1f WENGEN prueba

WENGEN 9
Finiti gli studi nel 1963, mi resi conto che la mia conoscenza dell’inglese era
assolutamente elementare, nonostante lo avessi avuto come materia per due anni
all’Avogadro.
Mi iscrissi allora al British Institute, vicino a Corso Re Umberto, per frequentare il corso
serale più basico, che serviva per ottenere il Lower Certificate al superare gli esami finali.
Il corso superiore, quello che comprendeva anche letteratura inglese, era un anno dopo,
ed era denominato Proficiency.
Alle classi del Lower l’istituto assegnava esclusivamente professori inglesi che non
sapessero parlare per niente italiano, in modo da costringere noi allievi a fare i salti
mortali per capire e farci capire.
Un metodo interessante ma i primi tempi era terribilmente laborioso, specialmente per
alcuni dei compagni che non avevano nemmeno le mie pur ridotte nozioni scolastiche
della lingua.
Come professoressa ci toccò Susan Rees, una gallese di Cardiff che aveva tre anni più di
me.
Sentendo oggi parlare in tv il gallese Gareth Bale del Real Madrid, mi viene da riflettere
sulla purezza dell’inglese di Susan, ma a quei tempi non ero in grado di afferrare simili
sottigliezze. Accento o no, capirla era un’impresa.
La definizione “professori” era forse eccessiva, dal momento che probabilmente nessuna
di loro (nel Lower erano quasi tutte donne) era laureata in lettere o lingue, ma per
insegnare a noi andavano sicuramente più che bene.
Il British Institute

Susan non era affatto una bellezza, ma riuniva molte caratteristiche che per me allora (ed
anche dopo), trovavo affascinanti.
Era straniera. Sempre avuto un debole in quel senso.
Era biondastra ed aveva splendidi occhi azzurri grigio verdi. Altro debole mio.
Aveva tre anni più di me, il che ne faceva una donna e non una ragazza nella mia mente
di ventunenne.
Aveva un modo di fare che mi colpiva, diretto e spiritoso, cose assolutamente inesistenti
nelle ragazze che frequentavo allora.
Mezza classe ne era innamorata, ed io non ero naturalmente nell’altra metà.
Dopo vari mesi ci stavamo ormai avvicinando alla data dell’esame finale, e la classe non
vedeva l’ora di finire con il botto, facendo qualcosa per festeggiare l’occasione.
Io lanciai l’idea di andare insieme, la sera dopo aver finito l’esame, a vedere Peppino Di
Capri che si esibiva all’Arlecchino, una famosa sala da ballo di quei tempi.
La proposta sollevò l’entusiasmo di tutti, ed in particolare di Susan, grande amante della
musica.
Venne la sera dell’esame, che a molti andò un po’ di traverso. Susan aveva un’altra classe
dopo la nostra, nessuno si ricordò più dei festeggiamenti e se ne andarono via tutti.
Cacchio, io quella sera ero tutto elegante in gessato scuro, e mi ritrovai solo sul
marciapiede fuori dal British a meditare sul da farsi.
Non ero sicuro che Susan si sarebbe ricordata della faccenda, ma nemmeno mi andava di
tornare a casa così.
Dopo quasi un’ora uscì dal portone e mi guardò un po’ interdetta.
“Hi Bruno! What are you doing here?”
“Well, I was thinking if you still want to go and see Peppino di Capri…”
“E gli altri?”
“Se ne sono andati…”
“If you’re still in the mood, we can go together…”, fece.
Altrochè se ero in the mood!
“Where is your car?”
“I don’t have a car…” dissi imbarazzato.
“Ok, let’s take mine!” rispose, avviandosi decisa verso il Triumph spider verde scuro che
aveva parcheggiato davanti all’Istituto.
La serata fu indimenticabile. Ballammo, bevemmo e ridemmo tutto il tempo. Ad un certo
punto cominciò a ballare stretta stretta, guancia a guancia. Ero al quinto cielo.
‘Voce ‘e notte’ non mi sembrò mai più la stessa.
Alla fine, a notte inoltrata, mi portò a casa.
Imbarazzante, in genere ero io quello che accompagnava.
Si fermò parcheggiando davanti al mio portone e spense il motore, guardandomi
sorridendo.

Ancora più imbarazzante.
Dopo tutto era la mia professoressa di inglese. Il mio limitato manuale di comportamento
con le ragazze/donne non aveva un capitolo sull’argomento specifico.
Niente col titolo:’In macchina al buio e motore spento con la tua professoressa di
inglese: cosa fare’
Si chinò verso di me (la sua macchina aveva il volante a destra e mi faceva sentire
stranissimo), e pensai che volesse aprire la mia porta, visto che io non sapevo dove era
la maniglia.
Invece mi diede un bacio, così come niente fosse.
Ero al parossismo dell’imbarazzo, anche perchè stavo accennando a piegarmi
all’indietro per permetterle di trovare la fantomatica maniglia.
Ma questo fu niente rispetto allo stupore che provai qualche settimana dopo.
Avevamo parcheggiato in qualche posto appartato, non ricordo dove, nel suo Triumph, e
ad un certo punto si chinò su di me e fece qualcosa che fino ad allora avevo solo visto in
qualche fotografia pornografica.
Decisamente nessuna delle ragazze con cui si usciva a Torino in quegli anni faceva cose
del genere.
Oggi lo menzionano svariate volte in qualunque film americano e lo insinuano neanche
troppo sottilmente con inquadrature sapientemente tagliate, ma allora era una cosa
dell’altro mondo.
Cara vecchia Susan…
A quell’età, per quanto possa sembrare incredibile da quel che racconto, non ero del tutto
un nerd.
Al contrario.
Ero uno che per un motivo o per un altro a volte viveva delle esperienze un poco fuori
dalla norma per i tempi. Cose e fatti veri e non racconti tra amici. Mentre altri ne
parlavano inventando, a me succedevano davvero. Ed io ero il primo ad esserne sorpreso.
La storia con Susan ne è un esempio.
Da allora cominciammo ad uscire fissi, e dopo un inizio così goffo da parte mia non mi
sembrava vero.
Durante mesi nel 1964 eravamo coppia fissa. Lei usciva assieme a me quando ero coi
miei amici, ed io facevo lo stesso coi suoi. Non mischiammo mai le compagnie, i suoi
con i miei. Troppe possibiltà di complicazioni.
Susan viveva al principio in una soffitta/sotto tetto in un vecchio palazzo dalle parti di via
Cernaia, dove altre sue colleghe avevano affittato anche loro varie soffitte vicine. Era una
piccola colonia inglese un po’ bohemienne e pazzerellona.
Le serate da lei erano sempre un’allegra confusione di gente accovacciata su cuscini o
seduta sul lettino, dal momento che in piedi si sbatteva la testa col soffitto non appena ci
si spostava dal centro della stanzina.
Io ero regolarmente l’unico ‘straniero’ in quella banda di spensierate inglesi che se la
spassavano in Italia.
Con Susan scoprii i Beatles, dei quali non sospettavo nemmeno l’esistenza. Con lei
ascoltai mille volte l’album Revolver, affascinato. Fu lei che mesi dopo mi portò a vedere
The Sound of Music che già aveva visto in Inghilterra.

Fu giocoforza abituarmi all’inglese, e devo riconoscere che lo stare con Susan e la sua
gang mi permise di imparare infinitamente di più che non frequentando il British.
Le serate finivano regolarmente giocherellando sul suo lettino, il che me la fa ricordare
un po’come la mia ‘nave scuola’.
Arrivò dicembre del 1964, e Susan mi disse che, come faceva tutti gli anni, avrebbe
passato le feste da qualche parte sciando in Svizzera. Wengen per essere più precisi, e per
me la cosa finì lì.
Partì, ed un giorno poco prima di Natale mi chiamò per telefono, e dopo avermi fatto gli
auguri mi domandò cosa avrei fatto nelle feste.
“Niente di particolare” dissi, “Probabilmente in famiglia e poi magari vado a sciare con
con gli amici”.
“Perché non vieni su a trovarmi?”
“A Wengen???”
Mi sembrava una pazzia bella e buona. Non sapevo nemmeno esattamente dove fosse.
“Dài, vieni. Sono qui con Jane, un’amica che mi ha raggiunto dall’Inghilterra. Potresti
portare un amico.”
“Non so, non credo… Lo vedo difficile, e poi lavoro dopo Capodanno”
Mi riferivo alla Fiat.
E la cosa finì lì.
O per lo meno credevo.
Giorni dopo mi chiamò Franco Visconti, carissimo ex compagno di studi ed amico di
tutta la vita.
“Cosa fai a Natale?” mi chiese.
“Francamente non ho nessun programma”
“E Susan?”. Franco era il solo dei ‘miei’ amici che la conosceva.
“È andata a Wengen con un’amica che l’ha raggiunta dall’Inghilterra. Pensa che’sta
matta mi ha chiamato l’altro giorno per dirmi di andare su…” aggiunsi, come se stessi
menzionando una cosa fuori dal mondo.
“E perché no??”, mi rispose lui inaspettatamente, con la massima naturalezza.
Francamente, mi lasciò perplesso.
Una cosa che a me sembrava assurda, a lui invece pareva interessante.
Mmmm…ma guarda un pò…
“A dire il vero mi ha chiesto anche di portare un amico per la sua amica…”
“E allora? Perfetto, cosa aspetti! Andiamo?”
Morale della favola, tutti e due prendemmo una settimana di ferie e pochi giorni dopo
saltammo sulla sua 500, alla ricerca di quel favoloso posto chiamato Wengen, dove due
donne ci stavano aspettando.
Incredibile.
A quei tempi non esisteva GPS, e si viaggiava a forza di cartine geografiche e soste per
chiedere informazioni.
Susan mi aveva detto che non si poteva arrivare a Wengen in macchina, non esiste una
strada fino là. È una stazione invernale assolutamente priva di automobili, situata su una

terrazza sulle pendici della Jungfrau, e solo raggiungibile con un trenino che parte dal
fondo valle dal paese di Lauterbrunnen. Il trenino tra i ghiacci che molti ma molti anni
dopo fu immortalato in un film d’azione con Clint Eastwood.
Come dio volle, dopo ore di
viaggio, strade sbagliate e neve
dappertutto, arrivammo al
paesino, che era in pratica solo un
gigantesco parcheggio per le
macchine di coloro che salivano
fino a Wengen.
Scaricammo i bagagli,
parcheggiammo e prendemmo il
trenino che si inerpicava su per la
montagna.
Susan ci stava aspettando alla
stazione.
Wengen
“Negli hotel non ci sono più posti, ma vi ho trovato un chalet che mi hanno prestato degli
amici che sono andati in vacanza in Spagna. Tieni le chiavi, seguitemi.”
Ottimo. Nemmeno il tempo di lasciare i bagagli sui letti e ci avviammo con lei verso il
suo albergo, dove Jane ci stava aspettando.
Wengen era un villaggio da favola, senza strade ed in cui ci si poteva spostare solo a
piedi o in slitte trainate da cavalli.

Wengen
Una cosa bellissima, da sogno.
Tutt’altra cosa era Jane.
Una racchiaccia spaventosa dai denti radi ed il sorriso da Halloween.
Al suo lato Susan, che non era una figaccia, era una bellezza.
Mi sentii in colpa per Franco.
Susan & Jane, poco prima di smarrire la chiave…
Andammo un poco in giro per il paese, ci
fermammo a bere un punch bollente in un
bar, e poi tornammo all’hotel dove le
ragazze si cambiarono per la cena.
Ricordo ancora che mangiammo Cervo
alla Menta. Mi sembrò il massimo della
stravaganza, abituato com’ero alla
cucina casalinga di mia madre con le sue
cotolette alla milanese ed il bollito.
Dopo cena, nella boite dell’hotel, Susan
mi sussurrò:
“Perché non resti la notte qui con me?
Dà le chiavi del chalet a Franco perché
ci vada con Jane, e noi torniamo qua…”
Inutile dire che, racchia o no, a Franco la
cosa parve una gran idea quando glielo
dissi mentre le ragazze si ritoccavano il
trucco nel bagno, per cui ci avviammo
nella notte, camminando nella neve verso
il chalet.

Arrivati, Franco mi disse:
“Dammi le chiavi, e ci vediamo domattina…”
“Le chiavi ce l’hai tu”
“No, hai chiuso tu la porta quando siamo venuti via”
Verissimo, me lo ricordavo.
Ma le chiavi non erano né nella giacca a vento con le sue tasche chiuse da cerniere a
lampo, né nei pantaloni da sci con tasche ugualmente chiuse da cerniere.
Panico.
Le avremmo lasciate nel ristorante dell’albergo?
Ridacchiando e scherzando, tornammo indietro.
Macchè, nessuno le aveva viste.
Saranno cadute nella neve per strada?
Di nuovo verso il chalet, cercando di vedere al chiaro di luna se per caso erano per terra
lungo il percorso
Niente da fare.
Fermi tutti e quattro davanti alla casetta, Franco ed io non trovammo altra soluzione che
entrare da una finestra, dopo ovviamente aver rotto il vetro. Fu un rumore terribile nel
cuore della notte che mi fece tremare, pensando che sarebbe arrivata la polizia.
Susan e Jane tornarono senza dir niente al loro albergo, Franco non mi rivolse la parola
sino al giorno seguente.
Tremenda gaffe.
Ancora oggi cerco di capire come posso aver perso delle chiavi avendo quattro tasche
chiuse da una cerniera
Il chalet, di giorno prima di rompere la finestra…

Inutile dire che ormai l’incantesimo si era rotto, ed il resto della vacanza, peraltro
fantastica, passò sciando sulle incredibili piste di Wengen e ballando nelle discoteche,
senza ulteriori tentativi di… trasgressioni
Susan a Wengen
Posa noncurante e rilasssata...
Quando scendemmo in trenino a Lauterbrunnen arrivammo al piazzale dove avevamo
parcheggiato e lo trovammo completamente ricoperto dalla neve.
Una distesa bianca aveva letteralmente sepolto le auto lì ferme da giorni. Dove diavolo
era la nostra macchina sotto a quella valanga?
Invece, fu facile trovare la Cinquecentina di Franco. Un avvallamento nella neve rivelava
chiaramente dove era rimasta sepolta una macchina più piccola delle altre. Spalando con
uno degli sci ci aprimmo passo e la riportammo alla luce del sole, pronta per riportarci a
casa da una vacanza che avremmo ricordato per un pezzo.

Qualche mese dopo Susan traslocò in via Po, in un ammezzato con le finestre sotto i
portici di un vecchio edificio.
“Domani voglio fare una festa per inaugurare
l’appartamento. Perché non vieni e preparo qualcosa per
pranzo, poi possiamo restare soli ad aspettare la sera…”
disse un giorno, con lo sguardo birbone che avevo
imparato a conoscerle.
Quando arrivai, mi accolse uno strano odore, mentre mi diceva:
“Ti sto preparando un piatto speciale della mia città, fegato con cipolle”
Ecco cosa era l’odore.
Una delle cose che più odiavo a tavola.
Una padella con bistecconi di fegato stava allegramente sfrigolando sul gas.
“Serviti da bere mentre finisco, mi hanno portato del Brandy spagnolo che vale
veramente la pena…”
Susan era ‘donna di mondo’, e beveva il giusto.
Io ero un pivello completamente astemio, che beveva solo la birra italiana quasi del tutto
priva di alcool.
Ma dovevo cercare di non pensare al fegato che mi attendeva in cucina, e sbevacchiai
con poca prudenza. Ed una certa abbondanza.
Il fegato era tutto quello che aveva cucinato, e non mi osai dire che avrei preferito essere
preso a calci nelle gengive che mangiare quella roba.
Lo buttai giù nello stomaco, dove si affogò nei vari bicchieri di Brandy che avevo
tracannato.
Il pomeriggio era lungo, e mancava molto all’arrivo degli amici (suoi) per la festa.
Finimmo a letto, e questo era un letto grande e largo, non il lettino che aveva nella
soffitta dove abitava prima.
Veramente comodo, e per un paio di ore cercai di ignorare il mio stomaco in subbuglio.
Ci alzammo quando squillò il campanello dei primi arrivati, ed iniziò la festa. Musica e
ancora più Brandy.
In breve cominciai a sentirmi strano, anzi decisamente male. Mi girava la testa e mi
veniva da vomitare.
Fui costretto a passare il resto della serata steso sul letto con un panno umido sulla
fronte, mentre fuori impazzava la festa.
Ad un certo punto, imbarazzatissimo e traballante, salutai tutti e me ne andai, sotto allo
sguardo interdetto di Susan.
Altra gaffe.
A malapena riuscii a guidare fino a casa la macchina che mio padre mi aveva prestato.

Per vari mesi continuammo a stare insieme. Domeniche a passeggiare al Valentimo o a
vedere le corse all’ippodromo, serate in discoteca, che a quei tempi si chiamavano
whisky a gogo.
Una notte, uscendo da una serata a ballare, decidemmo di andare ad appartarci in
macchina. Per qualche ragione quella volta Susan non voleva andare a casa sua.
Andammo in collina, verso il Pino.
Ad un certo punto abbandonai la strada principale e mi infilai con la 850 di papà in una
stradetta di terra fangosa per la pioggia recente, che scendeva ripida tra le vigne.
Quando ritenni che ci fossimo allontanati a sufficienza dalla strada asfaltata spensi il
motore, poi cambia idea e lo rimisi in marcia, per rigirare la macchina con il muso verso
l’alto e poter poi tornare facilmente indietro.
Ma era molto più fangoso di quello che pensavo. Le ruote slittavano e non riuscivo a
muovermi, né in avanti né all’indietro. Più ci provavo, e più mi impantanavo.
Susan scese e provò a spingere mentre io lavoravo con la frizione. La riempii di schizzi
di fango fin sopra ai capelli, senza nessun risultato.
Ero definitivamente e tragicamente impantanato in una vigna su una collina vicino alla
strada del Pino in piena notte.
Fantastico.
Tornammo camminando a fatica e scivolando al buio nel fango fin sulla strada
principale. Non passava nemmeno una macchina. Camminammo per forse un chilometro,
finchè vedemmo delle luci.
Era l’Ospedale del Pino. Ci aprirono guardandoci con sospetto e ci prestarono un
telefono, col quale chiamai un’autogru, il “20.000” di corso Giulio Cesare.
Quando arrivarono, un’ora dopo, ci caricarono sul camioncino e li guidammo sino
all’imboccatura della stradina di terra.
Il tipo scese e mosse alcuni passi esistanti nel pantano, poi tornò indietro scuotendo la
testa.
“C’è troppo fango, è troppo ripido ed è buio. Non posso fare niente. Se mi metto lì ci
rimango anch’io. Dovremo tornare quando faccia giorno.”
Ci riportò a casa e restammo d’accordo di tornare il giorno dopo.
Durante tutto il viaggio di ritorno sull’autogru, lampeggiavano nella mia mente
immagini della faccia di mio padre quando lo avessi visto.
Ovviamente era alzato ad aspettare nonostante fossero quasi le due di motte.
Era preoccupato.
Per la macchina.
Voglio precisare, per non essere frainteso. Gli impiegati della Fiat avevano il privilegio di
poter comprare una macchina a prezzo scontatissimo, che potevano rivendere non prima
di sei mesi, per evitare speculazioni.
Generalmente se era ben tenuta, senza un graffio e con pochi chilometri al venderla si
ricuperavano i soldi ed a volte anche un leggerissimo guadagno, e se ne comprava
un’altra.
È chiaro che nella gerarchia di importanza di mio padre, l’auto veniva prima della
famiglia.
“Hai messo la macchina in garage?” mi chiese prima di salutarmi.

“Mmmmmm … non esattamente”
“Cosa vuoi dire? Dove l’hai lasciata?”
Anche nel terrore del momento, non potei evitare di fare lo spiritoso, ed indicando fuori
dalla finestra la collina torinese in lontananza risposi:
“Lassù”
“Cooosaaa????”
Spiegai l’accaduto, molto per sommi capi, precisando:
“Domani mattina vado su con il 20.000 e la tiriamo fuori. Non preoccuparti che lì non la
ruba nessuno.”
Sorvolo sulla reazione di mio padre. Ve la lascio immaginare.
Non si rimise a letto per tutta la notte, guardando dalla finestra la collina nella bruma
notturna.
Per farla breve, alle nove del mattino la gru mi stava aspettando e tornai con loro sul
luogo del misfatto. Il meccanico barcollò giù per il viottolo per agganciare un lungo cavo
d’acciao al treno posteriore dell’850 e faticosamente metro a metro la riportarono su, tra
sinistri cigolii e rumori agghiaccianti.
Mi costò mesi di paghetta, e l’essere appiedato a tempo indefinito.
La macchina in tutto quel casino qualche ‘graffietto’ in verità lo aveva subito…
Fu la mia terza e definitiva gaffe con Susan.
Cominciò ad addurre scuse quando la chiamavo per uscire, poi un giorno mi informò che
sarebbe andata a dare lezioni in un istituto del paesino di Condove, trasferendosi fuori
Torino.
Chi studiasse inglese in un paesello di quattromila abitanti, per me era un mistero.
Più avanti, quando ci sentimmo di nuovo per telefono, mi disse che stava uscendo con un
ragazzo del paese, che si chiamava Celeste.
Ero stato ingloriosamente rimpiazzato da un tipo di campagna dall’assurdo nome di
Celeste.
Pazzesco, grottesco e patetico.
Ma me lo ero obiettivamente meritato. Mi stupisce adesso che Susan avesse resistito tanto
a lungo con me.
Ci misi vari mesi a rimettermi dal colpo.
Susan mi piaceva davvero molto.
Quella volta in collina fu in pratica l’ultima volta che la vidi, e non lo sapevo.