperienza» (Miller, Buckhout, 1962, p. 110).<br />

William James fu anche il fondatore della psicologia clinica americana. Egli<br />

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infatti, muovendosi dall’ambito della medicina verso la filosofia, riconobbe che il<br />

medico ottiene di più con l’efficacia morale della sua presenza sul paziente e la sua<br />

famiglia che con qualsiasi altra cosa.<br />

Nel 1902 James pubblicò, raccogliendo le sue Gfford lectures tenute a Edimbur<br />

go nel 190l-’02, Le forme dell’esperienza religiosa, un libro che fonda un nuovo<br />

campo di indagine che in seguito verrà chiamato proprio Psicologia Clinica.<br />

L’interesse di James si appunta specificamente sugli stati mentali che caratteriz<br />

zano le esperienze psichiche: la folla in tumulto, l’ipnosi, la psicopatologia. Egli era<br />

convinto che il sostegno della vita religiosa non fossero le abituali ragioni invocate<br />

dai teologi, ma una gamma di esperienze concrete: voci, risposte, preghiere, conversa<br />

zioni con l’ignoto, mutamenti sentimentali, liberazione dalla paura e tali esperienze<br />

oggi sono chiamate «fattori curativi» della psicoterapia. James era convinto che la<br />

religione fosse qualcosa di più primordiale della ragione, ma altrettanto autorevole.<br />

Per lo psicologo americano dimenticare questo fatto portava ad un travisamento<br />

profondo della natura umana, ad una forma di «cecità» che sottostava alla fallacia<br />

dello psicologo.<br />

Per James la fede ha un effetto curativo: una conversione costituisce una cura,<br />

una fonte di cambiamenti a catena nella struttura della personalità di un individuo<br />

come la storia stessa della psicoanalisi ha mostrato ampiamente.<br />

Ma anche i miracoli hanno a che fare con la Psicologia Clinica. Le guarigioni<br />

miracolose sono documentate, ogni medico ha visto pazienti guariti dai placebo. Tali<br />

guarigioni sono solitamente, ed in modo squalificante, attribuite a suggestione. Si<br />

sostiene cioè che il paziente o non era realmente malato, o che, se lo era ed è guarito,<br />

deve esserci qualche imbroglio. Viceversa l’effetto della suggestione viene ritenuto da<br />

James una delle azioni possibili e legittime nella psicologia umana.<br />

Questi temi attraverseranno i primordi della psicoanalisi e le discussioni odierne<br />

sull’efficacia dei trattamenti, come le discussioni delle presentazioni codificate, e<br />

accettate, dei casi clinici che tendono ad avere una struttura narrativa adeguata al<br />

racconto di miracoli (Mahoney; Sulloway, 1991).<br />

Questi interessi della psicologia clinica si scorgono in filigrana nei riferimenti di<br />

Schafer a Della certezza di Wittgenstein, come nella criticata, ma non compresa,<br />

posizione di Spence riguardo alla natura «suggestiva» della psicoanalisi che fa uso di<br />

asserzioni pragmatiche per creare una determinata verità narrativa, cioè in definitiva<br />

alla discussione filosofica sulla costruzione di realtà condivisibili e terapeutiche i cui<br />

fondamenti si collochino semplicemente in una relazione interpersonale.<br />

Vediamo così come l’approccio narrativo sia fortemente radicato nella cultura<br />

psicologica americana sia da un punto di vista storico, che nella più attuale ricerca, e<br />

come esso possa articolare la teoria clinica psicoanalitica con altre discipline partico<br />

larmente interessanti nello sviluppo della psicologia clinica odierna.<br />

Prima di affrontare lo specifico del concetto di narrativa in psicoanalisi vorrem<br />

mo riassumere tre punti fondamentali emersi nella discussione preliminare:<br />

I) Esistono differenti «modi» interattivi umani, alcuni dei quali si manifestano in<br />

particolari periodi della vita (ad es. l’infanzia), altri esistono solo come potenziali<br />

tà dell’individuo, ed altri ancora sono possibili, e in certo qual modo specifici di<br />

determinati ambienti e situazioni (ad es. la famiglia di origine, o la madre, la folla,<br />

l’esperienza mistica, la psicoterapia etc.).<br />

86<br />

2) La modalità narrativa è fin dall’infanzia un tipico modo di interagire umano che è<br />

in grado di stimolare, e attivare, influenze reciproche tra i soggetti coinvolti, e di<br />

permettere all’interazione attuale di spostarsi tra i «modi», o livelli dell’interazione,<br />

fino in profondità. Bruner (1991) sostiene che il soggetto elabora l’esperienza<br />

attraverso una modalità narrativa. Quindi interferire con tale modalità narrativa<br />

interferisce con l’elaborazione dell’esperienza fino alla sensibilizzazione degli sche<br />

mi e delle modalità di adattamento del soggetto e dei modi di costruire il reale.<br />

Ciò può attuarsi in famiglia durante l’infanzia come in un trattamento psicotera<br />

peutico che utilizzi qualsivoglia strategia narrativa (psicoanalisi, terapia della<br />

famiglia etc.).<br />

3) La psicoanalisi è un metodo per costruire un’interazione particolare in cui diviene<br />

possibile suscitare o accedere ad alcune di queste particolari modalità interattive.<br />

Queste sono costruite di volta in volta nella loro versione psicoanalitica sulla base<br />

delle caratteristiche proprie dei soggetti coinvolti e di talune opzioni, o modelli, o<br />

stretegie narrative che contraddistinguono i diversi tipi di psicoanalisi comune<br />

mente considerati tali (freudiano, kleiniano, mahleriano, bioniano, kohutiano<br />

etc.). E attraverso queste vie, modulate narrativamente, che la psicoanalisi può<br />

sensibilizzare e trasformare gli schemi dei soggetti e quindi le loro realtà e forme di<br />

adattamento.<br />

Per queste ragioni l’approccio di Schafer e Spence si mostra dì più ampio respiro<br />

di quanto affermino gli autori stessi. Esso permette una profonda comprensione dei<br />

meccanismi clinici ed un’interconnessione sistematica con altre discipline psicologiche<br />

e neuropsicologiche. Si tratta dello sviluppo di una teoria della clinica integrata in<br />

una rete di modelli disciplinari biologici e cognitivi, al punto da far affermare a<br />

Bruner (1991) l’esistenza di una «biologia del significato», a Gedo (1991) di una<br />

«biologia dell’incontro analitico», a Wheleer (1987) di un «Ermeneutica biologica».<br />

Sherwood<br />

Nella letteratura psicoanalitica il più autorevole precursore della svolta narrativa<br />

è stato Sherwood. Egli alla fine degli anni Sessanta si inserì nel dibattito sulla natura<br />

dell’interpretazione psicoanalitica che era stato attivato nel corso del convegno del<br />

1958 su «Psicoanalisi e metodo scientifico» cui bisogna far risalire, almeno a grandi<br />

linee, le principali questioni epistemologiche sulla natura dell’interpretazione dibattu<br />

te fino ad oggi con conclusioni diversissime.<br />

Sherwood prende le mosse dai tradizionali problemi di verificabilità e struttura<br />

dell’interpretazione che hanno occupato i filosofi della scienza.<br />

Secondo l’autore la narrativa psicoanalitica organizza frammenti di condotta del<br />

paziente in una totalità completa e coerente in cui riescono a trovare spiegazione<br />

ricordi e comportamenti in modo significativo e accettabile al soggetto.<br />

La spiegazione psicoanalitica si contraddistingue per la presenza di elementi di<br />

generalizzazione, di ipotesi situazionali e motivazionali, di correlazioni non causali,<br />

nell’ambito di una serie di ipotesi sulla relazione paziente-analista.<br />

A proposito delle caratteristiche delle narrative psicoanalitiche l’autore rileva due<br />

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criteri fondamentali. Il primo, Adeguatezza, comprende coerenza, coesione, esaustivi<br />

tà: tali criteri servono a definire la verità narrativa. Il secondo Esattezza, comprende<br />

il valore di verità dei singoli enunciati (e la loro corrispondenza a ciò che affiora<br />

durante il trattamento: verità storica). Le varie parti si integrano in una totalità<br />

organica che risulta particolarmente accettabile (credibile) al paziente.<br />

L’immagine che emerge dalla discussione di Sherwood comprende talune con<br />

traddizioni a voler rimanere nella cornice concettuale stabilita dall’autore, che è poi<br />

quella tradizionale che pone costantemente il problema della validità e verificabilità<br />

della ricostruzione psicoanalitica del passato. Viceversa facendo riferimento a quanto<br />

emerge dagli sviluppi cui darà luogo soprattutto il contributo di Spence (1982, 1987)<br />

si può considerare il fatto di costruire una storia come una modalità particolarmente<br />

efficace di agire su di un soggetto spingendolo a modificare la sua condotta e i suoi<br />

schemi. Per Sherwood comunque si tende a costruire «una» storia.<br />

Ma gli autori principali del filone narrativo sono Schafer e Spence.<br />

Schafer<br />

Schafer propone un abbandono radicale della metapsicologia e dei suoi concetti<br />

reificati derivanti dalle concezioni prevalenti della scienza dell’Ottocento. Per Schafer<br />

«la metapsicologia (. . .) presenta la persona come un apparato psichico nel cui<br />

ambito agiscono, ciascuna a suo modo, delle forze - la cosiddetta psicodinamìca - e<br />

le funzioni delle strutture mentali» (p. 122).<br />

L’autore propone di rinunciare all’uso di sostantivi mentalistici come: struttura,<br />

funzione, forza, pulsione, ed anche agli aggettivi che li qualificano: debole, forte,<br />

autonomo e rigido. Per Schafer questo raffinamento del linguaggio permette una<br />

nuova forma all’osservazione clinica ed inevitabilmente alla sua teoria.<br />

Il linguaggio dell’azione proposto dall’autore per la teoria clinica della psicoana<br />

lisi presenta il soggetto come colui che compie delle azioni, definisce le modalità in<br />

cui le compie. Per Schafer tutti gli atti (compresi quelli mentali riprendendo James)<br />

sono azioni diversamente qualificabii.<br />

Anche le emozioni si qualificano come azioni proprio come le loro modalità<br />

(ama appassionatamente, agisce odiosamente, giudica astiosamente).<br />

Nella teoria dell’azione le concomitanti somatiche delle emozioni non si conside<br />

rano distinte dalle azioni cui si riferiscono così da non richiedere sostantivi o aggettivi<br />

particolari.<br />

Schafer fa un evidente riferimento alla teoria delle emozioni di James e la<br />

utilizza per criticare il linguaggio metapsicologico che crea una causalità fittizia fra<br />

entità mentali altrettanto fittizie. Queste entità mentali sono metafore ontologiche<br />

(oggetti interni), strutturali (Es), spaziali (mondo interno) che contribuiscono a<br />

organizzare la nostra esperienza attuale sulla base di esperienze elementari (Lakoff,<br />

Johnson, 1980).<br />

Nel suo saggio del 1884 James afferma infatti che abitualmente sembra che la<br />

percezione di qualche fatto stimoli uno stato mentale (emozione) che a sua volta<br />

origina un’espressione fisica. Viceversa egli sostiene che «le modificazioni fisiche<br />

conseguono direttamente alla percezione del fatto eccitante, e che il senso nostro di<br />

quelle modificazioni mentre avvengono costituisce l’emozione». Per il senso comune,<br />

e nel linguaggio metapsicologico, se per esempio incontriamo un orso, siamo spaven<br />

tati, scappiamo oppure veniamo insultati, siamo arrabbiati, reagiamo. Invece la<br />

concezione di James prevede che tale sequenza causale sia fittizia e creata dal<br />

linguaggio comune. L’autore afferma che «l’uno stato mentale non è indotto imme<br />

cliatamente dall’altro, ma che vi si debbano dapprima frapporre le modificazioni<br />

organiche». ( ) L’affermazione più razionale è dunque che «noi siamo tristi perché<br />

piangiamo, siamo spaventati perché tremiamo, arrabbiati perché reagiamo, e non che<br />

piangiamo, tremiamo, reagiamo, perché siamo tristi, spaventati, arrabbiati».<br />

Siamo cioè di fronte ad una radicale modificazione teorica che investe massicciamente<br />

il linguaggio clinico.<br />

La psicologia di James, come propone Schafer quando parla di superamento del<br />

disconoscimento dell’azione, e della acquisizione di responsabilità del paziente,<br />

prevede il controllo delle emozioni attuato favorendo e riconoscendo le manifestazio<br />

ni fisiche a queste appropriate.<br />

Inoltre Schafer nota che desiderio e credenza sono azioni, così potremmo<br />

affermare che qualcuno desidera inconsciamente di compiere qualcosa, o crede di<br />

essere in una particolare situazione, riuscendo a mantenersi nell’ambito della teoria<br />

dell’azione.<br />

Il soggetto agisce in maniera conflittuale, quando crede che le azioni che compie<br />

siano contraddittorie: così non si contempla l’esistenza di fantasie o desideri in<br />

conflitto, ma di una condotta contraddittoria.<br />

Si può desiderare consciamente, preconsciamente, o inconsciamente per esempio<br />

sulla base del tentativo del soggetto di realizzare una condizione difensiva, di evitare un<br />

abbandono, di sfuggire ad una punizione. Ciò si può attuare attraverso azioni difensive<br />

come razionalizzando, isolando, rimovendo, proiettando, identificandosi etc.<br />

Tali azioni non abbisognano, per essere spiegate, di «doppioni» quali i concetti di<br />

«meccanismi di difesa». Un’azione può essere spiegata con più motivi, come lo stesso<br />

motivo può spiegare differenti azioni.<br />

Secondo Schafer quando lo psicoanalista effettua un’interpretazione formula a<br />

cosa serve l’azione in questione col che asserisce cos ‘è quell’azione in senso pragmatico.<br />

Il linguaggio dell’azione permette dunque, sulla scorta della psicologia di James,<br />

di evitare quelle formulazioni suggestive in cui si crea una causalità fittizia attraverso<br />

il linguaggio che descrive parti di un evento come fossero eventi separati o entità<br />

relate causalmente fornendo in tal modo una pseudo-spiegazione integrata nel senso<br />

comune.<br />

L’interpretazione psicoanalitica dice cos’è che la gente fa contribuendo ad una<br />

nuova e diversa narrazione di Sé che si fonda pragmaticamente.<br />

Secondo Schafer (1978) «il linguaggio dell’azione non si limita a essere un<br />

linguaggio microdescrittivo, né è pura descrizione clinica o ingenua descrizione<br />

comportamentistica» (p. 125).<br />

Infatti per l’autore «la teoria strutturale della psicoanalisi è una tassonomia di<br />

azioni» (p. 126) resa tuttavia in modo fortemente meccanicistico e antropomorfico<br />

secondo le linee guida della metapsicologia.<br />

Schafer afferma che «il metodo analitico clinico non consente affatto di trarre<br />

una qualsiasi conclusione circa le interazioni causali tra la mente e il corpo, i sistemi<br />

psicoeconomici chiusi o i principi regolatori psicobiologici. ..» (p. 127).<br />

88 89


Viceversa, nella concezione di Schafer «l’esperienza è una costruzione dell’indivi<br />

duo. Quella che l’analizzando riferisce in forma introspettiva come esperiexza può<br />

essere interpretata come un suo modo di dire qualcosa su ciò in cui ci si è imbattuti<br />

nel mondo o nel corpo, o su ciò su cui si è riflettuto» (p. 128).<br />

Così per Schafer «il mondo interiore dell’esperienza è un modo di raccontare,<br />

non un luogo» (p. 128).<br />

Mondo interno, oggetti etc. costituiscono una strategia narrativa basata su<br />

metafore spaziali, strutturali e ontologiche antropomorfiche, piuttosto che essere<br />

entità psicologiche «scoperte» dagli psicoanalisti in qualche parte della «mente».<br />

Molti concetti tradizionali della psicoanalisi appartengono quindi ad un modo<br />

psicologizzato di esprimersi, una psicologia psicoanalitica popolare, che accomuna<br />

psicoanalisti e pazienti che «giungono a dire, per esempio, che la loro mente ha un<br />

interno e un esterno, delle suddivisioni contrapposte una all’altra e un modo di<br />

funzionare, come affrettarsi, bloccarsi, o scaricarsi, che essa pone in opera indipen<br />

dentemente dalle loro intenzioni. Allo tempo stesso, dicono di avere un Sé o vari Sé,<br />

o un’identità con o senza confini, o un insieme di coazioni irresistibili. È così che<br />

imparano a comporre la loro esperienza, a raccontare a se stessi come sono fatti»<br />

(Schafer, 1983, p. 128).<br />

Schafer afferma che per tutta la vita non facciamo che raccontare noi stessi.<br />

Possiamo ritenere, per diverse finalità, che raccontare queste storie su di noi agli altri<br />

equivalga a eseguire dei veri e propri atti narrativi. Tuttavia, nel dire che raccontiamo<br />

queste storie anche a noi stessi, noi racchiudiamo una storia in un’altra. E la storia<br />

che c’è un Sé a cui raccontare qualcosa, qualcun altro che funga da pubblico, che è se<br />

stessi o il proprio Sé. «Quando le storie che noi raccontiamo agli altri su noi stessi<br />

riguardano nostri altri Sé, quando diciamo per esempio: ‘non sono padrone di me<br />

stesso, ancora racchiudiamo una storia entro un’altra’» (p. 211).<br />

Da questo punto di vista il Sé è un raccontare. Questo raccontare può variare a<br />

seconda delle occasioni e delle persone, e può essere più o meno unificato, stabile e<br />

accettabile.<br />

In questa posizione di Schafer riconosciamo l’idea di pensiero proposta da<br />

James ed una concezione del Sé ricorsiva, basata sull’inclusione di storie all’interno<br />

di altre storie, che mostra lo stratificarsi dei livelli delle azioni secondo modalità<br />

ricorsive ben note nell’ambito dell’intelligenza artificiale (Hofstadter, 1979).<br />

Per quanto riguarda il processo psicoanalitico secondo Schafer (1983) i fini della<br />

psicoanalisi sono la costruzione di un resoconto psicoanalitico della vita in cui il<br />

paziente diviene progressivamente un agente singolo, unitario, responsabile del suo<br />

comportamento e irresponsabile di accadimenti al di fuori della sua portata.<br />

L’attività psicoanalitica si centra sull’esame della costruzione del significato<br />

all’interno dell’interazione psicoanalitica, tale costruzione coordina e tratta azioni<br />

umane che sono in quanto tali narrazioni attuali o potenziali. Il terapeuta entra nelle<br />

narrazioni (azioni) del paziente trasformandole in altre più articolate, complesse, tali<br />

da ampliare la gamma di possibilità di scelta del paziente creando dei meta-contesti in<br />

cui reinterpretare e ricostruire eventi e ricordi.<br />

La narrazione, più o meno frammentaria, del paziente è una delle molte storie<br />

possibili della sua vita.<br />

Gli interventi dell’analista stimolano nuove narrative (azioni) ed in tal modo<br />

eventi significativi della vita del paziente vengono ad includere fatti, ricordi, senti-<br />

menti (azioni) che prima non vi comparivano, così che l’esperienza e il significato<br />

della vita cambia lentamente nel ricordo che il soggetto può a questo punto costruire<br />

da sé del proprio passato «analizzato».<br />

Quest’ultimo ora è un po’ differente da come appariva precedentemente. I vari<br />

tipi di intervento stimolano infatti nuove versioni parziali del passato, e del presente<br />

della seduta che è ricostruito hic et nunc al pari del passato. I ricordi nuovi, l’insight,<br />

le emozioni nuove, emergono dall’utilizzo di criteri di rilevanza differenti, come da<br />

una differente contestualizzazione di un’esperienza. Le «conseguenze pratiche» delle<br />

azioni in analisi modificano l’idea che il soggetto ha di taluni eventi tipici della vita.<br />

In questo processo l’analista e l’analizzato si concentreranno non solo sul contenuto,<br />

ma anche sulla forma della narrazione (Schafer la definisce l’azione della narrazione)<br />

in cui il raccontare viene trattato come l’oggetto da descrivere, piuttosto che come un<br />

medium trasparente. Il Sé dell’analizzato non è considerato un semplice produttore di<br />

racconti, ma una narrazione con un suo proprio stile che viene curato e affinato<br />

tramite l’analisi fino ad ottenere retroattivamente delle modificazioni dell’autostima<br />

attraverso la valorizzazione delle conseguenze pratiche di questa specifica azione<br />

narrativa psicoanalitica del Sé narrante del soggetto.<br />

Spence<br />

Il contributo di Spence (1982) prende le mosse da una raffinata discussione dei<br />

tipi di «verità» trattati dal lavoro analitico. Spence si chiede se un paziente in analisi<br />

recuperi il passato dalla memoria così come un archeologo recupera, scavando,<br />

oggetti appartenuti a una civiltà sepolta, oppure l’analisi renda possibile la creazione<br />

di una nuova narrazione che è ancora abbastanza vicina alla realtà da poter innescare<br />

un processo ricostruttivo. Questa verità narrativa funziona solo se si accorda con la<br />

«vera» storia del paziente, se in qualche modo riesce a cogliere, all’interno della sua<br />

logica, il vero problema del paziente. L’autore distingue cioè tra una verità storica<br />

caratterizzata da una tendenziale corrispondenza ad eventi accaduti e potenzialmente<br />

documentabile ed una verità narrativa che in via di principio può fare a meno di tale<br />

corrispondenza e cionondimeno apparire «vera». La discussione dell’autore muove da<br />

una concezione classica della psicoanalisi che prevede tale distinzione in modo netto,<br />

cui consegue una distinzione altrettanto netta tra interpretazioni e ricostruzioni esatte<br />

o inesatte per approdare infine ad una concezione in cui la differenza appare sfumata,<br />

e le concezioni tradizionali sulla qualità delle costruzioni analitiche paiono modificate<br />

radicalmente. Addirittura la posizione espressa nel suo secondo contributo (1987)<br />

parrebbe convergere con la posizione «enactive» (Varela, 1992) che sta facendo la sua<br />

comparsa sulla scena delle scienze cognitive.<br />

In effetti la posizione di Spence parte da un dibattito epistemologico tradizionale<br />

centrato sulla verificabilità delle interpretazioni e delle ricostruzioni, ma finisce con<br />

l’approdare ad un nuovo modello in cui le vecchie questioni perdono di senso ed<br />

assumono nuova rilevanza le caratteristiche delle formulazioni degli interventi e delle<br />

interpretazioni, come le modalità utilizzate dall’analista nel gestire la situazione<br />

clinica per i fini del trattamento.<br />

Se «la differenza fra verità narrativa e storica è parallela a quella fra costruzione<br />

90 91


e ricostruzione nel processo interpretativo» (Spence, 1982, p. 153) lo sviluppo della<br />

rifiessione di Spence conduce al riconoscimento dell’esistenza di sole «costruzioni»<br />

psicoanalitiche. Ciò, in accordo con le più recenti concezioni dei processi mnestici da<br />

un punto di vista neuropsicologico che considerano il ricordo in termini pratici come<br />

un’azione atta a risolvere un problema che viene sviluppata sulla base delle conoscen<br />

ze disponibili al soggetto e si rivela adeguata se funziona, un po’ come una chiave che<br />

deve aprire una porta e che, come ci insegnano gli scassinatori, può funzionare anche<br />

se non è quella del proprietario. La neuropsicologia della memoria sostiene infatti che<br />

il ricordo è costruito, in certo qual modo inventato (Munari, 1984), per risolvere un<br />

problema cognitivo attuale (Arbib, 1972) e la sua corrispondenza al passato non<br />

deve, né può, essere così stretta come si è creduto in precedenza.<br />

Come affermano i neo-connessionisti Rumelhart e McClelland (1986) «il sistema<br />

va concepito come collocantesi in una soluzione, e non calcolante una soluzione» (p.<br />

187). In pratica, come si sa, vi sono professionisti abili ad aprire le porte con le<br />

forcine da capelli, o altri ricordi «impropri» ma purtuttavia «adatti» come in ultima<br />

analisi ebbe a sostenere anche Freud (1937). Queste posizioni sono suffragate inoltre<br />

dalle ricerche neuropsicologiche sulla memoria così che Hinton, McClelland, Rumel<br />

hart (1986), possono affermare che «lo sfumare della distinzione tra rievocazione<br />

veritiera e confabulazione o ricostruzione plausibile pare essere caratteristico della<br />

memoria umana» (Bartlett, 1932; Neisser, 1981).<br />

La natura ricostruttiva della memoria umana «continua ad essere sorprendente<br />

solo perché è in contrasto con le tipiche metafore in uso. Si tende a pensare che un<br />

sistema di memoria debba funzionare immagazzinando copie letterali degli elementi e<br />

poi recuperando le copie immagazzinate, come accade in un archivio o in un tipico<br />

data base computazionale».<br />

Viceversa se si concepisce la memoria come un processo di costruzione del<br />

pattern di attività che rappresenta l’elemento che più si attaglia ai dati, allora talvolta<br />

ci si può accontentare di un’approssimazione buona, ma non ottimale. È facile<br />

immaginare questa convergenza; più difficile è ottenerla di fatto. «Un approccio<br />

recente a questo problema è dato dall’uso della meccanica statistica per analizzare il<br />

comportamento di gruppi di unità stocastiche interagenti. Questa analisi garantisce<br />

che quanto più un elemento si attaglia alla descrizione, tanto più è probabile che sia<br />

trovato come soluzione».<br />

Dunque abbiamo a che fare con un sistema vivente adattativo che tende a<br />

configurarsi in modo da venir incontro ai dati in arrivo. Secondo Norman (1991) «è<br />

un sistema flessibile, eppure rigido. In altri termini, anche se cerca sempre di<br />

rispecchiare i dati in arrivo, lo fa sulla base delle conoscenze e delle configurazioni<br />

esistenti. Non si attende mai di stabilire una corrispondenza perfetta, ma piuttosto<br />

cerca di avere la migliore corrispondenza possibile ad ogni istante dato. Migliore è la<br />

corrispondenza più stabile è il sistema» (p. 468).<br />

Il sistema memorizza eventi specifici, ma i risultati delle sue operazioni consisto<br />

no sempre nella generalizzazione di casi particolari. Quindi, prosegue Norman,<br />

«anche se il sistema non sviluppa né regole di classificazione, né generalizzazioni, esso<br />

agisce come se possedesse queste regole» (p. 468). In tal modo avviene che il sistema<br />

rispecchi l’esperienza quanto basta per cavarsela. Dobbiamo leggere la discussione di<br />

Spence all’interno di questi modelli del ricordo per poterla apprezzare fino in fondo.<br />

Secondo Spence «la costruzione che di un evento infantile elabora l’analista può<br />

portare il paziente a ricordano diversamente, nel caso ché se ne ricordasse, oppure a<br />

formarsi per la prima volta un ricordo tutto nuovo, se prima l’evento gli era<br />

inaccessibile. Nell’ambito privato del paziente, l’evento così ricordato ex novo agisce<br />

ed appare in tutto, e per tutto come qualunque altro ricordo: è così che diventa vero»<br />

(p. 154). Vediamo che il confine tra verità storica.e narrativa si sfuma, e d’altra parte<br />

pDssiamo riconoscere anche che il «passato» trattato nel dominio del trattamento<br />

psicoanalitico, è una parte del dominio di esperienza attuale del trattamento ed è<br />

quindi una partizione dell’hic et nunc. Le interpretazioni ricostruttive altro non sono<br />

se non una speciale sotto-categoria delle interpretazioni hic et nunc (Casonato,<br />

Tampieri, 1991).<br />

Secondo Spence un’affermazione non documentata comincia a vivere di vita<br />

propria, una vita sostanzialmente indipendente dalla condizione dei dati probatori. «In<br />

maniera simile, un’interpretazione totalmente immaginaria può conseguire un certo<br />

statuto di verità nello spazio analitico. Diventa vera perché è plausibile, perché si inse<br />

risce bene nelle altre parti della biografia del paziente; col tempo, se è ripetuta ab<br />

bastanza spesso, diventa familiare, il che le conferisce un senso aggiuntivo di verità (e la<br />

sua stessa frequenza, come abbiamo notato, può essere rassicurante)» (1982, p. 159).<br />

Come noterebbe Pierce l’interpretazione diventa vera perché risulta utile: una<br />

particolare costruzione può stimolare il paziente a costruire nuovi significati ristruttu<br />

rando le relazioni tra le sue azioni, cancellandone altre e creandone di nuove. E ciò<br />

rende ragione di una certa efficacia delle ricostruzioni più fantasiose che magari<br />

tirano in ballo esperienze fetali o gli ormai mitici oggetti interni.<br />

Quanto Glover (1931) ha discusso riguardo a interpretazioni esatte o inesatte ed<br />

alla loro eventuale funzione suggestiva risulta oramai completamente superato da<br />

questa rivoluzione copernicana proposta da Spence. L’autore nota infatti che «quasi<br />

nessuna interpretazione può esser esatta nel senso di corrispondere a un particolare<br />

tempo e luogo nel passato del paziente; quasi ogni interpretazione è una creazione<br />

linguistica» (1982, p. 160).<br />

Pertanto «un’interpretazione può essere inesatta, nel senso che non corrisponde<br />

a un frammento del passato, ma nella misura in cui è creativa e permette l’emergere<br />

di un nuovo tema, ecco che diventa un fattore positivo nel trattamento e non<br />

necessariamente una resistenza (come vorrebbe farci credere Glover). Forse Glover<br />

era troppo ottimista circa le probabilità di trovare interpretazioni esatte; nel momen<br />

to in cui sottolineiamo la costruzione a scapito della ricostruzione e cominciamo a<br />

vedere come l’analista, nella scelta dei temi e nell’uso del linguaggio, imprima<br />

continuamente la sua impronta sul materiale, ci rendiamo conto che tutte le interpre<br />

tazioni sono in misura maggiore o minore inesatte» (Spence, 1982, p. 160). Ma<br />

cionondimeno esse risulteranno vere per la loro utilità nel trattamento, per gli effetti<br />

pratici soddisfacenti di cui parlava James, e quindi per la narrazione di Sé.<br />

Riprendendo i contributi di Viderman e Loch sugli aspetti creativi-costruttivi<br />

dell’interpretazione, Spence (1982) sostiene inoltre che «un’intepretazione formale ci<br />

permette di rendere accessibili al paziente certi tipi di esperienza; una volta messi in<br />

parole, possono essere integrati in altre parti della sua biografia e collegati ad altre<br />

parti della nostra teoria (...) una volta che abbiamo espresso in parole un antico<br />

ricordo d’infanzia o un sogno vago, questa traduzione diventa, nel bene e nel male, la<br />

nuova realtà» (p. 161).<br />

La psicoanalisi, in modo coerente con le concezioni di James, viene intesa come<br />

92 93


un modo terapeutico di intervenire e modificare il flusso continuo di costruzione di<br />

Sé e del reale.<br />

Spence propone in sostanza un radicale abbandono del cosiddetto «modello<br />

archeologico» della psicoanalisi che «scopre» secondo la tradizione inaugurata con gli<br />

Studi sull’isteria (1891) un ricordo rimosso in una polverosa memoria-archivio. Nel<br />

modello della «scoperta» archeologica «la verità è lì che ci aspetta, nascosta nella vita<br />

del paziente: non rimane che svelarla. Il ruolo dell’interpretazione è di contribuire al<br />

processo di scoperta. Se però ci spostiamo sull’idea che la verità si possa creare<br />

mediante l’enunciazione (il concetto di inveramento), ecco che abbiamo abbandonato<br />

il terreno dell’archeologia, spalancando porte nuove e pericolose. Ora il concetto di<br />

costruzione assume un valore nuovo perché rappresenta uno spostamento dalla<br />

scoperta alla creazione. L’intepretazione (...) può porre in essere un’idea per la prima<br />

volta. Non appena enunciata, diventa parzialmente vera, via via che è ripetuta e<br />

ampliata, diventa familiare e quando la familiarità ne accresce per gradi la plausibili<br />

tà finisce per diventare completamente vera» (p. 164).<br />

Emerge così dall’opera di Spence una visione del tutto nuova del sapere<br />

psicoanalitico in ambito strettamente clinico, infatti l’autore delinea una visione<br />

wittgensteiniana (Wittgenstein, 1950) dei fondamenti della conoscenza di Sé sviluppa<br />

ta attraverso la psicoanalisi che si mostra dunque come fondata sull’affetto e sulla<br />

fede del soggetto nell’analista e nell’analisi. Una conoscenza senza fondamento basata<br />

sulla relazione analitica. Non vi è altro fondamento certo se non la costruzione nella<br />

relazione di alcuni punti fermi che non possono essere messi in discussione e che anzi<br />

costituiscono l’ambito di qualsiasi discussione lecita e plausibile.<br />

Ma una concezione siffatta cozza contro uno dei miti fondativi della psicoanalisi,<br />

cioè il fatto che la psicoanalisi sia radicalmente differente dalla suggestione da cui<br />

Freud si sarebbe distanziato. Dal contributo di Spence emerge invece una psicoanalisi<br />

che è intrinsecamente una forma raffinata di suggestione, che certo si differenzia da<br />

altre tecniche, ma per le sue modalità più articolate e ricorsive basate sull’analisi del<br />

transfert, e non per la sua natura fondamentale. La psicoanalisi è una forma potente<br />

di suggestione. Questa si esplica attraverso modalità particolari messe a punto da<br />

Freud e dai suoi seguaci.<br />

Inoltre secondo Spence la principale caratteristica dell’azione della psicoanalisi<br />

consiste nel porsi «‘dall’interno’, e la capacità di identificarsi con i motivi dell’attore o<br />

del paziente. È questa posizione interna che ci permette di giudicare quali siano i<br />

‘fatti’ del caso in questione» (Spence, 1987, p. 119). L’enfasi sulla collocazione<br />

«interna» come consapevolmente specifica della psicoanalisi mostra di concordare<br />

con l’espistemologia dei sistemi cognitivi (Ceruti, 1990) e con la definizione di dominii<br />

cognitivi contrassegnati da «confini ad una sola faccia» (Goudsmit, 1992), come con<br />

la prospettiva «dall’interno» suggerita da Stolorow, Brandchaft (1990).<br />

Dunque Spence va molto oltre la posizione ermeneutica che gli viene attribuita, e<br />

quella pragmatica che abbiamo richiamato, affermando, in linea con l’epistemologia<br />

contemporanea, che «l’osservatore è sempre parte integrante di quanto viene osserva<br />

to» (1987, p. 120) ponendo epistemologicamente il fuoco di qualsiasi riflessione sul<br />

dominio clinico della psicoanalisi in una prospettiva «interna» allo spazio analitico<br />

(Viderman). Qualsiasi fenomeno pertinente alla psicoanalisi può, anzi deve, essere<br />

trattato e indagato legittimamente in una prospettiva «dall’interno» (Brandchaft,<br />

Stolorow, 1990) del sistema terapeutico.<br />

94<br />

Lo stesso Kohut in un articolo dal taglio epistemologico precisa che «in via di<br />

principio, nessun aspetto della realtà conosciuta può essere indipendente dall’osserva<br />

tore. Osservatore ed osservato sono un’unità inscindibile, e ciò che osserviamo non<br />

può essere compreso senza includere l’osservatore e i suoi strumenti di osservazione<br />

come una parte intrinseca del campo che viene osservato» (p. 393).<br />

Questo aspetto risulta essere un altro elemento fondante della rivoluzione<br />

copernicana iniziata da Spence che va molto oltre lo sviluppo di una teoria clinica di<br />

tipo ermeneutico, affondando in una ristrutturazione sostanziale di quanto si può<br />

affermare sulla natura della psicoanalisi stessa, e ponendo la premessa per una teoria<br />

psicoanalitica dotata di propri principi.<br />

Spence critica le concezioni tradizionali senza accorgersi di partecipare alla<br />

fondazione di un approccio sostanzialmente differente da un punto di vista epistemo<br />

logico, compatibile con gli assunti metodologici delle neuroscienze neoconnessioniste,<br />

contribuendo così ad aprire un capitolo del tutto nuovo ed affascinante della teoria<br />

psicoanalitica.<br />

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