Magazzino di filosofia n. 41/2022 - preview
Programma per l’anno 2022: A/14 SAGGI, vol. 40 [la Seconda Tesi gorgiana della questione perì physeos, nella ricostruzione storico-critica di Stefano Peverada ; La seconda parte-del saggio di Guido Lucchini su De Martino e Pavese; Fiorenza Bevilacqua sul tiranno (in Erodoto e in Senofonte ]; B/14 SEGMENTI, vol. 41 [La Terza Tesi del saggio su Gorgia di Peverada e le relative Appendici]; C/14 STRUMENTI, vol. 42 [RECENSIONI & RASSEGNE; Fr.- W. von Herrmann su Husserl e Agostino; saggio di Adriano Parigi sull'idea di architettura di Louis I. Kahn; ricordo di Luigi Ceccarini].
Programma per l’anno 2022: A/14 SAGGI, vol. 40 [la Seconda Tesi gorgiana
della questione perì physeos, nella ricostruzione storico-critica di Stefano
Peverada ; La seconda parte-del saggio di Guido Lucchini su De Martino e
Pavese; Fiorenza Bevilacqua sul tiranno (in Erodoto e in Senofonte ]; B/14
SEGMENTI, vol. 41 [La Terza Tesi del saggio su Gorgia di Peverada e le relative
Appendici]; C/14 STRUMENTI, vol. 42 [RECENSIONI & RASSEGNE; Fr.-
W. von Herrmann su Husserl e Agostino; saggio di Adriano Parigi sull'idea di
architettura di Louis I. Kahn; ricordo di Luigi Ceccarini].
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m a g a z z i n o
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f i l o s o f i a
quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia
n° 41, anno XIV, 2022 (B14): s e g m e n t i (peer review)
PEM
M a g a z z i n o d i F i l o s o f i a
Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia
*Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia)
*Redazione: Fiorenza Bevilacqua (Milano), Luca Biolcati (Milano), Gianvito Brindisi
(Napoli), Davide D’Alessandro (Urbino), Riccardo Lazzari (Milano), Alfredo Marini (Milano),
Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Roberto Redaelli (Univ.
Erlangen-Nürnberg), Erasmo S. Storace (Milano), Roberto Valentini (Milano), Alessandra
Zambelli (Parigi).
*Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Franco Bosio (Milano), Francesca
Brencio (Freiburg i.Br.), Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini ✝ (Milano), Giorgio
Galli✝ (Milano), Franco Gallo (Crema), Friedrich-Wilhelm v.Herrmann✝ (Freiburg
i.Br.), Santino Maletta (Bergamo), Renato Pettoello (Milano), Michele Pacifico (Milano),
Giacomo Rinaldi (Urbino).
*Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio
Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina✝ (Lexington, Ky), Giuseppe
Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso
(Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Carmine Di Martino (Milano), Dimitri
Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello✝ (Milano), Klaus Held (Wuppertal),
Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana✝ (Cosenza), Frithjof Rodi (Bochum), Franz-
Anton Schwarz (Freiburg i.Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/
Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti✝ (Pavia), Stefano Zecchi (Milano).
*Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Cristina
Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Andrea Cudin
(Trieste), Marco de Angelis (Urbino), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano),
Simone L. Maestrone (Bonn), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia),
Luca & Mirela Oliva (Houston, TX.), Fabrizio Palombi (Roma), Alessandra Rauti (Alessandria),
Emilio Renzi ✝ (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano).
*Recapiti redaz.: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via
Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini”
<eawqmbis@gmail.com>; “R.F. Lazzari” <riccardo.federicolazzarilazzari@gmail.com; “M.
Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>; “D. D’Alessandro”
<vastopolis@gmail.com>, “Gianvito Brindisi” <gvbrindisi@libero.it>
SCHEDE & RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo
Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>.
**LEGGI online:
a) nn. correnti sul sito: www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina desiderata,
poi su: “Expand”); b) una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn.1-18) sul sito
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**ACQUISTA cartaceo:
a) i nn. correnti sul sito: www.filosofiacontemporanea.it/magazzinodifilosofia (clic
sulla copertina desiderata, poi su: “Copie Cartacee”); b) i nn. arretrati (nn.1-18) con email
“Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com.
*Autorizz.del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir.
resp.: Alfredo Marini.
*2° quadrimestre 2021 – Finito di stampare nel novembre 2022.
verum
ipsum
factum
Sommario
Stefano Peverada, Gorgia (4)
(Terza Tesi §§ 1-10, e Appendici Iª e IIª) 05
c/ di Massimo Mezzanzanica 234
Chiuso in redazione il 20.11.2022
da Alfredo Marini
Rivista finanziata dalla
Fondazione Banca del Monte di Lombardia
ISBN: 979-8371604330
ISSN: 1592–5919
Libri segnalati in questo numero:
Foucault, Michel, Theatrum philosophicum, c/ di F. Domenicali, Mimesis,
Milano-Udine 2022 (M.M.); Hösle, Vittorio, Forze centrifughe globali.
Una mappatura filosofica del presente, tr. it. G. Longo, La Scuola di Pitagora,
Napoli 2022.(M.M.); Schnell, Alexander, Zeit, Einbildung, Ich. Phänomenologische
Interpretation von Kants “Transzendentaler Kategorien-
Deduktion”, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 2022. (M.M.); Schopenhauer,
Arthur, Metafisica del bello, c/ di E. Caramelli, Aesthetica, Palermo
2022. (M.M.); Simmel, Georg, Sociologia della concorrenza, Mimesis, c/
di A. Peluso, Milano-Udine 2022. (M.M.); “Eric Voegelin Studies: Yearbook”,
vol. 1, 2022. (M.M.).
Questa rivista
prodotta originariamente in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici” di Napoli, è espressione della ASSOC. P.E.M.– SCIENZA ANTICA
& SCIENZE UMANE (Pavia)
Stefano Peverada
Gorgia (4)
… TERZA TESI
L’ideale della Ragione e il dubbio della parola
§ 1. Rendere manifesto 06
§ 2. Solo nomi 15
§ 3. Gli scritti retorici 23
a) – Autodifesa di Palamede p. 26
b) – Encomio di Elena p. 35
La deriva fantasmatica dell’immagine (§§ 4-7)
§ 4. Argomentare della differenza categoriale 55
§ 5. Assalto respinto (Platone, Repubblica, VII, 523a-525b) 86
§ 6. Argomento delle identità impossibili 100
§ 7. Il problema delle immagini nella IIª parte del Teeteto 115
Il momento opportuno (§§ 8-9)
§ 8. L’inganno 142
§ 9. Giustizia e Potenza 168
Conclusioni sulla Terza Tesi (§ 8)
§ 10. Il nichilismo gioioso 192
Appendici
Appendice I 199
Appendice II 205
NOTE per il Lettore 229
5
L’ideale della Ragione e il dubbio della parola
§ 1. Rendere manifesto
L’indagine gorgiana, apertasi con una decisa impostazione ontologica e virata
in radicale critica gnoseologica, si chiude con una tesi linguistica: l’essere
dell’ente, già dichiarato nella propria nullità e inconoscibilità, viene infine
proclamato indicibile. Dopo la devastazione condotta sulle categorie di
comprensione dell’essere e del pensare, è ora il momento del dire (έ)
– la violentissima manovra distruttiva di Gorgia non ha risparmiato nulla, la
sua implacabile logica non fa prigionieri e non lascia superstiti. Con
quest’ultimo assalto il campo della negazione si estende all’eccesso e dà
l’impressione di un nichilismo che, passo dopo passo e in progressione esponenziale,
si è ingigantito in modo paradossale e quasi a dismisura: una negazione
del dire implica infatti un sottinteso autoreferenziale ed è perciò carica
di un elevato potenziale autodistruttivo. Date queste premesse, si comprende
bene il grandissimo interesse che la terza tesi ha subito suscitato tra
i più moderni interpreti del pensiero gorgiano, al punto che troppo spesso la
sua eccezionalità ha finito per attirare su di sé l’attenzione in una misura
perfino esclusiva, a scapito della coerenza generale del sistema, all’interno
del quale essa resta comunque solo un momento specifico, per quanto di
indiscutibile valore speculativo. Quando però l’interprete consenta che una
tesi prevarichi sul senso complessivo della dottrina, ha perciò stesso fallito
il proprio compito: è nella natura del sistema filosofico, infatti, che nessuno
dei suoi momenti possa adombrarne la compattezza organica e davanti ad
essa, anzi, ciascuna parte dev’essere illuminata e rischiarata in direzione
della costante tensione a una comprensione il più possibile unitaria di tutti i
suoi aspetti. E quindi: in che maniera questa terza ed ultima tesi si connette
alle precedenti?
In conformità alla struttura generale del sistema, le nostre fonti confermano
una connessione stabilita secondo un nesso concettuale ipotetico, nella
forma tipologica (marcatamente gorgiana) della dimostrazione per assurdo
(se anche l’essere dell’ente fosse qualcosa di pensabile, esso sarebbe comunque
indicibile). E però, al di là della particolare forma espositiva in cui il
pensiero ha trovato espressione, all’interprete spetta il compito di mostrare,
ora come in precedenza, la peculiare positività filosofica di questa tesi, il cui
contenuto specifico non acquista intelligibilità solo nel momento in cui le
altre due siano state in qualche modo ammesse (nel modo cioè del ‘se anche…allora’,
secondo un assurdo che finge di scansare l’evidenza precedentemente
raggiunta), così come il contenuto della seconda tesi non presuppone
affatto, nella propria verità intrinseca, la negazione ipotetica delle
6
prima: come la tesi di inconoscibilità dell’essere non abbisogna, per essere
compresa nella propria intima verità, della dimostrazione ontologica, così la
nuova tesi sulla indicibilità dell’essere, incurante di qualsiasi appoggio
esterno o di conferme indirette, non rimanda in alcun modo al presupposto
della inconoscibilità, né la sua posizione necessita (neppure nel modo della
opposizione) dei risultati acquisiti dalla tesi gnoseologica. Ciascuna delle
tesi è invece positivamente dimostrata ed affermata in maniera autonoma e
perfettamente autosufficiente – posta la relazione ipotetica (evidentemente
solo un artificio stilistico di amplificazione persuasiva), il sofista invita subito
a dimenticarla e a non tenerne conto, per concentrarsi invece sul senso
specifico delle singole argomentazioni. Le tre tesi possono perciò considerarsi
come parti correlate di un’unica negazione, come punti di vista e vedute
parziali sul medesimo e il nesso autentico tra di loro non consiste affatto in
una progressione concettuale di proposizioni ipotetiche, bensì in un rimando
tutto interiore alla cosa stessa. L’unità sottesa alle tre tesi del sistema gorgiano
non è quindi di tipo argomentativo, bensì di natura autenticamente
speculativa e si configura come una sorta di tripla rifrazione dell’identico.
Questo ‘identico’ che è al centro della riflessione gorgiana non è altro che il
ό, in quanto esso appare a tutti gli effetti come il tratto caratteristico che
definisce ed esaurisce in maniera eminente la natura profonda dell’uomo, in
quanto cioè il ό si pone come l’essenzialmente nostro e inalienabile. 1
Ciò che qui è in questione non è altro che l’attività sintetica del ό, la
sua capacità funzionale di approntare unità di senso e, nella sua relazione
diretta con quel pregiudizio fondamentale di sussistenza che è rappresentato
dall’idea di Verità, di coordinare un’apertura significativa del ‘mondo’.
Le prime due tesi, onto-logica l’una e gnoseo-logica l’altra, indagano la
consistenza veritativa del ό quando esso pretenda di tenere, con mano
ferma e sguardo dominante, il senso trascendentale (problema dell’essere) e
il senso trascendente (problema della ‘realtà’) dell’ente. In entrambi i casi si
faceva quindi questione proprio di quel connettere e riunificare (έ) che
è l’atto costitutivo mediante cui l’uomo, già pretematicamente gettato
nell’offerta dell’essente, appronta da sé e per sé un orizzonte percorribile che
è fatto di ‘cose’ (problema del ), con le quali interagisce in virtù di un interesse
originario e che ci e si riguardano attraverso una fitta rete di relazioni e
di rimandi. La connessione tra le tre tesi è pertanto implicita: esse sono
accomunate dalla medesima questione del ό ed è forse per questo che
la terza tesi è apparsa a molti il punto focale del sistema gorgiano, poiché in
essa la tematizzazione del έ si fa finalmente esplicita e dichiarata.
1
Solo in questo senso generalissimo si può apprezzare fino in fondo la portata definitoria
dell’espressione aristotelica che indica l’uomo come ῷ ό ἔ (Politica, 1253a),
cioè come l’essere vivente che possiede la capacità di operare continue sintesi di senso.
7
Resta comunque ancora da chiarire in che senso questa tesi prenda ad oggetto
di indagine il έ e in che misura la manovra possa pretendersi
esauriente; ancor prima, è necessario indagare sulla particolare curvatura di
senso che il έ assume in questo contesto e vedere quindi se sia davvero
legittima la sua interpretazione nei termini di un ‘dire’, di un atto cioè in cui
il ό ha a che fare con l’articolazione verbale del suono in ‘parola’.
La questione è tutt’altro che oziosa. Come è noto, infatti, il termine ό
conosce nella lingua greca “tre principali campi di applicazione o di uso,
tutti collegati da una sottostante unità concettuale. Anzitutto c’è il campo
del linguaggio e dell’espressione linguistica, da cui ‘parola’, ‘discorso’, ‘descrizione’,
‘affermazione’, ‘argomentazione’ (espressa a parole) e così via.
Poi viene il campo del pensiero e dei processi mentali, da cui ‘pensiero’,
‘ragionamento’, ‘spiegazione’, ‘chiarimento’ etc. Infine, il campo del
mondo, ciò su cui possiamo parlare e pensare: di qui ‘princìpi strutturali’,
‘consuetudini’, ‘leggi naturali’ e così via, purché in ogni caso intesi come
realmente presenti e manifesti nella vita del mondo”. 2 Seguendo la potenzialità
semantica del termine si fa anche più chiaro il senso complessivo che
l’opera di Gorgia detiene in quanto riflessione critica sul ό: con intento
sistematico e guardando ad un’unità filosofica di fondo, essa ha voluto
esplorare i princìpi strutturali dell’ente e vagliare così le condizioni di possibilità
della sua pensabilità trascendentale, della sua consistenza ontica ed
infine della sua espressione linguistica. Ora, se è certo vero che la triade
Essere-Pensare-Dire esaurisce l’unità concettuale del ό da un punto di
vista estrinseco (e secondo le necessità di una esposizione), non bisogna tuttavia
dimenticare che esiste una superiore e intrinseca connessione tra i diversi
campi d’applicazione del ό e che questa connessione riguarda la
capacità di sintesi del έ nella misura in cui essa porta in essere una
particolare evidenza di senso, la quale riunifica in un solo complesso la cosa,
il pensiero della cosa e la sua capacità di significare: ciò che ‘è’ è anche,
allo stesso tempo, qualcosa che è-pensato, che è-significante e che può
quindi essere affermato. Perciò il ῖ implica costantemente tutte
e tre le direzioni di senso del έ e la categoria si pone, allo stesso tempo
e con pari dignità, come un fenomeno trascendentale, concettuale e linguistico.
3
2
G.B. Kerferd, I sofisti, p. 109.
3
Così Jaspers: “Il manifestarsi dell’essere si dà nei significati. La sua immediatezza è
inconscia. Se ne ha coscienza solo nelle scissioni operate dalla mediazione dei significati. Il
linguaggio è indissolubilmente legato a questo manifestarsi dell’essere: esso coglie ogni significato
oggettivo con i significati che viene producendo. Il significato è un riferimento
fondamentale che mostra l’essere nella sua scissione. Questo riferimento fondamentale, fenomeno
originario che a nulla è riconducibile, non è una relazione come quella causale che
ha luogo nella realtà o quella logica che ha luogo nel nesso del pensiero; non è contraddizione
8
Una risposta esauriente alla delicata questione del rapporto tra filosofia e
retorica dovrà però attendere un ulteriore approfondimento teoretico della
complessa tematica dell’immagine. A tal fine occorre senz’altro tornare
all’acuta analisi filosofica che Gorgia ha tenacemente condotto nel trattato
Sul non-essere.
La deriva fantasmatica dell’immagine
§ 4. Argomento della differenza categoriale
Con un crescendo concettuale che sotto molti aspetti vuole coronare tutto il
percorso filosofico del sistema e, vagliatene sino alle estreme conseguenze
le premesse, fondarne definitivamente le conclusioni, la terza parte del Trattato
prende in esame la grande questione teoretica della connessione tra parola,
immagine e verità. L’onto-logia e la gnoseo-logia gorgiane ricercano
infine la propria risoluzione nel dominio ultimativo del ό stesso e confluiscono
in un unico problema che così può venire esposto: in che rapporto
si pone il linguaggio rispetto alla realtà? E rispetto alla verità? Quali sono,
insomma, le autentiche potenzialità del e quale ne è l’essenza?
A proposito di questa terza sezione dello scritto, le nostre due fonti presentano
una considerevole differenza, il cui aspetto più appariscente è dato
dal fatto che la versione tramandataci da Sesto Empirico, come al solito
molto compatta nell’esecuzione, offre una sola ed unica argomentazione a
sostegno della tesi, mentre il testo del De Melisso, Xenophane et Gorgia
riporta senz’altro due distinti ed autonomi svolgimenti di ragionamento. Le
ragioni di questa insolita discrepanza (che prevede con ogni probabilità la
scelta di una deliberata omissione da parte di Sesto) non sono facilmente
riassumibili, specie a questo punto solo preliminare dell’analisi; sarà quindi
più opportuno procedere nella nostra esposizione dei contenuti filosofici
della tesi, lasciando che esse possano eventualmente chiarirsi parallelamente
al procedere dell’indagine interpretativa.
Cominceremo dall’argomentazione che è comune a tutte e due le nostre
fonti, l’unica svolta da Sesto e la prima riportata dallo Pseudo-Aristotele. Il
fatto stesso che compaia sostanzialmente identica in entrambe le parafrasi, e
senso di un orizzonte di senso chiuso in se stesso e la cui verità si esaurisce, in maniera autosufficiente
ed autoreferenziale, solo nelle regole interne che quello stesso ha posto), ma forse
potrebbe più correttamente venire inteso come l’espressione immodesta di schiacciante superiorità
intellettuale da parte di un pensatore perfettamente consapevole del proprio valore.
Non è peraltro escluso che Gorgia avvicini qui il celebre senso nietzscheano della “festa del
pensiero”.
55
ancora più che per Sesto essa sia in sé sufficiente e bastante, ci induce
senz’altro a considerarla come il punto criticamente decisivo per portare a
termine la dimostrazione della tesi nel suo complesso. In termini generali
questa dimostrazione, che chiameremo argomento della differenza categoriale,
si basa sulla ripresa di un argomento già adoperato in conclusione della
discussione sulla Seconda Tesi, e precisamente nei §§ [19] e [20] del testo
dell’Anonimo e al § [81] del testo di Sesto Empirico. Lì l’inconoscibilità
dell’ente e l’irriducibilità del contenuto di coscienza rispetto a una presunta
‘realtà’ comune e condivisa era stata affermata, in ultima istanza, attraverso
il ricorso all’immediatezza dell’offerta sensibile (teoria della datità). Ora,
su quella stessa impostazione, Gorgia prepara anche la dimostrazione della
Terza Tesi, che così viene sviluppata nella versione del De Melisso, Xenophane
et Gorgia:
ὥ ὰ ὐὲ ἡ ὄ ὺ ό ώ ὕ ὐὲ ἡ ἀὴ
ὰ ώ ἀύ ἀὰ ό˙ ὶ έ ὁ έ ἀ’ὐ ῶ
ὐὲ ᾶ
ὃ ὖ ὴ ἐῖ ῶ ὐὸ ’ἄ όῳ ἢ ίῳ ὶ ἑέῳ
ῦ ά ἐή ἀ’ἢ ἐὰ ὲ ῶ ἰώ ἐὰ ὲ ό
ἀύ ἀὴ ὰ + ὐ ό έ ὁ έ ὐὲ ῶ+ ἀὰ
ό˙ ὥ’ὐὲ ῖ ῶ ἔ ἀ’ὁᾶ ὐὲ ό
ἀ’ἀύ
“[21] Come infatti la vista non conosce i suoni, così neppure l’udito sente i colori,
bensì i suoni; e colui che parla, certo, dice [qualcosa], ma non [dice] il
colore, né la cosa.
[22] E dunque ciò che uno non scorge da sé nel proprio pensiero, come potrà
pensarlo attraverso una parola o un qualche segno differenti rispetto alla cosa,
se non vedendolo se è un colore, oppure udendolo se è un suono? Infatti colui
che parla non dice assolutamente, in quanto all’essenza, un suono o un colore,
ma una parola. Così che non è possibile percorrere col pensiero un colore, ma
solo vederlo, né un suono, ma solo udirlo”.
Questo argomento è stato largamente sottovalutato, se non addirittura pesantemente
avversato, dalla maggioranza degli interpreti, che vi ravvisano la
permanenza di una concezione ‘realista’ ed ‘arcaica’ del linguaggio, cioè di
una concezione del ό – di derivazione parmenidea – che porrebbe
l’identità totale e senza residui della parola e della cosa, senza un’adeguata
comprensione della funzione eminentemente significante del linguaggio,
alla luce della quale, viceversa, l’argomento perderebbe subito di consistenza.
Si è così concluso che “se l’incomunicabilità dei sensi ha per corollario
l’incomunicabilità del discorso (…), ciò è dovuto al fatto che il discorso
è una realtà sensibile come le altre. Gorgia ignora lo sdoppiamento per
mezzo del quale il discorso, realtà sensibile, si cancellerebbe di fronte a una
56
realtà che esso significherebbe”. 79 Ma le cose stanno davvero in questi termini?
Davvero Gorgia sarebbe rimasto vittima di una concezione tanto ingenua
del linguaggio? 80
Il senso generale della tesi, nella sua connessione ipotetica con la precedente,
è che se anche fosse dato all’uomo di avere una visione ed una comprensione
essenziali dell’oggetto, ebbene tale visione e comprensione sarebbero
comunque destinate a rimanere un fatto solo soggettivo e ‘privato’, a
causa della impossibilità di una sua adeguata ed efficace comunicazione.
L’argomento è perciò divisibile in due momenti distinti (la percezione o apprensione
dell’oggetto da una parte e il tentativo di una sua comunicazione
linguistica dall’altra), tra i quali si nega la possibilità di una correlazione,
donde la conclusione per cui il contenuto di coscienza non sarebbe esprimibile
attraverso la parola.
La caratteristica (e pure la difficoltà) della dimostrazione consiste nel
fatto che in essa la negazione generale viene affermata sulla scorta dei risultati
della teoria della percezione e come per una sorta di germinazione interna,
donde il dubbio se sia davvero legittimo mettere sullo stesso piano
l’oggetto della sensazione corporea, consegnato alla passività degli organi
percettivi e legato alla presenza concreta della cosa, e quello del έ linguistico,
la cui natura è racchiusa invece nella rimandatività attiva del significare
astratto: se è certo che “colui che parla, certo, dice qualcosa, ma non
dice il colore, né la cosa”, è anche vero d’altra parte che egli intende comunque
dire qualcosa che significa il colore o la cosa.
79
P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, p.101-102 (corsivo nostro). Nello
stesso testo si conclude: “Gorgia ha spinto al suo punto estremo di coerenza una concezione
e una pratica del linguaggio che ignorano ancora la sua funzione significante: il linguaggio
non è tuttavia in tal modo svalutato, ma, non essendo il luogo di rapporti significativi tra il
pensiero e l’essere, esso non può essere che lo strumento di rapporti esistenziali (persuasione,
minaccia, suggestione, etc.) tra gli uomini” (Ivi, pp.103-104). L’obiezione qui avanzata sembra
tanto esagerata da rasentare l’insensatezza totale: non si vede come un qualsiasi uso del
linguaggio possa in qualche modo ignorarne l’essenziale funzione significante, schiacciandola
così drasticamente al di sotto della natura sensibile del suono. Ogni comprensione della
parola che si ponga oltre il primitivo grido animalesco, infatti, rimanda senz’altro ad una
astrazione significante che è il risultato di una sintesi di senso, e al di là di questa rimandatività
è palesemente un assurdo. Inoltre resta ancora da chiarire in che misura l’espressione di
rapporti esistenziali quali la minaccia, la persuasione o la suggestione non implichino rapporti
significativi tra il pensiero e l’essere. Tale ipotesi ci pare alquanto stravagante.
80
È del resto più che arbitrario ridurre a questa concezione persino la dottrina del linguaggio
parmenidea, la quale rimanda al contrario a una teoria del ό che, benché certo
non priva di contraddizioni interne, si sviluppa comunque in stretta connessione con una raffinata
e complessa elaborazione della tematica del contenuto rappresentativo (teoria intenzionale
della coscienza) e implica perciò una ben precisa determinazione sia della natura dell’Essere
che di quella del linguaggio in quanto strumento comunicativo (solo a partire da queste
premesse, infatti, se ne può affermare l’insufficienza).
57
Questa obiezione appare però priva di una autentica validità e la pretesa
di chiudere la questione con l’accusa di un arcaismo linguistico tipico di un
‘realismo ingenuo’ manca il vero e proprio nodo filosofico dell’argomento
che, lungi dall’essere risolto, è stato solamente rimandato: certo, la parola
‘significa’ la cosa, non la ‘è’ (e come potrebbe a Gorgia sfuggire la differenza?),
ma resta ancora da chiedersi in che modo avvenga questa significazione
e che cosa venga realmente significato nell’atto linguistico, col che si
ritorna al senso autentico della tesi, la quale reimposta così il problema – in
fondo unico – di tutto il sistema (quello della costituzione dell’oggetto) nei
seguenti termini: esiste una costituzione linguistica della cosa? Ed in che
modo essa ha a che fare con la percezione e con il pensiero?
Sulla scorta dei risultati della teoria della datità sensibile, Gorgia esordisce
con la semplice eppure incontrovertibile proposizione secondo cui “la
vista non conosce i suoni e l’udito non sente i colori” (ὐὲ ἡ ὄ ὺ
ό ώ ὐὲ ἡ ἀὴ ὰ ώ ἀύ) e insiste sulla
peculiarità e specificità di ogni singola sensazione e sul fatto che il criterio
unico del percepito sia la percezione sua propria (all’interno della quale, secondo
quanto diceva Sesto, il percepito è sempre ‘di casa’): [ὸ ἰὸ
ὸ ῦ ἰί ά ί (§ [81]). Ma se ogni senso assicura
uno specifico ed autonomo accesso all’ente, che si svolge secondo
modalità uniche e irriducibili, allora la differenza tra i sensi sarà qualcosa di
essenzialmente incommensurabile e la loro distanza incolmabile. La teoria
della datità sensibile sembra così condurre a un isolamento assoluto dei sensi
ed aprire la porta al solipsismo più estremo. Ma si tratta davvero dell’isolamento
assoluto di ogni senso? O non, piuttosto, dell’analisi pura di ciò che
il perceptum è nella propria essenza?
In questione è qui il dato fenomenologico elementare che ‘la vista non
conosce i suoni’ e ‘l’udito non sente i colori’. Gorgia vuole rimarcare precisamente
e solo questo dato elementare: l’essenza del colore si esaurisce
nell’essere-visto, l’essenza del suono si esaurisce nell’essere-udito. Cos’altro
è infatti il colore ‘rosso’, al di là della visione nella quale esso si manifesta?
Esiste forse un altro modo di essere, per il ‘rosso’, che non sprofondi
interamente nel suo offrirsi sensibile all’occhio? La verità è che, oltre a
questa offerta, del rosso non ne è nulla ed ogni ulteriore compromissione
analogica non riuscirà mai a mettere da parte il dato fenomenologico elementare
che il colore è-visto e che il suono è-udito o, detto con le parole di
Heidegger, che “poiché la ἴ si riferisce sempre ai propri ἴ, cioè
all’ente genuinamente accessibile solo mediante essa e per essa (come avviene
per il vedere rispetto ai colori), la percezione è sempre vera. Il che
significa: il vedere scopre sempre colori, l’udire scopre sempre suoni”. 81
81
M. Heidegger, Essere e tempo, § 7B, p. 33 ted. (in: trad. Marini [Oscar/ Meridiano]).
58
Nel comune radicamento all’immagine confluiscono e fanno tutt’uno la
potenza della parola e la sua drammatica insufficienza.
§ 5. Assalto respinto (Platone, Repubblica, VII, 523a-525b)
In un complesso passaggio del libro VII della Repubblica Platone tenta di
presentare una risposta filosoficamente adeguata all’argomento gorgiano
della differenza categoriale e di contrastare con forza l’assunto generale di
una totale e assoluta indipendenza del contenuto sensibile. Questa sorta di
replica a distanza è naturalmente inserita all’interno del più ampio contesto
dell’opera, vertente sulla costruzione utopica di una società ideale, e più precisamente
in un momento del dialogo tra Socrate e Glaucone che prende in
esame la delicata problematica dell’educazione da impartire alla casta dei
guerrieri, i custodi dello Stato. Nel corso del dibattito Socrate avanza a un
certo punto l’interrogativo sulla necessità o meno per i guerrieri, i “campioni
della guerra” 109 allevati nelle discipline della ginnastica e della musica, di
acquisire anche una conoscenza matematica:
“E dunque porremo una qualche altra conoscenza (ἄ ά) come necessaria
al guerriero, quella cioè di sapere calcolare (ί) e contare
(ἀῖ)?”. 110
La questione è tanto più importante in quanto la comprensione del numero
(ἀό) e del calcolo (ό) rappresenta per Socrate l’elemento necessario
di cui “ogni arte (έ) e scienza (ἐή) è costretta a partecipare”,
visto che la capacità del discernimento matematico costituisce per
il filosofo l’indispensabile presupposto e lo strumento privilegiato per giungere
alla autentica intellezione delle cose (ἄ ὸ ὴ ό). La
capacità elementare dell’analisi e della sintesi (ό), infatti, non è altro
che la forma primordiale dell’esercizio del ό, senza la quale l’accesso
ad ogni altra forma complessa di ragionamento appare irrimediabilmente
precluso: 111 in virtù del suo carattere formale la matematica (insieme
alla geometria ed all’astronomia), esercitando l’astrazione, rappresenta il
terreno perfetto sul quale l’anima si abitua a trovare nessi e stabilire connessioni
puramente ideali. La conoscenza matematica, insomma, è assolutamente
indispensabile al fine di trascinare in maniera compiuta e totale alla
109
L’espressione platonica ἀὰ έ si trova in 521d.
110
Platone, Repubblica, 522e.
111
Perciò in 526b Socrate fa senz’altro coincidere l’attitudine al calcolo con il possesso
dell’intelligenza tout court: “E non hai forse già notato come coloro che per natura sono
portati al calcolo [ύ ὶ] sono anche per così dire predisposti naturalmente
[ύ] per tutte le discipline [ἰ ά ὰ ή]?”.
86
comprensione dell’essenza (ἑὸ ά ὸ ὐί) 112 e deve
quindi venire esercitata sino a che non conduca, “con il pensiero in se stesso
(ῇ ή ὐῇ), alla contemplazione della natura dei numeri (ἐὶ έ
ῆ ῶ ἀῶ ύ) (…) per operare la più facile conversione
(ή) dell’anima dal divenire alla verità e all’essenza (ἀὸ
έ ἐ’ἀήά ὶ ὐί)”. 113 Per questo Glaucone risponde
all’iniziale interrogazione socratica col dire che l’apprendimento
della matematica è importante non solo e non tanto per colui che deve intendersi
di disposizioni e tattiche militari, ma più in generale per colui che voglia
essere un uomo nel senso pieno e compiuto del termine: se infatti
l’uomo marca la propria differenza, nell’orizzonte del vivente, in virtù
dell’esercizio del pensiero e se quest’ultimo è il possesso della ragione
(ό), allora la capacità del calcolo sarà qualcosa di assolutamente necessario
in vista della migliore e compiuta realizzazione dell’essere umano.
Predisponendo in modo naturale ad un uso corretto ed efficace dell’analisi
concettuale, la disciplina del calcolo potenzia la facoltà intellettuale nel suo
complesso e, “costringendo (ά) l’anima a utilizzare l’intelligenza
pura (ὐῇ ή ῆ) in vista della pura verità (ἐ’ὐὴ
ὴ ἀή)”, pone anche le basi più solide per l’uso dialettico e realmente
‘filosofico’ della ragione. 114
Qui Platone parla di una ‘costrizione’ che la disciplina matematica esercita
sull’anima, ‘trascinandola’ dalla visione empirica del sensibile alla contemplazione
astratta dell’ideale, ma in che relazione si pone questo processo
di astrazione con l’argomento gorgiano della differenza categoriale? Il
nesso viene allo scoperto nel momento in cui Platone si avvia ad indagare
più da vicino il senso profondo di quella ‘costrizione all’essere’ che con tutta
evidenza rappresenta, per lui, un vero e proprio carattere definitorio
dell’uomo, nella misura in cui senza quella innata spinta al superamento
delle costrizioni sensibili l’uomo non differirebbe affatto dagli altri animali,
non potrebbe elevarsi alla dimensione superiore del Vero e la sua vita trascorrerebbe
in un cieco ed anonimo velamento delle cose. Ora, questo
112
ibid., 523a.
113
ibid., 526c.
114
Platone, Repubblica, 526b. Il principio dell’uso razionale della ragione è anche ciò
che, orientando in vista di un fine e predisponendo i mezzi, salva l’azione dell’uomo. Lo dice
chiaramente Aristotele nell’Etica Nicomachea (VI, 1, 1139a), dove afferma che “la deliberazione
e il calcolare della ratio sono la stessa cosa” (ὸ ὰ ύ ὶ ί
ὐό) e aggiunge che “il principio dell’azione è la scelta (…), ma principio della scelta
sono il desiderio e il calcolo razionale dei mezzi adeguati. Perciò né senza pensiero e ragionamento,
né senza disposizione morale può esserci scelta” (ά ὲ ὖ ἀὴ
ί (…) έ ὲ ὄ ὶ ό ὁ ἕά ὸ ὔ’ἄ ῦ
ὶ ί ὔ’ἄ ἠῆ ἐὶ ἕ ἡ ί).
87
“continuo, necessario superamento di se stesso” che l’uomo in se stesso è, 115
per quanto si prefiguri in ultima istanza ed esigenzialmente come uno scavalcamento
dell’immediatezza sensibile, comincia tuttavia ad agire proprio
all’interno di quella immediatezza ed è innanzitutto e in prima istanza qualcosa
che avviene nella sensibilità e che è proprio della sensibilità.
Il tema del superamento dell’immediatezza sensibile è al centro, nella
Repubblica, di una lunga e articolata argomentazione, che leggiamo per
esteso:
SOCRATE- Se guardi bene, alcune cose [ὰ ὲ] nelle sensazioni [ἐ ῖ
ἰή] non stimolano l’intelletto ad una attenta indagine [ὐ
ῦ ὴ ό ἰ ἐί], come se fossero sufficientemente
giudicate [ὡ ἱῶ ὑὸ ῆ ἰή ό] dalla sensazione
stessa, mentre altre [ὰ ὲ] è proprio come se davvero ordinassero
[ό] di svolgere quell’indagine, dal momento che la sensazione
non ne trae nulla di sensato [ὐὲ ὑὲ].
GLAUCONE- È chiaro che tu parli delle cose che ci appaiono da lontano e di
quelle che sono tratteggiate nei dipinti.
SOCRATE- Non hai capito esattamente ciò di cui parlo.
GLAUCONE- E di che cosa parli allora?
SOCRATE- Le cose che non stimolano l’intelletto sono quelle che non producono
[ἐί], nello stesso tempo [ἅ], una sensazione opposta [ἰ
ἐί ἴ]; quelle invece che lo fanno, queste appunto io dico che
sono stimolanti [ῦ], quando cioè la sensazione, venga essa da
vicino o da lontano, non renda manifesta [ῖ] una cosa più che il suo contrario.
In questo modo comprenderai più chiaramente ciò che intendo dire: queste
diciamo che sono tre dita, il pollice, l’indice e il medio.
GLAUCONE- Certo.
SOCRATE- Fai conto ora che io dica che esse sono viste da vicino, e però rispetto
a loro considera questo.
115
Non è senza ironia che utilizziamo qui una delle più note espressioni nietzscheane
della volontà di potenza. Il passo di riferimento è celeberrimo: “Ma, affinché comprendiate
ciò che io dico del bene e del male: ascoltate ciò che io dico della vita e di ogni specie di
essere vivente (…). Orsù, ascoltate la mia parola, voi saggissimi! Soppesatela attentamente
e chiedetevi, s’io non sia riuscito a penetrare nel cuore stesso della vita e fin nelle radici del
suo cuore! Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza;
e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone (…). E la vita
stessa mi ha confidato questo segreto. ‘Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento
di me stessa. Certo, voi chiamate tutto ciò volontà di generare e istinto verso lo scopo,
verso sempre maggiore altezza, lontananza, varietà: ma tutto questo non è che uno stesso e
identico mistero. Piuttosto preferisco tramontare che rinunciare a questa sola cosa; e invero,
dov’è tramonto e cader di foglie, ecco, là la vita immola se stessa – per la potenza! (…). Solo
dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì – così ti insegno io – volontà di
potenza! Molte cose per il vivente hanno valore più della vita stessa; ma anche dal suo porre
valori parla – la volontà di potenza!’” (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, II, Della vittoria
su se stessi).
88
dell’immagine, di cui il linguaggio verbale – nel quale la cosa detta è sempre
in esilio – è certo l’espressione più appariscente. Si viene così a giustificare,
da un punto di vista strettamente teorico, quella pervasività dell’inganno
(ἀά) del έ che rappresenta uno dei cardini del pensiero gorgiano.
Se Platone, puntando con decisione all’unità irresiduale del numero, ha
voluto sorpassare e annullare la potenza del fantasma e tentato una declinazione
astratta dell’oggetto sotto il punto di vista dell’identità, Gorgia ha
scelto invece di restare vicino al cuore pulsante della sensibilità e della differenza.
Egli non ha evitato la problematicità dell’immagine e ha preventivamente
respinto l’assalto metafisico con l’affermazione, nettissima, di una
identità impossibile.
§ 6. Argomento delle identità impossibili
La parafrasi della Terza Tesi gorgiana riportata nel testo dello Pseudo-Aristotele
presenta un argomento ulteriore rispetto a quello della differenza categoriale,
argomento che è invece del tutto assente nella versione di Sesto
Empirico. Esso occupa i tre paragrafi che vanno dal [23] al [26] ed è così
esposto:
ἰ ὲ ὶ ἐέ ώ ὶ ἃ ἂ ώῃ έ ἀὰ
ῶ ὁ ἀύ ὸ ὐὸ ἐή ὐ ὰ ἷό ὐὸ ἅ ἐ ί
ὶ ὶ ὖ ἶ˙ ύ ὰ ἂ ἴ ὸ ἕ
ἰ ὲ ὶ ἴ ί ἐ ί ὶ ὐό ὐὲ ύ ὴ ὅ
ί ὐῖ ὴ άῃ ὁί ἐί ὖ ὶ+ ἐ ῷ ὐῷ˙ ἰ
ὰ ἐ ῷ ὐῷ ἷ ἂ ἀ’ὐ ύ ἶ
ί ὲ ὐ’ὑὸ ὑῷ ὅ ἰό ἐ ῷ ὐῷ
όῳ ἀ’ἕ ῇ ἀῇ ὶ ῇ ὄ ὶ ῦ ὶ ά ό
ὥ ῇ ἄῳ ’ἂ ὐὸ ἴό
“[23] E se pure si ammettesse che fosse dato di conoscere e anche di dire ciò che
si conosce, tuttavia come potrà pensarlo colui che ascolta? Infatti non sarebbe
possibile che fosse proprio lo stesso, se fosse contemporaneamente in più individui
che sono separati; in tal modo, infatti, l’uno sarebbe due.
[24] Ma, afferma [Gorgia], se pure l’oggetto fosse lo stesso pur essendo in più
individui, nulla impedisce che appaia loro diverso, dal momento che essi non
sono in tutto identici, né nella stessa situazione; se fossero nella medesima situazione,
infatti, sarebbe una stessa persona, e non due.
[25] Sembra peraltro che neppure lo stesso soggetto percepisca di per sé le medesime
sensazioni nello stesso tempo, ma sensazioni diverse attraverso l’udito e
la vista e diversamente anche nel presente rispetto al passato. Cosicché difficilmente
qualcuno potrebbe percepire le medesime cose di un altro”.
Non vi è alcuna ragione per dubitare dell’autenticità gorgiana dell’argomento,
né la sua mancanza nella redazione sestiana induce a pensare ad una
100
autonoma intromissione dello Pseudo-Aristotele. Anche a prescindere
dall’esplicito ί del § [24], infatti, il ragionamento appare non solo perfettamente
aderente al senso generale della tesi ed in coerente dispiego logico
rispetto al passaggio precedente, ma anche in naturale e immediata sintonia
con l’atteggiamento teoretico di fondo del sofista di Lentini; le motivazioni
che potrebbero avere indotto Sesto all’omissione (se di volontaria
omissione si tratta) possono del resto essere molteplici e non è neppure
troppo azzardato pensare ad una scelta del redattore in direzione di un ridimensionamento
dei debiti dello Scetticismo (le cui consonanze critiche con
questo argomento sono particolarmente evidenti) nei confronti di un così ingombrante
e sotto molti aspetti scomodo e indecifrabile precursore filosofico.
Data per scontata la sua appartenenza all’andamento complessivo della
tesi, quindi, veniamo all’analisi del suo contenuto.
Con facilità lo si dividerà in due parti distinte – benché senz’altro correlate-
che possono giustamente dirsi una versione ‘intersoggettiva’ e una ‘intrasoggettiva’
del medesimo ragionamento. 1123 Poiché comune ad entrambe
le versioni è una negazione dell’unità del contenuto di coscienza (sia sul
versante oggettivo del riferimento intersoggettivo che su quello più propriamente
soggettivo del percipiente), designeremo l’argomento nel suo complesso
come ‘argomento delle identità impossibili’.
Ancora una volta Gorgia prende le mosse dall’ammissione di quanto appena
negato per procedere alla confutazione per assurdo. Il primo ragionamento
assume quindi (ἐέ), per amore di discussione, la presupposizione
di conoscibilità e comunicabilità (ώ ὶ έ)
dell’esperienza soggettiva e si concentra sul problema della correttezza di
trasmissione dell’informazione: ammesso che ciascuno possieda una comprensione
adeguata dei propri contenuti di coscienza ed ammesso pure che
egli sia in grado di tradurli in parola, quale sarà il risultato della comunicazione?
Se, per colui che parla, la parola coincide senza sbavature con l’esperienza
privata, sarà forse così anche per colui che ascolta, dal momento che
questi manca proprio dell’esperienza originaria? Se viene assicurato come
soggettivamente adeguato il passaggio dall’esperienza alla parola, sarà ipso
facto assicurato anche il passaggio inverso all’interno di un contesto intersoggettivo?
La parola, insomma, è in grado di suscitare in colui che ascolta
una esperienza coincidente con quella del parlante e la sua capacità
123
La divisione è stata proposta da A.P.D. Mourelatos nel suo studio su Gorgias on the
Function of Language (dell’articolo esiste anche una versione ampliata in Philosophical Topics,
Vol. XV, N. 2, 1987, p. 135-170). Merita comunque di ricordare che quella stessa distinzione
era stata precedentemente avanzata anche da E. Melandri (La linea e il circolo,
p.177-178), il quale sosteneva che “per fondare l’oggettività sulla sensazione bisognerebbe
farne il principio sia dell’intersoggettività (fra uomini diversi), sia dell’intrasoggettività (fra
stati d’animo diversi dello stesso uomo)”.
101
evocativa sarà mai perfettamente aderente alla forma della cosa detta?
Gorgia riassume i termini della questione nella semplice ed efficace formula
del ‘pensare il medesimo’ (ὸ ὐὸ ἐῖ), formula che rimanda al
delicato rapporto tra noesi e noema, e cioè tra l’atto soggettivo della rappresentazione
come immediatezza del contenuto di coscienza immanente
(ἐῖ) da una parte e il problema cruciale della identità del cogitatum
con la cosa stessa (ὸ ὐὸ) che forma il contenuto della rappresentazione,
dall’altra. Su questi presupposti, benché la dimostrazione venga svolta in
maniera straordinariamente rapida, la sua conclusione sembra comunque
non lasciare spazio ad ulteriori ripensamenti: “non sarebbe possibile che
l’oggetto fosse proprio lo stesso (ὐὸ), se fosse contemporaneamente
(ἅ) in più individui che sono separati (ἐ ί ὶ ὶ ὖ); in
tal modo, infatti, l’uno sarebbe due”.
La struttura del ragionamento è lineare: che cosa significa che il contenuto
rappresentativo del parlante debba coincidere con quello di colui che
ascolta? Significa che l’esperienza soggettiva che dal primo è stata tradotta
in parola si ‘riaccende’, si ripresenta e si ripropone, senza variazioni rilevanti
della sua forma, nell’immediatezza rappresentativa del secondo; solo in tal
modo i due potrebbero realmente ed efficacemente com-prendersi, cioè
avere una autentica comunione di presa sullo stesso. In un avvicinamento
ideale alla perfezione della trasparenza comunicativa, pertanto, la medesimezza
dello strumento di comunicazione implica la medesimezza del contenuto
della comunicazione: stessa parola, identica immagine mentale. Al limite
estremo della propria essenza, quindi, l’ideale della comunicazione linguistica
impone un gioco di riflesso che rimanda ad uno schema di doppia
identità, della parola da una parte e dell’immagine dall’altra e questo ideale
riposa, in ultima istanza, sul pregiudizio totalizzante di efficacia del ό,
sulla sua pretesa di porsi come una sintesi compiuta ed esauriente che,
nell’accoglienza dell’identico, sia in grado di arrestare definitivamente il
flusso dell’esperienza soggettiva, consegnata alle distorsioni inevitabili della
continua variazione dell’immagine, facendo così della sua molteplicità
un’unità significante nella quale si è come congelato, una volta per tutte, il
senso autentico dell’oggetto.
Riordinato in rigorosi passaggi concettuali, lo schema implicito
nell’ideale della comunicazione si sviluppa quindi secondo la seguente scansione
logica:
1) ammissione della realtà ‘oggettiva’ della cosa (pregiudizio di sostanzialità
della semplice presenza)
2) apprensione soggettiva della verità della cosa (tesi di conoscibilità)
3) adeguata espressione verbale del contenuto soggettivo dell’apprensione
(tesi di dicibilità)
4) evocazione intersoggettiva della parola (teoria del segno linguistico)
102
5) emersione, in un altro soggetto, di un’immagine mentale ‘adeguata’
rispetto alla cosa, cioè rispetto al contenuto di partenza espresso dal έ
(tesi della efficacia comunicativa).
In sintesi, la parola P fungerebbe da medium tra il contenuto di coscienza
N del soggetto parlante x ed il contenuto di coscienza N1 del soggetto y e
l’identità del segno linguistico P assicurerebbe dell’identità dell’immagine,
per cui se pure x e y sono differenti, essi possono ciononostante rappresentarsi
il medesimo: N(x)=N1(y), poiché P=P.
Ma che cosa significa la proposizione affermante che N=N1? Significa
che ciò che forma il contenuto di coscienza di entrambi è lo stesso, a prescindere
dalle differenze tra x e y, significa che in entrambi i soggetti il
noema permane identico, incurante delle eventuali variazioni implicate
nell’atto noetico. N=N1 significa che, a prescindere dalla contingenza
dell’angolo visuale e dalle dinamiche emotive e personali, ciò che in N ed
N1 viene rap-presentato è il medesimo! L’evocazione messa in atto da P
rimanda perciò a un oggetto Z che permane: Z(N)=Z(N1). In altri termini,
l’assunto conclusivo della identità intersoggettiva del contenuto rappresentativo
evocato rimanda, quanto al suo fondamento, alla presupposizione pregiudiziale
del punto 1), ovvero all’ideale della permanenza sostanziale della
semplice-presenza Z all’interno dell’orizzonte della mondanità. La manifestatività
del segno P sarebbe perciò una ri-immaginazione oggettiva, adeguata
e con-forme, di Z.
A questo punto interviene Gorgia. Il senso complessivo della sua argomentazione
può così riassumersi: l’oggetto Z differisce per essenza dalla
sua immagine N(Z), poiché mentre il primo è supposto come unico e stabilmente
riposante in se stesso, ogni rappresentazione N, N1, N2… (Z), isolata
e separata, è per sua natura differente da tutte le altre, conformemente alla
differenza che consegue dalla irriducibile molteplicità dei rappresentanti (x,
y…). L’oggetto, così come è presente alla coscienza soggettiva (rap-presentato
in immagine), non può essere allo stesso tempo lo stesso (ὐὸ ἅ)
in più soggetti, poiché questi ultimi sono molti (ί), spazialmente ed
essenzialmente distinti e separati (ὶ ὖ). Dato che una molteplicità
di agenti dà luogo a una molteplicità di azioni, l’una diversa dall’altra e mai
coincidenti, più coscienze rappresentanti avranno propri e differenti contenuti
di rappresentazione, ciascuno dei quali sarà un’entità autonoma e indipendente;
tra questi potrà anche darsi somiglianza, ma mai una vera e propria
identità. Poiché però, secondo i risultati della teoria dell’intenzionalità
di coscienza, l’oggetto coincide con la rappresentazione dell’oggetto e di
esso, fuori dall’orizzonte sintetico del ό, non è niente (o, per dirla con
Parmenide, l’oggetto è in sé una dichiarazione già avvenuta del ό,
έ), allora l’identità della cosa è per principio un vero e proprio
103
assurdo logico: a rigore vi saranno sempre tante ‘cose’ quante sono le soggettività
intenzionanti.
L’elemento paradossale dell’argomentazione gorgiana consiste nella
conclusione per cui la cosa stessa, nel tentativo di giustificare la propria
identità e di salvaguardare la propria unità, dovrebbe in ultima istanza moltiplicarsi
e diventare duplice (ύ ὰ ἂ ἴ ὸ ἕ)! È anzi proprio
nell’esatta misura in cui Z non può fare a meno di manifestarsi come un
particolare N(Z) che l’Oggetto svela la propria fondamentale e inaggirabile
natura pregiudiziale. Pertanto lo sforzo linguistico di mantenere inalterata,
nel trasporto metaforico del significato (έ), una forma sostanziale
‘oggettivata’ è inevitabilmente destinato a fallire, dal momento che in esso
il contenuto, eludendo ogni principio di identità, si disgrega costantemente
nell’evanescenza fantasmatica della trasmissione analogica dell’immagine.
Il § [24] amplifica il principio dialettico della dimostrazione. Partendo
dall’ammissione ipotetica di una eventuale identità del contenuto di coscienza
in più individui (ἰ ὲ ὶ ἴ ὐό scil.: ὶ ἕ), l’argomento
finisce comunque col negarne la realtà. Se però in precedenza il ragionamento
aveva agito a partire dal versante dell’oggetto rappresentato, ora Gorgia
argomenta restando fermamente ancorato sul versante del soggetto rappresentante,
o meglio ancora tematizzando l’essenziale soggettività del rappresentare
stesso: se la rappresentazione non è altro che una apertura della
visione che rende disponibili per la coscienza, nella dimensione della forma
spazio-temporale, dei particolari contenuti e se, in una parola, essa è la costituzione
del ί e il rap-presentare l’atto con cui la coscienza apre
l’orizzonte del ί, sarà mai possibile allora, data la molteplicità
delle coscienze, una identità del ό? Lo Pseudo-Aristotele riassume
sbrigativamente la questione nei termini espliciti di un “apparire identico”
(ὅ ί) dell’Oggetto e dice che Gorgia avrebbe negato
l’uguaglianza del noema sulla base della evidente impossibilità di una assoluta
e completa uguaglianza tra la molteplicità dei soggetti implicati nel confronto
(ὴ άῃ ὁί ἐί ὖ). In ultima analisi, se coloro che
si rappresentano la cosa sono differenti, la cosa stessa sarà ipso facto rappresentata
in maniera differente.
In questi termini, la conclusione gorgiana è soddisfacente? Ed è davvero
escluso che più individui possano avere rappresentazioni dello stesso? Una
risposta esauriente alla questione potrà prendere le mosse solo da un’adeguata
comprensione della natura del rap-presentare in genere, poiché solo a
partire da qui sarà eventualmente possibile valutare la possibilità o meno di
una qualche ‘identità’ tra più rappresentazioni ‘dello stesso’. E quindi ci
chiediamo di nuovo: che cos’è, nella sua essenza, quella fondamentale attività
di coscienza che nominiamo semplicisticamente come ‘rap-presentare’?
104
In generale, il rappresentare è una configurazione di immagine che rende
manifesto, per una soggettività, un determinato contenuto rap-presentato
(ob-jectum), dove quest’ultimo non è altro che l’immagine stessa, così come
essa appare e nei limiti in cui appare alla coscienza rappresentante. Certo,
i modi dell’apparizione sono molteplici: questo tavolo davanti a me si presenta
innanzitutto in una certa forma, si dispone ed occupa una porzione di
spazio nell’orizzonte della mia visione, ha una posizione e una angolazione
rispetto ad uno sfondo e la sua identità apparente emerge a mano a mano con
i propri limiti ed incastri, le proprie linearità e resistenze, dalla reciproca e
concreta rimandatività di tutte le sue parti. Di più, esso è anche la consistenza
che oppone alla mano e al piede, l’intensità più o meno accentuata di
odore emanata dal legno e dalle colle delle sue giunture, il suono sordo che
rimanda quando viene percosso dalle mie dita o quello più pieno cui risponde
quando un corpo pesante vi sia stato appoggiato, la sensazione di
ruvidezza o levigatezza di cui mi parla la pelle nel contatto con la sua superficie.
La mia immagine del tavolo si arricchisce così, gradualmente, di una
serie virtualmente illimitata di informazioni, che confluiscono di continuo in
una sintesi di senso che è aperta ma pur sempre unica – ad essa farà costantemente
riferimento ogni pensiero del ‘tavolo’.
Col termine ‘immagine’ intendiamo perciò indicare uno schema noematico
in virtù del quale, in maniera più o meno distinta, è presente per ciascuno
il senso della cosa configurata. Se nel concetto di ‘rappresentazione’ è
senz’altro prevalente un ambito di senso visivo, esso non lo esaurisce affatto
e si parlerà pertanto, con pari diritto, della rappresentazione e della immagine
di un tavolo come della rappresentazione o immagine del suono di un
flauto, dal momento che di entrambe conserviamo una particolare configurazione
di senso e una sintesi che potremmo anche chiamare logica nella
misura in cui essa, a partire dal dominio della sensibilità, è qualcosa che
viene approntato dalla funzione unificante del ό. Ma se lo schema noematico
dell’immagine non è altro che l’espressione diretta ed elementare
dell’attività profonda del nostro έ, allora ogni rappresentazione potrà
essere correttamente descritta, nella sua struttura teoretica generale, come
una particolare e necessaria attualizzazione del έ, il quale nella sua naturale
funzione sintetica predispone e mette a disposizione l’immagine, approntando
così un orizzonte compatto dell’apparizione (ί del
ό).
Ma che cos’è, in se stesso, questo orizzonte d’apparizione della rappresentazione,
se non una apertura di senso che avviene di volta in volta all’interno
delle particolari coordinate sintetiche di ciascuno, a partire cioè da quel
ό della sensibilità e del senso che in-forma l’apparizione del fenomeno?
E come può, questo ό, prescindere dalla differenza degli occhi e delle
mani, dalla distanza e incompatibilità delle posizioni, dalla diversa
105
potenzialità e acutezza degli organi ed infine dalla particolare gerarchia dei
valori che ogni individuo racchiude, nella contingenza della propria fatticità
concreta e secondo l’appartenenza relativa a un gruppo, a un ambiente, a una
storia? Il senso delle cose (la loro ‘immagine’) si costruisce, in primissima
istanza, proprio seconde quelle direttive di coordinazione che sono in ultima
analisi gli strumenti necessari di una peculiare e irriducibile apertura
dell’orizzonte di rappresentazione, ed è anzi solo a partire da questa differenza
che si forma in noi l’idea di ‘realtà’ di un mondo comune. Quest’ultima
è perciò il risultato, per sottrazione, di un confronto continuo tra la mia
immagine dell’orizzonte e quella che ciascun altro soggetto mi rimanda. Il
mondo è il residuo di un ‘nonostante’ differenziale e l’apertura dell’oggetto
è sempre e comunque qualcosa che si predispone allo sguardo unico e irriducibile
di un soggetto concreto. La differenza sarà perciò qualcosa allo
stesso tempo di necessario e di imponderabile.
Più assenza che effettiva presenza, l’altro è una distanza che nella sua
stessa essenza spalanca allo sguardo della coscienza soggettiva un abisso
invalicabile di estraneità, poiché “io non ho nessun mezzo per sapere che le
altre persone hanno delle sensazioni o sentimenti in qualche modo simili ai
miei. Io non posso neppure dire che essi intendano la stessa cosa che intendo
io quando usano una parola per riferirsi a una cosa fisica, poiché le percezioni
che essi hanno avuto al fine di stabilire l’esistenza di quegli oggetti
possono essere completamente differenti da quelle che ho avuto io stesso”. 124
In questo senso, quel ‘sembrare’ (ί) che esprime la funzione elementare
del rap-presentare non può che essere ricondotto a una essenziale
forza soggettiva di deformazione dell’immagine, nell’esatta misura in cui la
costituzione della cosa è una costituzione d’immagine che non può prescindere
dalle originarie direttive di senso che ogni rappresentante ha già messo
in atto. Di conseguenza non si può parlare di un lasciar-essere cui il soggetto
si abbandoni in una condizione di comoda passività e l’oggetto non è una
projezione neutra, ma qualcosa che è costantemente attraversato dalle correnti
deformanti della coscienza, dalla sua dirompente azione sintetica
(ό in senso lato), azione che è pur sempre orientata e condizionata da
una serie massiccia e incalcolabile di residui, limiti e derive (memorie, condizione,
età, emotività, posizione, linguaggio, abitudine…). In altri termini,
se l’essere della cosa (in quanto rap-presentata) è un ί, allora
l’identità dell’Oggetto non può esistere: l’oggetto infatti non si dà con la
semplicità di una consegna, ma viene costantemente costituito e compromesso
secondo molteplici direttive sintetiche di forza.
124
A.J. Ayer, The Problem of Knowledge, citato in: Mourelatos, Gorgias on the Function....,
p. 626.
106
Ogni soggetto è un punto di vista differente, una differente apertura di
prospettiva che destina il ί della cosa ad un angolo visuale inevitabilmente
particolare e la cui percezione impone di continuo scorci prospettici
che non possono mai essere coincidenti con quelli altrui – in caso contrario,
i soggetti percipienti non sarebbero una molteplicità distinta e distinguibile,
ma in tutto e per tutto coincidenti (anche dal punto di vista della
spazialità) e idealmente convergenti in uno. Perciò Gorgia dice che per ottenere
più rappresentazioni dello stesso essi dovrebbero essere ἐ ῷ ὐῷ,
cioè nella medesima situazione complessiva, vale a dire nello stesso luogo e
nello stesso tempo – ma in tal caso (ἰ ὰ ἐ ῷ ὐῷ) non sarebbero più
una pluralità, bensì senz’altro un medesimo ed unico soggetto rappresentante
(ἷ ἂ ἀ’ὐ ύ ἶ). In conclusione, se esistono più soggetti, allora
esistono anche, ipso facto, più aperture prospettiche sulla cosa e la cosa è
ogni volta ciò che appare in una determinata e particolare apertura prospettica,
non assimilabile da altri e solo idealmente convergente nella coincidenza
di uno Sguardo assoluto sul Medesimo. In quanto contenuto di e per
una coscienza, quindi, il noema è in sé una distanza 125 e, in quanto risultato
sintetico della costituzione del έ, cioè in quanto particolare disponibilità
di un manifestare (ί), esso è per sua natura un ά e la
sua forma concreta una deformazione (ἴ) che non può mai prescindere
da un’occasione e da una posizione, e che solo esigenzialmente può
venire pensata come qualcosa che risponda all’identità intersoggettiva di un
ἶ unitario. 126
125
Il rimando più naturale è al pensiero di J-P. Sartre, per il quale “la coscienza è in primo
luogo, in quanto coscienza irriflessa o non posizionale di sé, distanza, ma una distanza di
natura particolare, difficile da pensare, giacché non sopravviene a nulla, non si aggiunge a un
qualcosa di già dato, non qualifica come differenza specifica una res. Distanza as-soluta,
dunque, che non presuppone nulla prima di lei, e che, accadendo, fonda la possibilità di una
relazione, di una coincidenza a distanza con qualcosa che non è lei e che, tuttavia, è solo per
lei” (Rocco Ronchi, Il bergsonismo di Sartre, p. 2).
Lo stesso concetto è stato bene espresso anche da B. Pasternak, che ne metteva in risalto
l’aspetto devastante nel momento in cui la coscienza stessa pretende di essere oggetto per se
medesima: “Ma che cos’è la coscienza? (…). Desiderare coscientemente di dormire è
insonnia garantita, tentare coscientemente di avvertire il lavorio della propria digestione è
esattamente voler perturbare la sua innervazione. La coscienza è un veleno, un mezzo di auto
avvelenamento per il soggetto che la applica su se stesso. La coscienza è luce, projettata al
di fuori e che illumina la strada davanti a noi, perché non si inciampi. La coscienza sono i
fari accesi davanti a una locomotiva che corre. Rivolgete la loro luce all’interno e succederà
una catastrofe” (Il dottor Zivago, p. 60).
126
Perciò la Visione ideale può avvenire per Platone solo nella dimensione meta-fisica di
un Iperuranio che non ha spazio. Solo qui, infatti, la visione sarebbe una autentica intellezione
del Vero (ί), cioè una apprensione che coglie la posizione totalmente astratta e
immutabile della Cosa in quanto essa è qualcosa di incorporeo che resta così saldamente posto
(ί) da non potersi spostare e si rende così disponibile a farsi Tema (έ) della riflessione
che non vaga e non può neppure, pertanto, ‘errare’.
107
Alla questione che chiede se una presupposizione d’identità dell’Oggetto
implichi anche una identità della sua immagine in più soggetti rappresentanti
si dovrà pertanto rispondere che, se pure si ammetta un ὐό di partenza
della cosa, la sua apparizione nell’orizzonte di coscienza di ciascuno sarà
pur sempre condizionata dai particolari strumenti di manifestatività del singolo
e che il senso della cosa si costruirà quindi secondo una differenza essenziale
delle coordinate o direttive di forza costituenti, le quali daranno anche
luogo ad oggetti altrettanto ‘differenti’ – o meglio, a differenti immagini
dell’oggetto (per quanto ‘simili’ e finanche presupposte a partire da un identico).
Anche qualora si sia disposti a concedere che due o più soggetti abbiano
rappresentazioni dello stesso, essi non possono però averne la stessa
rappresentazione – poiché la costituzione in forma di ciò che appare resta
per ognuno un atto differente, allora l’oggetto (che non è nulla al di là della
sua apparizione nell’immediatezza di uno ἐῖ soggettivo) sarà, di volta
in volta e per ciascuno, qualcosa di ‘proprio’ e stricto sensu ‘diverso’ da
quello altrui.
Con questo si è pienamente esaurito il compito dell’argomentazione, a
proposito della quale deve peraltro essere sottolineato il fatto che, nonostante
conduca ad un approdo in ultima istanza solipsistico (dal momento che ogni
rappresentazione finisce per restare relegata nell’orizzonte di coscienza del
singolo, senza la possibilità di un rifugio nell’accogliente identità di un oggetto
comune), essa implichi comunque anche una dimensione decisamente
intersoggettiva: se infatti la differenza consegna l’oggetto alle correnti deformanti
della soggettività particolare, operando in tal modo una specie di
annullamento dell’autonomia e finanche della consistenza di ‘realtà’ degli
altri soggetti, è pur sempre vero che il fondamento della dimostrazione è
ancorato proprio sulla presupposizione di una differenza tra pluralità di soggetti,
presupposizione nella quale colui che è altro-da-me è stato fatto ricadere
nella medesima pregiudiziale di sostanzialità della semplice presenza
mondana che è sin dal principio tipica dell’oggetto. In poche parole, la struttura
essenzialmente ‘intersoggettiva’ della dimostrazione poggia sul fatto
che anche l’altro è sin dal principio pensato come un oggetto e necessariamente
presupposto, nella propria datità, accanto ed insieme alle cose del
‘mondo’ e che a sua volta “il mondo [fenomenologicamente inteso] non è
essere puro, ma il senso che traspare all’intersezione delle mie esperienze e
all’intersezione delle mie esperienze e di quelle altrui, grazie all’innestarsi
delle une sulle altre: esso è quindi inseparabile della soggettività e dall’intersoggettività,
le quali realizzano la loro unità mediante la ripresa delle mie
esperienze passate nelle mie esperienze presenti, dell’esperienza altrui nella
A questo proposito si veda anche quanto da noi scritto nel capitolo intitolato “Variazioni
prospettiche”, in: Nietzsche e il naufragio della verità, p. 431-453.
108
mia”. 127 E tuttavia va rilevato anche come il § [24], pur essendo dal punto
di vista tecnico una amplificazione dell’argomento intersoggettivo (dal momento
che la molteplicità dei soggetti costituisce, in esso, il principio della
dimostrazione), sia allo stesso tempo anche un perfetto trait d’union che prepara
nella maniera più adeguata il passaggio all’argomento (questo – davvero
– autenticamente intrasoggettivo) che sarà svolto dal successivo § [25]:
ί ὲ ὐ’ὑὸ ὑῷ ὅ ἰό ἐ ῷ ὐῷ όῳ
ἀ’ἕ ῇ ἀῇ ὶ ῇ ὄ ὶ ῦ ὶ ά ό ὥ
ῇ ἄῳ ’ἂ ὐὸ ἴό
“Sembra peraltro che neppure lo stesso soggetto percepisca di per sé le medesime
sensazioni nello stesso tempo, ma sensazioni diverse attraverso l’udito e la
vista e diversamente anche nel presente rispetto al passato. Cosicché difficilmente
qualcuno potrebbe percepire le medesime cose di un altro”.
Nella sua impostazione generale, questo argomento si presenta innanzitutto
come la versione per assurdo dell’ipotesi solipsistica (“se pure esistesse un
solo soggetto…”), ipotesi che la chiusura del paragrafo precedente aveva
adombrato in controluce col ridurre l’altro ad una rappresentazione pregiudiziale
che veniva posta sullo stesso piano delle apparizioni mondane e come
esse sottoposta al processo disgregante e irrealizzante della deformazione
dell’immagine. Se lì la perdita d’identità della cosa trascinava implicitamente
anche tutte le altre soggettività all’interno del mio orizzonte rappresentativo
(momento intersoggettivo), con coerenza Gorgia concentra ora il
raggio d’azione della critica sul soggetto stesso (momento intrasoggettivo).
Esaminando più da vicino questo momento dialettico, il cui svolgimento
appare estremamente conciso e violentemente condensato, vediamo come
esso sia a sua volta suddiviso in tre parti, e più precisamente in due argomentazioni
distinte ed una conclusione di carattere ricapitolativo.
La prima argomentazione afferma che neppure lo stesso soggetto
(ὑὸ) percepisce in atto (ἰό), da sé e per sé (ὑῷ), immagini
simili (ὅ) nello stesso tempo (ἐ ῷ ὐῷ όῳ), bensì che egli
ha in ogni istante una immediata disponibilità di immagini diverse (ἕ),
la cui differenza è stabilita in relazione alla particolare modalità di apertura
della datità (vista, ὄ oppure udito, ἀῇ etc.). Il senso di questa objezione
è che se persino in riferimento allo stesso soggetto la cosa rimanda
solo a una pluralità di differenze (colori, suoni, odori, sensazioni tattili, sapori..)
e queste differenze sono per natura incomparabili e per essenza distinte,
allora una collezione di differenze non potrà mai essere il segno di
una identità; solo nel caso in cui fossimo in presenza di immagini identiche
(o per lo meno simili) potremmo, da esse, risalire coerentemente ad un
127
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 29.
109
medesimo referente oggettivo, di cui sarebbero immagini; ma se al contrario
vi è contraddizione logica tra identità (ὅ) e differenza (ἕ), allora
la differenza non potrà predicarsi dell’identità, né l’identità della differenza,
così come il non-essere non può predicarsi realmente (cioè non in relazione
all’essenza, ma solo per analogia) dell’essere e viceversa. Immagini che non
siano identiche non possono essere immagini dello stesso. Questo non significa
certo che non sia possibile una ricomposizione delle singole immagini
sensoriali in un’immagine superiore e sintetica della cosa, assunta come
sostrato o ‘schema’, cui esse si riferiscono ed in cui siano in qualche modo
comprese, ma che l’unità di tale ricognizione a posteriori, essendo composta
di parti auto-nome (ognuna delle quali fa legge a sé), non ha in se stessa
alcuna garanzia di oggettività. In maniera elegante, Gorgia è ritornato al
principio della differenza categoriale: se ogni senso ha un accesso proprio
all’oggetto, non esiste un oggetto assoluto (ab-solutum) cui commisurare i
differenti dati sensibili e su cui potrebbe fondarsi la verità del linguaggio,
poiché a questo presunto assoluto non esiste accesso. La sintesi trascendentale
della cosa, quindi, rimanda solo all’attività del έ soggettivo e non
può mai essere verificata da un autentico confronto con l’oggetto, poiché
questo rimanderebbe sempre e comunque ad una serie irrelata di datità immediate
e incommensurabili.
Giunto a questo punto, dopo avere assicurato l’unità dell’Oggetto alla
sola azione sintetica della soggettività, Gorgia vi si accanisce in senso destabilizzante
e la seconda argomentazione chiarisce in un lampo che anche per
uno stesso soggetto questi diversi contenuti di coscienza (ἕ) sono qualcosa
che si offre in maniera differente (ό) nel presente e nel passato
(ῦ ὶ ά), cioè in differenti porzioni e momenti del decorso temporale.
È un fatto innegabile che in momenti diversi si possano avere differenti
e perfino contrastanti immagini dello ‘stesso’ oggetto, le quali variano
quindi non solo a seconda della posizione del percipiente nello spazio, ma
anche della sua contingente presenza nel tempo: quanto ci appare grande da
bambini ci sembrerà piccolo da adulti, ciò che è desiderabile dal ragazzo gli
sarà indifferente in vecchiaia, la bevanda che è amara per il malato sarà dolce
quando la sua salute si sia ristabilita, il luogo familiare in cui abbiamo comodamente
abitato potrà apparire angusto e minaccioso in un momento di
depressione, il cibo appetitoso si trasformerà in qualcosa di nauseante se chi
lo mangi sia già sazio, per non parlare della fatale distorsione che l’immagine
della cosa subisce nelle ripresentificazioni della memoria e nelle combinazioni
della fantasia, facoltà cui l’oggetto è consegnato per tutto il tempo
(straordinariamente preponderante) della sua assenza e ad opera delle quali
esso subisce continue mutazioni e viene costantemente variato e finanche
stravolto, rispetto alla propria forma originaria di offerta (il volto che ho visto
ieri comincia già a perdere di lucidità e nitidezza ed i suoi tratti a sfumare,
110
tanto che tra un mese l’immagine ricordata e fantasticata potrà non mantenere
quasi alcuna affinità con quella realmente percepita, e in questa nuova
veste condizionare pesantemente anche ogni nuova e diretta percezione futura).
Mentre il momento intersoggettivo dell’argomento ruotava intorno alla
sincronicità dei contenuti di coscienza, supposta in una molteplicità di soggetti
contemporanei rispetto alla datità della Cosa, questo secondo momento,
intrasoggettivo, si sviluppa invece in senso diacronico – entrambi però concludono
alla impossibilità teorica di salvare l’identità dell’Oggetto, visto che
essa non può saldarsi neppure su un’affidabile identità del Soggetto. Ma se
le cose stanno così, allora “ogni percezione di ogni singola cosa in ogni singola
occasione è – a rigore di termini – incorreggibile: non può mai essere
corretta dal confronto con una differente percezione avuta da qualcun altro,
né da una percezione provata da me in un altro momento, anche se successivo
di un solo istante al mio primo atto percettivo”. 128 Infine, il § [25]
compie una chiusura perfetta dell’intero cerchio argomentativo, ripiegando
nichilisticamente sulla originaria pregiudiziale di realtà degli ‘altri’ e concludendo
che, dal momento che sfugge persino l’identità del soggetto con se
medesimo, “difficilmente qualcuno potrebbe percepire le medesime cose di
un altro”.
Gorgia ha così svuotato di valore ogni ipotesi di convalida che il confronto
intersoggettivo possa pretendere di avanzare nella determinazione di
verità della cosa. L’oggetto si è completamente dissolto nella evanescenza
della sua immagine e a partire da qui si comprende la necessità strategica di
questa sezione critica all’interno dell’orizzonte generale della Terza tesi, incentrata
sull’idea della incomunicabilità: se infatti è vero che il testo
dell’Anonimo articola la tesi in due parti concettualmente distinte (argomento
della differenza categoriale ed argomento delle identità impossibili),
di cui “la prima dimostra l’eterogeneità del ό rispetto al reale, la seconda
la relatività individuale e quindi incomunicabile di ogni conoscenza”,
129 è proprio sulla questione dell’immagine che si opera la saldatura
tra i due momenti, nella misura in cui lo strumento della comunicazione, il
linguaggio, dispiega la sua azione di manifestatività solo attraverso quel presupposto
di evocazione d’immagine che viene riconosciuto alla parola in
quanto suono significante. Ma poiché l’immagine si con-figura, nella propria
essenza, come prospettiva e scorcio, cioè come una distanza che non è
possibile colmare e che rappresenta la struttura di apparizione della cosa
stessa e la sua concreta datità immediata (e non, invece, un ostacolo o un
limite virtualmente azzerabile), è evidente allora che ogni tipo di evocazione
128
G.B. Kerferd, I sofisti, p.114-115.
129
G. Calogero, Studi sull’Eleatismo, p. 209.
111
dell’immagine non potrà essere che l’evocazione di una distanza, a sua volta
apparente nella distanza. La comunicazione quindi non può che essere scorcio
di uno scorcio e, rispetto all’ideale della Forma (ἶ) immobilizzata
nella presa incondizionata di uno sguardo assoluto (ἐή), deformazione
di una deformazione. 130
130
Nel Cratilo Platone tenterà disperatamente di sfuggire alla connessione deformante
tra il nome e l’immagine, cercando invece di suggerire per il linguaggio un ancoraggio alla
rimandatività unilaterale e salda del segno: “La giustificatissima domanda che chiede se la
parola sia soltanto ‘puro segno’ o abbia invece in sé qualcosa dell’‘immagine’ viene fondamentalmente
screditata nel Cratilo. In quanto in esso viene ridotta all’assurdo l’idea che la
parola sia immagine sembra che la conclusione sia che essa è segno. Questo, anche se non
con una specifica accentuazione, emerge come risultato dalla discussione negativa del Cratilo,
ed è confermato dal rimando della conoscenza alla sfera intelligibile, di modo che da
allora in poi in tutta la riflessione sul linguaggio il concetto di immagine (eikōn) viene sostituito
da quello di segno (sēmeion ovvero sēmainon). Non si tratta solo di una questione terminologica;
in essa si esprime invece una decisione sul modo di pensare l’essenza del linguaggio
che ha fatto epoca. Dire che il vero essere delle cose deve essere indagato ‘senza i
nomi’ significa appunto che nell’essere delle parole come tali non c’è nessun accesso alla
verità, anche se ogni ricercare, domandare, rispondere, insegnare e distinguere non può naturalmente
fare a meno del mezzo della lingua. Ciò significa che il pensiero rimuove da sé il
vero essere delle parole, le assume come puri segni attraverso cui ciò che è indicato, il contenuto
del pensiero, la cosa viene resa manifesta e visibile; di conseguenza la parola viene
ad assumere una posizione del tutto secondaria rispetto alla cosa. Diventa puro mezzo di
comunicazione (ekpherein) e proferimento (logos prophorikos) del pensato nel mezzo sonoro
della voce” (H-G. Gadamer, Verità e Metodo, p. 845).
La differenza tra la parola in quanto segno e il suo significato è invece costantemente
mediata nell’ideale rappresentativo del linguaggio, cioè laddove la parola sia stata assunta
come una immagine della cosa: “l’immagine implica anch’essa una contraddizione tra l’essere
e il significato, ma in modo da superare in sé tale contraddizione, appunto in virtù della
somiglianza che contiene. Essa non trae la sua funzione di rimando e di rappresentazione dal
soggetto che l’assume come segno, ma dal suo proprio contenuto. Non è un puro segno. In
essa è rappresentato l’originale stesso come tale, reso presente in modo permanente. Appunto
per questo l’immagine si può valutare in base alla sua rassomiglianza, cioè in base alla misura
in cui fa essere presente in sé ciò che non è presente” (ivi, p. 843). Per Platone andare oltre
l’ideale mimetico del linguaggio significa in realtà andare oltre il fenomeno come forma estetica
dell’immagine. Pertanto si può affermare che “la critica della giustezza dei nomi condotta
nel Cratilo rappresentà perciò già il primo passo in una direzione al termine della quale
sta la moderna teoria strumentale del linguaggio e l’ideale di un sistema simbolico della ragione.
Costretto nell’alternativa tra immagine e segno, l’essere del linguaggio non poteva
che finire appiattito al livello di puro segno” (ivi, p. 853).
Con questa manovra, però, per Gadamer “è evidente che Platone indietreggia di fronte al
problema dell’effettivo rapporto tra parola e cosa” e “si deve dunque dire che, in conclusione,
la scoperta platonica delle idee nasconde l’essenza vera del linguaggio ancor più fondamentalmente
di quanto non avessero fatto i sofisti, che avevano sviluppato la loro specifica arte
(technē) proprio come uso e abuso del linguaggio” (ivi, p. 831-833).
Lo sforzo di astrazione platonico cozza contro l’essenza stessa del linguaggio (e della
mondità [mondanità] in genere) come, sempre Gadamer, fa rilevare in una pagina che giova
riportare per intero:
112
Detto nei termini dello Pseudo-Aristotele, dalla parola resterà per sempre
esclusa l’ἀή del detto, se con questa si intende l’origine dell’immagine,
cui la rappresentazione è consegnata nella propria finitezza così come la rappresentazione
del colore è consegnata al colore e la rappresentazione del
suono è consegnata al suono. Ma se davvero la coscienza, in quanto coscienza-di,
è sempre consegnata a ‘qualcosa’ (donde il presupposto di sussistenza
del ‘mondo’), essa è però consegnata ad un vuoto significativo che
nessuna manovra ulteriore potrà riempire, ad una divaricazione che nessuna
logica sarà in grado di ricomporre. È questo in fondo che Gorgia tentava di
esprimere già nel decisivo § [23]:
ἰ ὲ ὶ ἐέ ώ ὶ ἃ ἂ ώῃ έ ἀὰ
ῶ ὁ ἀύ ὸ ὐὸ ἐή ὐ ὰ ἷό ὐὸ ἅ ἐ ί
ὶ ὶ ὖ ἶ˙ ύ ὰ ἂ ἴ ὸ ἕ
“E se anche fosse permesso di conoscere e di dire ciò che si conosca, tuttavia
come potrebbe rappresentarsi il medesimo colui che ascolta? Infatti non può
essere, quel medesimo stesso, contemporaneamente in più essenze separate; in
tal modo infatti l’uno sarebbe due”.
Se con ‘il medesimo’ si intende l’Immagine Originaria, cioè la rappresentazione
della cosa nella propria svelatezza, la forma che elude ogni
“Mi pare che in questo modo [scil.: intendendo la parola come puro segno] ci si muova
di fatto in una direzione che conduce a dimenticare la vera essenza del linguaggio. Il linguaggio
è così strettamente legato al pensiero che è una pura astrazione immaginarsi il sistema
della verità come un sistema di possibilità tutto dispiegato, a cui dovrebbero essere
conformati i segni che poi il soggetto impiegherebbe per cogliere la realtà. La parola del
linguaggio non è un segno a cui si fa ricorso in vista di un certo uso, ma neanche un segno
che si fa o che si dà a qualcuno, non è una cosa esistente che si prenda dal mondo esterno per
caricarla dell’idealità del significato, per render in tal modo visibile qualche cosa d’altro.
Entrambe queste prospettive sono false. L’idealità del significato risiede invece nella parola
stessa. La parola è già sempre significato. Ma d’altra parte questo non significa che la parola
esista indipendentemente da qualsiasi esperienza delle cose e che si aggiunga dall’esterno
all’esperienza come qualcosa che viene a subordinarlesi. Non si può pensare che l’esperienza
sia dapprima senza parole, e che attraverso l’atto della denominazione diventi in un secondo
tempo oggetto di riflessione, come se fosse sussunta sotto l’universalità della parola. È invece
costitutivo dell’esperienza stessa cercare e trovare le parole che sappiano esprimerla. Si cerca
la parola giusta, cioè la parola che è appropriata veramente alla cosa, di modo che in essa la
cosa stessa si esprima. Anche se escludiamo esplicitamente che ciò indichi un semplice rapporto
di riproduzione imitativa, resta vero che la parola ‘appartiene’ in qualche modo alla
cosa stessa, e non è qualcosa come un segno accidentale legato esteriormente con la cosa.
L’analisi aristotelica (…) della costruzione dei concetti mediante l’induzione offre una diretta
testimonianza di ciò. È vero che Aristotele non mette esplicitamente in rapporto la costruzione
dei concetti con la costruzione delle parole e con l’apprendimento della lingua, ma
Temistio, nella sua parafrasi [scil.: degli Analitici Posteriori] la illustra senz’altro con l’esempio
dell’apprendimento della lingua da parte dei bambini: tanto stretto è il legame del logos
con il linguaggio” (ivi, p. 851).
113
deformazione soggettiva e contingente, allora una ricomposizione della pluralità
delle immagini in un unico ἶ sarà un risultato logicamente impossibile,
dal momento che esso pone come premessa necessaria una identità di
unità e molteplicità (ύ ὰ ἂ ἴ ὸ ἕ) che si pone in esplicita violazione
proprio di quel principio di contraddizione su cui si fonda viceversa
l’efficacia complessiva della logica stessa. Poiché l’annullamento della prospettiva
significherebbe l’annullamento della apertura stessa alla cosa, l’oggetto
è per sua natura qualcosa che si offre come sfuggevole e che si mette
a disposizione solo a distanza.
L’affermazione per cui Gorgia avrebbe così dimostrato che “non sono
possibili né un linguaggio privato né un linguaggio pubblico” 131 ha quindi
senso solo ove venga posta in relazione diretta con il presupposto di semplice
presenza del ‘mondo’ da una parte e l’ideale della cor-rispondenza del
έ alla ‘realtà’ dall’altra. In verità, l’ideale della ‘adeguazione’ distrugge
l’essenza stessa del ό in quanto atto sintetico originario che apre
la cosa secondo la configurazione di una immagine, nell’apparenza della
quale si mette a disposizione e si inaugura l’orizzonte di possibilità del suo
senso. In quest’ottica il malinteso del conoscere (e della comunicazione
come evocazione del Medesimo) si fonda sulla presupposizione di una purezza
del vedere (la ί come ἐή, appropriazione di un oggetto
riposante nella piena luminosità del rap-presentare) che sin dal principio si
scontra senza possibilità di pacificazione con la perenne datità di fatto di una
insopprimibile opacità dell’immagine. 132 A partire da questo fondo di
131
A.P.D. Mourelatos, Gorgias and the Function of Language, p. 624.
In generale Mourelatos vede nella terza tesi di Gorgia lo svolgimento di una affascinante
serie di ‘rompicapo’ logici, ma è a nostro avviso più che discutibile la conclusione per cui
solo l’Encomio di Elena, intendendo il significato linguistico in un senso strettamente comportamentista,
fornirebbe la soluzione positiva della questione.
132
In uno dei passaggi più significativi de La trascendenza dell’Ego, Sartre ha parlato di
questo stesso malinteso della purezza criticando, dal punto di vista della sintesi soggettiva,
l’illusione husserliana dell’Io trascendentale: “Si crede, di solito, che l’esistenza di un Io
trascendentale si giustifichi con il bisogno di unità e di individualità della coscienza (...). Ora,
è certo che la fenomenologia non ha bisogno di ricorrere a questo Io unificatore e individualizzante.
La coscienza si definisce infatti attraverso l’intenzionalità. Grazie all’intenzionalità
essa si trascende, si unifica sfuggendo a sé stessa (...), l’Io non può essere, evidentemente,
che una espressione (e non una condizione) di questa incomunicabilità e di questa interiorità
delle coscienze. Possiamo quindi rispondere senza esitazione alcuna: la concezione fenomenologica
della coscienza rende il ruolo unificante e individualizzante dell’Io totalmente inutile
(...). L’Io trascendentale non ha perciò ragione d’essere. Questo Io superfluo è, inoltre,
anche nocivo. Se esistesse, strapperebbe la coscienza a se stessa, la dividerebbe, penetrerebbe
in ogni coscienza come una lamina opaca. L’Io trascendentale è la morte della coscienza”.
L’Io non può che essere quello che Sartre chiama, metaforicamente, un centro di opacità:
“Chiediamoci allora: c’è posto per un Io in una siffatta coscienza? La risposta è chiara:
evidentemente no. Infatti questo Io non è né l’oggetto (perché è interiore per definizione) e
nemmeno coscienza, dato che esso è qualcosa per la coscienza, non una qualità traslucida
114