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1 Palin Reazione

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 1


Indice

8

9

14

20

22

#Editoriale

Palin: la reazione del

sommerso

#Area

Pasolini

#Ritratti:

Pier Paolo Pasolini

4

6

Le nuove voci: la reazione di

Igiaba Scego

Storie di rifiuti e reazioni

Iliade, Orgoglio e pregiudizio,

Il barone rampante.

#PalinParlaCon:

Librerie ‘reazionarie’ e dove

trovarle.

Intervista a Giorgio

Santangelo, co-fondatore

della libreria indipendente

«La confraternita dell’uva» di

Bologna

Reagire all’inevitabile:

Demostene, voce di un ribelle

o di un illuso?

28

29

33

39

43

#Area

Heisenberg26

#Ritratti:

Werner Karl Heisenberg

Reazione all’umano. Anche

le macchine provano

sentimenti?

#PalinParlaCon:

Scienza, ricerca e territorio:

un rapporto di reazione.

Intervista a Raffaele

Agostino, docente di Fisica

dell’Università della Calabria

5g, radiazioni e reazioni

sull’uomo.

Una reazione ci salverà

#Bootleg

48

Il signor G, Giorgio Gaber

e il teatro canzone. eazione

all’umano. Quando ‘canzone’

fa rima con ‘reazione’

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57

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72

76

#Area

54

Warhol

#Ritratti:

Andy Warhol

La rosa reazionaria: Gulabi

Gang e Nishtha Jain

#PalinVisita:

La Galleria de’ Foscherari

#PalinParlaCon:

Quando l’arte reagisce alla

pandemia.

Intervista a Lorenzo Balbi,

direttore del MAMbo – Museo

di Arte Moderna di Bologna

Reazione come nuova

definizione artistica dell’essere

e dell’agire

Pubblica reazione artistica

Dissenso e provocazione.

La strategia reazionaria del

“purché (non) se ne parli

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89

94

#Area

78

Gramsci

#Ritratti:

Antonio Gramsci

Reagire dal basso. Il potenziale

dei piccoli borghi e la lezione

di Riace

#PalinParlaCon:

Continuare a muoversi per

ottenere il diritto di restare

fermi. Palin parla con Andrea

Costa di Baobab Experience

Quando un fruttivendolo ha

cambiato il mondo. La storia di

Mohamed Bouazizi

Minoranze: le conseguenze

del non appartenere

#Progetto

100

Grafico

Gabriele Conte

2 



3



Palin:

reazióne s. f. [der. di reagire, secondo il modello del rapporto agire-azione].

– Azione che si oppone ad altra azione. Da questo sign. centrale e generale si articolano i varî sign.

che la parola assume nell’uso comune e come termine di molte scienze e tecniche.

1. Nell’uso comune: a. L’atto o il comportamento con cui si reagisce, si risponde a un’offesa, a una

violenza, a cosa che si ritiene non giusta

La reazione dei nostri tempi è qualcosa di

difficile da definire. Negli ultimi mesi l’impressione

generale sembra quella di non aver un

punto preciso di direzione, come quando si

entra in galleria; o quando si è disperatamente

alla ricerca di qualcosa e pur scavando non

si va mai oltre uno spesso strato di superfici.

Ma siamo anche all’interno di una strana

congiuntura storica, la quale vede il termine

Reazione porsi come una categoria su cui

è urgente riflettere. Il soggetto riposizionato

dei nostri tempi produce una ridistribuzione

in senso più democratico della stessa possibilità

di esprimersi e parlare.

‘To speak’, in questo senso, vuol dire ‘agire’ in

uno spazio di segni sociali riconosciuti e riconoscibili

(oltre che interpretabili). Assistiamo,

d’altra parte, a una collocazione incerta che

origina un sentimento di perenne sospensione,

identità ambigue e multiple, propense

allo straniamento sociale e alla lontananza

dagli incidenti quotidiani, che ribadiscono

nella condizione di ‘straniero’ un’ineluttabile

colpevolezza, anche in chi appare perfettamente

integrato.

Illustrazione di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_

Scritto da Massimo Salvati

La reazione del sommerso

È nelle pieghe e nei grumi della Storia, che

possiamo trovare tutte quelle micro-storie

(con la s minuscola e che unite formano la

vera Storia) i cui echi e rimandi riescono a restituire

esempi di reazioni e rifiuti, ribelli portatori

di un riesame storico dei propri modelli,

per migliorarli.

A questo proposito, sull’emersione di nuove

voci, portatrici di un riesame storico-culturale,

pronte a sfidare le coordinate delle topologie

affermate, Derobertis [1] ha scritto che più

che parlare di una rimozione del passato, si

dovrebbe intendere l’argomento come una

«forma di disseminazione ignorata ma capillare

di ricordi privati e di memorie di singoli

gruppi che non hanno avuto accesso o voce

nel discorso pubblico», la quale è altamente

pervasiva nella storia coloniale e post-coniale

italiana ad esempio.

Con tutta probabilità la Reazione che abbiamo

davanti, scoglio o iceberg il cui semplice

tocco potrebbe affondare la nostra nave, o

meglio barcone, di certezze, si configura come

qualcosa di difficile e poco semplificabile. La

stessa comprensione del nostro presente, e

l’eterogeneità costitutiva che lo caratterizza,

sono stati passaggi cruciali e che abbiamo

tentato di cogliere.

Analizzando le parti sociali chiamate a prendere

coscienza delle nuove possibilità di

esprimersi, noi di Palin ci siamo interrogati

sulle opportunità inedite di esprimersi del

subalterno, le sembrano possibilità oggi non

troppo lontane dal realizzarsi.

Perciò, noi di Palin, con le nostre microvisioni

del reale, abbiamo cercato di cercare, studiare,

analizzare le varie possibilità di reazione, rifiuto,

cambiamento che l’attuale congiuntura storica

sembra suggerire. Quel processo di livellamento

preconizzato all’inizio degli anni

Duemila, non si è concluso nella costrizione

di uno spazio planetario ‘liscio’. Al contrario,

esso si configura come un insieme di processi

complessi e contradditori, in cui la riorganizzazione

del mercato mondiale come ambito di

riferimento delle operazioni fondamentali del

capitale è costretta a misurarsi con molteplici

resistenze e attriti, i quali danno luogo a una

profonda eterogeneità di formazioni spaziali,

economiche, politiche, sociali e culturali.

Un insieme di temi trasversali: la crisi della

forma moderna di stato a fronte dei processi

globali contemporanei, le tensioni a cui

vengono sottoposti concetti politici fondamentali

(per esempio quello di cittadinanza),

il rilievo costitutivo dei movimenti migratori

e più in generale delle pratiche di mobilità

per il mondo in cui viviamo, l’esigenza di

ripensare la categoria di ‘forza lavoro’ ( e il

problema della sua ‘produzione’), lo spiazzamento

dello sguardo rispetto alla centralità

indiscussa dell’Europa e dell’Occidente,

la nostra stessa capacità di percepire uno

spazio aggregativo di contro all’emergenza

sanitaria.

Questi e altri temi sono indagati da Palin con

un metodo che punta a far emergere le formidabili

tensioni che segnano l’attuale congiuntura

storica a livello mondiale, puntando

sulle inedite risposte delle resistenze, delle

reazioni e delle tensioni locali, come capaci

di rimettere in gioco lo schematismo immobile

dei nostri tempi.

Note:

[1] Derobertis, Roberto (a cura di), Fuori centro, Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana,

Aracne, Roma, pp. 57-71.

4 Palin: La reazione del sommerso

Palin: La reazione del sommerso

5



Illustrazione di Antonio Cammareri, @_elenamuti_

Palin incontra Pasolini, che usa la

letteratura per raccontare la realtà.

Con lui Palin scopre che il mondo là fuori

è fatto di parole, storie e racconti, capaci

di creare nuovi universi.

Quest’area tratta quindi di Letteratura

e realtà, cercando di indagare il mondo

letterario nella sua più ampia accezione,

attraversando modernità e antichità,

linguistica e letterature straniere, senza

porsi limiti nelle sue esplorazioni.

Per amare la cultura occorre una forte vitalità.

Perché la cultura è un possesso: e niente necessita di una più

accanita e matta energia che il desiderio di possesso.

Pier Paolo Pasolini

Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_

Illustrazioni di: Roberto Stefanelli, @bertorex



#Area Pasolini

Pier Paolo

Pasolini

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»

(Sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo)

L’espressione è pronunciata da Cremete, personaggio di una commedia latina di Terenzio, ma

è Pasolini che sembra proferirla.

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922

– Roma, 2 novembre 1975) è scrittore, poeta,

giornalista, drammaturgo, filosofo, traduttore,

saggista, critico ma soprattutto altro:

uno e plurimo al tempo stesso, uomo a sé

e intellettuale versatile e “alieno”. In una

società che ama dettare canoni di omologazione,

Pasolini si interroga sulle motivazioni

e sulle conseguenze, imponendosi di

andare controcorrente e captare tutte le

sfaccettature più intime dell’umana natura,

i vizi e le virtù, l’intelletto e la forza, l’indole e

le debolezze, le luci e le ombre. Come forse

nessun altro prima, Pasolini sembra quasi

essere un “profeta culturale” e al contempo

possessore dell’enorme capacità di veicolarla

a chiunque, scavallando classi sociali

e pregiudizi. Amante della geografia dell’animo

umano, Pasolini è anche un grande

viaggiatore nella realtà, sul doppio binario

tra mondo esterno e mondo interiore,

mettendo in connessione l’uno con l’altro.

Studioso e “attualizzatore” del passato,

riesce a mettere mano a materia letteraria

lontana secoli rendendola viva e pulsante,

specchio di quel continuo teatro unico che

è l’esistenza. L’esistenza, che possiede

e utilizza un suo proprio linguaggio che

lui riplasma e traduce nella sua contemporaneità

e con i suoi nuovi linguaggi.

Un uomo che osserva, analizza e conosce

l’uomo, un intelletto e una sensibilità ai quali

l’umano non può sfuggire e, di conseguenza,

non può essere estraneo.

8

#Ritratti: Pier Paolo Pasolini

Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego 9



Scritto da Massimo Salvati

LE NUOVE VOCI:

La reazione di

Igiaba Scego

Igiaba Scego, attraverso la sua ultima opera, La linea del colore (Bompiani 2020), conferma la necessità

di ripensare delle categorie che oggigiorno suonano sempre più come solchi, o linee divisorie, tra

Noi e l’Altro.

#Area Pasolini

La riscrittura del nostro passato, soprattutto

quello del passato recente, fa parte di un’esigenza

dettata dal riemergere di storie e microstorie

disseminate nella memoria collettiva.

Ne consegue che molte voci di nuova generazione

abbiano ‘preso la parola’, secondo nuove

e inedite possibilità di esprimersi, sulle tracce

di un famoso saggio della filosofa Gayatri

Spivak, Can the subaltern speak? (1988); e

sembrano rievocare un passato a noi sconosciuto,

diverso, quasi ‘sommerso’ della nostra

coscienza storica:

Sono cosa? Sono chi? Sono nera e italiana.

Ma sono anche somala e nera.Allora

sona Afro italiana? Italo africana? Seconda

generazione? Incerta generazione? Meel kale?

Un fastidio? Negra saracena? Sporca negra?

Non è politicamente corretto chiamarla così,

mormora qualcuno dalla regia. Allora come

mi chiameresti tu? Ok, ho capito, tu diresti di

colore. Politicamente corretto, dici. Io lo trovo

umanamente insignificante. Quale colore di

grazia? Nero? O piuttosto marroncino? Cannella

o cioccolato? Caffè? Orzo in tazza piccola? Sono

un crocevia, mi sa. Un ponte, un equilibrista,

una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla

fine, sono solo la mia storia. [1]

La scrittrice Igiaba Scego, con la sua opera,

rimanda alla percezione di un continuo frazionamento

di sé stessa davanti a interlocutori

italiani che misurano ogni micro-segmento

di adesione allo standard italico, o a quello

di provenienza somala, che è emblematica

del proprio consapevole spacco di coscienza,

squarcio verticale, che divide la soggettività

dell’individuo, rilevando come pure esistono,

e coesistono, elementi plurimi che coabitano

l’unicità del soggetto: risorse, immaginari e

linguaggi accompagnano il divenire di identità

mai statiche, le quali, come nella metafora

narrativa di Scego, corrispondono alla

presa di consapevolezza del «sono solo la

mia storia».

Il titolo del libro è, come la stessa Scego definisce,

«un omaggio (e citazione diretta) a

W.E.B Du Bois. La linea del colore è quella

che ancora divide, ma per Lafanu Brown

assume anche un altro significato, è la linea

della sua arte, quella della sua emancipazione».

È un viaggio verso la propria storia

quello che Scego descrive: una narrazione

che si muove a ritroso verso le pieghe del

proprio passato, delle radici della propria

coscienza storica.

Nella sua narrativa, la Scego riflette spesso

sul meticciato, sull’ ibridismo, il cui status,

misto con i ‘confini confusi’, è una condizione

che si iscrive nella medesima identificazione

corporea di fronte allo specchio. La sua opera,

benché sia inizialmente inserita nella letteratura

della migrazione, e soprattutto nelle scritture

della cosiddetta seconda generazione

degli scrittori migranti, dovrebbe invece

essere esaminata alla luce della letteratura

postcoloniale dove la stessa esperienza del

migrante, con le possibilità narrative offerte

dall’avere un ‘punto dal basso’ (Gilroy) diventano

identificative di dinamiche sociali folkloricamente

italiane, le quali sono indice di ulteriori

potenzialità narrative delle ‘nuove voci’:

I nobili romani erano pieni di debiti, ma non

rinunciavano ai loro salamelecchi regali e

a quelle orrende conversazioni sul niente.

Betsabea la portava da quei nobilastri perché

si esercitasse sui volti. «Sono una ben strana

umanità,» le diceva complice. «Hanno facce

da museo. Ti potrai esercitare molto facendo

il tratto a questo circo delle meraviglie». E così

per mesi, che poi erano diventati anni, Lafanu

Brown era stata convocata in quei mastodontici

palazzi, che alla prima occasione erano stati

venduti ai nuovi padroni di Roma, i piemontesi,

per farci stazione e piazze di passaggio. Ma se

i nobili lasciano a desiderare – puzzavano di

porte chiuse e paure ancestrali –, le loro ville

erano invece un autentico splendore. [2]

Notiamo come lo sguardo antropologico sia

ribaltato definitivamente. Il soggetto subalterno

assume la stessa possibilità di parlare,

to speak (Spivak), e di giudicare le pratiche

del mondo circostante. Non in modo ‘selvaggio’

e disarticolato, ma con una critica che è

emblematica di una rovinosa caduta delle

antiche famiglie nobiliari, in virtù dello stesso

cambiamento dei tempi.

La storia delle deportazioni e la storia dello

squarcio verticale della coscienza del ‘Negro’

appartengono a una configurazione storica

in cui lo spazio socio-culturale cosmopolita,

ibrido e decolonizzato, come quello di Scego,

10

Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego

Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego 11



può essere pensato dalle diverse comunità

nere come background culturale comune

su cui ricreare identità culturali e politiche

alternative: è ciò che Gilroy ha indicato nel

concetto di «Atlantico nero» [3] , ossia lo sfondo

su cui si è costruita la black diaspora.

Baby Sue mi ha dato una ciocca dei suoi

capelli. Mi ha detto: «Lanciala nell’acqua. Lì

in quell’oceano tetro come la notte sono state

gettate mia sorella e mia madre. Non so come

sono sopravvissuta a vederle soffrire sotto il

peso di quegli uomini orribili. Non è umano

vedere la propria madre o la propria sorella

umiliata in quel modo. Non le ho viste morire. I

loro corpi sono stati riempiti dall’alito di troppi

uomini, e dopo che si sono divertiti abbastanza

le hanno gettate agli squali. Sono morte sotto

il peso di quelle bestie, ma io so che sono lì.

In quel mare hanno creato un’altra vita. Ogni

tanto le vedo in sogno».

La memoria della schiavitù, del colonialismo,

della diaspora, del meticciato, attivamente

preservate quali vive risorse intellettuali

nella cultura narrativa e sociale, suggeriscono

un modo di rispondere alla «dialettica

dello spaesamento» (Glissant) mirando a

scrivere storie che non partano da un punto di

vista eurocentrico, per narrare come le culture

dissidenti della modernità dell’Atlantico

nero abbiano sviluppato e cambiato questo

mondo frammentato, contribuendo con

enormi risorse alla salute morale del nostro

pianeta e delle sue aspirazioni democratiche [4] .

Senza pretendere di dare una risposta a

queste domande, le quali richiederebbero

molte più trattazioni di quelle realizzabili in

questa sede, limitiamoci a notare come la

presa di coscienza di autori migranti e provenienti

dalle ex-colonie abbia iniziato a mettere

in questione il canone della letteratura italiana

e l’identità che su di esso si fonda, non senza

provocare reazioni difensive in un Paese nel

quale, grazie all’opera (recente però) di storici

e romanzieri [5] , il colonialismo comincia a non

essere più considerato marginale.

Un modo per evadere da quella «violenza

epistemica» (Spivak) sembrerebbe quella

di ricacciare ogni linea divisoria, ogni muro

o Vetro che fornisce e incoraggia lo specchio

dell’abbruttimento e della negazione

sull’Altro. Le nuove possibilità offerte dalle

esperienze inedite di congiunzione culturale

e di meticciato sembrano fornire altrettante

soluzioni per poter osservare, da una

realtà nuova, una micro porzione del reale non

mediata dallo sguardo bianco, non filtrata dal

vetro della nostra cultura di europei.

#Area Pasolini

Fonti:

[1] Scego, La mia casa è dove sono, Loescher, Torino 2012, pp. 33 s.

[2] I. Scego, La linea del colore, Bompiani, Milano 2020, p. 25.

[3] P. Gilroy, The Black Atlantic: l’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Milano

2019

[4] op. cit. p.47.

[5] Cfr., tra gli altri, D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d’occupazione dell’Italia

fascista in Europa 1940-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003; V. Perilli, Miti e smemoratezze del

passato coloniale italiano, in «Controstorie», n. 1, 2008, http://www.controstorie.org/content/

view/8/32/; N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna

2002; C. Raimo, Contro l’identità italiana, Einaudi, Torino 2019.

#Area Pasolini

12 Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego

Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego

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Scritto da Daniele Costantini

#Area Pasolini

Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante

Storie di rifiuti

e reazioni

Achille rifiuta di entrare in guerra fino alla morte di Patroclo, che scatena la sua reazione, un impeto

di rabbia funesta che custodisce in grembo un amore profondo.

Elizabeth rifiuta la proposta di matrimonio di Mr. Collins, e il suo rifiuto nasconde e palesa la reazione

nei confronti di un sistema maschilista e patriarcale all’interno del quale le donne non hanno il

minimo potere decisionale.

Cosimo di Rondò rifiuta un piatto di lumache salendo, per reazione, su di un albero. Reagendo così

non solo alle imposizioni di suo padre ma anche al sistema nobiliare, con le sue pratiche, le usanze e le

vuote apparenze. Cosimo rifiuta di leggere la sua vita come un ordine precostituito fatto di regole da

rispettare e domande da non porsi, e reagisce costruendosi una sua personale dimensione di libertà.

Tre esempi di rifiuto, tre storie di reazione.

Una reazione è, riportando dall’enciclopedia

Treccani, un «atto o comportamento con

cui si risponde a un’offesa, a una violenza e

simili». L’atto di risposta, quindi, a un’azione

che potrebbe arrecare danno al soggetto

spinto a reagire.

dalla cultura vigente nella sua epoca, dall’adesione

o dalla reazione al proprio contesto

sociale e, fondamentale, da un avvenimento

improvviso e non prevedibile.

Achille

#Area Pasolini

Non di rado un atto di reazione è legato a

un rifiuto, il quale potrebbe sia coincidere

con la reazione stessa (reagire ad un ordine

rifiutandosi di eseguirlo), sia esserne il fattore

scatenante (il rifiuto di un’alleanza può scatenare

una crisi diplomatica).

Analizzando tre casi letterari di re-azione

tra loro diversi, si nota come ognuno di essi

venga determinato dall’indole del protagonista,

La guerra di Troia è in pieno svolgimento. I

Greci assediano la città nemica ormai da

tempo, in un continuo susseguirsi di battaglie

tra guerrieri feroci e divinità partigiane.

Accade però, ad un certo punto, che qualcosa

s’incrini tra le fila achee. Agamennone, il

re condottiero, costretto a liberare la schiava

scelta per sé dopo l’ultimo assedio al villaggio

vicino (essendo lei figlia di un sacerdote di

Apollo e per questo protetta dal dio) sceglie

14

Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni

Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni 15



affascinato dai discorsi epici di Ulisse. Decide

così di appropriarsi delle armi e dell’armatura

di Achille – all’insaputa di questi – e di recarsi

sul campo di battaglia. Lì, alla vista di quello

che sembra Achille, si scatena il panico. Ettore,

principe di Troia e condottiero del suo esercito,

lo affronta, convinto di trovarsi di fronte

all’invincibile guerriero, e lo uccide.

#Area Pasolini

Quando la notizia dell’accaduto raggiunge

Achille, la sua reazione è incontrollata.

#Area Pasolini

di rimpiazzarla con la schiava che era stata

assegnata ad Achille, il più valoroso e temuto

dei combattenti, figlio di un uomo e di una

dea nonché condottiero dell’esercito più spietato

tra tutti gli eserciti: quello dei mirmidoni.

Così Achille, ferito più nell’orgoglio che nella

sfera degli affetti, si ritira, adirato, dalla battaglia.

I dissapori fra lui e Agamennone affondavano

le radici in avvenimenti più antichi,

per cui l’episodio della schiava Briseide è

soltanto la celebre goccia che fa traboccare

il vaso. A quel punto, comunque, la situazione

dell’esercito greco, senza Achille e i mirmidoni,

si complica terribilmente. Vani sono tutti

i tentativi di convincere il Pelide a tornare a

combattere, finanche quello di Ulisse, il più

abile oratore, che porta messaggi di scuse

e promesse di ricche offerte da parte del re

pentito. Achille è irremovibile nella sua ira.

In quei giorni di astinenza dalla lotta però, che

lo inducono addirittura a riflettere sull’inutilità

di una tale guerra (e in fondo della guerra in

generale), non è solo. Patroclo, suo cugino e

secondo numerose ricostruzioni anche suo

amante, trascorre il tempo con lui, ed essendo

egli più giovane e inesperto, e il suo nome

ancora totalmente sconosciuto ai nemici, resta

Torna così a combattere con furia inaudita

persino per la sua fama, e trucida decine

e decine di soldati troiani fino ad arrivare al

cospetto di Ettore. Lo sfida, e quello, consapevole

di andare incontro a morte certa,

rassegnato, accetta la sfida. Achille vince

e, ancora in preda alla sua ira disumana, fa

scempio del cadavere del nemico, legandolo

alla sua biga e trascinandolo lungo il

perimetro delle mura della città.

La storia va poi avanti come sappiamo, ma

è interessante qui capire il meccanismo alla

base della reazione di Achille. Dentro la sua

reazione c’è, infatti, la rabbia per l’oltraggio

subìto, l’incontrollabile desiderio di vendetta

ma, soprattutto, il senso di colpa per non

essere stato in grado di proteggere, conservare

e preservare quell’affetto che aveva, a

ben vedere, tutti i tratti dell’amore. Perciò la

sua violenta reazione è, in fondo, l’espressione

del suo profondo amore per Patroclo,

manifestato con l’atto per lui più naturale, il

combattimento, e con l’unico strumento che

padroneggia perfettamente: la spada. È, in

altre parole, la manifestazione più spontanea

e sincera dell’amore verso l’unica persona che

probabilmente avesse mai davvero amato.

Lui, che combatte solo per sé stesso, e che

sempre e solo per sé stesso smette addirittura

di farlo (è dopo aver subìto un affronto

personale che si ritira), in quell’occasione non

si batte per la gloria degli eroi e per l’immortalità

del nome, ma lo fa, per la prima volta, in

nome di qualcun altro. Reagisce per vendetta

e si batte per amore.

Inutile dire che la reazione di Achille indirizzerà

in modo decisivo l’andamento del conflitto.

Senza di essa i Greci avrebbero concretizzato

l’ipotesi che già si stava facendo largo prima

del suo intervento: girare le navi e tornare a

casa.

Ma la reazione di un uomo che ha perso

l’amore può valere così tanto da decidere le

sorti di una guerra.

Elizabeth

Quando in Orgoglio e pregiudizio, il romanzo

più conosciuto di Jane Austen, Mr. Collins si

reca a casa Bennet per chiedere la mano di

Elizabeth, secondogenita di cinque sorelle,

non può immaginare, per quella che è la

mentalità sua e più in generale di tutta una

società, di stare andando incontro a un secco

rifiuto.

Siamo nell’Inghilterra rurale di inizio XIX

secolo, e il matrimonio all’epoca, e fino a

molti anni più tardi, è un’istituzione in ogni

senso fallocentrica, o meglio ‘fallodiretta’:

è l’uomo a scegliere la donna da sposare, è

l’uomo a proporre il matrimonio ed è l’uomo,

infine, a svolgere l’indiscusso ruolo di capofamiglia.

Per questo Mr. Collins intende la sua

visita a casa Bennet più come una formalità

che come un’incognita da risolvere. Dice,

infatti, di essersi recato nell’Hertfordshire con

il preciso intento di scegliersi una moglie e

che la fortunata risulta essere, dopo attente

valutazioni parentali ed economiche, proprio

Elizabeth. Solo che lei, Elizabeth, ragazza

brillante e consapevole, declina l’offerta

mostrandosi assolutamente non intenzionata

a sposarlo.

Rifiuto, quindi. E la reazione? La reazione c’è

poco dopo, quando Collins mostra quanto

poco valgano le parole della ragazza alle sue

orecchie. Dice infatti:

Quando avrò l’onore di parlarvi la prossima

volta di questo argomento spero di ricevere

una risposta più positiva di quella che adesso

mi avete concessa, sebbene sia lungi da me

l’accusarvi di crudeltà, dato il costume del vostro

sesso di respingere un uomo alla sua prima

proposta, e forse voi stessa avete già detto

abbastanza da incoraggiare i miei propositi,

con tutta la delicatezza dell’animo femminile.

Elizabeth è comprensibilmente incredula

davanti a una comunicazione tanto ìmpari,

e replica:

Davvero, Mr. Collins, [...], mi sconvolgete

immensamente. Se quanto vi ho detto può

sembrarvi una forma di incoraggiamento, non

so davvero come esprimere il mio rifiuto perché

voi possiate convincervi che sia davvero tale.

Il rifiuto coincide qui con la reazione, e non

esprime in questo caso soltanto la volontà

di non sposarsi con un uomo che a stento

conosce e per il quale non prova nulla, ma

incarna un primo baluardo di resistenza al

sistema patriarcale da sempre in vigore in

16 Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni

Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni

17



Occidente e non solo. Le parole che veicolano

questo primo fuoco di resistenza e rivolta

sono d’una veemenza e una bellezza rare:

la propria personale felicità.

Cosimo

sono inesperti di galateo e buone maniere

e gli adulti li richiamano in continuazione, li

umiliano e li puniscono. In un tale clima di

dissapori e ripicche, succede un giorno che

Cosimo rifiuti un piatto di lumache, scelto

come simbolo del potere genitoriale e dell’insopportabile

arroganza della sorella maggiore.

Il narratore infatti informa:

Il modo in cui le lumache eccitavano la

macabra fantasia di nostra sorella, ci spinse,

mio fratello e me, a una ribellione, che era

insieme di solidarietà con le povere bestie

straziate, di disgusto per il sapore delle lumache

cotte e d’insofferenza per tutto e per tutti, tanto

che non c’è da stupirsi se di lì Cosimo maturò

il suo gesto e quel che ne seguì.

Ai ripetuti ordini minacciosi del padre, Cosimo

reagisce salendo su un albero del loro giardino

e promettendo al suo nobiliare genitore,

e al resto del mondo, che da lì non sarebbe

più sceso.

Calvino intesse poi una trama fantastica e

fuori dal tempo, ricca di personaggi e situazioni

diverse, alcune improbabili, altre del tutto

assurde, ma la promessa fatta da Cosimo,

la decisione di fare della sua reazione una

ragione di vita, non verrà mai meno. Il giovane

infatti su quegli alberi crescerà, scoprirà

l’amore in Viola, condurrà rivolte e conoscerà

Voltaire attraverso uno scambio di lettere.

Senza scendere mai a terra. Il rifiuto delle

logiche aristocratiche e nobiliari, dell’etichetta

mondana, della costruzione di un’immagine

artefatta di sé e della sua famiglia, sarà ciò

che gli permetterà di vivere davvero la sua

vita, in maniera intensa e istintiva: libera. E

mai rinuncerà alla sua libertà, mai scenderà a

contraddirsi. Tanto che alla fine, ormai vecchio,

quando l’inevitabile morte avrebbe potuto da

un momento all’altro buttarlo giù, come un

corpo ormai spento che si abbandona alla

forza di gravità, Cosimo si aggrappa a una

mongolfiera e, arrivato a sorvolare il mare, si

lascia cadere nell’infinità dell’acqua. Che non

è, e mai sarà, terra.

Una reazione come rifiuto alla prigionia, una

reazione per la libertà.

Amore, felicità, libertà: quando sui tre vocaboli

più abusati vengono edificate storie di

reazioni del tutto prive di retorica.

#Area Pasolini

Vi ringrazio ancora e ancora per l’onore che

mi avete fatto con la vostra proposta, ma

accettarla per me è assolutamente impossibile.

I miei sentimenti me lo vietano sotto ogni aspetto.

Posso esprimermi più chiaramente di così?

Non consideratemi adesso come una donna

raffinata che si diverte a stuzzicarvi, ma come

una creatura razionale, che dice la verità dal

più profondo del suo cuore.

Dopo questa conversazione nulla farà

cambiare idea alla giovane donna, né l’insistenza

ottusa del goffo pretendente, né i deliri

di sua madre, né – soprattutto – la paura che

a quel tempo attanagliava la maggior parte

delle ragazze della sua età, quella cioè di

rimanere nubili, non scelte come mogli e

future madri da alcun uomo.

Altra storia di ribellione, altra storia di reazione.

In fondo, in modi ogni volta diversi, si può

forse affermare che rifiuto, reazione e ribellione

siano tra loro legati, a volte disposti in

un rapporto di causa/effetto-conseguenza,

altre addirittura sovrapposti per formare un

unico processo che ha, sempre, una direzione

controcorrente.

Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista de Il

barone rampante di Italo Calvino, ha dodici

anni, vive nel Settecento ed è figlio del ricco

e conosciuto barone di Rondò. A raccontare

la sua storia è suo fratello, di quattro anni più

piccolo di lui.

Fonti:

[1] Omero, Iliade, trad. it. G. Tonna, Garzanti 2014

[2] J. Austen, Orgoglio e pregiudizio, trad. it. M. La Russa, Feltrinelli 2018

[3] Calvino, Il barone rampante, Mondadori 2016

#Area Pasolini

Il rifiuto di Elizabeth, e la successiva reazione

alla prepotenza maschile, è un atto che scardina

dal basso il conglomerato obsoleto dei

valori sette-ottocenteschi.

Una reazione per l’autoaffermazione e per

Tutto inizia quando i due fratelli cominciano

a essere ammessi a tavola, durante i pasti,

insieme al resto della famiglia (in precedenza

avevano sempre mangiato nella loro stanza);

la breve convivenza durante pranzi e cene

però crea ben presto tensioni: i due fratelli

18 Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni

Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni

19



#Area Pasolini

Scritto da Sibilla Fontanella

Librerie ‘reazionarie’

e dove trovarle

Intervista a Giorgio Santangelo, co-fondatore della libreria

indipendente «La confraternita dell’uva» di Bologna

Palin parla con Giorgio Santangelo, giovane proprietario e co-fondatore de ‘La Confraternita dell’Uva’,

libreria indipendente bolognese nonché luogo di scambio e di scoperta, che incarna perfettamente

lo spirito della città. Un contenitore trasparente, all’interno del quale i numerosi ed eterogenei elementi

di colore culturale possono essere visti, avvicinati, studiati da ogni angolazione.

Gli aperitivi letterari, la scoperta di prodotti

agroalimentari di qualità, le presentazioni

di libri, la passione per la letteratura e per

l’editoria indipendente sono elementi che

trovano, tutti, spazio in un progetto coraggioso

che risponde al nome di ‘La Confraternita

dell’Uva’, fondata cinque anni fa da Giorgio

Santangelo e Antonio Ciavarella nel centro

storico di Bologna.

Nell’ultimo anno, le librerie indipendenti come

quella di Giorgio e Antonio hanno dovuto riorganizzarsi,

riscoprire altri modi per perseguire

i propri obiettivi: anche la cultura vive

e si nutre attraverso le idee di imprenditori

che riescono a slegare il prodotto che

offrono dall’impossibilità fisica di aprire i

propri spazi.

È proprio nell’ottica di capire le interazioni tra

piattaforme digitali, librerie indipendenti e fedeltà

ai propri valori che Sibilla Fontanella ha deciso di

rivolgere alcune domande a Giorgio Santangelo.

Qual è il percorso che ha portato all’apertura

della libreria indipendente?

La libreria nasce dall’incontro e dalla

volontà di Giorgio Santangelo (io) e

Antonio Ciavarella nel dicembre 2016.

Ci chiamiamo ‘La confraternita dell’uva’ perché

questo nome ci sembrava l’ideale per raccontare

la nostra realtà: libreria e wine bar

insieme, scaffali ricolmi di libri e ottimi vini.

Inoltre, John Fante è il mio scrittore preferito

e quindi è una sorta di tributo alla sua memoria

e alla sua produzione.

Probabilmente avrete risposto centinaia

di volte alle curiosità di chi ricerca un significato

nella scelta del nome ‘Confraternita

dell’Uva’: come è possibile coniugare l’idea

di fondo e le sensazioni che racconta Fante

– che trovano difesa e territorio sicuro nello

spirito del vostro locale/libreria – con

la situazione presente che vi trovate ad

affrontare?

Portare avanti tutt’oggi questa mission è

più difficile, da un anno a questa parte ospitare

gente è complicato. Ci siamo però subito

mossi in modo da venire incontro al bisogno

delle persone che ci frequentano: organizzando

consegne a domicilio di libri, bottiglie,

veri e propri pacchetti aperitivo, regali e ceste.

Se la comunità non può venire in libreria, è la

libreria che va dalla comunità!

Librerie come servizi essenziali. Durante il

periodo di confinamento dello scorso anno

e poi nei mesi successivi, avete avvertito

il disagio di quelli che erano vostri clienti

abituali? Si sono avvicinati all’universo delle

librerie indipendenti anche nuove figure?

Le librerie sono state dichiarate attività

essenziali solo in un secondo momento e,

durante il lockdown di marzo 2020, sono state

chiuse. Le consegne a domicilio e le spedizioni

in tutta Europa ci hanno permesso di

avvicinarci a chi ci conosceva già ma anche

ad aprirci a tante nuove persone. Ricordo che

è capitato, alla riapertura, che una signora che

aveva ricevuto un pacchetto regalo da parte di

una persona cara durante il lockdown, venne

poi a in libreria spinta dalla curiosità di conoscerci.

Alla stessa maniera c’è gente che continua

a comprare i nostri libri a distanza, anche

senza essere mai venuta tutt’ora in libreria.

Da un po’ di tempo è attiva la piattaforma

Bookdealer.it. Cos’è cambiato grazie a

questo nuovo sistema?

Il mondo editoriale durante il lockdown non

è stato fermo e ha fatto tesoro della lezione

imparata da tante e tante librerie che, in tutto

lo Stivale, hanno deciso di non arrendersi alle

chiusure lavorando a distanza. Da questo

contesto sono nate alcune realtà, tra cui a

fine agosto 2020 Bookdealer.it, alla quale

abbiamo subito aderito.

Un portale che ha facilitato le nostre consegne

e spedizioni dandoci la struttura e la facilità

di un e-commerce. La differenza principale

è l’etica che c’è dietro.

Acquistando da questo portale, sarà una libreria

de te scelta a farti recapitare il libro, facendo

sì che il prezzo intero del libro finisca direttamente

nelle tasche della libreria. Inoltre, i libri

ti vengono consigliati dai librai stessi e non

da un algoritmo. L’unica maniera per scoprire

nuovi libri fuori dalla propria comfort zone.

Un circuito virtuoso che ci permette tutt’oggi

di spedire ovunque e competere contro i

colossi dell’e-commerce mondiali. Ne siamo

davvero felici.

Per approfondire la storia della ‘Confraternita

dell’uva’ si possono trovare altre letture interessanti

su About Bologna e ZERO oltre che

rimanere aggiornati seguendo le pagine

Facebook e Instagram!

Per approfondire la storia della ‘Confraternita

dell’uva’ si possono trovare altre letture interessanti

su About Bologna e ZERO oltre che rimanere

aggiornati seguendo le pagine Facebook

e Instagram!

#Area Pasolini

20 #palinparlacon: Librerie reazionarie e dove trovarle. Intervista a Giorgio Santangelo

#palinparlacon: Librerie reazionarie e dove trovarle. Intervista a Giorgio Santangelo

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Scritto da Martina Cofano

REAGIRE ALL’INEVITABILE:

Demostene, voce di un

ribelle o di un illuso?

Uno dei problemi politici più grandi del IV secolo a.C. solleva un interrogativo attuale: è più reazionario

chi avversa l’inevitabile o chi ribalta un modello passato per costruirne uno inedito?

Se la grecità costituì un vessillo in età arcaica

e classica, le carte avrebbero iniziato a mescolarsi

nel pre-ellenismo [1] con l’ascesa di Filippo

(fig.1, nell’illustrazione dell’arch. Panaiotis

Kruklidis) al trono di Macedonia nel 360 a.C..

Non il suo debutto, ma di sicuro l’inizio di un

grosso affare, la rivalità con Atene, ormai eclissata

nel microcosmo delle città-stato: dopo

lotte, episodi di diplomazia e persino una

pace, Filippo intraprese l’inevitabile guerra,

ma Atene non fece nulla per impedire la sua

avanzata. A nulla servì la ribellione: Filippo

sbaragliò gli Ateniesi e i complici Tebani

nella battaglia di Cheronea del 338 a.C..

La sua reazione a un dominio inevitabile e a

una grandiosa evidenza fu però assai singolare:

egli sognava non il potere della Grecia

tutta, ma il ripristino dell’Atene egemone. Le

Filippiche pronunciate contro il suo avversario

risultano dunque più la testimonianza di

un nostalgico parolaio, una «true lie» [3] , che

una fonte storica senza diaframmi.

C’è da dire che le posizioni dell’oratore ateniese

non furono sempre le stesse: se in un primo

periodo egli promosse istanze pacifiste, tuttavia

non andò mai nella direzione di una conciliazione

totale.

#Area Pasolini

Sono questi i prerequisiti che servono –

almeno in questa sede – per immergersi

nella ristretta schiera di voci che fino alla fine

si oppose al dominio, non velleitario e ormai

fattuale, del crudele, barbaro, violento Filippo.

Demostene (fig. in copertina, nella rappresentazione

del pittore ottocentesco Eugène Delacroix),

ateniese e di famiglia facoltosa, oratore per antonomasia,

non si stancò mai di sostenere la sua

democrazia: ad Atene il destino aveva assegnato

un ruolo, che al suo tempo era minacciato

da un tiranno «nemico della libertà» [2] .

La definizione di bàrbaro (lat. barbarus, da gr.

βαρβάροςβαρβάροςος) sintetizza la ‘geniale’ invenzione

greca per designare l’altro, uno straniero

per due volte e per questo in simmetrica antitesi

rispetto all’uomo greco. Essa costituisce

uno dei pilastri della reazione demostenica,

contestuale alla valorizzazione dell’imperialismo

ateniese: per lui Filippo «non solo non

è un greco e con i Greci non ha niente a che

fare, ma non è nemmeno un barbaro di un

paese da dove è bello dire di essere originari,

ma è un maledetto macedone (ὀλέθρουὀλέθρου

Μακεδόνος), di un paese da cui un tempo non

22

Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?

Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso? 23



propina un modello inedito e migliorante

(un modello antitirannico secondo i filomacedoni

Diodoro, Speusippo ed Isocrate); ne

consegue che chi non sia disposto a lasciare

il presente nel passato, sta sacrificando le

proprie intenzioni in una battaglia persa in

partenza. Dunque Demostene incarna in

sé la sincerità di un eroe romantico portatore

di sentimenti e ideali collettivi; ma l’altra

faccia della medaglia è un’incapacità di

fondo di dare ascolto alla storia.

Se Demostene fu promotore di una reazione

alla novità (Filippo), era un ribelle o un conservatore

illuso? Un ribelle o un conservatore

idealista? In sostanza: guardò più al passato

o al futuro della sua Atene?

Ai posteri l’ardua sentenza.

#Area Pasolini

Fonti:

#Area Pasolini

si riusciva a comprare neanche uno schiavo

decente!» [4] .

La sua resistenza si fece espressione di un

grande ‘a priori’: Atene e Sparta – immeritevoli,

perché incapaci di gestire il proprio

possesso – sarebbero comunque state un’alternativa

migliore rispetto a quello «schiavo

o figlio scambiato» (δοῦλος ἢ ὑποβολιμαῖος) che

è Filippo. I Macedoni però, pur memori della

precedente condizione schiavile, erano i nuovi

ricchi e Demostene sembrava ignorare tutti

i cambiamenti a cui la Grecia era andata

incontro nel corso di un secolo.

Resta, la sua, una coscienza dei valori antichi

e la strenua difesa della democrazia: ma

sui piatti di una bilancia pesa di più un sogno

passatista o un rischio all’avanguardia? Quella

di Demostene fu davvero reazione o soltanto

il tentativo di ripristinare qualcosa di astorico,

senza valore di circostanza?

Un filone della critica ha riconosciuto a Demostene,

al di là della qualità innegabile in fatto di oratoria,

una linea d’azione giusta[5], ma inapplicabile

per la forza dell’avversario. La scuola tedesca

ha posto l’accento sull’impatto negativo

di un’opposizione inutile, ostacolo all’unificazione

del mondo greco e all’eliminazione

del particolarismo delle città-stato.

Gli antichi – si sa – sono stati maestri, se non

di ideali, almeno di interrogativi sostanziosi.

E la vicenda del Demostene che Drerup definisce

un miope, richiama alla memoria un

grande problema: quando si reagisce, si è

più illusi o idealisti? La risposta è complessa,

individuale, troppo poco univoca per dare a

questa brevissima trattazione la parvenza di

un finale chiuso.

È forse una questione di adesione a paradigmi

più o meno consolidati dell’eroe-reazione,

che pure va storicizzato: il ribelle del IV

secolo è sicuramente Filippo, che propone/

[1] Si intenda la periodizzazione canonica lato sensu e si assuma l’inizio dell’ellenismo coincidente

con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), secondo la definizione di Droysen.

[2] G. Squillace, L’ultimo intervento di Filippo II in Tessaglia nella propaganda macedone e

antimacedone, Milano, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,

2000.

[3] G. Mader, Fighting Philip with Decrees: Demosthenes and the Syndrome of Symbolic Action,

Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2006.

[4] Demosth. 9. 31.

[5] Tesi di H. Schaefer.

Guido Cortassa (cur.), Demostene. Filippiche, Garzanti, 1996.

Francesco Lamendola, Demostene il megalomane

Gottfried Mader, Fighting Philip with Decrees: Demosthenes and the Syndrome of Symbolic Action,

in «The American Journal of Philology», Autumn, 2006, Vol. 127, No. 3 (Autumn, 2006), pp. 367-386

Manuela Mari, Bastardi senza gloria. Filippo II e i Macedoni in Demostene IX 30-31, in M. Capasso

(cur.), Cinque incontri sulla cultura classica, in «I Quaderni di ‘Atene e Roma’» 5, 2015, 117-133.

Antonietta Porro, Walter Lapini, Claudia Laffi, Letteratura greca. Storia, autori, testi. L’età classica.,

Loescher, 2017

Giuseppe Squillace, L’ultimo intervento di Filippo II in Tessaglia nella propaganda macedone e

antimacedone, in «Aevum», Gennaio-Aprile 2000, Anno 74, Fasc. 1 (Gennaio-Aprile 2000), pp. 81-94

24 Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?

Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?

25



Illustrazione di Gabriele Conte, @gabriele_conte88

Palin ha incontrato anche Heisenberg.

Con lui Palin scopre che il mondo può

sempre essere scoperto e visto con occhi

nuovi, in un continuo interscambio di

posizioni: dal cosmo alle particelle.

Quest’area tratta quindi di Scienza, in

tutto ciò che ci circonda, dall’immensità

dell’Universo al più piccolo atomo,

cercando di dare una visione di insieme,

senza relegare l’argomento scientifico a

qualcosa di unicamente accademico, ma

di interesse comune.

La scienza naturale non descrive semplicemente, interpreta la

natura: è una parte dell’interfaccia tra la natura e noi stessi.

Werner Karl Heisenberg

Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_

Illustrazioni di: Dalila Amendola,

@dalila.amendola



#Area Heisenberg

Werner Karl

Heisenberg

Scienza, politica e vita privata. La vita di

Werner Karl Heisenberg, scienziato tedesco

attivo nella prima metà del secolo scorso e

divenuto famoso per la conquista del premio

Nobel nel 1932 “per la creazione della meccanica

quantistica”, fu caratterizzata da una

serie d’infiniti compromessi fra le regole e

i pregiudizi del regime nazista e la necessità

di difendere la propria vita e la propria

carriera.

La Germania è stata per anni il più importante

centro culturale per lo sviluppo delle

maggiori teorie nell’ambito della fisica, almeno

fino al momento della salita al poter di Hitler

che costrinse molti scienziati ebrei e non

solo a fuggire via dal paese pur di non rinnegare

le proprie origini e la propria scienza. Si,

perché la scienza stessa fu messa in discussione

in quegli anni e fu ridotta a mero mezzo

di promozione politica del regime, tanto

che insorse addirittura il rifiuto verso l’astrazione

di quella che venne definita “scienza

ebraica” in contrapposizione alla fisica tedesca

in diretto contatto con la natura. Si trattava

principalmente della teoria della relatività

di Einstein colpevole di non essere stata

concepita da sangue ariano. Fu proprio per

questo che Heisenberg, sostenitore di tale

teoria, fu definito dal collega premio Nobel

(nel 1905) e sostenitore nazista, Lenard <<lo

spirito dello spirito di Einstein>> e il settimanale

della SS “Das Schwarze Korps” in suo

riferimento scrisse dei <<Weisse Juden in der

Wissenschaft>> (Ebrei bianchi nella scienza)

considerandoli ancora più subdoli e pericolosi

degli ebrei veri. Solo allora lo scienziato,

pur di non lasciare la sua amata terra, decise

di rinnegarsi, aderire al programma nucleare

nazista e litigare con altri grandi colleghi

come nel caso di Bohr. Nonostante ciò la

Germania, orfana di alcune delle menti più

brillanti del secolo, fallì miseramente, oggi

possiamo anche aggiungere: per fortuna!

28

#rubricaritratti: Werner Karl Heisenberg

Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?

29



Scritto da Alfredo Petrella

#Area Heisenberg

REAZIONE ALL’UMANO.

ANCHE LE MACCHINE PROVANO SENTIMENTI?

#Area Heisenberg

Compreresti un’automobile il cui pilota automatico potrebbe scegliere di sacrificare te per salvare la

vita di due passanti? E se provassi affetto per loro, o se fossero invece i responsabili di ciò che sta per

succedere?

L’etica dell’intelligenza artificiale è, sin dagli

albori di quest’ultima, un tema estremamente

dibattuto dagli addetti ai lavori, ma spesso

eclissato dalle mirabolanti imprese compiute

dai sistemi intelligenti agli occhi del grande

pubblico. Uno dei settori più promettenti e

più esposti allo stesso tempo è la robotica,

che negli ultimi anni è passata dal cercare

disperatamente di evitare cadute rovinose

alle proprie creazioni, al produrre ballerini di

Rythm&Blues più abili del 70% della popolazione

mondiale, come dimostra il video

pubblicato dalla Boston Dynamics alla fine

dello scorso anno [1] .

Come ci insegna lo zio Ben di Spider-Man!

però, «da un grande potere derivano grandi

responsabilità» [2] , e le innumerevoli applicazioni

delle nuove tecnologie non fanno eccezione:

uno dei tratti distintivi degli esseri intelligenti,

infatti, è la capacità di reagire agli

stimoli esterni sulla base dei dati acquisiti

e processati in tempo reale, ed è così

che l’enorme vantaggio di poter programmare

un sistema veloce nel prendere decisioni

seguendo schemi prestabiliti costringe

i produttori a chiedersi, d’altro canto, quali

debbano essere tali schemi.

Tutto ciò sta già accadendo attorno a noi.

Pensiamo ai software per il riconoscimento

delle emozioni: bisogna sapere che hanno

raggiunto performance sorprendenti, come

risulta particolarmente chiaro, ad esempio,

sul sito di MorphCast [3] (sul quale ci si può

divertire gratuitamente e senza temere per la

propria privacy) e che presto saranno implementate

in robot umanoidi che si interfacceranno

con noi in modo più efficace e vario,

a seconda del nostro stato d’animo.

Come vi sentireste se il vostro nuovo robot

da compagnia, percependovi un po’ giù di

tono, vi offrisse uno di quei dolci al pistacchio

che ordinate una volta al mese su Amazon,

e reagisse prenotando a sorpresa un pranzetto

per due al ristorante di sushi nel quale

avete incontrato per la prima volta il vostro

attuale partner, approfittando di un buco in

comune nella vostra agenda personale? Forse

il vostro morale si risolleverebbe, ma a quale

prezzo? E se quel pranzo aveste voluto farlo

dal messicano a un isolato da casa, che non

è su JustEat, e rivedere un amico di vecchia

data che non seguite sui social? Che domande,

avreste potuto sicuramente parlarne al vostro

assistente digitale! Ma quante, di tali informazioni,

si è disposti a condividere con l’azienda

produttrice, al fine di rendere più soddisfacente

il servizio ricevuto?

Il messicano non ha l’all you can eat, vero, ma

non è questo il punto. Proviamo così: concentriamoci

sui veicoli a guida autonoma. Se ne

parla moltissimo, ma stupisce ogni volta ricordare

che in media, ogni giorno, più di 3500

persone perdono la vita a causa di incidenti

stradali, la maggior parte dei quali dovuti a

distrazioni del conducente o a infrazioni del

codice della strada, prima su tutte la guida in

stato di ebbrezza [4] . L’inquinamento provocato

dall’elevato numero di veicoli e dalle strutture

e infrastrutture destinate a ospitarli, inoltre,

verrebbe notevolmente ridotto se, invece

di avere centinaia di veicoli privati fermi in un

parcheggio per buona parte della giornata, un

esiguo numero di mezzi pilotati da un’intelligenza

artificiale soddisfacesse i bisogni di più

passeggeri, in base alla sua posizione attuale

e alle richieste ricevute, e gli spazi superflui

venissero adibiti alla costruzione di parchi e

alla produzione di energia rinnovabile.

Dove si nascondono le responsabilità qui?

Nella scelta della reazione che ci aspettiamo

venga assunta dal nostro pilota automatico

nel caso in cui dovesse gestire una

situazione non ordinaria o, addirittura, mai

affrontata prima da nessun altro veicolo con

cui abbia mai interagito.

Facciamo un passo indietro e ripartiamo

da un classico esperimento mentale di filosofia

etica, formulato negli anni Settanta: il

30 Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?

Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?

31



Scritto da Filippo Dodero

#Area Heisenberg

#Area Heisenberg

problema del carrello ferroviario [5] . Nella sua

formulazione più semplice, esso prevede la

presenza su delle rotaie di un tram che non

può essere arrestato e si dirige verso cinque

persone che non avrebbero scampo; l’unica

alternativa che ci viene fornita è la possibilità

di azionare un deviatoio che reindirizzi il

tram verso una persona, anch’essa impossibilitata

ad evitare il peggio, risparmiando le

prime cinque. Chiaramente, il quesito non

prevede una risposta corretta, ma è estremamente

utile per riflettere sul fatto che situazioni

simili potrebbero effettivamente verificarsi,

seppur con una probabilità molto più

bassa rispetto a quella di incidente oggi.

Assumendo, poi, che ciò non accada nel caso

in cui il sistema sia implementato in modo

Fonti:

particolarmente efficiente, altri quesiti sorgono

spontanei: ad esempio, è possibile comunicare

al veicolo che ci si trova in una condizione

di emergenza e richiedere che alcune

norme vengano violate per perseguire un

bene più alto? A quali condizioni? Se si trattasse

di condizioni di salute, il veicolo sarebbe

in grado di verificarle e, eventualmente, fornire

primo soccorso? Qual è il giusto compromesso

tra efficacia ed etica? A queste e a molte altre

domande cerca di rispondere la cosiddetta

Machine Ethics (etica delle macchine), introducendo

il concetto di Artificial Moral Agent

(soggetto artificiale dotato di morale) e adattando

i princìpi giuridici al mondo dell’Artificial

intelligence [6]. .. Ma questa è un’altra storia,

riservata ai più curiosi.

Spero che il sushi sia stato all’altezza delle 4.73 stelle su 5 del ristorante, le foto di quegli uramaki

sembrano davvero invitanti ma negli ultimi 13 giorni le recensioni sono peggiorate dello 0.012%...

Per stasera messicano con Max allora? Cucino volentieri io! Ah, un ultima cosa, mi imbarazza

chiedertelo, ma sto imparando: selezioneresti dal menù la lingua parlata dal gatto? Non riesco a

rilevarla automaticamente.

[1] Do you love me?

[2] Stan Lee (testi), Steve Ditko (disegni); Spider-Man!, in The Amazing Spider-Man n. 15, Marvel

Comics, agosto 1962.

[3] Morphcast

[4] Road Traffic Injuries and Deaths—A Global Problem, in Center of Disease Control and Prevention

[5] Trolley problem, in Wikipedia

[6] Ethics of Artificial Intelligence and Robotics, in Stanford Encyclopedia of Philosophy

Palin parla col professor Raffaele Giuseppe Agostino, docente di fisica presso l’Università della Calabria.

Non mi fare domande difficili a cui non saprei

rispondere.

È in questi toni informali che inizia l’intervista

a Raffaele Giuseppe Agostino, docente di

Fisica sperimentale della materia all’Università

della Calabria, che ha da sempre visto la sua

crescita formativa legata in maniera imprescindibile

alla crescita del territorio.

Noi di Palin lo abbiamo intervistato per scoprire

non solo il suo attento punto di vista sulla

ricerca in Italia ma soprattutto ciò che c’è alla

base: una forte passione per il proprio lavoro,

per la Scienza e per il proprio territorio.

Partiamo dalle presentazioni: Lei è un

professore conosciuto nel Dipartimento

di Fisica dell’Università della Calabria. Si

presenti anche ai lettori di Palin.

Allora, io sono un Professore di Fisica

Sperimentale della Materia. Mi occupo da

sempre di problemi legati alle superfici.

All’opinione pubblica è chiaro cosa sia l’astrofisica

o la fisica delle particelle, mentre la Fisica

Scienza, ricerca e territorio:

un rapporto di reazione

Intervista a Raffaele Agostino, docente di Fisica

dell’Università della Calabria

delle Superfici potrebbe essere un concetto

che sfugge. In realtà tutto quello che abbiamo

intorno, che vediamo e tocchiamo tipicamente

lo facciamo per mezzo della sua superficie.

Noi vediamo il colore della superficie di un

oggetto, non del corpo. Moltissimi fenomeni

che avvengono nel nostro quotidiano sono

legati alle proprietà delle superfici e c’è una

Scienza apposta, la Scienza delle superfici,

che se ne occupa.

Cosa vuol dire essere un professore di

Fisica in un’università italiana (e calabrese)

in termini di mansioni, obiettivi, ricerca, ecc.?

Questa domanda è molto complessa, perché

i compiti di un docente universitario ormai

sono molti e diversificati. La parola ‘docente’

rimanda principalmente all’insegnamento e

sicuramente io insegno (NdA come a dire ‘e

sicuramente l’insegnamento è una grossa

parte del mio mestiere’): fisica di base ai matematici,

laboratorio di elettromagnetismo e

fenomeni ondulatori ai fisici. Quello che faccio

però non è semplicemente prendere i libri di

32 Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?

#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino

33



#Area Heisenberg

testo e trasferire le nozioni agli studenti, piuttosto

provo a tradurre quella che è la mia esperienza

nel campo della ricerca scientifica nei

concetti e nel contenuto dei corsi. Perché io

sono convinto del legame intimo tra ricerca

e insegnamento universitario: non dobbiamo

fare l’errore di pensare all’università come alla

naturale successione della scuola superiore.

Il docente universitario ha come compito non

semplicemente insegnare, ma tradurre la

propria esperienza scientifica in insegnamento

per gli studenti. Quindi gli studenti apprendono

‘a fare’ e, con questo taglio, apprendono

sempre ciò che è alla ‘frontiera della conoscenza’.

Per questo, non si tratta di trasferire

conoscenza consolidata, ma nuova conoscenza.

Questo è il grande salto che si fa dal

liceo all’università ed è per questo assolutamente

necessario che un docente universitario

faccia ricerca.

I modelli esteri che guardano alla possibilità

di avere ‘teaching university’ (cioè università

in cui si fa solo insegnamento) sono modelli

perdenti perché la qualità dell’insegnamento

ne risente se il docente non è artefice della

propria conoscenza attraverso la ricerca.

Naturalmente questo si fa con un processo

che va dai primi agli ultimi anni di università,

in cui le conoscenze si spostano sempre più

dal ‘consolidato’ alla ‘frontiera’ sfumandone

sempre di più i confini. Dunque, l’impegno di

un docente sulla ricerca è fondante, è una

delle ragioni d’essere di un docente universitario.

Questa è una principale differenza tra i

modelli ‘tipo-italiano’ e alcuni modelli esteri in

cui c’è una gran divisione tra l’insegnamento

e la ricerca, che viene magari demandata ad

enti di ricerca che non hanno l’insegnamento

tra i propri mandati.

Che impatto ha la ricerca e l’università sul

territorio e la società?

Io mi sono iscritto a questa università nell’83

perché ne ho letto lo Statuto. Lo Statuto di

questa università fu scritto alla fine degli anni

Sessanta e inviterei a rileggerlo ai molti che

parlano di università e del ruolo che essa

dovrebbe avere nel territorio. Quello era uno

Statuto innovativo, tant’è vero che l’Unical per

molti anni era totalmente dissimile per regole

e comportamento interno, partecipazione

democratica, per il modo in cui si gestiva

rispetto alle altre università. L’Unical è nata

grazie ad un’intuizione dei padri fondatori

che vollero un’università dedicata al territorio.

Questo è uno dei motivi che mi ha spinto

a scegliere questa università, perché oltre

alla mia crescita personale e culturale mi

dava la possibilità di assistere alla crescita

del territorio. Nacque come un’università residenziale,

abbiamo infatti ancora oggi il più

grande centro residenziale delle università

italiane per rapporto al numero di studenti.

La nostra residenzialità era voluta per poter

dare (in una regione come la nostra) la possibilità

di studiare ad un gran numero studenti

che altrimenti non avrebbero potuto. Emigrare

per studiare come avviene ancora adesso è

una cosa che discrimina per reddito tra chi

può e chi non può. Questa università è nata

anche con l’obiettivo di dare al territorio un

progresso legato alla conoscenza. Questa

cosa mi convinse molto a 18 anni, idealista

come tutti a quell’età, e decisi di restare qua

invece di spostarmi a Padova dove avevo

inizialmente puntato. Questo è l’inizio, come

l’ho tradotto dopo? Quando poi attraverso un

lungo percorso che mi ha fatto anche conoscere

altre realtà, sono ritornato in Calabria,

quello che ho fatto è stato tradurre questa

spinta iniziale e ideale nella necessità ogni

volta di raffrontarsi al territorio e di mettere

su delle iniziative che potessero non solo far

crescere i miei studenti ma anche avere una

ricaduta. Anche per questo ho iniziato una

serie di progetti con l’ambizione di portare

innovazione basata sulla conoscenza scientifica

e tecnologica sul territorio.

Parlando di territorio abbiamo chiesto al

professore il perché le università italiane

non riescano a trattenere i ricercatori che

esse stesse faticano tanto a formare e se è

solo una mancanza di fondi o c’è dell’altro.

Infatti, secondo i dati del Consiglio Europeo

della Ricerca (ERC) i ricercatori italiani sono

i primi beneficiari di fondi per progetti finanziati

nel 2020, ma le nostre università sono

tra le ultime fra quelle in cui questi soldi

vengono spesi. È l’ennesimo segno di una

‘fuga di cervelli’ ormai generazionale?

Ci dice che, secondo lui, la realtà di solito

è molto più complessa di come ci appare.

È vero, i fondi disponibili per l’Italia e per la

ricerca italiana sono tanti. È anche vero che

la ricerca universitaria italiana non è ancora

strutturata per ottimizzare l’utilizzo di questi

fondi. All’interno delle università, le strutture

che si occupano della progettualità sono

carenti, non strutturali e non esistevano ad

esempio quando mi sono iscritto all’università.

Sono diventati una necessità quando i

fondi strutturali, diciamo ‘automatici’, sono

diminuiti a favore dei fondi per cui è richiesta

una ‘competizione’ tra progetti. Le università

si stanno lentamente attrezzando: l’UNICAL

ha avuto ad esempio la fortuna, più o meno

25 anni fa, di mettere su un ‘Liaison office’, un

ufficio dedicato alla progettualità. A capo di

questo ufficio è stato dal principio nominato

un fisico, il Prof. Barberi, che ha costruito una

struttura che si occupasse della nuova progettualità

a partire dal reperimento dei fondi fino

alla costruzione d’impresa. L’UNICAL non

solo ha il Liaison Office, ma anche un incubatore

di imprese (il TechNest) cioè un luogo

dove le imprese fatte da giovani ricercatori

e laureati possano crescere fino a spiccare

il volo. Esattamente come un nido (nest), si

prova ad incubare le nuove imprese nei primi

tre anni di vita per poi lasciarle camminare

con le proprie gambe una volta pronte. Le

imprese spin-off, le start-up dell’Unical sono

numerose e hanno avuto riconoscimenti interessanti.

Non tutte le università italiane fanno

questo, il tentativo in una terra che non è ricca

di infrastrutture industriali e tecnologiche era

proprio quello di assolvere quel mandato

dello Statuto di cui parlavamo all’inizio e di

avere una ricaduta non solo in termini di nuove

conoscenze, che è fondamentale, ma anche

in termini di nuove attività produttive. Attività

produttive che, in un’epoca di dematerializzazione,

sono diventate forse più semplici:

non abbiamo bisogno di un substrato industriale

per andare a costruire nuove imprenditorialità

sana e pulita ma abbiamo bisogno

di conoscenza e di strutture.

Raffaele Agostino crede che questa sia una

delle scommesse da raccogliere per le nostre

Università. Naturalmente non nasconde che

rispetto a questa traiettoria non tutta l’Università

si muove concorde. Questo però è

nell’ordine delle cose: ci sono diversità e

#Area Heisenberg

34 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino

#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino

35



#Area Heisenberg

#Area Heisenberg

ben vengano, l’importante è che ci sia una

spinta verso qualcosa di innovativo che sia

anche un contrasto alla fuga dei cervelli. La

cosa che più ci fa star male in generale è

notare che molte persone scelgono direttamente

di andare all’università fuori in base alle

maggiori possibilità lavorative future. Questa

è un’emigrazione che va a beneficiare direttamente

l’economia di altri posti: uno studente

calabrese che va a studiare in un’università

del Nord contribuisce all’economia del Nord

ancora prima di iniziare a lavorare lì. Abbiamo

un travaso di risorse mentali ed economiche

dal Sud al Nord e questa è una cosa che fa

molto male. Non importa quando avviene

ma questo trasferimento di energie, di intelligenze

e risorse materiali è qualcosa che sta

continuamente impoverendo, immiserendo

in tutti i sensi la nostra Regione.

Lei invece è uno di quelli che sono rimasti.

Cosa l’ha spinta a fare questa scelta e

cosa consiglia a chi vuole intraprendere una

carriera universitaria?

Io mi sono convinto nel tempo che il principio

fondante di ogni ricercatore è la passione,

lo traduco dicendo che nulla è difficile quando

qualcosa ti piace. Seguire le proprie passioni,

seguire la propria capacità di agire e di portare

qualcosa di nuovo, avere la coscienza di fare,

di dire, di scrivere è l’unica base da cui partire.

Ho visto colleghi che partivano da conoscenze

di base limitate, cito sempre come la

prima laureata del mio corso, adesso ricercatrice

dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare,

proveniva da quella che era negli anni ‘80 la

scuola magistrale, dove la matematica, la

fisica che io avevo fatto e molte altre cose non

erano state affrontate, eppure la sua volontà,

la sua capacità, la sua passione ha portato

lei ad essere la prima e la migliore del corso.

Questo è solo un esempio ma ne potrei citare

tanti per dire che le difficoltà che si hanno nello

studio e nell’affrontare la ricerca che consegue

lo studio, vengono superate quando si

ha passione verso una cosa e quello che mi

fa tristezza e vedere molti ragazzi, magari

brillanti e con ottimi voti, che alla fine delle

superiori non sanno cosa fare. Vedo un capitale

sprecato, dei talenti inespressi. Quelli che

scelgono semplicemente ingegneria o economia

come grandi contenitori per dire «vabbè,

poi tanto decido dopo», secondo me fanno

una scelta perdente. Ho visto molte persone

che hanno cambiato corso di studio al primo

anno di università, che si sono resi conto che

la loro passione era tutt’altra: non erano più

sotto il giogo della famiglia o della società,

e quindi avevano la possibilità di tirar fuori le

proprie tendenze per poi riuscire. L’importante

è scoprire la propria passione e cavalcarla, poi

è abbastanza semplice: semplice non vuol

dire facile, significa che si riescono a superare

gli ostacoli, non che gli ostacoli non ci siano.

Il professore ha anche parlato dei due

lavori di ricerca di cui va più fiero:

Il primo è l’aver visto che, in alcune condizioni,

l’impossibile diventa possibile. Normalmente

uno dei vettori di energia che costituirà il

nostro futuro che è l’idrogeno, è un gas difficile,

perché per raccoglierne una quantità

sufficiente per riscaldare o far andare un’auto

elettrica, come la Mirai della Toyota, ce n’è

bisogno in quantità così grande che è difficile

compattarla in un piccolo spazio. É leggero,

poco denso, ma questo significa che c’è bisogno

di grandi volumi da portarti dietro. È stato

tentato di risolvere questo problema in vari

modi. Ciò che il mio gruppo di ricerca ha fatto,

riuscendoci, è stato andare a vedere cosa

succede alle molecole di idrogeno, che sono

di dimensione del miliardesimo di metro,

quando vengono confinate in spugne, strutture

che hanno pori della dimensione delle

molecole stesse. Come a dire, vediamo se l’effetto

sull’acqua di una spugna posso ottenerlo

anche per l’idrogeno. La scelta è stata trovare,

produrre e inventare spugne di dimensione

nanometrica e poi andare a indagare il loro

comportamento. Quello che abbiamo scoperto

è che l’idrogeno condensa sulle superfici di

questi pori e raggiunge densità simili a quelle

dell’idrogeno liquido che si ottiene normalmente

a -250° centigradi. Avere scoperto che

questa cosa può essere ottenuta a temperature

molto superiori, permette di avvicinare

quel traguardo tecnologico di avere grandi

quantità di idrogeno, quindi grandi quantità di

energia, in piccoli spazi. Un bel risultato di cui

vado fiero, perché il percorso ha visto anche

l’ideazione e la realizzazione totale, dalla

meccanica all’elettronica, al software, degli

strumenti che servono a realizzare questo

esperimento. Un inciso, la società spin-off

DeltaE di questa università (fondata dal prof.

Agostino e altri tre colleghi nel 2000) opera nel

campo della produzione di prototipi ancora

adesso, a distanza di ventuno anni ed è fra le

più longeve d’Italia. Opera e costruisce per il

Politecnico di Milano, per la KAUST in Arabia

Saudita, per università belghe e via dicendo.

Come ricaduta non c’è solo il risultato della

ricerca ma c’è anche la capacità di sviluppare

nuova metodologia e costruire nuova

strumentazione: nuova conoscenza porta la

capacità di costruire nuovi strumenti, nuovi

strumenti portano ancora nuova conoscenza.

Secondo risultato, l’aver contribuito a far

nascere nell’Università della Calabria, unica

università in Italia, un’infrastruttura di ricerca

che si chiama STAR. Infrastrutture di ricerca

in Italia ce ne sono poche e sono a gestite

dal CNR (Consiglio Nazionale di Ricerca) o

dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare,

insomma grandi enti di ricerca. STAR è un

innovativo progetto realizzato nell’Università

della Calabria, un’infrastruttura di ricerca sui

materiali tramite sorgente di raggi-X duri per

la diagnostica per immagini ad alta risoluzione.”

Il professore ci tiene a spiegare come

sia un progetto che si estende al di fuori anche

dell’ambito puramente fisico, si potrebbe dire

che STAR è dotata di una super macchina fotografica

e un super microscopio al contempo,

capaci di realizzare immagini 3D ad altissima

risoluzione di oggetti che spaziano da sistemi

biologici o medici, a reperti di beni culturali

o a materiali avanzati per le ingegnerie e le

nanotecnologie e tutto questo in maniera non

invasiva o distruttiva, mostrando, per esempio,

risultati eccellenti e del tutto senza precedenti

utilizzando la tecnica della tomografia

a contrasto di fase. STAR è un’Infrastruttura

di ricerca di carattere multidisciplinare.

Accanto alla sorgente di raggi X sono nati 6

laboratori per l’erogazione di servizi di ricerca.

I campi di interesse vanno dalle scienze (Fisica,

Chimica, Biologia, …) all’Ingegneria (meccanica,

36 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino

#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino

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telecomunicazioni, informatica, elettronica, …).

Si vuole offrire agli utenti provenienti da altri

enti di ricerca o dalle imprese, la possibilità

di affrontare problemi complessi, quelli che

tipicamente richiedono un approccio esteso

a più materie o campi di studio.

Il professor Agostino si occupa anche di

materiali porosi per la cattura e l’immagazzinamento

di gas quali metano, carbonio e

in particolare idrogeno.

Alla nostra domanda su come funzionano

e su che impatto avrebbe lo sviluppo di tale

tecnologia sull’ambiente ha risposto:

La conversione verde, quella che stiamo

affrontando come Europa, ha bisogno di avere

laboratori che conoscono gli effetti dell’idrogeno

sui materiali. Questo processo di trasformazione

tecnologica è ancora non concluso,

ma l’obiettivo di utilizzare un combustibile

che ha come risultato l’emissione di acqua è

sicuramente qualcosa che potrebbe risolvere

una serie di problemi di inquinamento nelle

grandi città e centri industriali. Non pensiamo

all’idrogeno solo sulle automobili, il grosso

del consumo energetico non è quello del

trasporto: il grosso delle emissioni di gas

serra viene da processi industriali. Questo è

qualcosa che presuppone una serie di studi

sulla fisica dell’interazione delle molecole

dei materiali che è la fisica di base e che è

quella che lo ha sempre appassionato. Si

tratta di avere capacità tecnologica e guardare

come questa possa essere trasferita sul

territorio che abbiamo intorno. Su questo argomento,

un grande player nazionale, un’industria

nazionale che si chiama RINA (Registro

Italiano Navale, Centro Sviluppo Materiali),

una società per azioni multinazionale con

sede principale in Italia, ha realizzato insieme

all’UNICAL un laboratorio per la validazione

dei materiali per l’idrogeno.

Se questa cosa cresce ci saranno giovani ricercatori

che potranno restare a fare il proprio

mestiere in Calabria, e se ci sarà un indotto

sarà naturalmente locale. Tutto questo senza

però chiudersi a localismo e all’autarchia;

insomma, guardare a traguardi più ampi, non

fermarsi al fatto che se non c’è la siderurgia

in Calabria non bisogna occuparsi della sua

conversione green.

#Area Heisenberg

#Area Heisenberg

38

#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino

5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 39



Scritto da Filippo Dodero

#Area Heisenberg

5G, radiazioni e

reazioni sull’uomo

#Area Heisenberg

Le radiazioni elettromagnetiche sono sempre intorno a noi, ma non sono tutte uguali. Potremmo dire

che ci sono tante radiazioni e altrettanti quesiti: che differenza c’è fra le radiazioni? Quali sono i

rischi per la salute dell’uomo? È vero ciò che si dice sulla nuova connessione dati 5G? Quanto c’è di

scientificamente provato?

Radiazione. Per chiunque mastichi un po’ di

vocabolario scientifico, questo è un normale e

innocuo termine d’uso. Allargando però il suo

raggio a quella che è la maggioranza delle

persone, ci si rende conto dello scetticismo

che incute nella mentalità di molti: solo a

sentirlo pronunciare la mente va subito ai

disastri nucleari di Chernobyl e della bomba

atomica di Hiroshima, sfociando a volte persino

in errate credenze popolari o addirittura logiche

complottistiche.

Risulta perciò importante fare una distinzione

per comprendere questa diversità di punti

di vista. Partiamo proprio dalla definizione di

radiazione:

Fenomeno di emissione e propagazione di

energia secondo raggi che costituiscono il

percorso di corpuscoli o la direzione di onde.

In particolare:

R. radioattive, radiazioni ionizzanti emesse da

nuclei atomici quando subiscono trasformazioni

strutturali, spontanee o provocate da reazioni

nucleari.

Radiazioni sono quindi quei fenomeni, del

tutto comuni all’esperienza umana come lo

è la semplice luce, tra cui sono comprese

anche le radiazioni radioattive (dette anche

ionizzanti), altamente pericolose per gli organismi

biologici e che possono generare danni

sia somatici che a livello genetico.

Il mondo in cui viviamo è da sempre costituito

dall’unione di materia e radiazione. Se oggi

potessimo vedere tutte le onde elettromagnetiche

intorno a noi, ci renderemmo conto che

tra radio, televisioni, satelliti e via dicendo, ci

troviamo immersi in un enorme campo di

radiazioni, capaci o meno di interagire con la

materia. La domanda che sorge spontanea è

se tali interazioni possano causare danni biologici

e se ciò dipende principalmente dall’energia

trasportata o anche dalla durata del

tempo di esposizione.

Nel 2019 è iniziata la distribuzione globale

della rete a consumo dati di quinta generazione

per la telefonia mobile: in breve, il

tanto discusso 5G. Si narra di uccelli morti

nelle regioni di installazione delle antenne,

aumento dei casi di autismo, addirittura di un

legame con il coronavirus e di un Bill Gates

malvagio che mira allo sterminio di massa.

Ma quanto c’è di vero in tutto ciò? Anche in

questo caso la cattiva informazione ha facilmente

prevalso su quella scientifica (e corretta)

ma per smentirla basta semplicemente informarsi

sulle bande di frequenza utilizzate per

controllare se corrispondono a quel range

nocivo di radiazioni ionizzanti. La rete 5G è

suddivisa in tre bande di frequenza al variare

dell’area di copertura: bassa da 694 e 790

MHz, media da 2,5-3,7 GHz e alta da 25-39

GHz. Da un semplice confronto con lo spettro

elettromagnetico si nota immediatamente

che siamo nell’intervallo delle onde radio:

nulla di particolarmente allarmante quindi,

considerando che radio, televisioni ma anche

le reti wireless funzionano con lo stesso tipo

di radiazioni. Queste non presentano un’energia

sufficiente da modificare direttamente

gli elementi che costituiscono gli

esseri viventi.

Sia chiaro a questo punto che chi diffonde

notizie contro l’uso del 5G tramite Internet

sta già peccando di mancanza di coerenza.

Va precisato, però, che esiste effettivamente un

fenomeno definito ‘elettrosmog’ riguardante

l’indagine dei danni dovuti a tipi di radiazione

non ionizzante, che sono stati dimostrati

in condizioni di forte intensità; anche se,

escludendo gli incidenti sul lavoro, per ora

nessuno è mai stato sottoposto ad emissioni

così elevate. Questi studi per ora non

hanno portato a risultati così chiari ed evidenti,

per cui si è scelta una strada precauzionale

e nel febbraio 2000 l’ORNI (Organizzazione

sulla protezione da Radiazioni Non Ionizzanti)

40 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo

41



#Area Heisenberg

ha imposto dei limiti massimi per l’esposizione

a breve termine delle persone, rivolgendosi

con tale legge principalmente ai

grandi impianti elettrici. In casi limite come

questi ultimi, gli effetti causati sono, per le

radiazioni a più bassa frequenza, disfunzioni

a livello delle cellule nervose o muscolari e

in rari casi – anche se non c’è una certezza

– rischio di leucemia infantile, mentre per le

alte frequenze gli effetti sono principalmente

di tipo termico, associati quindi all’aumento

della temperatura corporea. Per fare un esempio

concreto, una chiamata di diversi minuti

al cellulare va a influenzare la temperatura

dei tessuti ma solo nella zona della testa

intorno all’orecchio e solo di qualche frazione

di grado. In pratica, ci si riscalda molto di più

prendendo il sole al mare.

Insomma, il progresso tecnologico ci ha messo

a disposizione sempre più mezzi e strumenti

in vari ambiti e a vari livelli, soprattutto a livello

medico, aziendale e di ricerca, ma questo

vuol dire sottoporre la società a un numero

di radiazioni sempre maggiore che, se non

controllato, potrebbe avere conseguenze

spiacevoli sul lungo termine. Nonostante ciò,

come si è visto, esistono studi anche nel senso

opposto ed è a quelli che bisogna fare riferimento

quando si parla di danni alla salute

dell’uomo, senza credere a tutto ciò che si

legge in giro che non si basi su evidenza di

tipo scientifico, perciò logisticamente non

attendibile.

C’è quindi da prestare attenzione alle radiazioni,

giusto, ma anche alle reazioni.

Fonti:

AA.VV., L’elettrosmog nell’ambiente, Ufficio federale dell’ambiente UFAM, 2005, p. 56

Diana Restrepo, Salud mental de los cardiólogos intervencionistas: Estrés ocupacional y

consecuencias mentales de la exposición a radiación ionizanteMental health of interventionist

cardiologists: Occupational stress and consequences of exposure to ionising radiation, «Revista

Colombiana de Cardiología», 2020

#Area Heisenberg

Theodore S. Rappaport, Robert W. Heath, Jr., Robert C. Daniels e James N. Murdock, Millimeter

Wave Wireless Communications, Prentice Hall, 2014

42

5G, radiazioni e reazioni sull’uomo

Una reazione ci salverà

43



Scritto da Alessandro Rossi

#Area Heisenberg

UNA REAZIONE

CI SALVERÀ

Per chi è nato e cresciuto in una società consapevole, anche se sorda, dell’emergenza ambientale e

climatica, immaginare il futuro ha sempre corrisposto a immaginare una società sostenibile, pulita,

armonica. Il futuro presuppone ormai la necessità di cambiare paradigma energetico: meno consumi,

emissioni e sprechi, più energie rinnovabili, recupero dei rifiuti, maggiore efficienza. Recentemente

anche le classi politiche sembrano essersene accorte, e in tutto il mondo si cercano soluzioni. Ma la

società globale ha bisogno di una reazione decisa per raggiungere l’obiettivo… e forse la reazione è

stata trovata!

#Area Heisenberg

Lentamente, negli ultimi anni, i popoli e la

politica si stanno accorgendo di quanto sia

urgente cambiare modello energetico, e in

tutto il mondo si assiste a un’accelerazione

nella produzione di energie rinnovabili. Ma

cos’è precisamente l’energia rinnovabile?

Possiamo davvero sperare di soddisfare il

nostro bisogno energetico solo grazie ad essa?

Innanzitutto, le fonti di energia dette ‘rinnovabili’

sono tutte quelle che possono, appunto,

rinnovarsi all’interno della scala temporale

umana, essendo pressoché inesauribili.

Energie a basso impatto ambientale e

senza rischi per la salute umana e l’ecosistema.

Purtroppo, però, possono non essere

abbastanza.

Le più importanti energie rinnovabili (eolica,

idroelettrica, solare) coprono in Europa soltanto

il 10% circa del fabbisogno energetico comunitario.

Per ambire all’indipendenza dalle fonti

non rinnovabili e inquinanti come i combustibili

fossili e nucleari dovremmo decuplicarne

la produzione. È un’impresa titanica, soprattutto

se si pensa al fatto che l’Europa è uno

dei continenti più all’avanguardia dal punto di

vista della sostenibilità energetica, con eccellenze

sparse in tutto il Continente [1][2] .

L’intenzione non è quella di sminuire la necessità

e l’utilità delle fonti rinnovabili che sono

anzi fondamentali. Hanno solo bisogno di

una piccola mano, così piccola da risiedere

appunto nel più piccolo elemento presente

in Natura: l’idrogeno.

L’idrogeno (H2) ha attirato l’attenzione, ormai da

qualche decennio, per via della sua enorme

disponibilità (è l’elemento più presente nell’Universo)

e per la sua grande potenzialità come

vettore energetico. È usato questo termine,

invece del più comune fonte di energia,

perché in effetti non è l’idrogeno in sé e per

sé a produrre energia, ma le reazioni esotermiche

che può generare. In altre parole,

‘bruciare’ idrogeno dà energia proprio come

la combustione di carburanti come il petrolio.

Il dispositivo abile a far reagire l’idrogeno

e a convertirlo in energia è chiamato

cella a combustibile al cui interno avviene

una semplicissima ossidoriduzione – come

quelle che si studiano al liceo – rappresentabile

attraverso due reazioni parziali:

• Ossidazione dell’idrogeno all’anodo:

H2→2H++2e-

• Riduzione dell’ossigeno al catodo:

½O2+2H++2e-→2H2O

Il guadagno di energia detta ‘libera’ a seguito

di queste reazioni sarebbe pari a circa 237 kJ/

mol (kiloJoule per moli d’acqua prodotta) che,

se convertito in voltaggio, equivale a circa 1.23

44 Una reazione ci salverà

Una reazione ci salverà

45



#Area Heisenberg

Cella a combustibile ‘PEM’

V. Se questi numeri suonano un po’ oscuri,

si può ragionare in termini di calore emesso

durante la reazione: l’idrogeno emetterebbe

tre volte più calore del petrolio [3] . In più, la

produzione sarebbe totalmente non inquinante

in quanto, come si vede dalle reazioni in

alto, l’unico prodotto sarebbe della semplice

acqua pura (H2O). Un altro punto a favore

delle celle a combustibile rispetto ai tradizionali

motori a scoppio alimentati da combustibili

fossili consisterebbe nell’efficienza: la

cella a combustibile è un motore elettrico e,

in quanto tale, non incorrerebbe nelle limitazioni

imposte dal Ciclo di Carnot come nel

caso dei motori termici come quello a scoppio,

il cui rendimento è limitato dalle temperature

in ingresso e in uscita. Questo porterebbe

le celle a combustibile a rendimenti al

di sopra del 50% e, in alcuni casi, fino all’80%

mentre i motori a benzina e diesel si attestano

più o meno tra il 30 e il 40% (per le temperature

a cui operano).

Pila - Motore a scoppio. Fonte: Treccani.it

I condizionali appena usati sono però d’obbligo

in quanto l’idrogeno è un combustibile

difficile da trattare in tutte le fasi della produzione

energetica, come la sintesi dell’idrogeno

stesso, il suo immagazzinamento (storage), il

trasporto e infine la reazione chimica capace

di produrre energia (in copertina) per realizzare

ciò che viene chiamato comunemente

ciclo dell’idrogeno. Da almeno tre decadi la

comunità scientifica si sforza quotidianamente

di ottimizzare ogni passo del ciclo, riunendo

competenze che vanno dalla chimica pura

all’ingegneria energetica, dalla scienza dei

materiali agli impianti elettrici industriali.

Efficienza voltaggio. Fonte: Treccani.it

La reazione stessa infatti trova nella riduzione

dell’ossigeno una sorta di barriera da

superare piuttosto significativa, chiamata in

gergo barriera di potenziale, che ne limita

il rate (tasso di reazione). Questa proprietà

purtroppo ne abbassa le reali prestazioni,

arrivando a generare voltaggi tra lo 0.6 e 0.9

V o anche minori in caso di correnti elettriche

più elevate. Per mitigare il problema, il

catodo conduttivo nella cella va arricchito

con catalizzatori che ne aumentino la reattività

(abbassino insomma la barriera di potenziale)

e quindi le prestazioni. I metalli nobili

come il platino, ad esempio, hanno un’ottima

efficacia in tal senso, ma sono così costosi da

costringere gli addetti ai lavori a grandi sforzi

per ridurre al minimo gli sprechi (economici

e ambientali).

Anche l’utilizzo dell’idrogeno, elemento principale

coinvolto nel ciclo, non è privo di

inconvenienti. Come poter convogliare, immagazzinare

e trasportare infatti l’elemento più

leggero e reattivo dell’Universo?

È così poco denso che un serbatoio di idrogeno

pressurizzato ha una capacità energetica

di circa sette volte minore di un serbatoio

di pari volume pieno di benzina! Questa

sua caratteristica tuttavia non è eccessivamente

limitante in particolari applicazioni di

‘grandi dimensioni’, come i grandi impianti industriali

o i motori di un aereo, mentre potrebbe

essere assolutamente sconveniente applicare

un serbatoio di idrogeno in un’autovettura di

modeste dimensioni. Infine, altri problemi di

infiammabilità e cattura vanno tenuti in considerazione

tramite l’uso di materiali porosi ed

ignifughi.

Soprattutto, però, sta creando grossi problemi

la sintesi dell’idrogeno in maniera sostenibile.

L’obiettivo comune è quello di isolare l’idrogeno

dall’acqua (per completare così il ciclo,

essendo l’acqua anche il prodotto finale) in

una reazione chiamata elettrolisi utilizzando

energia rinnovabile, come l’eolica o la solare.

L’idrogeno prodotto in questa maniera è chiamato

idrogeno verde ed è l’obiettivo numero

uno nelle agende politiche di tutti i Paesi avanzati,

tanto da essere citato anche dal nostro

Fonti:

nuovo Ministro alla Transizione Ecologica

Roberto Cingolani nel suo primo discorso alle

Camere [4] . L’idrogeno verde corrisponde per

ora solo al 2% di quello prodotto, che viene

per il resto principalmente ottenuto tramite

sintesi dai combustibili fossili: idrogeno grigio

o blu. Ovviamente, questi altri ‘colori’ dell’idrogeno

hanno un impatto ambientale significativo

che non può essere sostenuto.

L’ultimo passo da compiere è proprio questo:

implementare fonti di energia rinnovabile

combinandole con la produzione di idrogeno

per ottenere finalmente un ciclo globale di

produzione energetica totalmente pulito,

sostenibile e praticamente inesauribile; obiettivo

sempre più vicino grazie alla drastica

riduzione dei costi di produzione delle energie

rinnovabili [5] .

Nonostante i problemi elencati, la ricerca

scientifica ci ha portati ad un passo dall’obiettivo.

Di fronte all’epocale problema

ambientale, siamo riusciti a reagire e trovare

quella che sembra una via d’uscita. La nostra

salute, il nostro stile di vita e tutto il pianeta

possono essere salvati. Raccolta differenziata

dopo raccolta differenziata, pannello fotovoltaico

dopo pannello fotovoltaico, reazione

dopo reazione.

[1] Fuel cells and Hydrogen Joint Undertaking

[2] Anmar Frangoul, Orsted to link a huge offshore wind farm to ‘renewable’ hydrogen production,

CNBC, 1/04/2021

[3] World Nuclear Association

[4] Cingolani l’ambiguo, tra idrogeno verde e fusione nucleare, «Il manifesto», 17-03-2021

[5] I ‘colori’ dell’idrogeno nella transizione energetica, EAI ENEA 2/2020

[6] The Future of Hydrogen – seizing today’s opportunities, Report by the IEA

#Area Heisenberg

46 Una reazione ci salverà

Una reazione ci salverà

47



Scritto da Salvatore Bruno

Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone

Quando ‘canzone’ fa

rima con ‘reazione’

#Bootleg è l’angolo di Palin Magazine dedicato alla musica. Arricchito di mese in mese da tematiche,

artisti e storie e collegato a una playlist, è lo specchio musicale del magazine. Perché sì, anche la musica

è cultura e possiede un linguaggio universale, di cui Palin non ha potuto fare a meno

Fine anni Sessanta, Italia.

Anche il Bel Paese conosce il clima delle

contestazioni studentesche e operaie, la

rivoluzione sessuale, nonché la ‘madre di

tutte le stragi’: la strage di Piazza Fontana,

evento che diede inizio a quelli che sarebbero

passati alla Storia come gli ‘anni di piombo’,

anni di estremismo violento. Nel frattempo,

sullo sfondo mondiale avvenivano altri eventi

epocali come la morte del presidente Kennedy

e l’assassinio di Martin Luther King in America,

la «primavera di Praga», lo sbarco sulla Luna

e la guerra in Vietnam.

È stato un periodo carico di tensione, al di là

degli avvenimenti politici e non, che conosciamo,

e fare televisione era diventato dequalificante.

Mi nauseava un po’ una certa formula, mi

stavano strette le sue limitazioni di censura,

di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi,

d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto

successo, ma ora a questo successo vorrei

porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività

teatrale riacquistasse un senso alla luce del

mio rifiuto di un certo narcisismo.

È con queste parole che, nel 1993, Giorgio

Gaber racconta in un’intervista la nascita

del teatro canzone, genere innovativo e di

fusione tra la musica e il teatro, al quale dà

vita insieme all’amico pittore e paroliere

Sandro Luporini.

Il signor G non è (più) un cantante né uno

dello spettacolo, bensì un uomo comune,

diviso tra dubbi e contraddizioni come qualsiasi

suo altro simile, oltre a essere il titolo

dell’omonimo album del 1970 del rinnovato

Giorgio Gaber.

Ciò che caratterizza le nuove vesti e la nuova

poetica dell’artista milanese è un linguaggio

schietto e privo di retorica, specchio di un’anima

anarchica e stretta nelle convenzioni

sociali; un personaggio nel mirino del quale

ci sono l’ipocrisia, il moralismo intellettuale,

Gaber e Luporini preparano il debutto de Il Grigio nel 1988. Foto di Enrica Scalfari.

Dall’account Facebook della Fondazione Giorgio Gaber.

le ideologie precostituite, il conformismo di massificazione che tramuta l’uomo in automa

facciata e le istituzioni spesso stantìe, in un’eco e mero consumatore. Quelle del signor G non

continua tra ‘personale’ e ‘politico’ in una possono quindi che essere canzoni volutamente

provocatorie e senza filtri, che vanno

ricerca dell’individuo a scapito dell’uomo

come ‘soggetto politico’. Il signor G si fa, consapevolmente

e inconsapevolmente, spectenimento

da pochi minuti. La si potrebbe

oltre il concetto stesso di ‘canzone’ di intratchio

e modello generazionale che inse-

scambiare per ironia o satira – e di fatto lo è

gue una libertà estrema, fuori dal consumismo

e dalle logiche, dai meccanismi della

– ma è anche una fortissima volontà di sfuggire

alla banalità e all’alienazione dettata

48 Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’

Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 49



#Bootleg

Luptati con prorem et harior sum fugitas dit

officium sum solut faccae voluptatem accae.

Et lacepero inctur? Orum imus etum fuga.

Boratius eatam eaque volum es porrorati rerior

soluptatur aut fugia dellab in eos re nimodia

tenderit aut eum, volor sequi doloris distiis

voluptatet hicto quae dolorem facil iustrum

vende eos sam alita voluptat mos voloria

int eum voluptaturi dolenem ex et hicimin

rem dolorrum corrovi tatentis nusam sum et

adia de nosandae seceruptatus molenderovid

eium voluptiost, eumquaecus, officim

fuga. Aximusdamet perovit ionsedi re vero

invendandunt liquia porit harchillaut assimus,

ut ute volore commolutesti dolo iducit

arit latur rae. Et as et etur, tora qui dolupta

tisquat usciis nihicabo. Quis et fuga. Hillate

plabore percimet eum con consenis inctora

velit explis repro mosamen denimus et quisqui

con pos dolorepelis porion eaqui blam faceritia

quam, omnis minctate etum quae nobitaqui

unturiaerrum aciis volut porem reprae

maione magnimus, que natem res escideb

isquos voluptatati nost la excepel il magnatendae

que net laborporum rem cum quidele

ntione niscitate con everovit re adit volupta

tquidem eum estiat.

Ficias sum experib usdament et quistenes

quodignim hita vitibus samus eosaest ressin

conem anducil iquatur seque nam eum quo

doloreri corporio. Epe optatumet et vercipid

molorehendit et aut planda dolupta volupis

exerum eiuscium hicilitem es consedit

qui di blab id ut aut lam fugitae et re quianis

sequas aut quas et aborro velestrum hillabo.

Hendunt reictoristis ut id maxim cone laboribusci

sa que inum qui sae. Nem sandanita

parum, quam quodi doluptatios asperiatiust

reperro rporissitate et et etus int aspeles simustrunt

volupta tionet debis rendunt aut lam,

ex estrum eatinim fugit, sit quaeperrum qui

odit everorepre nonsedita nost, quae nullest

aut libus plit, omnient ides doloratur, sequi

ab id que corio. Itassedit, optatur a im is a

invel ent a consedic tem as ex et il il iumque

optate soluptur sam re omnisit que occaboreicia

voluptibus reremporatat alique solupti

asimperore que es dolorroreria et ullique iure

parciisi tore velluptur magnit, coreperum qui

occae nist moluptas vidundempor sanimpe

reperio oditae dellande lam, con nonsent

ureicab oruptatius sernatem et harchit aciumque

officipiet labo. Bist et, voluptiam, quiae

volupic iendam audicati corepra que sequam

volupta voluptat voluptatque doluptus.

Bus. Te aut percill oriatusa dit et earciunti qui

audio que ipsandi velitia nonseri diorepr estinum

fugia voloreperum fugia sin rerferum

quibusaepel moluptate eum fuga. Nullaccum

ipsunt di dolentotat.

Abo. Enim fugia preiusc itioribea nimpers

pidion nonseque sit dit reriaecae venis que

omnimi, voloreped quiam eosanducia volorep

taestis arum nosaece rchicie nimpos sitiatis

ea nulpa quam fugiame es nis et quam,

quas dolupti ssitiam adit lab is vero volorrovit

que con elecus ma quasitaturi beror solorib

usciasp edignat lab iliquam, illaborrum

aut as sum volore vitiatur, accab ideliquibus

voluptate conecep ellorae pudipsam fuga.

Da sim ium et qui bea que illant lam adi as

di natin nem inusae. Rit est, qui tem quiant

laborro velitiam vitiorr uptate nobitium volores

non ne adi que officim inctus rerferr umquibustrum

veria cuptatis expero doluptaspel

exerum volorum quos renturio tem quisquiae

moluptaero modit atur?

Dam es sequis re, ipit expe nimenec aboria

volore nos pore recto doluptatibus volupta

volore, cus nem latust aligeni mendis essequis

essent exerio intus, ut ex es ipsum velit

harundelent quam harum ra exceatectem

hitem auda et ex esequi di volorepel int aces

molorepre quiamusae veria venihil earcium

faccull uptus, sim non et ipis nonsequatem

autatur ehenihil inusa qui atistiis cum ius sedigent

vendis et vercide volorest, conecessit,

tota site resto te laccum disquae coria quuntias

doloriasinus eatet adiciti osandan dundae

autaturia sequodigniet quis denis cone num

voluptates ende earum quiant quas aliandi

pitatureius, sin electet a volupta doluptati officim

oditior epellacit, que rerest, niminvelicit

et laborem remporernat eost fuga. Veriam

non et ium fuga. Utaqui dolorrum faccum

est et iur ationest, que exerspitatus ratur si

corro moluptas remquam fuga. Agnis re, sant

audae con consequis peliatusam asped ex

eatis maximus quam repedit expe vendend

itincta tempor reribus, qui dolorestota sam,

sum adipsan imolorepedis rempore vent alia

pellaborum fuga. Ut as molorro te id quo

explicimil ipicides exero que si aut pra sitatur,

coriatur?

Tatur sam, ut volupit aspient istiasime non

nonsect empore por acipit lautet molorep erferionsed

moluptatur apite verumenis autat re

dem se molecea quia porit ut laut alic te volesci

llaborepudi odionse dissitionse imodiatiam

nullabo. Ximoluptae sit est, comnis solum, to

velectatenet volupta que net dempore ratur?

Optiasi oditibusant harum re, quam, to volorro

bea cum quistru mendern atiassi magnatibusam

exped eos eius, sum quianim agnihit optis

suntist, velicietur sumquatae nullibercil min

esti rempore rchitis et perae ped quia illessedit

ommodit maior mintia ni que pratecatem

di beaquiat unt dignatemquo quat pore

si sunt, volendio. Solorro estibus.

Ed erum rehendelicid mosapedist, ut landes

dolupic ipsant mi, ipsa aciandi tiusciet qui

reriberrum et alit es quisqui optaerio te pos

suntionsed est, ut pelit vende doluptium aut

volor asinctemodit quos atecerio commo

erferiae nati disquaes pro odis idelecusamet

rem ut apiscie ndaernatem ius et volorem

volut optios eate omniene cus sam aut

volles earume asperum venis eturemqui omni

comnist unt, ant alia nosto del elisitium untiatquia

vent auta denim con re dolesendam,

comnime dese volum sitatat endit et omni

utatemporia qui non repra simaximin nosa con

repudae reperum que re quam, comnihil molut

audi dolent volorpore ipsant labore sitint, od

et abo. Sectur aut imin num in parum quatet

aut reicte odit et volupturia aut am reruntus,

sinti con con num re, cus re plandicia volores

tiaeresequis dunt in essimos solore, volut

aut et quunt.

Ciis dollupt iorehent. Imet dipisto tatur?

Facest reperupta inullique voluptas sum, tet

omni dem fugiam repta periasincto idem dolliquam

iunt am faci corum nosam, quidebit

pliquo tem quo officiis eictiation pa as mos ant

ut volore volore perum ium duciis etur reicti

nis evel eaquateculpa perions equatis quatquunt

dolupta quosapisit omnis doluptur, venis

ex earupti num faccus volenimust, unt essum

aut et dolupit accuptas ium est ut ventotas

dolum quas essitatur aliatque duci acit, od

magnis renda quaturio. Ut voluptatusae vid

qui odigenim qui at omnitatur maxime volenis

mi, nonsequae. Bus deri incturit lab inimi,

conet officiet quatur reperor ehendae pratione

eatis utemper umquatu santia cum que ne

et eveliquid ulliquides dolupta in rem fugia

nonsequamus, soluptam doluptae et iustis

ressima qui recepellabo. Et int et doluptatur

si dolore dolo beatibusamus quibus, accuptu

mquatem quatem. Pudaesc iligend aerferum

eium faceaquia eatesciis millic temporibus.

Gentibus, quatio dolupta que voluptatum

volorpo remporia nobitatios ullabor iandam

alia sequae nobit officipsa con cusapientem

vera dolupta tiatur milis conseque et plit

audantotat lique veliquo molorep eriam, cupiet

volore natqui des derae eatem quaspidenim

accum aut est, que nit, officima dolupta tiorporunti

volut quo omnim facculpa sim doluptate

quo volupie niendam hit es pos voluptia

ni berspie ntiassum non con netusapero

ommod molorro cor aut porest re sum quate

nis nosant, ut mod quam quunt aut harchil

liquisq uatent aliquis essunt.

Laborporepe liquae plicid ut aut eaquis doluptatem

aliquiam cus arciam sequaes susdantis

core cuscia de pedi dolesti bla poriae comniae

stiscipsandi delignam a nullam essi sendaer

itiscium que experum quiatis etur?

Samus ea sinia volorum, tori anima apidicitatur

seni aut aut enimillaut quis maxim que optat

et liqui dolorum alitate mporeprovid quid ut

volupta volori doleste porit venempeles et

adisquam, asperent omnis aut impores net

andam quisciassit modit, abor aborrupta sunt

doluptatus et qui alibus dolor accum fugitaspero

corporitatia nossi senitibusam commoste

perrum et min nestiistrum aditae plam ra

sum acea dunt.

#Bootleg

50 Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’

Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 51



dall’omologazione: così lo spettacolo a metà

tra monologo e cantato diventa momento

di riflessione autentica sui propri umani

dubbi e sulle proprie perplessità, oltre che

riflessione pura sul mondo contemporaneo.

Linguaggio, musica e teatro si fondono e

diventano sfogo di disillusione, utopia e disincanto

ma anche voglia di scrollarsi di dosso

alcune speranze e talune certezze per indossarne

altre.

In un periodo come gli anni Settanta, e più

in generale nella storia della musica italiana,

Giorgio Gaber è sempre inequivocabilmente

la voce fuori contesto e priva di filtri che

sfugge a ogni genere di etichetta. Non è un

caso che per moltissimi, artisti e non, il signor

G sia un mito artistico di riferimento e i suoi

testi ancora di profonda attualità.

Siamo onesti: quante volte oggi ci capita di

uscire da una sala concerto e da un teatro

consapevoli di aver ricevuto una lezione catartica

per noi stessi?

Sembra che, per rispondere a questa domanda,

basti dare un’occhiata – e un ascolto – a

qualche nuova leva della canzone italiana

contemporanea. A partire dall’ormai noto

Willie Peyote, rapper torinese sempre vicino alla

critica sociale e con il gusto della provocazione,

ispirato proprio dall’insegnamento di Gaber.

In Metti che domani, brano del suo penultimo

disco Sindrome di Tôret, cita proprio il

suo maestro:

Libertà è partecipazione

Ma anche il maestro vedesse in che situazione

siamo adesso cambierebbe posizione.

In un’intervista al «Corriere» di qualche anno

fa il rapper dice:

Se tutti parlano tanto per dire la loro non è vera

partecipazione. Di Gaber condivido l’approccio

non giudicante. Solo su un tema prendo posizione

diretta: l’antifascismo è la linea di confine.

Ancora oggi, il rapper non ha perso il gusto

per l’anticonformismo privo di compromessi.

Gaber per me è stato un maestro, e soprattutto

perché mi sembra molto attuale. Attuale nelle

tematiche e attuale nei sentimenti, e forse tutti

noi abbiamo bisogno di vivere certi sentimenti

e certe emozioni nella musica italiana. Io vivo

Gaber come un nonno, quindi mi piace pensare

a questa figura così familiare e mitica e avercela

intorno a me ogni tanto, quando scrivo una

canzone.

Così racconta invece Cimini, giovanissimo

cantautore della scuderia Garrincha, esibitosi

al Piccolo Teatro di Milano in occasione

dell’ultima edizione dell’evento Omaggio a G

– Io ci sono, sei serate dedicate a Gaber per

la manifestazione Milano per Gaber conclusasi

il 23 marzo scorso. Sul palco, ad alternarsi

con altri giovani artisti del panorama italiano

anche N.A.I.P., all’anagrafe Michelangelo Mercuri,

l’eclettico polistrumentista divenuto famoso

nell’ultima edizione di X-Factor, che dell’artista

maneghino dice:

A me Gaber ha insegnato tanto, mi ha illuminato

tantissimi punti bui della comprensione mia e

della società, e nonostante siano passati gli anni

è uno di quei casi in cui le sue parole valgono

sempre. A chi vuole fare luce consiglio Gaber

perché lui ha fatto fare a me luce.

Lo scorso gennaio, ospite di Far finta di essere

sani, format digitale per una serie di incontri

virtuali con artisti contemporanei, N.A.I.P. si

era già espresso su Gaber attraverso il brano

I borghesi:

Ho scelto questo brano perché lo trovo più che

mai attuale; si parla dell’ imborghesimento

e delle classi sociali, molto definite negli

anni ’60 e ’70 ma che, a mio parere, sono

riemerse nuovamente durante la pandemia che

stiamo attraversando. Ascoltando il brano mi

sono inoltre reso conto di alcune somiglianze

linguistiche col racconto che faccio io nelle

mie canzoni. Ascoltare Gaber per i giovani di

oggi può voler dire trovare un secondo padre.

Bene, alla domanda di prima non si può quindi

che rispondere con autentico ottimismo: nonostante

la società e il periodo in cui viviamo, è

ancora possibile ascoltare musica e imparare.

Imparare su di noi e magari reagire alla

contemporaneità, ponendoci vecchie e nuove

domande. Anche negli anni Venti del Nuovo

Millennio.

Giorgio Gaber, intanto, continua a fare da maestro.

#Bootleg

Link e video consigliati:

Milano per Gaber, giovani artisti sul palco per l’evento «Omaggio a G-Io ci sono», in «Corriere»,

19/03/2021

Far finta di essere sani, il nuovo format di Fondazione Gaber: ospite di questa puntata

N.A.I.P. artista rivelazione di X-Factor che sceglie e commenta “I Borghesi” del Signor G, in

«Spettacolinews», 15/01/2021

Milano per Gaber 2019 - incontro con Willie Peyote

Far Finta Di Essere Sani ...con N.A.I.P., “I borghesi”

Bibliografia:

Manfredi, Roberto, Skan-zo-na-ta. La canzone umoristica e satirica italiana da Petrolini a

Caparezza, Prefazione di Alberto Tonti, Skira, 2016

Foto nella pagina precedente proveniente dall’account Facebook ufficiale della Fondazione

Giorgio Gaber

#Bootleg

Cimini sul palco del Piccolo Teatro di Milano.

Dal profilo Instagram ufficiale @ancoramegliocimini

52

Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’

Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 53



Illustrazione di Claudia Corso, @aetnensis

Palin incontra anche Warhol.

Con lui Palin scopre nuovi linguaggi

dell’arte, imparando che le astrazioni

sono veicoli potenti per invadere lo spazio

percettivo.

Quest’area tratta quindi di Arte, in tutte

le sue forme e declinazioni, al di là di

ogni possibile categorizzazione, al fine

di indagare il mondo artistico in ogni

sua forma: scultura, pittorica, musicale,

teatrale e così via.

Tutte le cose sono nell’aria, conta solo chi le realizza

Andy Warhol

Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_

Illustrazioni di: Andrea Innocenti,

@monsayk_art



Scritto da Martina Trocano

#Area Warhol

56

“Sarebbe fantastico se altre persone si mettessero a fare serigrafie in modo che nessuno

possa sapere se un’opera è mia o di qualcun altro”

Andy Warhol personaggio eccentrico, controverso

in grado di scuotere e rivoluzionare

totalmente il mondodell’arte.

Siamo nel 1962 e Warhol dipinge trentadue

quadri rappresentanti lattine di zuppa

Campbell, sostenendo che il cibo in scatola

costituiva un degno soggetto artistico per

una generazione ossessionata dal business.

Con le lattine di zuppa si attuò la trasformazione

dell’arte in bene di consumo. Nello

stesso anno, basandosi su fotografie realizzate

in studio a scopo pubblicitario, inizia a

realizzare serigrafie di personaggi celebri:

Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Elvis Presley

e Jackie Kennedy. Si concentra, in seguito,

sulla rappresentazione di tragedie realmente

avvenute: Five Deaths, ad esempio, mostra

degli adolescenti in abiti da festa vittime di

un incidente d’auto; Suicide- Fallen body,

l’opera più famosa della serie, dalla foto di

cronaca di Robert C. Wiles, rappresenta una

Andy

Warhol

modella gettatasi dall’Empire State Building

e finita sul tettuccio di una limousine, per

l’espressione serena del volto e la compostezza

dal corpo, nonostante il volo dall’86°

piano dell’edificio la fotografia è stata rinominata

“The most beautiful suicide”.

Dopo aver raggiunto la celebrità Warhol torna

alla realizzazione di stampe che avevano

per oggetto beni di consumo: la Coca-Cola,

Brillo Box, altre latine di zuppa Campbell. Il

suo studio, nel frattempo, prendeva il nome

di “The Factory” di fatto sottintendendo che

l’arte poteva essere prodotta con tecniche

industriali, in catena di montaggio, proprio

come i beni di consumo frutto della società

capitalista che rappresentava, assunse degli

assistenti per trasformare le foto in serigrafie,

in seguito commissionò il lavoro a stamperie

esterne. Andy Warhol deve il suo posto

nella storia dell’arte al fatto di aver scardinato

l’autorialità delle opre d’arte e all’utilizzo

di mezzi di produzione di massa.

#Ritratti: Andy Warhol

LA ROSA REAZIONARIA:

Gulabi Gang

e Nishtha Jain

Cosa accade dall’altra parte del pianeta? In India le donne stanche di un sistema corrotto da decenni,

si ribellano utilizzando come simbolo il colore rosa, Nishtha Jain narra splendidamente la storia della

Gulabi Gang attraverso lo strumento cinematografico.

Fra i luoghi comuni più infantili, emerge che

il rosa viene identificato come il colore delle

‘femminucce’. Questo non è certamente

quello che pensano le attiviste della Gulabi

Gang (gulabi infatti significa rosa) un gruppo

di donne militanti che opera in tutto il territorio

dell’India settentrionale, proponendosi

come scopo la difesa delle donne vittime di

soprusi e ingiustizie. Una delle loro caratteristiche

è difatti quella di indossare l’abito

tradizionale, il sari, proprio di colore rosa; un

abito che ha una origine molto antica, risalente

al VI secolo a.C.

Come si legge nell’articolo de «La Stampa»

del 27 febbraio 2008, la Gulabi Gang «è considerata

una delle gang più agguerrite e temute

dell’India settentrionale: rapida e feroce, si

sposta tra i villaggi e le campagne brandendo

coltellacci e bastoni, e togliendo il sonno a

ufficiali di polizia e proprietari terrieri. Urla,

minacce, pugni, impiegati terrorizzati, caserme

assaltate».

Tuttavia non nasce come movimento violento:

usano come primo strumento l’indagine e il

dialogo, e solo se l’individuo utilizza la violenza

rispondono a loro volta con la stessa. Accade

spesso, infatti, che vengano attaccate e che

per difendersi rispondano con il laathis, il

ramo di bambù divenuto simbolo di questa

battaglia.

In media, nel subcontinente indiano vengono

commesse 92 violenze ogni ventiquattr’ore,

ma gli esperti ritengono che molte di esse non

vengano neanche segnalate. La reazione che

si è avuta dinanzi a un sistema fortemente

patriarcale è stato l’attivismo politico della

Gulabi Gang mostrato nell’omonimo film di

Nishtha Jain del 2012.

In quali termini, quindi, si pone il cinema d’autore?

Qual è la sua reazione all’imponente

violenza patriarcale?

Jain, classe 1965, è una regista indiana di fama

internazionale e la sua reazione artistica si è

occupata di indagare proprio quell’attivismo

‘rosa’ in uno splendido documentario disponibile

sulla piattaforma Cinema Politica. Il

film si interroga su esperienze riguardanti

violenza di genere, caste e classi sociali, ed

esplora il politico nel personale scoprendo i

La rosa reazionaria: Gulabi Gang e Nishita Jain 57



diversa e con un maggiore impatto se la si

mette a confronto con il cinema di registi

come Paolo Sorrentino.

Il lungometraggio è un ottimo esempio di

inchiesta cinematografica che, attraverso

una serrata analisi, mette a fuoco problemi

e aspetti della condizione femminile in India,

quali lo sfruttamento fisico e ideologico a cui

il patriarcato ancestrale sottopone la donna.

l’uso dell’arte cinematografica?

Al di fuori delle porte del mondo occidentale

vi sono delle realtà che non stenteremmo a

definire primitive, con una forte accezione

negativa. Il ruolo del cinema – e dell’arte in

generale – è quello di reagire mostrando

e registrando, al fine di creare un discorso

critico sulle realtà circostanti, e infine gettare

un seme per il cambiamento.

#Area Warhol

L’occhio della regista si configura come reazione

a un determinato sistema immobile da anni. Come

reagire se non direttamente denunciando con

Questo è il ruolo delle forme d’arte degne di

questo nome.

Fonti:

Ramesh Prasad Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India: A Study of Kalinga from Earliest Times

to Sixteenth Century Ad, Publishing Corporation, 1992, p. 35

Geraldina Colotti, Violenza di genere, impotenza del patriarcato, «Il Manifesto», 25 novembre 2014

All’India la maglia nera di peggior paese al mondo per le violenze sulle donne, «Il Messaggero»,

24/12/2019

Bernie Mak, Cinema Politica Screening Review : The Gulabi Gang, «Graphite Publications»,

29/01/2015

Nandini Krishnan, Nishtha Jain on documenting the Pink Sari Revolution, sify.com, 14/02/2014

#Area Warhol

sistemi della classe privilegiata.

Spesso, quando si parla di documentario, si

pensa a qualcosa di didascalico, a un personaggio

affascinante come Alberto Angela

che presenta e spiega la realtà. Lo sguardo

di Jain invece nella regia quasi scompare,

diviene trasparente e persino antropologico:

il suo occhio scruta, provoca e condanna un

sistema innegabilmente corrotto da decenni.

Il film si apre con campi lunghi e la fotografia

è attenta e studiata come il suo bilanciamento

di colori, ma non si distoglie mai

dalla realtà e non teme di mostrare immagini

forti come il corpo carbonizzato di una

donna vittima di omicidio.

Il gruppo di eroine mostrato nel film ha scisso

l’opinione internazionale tra sostenitori e non.

Tuttavia, in un mondo in cui la corruzione è la

regola e non l’eccezione, appare quasi superfluo

schierarsi a favore di queste donne coraggiose,

nella misura in cui, laddove non arrivi la

mano della giustizia, arriva l’individuo singolo

che, utilizzando l’educazione, il dialogo e la

dialettica, cerca di trovare una soluzione ai

drammi quotidiani.

La reazione della regista è la medesima delle

componenti della Gulabi Gang, un gruppo

di donne stanche di soffrire e soccombere

silenziosamente. La pellicola è tra le prime

indagini cinematografiche sulla condizione

femminile in India analizzata nei suoi

diversi aspetti economici, sociali, psicologici,

di costume.

Il tipo di immagini a cui è abituato il grande

pubblico occidentale appartiene a quella

società definita ‘dei consumi’; un’immagine

capitalistica, fredda, edulcorata e piena di

contraddizioni. I meccanismi del capitalismo

sfruttano i Paesi dove la manodopera

costa meno e uno di questi è proprio l’India.

Le patinate immagini di Marilyn Monroe o

Belen Rodriguez imposte dall’industria culturale

sono molto lontane dalle diapositive

proposte da Jain; quelle di donne impaurite,

maltrattate, in una realtà drammaticamente

58 #Ritratti: Andy Warhol

#Ritratti: Andy Warhol

59



#Area Warhol

La Galleria de’

Foscherari

#Palinvisita la Galleria de’ Foscherari di Bologna attraverso le parole di Francesco Ribuffo.

Francesco Ribuffo dirige, insieme a Bernardo

Bartoli ed Elena Ribuffo, la Galleria d’arte

de’ Foscherari di Bologna, fondata negli

anni Sessanta da Enzo Torricelli al quale si

uniscono in seguito nella direzione Franco

Bartoli e Pasquale Ribuffo. Fin dall’inizio fedele

al proprio programma articolato in due filoni

d’ indagine strettamente connessi: l’attenzione

alla tradizione criticamente consolidata

da un lato e l’interesse per la ricerca

e la sperimentazione dall’altro.

Krizia Di Edoardo ha intervistato Francesco

Ribuffo per Palin Magazine.

In quale contesto nasce la Galleria de’

Foscherari, ed in che modo si afferma in una

scena attiva e vitale come quella degli anni

Sessanta in Italia?

La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni

Sessanta, in un momento in cui erano già

conclamate le espressioni letterarie ed artistiche

prodotte dalla rivisitazione delle avanguardie.

Sono anche gli anni in cui si intravedono

quei fermenti sociali, soprattutto giovanili,

che sarebbero poi esplosi nella seconda

metà del decennio. È dunque nell’ambito

Scritto da Krizia Di Edoardo

dell’affermarsi delle neoavanguardie, che la

de’ Foscherari pone le basi della propria identità

culturale, avviando un intenso programma

di mostre, articolato lungo due direttrici strettamente

connesse. Da un lato la riproposta

della ‘tradizione del nuovo’, cioè una letterale

rivisitazione delle avanguardie storiche

nella loro sostanza criticamente consolidata,

dall’altro l’attenzione alla ricerca sperimentale

che proprio allora manifestava particolare

vivacità e tendeva ad identificarsi con la

neoavanguardia. Il biennio 1967/68 risulterà

particolarmente significativo: vengono allestite

le mostre di otto tra i più significativi artisti

pop italiani (Angeli, Festa, Fioroni, Kounellis,

Pascali, Schifano e Tacchi), poi una importante

esposizione di Domenico Gnoli e una

grande rassegna della Pop newyorkese. Ma

non ci si è limitati ad individuare nella Pop una

delle esperienze più alte della neoavanguardia,

l’interesse è andato oltre con la mostra

dedicata all’Arte Povera curata da Germano

Celant nel febbraio del 1968.

Dalla nascita della Galleria de’ Foscherari

fino al 1989 i cataloghi pubblicati sono stati

la sede di un dibattito teorico sull’arte,

diretto da Pietro Bonfiglioli, che ha ospitato

gli interventi di grandi critici d’arte, quali

Barilli, Arcangeli, Celant e grandi artisti,

quali Pistoletto e Guttuso. Ad oggi il dibattito

critico intorno all’arte contemporanea è

ancora così vivido? In che modo è cambiato?

Fu proprio la mostra ‘Arte Povera’ a indurre

Pietro Bonfiglioli a spingere più a fondo sul

concetto di confronto teorico sull’arte, coinvolgendo

i più prestigiosi e combattivi critici

italiani del tempo. Il dibattito fu ininterrotto,

pur con qualche inevitabile discontinuità, tra il

1965 e l’emblematico 1989. Dopo quella data,

il dibattito critico ha segnato il passo, poiché

si era consolidata l’idea di quella che Francis

Fukuyama aveva definito la ‘fine della storia’,

ovvero il trionfo definitivo ed irreversibile del

connubio democrazia-capitalismo che da lì

in poi avrebbe dominato l’esistenza umana. In

questo orizzonte l’arte non può sfuggire alla

sua oggettivazione come merce ed il denaro

diviene l’unico valore simbolico; in questo

contesto l’esercizio della critica non trova più

spazio ed il mercato diviene il luogo in cui si

negoziano tutti i valori, economici e simbolici.

Forse è presto per dirlo, ma ritengo che

con la pandemia del 2020 si siano manifestati

fenomeni che possano suggerire che la fase

storica inaugurata con il 1989, sia giunta alla

conclusione e che ci avviamo ormai verso la

fine della fine della storia. Se questo porterà ad

una rinascita della critica e dell’arte è presto

per dirlo, ma sicuramente molti interrogativi

sono gettati sul tavolo.

Negli anni Sessanta abbiamo figure di

galleristi che collaborano strettamente

con gli artisti, come Iris Clert in Francia o, in

ambito italiano, l’esempio di Fabio Sargentini.

Attualmente, invece, come si pone la figura

del gallerista accanto all’artista? È importante

conoscerlo personalmente?

Fino a quando la società è mossa da una radicale

richiesta di rinnovamento, artisti, galleristi

e pubblico si possono incontrare in un

terreno comune, rappresentato proprio da

questa comune istanza. Con il tramonto di tale

#Area Warhol

60 La Galleria de’ Foscherari

La Galleria de’ Foscherari

61



rinnovato. È ancora troppo presto per poter

comprendere la portata dei cambiamenti

che sono in atto, la pandemia deve ancora

toccare il picco, ma già certi fenomeni sono

rilevabili. È la fine della fine della storia, l’equilibrio

è spezzato, un mondo sta morendo, un

mondo nuovo sta sorgendo. Intendo qui il

mondo come comunità, come orizzonte di

senso entro in cui l’umanità vive e si organizza.

Pensiamo ad esempio al mondo nel

quale abbiamo vissuto gli ultimi decenni, dove

tutto succedeva sulla superficie, sulla pelle

del mondo divenuto immagine. Non è forse

l’invisibile che oggi a dare forma alla nostra

vita? Un mondo che sorge è destinato sempre

a manifestarsi prima sotto forma artistica, non

perché gli artisti siano avanti, ma per il motivo

opposto, per il carattere originario dell’opera

d’arte. Io ho sempre creduto che interrogare il

destino sia il compito dell’arte di ogni tempo.

Ritengo dunque compito della Galleria e più

in generale di coloro che operano nel campo

artistico, possa essere quello di mettersi in

ascolto, di accogliere l’altro, inteso non come

ente con cui porsi in competizione, ma come

parte di se stessi, con cui scoprire ed inventare

nuove possibili relazioni.

#Area Warhol

#Area Warhol

prospettiva e con l’affermarsi dell’idea della

fine della storia e del neo liberismo economico,

questo terreno comune non esiste più.

I rapporti umani sono regolati dal modello

del mercato. L’altro diviene dunque il concorrente

rispetto al quale chiunque deve cercare

di prevalere.

Come sono cambiate le relazioni con il

pubblico?

Il contesto culturale degli anni Sessanta era

caratterizzato, come abbiamo detto, da forze

sociali che chiedevano un radicale rinnovamento

della società ed in quel periodo il

pubblico dell’arte era certamente formato

dalla borghesia interessata all’acquisto di

opere, ma anche da un ceto intellettuale che

si sentiva coinvolto in quelle istanze di rinnovamento

sociale che si esprimevano con forza

nel campo artistico. Con la restaurazione,

cominciata con il Sessantotto e consolidatasi

con gli anni Ottanta, l’istanza avanguardista

dell’unione arte-vita si è rovesciata in identità

dell’arte con il mondo, un mondo trasformato

in infinito arsenale di merci. L’oggetto

artistico non è più merce in quanto arte, ma

al contrario diviene arte in quanto merce. E

tutte le merci entrano nel campo dell’estetica.

Il pubblico diventa di massa mentre il

ceto intellettuale perde il suo ruolo sociale

e si disperde.

La Galleria de’ Foscherari come ha reagito

ed affrontato la situazione COVID-19?

Ricevo questa domanda nel momento in cui

Bologna torna zona rossa, come un anno

fa. La stagione è identica, l’aria è tiepida, il

sole splendente, la città, vuota e silenziosa, è

bella. Rispetto ad un anno fa tanti sono stremati

economicamente e psicologicamente,

le gallerie i musei, i cinema ed i teatri sono

chiusi. Per ora si naviga a vista, cercando di

sopravvivere, ma consapevoli che l’approdo

sarà in un mondo differente e profondamente

62 La Galleria de’ Foscherari

La Galleria de’ Foscherari

63



Scritto da Krizia Di Edoardo

artisti che raccontavano le opere in mostra;

il secondo canale dedicato alla collezione

permanente; il terzo canale era dedicato a

Giorgio Morandi con approfondimenti, piccoli

saggi, la parole di alcuni testimoni, documenti

d’archivio; il quarto canale era il dipartimento

educativo. L’ultimo canale era dedicato

agli ospiti invitati dal museo a lasciare

come uno degli obiettivi di un museo relegata

spesso solo all’ideazione di mostre. Grazie

al Nuovo Forno del Pane, questo il nome del

progetto, è stata possibile invece la creazione

di una vera e propria comunità fisica.

Nuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti

e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna

#Area Warhol

Quando l’arte reagisce alla

pandemia.

Intervista a Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo -

Museo di Arte Moderna di Bologna.

Palin parla con Lorenzo Balbi, direttore artistico del MAMbo, il Museo di Arte Moderna di Bologna.

#Area Warhol

Il settore artistico rientra tra quelli più duramente

colpiti dalle misure anti-Covid19. Ed è

in questo clima che, insieme a teatri e cinema,

anche i musei hanno reagito reinventandosi

e proponendo soluzioni alternative di fruizione

grazie alla capacità organizzativa di

chi ci lavora.

Krizia Di Edoardo ha intervistato Lorenzo Balbi,

direttore artistico del MAMbo – Museo di Arte

Moderna di Bologna.

È da più di un anno che conviviamo con la

pandemia da Covid-19. In che modo i musei,

in particolare il MAMbo, hanno reagito?

Più di un anno fa la situazione di emergenza

ci ha colto alla sprovvista. A febbraio avevamo

appena inaugurato una mostra collettiva

dal titolo AGAINandAGAINandAGAINand,

quando Emilia-Romagna, insieme a Veneto

e Lombardia, vennero chiuse per un primo

lockdown. Non era mai successo niente di

simile in 45 anni di attività del museo, per cui

ci siamo trovati a far fronte a una situazione

del tutto imprevista e imprevedibile da un

giorno all’altro.

In quella prima settimana abbiamo deciso

subito di reagire tentando di rendere i contenuti

della mostra che avevamo in atto fruibili al

pubblico: abbiamo quindi deciso insieme all’artista

islandese Ragnar Kjartansson, nonché

protagonista con la sua opera Bonjour nella

sala centrale del MAMbo, di proporre uno

streaming live di quell’opera sui canali social

del museo, quasi a permettere di sbirciare dal

buco della serratura e avere la possibilità di

ingaggiare nuovi pubblici, mantenendo viva

l’attenzione sulla mostra (2 minuti di MAMbo

17. Ragnar Kjartansson).

Dopo una piccola riapertura, abbiamo dovuto

chiudere in modo perentorio e senza un’aspettativa

di breve durata. A quel punto abbiamo

adottato una seconda linea di reazione: 2 minuti

di MAMbo in lockdown, un nuovo format di

brevi video, appunto di 2-3 minuti, massimo

3 e mezzo, simbolicamente dal martedì alla

domenica, giorni di apertura del museo. Questi

brevi erano orientati secondo cinque canali

tematici: il primo sulla mostra in corso, con gli

Nuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna Musei

una loro testimonianza. Ad oggi i due minuti

di MAMbo sono diventati un format proprio

del museo divenendo i 2 minuti di MAMbo

Extended, approfondimenti più lunghi su tematiche

relative al museo.

Il terzo e più appariscente tentativo di reazione

è stato pensato e proposto all’inizio di aprile

2020, quando fu chiaro che sarebbe stato

impossibile pensare di fare attività aperte al

pubblico. Si è deciso di utilizzare lo spazio

del museo non più come spazio espositivo

ma come spazio di produzione artistica. Sono

stati selezionati tredici artisti che hanno potuto

usufruire del museo come spazio di lavoro,

ripensando di fatto il ruolo del MAMbo nell’idea

di quella creazione di comunità citata

MuseiNuovo Forno del Pane Foto Valentina

Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione

Bologna Musei

In che modo si evolverà il progetto Nuovo

Forno del Pane?

Il Nuovo Forno del Pane non cesserà la propria

attività perché l’idea del museo di un dipartimento

permanente che si occupi di produzione

artistica è sempre stato un mio obiettivo

anche pre-pandemia. Questa è stata

l’occasione per varare in grande stile questo

progetto che continuerà la sua azione con

nuovi artisti, ovviamente, e altri stimoli.

Nell’ottica di riallestire gli spazi, con varie

64 #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi

#palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi

65



appunto, vasi e fiori finti di seta che l’artista

dipingeva, potendo fare la combo tra modello

e opera che solo noi possiamo permetterci.

Questo focus è stato disallestito e ora ne è

stato inaugurato uno che mette al centro il

tema della produzione pittorica di Morandi,

quindi i materiali della sua produzione e curiosità

legate al suo modo tecnico di intendere

la pittura. Inoltre, sempre nell’ottica di mediazione

culturale e riscoperta delle collezioni,

è stata ideata un’app che offre possibilità

di percorso personalizzate in base ai visitatori,

che siano singoli, in coppia o in gruppi

e famiglie.

un’analisi più approfondita perché siamo stati

aperti per diversi mesi. In un’estate anomala

senza turisti, il pubblico è stato composto

prevalentemente da persone provenienti

dalla città metropolitana o della regione. Se

nel 2019 eravamo circa 1000 visitatori a settimana

nel 2020 ne abbiamo avuti 600- 650 che

è un ottimo risultato considerando che nel

2019 di quel 1000-1200 un buon 60% erano

turisti. Certo, i dati sono fortemente plasmati

dalla situazione contingente di emergenza.

Speriamo non più verificabile.

Come si pone in relazione alle normative

anti-Covid attinenti ai musei?

#Area Warhol

#Area Warhol

riaperture a singhiozzo, come è cambiato il

percorso di visita del museo?

Lo spazio delle mostre temporanee non è visitabile

da febbraio 2020, mentre al pubblico è

stato sempre aperto, quando è stato possibile,

dal 19 maggio al 4 novembre e di nuovo

da due settimane ad oggi la parte della collezione

permanente. Al primo piano due spazi

sono stati adibiti a luoghi di mostre temporanee:

la project room del MAMbo ha ospitato

una mostra su Castagne matte a cura di

Caterina Molteni che metteva insieme delle

opere mai viste dalla collezione dei depositi

del museo con opere provenienti da altri

musei dell’istituzione Bologna Musei.

Il tema molto attuale legata alla ritualità alla

scaramanzia dei piccoli riti domestici e questa

mostra fa parte di un ciclo di mostre che si

chiama ‘RE COLLECTING’ sull’idea di riappropriarsi

delle collezioni perché in qualche

modo questo sarà il futuro dei museo , cioè

ripartire dalle proprie collezioni, in dialogo

con la comunità locale.

Giocoforza perché il turismo sarà fortemente

penalizzato e il primo pubblico di riferimento

è il pubblico di prossimità, più vicino al museo.

Offrendo a delle persone che probabilmente

hanno già visto quel museo una nuova modalità

di visita, nuove chiavi di lettura e nuovi

accostamenti a partire dalle opere della collezione.

A queste mostre nella project room

si collegano anche quelle fatte nell’ultima

sala del percorso del museo Morandi in cui

abbiamo allestito un primo focus, dedicato ai

fiori del maestro bolognese, in cui erano stati

accostati un numero eccezionale di dipinti

a tema floreale della nostra collezione con,

Non mi piace dire che la pandemia è stata

un’opportunità, perché è stata ed è un’immane

tragedia per la nostra generazione, ma

ciò che è successo è che di fronte ad una

situazione molto negativa, ma sicuramente

eccezionale, si ha avuto modo e tempo di

pensare a modelli diversi dando quell’idea di

adattabilità. Il museo non più pensato come

edificio che conserva degli oggetti ma come

centro culturale in grado di offrire delle risposte

alla comunità.

In che modo è mutato il pubblico, in termini

numerici?

È difficile fornire una stima sui visitatori perché

abbiamo aperto e chiuso diverse volte, per

cui i dati lasciano il tempo che trovano. Ad

esempio, le ultime due settimane abbiamo

aperto da martedì a venerdì con un pubblico

possibile decisamente ridotto.

Tra un lockdown e l’altro, invece, si può fare

Io non ho mai criticato né criticherò le decisioni;

se ci dicono di rimanere chiusi è giusto

ed è un provvedimento necessario per contenere

la pandemia. Questa volta, tuttavia, è

più complicato capire le ragioni per cui non

si possa riaprire durante il weekend, anche

perché tra un lockdown e l’altro abbiamo

dimostrato di saper reagire dotandoci dei

sistemi necessari per poter riaprire al pubblico

in totale sicurezza, e non sono mai stati segnalati

focolai o problemi provenienti da un’eccessiva

frequentazione di spazi culturali. Critico,

inoltre, il costante stato di incertezza per cui

questa settimana non si sa cosa avverrà di

noi la prossima quindi questo ci impedisce

di fare una programmazione seria e sensata.

Per assurdo per noi sarebbe più facile un provvedimento

che ci faccia rimanere chiusi fino ad

aprile piuttosto che farci riaprire a singhiozzo.

Questo ci impedisce programmazione e lungimiranza

perché per noi è un danno notevole

in termini di lavoro ed economici.

Intervista realizzata il 15 febbraio 2021

Immagine in copertina: Direttore artistico MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna

Foto Claudio Cazzara

66 #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi

#palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi

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Scritto da Ilaria Monarini

#Area Warhol

Reazione come nuova definizione

artistica dell’essere e dell’agire

Ruota tutto intorno a una nuova idea di reazione e soprattutto di rivoluzione. Germano Celant parla

dell’Arte Povera come di un’azione povera sottolineando il senso eteronomo dell’attività artistica come

di una «possibile strategia socio-culturale, in cui processo eversivo e gnoseologia giungono alla frantumazione

del sistema di dittatura industriale». L’arte si trasforma in un teatro di azioni povere non

strumentalizzabili, in cui l’eteronomia dell’arte è la sua vera povertà.

#Area Warhol

La storia dell’arte insegna che all’atto creativo

ogni autore si è sempre approcciato in

qualche misura reagendo, condizionato dal

contesto sociale del suo tempo.

Nell’era della contemporaneità, l’Arte Povera

può essere considerata uno dei movimenti

che ha fondato la propria ragion d’essere

proprio sul principio di reazione. A mettere in

luce questo nuovo modo di vedere e pensare

è stata la Galleria de’ Foscherari di Bologna,

nel febbraio del 1968, con l’inaugurazione

della seconda mostra a livello mondiale dedicata

a un linguaggio espressivo teorizzato

dal noto critico Germano Celant, purtroppo

scomparso lo scorso anno. Per Arte Povera

si ritrovarono Gilberto Zorio, Alighiero Boetti,

Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Mario

Merz, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Luciano

Fabro, Giovanni Anselmo, Emilio Prini, Gianni

Piacentino e Mario Ceroli. Un evento che fornì

l’occasione di un dibattito fra i più importanti

e partecipati, a cura di Pietro Bonfiglioli.

Di quel tempo di contestazione, dal maggio

parigino agli scontri tra studenti e polizia a

Valle Giulia a Roma, alle piazze d’Europa e in

America occupate da rivolte pacifiste contro la

guerra in Vietnam, gli artisti hanno dimostrato

una profonda presa di coscienza, facendo

propri i valori umani e l’ansia di libertà e giustizia

sociale che in quel preciso momento della

Storia stava animando specialmente una

generazione nuova di studenti e di lavoratori.

Si è imposta una nuova visione dell’arte: non

più solo estetica ma materiale, non isolata

Inaugurazione della mostra “Arte Povera”, 1968

Galleria de’ Foscherari. Courtesy Galleria de’ Foscherari

68 Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire

Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire

69



#Area Warhol

Emilio Prini Ipotesi sullo spazio totale

Courtesy Galleria de’ Foscherari

rispetto al contesto sociale, ma anzi capace

di interagire provocatoriamente con esso.

Provare oggi a rivisitare l’esposizione alla de’

Foscherari, a mezzo secolo di distanza da

quell’evento, può aiutare a mettere a fuoco

quella stessa ansia di reazione, ma soprattutto

di rivoluzione, che sembra animare più

di una scena figurativa del nostro tempo; la

stessa che in Pistoletto si faceva riconoscere

con gli specchi con l’intento di ricreare fenomenologicamente

noi e il nostro io.

La realtà si fa dunque strada nello specchio

e diventa la prima possibilità di reazione per

stabilire un rapporto univoco tra l’arte e la vita.

Il mondo non è più un modello da seguire e

sente quindi l’esigenza di farsi coinvolgere

esclusivamente dal suo movimento presente,

creando opere senza un’aspettativa codificata.

Con Ipotesi sullo spazio totale, Prini si crea

una propria area – vuota, firmando la stanza di

una galleria e appropriandosi del contenitore.

Ritroviamo una serie di punti e di proiezioni

plastico-volumetriche della sua percezione.

Si parla di una reazione mentale, dove l’idea

diventa molto più importante del manufatto e

rende la presenza fisica dell’opera un motivo

scatenante di movimento, di pensiero negli

spettatori, trasmettono in tutto e per tutto la

loro voglia di inventare e sperimentare.

A seguire c’è Paolini, che con le bandiere, le

tele, i quadri, racconta la sua ricerca personale

improntata sull’analisi dei fondamenti

costitutivi della creazione artistica; con Merz,

la luce al neon da medium dissociante passa

a elemento segnico associante, creando

insiemi di lavori formati da bottiglia, giglio,

bicchiere, meccanismo, neon, oppure bottiglia,

tubo, plexiglas, neon, assemblaggi autonomi

senza una particolare storia, volti a rappresentare

la sua visione del mondo. Ceroli, invece,

abbraccia la scultura (il legno è il suo materiale)

portandola in scena come manifestazione

macroscopica di una sua libertà inventiva

e poetica. Si parla ancora di autonomia

con Piacentino, con le sue composizioni

difficili da collocare, sfuggevoli ed essenziali.

Kounellis dalla pittura passa a un’idea

di libertà dell’uomo e delle cose, e così

anche Fabro, che si mostra libero dall’esterno,

concentrandosi su nuove suggestioni mentali

per l’artista e per il visitatore, grazie a materiali

figurativi coinvolgenti.

Si appoggiano reagendo a nuovi contenuti

e c’è la necessità di un’arte non statica ma

performativa. L’Arte Povera si mostra, dunque,

come materia vitale e in continuo divenire.

Prende forma grazie alle energie degli artisti,

rendendo invisibile ma percepibile la loro

essenza. Anche Boetti affida il lavoro allo

spettatore, vuole che la viva; nell’opera Pietre

e lamiere, ad esempio, usa materiali «che

ostentano solo il loro ‘farsi’», per denotare

lo stupore di ogni azione inventata o reperita

nuovamente per la prima volta, quale il

taglio, l’incastro, l’accumulo, la creazione dei

segni associativi, la scoperta di una decorazione

già «in natura».

Imprevedibilità, reazione, espressività, ciò

che mostra Zorio. A lui dell’immagine interessa

la forza dei materiali e la possibilità di

combinazione che crea positive conflittualità

e tensioni piene di energia. Infine, con

Anselmo scopriamo opere mutabili, che si

formano nell’istante in cui vengono montate

e che mirano ad una corrispondenza tra

forze equivalenti, quali l’uomo e la natura,

giungendo così ad un grado elevatissimo di

concentrazione.

Una mostra che si conclude con l’inizio di un

cambiamento che prosegue tutt’oggi, in cui

le installazioni diventano finalmente attive

con lo spettatore.

Fonti:

Vittorio Boarini, Il notiziario della Galleria de’ Foscherari 1965-1989, Galleria de’ Foscherari, 2019.

Pietro Bonfiglioli, Arte Povera quaderno n 1 Ed Galleria de’ Foscherari, Presentazione di un dibattito,

1968.

De’ Foscherari www.defoscherari.com

Giulio Paolini, in Castello di Rivoli

09 - ARTE POVERA - L’estetica dell’ordinario - Germano Celant

Alighiero Boetti Pietre e lamiere

Courtesy Galleria de’ Foscherari

#Area Warhol

70 Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire

Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire

71



Scritto da Annalisa Foglia

#Area Warhol

Pubblica Reazione Artistica

#Area Warhol

Quanto può un’opera d’arte coinvolgere il pubblico? Se la valutassimo attraverso parametri estetici

(e soggettivi) all’interno di un museo, non riusciremmo di certo a quantificarlo. Se invece i parametri

fossero ben altri e l’opera venisse resa pubblica, imponendosi quindi come elemento costitutivo di uno

spazio urbano, la reazione generale degli avventori sarebbe nettamente diversa. L’arte site-specific

risponde esattamente al secondo caso e, di fatto, sia in Europa sia in America, ha avuto la sua ragion

d’essere in termini di coinvolgimento.

Nell’ambito dell’arte pubblica, in particolar

modo quella site-specific, il pubblico assume

un ruolo centrale in quanto non si limita a

essere spettatore ma diventa parte attiva.

Alcuni progetti di arte pubblica a cura di grandi

artisti hanno innescato delle reazioni inaspettate

e decisive da parte del pubblico, della

comunità, come dimostra l’opera che è divenuta

l’emblema del rinnovato e complesso

rapporto tra artista e pubblico: Tilted Arc (in

copertina Richard Serra, Tilted Arc, 1979-1999).

Nel 1981 l’artista statunitense Richard Serra

realizzò per la Federal Plaza di New York

un’opera site-specific; il suo lavoro divenne

parte integrante della piazza in questione

ridefinendola strutturalmente e concettualmente.

L’organizzazione della piazza stessa

venne modificata profondamente in quanto

l’arco (lungo 37 m, alto 3,7 m e dello spessore

di 6,7 cm) attraversava l’intero sito. L’opera

era stata commissionata all’artista nel 1979,

esattamente venti anni dopo Richard Serra

fu costretto a distruggerla in seguito a una

profonda reazione della comunità del luogo.

Le accuse mosse contro Tilted Arc furono

molteplici e non solo di carattere estetico o

artistico: tra gli oppositori c’era chi sosteneva

che l’opera fosse psicologicamente oppressiva

e un esperto della sicurezza sottolineò

come tale scultura impedisse la sorveglianza

totale della piazza favorendo graffiti e azioni

vandaliche.

Le udienze del 1985 etichettarono Tilted Arc

«as an arrogant and highly inappropriate assertion

of a private self on public grounds» [1] . La

rimozione dell’opera è diventata, negli anni

successivi, il simbolo di una reazione collettiva

per il recupero di spazio pubblico da parte di

una comunità che fino a quel momento non

era mai stata così unita.

Un altro caso singolare è quello a opera, o

per meglio dire non-opera, di Daniel Buren

a Weimar. Un testo su tale intervento artistico

ha come titolo La Piazza mai costruita

– un fallimento di successo, in riferimento

al progetto dell’artista per la Rollplatz della

città tedesca.

In occasione della nomina di Weimar come

Capitale della Cultura Europea per l’anno

1999, fu invitato nella cittadina tedesca Daniel

Buren per la realizzazione di un’installazione

in una piazza a sua scelta. L’artista francese

scelse Rollplatz, un parcheggio a cielo aperto

che avrebbe voluto trasformare in una piazza

all’italiana, un luogo di incontro non per auto

ma per cittadini. Il progetto di Buren sarebbe

stato inaugurato in occasione della grande

manifestazione temporanea, ma avrebbe

assunto un carattere permanente che avrebbe

modificato per sempre l’assetto urbanistico,

estetico e concettuale della città.

Organizzando una riunione a cui era stata

invitata tutta la cittadinanza di Weimar, Buren

espose il suo progetto pubblicamente con

l’intento di arricchirlo attraverso le considerazioni

o le obiezioni che avrebbero manifestato

gli abitanti. La partecipazione fu alta

soprattutto perché molti dei partecipanti

erano già venuti a conoscenza del progetto

dell’artista attraverso la pubblicazione di un

render non autorizzato su un giornale locale.

Naturalmente le reazioni e le prese di posizione

furono varie e ci furono numerose obiezioni

sia per la viabilità che per aspetti tecnici.

La partecipazione continuò a essere elevata:

si formarono due schieramenti ben distinti

tra i favorevoli e i contrari. Il fervore culturale

della città si manifestava in maniera

costruttiva e creativa. Ad esempio:

I sostenitori del progetto rivelarono invece una

vivace creatività. Durante alcune sedute del

Consiglio Comunale riuscirono a sgombrare

il Rollplatz dalle macchine parcheggiate e

organizzarono delle performance in cui veniva

simulata l’installazione delle steli, posizionando

persone di diversa altezza nell’assetto della

griglia progettata da Buren: nel centro i bambini

e nella periferia gli uomini più alti con i figli

sulle spalle. [2]

72 Pubblica Reazione Artistica

Pubblica Reazione Artistica

73



#Area Warhol

L’ampio dibattito attorno all’opera si concluse

con la proposta di realizzare lo stesso

progetto in un’altra piazza, offerta che venne

rifiutata da Buren, mentre Rollplatz mantenne

il suo ruolo di parcheggio automobilistico.

Le reazioni intorno all’opera di Buren continuarono

e, nella notte tra il 31 dicembre 1998

e il 1 gennaio 1999, un gruppo di cittadini

piantò, forando il manto stradale della piazza in

questione, 200 alberi di Natale; inoltre, nell’estate

del 1999, fu organizzata una piccola festa

in piazza durante la quale venne presentato

un disegno parietale rappresentante Rollplatz

con l’installazione di Buren dal titolo Questo

sarebbe stato il vostro premio.

Sia Piazza che Tilted Arc non rappresentano

un successo in termini materiali, formali e

tangibili per l’arte pubblica; nessuna delle

due opere esiste a New York come a Weimar.

Quello che accomuna questi lavori di due dei

più grandi artisti contemporanei nel campo

dell’arte site-specific è il risultato ottenuto in

termini di reazione e coinvolgimento sociale.

Fonti:

[1] M. Kwon, One place after another. Site-specific Art and Locational Identity, MIT Massachusetts

Institute of Technology, Cambridge 2002

[2] Julia Draganovic (a cura di), La Piazza mai costruita – un fallimento di successo, in E. Cristallini (a

cura di) L’arte fuori dal museo. Saggi e interviste, Gangemi editore, 2008

Suzanne Lacy (edited by), Mapping the terrain. New Genre Public Art, Bay Press, 1994

Performance svoltasi presso la

Rollplatz di Weimar in occasione

del progetto Piazza ad opera di

Daniel Buren, 1998.

74 Pubblica Reazione Artistica

Pubblica Reazione Artistica

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Scritto da Stefano Laddomada

#Area Warhol

Dissenso e

provocazione.

La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli”

#Area Warhol

“Don’t feed the troll” (Non alimentare il troll) è un’espressione familiare soprattutto ai nativi digitali in cui il

troll, demoniaca creatura delle fiabe scandinave, diventa l’utente di internet che trova piacere nell’alimentare

una polemica e provocare il proprio interlocutore. Lontanamente da quanto si possa credere, anche

il mondo dell’arte ha conosciuto i suoi troll con l’Entartete Kunst, l’ ‘arte degenerata’, nel pieno periodo di

propaganda nazista.

Così come in ogni fiaba scandinava che si rispetti,

anche il web ha i suoi trollt: quelli buoni, ossia

semplici utenti dal dubbio senso dell’umorismo

che durante un’accesa discussione, per esempio

sotto l’ultimo post del Presidente del Consiglio,

chiedono delucidazioni sulla preparazione dell’

orata all’acqua pazza, e i troll cattivi, creature

subdole e fameliche che si confondono nella

selva dell’internet e che si cibano della rabbia

e delle reazioni altrui per tornaconto personale

e ai quali è meglio non dar da mangiare. Il

trabocchetto che ci viene teso da quest’ultimi

è a volte così velato da trarre in inganno anche

il più abile dei leoni da tastiera.

Sembrerebbe quindi naturale pensare che i

troll siano frutto di usi e conseguenze della

rete, in cui lo spazio digitale viene condiviso da

tutti e in cui ognuno coltiva determinati gusti,

certezze e interessi che comunica con il mondo

virtuale generando conflitti e discussioni su siti

e social. Questo tipo di atteggiamento, tuttavia,

non vede la sua origine nell’era di Internet ma è

un fenomeno che esiste da ben più tempo con

dinamiche simili; lo stesso mondo dell’arte ha

dato vita a episodi degni dei più fastidiosi troll

dell’epoca contemporanea.

Il caso che più di tutti spicca è quello della cosiddetta

Entartete Kunst, l’arte definita ‘degenerata’,

che i più appassionati di arte e storia ricorderanno

come un movimento controverso e sadico.

Nel 1937, durante il picco di potere del Terzo

Reich, il ministro della Propaganda Joseph

Goebbels decise di sfruttare le opere confiscate

dalle truppe naziste a artisti etichettati come

sovversivi per comporne una mostra composta

da più di 600 pezzi, con lo scopo di una intenzionale

denigrazione nei confronti di tutti gli stili

(soprattutto moderni) e le rappresentazioni in

contrasto al Reich. L’atto di censurare gli artisti

e tutti coloro che in un qualsiasi altro modo

decidevano di comunicare il proprio dissenso,

venne ripensato e riadattato successivamente

dal ministro della Propaganda per comporre

quella che potremmo definire oggi una bacheca

di haters: sminuire l’altro, il diverso, per rafforzare

la propria identità e la propria visione, un

atto di cattivo gusto che ricorda, neanche così

difficilmente, un uso contemporaneo dei social

network da parte di alcuni utenti.

La mostra, della quale fecero parte, tra le altre,

opere di Klee, Chagall, Dix, Kandinsky e Picasso,

venne accompagnata da didascalie e slogan

provocatori, in un ambiente scarsamente illuminato

e reso volutamente inospitale e tedioso.

Inizialmente esposta a Monaco di Baviera, la

mostra divenne in seguito itinerante e attraversò

undici città tra Germania e Austria. Il biglietto

per visitarla era gratuito così da coinvolgere il

maggior numero di persone in questo spiacevole

teatrino dell’orrido.

Nonostante la Storia si sia poi giustamente

ritorta contro il regime nazista e una parte delle

opere sia comunque riuscita ad essere valorizzata

–grazie anche alla scoperta della collezione

Gurlitt di pochi anni fa – nei musei di tutta

Europa, quest’episodio dimostra la tragica attualità

di un comportamento e di un fenomeno

risalente non solo al periodo di digitalizzazione

in cui siamo ormai destinati a vivere, ma ad un

modo di agire insito nell’uomo con origini quasi

sicuramente primitive. Lo scherno suscitato

Fonti:

dal dissenso è ormai una pratica ‘propagandistica’

di uso comune soprattutto per chi fa

delle proprie idee l’unico, inconfutabile valore

da contemplare, con totale noncuranza delle

possibili sfaccettature delle credenze e delle

abilità altrui, cancellando gradualmente lo

spirito critico dei propri sostenitori.

In un periodo che premia i trend topic, il dissenso

costante a portata di schermo è una pratica in

cui il troll, sapendo di trollare, banchetta quotidianamente

senza mai saziarsi, spinto dalle

interazioni e dai commenti sia dei suoi sostenitori

che dei suoi dissidenti, generando così

un circolo vizioso di fastidiosi botta e risposta

basati su nient’altro che una provocazione.

Spuntarla è difficile ma non impossibile; è necessario

non inciampare sui contenuti pensati per

istigarci, tenersi strette le proprie briciole di

speranza (e la propria arte) e impegnarsi a sfruttarle

per un nutrimento più sano e morale, in

primis per noi stessi.

http://www.artspecialday.com/9art/2021/01/27/arte-degenerata-censura-1937/

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/entartete-kunst-mostra-nazista-arte-degenerata

https://www.treccani.it/enciclopedia/entartete-kunst/

https://www.youtube.com/watch?v=eDPQW5aP9Rc

76 Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli”

Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli”

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Palin incontra anche Gramsci.

Con lui Palin scopre che per indagare nel

vasto mare della storia bisogna partire dalle

singole increspature delle onde, intendere

ogni evento nella sua specificità sociale.

Quest’area tratta quindi di Sociopolitica,

dallo studio delle disuguaglianze ai nuovi

confini della contemporaneità, cercando

di offrire uno sguardo molteplice e aperto

su ogni aspetto che costituisce il mondo

come lo conosciamo oggi.

Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà.

Antonio Gramsci

Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_

Illustrazioni di: Claudia Corso, @aetnensis



#Area Gramsci

Meticcio, ma orgogliosamente italiano,

Antonio Sebastiano Francesco Gramsci

ha camminato sulla penisola scrivendo e

ragionando, finché ne ha avuto le forze.

Gramsci aveva grande consapevolezza

della sofferenza della vita che si era scelto,

ma chiaramente vedeva degli obiettivi più

alti, uno scopo più importante e così scrive

il 10 maggio 1928 alla madre, prima della

condanna a vent’anni di reclusione:

«La vita è così, molto dura, e i figli qualche

volta devono dare dei grandi dolori alle

loro mamme, se vogliono conservare il

loro onore e la loro dignità di uomini.»

Antonio

Gramsci

Ma prima del carcere, prima di una consapevolezza

così profonda, Gramsci era un

bambino dato per morto, per le condizioni

di salute che avevano portato la madre a

comprargli una bara a quattro anni. Ma lui

cresce e aiuta la famiglia lavorando in un

catasto sardo, mentre il padre è in carcere.

A 15 anni riesce ad iscriversi al ginnasio e

diventa uno studente modello, appassionato

di scienze umanistiche, storia e politica.

All’università di Torino conosce Togliatti,

ha Bartoli come insegnante e lega il

proprio nome a quello di altri grandi.

Con la Prima Guerra Mondiale inizia a scrivere

per giornali socialisti, quali l’«Avanti»,

ma dopo gli avvenimenti sindacali e le

sommosse operaie del ’20, si avvicina alle

idee bolsceviche di Lenin. Il suo legame

con la Russia lo porta anche a incontrare

sua moglie, la violinista Julka Schucht,

con la quale avrà i figli Delio e Giuliano.

Inoltre, nel 1921, nasce il Partito Comunista

e lui ne sarà leader, anche se per poco.

Solo cinque anni più tardi la sua vicenda

politica si stravolge: l’8 novembre 1926,

violando l’immunità parlamentare, viene

arrestato e condannato a vent’anni di carcere.

Ma la sua attività intellettuale e politica continua,

con i colloqui-lezioni durante l’ora d’aria

e con i Quaderni del carcere, interrotti nel

1935, a causa delle condizioni di salute. Solo

nel 1937 passò dalla libertà condizionata

alla piena libertà, ma ormai era gravemente

malato, e morirà nello stesso anno.

eatis maximus quam repedit expe vendend

itincta tempor reribus, qui dolorestota sam,

sum adipsan imolorepedis rempore vent alia

pellaborum fuga. Ut as molorro te id quo

explicimil ipicides exero que si aut pra sitatur,

coriatur?

Tatur sam, ut volupit aspient istiasime non

nonsect empore por acipit lautet molorep erferionsed

moluptatur apite verumenis autat re

dem se molecea quia porit ut laut alic te volesci

llaborepudi odionse dissitionse imodiatiam

nullabo. Ximoluptae sit est, comnis solum, to

velectatenet volupta que net dempore ratur?

Optiasi oditibusant harum re, quam, to volorro

bea cum quistru mendern atiassi magnatibusam

exped eos eius, sum quianim agnihit optis

suntist, velicietur sumquatae nullibercil min

esti rempore rchitis et perae ped quia illessedit

ommodit maior mintia ni que pratecatem

di beaquiat unt dignatemquo quat pore

si sunt, volendio. Solorro estibus.

Ed erum rehendelicid mosapedist, ut landes

dolupic ipsant mi, ipsa aciandi tiusciet qui

reriberrum et alit es quisqui optaerio te pos

suntionsed est, ut pelit vende doluptium aut

volor asinctemodit quos atecerio commo

erferiae nati disquaes pro odis idelecusamet

rem ut apiscie ndaernatem ius et volorem

volut optios eate omniene cus sam aut

volles earume asperum venis eturemqui omni

comnist unt, ant alia nosto del elisitium untiatquia

vent auta denim con re dolesendam,

comnime dese volum sitatat endit et omni

utatemporia qui non repra simaximin nosa con

repudae reperum que re quam, comnihil molut

audi dolent volorpore ipsant labore sitint, od

et abo. Sectur aut imin num in parum quatet

aut reicte odit et volupturia aut am reruntus,

sinti con con num re, cus re plandicia volores

tiaeresequis dunt in essimos solore, volut

aut et quunt.

Ciis dollupt iorehent. Imet dipisto tatur?

Facest reperupta inullique voluptas sum, tet

omni dem fugiam repta periasincto idem dolliquam

iunt am faci corum nosam, quidebit

pliquo tem quo officiis eictiation pa as mos ant

ut volore volore perum ium duciis etur reicti

nis evel eaquateculpa perions equatis quatquunt

dolupta quosapisit omnis doluptur, venis

ex earupti num faccus volenimust, unt essum

aut et dolupit accuptas ium est ut ventotas

dolum quas essitatur aliatque duci acit, od

magnis renda quaturio. Ut voluptatusae vid

qui odigenim qui at omnitatur maxime volenis

mi, nonsequae. Bus deri incturit lab inimi,

conet officiet quatur reperor ehendae pratione

eatis utemper umquatu santia cum que ne

et eveliquid ulliquides dolupta in rem fugia

nonsequamus, soluptam doluptae et iustis

ressima qui recepellabo. Et int et doluptatur

si dolore dolo beatibusamus quibus, accuptu

mquatem quatem. Pudaesc iligend aerferum

eium faceaquia eatesciis millic temporibus.

Gentibus, quatio dolupta que voluptatum

volorpo remporia nobitatios ullabor iandam

alia sequae nobit officipsa con cusapientem

vera dolupta tiatur milis conseque et plit

audantotat lique veliquo molorep eriam, cupiet

volore natqui des derae eatem quaspidenim

accum aut est, que nit, officima dolupta tiorporunti

volut quo omnim facculpa sim doluptate

quo volupie niendam hit es pos voluptia

ni berspie ntiassum non con netusapero

ommod molorro cor aut porest re sum quate

nis nosant, ut mod quam quunt aut harchil

liquisq uatent aliquis essunt.

Laborporepe liquae plicid ut aut eaquis doluptatem

aliquiam cus arciam sequaes susdantis

core cuscia de pedi dolesti bla poriae comniae

stiscipsandi delignam a nullam essi sendaer

itiscium que experum quiatis etur?

Samus ea sinia volorum, tori anima apidicitatur

seni aut aut enimillaut quis maxim que optat

et liqui dolorum alitate mporeprovid quid ut

volupta volori doleste porit venempeles et

adisquam, asperent omnis aut impores net

andam quisciassit modit, abor aborrupta sunt

doluptatus et qui alibus dolor accum fugitaspero

corporitatia nossi senitibusam commoste

perrum et min nestiistrum aditae plam ra

sum acea dunt.

#Area Gramsci

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#Ritratti: Antonio Gramsci

#Ritratti: Antonio Gramsci 81



Scritto da Tommaso Bassi

#Area Gramsci

REAGIRE DAL BASSO

Il potenziale dei piccoli

borghi e la lezione di Riace

Il paradosso ‘case senza persone – persone senza casa’ è senza dubbio tra le grandi contraddizioni del

nostro tempo. Il caso di Riace è riuscito a scardinare questa dicotomia, mostrando il potenziale ruolo

dei piccoli borghi italiani, oggi rivalutati alla luce della pandemia.

#Area Gramsci

Il sociologo John Holloway, nel suo libro

Crack Capitalism, usa una metafora suggestiva

per indicare un’alternativa alla visione

rassegnata al dominio del paradigma neoliberista.

L’autore parla di una stanza le cui quattro

pareti lentamente avanzano verso il centro,

rimpicciolendosi lentamente. Coloro che sono

all’interno si dividono tra chi discute su come

disporre l’arredamento e chi si concentra sul

trovare delle fessure e degli spiragli nelle

mura, cercando di individuarli per poi allargarli.

Stando ben attenti a non cadere nel romanticismo

della lotta o nell’utopia, seguire l’appello

di Holloway, concentrandosi quindi sull’agire

(e reagire) umano in un mondo che appare

dominato da forze incontrollabili e deterministiche,

può rivelarsi un utile esercizio intellettuale

nonché un’ottima pratica quotidiana.

La Riace che Mimmo Lucano ha contribuito

a creare si avvicina molto a questo concetto,

coniugando il resistere al reagire, trovando le

fratture nei muri per poi trasformarle in porte.

L’ex sindaco di Riace, infatti, ha risposto a

fenomeni globali tramite piccole azioni locali,

cercando di raggiungere quella che lui stesso

ha definito una «utopia della normalità». Il

borgo calabrese si è proposto come un esperimento

di innovazione sociale nato dalle contingenze

del nostro tempo, mettendo in campo

politiche sociali e di accoglienza ora studiate

in tutto il mondo. Lefebvre avrebbe probabilmente

definito il borgo calabrese in questione

un’ eterotopia, «uno spazio dell’altro» vale

a dire uno di quegli «spazi liminali ricchi di

possibilità» originati da una forma auto-organizzata

di partecipazione. Questo tipo

di spazi rimettono in discussione il concetto

di diritto alla città – in questo caso diritto

al borgo – teorizzato dall’autore francese,

percorrendo la logica della riappropriazione

dei luoghi e della loro autodeterminazione.

Ciò che colpisce del caso di Riace è il modo

in cui si sia riuscito a scardinare la dicotomia

urbano-rurale, centro-periferia, rendendo

quel piccolo borgo una periferia al centro del

mondo, trasformando una comunità rurale

sempre più svuotata e isolata in una società

complessa e poliglotta.

Si potrebbero dare diverse chiavi di lettura del

modello Riace, o focalizzarsi su diversi esempi

virtuosi emersi grazie al lavoro di Lucano e

dei suoi collaboratori. Quello su cui si prova

interesse a soffermarsi, tuttavia, è il modo in

cui due temi apparentemente distinti (ma

in realtà profondamente connessi) come il

sottoutilizzo del patrimonio immobiliare e

i flussi migratori siano stati combinati nella

pratica risultando in una soluzione da prendere

ad esempio.

Per contestualizzare meglio questi fenomeni

è necessario allargare un attimo il

focus. Uscendo dal borgo e guardando alla

Calabria, si scopre che è la regione con il più

alto rapporto case vuote-abitanti, con 450.000

abitazioni vuote all’attivo. Questi dati risultano

ancora più inaccettabili se si pensa che la

regione in questione è la stessa in cui si trova

l’insediamento informale di San Ferdinando,

dove le persone vivono in condizioni inammissibili

e rischiose. Se allarghiamo ancora

l’obiettivo e lo puntiamo sull’intero stivale,

ritroveremo le stesse contraddizioni accompagnate

dallo stesso paradosso: case senza

persone e persone senza casa. Si stima infatti

che in Italia siano circa sette milioni le case

vuote, più o meno un quarto del patrimonio

immobiliare complessivo. Le ragioni di ciò

sono diverse, e variano da contesto a contesto.

Tuttavia, è possibile delineare almeno

due tendenze ricorrenti. Nelle grandi città, in

molti casi, la speculazione edilizia e la pressoché

inesistenza di una politica per l’Edilizia

Residenziale Pubblica (ERP) creano le

condizioni per un patrimonio immobiliare inaccessibile

e quindi sottoutilizzato. Nei borghi e

nelle aree rurali, invece, le case sono vuote a

causa dell’esodo verso le città, dove si spera

di trovare servizi e opportunità assenti nelle

realtà che ci si lascia alle spalle.

Nell’attuale fase pandemica si sente spesso

parlare di un’inversione di tendenza, di un

ritrovato bisogno dello spazio, del verde, della

natura, e di un nuovo interesse verso le aree

rurali e montane del territorio. Negli oltre

cinquemila piccoli comuni italiani una casa

su tre è vuota, e già molte regioni e amministratori

si stanno operando per attirare nuovi

abitanti. La direzione sembra essere quella di

puntare sulla flessibilità del mondo del lavoro

e sullo smart working, rivolgendosi quindi

ad un determinato target della popolazione

appartenente a una classe media con un

82 Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace

Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace

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Scritto da Tommaso Bassi

#Area Gramsci

#Area Gramsci

certo potere di acquisto, probabilmente già in

possesso di un’abitazione in un’area urbana,

e attirata dal paesaggio e dai vantaggi dell’area

pulita. Se ci si muoverà in questo senso,

tuttavia, l’occasione per contribuire a ridurre

la forbice tra case vuote e abitanti, nonché

la forbice delle diseguaglianze sociali, verrà

ancora una volta sprecata. Non basta riempire

le case ma serve, come ci insegna il caso

di Riace, avere una visione per questi luoghi

abbandonati che rimetta al centro la comunità

e l’economia locale. In tal modo sarebbe

Fonti:

John Holloway, Crack Capitalism, Palgrave Macmillan, 2010.

possibile garantire una vita dignitosa e gettare

le basi per la costruzione di una collettività

ritrovata, stimolata da chi davvero ha bisogno

di un tetto e si trova in difficoltà economica.

Mai come oggi, un tempo in cui il dibattito sul

futuro dei piccoli comuni è attivo, il caso Riace

va discusso e compreso, partendo dagli ideali

che lo hanno mosso e che, implicitamente,

hanno messo in evidenza le contraddizioni

di un sistema economico che genera case

vuote e senzatetto.

Henri Levebvre, La révolution urbaine, Editions Gallimard, 1970.

Mimmo Lucano, Il fuorilegge: La lunga battaglia di un uomo solo, Feltrinelli, 2020.

Laura Cavestri, Recuperare i borghi d’Italia può valere 2 miliardi, «Il Sole 24 Ore», 31/08/2020

Alberto Ziparo, Case vuote abbandonate al degrado, la soluzione è il riuso sociale, «Il Manifesto»,

16/02/2019

Alberto Ziparo, Un paese di case vuote. Un quarto del patrimonio abitativo è sottoutilizzato, «Il

Manifesto», 2/09/2017

Palin parla di diritti dei migranti e libertà di movimento con Andrea Costa, coordinatore di Baobab

Experience a Roma.

Baobab Experience è un’associazione nata

nel 2015 che da anni presidia un insediamento

informale dietro alla stazione Tiburtina di

Roma, offrendo prima accoglienza a chi fa

tappa nella capitale. Lì dormono in maniera

fissa decine di persone invisibili alle istituzioni

italiane ed europee. Come raccontano nel loro

sito, l’associazione nasce dall’idea di garantire

la libertà di movimento a tutti e di rivendicare

i diritti di chi, a causa di forze maggiori,

è costretto ad abbandonare la propria terra

in cerca di un altrove più sicuro.

Palin incontra Andrea Costa, coordinatore di

Baobab Experience, per cercare di capire cosa

significa fare attivismo sul territorio facendo

i conti con i risvolti materiali prodotti dalle

mancanze del sistema di accoglienza italiano

ed europeo.

Ogni mese qui a Palin affrontiamo un

tema che cerchiamo di approfondire sotto

diversi punti di vista, quello di questo mese è

reazione. L’esperienza di Baobab Experience

nasce in reazione a cosa?

Continuare a muoversi per

ottenere il diritto di restare

fermi

Intervista ad Andrea Costa di Baobab Experience

Si può tranquillamente dire che Baobab

Experience nasce come reazione, se vuoi

quasi impulsiva e di cuore, ad un’ingiustizia.

Per ingiustizia intendo centinaia di persone

abbandonate per strada con le istituzioni

che fanno finta di non vederle perché se lo

facessero dovrebbero adottare un progetto di

accoglienza e quindi un investimento economico.

Per questo nasce Baobab, dall’unione

di una serie di persone che cominciano ad

organizzarsi per portare aiuto e solidarietà a

queste persone che vivono ditro la stazione

Tiburtina a Roma.

Seguendovi si viene a conoscenza dei

numerosi sgomberi che l’insediamento

dietro alla stazione tiburtina ha subito dal

2015 a oggi. Materialmente come avvengono

questi sgomberi? Che alternativa viene

offerta?

Guarda questa domanda è perfetta perché

proprio stamattina all’alba è avvenuto il trentottesimo

sgombero. Non viene offerta nessuna

alternativa, sono sgomberi parziali: li prendono,

84 Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace

#palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa

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#Area Gramsci

li portano in questura e poi li rilasciano la sera.

Quindi è proprio un gesto simbolico, anche

perché sono persone già schedate e segnalate.

Devono fare vedere che hanno tutto

sotto controllo. Buttano quello che trovano,

coperte, materassini e le poche cose che

questi ragazzi hanno ma poi la sera saranno

costretti a tornarci, finché non si troverà

un centro di accoglienza o un luogo in cui

possano stare. Noi non demordiamo mai,

nemmeno dopo la giornata di oggi, continuiamo

a portare avanti le nostre richieste

rivendicazioni e qualcosa abbiamo ottenuto,

per qualcuno riusciamo a trovare un tetto. il

punto è che gli arrivi continuano, sono addirittura

raddoppiati rispetto all’anno scorso,

anche nel periodo invernale. In più, anche se i

decreti Salvini sono stati superati le centinaia

di persone messe in strada da questi decreti

sono ancora lì, non è che questa cosa è retroattiva.

Il danno è stato fatto.

A proposito di questo, voi portate avanti,

tramite sit-ins e manifestazioni, le istanze

dei migranti rivendicando la tutela dei loro

diritti. Come pensate vada affrontata la tematica

delle migrazioni per garantire una vita

dignitosa a queste persone?

Queste persone sono state escluse da

un circuito di vita regolare, dalla possibilità

di trovare un lavoro, un appartamento

o un percorso formativo. Il problema non

viene affrontato alla radice e si ragiona solo

nella logica di misure emergenziali. Qualsiasi

governo che agisca razionalmente e con buon

senso dovrebbe capire che investire in accoglienza

significa investire in sicurezza, perché

si toglierebbero da situazioni estreme e di

povertà persone già vulnerabili e disperate

per il viaggio traumatico che hanno affrontato.

Recentemente abbiamo avuto il piacere

di intervistare Michele Lapini (link all’intervista

a Lapini), un fotografo freelance che

ci ha raccontato le condizioni drammatiche

e le violenze che subisce chi tenta il ‘Game’

in Bosnia. Siete attivi anche lungo le frontiere

Italiane ed Europee?

Ti ringrazio per la domanda perché questo

tema è molto legato all’attività di Baobab

Experience in quanto, occupandoci di migranti

in transito, abbiamo molto focalizzato i nostri

sforzi su quelli che poi in Europa, e verso l’Europa,

sono stati i transiti di migranti. È un anno

e mezzo che facciamo missioni in Bosnia e

stiamo anche mettendo in piedi un progetto

molto grosso a Ventimiglia, dove fino a due

settimane fa c’erano 50 migranti e oggi ce

ne sono 300. Noi lo sappiamo bene anche

perché spesso partono da Roma provenendo

dal sud del paese. Va detto che a Ventimiglia

si incontra la rotta mediterranea con la rotta

balcanica, ovvero le persone che tentano il

Game in Bosnia e Croazia, per poi attraversare

la Slovenia ed entrare nel territorio italiano

tagliando da oriente ad occidente il settentrione

del nostro paese per poi provare ad

entrare in Francia e raggiungere il nord Europa.

Qual è la situazione attuale al vostro presidio

dietro la stazione Tiburtina?

Ora ci sono circa 120 persone, ma dipende…

c’è il giorno che ne arrivano 40 e ne partono

20. Diciamo che i numeri oscillano tra 70 ai 130.

Devo dire che in questo periodo di pandemia

il nostro lavoro è stato più duro, intanto perché

abbiamo voluto continuare a non far mancare

niente a queste persone e siamo stati quindi

esposti al rischio di contagio, e poi per la difficoltà

di muoversi e fare missioni all’estero. In

più il Covid, come abbiamo visto, colpisce

le fasce più deboli e non protette, anche se

fortunatamente noi abbiamo avuto pochissimi

casi. Però ecco diventa tutto più difficile,

anche con gli arrivi, in quanto sappiamo che

quando li comunichiamo, facendo sapere a

chi di dovere che sono arrivate persone, nei

(pochi) casi in cui accettano qualcuno bisogna

assicurare un periodo di quarantena, test e via

dicendo. Diciamo che è una difficoltà in più

scaricata su chi fa tutto ciò come volontario.

La mia impressione è che la narrazione sui

migranti sia fitta di stereotipi e generalizzazioni,

senza riportare la complessità delle

diverse situazioni e trattando i migranti

come un grande gruppo omogeneo, attribuendogli

spesso connotazioni negative.

Cosa ne pensi?

Noi l’abbiamo sempre detto, la percezione

che si ha in Italia e anche in Europa delle

migrazioni è dovuta alla narrazione che se ne

fa, ed è una narrazione assolutamente dopata.

Tu puoi fare mille ricerche sociologiche, ma

i migranti non sono un’entità astratta, sono

persone che scappano da delle situazioni,

se noi continuiamo a considerarli dei numeri,

confrontando gli arrivi di quest’anno con l’anno

scorso, producendo diagrammi e proiezioni,

non ne usciamo. I migranti sono persone, con

nomi, cognomi, sogni, pregi e difetti. A chi

porta avanti la narrazione dei migranti come

malintenzionati non bisogna rispondere che i

migranti son tutti buoni, i migranti sono cattivi

e sono buoni. C’è di tutto, come in Italia e in

ogni altro paese del mondo. Non è che c’è

una percentuale più alta di imbroglioni, ladri

o criminali rispetto ad altri gruppi. Dobbiamo

ricominciare a considerarli persone uscendo

da stereotipi tendenzialmente negativi, ma

pure dallo stereotipo dei migranti tutti buoni

e carini. Se non si fa questo non se ne esce e

ci si ritrova a parlare dei migranti esattamente

come si parla delle periferie, ci sogno gli angeli

e i demoni, non è così, né nelle periferie né tra

i migranti. Dobbiamo essere capaci di ribaltare

questo tipo di narrazione. L’agenda politica

e la narrazione sui migranti ce la siamo

fatti dettare dal populismo, dalla demagogia,

e ora siamo costretti a rincorrere, a giustificarci

quasi. Dobbiamo fare lo sforzo di comprendere

un fenomeno, partendo dal capire chi

abbiamo davanti. Ci si trova di fronte ragazzi

che studiavano all’università nei loro paesi e

che interrompono il loro percorso per anni.

Così si buttano via cervelli e risorse facendole

rimanere in un limbo, magari in Libia o

sotto il giogo dei trafficanti.

Pensi sia possibile mettere a sistema

diverse lotte, penso per esempio al femminismo,

ai movimenti ambientalisti, al diritto

alla casa e ai diritti dei migranti, tramite una

visione di insieme che accomuni le diverse

istanze?

Mi fa piacere che proprio oggi mi fai questa

domanda perché proprio oggi abbiamo festeggiato

la vittoria dei riders di JustEat che hanno

conquistato il contratto, la tredicesima e gli

straordinari. L’abbiamo festeggiato come

abbiamo festeggiato l’abolizione dei decreti

#Area Gramsci

86 #palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa

#palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa

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#Area Gramsci

Salvini. Un altro esempio può essere la lotta

per la casa, che in questa città vede i migranti,

o meglio ex-migranti, visto che vivono qui

da anni ormai, come assoluti protagonisti.

Chiaramente sono loro adesso in quelle fasce

che più devono darsi da fare per lottare per

avere una casa. Questo è solo un esempio per

farti capire come queste lotte siano intrecciate,

e probabilmente ci si deve sforzare di più per

far comunicare meglio queste diverse istanze

in maniera sinergica, cosa che non tutti hanno

ancora capito bene. A mio parere la lotta per

i diritti dei migranti è sicuramente centrale

perché intorno ad essa si potrebbero unire e

ritrovare tante lotte apparentemente distanti.

Noto un divario sempre più ampio tra i

problemi affrontati dai soggetti che sono

presenti e calati nel territorio, come Baobab

Experience, e l’agenda politica istituzionale.

Secondo te cosa possono fare i soggetti

attivi sul territorio per colmare questo divario?

È necessario scendano loro stessi in

politica?

Intanto è una domanda molto interessante

e da un milione di dollari. Io posso dirti che

quello che sono riuscito a fare in questi sei anni

di coordinatore di Baobab nella mia esperienza

precedente in politica non l’avevo mai fatto,

ma anche perché la politica non mi avrebbe

mai lasciato quello spazio. Io mi auguro che le

nostre istanze possano essere rappresentate

nuovamente. Questo non significa che devi

mettere in lista uno che si occupa di immigrazione,

uno di verde e via dicendo, ma che si

devono creare delle liste che sappiano rappresentare

il quartiere, o la città, e le sue contraddizioni.

Detto ciò, noi come Baobab collaboriamo

spesso con persone che coprono cariche

politiche. Ti posso fare l’esempio dell’amico

ed europarlamentare Pietro Bertone, il

medico di Lampedusa che ha salvato centinaia

di persone in mare. Con lui abbiamo

collaborato diverse volte e lo abbiamo anche

stimolato a fare una missione in Bosnia. Quello

che la società civile può fare è questo, stimolare

la classe politica. Intanto cominciamo con

quello, poi vediamo.

#Area Gramsci

Fonti:

Foto prese dal profilo Facebook di Baobab Experience

88

#palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa

Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi

89



Scritto da Luca Speziale

#Area Gramsci

Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo

La storia di

Mohamed Bouazizi

La reazione di singoli esseri umani all’efferata e incontrastata ferocia del mondo ha determinato la

caduta di regimi, l’inclinazione dei mercati internazionali, crisi di valori e una serie di effetti e fenomeni

macroscopici.

#Area Gramsci

Può il battito delle ali di una farfalla in Brasile

scatenare un tornado in Texas? era il titolo

di un articolo con il quale il matematico

Edward Lorenz si presentava al centotrentanovesimo

meeting dell’American Association

for the Advancement of Sciences nel 1972.

L’illustre matematico è ricordato per essere il

creatore della Teoria del caos e del famoso

Effetto farfalla, ovvero la nozione secondo

la quale variazioni minuscole nelle condizioni

iniziali di un sistema complesso producono

effetti molto più grandi a lungo termine.

Piccole azioni apparentemente insignificanti

creano reazioni dagli effetti giganteschi e

incontrollati: ovviamente, Lorenz applicava la

sua teoria ai fenomeni scientifici come il meteo

o la statistica, ma è evidente invece come

questo effetto farfalla abbia avuto conseguenze

ben più note nella storia umana e, si

potrebbe dire, anche nella quotidianità stessa.

Si pensi a quando un monaco inchiodò al

portone di una chiesa di Wittenberg un

foglietto con alcuni enunciati e il cuore

dell’Europa bruciò come non mai; oppure a

quando una sarta afroamericana rimase seduta

al suo posto su un autobus a Montgomery

non cedendolo a un passeggero bianco; a

quando un manipolo di giovani coloni buttò

in segno di protesta delle casse di tè; si pensi

anche a quella marcia durata settimane terminata

con un pugno di sale nelle mani di un

giovane indiano.

La storia dell’umanità è piena di eventi microscopici,

apparentemente privi di significato,

eppure catalizzatori di cambiamenti storici.

La reazione di singoli esseri umani all’efferata

e incontrastata ferocia del mondo ha determinato

la caduta di regimi, l’inclinazione dei

mercati internazionali, crisi di valori e una

serie di effetti e fenomeni macroscopici. Un

vero e proprio tornado causato dal battito di

ali di piccole farfalle.

Una di queste storie è quella di Tarek el-Tayeb

Mohamed Bouazizi, conosciuto più semplicemente

come Mohamed Bouazizi. Il 4 gennaio

2021 è stato il decimo anniversario della morte

90 Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi

Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi

91



nuovamente teatro di manifestazioni dovute

all’aggravarsi della situazione socio-economica

e all’epidemia mondiale di Covid-19.

Oggi va ricordato, va ricordata la sua reazione, il

suo coraggio e la sua disperazione, un binomio

che molto spesso accompagna la reazione al

cambiamento e forse una delle vere costanti

che andrebbe inserita all’interno della funzione

della Teoria del caos e dell’Effetto farfalla

così da capire realmente com’è possibile che

azioni tanto piccole cambino il mondo intero.

#Area Gramsci

Fonti

Osman El Sharnoubi, Martyr’ Muhammad Bouazizi’s Birthday remembered on Twitter, Ahman

Online, 29/03/2011

American Association for the Advancement of Sciences

Mohamed Bouazizi, Channel 4

Remembering Mohamed Bouazizi, Al Jazeera

Proteste in Tunisia

#Area Gramsci

di Mohamed, un uomo che ha contribuito a

cambiare la storia di questo secolo.

Mohamed Bouazizi era un venditore di frutta

e verdura nelle strade della Tunisia, veniva

da una famiglia di umili origini e conobbe in

prima persona la brutalità del mondo, in particolare

quella del mondo tunisino.

La storia è semplice: tutte le mattine il ragazzo,

per mantenere la famiglia, spingeva la sua

carriola di verdure comprate per rivenderle.

Un giorno la polizia gli sequestra la merce e le

bilance (forse chiesero dei soldi che Mohamed

rifiutò di dare), e dopo aver discusso in municipio

con altri funzionari, non ricevette indietro

la sua merce. Così Mohamed, dopo una

vita passata in balia della brutalità e della

corruzione di questo mondo, comprò della

benzina e si diede fuoco dinanzi al municipio.

Potreste pensare: «beh… uno dei tanti», e

avreste anche ragione, se non fosse che con

l’immolazione di Mohamed Bouazizi il mondo

cambiò. Il gesto dell’umile fruttivendolo colpì

allo stomaco la gente in Tunisia e di lì a poco

scoppiarono le manifestazioni del gennaio

2011, quelle che passarono alla storia come

la Rivoluzione dei gelsomini. Queste manifestazioni

avrebbero portato alla primavera

araba, alla caduta o alla mutazione dei regimi

in nord Africa, alla caduta di Gheddafi e al

fenomeno delle attuali migrazioni, le fluttuazioni

del mercato petrolifero e la riorganizzazione

dell’economia del nord Africa e nella

penisola arabica.

Non sappiamo se Mohamed Bouazizi, Martin

Lutero, Rosa Parks, Mahatma Gandhi e gli

altri artefici della Storia immaginassero a

cosa avrebbe portato il loro ergersi, più o

meno consciamente, dinanzi alle ingiustizie

del mondo; non sappiamo se si aspettassero

questi risultati, però ci sono stati, e ancora oggi

permangono nella Storia. Un fruttivendolo,

un prete, una sarta, un gruppo di coloni, uno

studioso, persone comuni che hanno deciso

di reagire, spesso pagando per le loro azioni.

L’ultima parte della storia di Mohamed, infatti,

non è un lieto fine: il giovane venditore morì

il 4 gennaio 2011 all’ospedale di Ben Arous

con ustioni gravi su oltre il 90% del corpo; inoltre,

a dieci anni dalla sua morte, la Tunisia è

92 Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi

Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi

93



Scritto da Meron Shawel

#Area Gramsci

Minoranze: le conseguenze del

non appartenere

La non appartenenza è la dimensione centrale del disagio vissuto dagli individui parte di una minoranza.

In questa analisi vediamo come la speranza di un miglioramento della condizione delle minoranze

passi necessariamente dalla presa di coscienza delle dinamiche di oppressione e da una reazione

collettiva, contro la discriminazione passiva e interiorizzata.

[In collaborazione con Francesca Puntillo, dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche]

Non si può risolvere il disagio delle minoranze

se prima non si comprende in che modo il loro

naturale bisogno di appartenere viene leso.

abbandonati o come la richiesta di non esprimere

la propria identità, nasconderla in nome

del mantenimento di una pace fittizia.

#Area Gramsci

L’appartenenza è fondamentale per l’uomo:

significa sentirsi inclusi e apprezzati per il

proprio valore individuale in un determinato

contesto. Quando si appartiene si viene accettati

nel pieno della propria identità, qualunque

essa sia, e ci si sente liberi di esprimerla.

Significa non sentirsi soli, poter partecipare

attivamente come membro della propria

comunità, sentirsi connessi a tutti gli altri.

Franz Fanon, nel suo saggio di psicoanalisi

Pelle nera, maschere bianche (1952), analizza

con precisione tali meccanismi nel caso

dell’uomo di colore, comunque applicabili a

tutte le minoranze.

Chi fa parte di una minoranza può andare

incontro al sentimento di non appartenenza

in due contesti: quello familiare e quello

sociale. In quello familiare l’esclusione si

presenta come il non essere accettati, l’essere

Nell’ambito sociale, invece, si parla di discriminazione

sistematica, pregiudizi che vengono

portati avanti a livello collettivo – talvolta

apertamente, talvolta in modo più subdolo

–, bullismo, assenza del riconoscimento di

pari diritti, e nel peggiore dei casi persecuzione

e violenza nei confronti della minoranza

in questione. Quindi, mentre nel primo caso

si ha a che fare con dinamiche che coinvolgono

individui all’interno di nuclei familiari, nel

secondo tali dinamiche avvengono a livello

collettivo e possono coinvolgere gli organi

dello Stato. Naturalmente i due ambiti non

sono affatto separati: se non vi fosse pregiudizio

a livello sociale e sistemico, difficilmente

ne esisterebbe uno a livello familiare.

Prendiamo il caso della comunità LGBTQ+:

i suoi membri sperimentano molto spesso

un esplicito rifiuto in entrambi gli ambienti.

L’allontanamento dalla propria famiglia da una

94

Minoranze: le conseguenze del non appartenere

Minoranze: le conseguenze del non appartenere 95



costo di una penosa esclusione. Egli si sente

cronicamente ‘di troppo’, ‘l’Altro’, e non sa dare

valore alla propria identità perché nessun altro

sembra averlo mai fatto. La sua vita, attraversata

da tale sentimento di non valore, è uno

sforzo per ottenere quell’accoglienza che gli

è stata negata attraverso la conformità. Così,

per paura di venire nuovamente abbandonato,

egli abbandona se stesso.

presa di coscienza della propria ‘diversità’,

con la pretesa che essa venga rispettata e

accolta. Questa è una reazione non solo più

sana, ma anche più utile al fine del concreto

raggiungimento del proprio benessere. Anzi,

si può dire che mentre la prima descritta

sia una non-reazione (poiché caratterizzata

dalla passività), questa sia una reazione vera

e propria.

#Area Gramsci

#Area Gramsci

parte e il trattamento ricevuto dalla società

dall’altra non fanno altro che ricordare loro

che ciò che sono non è che una devianza,

qualcosa di ‘diverso’ dal ‘normale’, una stranezza

o persino il sintomo di una patologia.

Di recente, nelle direttive per le vaccinazioni

anti-Covid rilasciate dall’Asl 5 di La Spezia si

leggeva fra i soggetti considerati ‘con comportamenti

a rischio’ «omosessuali, tossicodipendenti

e soggetti dediti alla prostituzione».

La Regione Liguria, dopo le polemiche sollevate

in particolare dalla menzione ingiustificata

degli omosessuali, si è scusata e ha poi

dichiarato che tali linee guida fossero state

riprese direttamente da quelle del Ministero

della Salute. Se già era grave che ciò fosse

emerso a livello regionale, è ancora più preoccupante

che all’origine del problema vi fossero

direttive nazionali. Il copia-incolla acritico

che sarebbe stato alla base di questo errore

è il sintomo di pregiudizi che ancora resistono

anche fra i membri delle istituzioni; è

semplicemente inaccettabile che in documenti

ufficiali si parli di comportamenti a rischio in

relazione ad un orientamento sessuale che

nulla ha a che fare con l’effettivo stile di vita

di un individuo.

Dunque, riprendendo l’analisi sulla natura

della non appartenenza, il risultato che si

ottiene è un sentimento di solitudine, isolamento

e soprattutto abbandono. Si finisce

così per avvertire la propria identità come

non apprezzata, non pienamente valida, e

di conseguenza non ci si sente sicuri nell’esprimerla.

Ci si domanda quindi: qual è la

reazione di un individuo quando il suo bisogno

di appartenere viene negato?

Fanon si sofferma nell’analizzare l’influenza

che la condizione di abbandono ha su un individuo,

e su come gli impedisca di esprimersi

autenticamente. Non essendosi mai sentito

accolto per quello che è, ‘l’abbandonico’

non crede di poter essere se stesso se non a

Passivizzandosi, si fanno propri inconsciamente

tutti quei giudizi per cui si è sofferto, e

si finisce per partecipare anche direttamente

alla propria stessa oppressione.

Si pensi a quanto è comune vedere donne

fare victim-blaming (colpevolizzazione della

vittima) nei confronti di altre donne che hanno

subìto una violenza sessuale, spostando sulla

vittima la responsabilità dell’esperienza traumatica

vissuta; è evidente che per una donna

sia controproducente rinforzare quella stessa

mentalità che non le permette di sentirsi al

sicuro nel camminare da sola per strada. Ma

d’altronde come si può difendere il proprio

valore – in questo caso di donna – se semplicemente

non lo si conosce?

Fanon intende proprio questo quando,

parlando della liberazione dell’uomo di colore,

insiste su come questa debba significare

innanzitutto liberazione da se stesso, smettendo

di essere «schiavo dei propri archetipi»;

è necessario che si rigettino tutti i pregiudizi

che si sono interiorizzati o che ci si è arresi a

credere veri pur di sentire meno la sofferenza

del sentimento di appartenenza negato.

Le lotte per l’affermazione dei diritti delle

minoranze non sono affatto espressione di

questo atteggiamento passivo, ma anzi di un

giustificato risentimento che spinge a farsi attivamente

partecipi della propria liberazione.

Di contro, in questa ‘seconda fase’, poiché si

è imparato a conoscere il proprio valore, si è

anche in grado di provare una legittima rabbia

verso chi lo ha ignorato.

Dunque, in opposizione allo sforzo di conformarsi

per ottenere l’accettazione, vi è la piena

Non è certamente scontato che un individuo

riesca a maturare fin da subito la coscienza

del valore della propria identità e a difenderla

in un ambiente ostile, ma nel momento in cui

ci riesce può finalmente mettersi in contatto

con i membri della propria stessa minoranza

o di altre minoranze (intersezionalità) e coniugare

lo sforzo di cambiare lo status quo. Solo

con la nascita di questa coscienza prima

individuale e poi collettiva sono pensabili i

processi di liberazione.

Una liberazione che avviene per ‘gentile e

spontanea concessione’ della maggioranza,

infatti, non è sufficiente, perché non è il risultato

di una reale dialettica: essa sarà avvenuta

attraverso le stesse dinamiche di potere

che pongono le minoranze in una posizione

di soggezione e dipendenza.

Il tema dell’appartenenza aiuta a leggere e

comprendere in modo più profondo la natura

delle lotte e del malcontento espresso dalle

minoranze, poiché ne costituisce il punto

centrale.

Il gay pride non è – come spesso si sente

dire – un semplice show, un’inutile spettacolarizzazione

della realtà queer: esso è, al

contrario, una reazione diretta all’oppressione.

Difendere l’orgoglio gay significa respingere

la mentalità per cui essere gay dovrebbe

essere motivo di vergogna. Analogamente,

mostrare apertamente le identità queer in

tutte le loro sfaccettature è la reazione ad

una realtà che suggerisce di nasconderle o

che le ignora. Insomma: finché ci si continuerà

a lamentare del gay pride se ne continuerà

anche a confermare la necessità.

Allo stesso modo, lo slogan Black Lives Matter

96 Minoranze: le conseguenze del non appartenere

Minoranze: le conseguenze del non appartenere

97



non è che la risposta ad una realtà che sembra

affermare il contrario e, se ci si chiede perché

le proteste contro il razzismo siano sfociate

talvolta in violenza e caos, la risposta è ancora

una volta da cercarsi nell’esasperazione del

non appartenere e del non sentirsi al sicuro.

Pur non essendo questa una giustificazione

all’uso della violenza, è certamente una chiave

di lettura della realtà.

Impossibile esaurire in questa sede tutto ciò

che ci sarebbe da dire sul tema delle minoranze:

si è cercato di mettere in luce come

un concreto miglioramento della condizione

delle minoranze passi necessariamente da

una loro netta presa di coscienza delle dinamiche

di oppressione e da un’attiva reazione a

queste ultime. Come visto, limitarsi a sperare

in un futuro migliore è ancora sintomo di un

atteggiamento passivo che contribuisce ben

poco a modificare nella sostanza il presente.

Come più efficacemente espresso da Fanon:

Ogni problema umano richiede di essere

considerato a partire dal tempo. Ma se la libertà

consiste nel non farsi vittima del passato al fine

di poter costruire un avvenire, è solo nel presente

che questa libertà può esercitarsi, e/o questo

avvenire rischia di perdere ogni significato

reale nel momento in cui cessa di essere a

misura di un’esistenza umana. Il postulare una

salvezza futura delle minoranze o in generale

dell’umanità non apporta alcun rimedio alle

disgrazie che essi vivono nel presente.

Pertanto, diventa vitale la ricostruzione di

una nuova prospettiva in cui vengano riscritti

i fondamenti, muovendo dall’interrogazione

sull’umano e sull’uomo in relazione con gli

altri. Solo in questo modo è possibile pensare

ai processi di liberazione.

#Area Gramsci

Fonti:

Marco Lignana Matteo Macor, ‘Omosessualità comportamento a rischio Covid’. L’incredibile

documento è del Ministero della Salute e non della Asl di Spezia, «La Repubblica», 11/02/2021

Fanon F., Pelle nera, maschere bianche, Edizione ETS, 2015.

#Area Gramsci

98 Minoranze: le conseguenze del non appartenere

Minoranze: le conseguenze del non appartenere

99



Reazione fisica

Gabriele

Conte

Riemergi, galleggi, reagisci.

Ma cosa ti salva dalla possibile rapina del

nulla? Perché dopotutto, dopo tutto quello che

hai passato, la spinta che il mondo può darti

sarà sempre uguale a quanta forza ti darai per

emergere. Prendi la rincorsa, raccogli il coraggio.

La tua forza è quella dei gesti leggeri,

ma grandi. E non sai quanta acqua riuscirai a

spostare.

Giovane Concept Artist italiano,nasce a

Palermo e affronta un percorso di studi che si

conclude con una laurea biennale, nel 2014,

in scenografia all'Accademia di Belle Arti di

Bologna, dove vive e lavora come concept

artist/illustratore freelance.

Reazione Reaction

Social, foto, like. Ma quanti sono? Anche se non

riesci a liberarti dal migliore degli amici, anche

se riconosci le catene della #reaction, come

reagisci alla vista del cuore ? Io, come te, sono

dipendente dalla dose quotidiana della sola

insulina che calma il mio mare. Post, tap, like.

La paranoia del doppio tocco.

Reazione emotiva

Reazione, reagire, rivivere.

Cosa porta i tuoi occhi al di là della sofferenza?

Come riesci a superare la delusione? Cosa

resta di tutta quella sete?

La rinascita, la primavera, i fiori che sbocciano.

Il mondo è nelle tue mani, ricordalo. Riscattati,

dibattiti, reagisci. Ché alla fine del tunnel arriva

sempre un bel panorama, e al di là della linea

dell’orizzonte c’è ancora luce

Reazione chimica

Subisci, reagisci, ma come riesce un corpo a

reagire a tutto?Il tuo “ormone del buonumore”

sarà il ritrovare gli altri quando tutto sarà finito.

Intanto fermenti, scalci, vuoi uscire.

La boccia è troppo stretta e tu sei ancora in

formazione, in carica. Ti hanno detto di cibarti

di tutto ma tu hai deciso di reagire alla tempesta

con una tazza di serotonina calda, che gusti

in attesa del risveglio nel mondo.

Reazione Natura

Erba che ricresce, che reagisce. Rigermina da

se stessa nonostante tutto. E noi? Qualsiasi

cosa accada e nonostante tutto, il rizoma della

mia pianta è l’invisibile alla vita che il sottoterra

nasconde.

La Natura è parte di noi e anche nei momenti

devastanti apparteniamo ai suoi frangenti. La

società arborescente canta e suona l’arrivo di

nuove genti.

100 #ProgettoGrafico: Gabriele Conte

#ProgettoGrafico: Gabriele Conte

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