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Per vari mesi continuammo a stare insieme. Domeniche a passeggiare al Valentimo o a<br />
vedere le corse all’ippodromo, serate in discoteca, che a quei tempi si chiamavano<br />
whisky a gogo.<br />
Una notte, uscendo da una serata a ballare, decidemmo di andare ad appartarci in<br />
macchina. Per qualche ragione quella volta Susan non voleva andare a casa sua.<br />
Andammo in collina, verso il Pino.<br />
Ad un certo punto abbandonai la strada principale e mi infilai con la 850 di papà in una<br />
stradetta di terra fangosa per la pioggia recente, che scendeva ripida tra le vigne.<br />
Quando ritenni che ci fossimo allontanati a sufficienza dalla strada asfaltata spensi il<br />
motore, poi cambia idea e lo rimisi in marcia, per rigirare la macchina con il muso verso<br />
l’alto e poter poi tornare facilmente indietro.<br />
Ma era molto più fangoso di quello che pensavo. Le ruote slittavano e non riuscivo a<br />
muovermi, né in avanti né all’indietro. Più ci provavo, e più mi impantanavo.<br />
Susan scese e provò a spingere mentre io lavoravo con la frizione. La riempii di schizzi<br />
di fango fin sopra ai capelli, senza nessun risultato.<br />
Ero definitivamente e tragicamente impantanato in una vigna su una collina vicino alla<br />
strada del Pino in piena notte.<br />
Fantastico.<br />
Tornammo camminando a fatica e scivolando al buio nel fango fin sulla strada<br />
principale. Non passava nemmeno una macchina. Camminammo per forse un chilometro,<br />
finchè vedemmo delle luci.<br />
Era l’Ospedale del Pino. Ci aprirono guardandoci con sospetto e ci prestarono un<br />
telefono, col quale chiamai un’autogru, il “20.000” di corso Giulio Cesare.<br />
Quando arrivarono, un’ora dopo, ci caricarono sul camioncino e li guidammo sino<br />
all’imboccatura della stradina di terra.<br />
Il tipo scese e mosse alcuni passi esistanti nel pantano, poi tornò indietro scuotendo la<br />
testa.<br />
“C’è troppo fango, è troppo ripido ed è buio. Non posso fare niente. Se mi metto lì ci<br />
rimango anch’io. Dovremo tornare quando faccia giorno.”<br />
Ci riportò a casa e restammo d’accordo di tornare il giorno dopo.<br />
Durante tutto il viaggio di ritorno sull’autogru, lampeggiavano nella mia mente<br />
immagini della faccia di mio padre quando lo avessi visto.<br />
Ovviamente era alzato ad aspettare nonostante fossero quasi le due di motte.<br />
Era preoccupato.<br />
Per la macchina.<br />
Voglio precisare, per non essere frainteso. Gli impiegati della Fiat avevano il privilegio di<br />
poter comprare una macchina a prezzo scontatissimo, che potevano rivendere non prima<br />
di sei mesi, per evitare speculazioni.<br />
Generalmente se era ben tenuta, senza un graffio e con pochi chilometri al venderla si<br />
ricuperavano i soldi ed a volte anche un leggerissimo guadagno, e se ne comprava<br />
un’altra.<br />
È chiaro che nella gerarchia di importanza di mio padre, l’auto veniva prima della<br />
famiglia.<br />
“Hai messo la macchina in garage?” mi chiese prima di salutarmi.