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m a g a z z i n o
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f i l o s o f i a
quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia
n° 37, anno XIII, 2020-21 (A13): s a g g i (peer review)
PEM
M a g a z z i n o d i F i l o s o f i a
Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia
*Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia)
*Redazione: Fiorenza Bevilacqua (Milano), Luca Biolcati (Milano), Gianvito Brindisi
(Napoli), Davide D’Alessandro (Urbino), Riccardo Lazzari (Milano), Alfredo
Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Roberto
Redaelli (Univ. Erlangen-Nürnberg), Erasmo S. Storace (Milano), Roberto
Valentini (Milano), Alessandra Zambelli (Parigi).
*Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Franco Bosio (Milano),
Francesca Brencio (Freiburg i.Br.), Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano),
Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Friedrich-Wilhelm v.Herrmann
(Freiburg i.Br.), Santino Maletta (Bergamo), Renato Pettoello (Milano), Michele
Pacifico (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Marcello Zanatta (Milano/ Cosenza).
*Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo),
Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina✝ (Lexington,
Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin
(Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno),
Carmine Di Martino (Milano), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio
Giorello✝ (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum),
Giovanni Piana✝ (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum),
Franz-Anton Schwarz (Freiburg i.Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven
(Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti✝ (Pavia),
Stefano Zecchi (Milano).
*Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Cristina
Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia),
Andrea Cudin (Trieste), Marco de Angelis (Urbino), Miriam Franchella (Milano),
Andrea Gilardoni (Milano), Simone L.Maestrone (Bonn), Pier Giuseppe Milanesi
(Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Houston, TX.), Fabrizio Palombi
(Roma), Alessandra Rauti (Alessandria), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli
(Milano), Amedeo Vigorelli (Milano).
*Recapiti redaz.: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M,
via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini”
<eawqmbis@gmail.com>; “Riccardo Lazzari” <riccardo.federicolazzari@gmail.com;
“Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>;
“Davide D’Alessandro” <vastopolis@gmail.com>, “Gianvito
Brindisi” <gvbrindisi@libero.it>
*SCHEDE/ RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <riccardo.federicolazzari@gmail.com>/
o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>.
**LEGGI online:
a) nn. correnti sul sito: www.filosofiacontemporanea.it (cli c sulla copertina desiderata,
poi su: “Expand”); b) una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn.1-
18) sul sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”).
**ACQUISTA cartaceo:
a) i nn. correnti sul sito: www.filosofiacontemporanea.it/magazzinodifilosofia
(clic sulla copertina desiderata, poi su: “Copie Cartacee”); b) i nn. arretrati (nn.1-
18) con email “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com.
*Autorizz.del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr.,
Dir. resp.: Alfredo Marini.
*1° quadrimestre 2020 – Finito di stampare nell’ottobre 2020.
verum
ipsum
factum
Sommario
Roberto Valentini, Mille e una luna 5
Mirela Oliva, The Depth of Life in Hildebrand 9
Geopolitica
Carlo Arrigo Pedretti, Riflessioni sulla Geopolitica
attraverso il pensiero dei suoi fondatori 31
Gianfranco Bosio, La persona 85
FILOSOFIA E TEOLOGIA
Luigi Ceccarini, Teologia vissuta. Il mio incontro con la New Reformation 97
Luigi Ceccarini, Libero arbitrio e libertà 105
Luigi Ceccarini, Le chiese cristiane 112
Luigi Ceccarini, Clero celibatario 114
Luigi Ceccarini, Il suffragio 125
Luigi Ceccarini, Contro la religione (1., 2.,) 129
Chicche&Chiose&Lexikon
Alfredo Marini, Heidegger-Lexikon (2) 135
AUTONOMIA REGIONALESTATO SOVRANO
CONFEDERAZIONE EUROPEA
Dal “Rapporto sull’interesse nazionale – Italia 2020”:
1° Sfatare la profezia della decadenza – 179
2° Il “sovranismo” – 189
193
Chiuso in redazione il 25.10.2020
da Alfredo Marini
Rivista finanziata dalla
Fondazione Banca del Monte di Lombardia
ISBN: 979-8561177415
ISSN: 1592–5919
Questa rivista prodotta originariamente
in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, è
espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. – SCIENZA ANTICA & SCIENZE UMANE
(Pavia)
Roberto Valentini
MILLE E UNA LUNA
(commemorazione eretica del primo sbarco sulla luna)
Mezzo secolo fa l’allunaggio… Mai visto, troppo visto, veduto per sempre.
Se quel piccolo passo fu grande per l’Umanità, lo fu più ancora per
l’avallo che l’astro concesse. Sì la luna, la luna che per millenni offrì una
coppa di lacrime ai sospiri d’amore, che colmò la sete nelle grotte degli
eremiti e rischiarò gli altipiani lasciando brucare l’erba della sua luce, tintinnando
con un sonaglio d’approdi sul bastone dei pastori o sulle vele
delle navi, che fuse il suo argento nei calchi delle cupole e delle preghiere,
che mescolò il suo candore al volto della Sulamita e si fece ramo all’allodola
o petalo ai fiori, sì, la luna dei poeti e dei santi lasciò cadere il velo del
suo incanto, troppo, troppo esiguo mistero per noi, e permise che un’orma
restasse per sempre sul suolo, sul suo nudo fulgore di spazio come l’ombra
d’un abbraccio su un corpo.
La divinità fuggì e da quel momento si consegnò al pari d’un qualunque
ammasso di roccia celeste, si prostrò al glorioso trionfo della scienza, al
nuovo disegno di Faust, ad altro “folle volo” della ragione che purtuttavia
non si concluse con la prora schiantata e precipitata nel gorgo del buio.
Già, nonostante lo si lambì trattenendovi il fiato – la celebre incognita
“Houston, abbiamo avuto un problema” non fece, come nell’odissea di
2001, scoprire all’ingenuo computer di bordo l’errore della verità –, nonostante
tanto timore la luna non si rivelò la montagna del Purgatorio.
5
L’uomo oltrepassò ancora le colonne d’Ercole, ma Dio non volle punirlo;
forse assente o forse distratto, lasciò che la sorella d’Aurora concedesse
non solo di scender sul suo grembo incontaminato, ma anche di fuggirsene
lesti dopo avervi imposto, tremulo bacio furtivo, l’imperioso sigillo della
nostra debolezza.
La luna chiuse per sempre le palpebre del sogno, trafitta dal modulo Eagle
come dal razzo di Le voyage dans la lune di Georges Méliès (l’invenzione
dei Lumière non è in fondo che una replica del grande cinema dell’Universo).
Addio dunque alle visioni dell’Ariosto, al paladino Astolfo portato
sul carro d’Elia in cerca del senno d’Orlando
“Altri fiumi, altri laghi, altre campagne/ sono là su, che non son qui tra noi; / altri
piani, altre valli, altre montagne,/ ci han le cittadi, hanno i castelli suoi,/ […] e vi
sono ample e solitarie selve, /ove le ninfe ognor cacciano belve”
(Orlando furioso, XXXIV, 72).
Addio a Caino rifugiato in un pianto di crateri e cosparso da un fascio di
spine (quelle che la credenza popolare riteneva fossero le sue macchie);
addio a quel cielo che consentì di orientarsi persino nella fosca gravità
dell’Inferno dantesco
“e già iernotte fu la luna tonda:/ ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque/
alcuna volta per la selva fonda.” (Divina com., Inf. XX 127-129).
Sì, addio fors’anche al suo grazioso volto, al lume tremolante e nebuloso
tra i rami della selva e i cigli della giovinezza, quella di Leopardi e di ogni
nostro, così diverso, così eguale rimpianto. Quelle fantasie, quelle immagini,
quel lirismo furono soppiantati da altri. L’Umanità per la prima volta
coltivò il miraggio di rendere tangibile ciò che nel pensiero v’è di impensabile,
di metter piede sul terreno degli astri, sull’esteriorità, sul fuori, sul
bordo siderale che contorna la nostra esistenza. Così la sabbia delle sue
lande ci lasciò nelle mani i granelli dell’immensità sognata da Bruno. Il
desiderio prese alla gola e divorò persino la paura residua; il satellite divenne
ponte immaginifico: non avremmo più smesso di cercavi il monolite
sepolto, la sua voce aliena rinviata dall’origine perduta sin “oltre l’infinito”.
L’astronomia diventò una fucina di speranze, destini, creazioni, la
nuova regola della poesia (a cosa corrispose tale sovraesposizione selenica
ben ce lo espresse la luna di Kubrick, destinataria di una riflessione senza
via d’uscita, specchio dell’abbaglio solare, di un interrogativo preso in un
gioco di fuochi, urente intrattenimento del fuoco/ pensiero).
6
Mirela Oliva
The Depth of Life in Hildebrand
Most of us want to live good and meaningful lives. 1 We usually identify the
meaning of life with either the purpose of God, our place and role in the
universe, our achievements, or our fulfillment and satisfaction. These markers
of meaningfulness show that we are mainly concerned with metaphysical
and ethical questions regarding life's meaning. We do not pay much attention
to the aesthetic aspects of a meaningful life. This paper will explore
one aesthetic value that qualifies a meaningful life, namely depth. If asked
“What is a meaningful life?”, we would probably not answer “A meaningful
life is a deep life”. We rarely gear our aspirations towards the value of depth.
And still, if we would have the choice between living a deep life and living
a superficial life, I believe that most of us would choose a deep life. Although
not primarily pursued, depth is still desirable. The focus of this paper
will be Dietrich von Hildebrand’s Aesthetics, 2 which examines depth as a
fundamental aesthetic value associated with beauty. Hildebrand can contribute
to the contemporary discussion on the meaning of life in a substantial
manner. Recent works in this field have briefly indicated the value of depth
for a meaningful life: Robert Nozick’s The Examined Life 3 and Thaddeus
1
I wish to thank John Henry Crosby and the participants at the Hildebrand Project Conference
in New York City, November 14-16, 2019, for their suggestions and critical remarks.
2
Dietrich von Hildebrand, Aesthetics, transl. Brian McNeil, ed. John F. Crosby (Steubenville:
The Hildebrand Project, 2016). To simplify, I will address Dietrich von Hildebrand as
Hildebrand throughout the paper.
3
Robert Nozick, The Examined Life. Philosophical Meditations (New York: Simon &
Schuster, 1989) 80. Depth is, for Nozick, a dimension of reality that concerns the size and
scope of a thing, along with amplitude, height, and infinitude. A deep life is the opposite of
shallowness and superficiality.
9
Metz’s Meaning in Life. 4 Hildebrand offers a substantial treatment of the
depth of life. He does not define depth, but proceeds rather phenomenologically
in describing how we experience depth. This results in a functional
analysis of the value of depth based on how various types of beauty display
it. Hildebrand focuses particularly on the metaphysical beauty that has its
foundation in other values (such as the moral ones) and on the spiritual
beauty that reveals the divine. According to his analysis, depth characterizes
a life that exhibits moral and intellectual values and has a relationship with
God. In the first part of the paper, I will discuss the relation between depth
and beauty. I will focus on metaphysical and spiritual beauty, highlighting
the importance of depth in human life. In the second part, I will present
various bearers of depth in the lived life.
I. Beauty and depth
1°. Depth and types of beauty
Hildebrand’s aesthetics of depth is grounded in his classification of various
types of beauty. This classification serves to underscore two important
points regarding depth. First, it helps to understand depth as a value of its
own. Second, it helps to clarify how depth appears in the experience of
beauty. In this section, I will focus on the first point; in the next two sections,
I will discuss the depth of metaphysical beauty and the depth of spiritual
beauty.
Hildebrand’s classification ensues from a description of the givenness of
beauty as it appears through its bearers. Thus, his phenomenological approach
is not transcendental; that is, it does not pivot on the structure of
consciousness, like the Husserlian one. 5 In this sense, John F. Crosby defines
him as a realist. Crosby especially emphasizes Hildebrand's valuerealism.
Value is the intrinsic worthiness of a being and does not arise from
a subjective evaluation. For instance, human dignity is a value that does not
depend on a subjective fluctuation. All human persons have dignity
4
Thaddeus Metz, Meaning in Life. An Analytic Study (Oxford University Press, 2013)
226. Metz uses “depth” as synonymous with “fundamentality,” a condition responsible for
other conditions in the same domain. The fundamental conditions for a meaningful life are
the good, the true, and the beautiful.
5
Dietrich von Hildebrand, What is Philosophy? (Chicago: Franciscan Herald Press,
1973) 224. See also Fritz Wenisch, “Phenomenological Realism, Pre-Theoretical Awareness
of Philosophical Objects, and Theoretical Views about Them”, in American Catholic Philosophical
Quarterly, special issue “Dietrich von Hildebrand”, ed. John F. Crosby, vol. 91/4,
Fall 2017, 609.
10
regardless of their race, gender, or social background. This non-negotiable
value emerges in slogans like “Black lives matter.” As such, values are not
random phenomena, but coagulate into an ordered whole. 6
Furthermore, Hildebrand’s aesthetics of depth has an existential and spiritual
character. His description of the experience of depth touches upon the
basic search for the good life. The value of depth is, indeed, present not only
in Aesthetics but also in The Art of Living. This approach differs from Maurice
Merleau-Ponty’s phenomenology of depth, 7 which is largely motivated
by his phenomenology of perception and of the body. In Merleau-Ponty’s
view, depth is a primordial dimension that structures the place of things in
space and grounds the encroaching of things upon one another. For instance,
when we see the tiling of the bottom of a pool through the water’s thickness,
we see it not despite the water, but through it and because of it:
“I cannot say that the water itself – the aqueous power, the sirupy and shimmering
element – is in space; all this is not somewhere else either, but it is not in
the pool. It inhabits it, it materializes itself there, yet it is not contained there;
and if I raise my eyes toward the screen of cypresses where the web of reflections
is just playing, I cannot gainsay the fact that the water visits it, too, or at least
sends into it, upon it, its active and living essence. This internal animation, this
radiation of the visible is what the painter seeks under the name of depth, of
space, of color”. 8
6
John F. Crosby, “Dietrich von Hildebrand”, in Hans Rainer Sepp and Lester Embree
(eds.), Handbook of Phenomenological Aesthetics (Dordrecht/Heidelberg/London/New
York: Springer, 2010) 146. See also Andreas A.M. Kinneging, “Hildebrand’s Platonic Ontology
of Value”, in American Catholic Philosophical Quarterly, special issue “Dietrich von
Hildebrand”, ed. John F. Crosby, vol. 91/4, Fall 2017, 625; Mark Spencer, “The Many Powers
of the Human Soul: Von Hildebrand’s Contribution to Scholastic Philosophical Anthropology”,
in American Catholic Philosophical Quarterly, special issue “Dietrich von Hildebrand”,
ed. John F. Crosby, vol. 91/4, Fall 2017, 730-731. Spencer notes that Hildebrand’s
robust conception of value impacts his expansion of the number of human powers compared
to Scholasticism. “Whereas on scholasticism, all positive properties and principles are modes
of real being, on von Hildebrand’s view, there are many kinds of values irreducible to real
being (e.g. ontological, moral, and aesthetic values), as well as items such as appearances,
events, states of affairs, ideal essences, and poetic unities like landscapes. We could not
cognize these if we could only cognize them under the formal object of ‘being’. Each item
that presents itself must be considered as it gives itself, and this requires a range of powers
for intending each item.”
7
I wish to thank Sharon Joyce for calling my attention to Merleau-Ponty’s phenomenology
of depth.
8
Maurice Merleau-Ponty, Eye and Mind, in Maurice Merleau-Ponty, The Primacy of
Perception, ed. James M. Edie (Northwestern University Press, 1964) 182.
11
For Merleau-Ponty, depth is thus an ontological dimension that represents
the density of the body-world texture. 9 For Hildebrand, depth is an aesthetic
value illuminated either by non-aesthetic values – such as moral ones – or
by the spiritual effusion of physical beauty. As such, depth is the aesthetic
quality of a well-integrated and meaningful life. The two phenomenologists
nonetheless share the idea that depth is fundamental for every human experience.
Without depth, we could not live a good life (Hildebrand), and we
would not be able to partake in the spatiality of things effectively (Merleau-
Ponty).
Hildebrand divides values into two categories: ontological and qualitative.
Ontological values like the dignity of the human person do not have
opposites. Qualitative values like the moral or aesthetic ones have opposites
(cowardice, ugliness, etc.). Among the qualitative values, aesthetic values
have a unique status because their carriers can be all beings. Indeed, trees
can not be moral but can be beautiful. Aesthetic values are primarily characterized
by outward appearance and delightfulness. Aesthetic values are
manifestative; they entail a self-revelation. This shining is delightful and
triggers the enjoyment of those who see it. However, Hildebrand warns that
this delightfulness does not make aesthetic values dependent on subjective
judgment. On the contrary, they are real properties of things. Beauty is the
queen of all aesthetic values, because it has the highest degree of manifestation
and the highest degree of delightfulness. .10
Hildebrand distinguishes two types of beauty: metaphysical beauty and
beauty of the visible and the audible. Metaphysical beauty radiates from
other values, such as the moral and the intellectual. In this case, the bearer
of beauty is not the object itself, but the value attached to it. Moral, intellectual,
vital, or ontological values are bearers of beauty: courage is beautiful,
wisdom is beautiful, health is beautiful, the dignity of the person is beautiful.
In these cases, beauty is not the primary theme; we appreciate a courageous
person primarily for her courage, not for the beauty that her courage
radiates. The rank of values also determines the rank of beauty:
“The beauty of the values that belong to a higher value family is always even
greater and more sublime beauty”. 11
In the case of the beauty of the visible and the audible, the bearer of beauty
is the object itself, such as nature or art. While for metaphysical beauty the
primary theme is another value, here the primary theme is beauty itself,
9
Anthony J. Steinbock, “Merleau-Ponty’s Concept of Depth”, in Philosophy Today, Winter
1987, Vol. 31/4, 348.
10
Hildebrand, Aesthetics, vol.1, 85-86.
11
Hildebrand, Aesthetics, vol. 1, 89.
12
independent of other values that an object might yield. The beauty of a
mountain or the beauty of a melody are direct values of the mountain or the
melody and do not radiate from a different value. 12
This type of beauty has two subspecies: a primitive, sensible beauty that
appeals to the senses (Sinnenschönheit), called beauty of the first power, and
a spiritual beauty, called beauty of the second power. Of course, the distinction
“sensible/spiritual” should not confuse us: both types of beauty appear
through the visible and the audible. However, the first type is a sort of immanent
beauty that depends on intrinsic characteristics of the object, such as
color or form. The second type, still carried by a visible or audible object,
transcends the object. The beauty of the Tuscan landscape or of Mozart’s
Requiem is carried by visible or audible objects but brings a spiritual element
that surpasses the beauty that appeals only to senses. Spiritual beauty
reveals a reality that is above us and beyond the object that carries it. For
instance, the beauty of a mountain does not linger in the particular mass of
stone that makes up the structure of the mountain. The majestic beauty of a
mountain transports us to the realm of immaterial realities, higher goods and
values, and the infinite beauty of God. 13
At the same time, this spiritual element is not merely associated with the
visible. Spiritual beauty presupposes the sensible beauty of its physical
bearer. 14 Furthermore, “it is immediately linked to the visible and the audible
as intuitively given”. 15 The intuitive character of the givenness of spiritual
beauty is very important because it entails an immediacy that is not
present in other connections between material and immaterial entities. Hildebrand
shows that the link between spiritual beauty and the visible is not
the same as the link between a word and its meaning, or between signs and
what they indicate, or between symbols and what they symbolize. In the
latter cases, the link is not intuitive. For instance, the symbolic link “presupposes
a special act by means of which one thing acquires the character
of being the symbol for another thing”. 16 In spiritual beauty, the visible is
not merely a mediator; it has no “ambassadorial relationship” 17 to the spiritual.
Rather, the spiritual is immediately present in the visible and is intuitively
given.
This typology of beauty generates a hierarchy of depth. Clearly, for Hildebrand,
the spiritual beauty and the metaphysical beauty are deeper than
12
Hildebrand, Aesthetics, vol.1, 100.
13
Hildebrand, Aesthetics, vol.1, 213.
14
Robert Lee Miller, “The Religious Significance of von Hildebrand’s Notion of Second
Order Beauty”, in American Catholic Philosophical Quarterly, special issue “Dietrich von
Hildebrand”, ed. John F. Crosby, vol. 91/4, Fall 2017, 599.
15
Hildebrand, Aesthetics, vol.1, 153.
16
Hildebrand, Aesthetics, vol.1, 204.
17
Hildebrand, ibid.
13
Geopolitica
CARLO ARRIGO PEDRETTI
Riflessioni sulla geopolitica
attraverso il pensiero dei suoi fondatori
§. 0. – Introduzione
Nelle riflessioni storiche si danno il cambio, in
primo luogo, due prospettive, di cui l’una è orientata
sugli uomini, l’altra sulle potenze.
Ogni storico sa quali aspetti contrastanti possono
venire projettati, di volta in volta, su uomini e potenze.
Se la storia ha un suo tema generale, non è certo la
volontà bensì la verità. Sta lì il suo rischio – con
alquanta prudenza si potrebbe anche dire il suo
compito. La libertà è comune a tutti, eppure è indivisibile;
la volontà vi aggiunge la pluralità.
Ernst Jűnger
Mai siamo noi a pervenire ai pensieri, sono essi che
ci raggiungono.
Martin Heidegger
Geopolitica! – Come spiegarne il concetto? Ricorrere alle definizioni dei
libri? Il problema non si risolverebbe. Una definizione ne chiama un’altra,
e un’altra ancora… E cambia a seconda delle epoche, delle mode, degli
intellettuali che si siano dati la pena di chiarirne l’idea, di renderla comprensibile.
Per chi, poi? Studenti, colleghi, pubblico dei non addetti ai lavori?
31
In ogni caso con scarso frutto. Eppure il mio spirito – o la mia curiosità –
m’induce a seguire una pista … come fanno i rampicanti – mi dico.
In che modo agisce un rampicante? Cerca la sua via, s’ingegna d’elevarsi
dal fondo del vaso, attratto dalla luce; un rampicante, a differenza degli altri
vegetali, svela una verità botanica di cui troppo spesso ci si dimentica: si
muove – e se ne può scorgere di giorno in giorno il movimento, le tappe, le
vittorie che lo portano in alto; si apre a forza la strada, sfrutta tutti gli spazi
che gli bisognano, traccia il percorso più breve nella sua elevazione continua.
Talora le piante soffrono per mancanza di spazio nella loro crescita:
poco spazio, poca vita. Obbligo, al rampicante che sia prigioniero, di avanzare
sugli altri, sui compagni di cordata, in un intreccio di fili verdi – che
perdono vigore, che si danno noia a vicenda, che si ostacolano impedendosi
di lanciarsi alla conquista, consumandosi in uno sforzo che li sfibra, li ammazza
…
Qui è la Geopolitica in atto! – La loro volontà di potenza si perde nel
tentativo di sopravanzare tutti gli altri; la via che seguono i rampicanti è
spesso come un’autostrada intasata, perciò, a un certo punto, si fermano,
quasi a chiedere perché non ce la fanno a raggiungere sporgenze e rientranze,
percorrendo la scacchiera di un graticcio, con un dentro e fuori che pure è lì
da afferrare nel percorso comodo e breve di una micro-geografia campestre
o da poggiolo.
Non posso fare a meno di richiamare lo straordinario capitolo “Botanica
della volontà di potenza”, contenuto in Cosmo, di Michel Onfray, dove si
trova un’osservazione rivelatrice anche in tema di geopolitica. Dice l’autore:
Diamo uno sguardo alle interpretazioni offerte dai naturalisti e dai viaggiatori
dell’Ottocento. Nessuno si risparmia l’antropomorfismo e il commento moralista,
se non addirittura moralizzante: la liana diventa assassina, ed è quindi cattiva;
rappresenta il Paese grande che strangola quello piccolo, ed è quindi crudele;
vive, cresce e sboccia nutrendosi e uccidendo gli altri, ed è quindi barbara.
Delle piante che si nutrono di sostanze che si trovano nella terra, degli insetti
che mangiano erba o materie in decomposizione, degli uccelli che mangiano insetti
o dei rapaci che divorano uccelli non si dice che manifestano cattiveria; la
predazione è la legge di tutto ciò che vive. Nietzsche vuole pensare ciò che sta
al di là del bene e del male, come un fisico che si occupa di ciò che è, cioè della
volontà di potenza, e non come un moralista che tratta ciò che non è, cioè la
volontà di distruzione. 1
1
Michel Onfray, Cosmo, Ponte alle Grazie, Milano 2015, p. 129-130.
32
Allo scopo di essere del tutto esplicito, il filosofo francese richiama l’Aforisma
258 di Al di là del bene e del male, che, sempre in tema botanico, esplicita
il pensiero che ha richiamato la mia attenzione:
… la società non ha diritto per sé stessa all’esistenza, bensì deve soltanto essere
il sostegno e l’impalcatura che consentono a una specie di esseri eletti di adempiere
ai loro compiti più elevati e d’innalzarsi a una esistenza superiore, al pari
delle liane arrampicanti e avide di sole dell’isola di Giava – si chiamano Sipo
Matador – le quali con le loro braccia rinserrano una quercia e vi si abbarbicano
così strettamente finché alte sopra di essa, ma ad essa appoggiate, dispiegano la
loro corona nella libera luce e possono far mostra della loro felicità. 2
Non siamo davanti a una metafora, piuttosto a un correlativo oggettivo, che
nella sua semplicità naturale, nell’acquisizione e nell’esposizione sans
phrase di un fenomeno emanante dalla physis, ci dice che tutti i rampicanti,
concreto emblema della realtà, testimoniano lo sforzo della Wille zur Macht
per raggiungere la potenza completamente dispiegata secondo la loro essenza:
ciò che è vuole essere sempre di più, sempre meglio, occupando,
distruggendo quanto gli si oppone, impegnandosi per riuscirvi, penetrando
lo spazio, senza riguardo per ogni altro ente impegnato nel medesimo compito
di affermazione di sé – senza scopo, senza meta, semplicemente perché
è così e non diversamente, perché non può essere diversamente. Sfruttare
ogni vantaggio spaziale, coprire la più ampia superficie, trarre il massimo
del profitto. Questa è la Natura, né buona né cattiva, come già aveva intuito
lo sconsolato gnosticismo di Giacomo Leopardi.
Ma non crediamo che la smisurata brama d’occupare lo spazio secondo
le occasioni offerte dalla giacitura geografica di mari, terre, pianure, montagne,
fiumi e laghi sia esplicabile solo da eserciti e armate d’invasori. Vi è
disposto anche lo spirito capitalista, capace di fare a meno della guerra, sostituendola
con la penetrazione economica, apparentemente più pacifica
nella narcosi del commercio, nell’offerta di beni spesso inutili, ma resi appetibili
dal fatuo sogno di una felicità che però non si lascia mai afferrare.
Come si scende la china del male? Molteplici sono i modi, infinite le vie
e, come insegna la vicenda dantesca, non è mai chiaro come si entri nella
contrada pericolosa abbandonando il bene: a un tratto ci si ritrova in una
selva selvaggia – ancora un’immagine vegetale dell’intrigo/ intrico, che mostra,
nell’intuizione estetica, il chaos etico e la dannazione materiale e, prima
ancora, metafisica.
La colpa, allora, è del metodo? No, la colpa non può essere dell’insieme
di quelle risultanze che derivano dalla scienza geografica, che riduce la superficie
della terra a occasione d’infinite sopraffazioni grazie ai facili schemi
2
Friedrich Nietzsche, Opere, Casini, Roma 1955, p. 796.
33
per cui un saliente è attaccabile o una rientranza accentuata della linea costiera
configura una formidabile base – un luogo prezioso, da prendere e
tenere per imporre balzelli a tutti coloro che passano di là. Non è la scienza
a sbagliare. La scienza è objettiva, è al di là del bene e del male: la scienza
descrive e mostra le conseguenze di un objectum quando ne sia stata intesa
la natura, quando si siano evidenziate le modalità del suo pratico e appropriato
uso.
Torniamo ai rampicanti, da cui si era partiti: che colpa hanno se si slanciano
verso l’alto, sfruttando ogni minimo appiglio? Che colpa ha il Sipo
Matador se strozza l’albero a cui si avviluppa? La Natura è forza cieca, la
Natura è azione che in sé conserva ed esaurisce la ratio del suo comportamento
irriguardoso:
Tu mostri – dice la Natura all’Islandese leopardiano – non aver posto mente che
la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate
ambedue tra sé di materia, che ciascheduna serve all’altra, e alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimente in distruzione… 3.
La Natura è priva di valori, ma, come la follia nel celebre discorso di Amleto,
non priva di metodo per conseguire il suo scopo: sopravvivere, e ricavare,
dalla vita che sopravvive, la maggior soddisfazione. Senza freni, che non
siano quelli prodotti dalle forze di segno contrario degli enti rispetto agli altri
enti in competizione.
Qui mi fermo, senza l’intenzione di introdurre la questione dell’etica nei
rapporti geopolitici che riguardano l’uomo. Preferisco arrestarmi – e tenermi
alla fenomenologia naturale, auspicando che il suo studio e il suo uso
razionale facciano pervenire a quella composizione delle forze che si equilibra
su uno stabile baricentro, che nella storia frena l’abuso, in attesa che, col
decorso del tempo, si renda più fine, sensibile e attento l’animo di coloro
che, finora, se ne sono dimostrati feroci attori.
* * *
Chiarita l’essenza naturalistica della Geopolitica, intesa come branca della
geografia che studia le modalità con cui un soggetto occupa, controlla,
sfrutta un territorio a seconda della giacitura di questo e delle sue caratteristiche
geografiche, venendo per lo più in conflitto con altri soggetti mossi
dagli stessi interessi, si deve ora passare a una considerazione storica e generale
del concetto.
3
Edizione consultata: Giacomo Leopardi, Operette morali (Studio e commento di Mario
Fubini), Loescher, Torino 1966, p. 151, cpv. 185.
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GIANFRANCO BOSIO
La persona.
I presupposti imprescindibili dell’etica personalistica:
imperatività, obbligazione, liberazione.
I
Il nemico mortale più inquietante della vita contemporanea, dinanzi alla cui
scatenata offensiva il pensiero e la cultura appaiono quanto mai impotenti e
disarmate è senz’altro il relativismo etico. Questo, oltre a costituirsi come
una vera e propria filosofia, è divenuto ormai un atteggiamento mentale supinamente
e dogmaticamente accettato e condiviso con la massima disinvoltura
spesso anche dalle persone colte e sensibili, impegnate nella ricerca spirituale.
Il relativismo è figlio dell’emotivismo, cioè di quell’atteggiamento di pensiero
che si fonda sulla convinzione secondo la quale i valori e le preferenze
assiologiche in materia di etica sono da attribuire alla sensibilità sentimentale
ed emozionale tanto dei singoli quanto della comunità. E poiché si sa,
de gustibus non est disputandum, non ha senso impegnarsi in una fondazione
razionale, intuitiva o intellettiva che dir si voglia, sottratta in ogni modo agli
arbitri e ai capricci soggettivi. Il relativismo etico sostiene che tutte le valutazioni
etiche sono accettabili ed apprezzabili, poiché non c’è modo di dimostrare
la superiorità di alcune su altre. E così, tutte le civiltà, tutte le religioni,
hanno pari valore e legittimità. L’etica ordinaria del nostro mondo
civile che punisce l’assassino, il ladro, il truffatore, che condanna la pornografia
e l’incesto, sarebbe in fondo, a trarre le conseguenze più radicali possibili
da siffatta prospettiva, fondata sul costume, sulla consuetudine e sulla
convenienza. Sarebbe in sostanza soltanto un’etica che consente il miglior
adattamento possibile alla vita sociale e al benessere generale della collettività.
Il “pensiero debole”, il “postmodernismo” in tutte le salse di certa sinistra
neoborghese, nella sua querula e vaniloquente “vulgata” sono autori e
complici di questo deplorevole e sciagurato sfascio. Un relativista conseguente
non avrebbe nemmeno il diritto di indignarsi di fronte ai più scellerati
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ed efferati delitti ed alle atrocità delle torture, visto che in fondo dichiara
apertamente che l’etica teoretica deve essere indifferente tanto al valore
quanto al disvalore. Per fortuna ciò non succede mai. Anche il relativista
scettico più accanito, felicemente autocontraddicentesi, partecipa di un
mondo morale di valori condiviso; si indigna, prova compassione, dimostrando
nei fatti ciò che respinge nella teoria. Ma è sempre un atteggiamento
pericoloso ed unilaterale che acceca la mente di fronte a scelte morali difficilissime
che si possono presentare nella vita. Ricordiamo che anche i relativisti
scettici inglesi, con D. Hume in testa, credevano bene o male in un
moral sense innato e si rifugiavano in un’etica della simpati. È incontestabilmente
vero che c’è sempre stato nella storia della filosofia un relativismo
etico, una scepsi etica, dai Greci, agli empiristi inglesi; su questi ultimi abbiamo
appena detto qualcosa in un cenno brevissimo. Essi almeno credevano
in un innato senso della simpatia e della compassione. Ci fu poi un
movimento “libertino” fra i secoli XVI° e XVIII°. Ma i “libertini”, almeno
i primi (Herbert di Cherbury, Collins, Bayle), con tutta la polemica aspra
contro la religione ufficiale, si appellavano a dettami morali di una “ragione
universale”. Che poi il movimento cosiddetto “libertino” sia degenerato
nella più aperta e spudorata apologia dell’immoralità, fino ad arrivare al perverso
marchese De Sade, questa è tutta un’altra storia. Gli scettici greci
(Pirrone di Elide IV-III sec. a.C., Enesidemo di Cnosso, I° sec. a.C.,
Agrippa, I° sec. d.C. e infine Sesto Empirico (II°-III° secolo d.C.), rilevano
le enormi differenze assiologiche tra le varie civiltà e le varie culture, riconoscono
la mutevolezza delle prefernze morali da persona a persona, e ritengono
che soltanto un’etica della compassione e della benevolenza universale,
dell’atarassia come pratica dell’imperturbabilità e della solidità interiore
dinanzi alle avverse fortune della vita può condurci a un’etica condivisibile
da tutti. Ma l’odierno relativismo non ha nemmeno questa risorsa.
Nella sua stolta propaganda il relativista libertario sferra tutti gli attacchi
possibili e immaginabili a ogni esito sospetto di metafisica e di teologia le
quali a suo dire sono capaci soltanto di fabbricare mostri violenti e repressivi
che abbattono e umiliano l’uomo. Il relativismo odierno proclama ad ogni
pie’ sospinto di volere la libertà della persona, la sua incondizionata emancipazione
individuale e sociale nell’esercizio di un imprescindibile, sacrosanto
diritto a tutte le gratificazioni e a tutte le soddisfazioni possibili. Rifiuto
assoluto di ogni sacrificio, di ogni sofferenza possibile, diritto incondizionato
alla “felicità”, permissivismo assoluto e sovrano sono i suoi motivi
preferiti. Ma come intende il relativismo l’essere della “ persona”? Questo
è il punto fondamentale che ci mostra bene la via per fargli cadere la maschera,
per farci vedere come dietro il suo presunto universalismo umanistico,
la sua sollecitudine per il bene dei singoli e delle masse, si celi in realtà
un ottuso dogmatismo della attualità bruta e cieca, del dato immediato
86
naturalisticamente inteso e interpretato. La “persona” del relativismo altro
non è che l’uomo naturale puro e semplice, impastato di istintualità, bisogni
e desideri. L’uomo non è che il prodotto più raffinato dell’evoluzione della
vita, che è poi sfociata nella produzione di un vivente consapevole di sé,
capace del miglior adattamento possibile all’ambiente che gli consente di
sviluppare nel modo più completo e più soddisfacente le aspirazioni sia individuali
sia sociali al conseguimento e all’incremento del benessere e dei
comforts della vita. Ed ora si mettono a nudo le basi reali del relativismo;
un basso, vile e calcolante utilitarismo fondato su una dubbia metafisica
dell’evoluzione, che denuncia tra l’altro l’uso ideologico di un’ipotesi scientifica
che avrà pure qualche indizio a suo favore, ma nessuna prova decisiva.
Utilitarismo ed evoluzionismo sono i dogmi indiscussi, oggetto di venerazioni
idolatrica e sacrale della cultura ufficiale che imprime il suo sigillo
nel giornalismo, nella mezza cultura d’accatto che trionfa nei mass media,
nella letteratura e nella saggistica commerciale. Il relativismo non è poi
nemmeno un pensiero “laico”. È piuttosto “laicistico”. Infatti nel pensiero
laico classico, almeno fino al Rinascimento e nelle prime espressioni del cosiddetto
“libertinismo” si respirava ancora pur sempre un’atmosfera religiosa
e si sentiva, nonostante l’opposizione ferma e recisa alla Chiesa ufficiale,
l’alito di uno spirito religioso, nulla di tutto questo vive ormai nel laicismo
contemporaneo. Il laicismo è assolutistico. È assolutismo del dato
naturale, dell’homo natura, contraddistinto da una ratio calcolatrice e progettante
che si innesta in una fisicità istintuale e in una psichicità concepita
in termini unicamente egocentrici. Il relativismo laicista finge tolleranza e
rispetto delle differenze culturali, etniche e religiose. In realtà è convinto
che la tecnica, la scienza, l’organizzazione tecnica ed economica delle civiltà
cosiddette avanzate finirà per corrodere prima e per fare sparire del tutto poi
le culture che vivono con piena convinzione le loro differenze rispetto alla
nostra, lottando strenuamente per mantenerle vive e vitali. Il relativista laicista,
con la sua ipocrita tolleranza benevola, in fondo spera profondamente
in cuor suo che la nostra superiorità culturale dovuta alle conquiste dell’evoluzione
e del progresso tecnologico e scientifico, finirà per fare piazza pulita
di ogni diversità etnica, religiosa, culturale, per imporre l’omologazione
mondiale tecnico-economica, sostanziata dalla promozione incondizionata
del benessere psicofisico e dall’incremento esponenziale del “prodotto interno
lordo”, nella più stolta cecità di fronte alle possibili conseguenze catastrofiche
incombenti e forse già imminenti.
II
E qui tocchiamo il primo punto della nostra esposizione enunciato nel
titolo: l’imperatività. La resa incondizionata dell’agnosticismo e del
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Da questo numero inizia, per capitoli, la pubblicazione
di un nuovo libro di Luigi Ceccarini, intitolato
Luigi Ceccarini, Contro la religione
1. Un altro libro di teologia?
Un altro libro di teologia? Ma la teologia è morta e non esiste più perché
è finito il discorso filosofico su Dio. Continuare a scrivere o a parlare di
teologia vuol dire celebrare lunghe esequie che non terminano mai, mentre
la morte dissolve il soggetto. Era un discorso greco antico che metteva insieme
tutti gli argomenti teologico religiosi dei tempi antichi e dei popoli
delle prime età. Quando i popoli vivevano di stupendi miti e fiabe che avevano
il senso della meraviglia e della sorpresa e animali fantastici popolavano
il mondo. Questi miti prevedevano uno o più dèi che vivevano ad altezze
varie (o sulle cime dei monti o in cielo) e questo era il mondo di sopra
riservato al divino, in mezzo c’era la terra per gli uomini, e sotto terra nel
profondo c’era un regno delle ombre per i defunti. Questa era la cosmogonia
del mondo antico.
La teologia cristiana era una lettura greca dei Vangeli. Gesù ne era uno
dei protagonisti. Gesù non era greco ma ebreo, ma la Palestina era in quel
tempo un possesso romano e la fama di quell’incredibile più che profeta si
diffuse nel mondo che oggi chiamiamo Occidente, che ha una cultura post
greca. Egli aveva due nature per soddisfare due esigenze del mito, due nature:
l’umana e la divina, del tutto gratuitamente. Meglio, gli si ipotizzava
anche la natura divina e quindi l’essere anche Dio. Il motivo era soprattutto
l’essere Dio talmente trascendente da aver bisogno di un semidio per occuparsi
del mondo. Il semidio moriva a nostro vantaggio per i nostri peccati,
esaminati secondo i dettami di morale stoica e platonica.
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Era la figura tipica del Dio religioso. Una figura romantica che sacrifica
il figlio diletto per salvare un gruppo di irresponsabili criminali di cui era
innamorato. Tutto assumeva il tono di una tragicommedia o di una lirica
popolare che strappava lacrime. Oggi che c’è maggior cultura giuridica un
Dio che si comportasse così sarebbe un criminale. In questo dramma Gesù
era onorato dal titolo altisonante di figlio di Dio, mentre invece il titolo che
veramente lo riguardava era di essere il figlio dell’uomo, cioè l’uomo. È
profetica la frase che rappresentava il potere e che ancora risuona “Ecco
l’uomo”. L’uomo schiavo in catene che viene deriso e umiliato. Gesù incarna
questo uomo, l’ama e vuole essere uomo semplicemente. Gesù è
l’uomo che rovescia il dovere creaturale. Non vuole chiese o preghiere,
vuole amore, condivisione. Gesù non distingue gli uomini in fedeli e non
fedeli. Gesù ama l’uomo prima del religioso o ateo. Ama tutti.
Dio è morto perché era onnipotente e ora non serve più, non ha più nulla
da dare. Dio era all’origine e alla fine di ogni uomo, e oggi è inutile ripetere
che di Dio si fa a meno tranquillamente. Restano riti, cerimonie, preghiere,
liturgie rivolte a qualcuno che sta in alto, resta la religione staccata dalla fede
dell’origine. Resta Gesù con le sue esigenze fraterne, resta l’antropologia
cristiana. Bastava Gesù, ben oltre l’uomo totale, l’uomo senza specificazioni.
Con Gesù doveva finire l’epoca dei paradisi e dei purgatori, il trono
di Dio si era trasferito sulla terra ed era un trono di condivisione. Non ci
sono anime da salvare dopo la morte e una certa idea di religione e di metafisica
è scomparsa senza rimpianto. Non esiste nulla di non materiale e anche
lo spirito è nel tempo spazio. Tutto ciò che c’è è mondano e l’unico
fuori del globo cosmico è l’uno divino nel suo triplice divenire. In Gesù noi
rinunziamo a tutto l’apparato metafisico che da più millenni dominava la
terra. Perché i Padri del cristianesimo commentavano il Vangelo, ma avevano
in mente la metafisica e la mitologia precedente e hanno elaborato una
religione tradizionale. Si sono creati un modo di rapportarsi a un Dio che
non c’è e hanno messo in disparte il DIO CHE C’È, ed hanno preferito il rito
al buono, l’agire secondo le regole anziché secondo il consentire.
Ma ora Dio è “morto”. Non è stato ucciso da noi, ma si è annichilito
nell’uomo – non il Dio che c’è, ma il concetto di Dio che è l’unica cosa che
abbiamo. Le contraddizioni e le assurdità che riguardavano il Dio degli uomini
lo hanno reso esangue… da morire. Dio era tutto. Lui conduceva le
guerre e le vinceva, Lui sceglieva i re e gli imperatori e governava il mondo,
Lui faceva crescere il grano e le erbe, Lui mandava la pioggia benefica, Lui
dava la vita e la morte, Lui ispirava il poeta, Lui guidava tutto il modo umano
e non umano.
Oggi non fa nulla. Tutto il lavoro è diventato una scienza e ogni scienza
manda avanti il cosmo senza doversi riposare. L’unico lavoro rimasto al dio
della religione sarà quello del giudizio universale, che poi però finisce. Le
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guerre si vincono con le armi e che Dio sia amico del potere non conta. La
provvidenza funziona in parte come la compassione. Nulla più è nel potere
di Dio.
In questo scritto si parla di Gesù negandone la natura divina. È un modo
per esaltare la natura integra dell’uomo Gesù. Gesù è considerato un Dio
per noi perché la nostra metafisica è ancora religiosa, perché ancora non
siamo cristiani, e cosa ancora peggiore non siamo umani. La religione umilia
e rende piccoli gli uomini che dovrebbero essere grandi. Gesù uomo è
maggiore di un Gesù-Dio che non ci riguarda. È la terra il luogo dove vivere
secondo i suoi insegnamenti e bando alle nostalgie vetero religiose. Le
chiese ci siano, ma per lodare e non per punire o proibire. È il Tempio e la
sua funzione il satana contro cui Gesù ha lottato, sono le banche e i patrimoni
accumulati alle spalle dei poveri. Sono i poveri che ricevono il Vangelo
secondo Isaia. Gesù apparirà qui come il ragazzo di Dio, quello che Dio si
è scelto come interlocutore nella seconda creazione. Gesù appare come il
perdente politico che combatte disarmato contro l’armatissimo Tempio.
Gesù è l’amore della nostra vita. Gesù muore non in nostro riscatto ma ci
accompagna in questo frangente prendendo su di sé ogni affanno, ogni solitudine.
O Gesù nostra speranza domina e governa il mondo che l’Anziano
di giorni ti ha affidato a lode e gloria del Nome santo, che sta al di sopra di
tutto, e ti preghiamo maranathà.
2. Gesù e il Tempio
La religione è un fatto che si sviluppa durante la vita dell’uomo, è perciò
un tema di indagine che riguarda il tempo, non l’eternità. Ne faccio oggetto
di studio perché è un elemento importante e perché voglio cercare una sequela
Jesu che migliori il modo di vivere degli uomini. La religione essendo
una somma di narrazioni, di miti, di regole di vita, di scelte estetiche e di
opzioni morali, in una parola essendo parte fondamentale della cultura di un
popolo, deve essere studiata come complesso di pregiudizi che interverranno
nel formare i giudizi. Perché ex nihilo nihil fit, non si può partire dal nulla
di opinioni, ma anzi, ogni opinione che ci facciamo deve essere compossibile
con tutte le opinioni-base che già abbiamo fatte. Se la nuova opinione contraddice
qualcosa del passato o non la faremo mai, o richiederà il rivedere le
opinioni passate. Nessuna opinione è vera di per sé, non è il criterio della
verità che discrimina.
La verità non s’addice alle opinioni, ma solo ai fatti. Solo il fatto, ciò che
accade, ha una oggettività d’accadimento, accade in modo riscontrabile.
L’opinione è una ipotesi che cerca la ragione del fatto, non è un fatto. È un
fatto mentale e dunque non palese. Dipende da innumerevoli motivi consci
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