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1
Indice
8
9
14
20
22
#Editoriale
Palin: la reazione del
sommerso
#Area
Pasolini
#Ritratti:
Pier Paolo Pasolini
4
6
Le nuove voci: la reazione di
Igiaba Scego
Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e pregiudizio,
Il barone rampante.
#PalinParlaCon:
Librerie ‘reazionarie’ e dove
trovarle.
Intervista a Giorgio
Santangelo, co-fondatore
della libreria indipendente
«La confraternita dell’uva» di
Bologna
Reagire all’inevitabile:
Demostene, voce di un ribelle
o di un illuso?
28
29
33
39
43
#Area
Heisenberg26
#Ritratti:
Werner Karl Heisenberg
Reazione all’umano. Anche
le macchine provano
sentimenti?
#PalinParlaCon:
Scienza, ricerca e territorio:
un rapporto di reazione.
Intervista a Raffaele
Agostino, docente di Fisica
dell’Università della Calabria
5g, radiazioni e reazioni
sull’uomo.
Una reazione ci salverà
#Bootleg
48
Il signor G, Giorgio Gaber
e il teatro canzone. eazione
all’umano. Quando ‘canzone’
fa rima con ‘reazione’
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57
60
64
68
72
76
#Area
54
Warhol
#Ritratti:
Andy Warhol
La rosa reazionaria: Gulabi
Gang e Nishtha Jain
#PalinVisita:
La Galleria de’ Foscherari
#PalinParlaCon:
Quando l’arte reagisce alla
pandemia.
Intervista a Lorenzo Balbi,
direttore del MAMbo – Museo
di Arte Moderna di Bologna
Reazione come nuova
definizione artistica dell’essere
e dell’agire
Pubblica reazione artistica
Dissenso e provocazione.
La strategia reazionaria del
“purché (non) se ne parli
80
81
85
89
94
#Area
78
Gramsci
#Ritratti:
Antonio Gramsci
Reagire dal basso. Il potenziale
dei piccoli borghi e la lezione
di Riace
#PalinParlaCon:
Continuare a muoversi per
ottenere il diritto di restare
fermi. Palin parla con Andrea
Costa di Baobab Experience
Quando un fruttivendolo ha
cambiato il mondo. La storia di
Mohamed Bouazizi
Minoranze: le conseguenze
del non appartenere
#Progetto
100
Grafico
Gabriele Conte
2
3
Palin:
reazióne s. f. [der. di reagire, secondo il modello del rapporto agire-azione].
– Azione che si oppone ad altra azione. Da questo sign. centrale e generale si articolano i varî sign.
che la parola assume nell’uso comune e come termine di molte scienze e tecniche.
1. Nell’uso comune: a. L’atto o il comportamento con cui si reagisce, si risponde a un’offesa, a una
violenza, a cosa che si ritiene non giusta
La reazione dei nostri tempi è qualcosa di
difficile da definire. Negli ultimi mesi l’impressione
generale sembra quella di non aver un
punto preciso di direzione, come quando si
entra in galleria; o quando si è disperatamente
alla ricerca di qualcosa e pur scavando non
si va mai oltre uno spesso strato di superfici.
Ma siamo anche all’interno di una strana
congiuntura storica, la quale vede il termine
Reazione porsi come una categoria su cui
è urgente riflettere. Il soggetto riposizionato
dei nostri tempi produce una ridistribuzione
in senso più democratico della stessa possibilità
di esprimersi e parlare.
‘To speak’, in questo senso, vuol dire ‘agire’ in
uno spazio di segni sociali riconosciuti e riconoscibili
(oltre che interpretabili). Assistiamo,
d’altra parte, a una collocazione incerta che
origina un sentimento di perenne sospensione,
identità ambigue e multiple, propense
allo straniamento sociale e alla lontananza
dagli incidenti quotidiani, che ribadiscono
nella condizione di ‘straniero’ un’ineluttabile
colpevolezza, anche in chi appare perfettamente
integrato.
Illustrazione di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Scritto da Massimo Salvati
La reazione del sommerso
È nelle pieghe e nei grumi della Storia, che
possiamo trovare tutte quelle micro-storie
(con la s minuscola e che unite formano la
vera Storia) i cui echi e rimandi riescono a restituire
esempi di reazioni e rifiuti, ribelli portatori
di un riesame storico dei propri modelli,
per migliorarli.
A questo proposito, sull’emersione di nuove
voci, portatrici di un riesame storico-culturale,
pronte a sfidare le coordinate delle topologie
affermate, Derobertis [1] ha scritto che più
che parlare di una rimozione del passato, si
dovrebbe intendere l’argomento come una
«forma di disseminazione ignorata ma capillare
di ricordi privati e di memorie di singoli
gruppi che non hanno avuto accesso o voce
nel discorso pubblico», la quale è altamente
pervasiva nella storia coloniale e post-coniale
italiana ad esempio.
Con tutta probabilità la Reazione che abbiamo
davanti, scoglio o iceberg il cui semplice
tocco potrebbe affondare la nostra nave, o
meglio barcone, di certezze, si configura come
qualcosa di difficile e poco semplificabile. La
stessa comprensione del nostro presente, e
l’eterogeneità costitutiva che lo caratterizza,
sono stati passaggi cruciali e che abbiamo
tentato di cogliere.
Analizzando le parti sociali chiamate a prendere
coscienza delle nuove possibilità di
esprimersi, noi di Palin ci siamo interrogati
sulle opportunità inedite di esprimersi del
subalterno, le sembrano possibilità oggi non
troppo lontane dal realizzarsi.
Perciò, noi di Palin, con le nostre microvisioni
del reale, abbiamo cercato di cercare, studiare,
analizzare le varie possibilità di reazione, rifiuto,
cambiamento che l’attuale congiuntura storica
sembra suggerire. Quel processo di livellamento
preconizzato all’inizio degli anni
Duemila, non si è concluso nella costrizione
di uno spazio planetario ‘liscio’. Al contrario,
esso si configura come un insieme di processi
complessi e contradditori, in cui la riorganizzazione
del mercato mondiale come ambito di
riferimento delle operazioni fondamentali del
capitale è costretta a misurarsi con molteplici
resistenze e attriti, i quali danno luogo a una
profonda eterogeneità di formazioni spaziali,
economiche, politiche, sociali e culturali.
Un insieme di temi trasversali: la crisi della
forma moderna di stato a fronte dei processi
globali contemporanei, le tensioni a cui
vengono sottoposti concetti politici fondamentali
(per esempio quello di cittadinanza),
il rilievo costitutivo dei movimenti migratori
e più in generale delle pratiche di mobilità
per il mondo in cui viviamo, l’esigenza di
ripensare la categoria di ‘forza lavoro’ ( e il
problema della sua ‘produzione’), lo spiazzamento
dello sguardo rispetto alla centralità
indiscussa dell’Europa e dell’Occidente,
la nostra stessa capacità di percepire uno
spazio aggregativo di contro all’emergenza
sanitaria.
Questi e altri temi sono indagati da Palin con
un metodo che punta a far emergere le formidabili
tensioni che segnano l’attuale congiuntura
storica a livello mondiale, puntando
sulle inedite risposte delle resistenze, delle
reazioni e delle tensioni locali, come capaci
di rimettere in gioco lo schematismo immobile
dei nostri tempi.
Note:
[1] Derobertis, Roberto (a cura di), Fuori centro, Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana,
Aracne, Roma, pp. 57-71.
4 Palin: La reazione del sommerso
Palin: La reazione del sommerso
5
Illustrazione di Antonio Cammareri, @_elenamuti_
Palin incontra Pasolini, che usa la
letteratura per raccontare la realtà.
Con lui Palin scopre che il mondo là fuori
è fatto di parole, storie e racconti, capaci
di creare nuovi universi.
Quest’area tratta quindi di Letteratura
e realtà, cercando di indagare il mondo
letterario nella sua più ampia accezione,
attraversando modernità e antichità,
linguistica e letterature straniere, senza
porsi limiti nelle sue esplorazioni.
Per amare la cultura occorre una forte vitalità.
Perché la cultura è un possesso: e niente necessita di una più
accanita e matta energia che il desiderio di possesso.
Pier Paolo Pasolini
Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Illustrazioni di: Roberto Stefanelli, @bertorex
#Area Pasolini
Pier Paolo
Pasolini
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»
(Sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo)
L’espressione è pronunciata da Cremete, personaggio di una commedia latina di Terenzio, ma
è Pasolini che sembra proferirla.
Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922
– Roma, 2 novembre 1975) è scrittore, poeta,
giornalista, drammaturgo, filosofo, traduttore,
saggista, critico ma soprattutto altro:
uno e plurimo al tempo stesso, uomo a sé
e intellettuale versatile e “alieno”. In una
società che ama dettare canoni di omologazione,
Pasolini si interroga sulle motivazioni
e sulle conseguenze, imponendosi di
andare controcorrente e captare tutte le
sfaccettature più intime dell’umana natura,
i vizi e le virtù, l’intelletto e la forza, l’indole e
le debolezze, le luci e le ombre. Come forse
nessun altro prima, Pasolini sembra quasi
essere un “profeta culturale” e al contempo
possessore dell’enorme capacità di veicolarla
a chiunque, scavallando classi sociali
e pregiudizi. Amante della geografia dell’animo
umano, Pasolini è anche un grande
viaggiatore nella realtà, sul doppio binario
tra mondo esterno e mondo interiore,
mettendo in connessione l’uno con l’altro.
Studioso e “attualizzatore” del passato,
riesce a mettere mano a materia letteraria
lontana secoli rendendola viva e pulsante,
specchio di quel continuo teatro unico che
è l’esistenza. L’esistenza, che possiede
e utilizza un suo proprio linguaggio che
lui riplasma e traduce nella sua contemporaneità
e con i suoi nuovi linguaggi.
Un uomo che osserva, analizza e conosce
l’uomo, un intelletto e una sensibilità ai quali
l’umano non può sfuggire e, di conseguenza,
non può essere estraneo.
8
#Ritratti: Pier Paolo Pasolini
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego 9
Scritto da Massimo Salvati
LE NUOVE VOCI:
La reazione di
Igiaba Scego
Igiaba Scego, attraverso la sua ultima opera, La linea del colore (Bompiani 2020), conferma la necessità
di ripensare delle categorie che oggigiorno suonano sempre più come solchi, o linee divisorie, tra
Noi e l’Altro.
#Area Pasolini
La riscrittura del nostro passato, soprattutto
quello del passato recente, fa parte di un’esigenza
dettata dal riemergere di storie e microstorie
disseminate nella memoria collettiva.
Ne consegue che molte voci di nuova generazione
abbiano ‘preso la parola’, secondo nuove
e inedite possibilità di esprimersi, sulle tracce
di un famoso saggio della filosofa Gayatri
Spivak, Can the subaltern speak? (1988); e
sembrano rievocare un passato a noi sconosciuto,
diverso, quasi ‘sommerso’ della nostra
coscienza storica:
Sono cosa? Sono chi? Sono nera e italiana.
Ma sono anche somala e nera.Allora
sona Afro italiana? Italo africana? Seconda
generazione? Incerta generazione? Meel kale?
Un fastidio? Negra saracena? Sporca negra?
Non è politicamente corretto chiamarla così,
mormora qualcuno dalla regia. Allora come
mi chiameresti tu? Ok, ho capito, tu diresti di
colore. Politicamente corretto, dici. Io lo trovo
umanamente insignificante. Quale colore di
grazia? Nero? O piuttosto marroncino? Cannella
o cioccolato? Caffè? Orzo in tazza piccola? Sono
un crocevia, mi sa. Un ponte, un equilibrista,
una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla
fine, sono solo la mia storia. [1]
La scrittrice Igiaba Scego, con la sua opera,
rimanda alla percezione di un continuo frazionamento
di sé stessa davanti a interlocutori
italiani che misurano ogni micro-segmento
di adesione allo standard italico, o a quello
di provenienza somala, che è emblematica
del proprio consapevole spacco di coscienza,
squarcio verticale, che divide la soggettività
dell’individuo, rilevando come pure esistono,
e coesistono, elementi plurimi che coabitano
l’unicità del soggetto: risorse, immaginari e
linguaggi accompagnano il divenire di identità
mai statiche, le quali, come nella metafora
narrativa di Scego, corrispondono alla
presa di consapevolezza del «sono solo la
mia storia».
Il titolo del libro è, come la stessa Scego definisce,
«un omaggio (e citazione diretta) a
W.E.B Du Bois. La linea del colore è quella
che ancora divide, ma per Lafanu Brown
assume anche un altro significato, è la linea
della sua arte, quella della sua emancipazione».
È un viaggio verso la propria storia
quello che Scego descrive: una narrazione
che si muove a ritroso verso le pieghe del
proprio passato, delle radici della propria
coscienza storica.
Nella sua narrativa, la Scego riflette spesso
sul meticciato, sull’ ibridismo, il cui status,
misto con i ‘confini confusi’, è una condizione
che si iscrive nella medesima identificazione
corporea di fronte allo specchio. La sua opera,
benché sia inizialmente inserita nella letteratura
della migrazione, e soprattutto nelle scritture
della cosiddetta seconda generazione
degli scrittori migranti, dovrebbe invece
essere esaminata alla luce della letteratura
postcoloniale dove la stessa esperienza del
migrante, con le possibilità narrative offerte
dall’avere un ‘punto dal basso’ (Gilroy) diventano
identificative di dinamiche sociali folkloricamente
italiane, le quali sono indice di ulteriori
potenzialità narrative delle ‘nuove voci’:
I nobili romani erano pieni di debiti, ma non
rinunciavano ai loro salamelecchi regali e
a quelle orrende conversazioni sul niente.
Betsabea la portava da quei nobilastri perché
si esercitasse sui volti. «Sono una ben strana
umanità,» le diceva complice. «Hanno facce
da museo. Ti potrai esercitare molto facendo
il tratto a questo circo delle meraviglie». E così
per mesi, che poi erano diventati anni, Lafanu
Brown era stata convocata in quei mastodontici
palazzi, che alla prima occasione erano stati
venduti ai nuovi padroni di Roma, i piemontesi,
per farci stazione e piazze di passaggio. Ma se
i nobili lasciano a desiderare – puzzavano di
porte chiuse e paure ancestrali –, le loro ville
erano invece un autentico splendore. [2]
Notiamo come lo sguardo antropologico sia
ribaltato definitivamente. Il soggetto subalterno
assume la stessa possibilità di parlare,
to speak (Spivak), e di giudicare le pratiche
del mondo circostante. Non in modo ‘selvaggio’
e disarticolato, ma con una critica che è
emblematica di una rovinosa caduta delle
antiche famiglie nobiliari, in virtù dello stesso
cambiamento dei tempi.
La storia delle deportazioni e la storia dello
squarcio verticale della coscienza del ‘Negro’
appartengono a una configurazione storica
in cui lo spazio socio-culturale cosmopolita,
ibrido e decolonizzato, come quello di Scego,
10
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego 11
può essere pensato dalle diverse comunità
nere come background culturale comune
su cui ricreare identità culturali e politiche
alternative: è ciò che Gilroy ha indicato nel
concetto di «Atlantico nero» [3] , ossia lo sfondo
su cui si è costruita la black diaspora.
Baby Sue mi ha dato una ciocca dei suoi
capelli. Mi ha detto: «Lanciala nell’acqua. Lì
in quell’oceano tetro come la notte sono state
gettate mia sorella e mia madre. Non so come
sono sopravvissuta a vederle soffrire sotto il
peso di quegli uomini orribili. Non è umano
vedere la propria madre o la propria sorella
umiliata in quel modo. Non le ho viste morire. I
loro corpi sono stati riempiti dall’alito di troppi
uomini, e dopo che si sono divertiti abbastanza
le hanno gettate agli squali. Sono morte sotto
il peso di quelle bestie, ma io so che sono lì.
In quel mare hanno creato un’altra vita. Ogni
tanto le vedo in sogno».
La memoria della schiavitù, del colonialismo,
della diaspora, del meticciato, attivamente
preservate quali vive risorse intellettuali
nella cultura narrativa e sociale, suggeriscono
un modo di rispondere alla «dialettica
dello spaesamento» (Glissant) mirando a
scrivere storie che non partano da un punto di
vista eurocentrico, per narrare come le culture
dissidenti della modernità dell’Atlantico
nero abbiano sviluppato e cambiato questo
mondo frammentato, contribuendo con
enormi risorse alla salute morale del nostro
pianeta e delle sue aspirazioni democratiche [4] .
Senza pretendere di dare una risposta a
queste domande, le quali richiederebbero
molte più trattazioni di quelle realizzabili in
questa sede, limitiamoci a notare come la
presa di coscienza di autori migranti e provenienti
dalle ex-colonie abbia iniziato a mettere
in questione il canone della letteratura italiana
e l’identità che su di esso si fonda, non senza
provocare reazioni difensive in un Paese nel
quale, grazie all’opera (recente però) di storici
e romanzieri [5] , il colonialismo comincia a non
essere più considerato marginale.
Un modo per evadere da quella «violenza
epistemica» (Spivak) sembrerebbe quella
di ricacciare ogni linea divisoria, ogni muro
o Vetro che fornisce e incoraggia lo specchio
dell’abbruttimento e della negazione
sull’Altro. Le nuove possibilità offerte dalle
esperienze inedite di congiunzione culturale
e di meticciato sembrano fornire altrettante
soluzioni per poter osservare, da una
realtà nuova, una micro porzione del reale non
mediata dallo sguardo bianco, non filtrata dal
vetro della nostra cultura di europei.
#Area Pasolini
Fonti:
[1] Scego, La mia casa è dove sono, Loescher, Torino 2012, pp. 33 s.
[2] I. Scego, La linea del colore, Bompiani, Milano 2020, p. 25.
[3] P. Gilroy, The Black Atlantic: l’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Milano
2019
[4] op. cit. p.47.
[5] Cfr., tra gli altri, D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d’occupazione dell’Italia
fascista in Europa 1940-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003; V. Perilli, Miti e smemoratezze del
passato coloniale italiano, in «Controstorie», n. 1, 2008, http://www.controstorie.org/content/
view/8/32/; N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna
2002; C. Raimo, Contro l’identità italiana, Einaudi, Torino 2019.
#Area Pasolini
12 Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego
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Scritto da Daniele Costantini
#Area Pasolini
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante
Storie di rifiuti
e reazioni
Achille rifiuta di entrare in guerra fino alla morte di Patroclo, che scatena la sua reazione, un impeto
di rabbia funesta che custodisce in grembo un amore profondo.
Elizabeth rifiuta la proposta di matrimonio di Mr. Collins, e il suo rifiuto nasconde e palesa la reazione
nei confronti di un sistema maschilista e patriarcale all’interno del quale le donne non hanno il
minimo potere decisionale.
Cosimo di Rondò rifiuta un piatto di lumache salendo, per reazione, su di un albero. Reagendo così
non solo alle imposizioni di suo padre ma anche al sistema nobiliare, con le sue pratiche, le usanze e le
vuote apparenze. Cosimo rifiuta di leggere la sua vita come un ordine precostituito fatto di regole da
rispettare e domande da non porsi, e reagisce costruendosi una sua personale dimensione di libertà.
Tre esempi di rifiuto, tre storie di reazione.
Una reazione è, riportando dall’enciclopedia
Treccani, un «atto o comportamento con
cui si risponde a un’offesa, a una violenza e
simili». L’atto di risposta, quindi, a un’azione
che potrebbe arrecare danno al soggetto
spinto a reagire.
dalla cultura vigente nella sua epoca, dall’adesione
o dalla reazione al proprio contesto
sociale e, fondamentale, da un avvenimento
improvviso e non prevedibile.
Achille
#Area Pasolini
Non di rado un atto di reazione è legato a
un rifiuto, il quale potrebbe sia coincidere
con la reazione stessa (reagire ad un ordine
rifiutandosi di eseguirlo), sia esserne il fattore
scatenante (il rifiuto di un’alleanza può scatenare
una crisi diplomatica).
Analizzando tre casi letterari di re-azione
tra loro diversi, si nota come ognuno di essi
venga determinato dall’indole del protagonista,
La guerra di Troia è in pieno svolgimento. I
Greci assediano la città nemica ormai da
tempo, in un continuo susseguirsi di battaglie
tra guerrieri feroci e divinità partigiane.
Accade però, ad un certo punto, che qualcosa
s’incrini tra le fila achee. Agamennone, il
re condottiero, costretto a liberare la schiava
scelta per sé dopo l’ultimo assedio al villaggio
vicino (essendo lei figlia di un sacerdote di
Apollo e per questo protetta dal dio) sceglie
14
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni 15
affascinato dai discorsi epici di Ulisse. Decide
così di appropriarsi delle armi e dell’armatura
di Achille – all’insaputa di questi – e di recarsi
sul campo di battaglia. Lì, alla vista di quello
che sembra Achille, si scatena il panico. Ettore,
principe di Troia e condottiero del suo esercito,
lo affronta, convinto di trovarsi di fronte
all’invincibile guerriero, e lo uccide.
#Area Pasolini
Quando la notizia dell’accaduto raggiunge
Achille, la sua reazione è incontrollata.
#Area Pasolini
di rimpiazzarla con la schiava che era stata
assegnata ad Achille, il più valoroso e temuto
dei combattenti, figlio di un uomo e di una
dea nonché condottiero dell’esercito più spietato
tra tutti gli eserciti: quello dei mirmidoni.
Così Achille, ferito più nell’orgoglio che nella
sfera degli affetti, si ritira, adirato, dalla battaglia.
I dissapori fra lui e Agamennone affondavano
le radici in avvenimenti più antichi,
per cui l’episodio della schiava Briseide è
soltanto la celebre goccia che fa traboccare
il vaso. A quel punto, comunque, la situazione
dell’esercito greco, senza Achille e i mirmidoni,
si complica terribilmente. Vani sono tutti
i tentativi di convincere il Pelide a tornare a
combattere, finanche quello di Ulisse, il più
abile oratore, che porta messaggi di scuse
e promesse di ricche offerte da parte del re
pentito. Achille è irremovibile nella sua ira.
In quei giorni di astinenza dalla lotta però, che
lo inducono addirittura a riflettere sull’inutilità
di una tale guerra (e in fondo della guerra in
generale), non è solo. Patroclo, suo cugino e
secondo numerose ricostruzioni anche suo
amante, trascorre il tempo con lui, ed essendo
egli più giovane e inesperto, e il suo nome
ancora totalmente sconosciuto ai nemici, resta
Torna così a combattere con furia inaudita
persino per la sua fama, e trucida decine
e decine di soldati troiani fino ad arrivare al
cospetto di Ettore. Lo sfida, e quello, consapevole
di andare incontro a morte certa,
rassegnato, accetta la sfida. Achille vince
e, ancora in preda alla sua ira disumana, fa
scempio del cadavere del nemico, legandolo
alla sua biga e trascinandolo lungo il
perimetro delle mura della città.
La storia va poi avanti come sappiamo, ma
è interessante qui capire il meccanismo alla
base della reazione di Achille. Dentro la sua
reazione c’è, infatti, la rabbia per l’oltraggio
subìto, l’incontrollabile desiderio di vendetta
ma, soprattutto, il senso di colpa per non
essere stato in grado di proteggere, conservare
e preservare quell’affetto che aveva, a
ben vedere, tutti i tratti dell’amore. Perciò la
sua violenta reazione è, in fondo, l’espressione
del suo profondo amore per Patroclo,
manifestato con l’atto per lui più naturale, il
combattimento, e con l’unico strumento che
padroneggia perfettamente: la spada. È, in
altre parole, la manifestazione più spontanea
e sincera dell’amore verso l’unica persona che
probabilmente avesse mai davvero amato.
Lui, che combatte solo per sé stesso, e che
sempre e solo per sé stesso smette addirittura
di farlo (è dopo aver subìto un affronto
personale che si ritira), in quell’occasione non
si batte per la gloria degli eroi e per l’immortalità
del nome, ma lo fa, per la prima volta, in
nome di qualcun altro. Reagisce per vendetta
e si batte per amore.
Inutile dire che la reazione di Achille indirizzerà
in modo decisivo l’andamento del conflitto.
Senza di essa i Greci avrebbero concretizzato
l’ipotesi che già si stava facendo largo prima
del suo intervento: girare le navi e tornare a
casa.
Ma la reazione di un uomo che ha perso
l’amore può valere così tanto da decidere le
sorti di una guerra.
Elizabeth
Quando in Orgoglio e pregiudizio, il romanzo
più conosciuto di Jane Austen, Mr. Collins si
reca a casa Bennet per chiedere la mano di
Elizabeth, secondogenita di cinque sorelle,
non può immaginare, per quella che è la
mentalità sua e più in generale di tutta una
società, di stare andando incontro a un secco
rifiuto.
Siamo nell’Inghilterra rurale di inizio XIX
secolo, e il matrimonio all’epoca, e fino a
molti anni più tardi, è un’istituzione in ogni
senso fallocentrica, o meglio ‘fallodiretta’:
è l’uomo a scegliere la donna da sposare, è
l’uomo a proporre il matrimonio ed è l’uomo,
infine, a svolgere l’indiscusso ruolo di capofamiglia.
Per questo Mr. Collins intende la sua
visita a casa Bennet più come una formalità
che come un’incognita da risolvere. Dice,
infatti, di essersi recato nell’Hertfordshire con
il preciso intento di scegliersi una moglie e
che la fortunata risulta essere, dopo attente
valutazioni parentali ed economiche, proprio
Elizabeth. Solo che lei, Elizabeth, ragazza
brillante e consapevole, declina l’offerta
mostrandosi assolutamente non intenzionata
a sposarlo.
Rifiuto, quindi. E la reazione? La reazione c’è
poco dopo, quando Collins mostra quanto
poco valgano le parole della ragazza alle sue
orecchie. Dice infatti:
Quando avrò l’onore di parlarvi la prossima
volta di questo argomento spero di ricevere
una risposta più positiva di quella che adesso
mi avete concessa, sebbene sia lungi da me
l’accusarvi di crudeltà, dato il costume del vostro
sesso di respingere un uomo alla sua prima
proposta, e forse voi stessa avete già detto
abbastanza da incoraggiare i miei propositi,
con tutta la delicatezza dell’animo femminile.
Elizabeth è comprensibilmente incredula
davanti a una comunicazione tanto ìmpari,
e replica:
Davvero, Mr. Collins, [...], mi sconvolgete
immensamente. Se quanto vi ho detto può
sembrarvi una forma di incoraggiamento, non
so davvero come esprimere il mio rifiuto perché
voi possiate convincervi che sia davvero tale.
Il rifiuto coincide qui con la reazione, e non
esprime in questo caso soltanto la volontà
di non sposarsi con un uomo che a stento
conosce e per il quale non prova nulla, ma
incarna un primo baluardo di resistenza al
sistema patriarcale da sempre in vigore in
16 Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
17
Occidente e non solo. Le parole che veicolano
questo primo fuoco di resistenza e rivolta
sono d’una veemenza e una bellezza rare:
la propria personale felicità.
Cosimo
sono inesperti di galateo e buone maniere
e gli adulti li richiamano in continuazione, li
umiliano e li puniscono. In un tale clima di
dissapori e ripicche, succede un giorno che
Cosimo rifiuti un piatto di lumache, scelto
come simbolo del potere genitoriale e dell’insopportabile
arroganza della sorella maggiore.
Il narratore infatti informa:
Il modo in cui le lumache eccitavano la
macabra fantasia di nostra sorella, ci spinse,
mio fratello e me, a una ribellione, che era
insieme di solidarietà con le povere bestie
straziate, di disgusto per il sapore delle lumache
cotte e d’insofferenza per tutto e per tutti, tanto
che non c’è da stupirsi se di lì Cosimo maturò
il suo gesto e quel che ne seguì.
Ai ripetuti ordini minacciosi del padre, Cosimo
reagisce salendo su un albero del loro giardino
e promettendo al suo nobiliare genitore,
e al resto del mondo, che da lì non sarebbe
più sceso.
Calvino intesse poi una trama fantastica e
fuori dal tempo, ricca di personaggi e situazioni
diverse, alcune improbabili, altre del tutto
assurde, ma la promessa fatta da Cosimo,
la decisione di fare della sua reazione una
ragione di vita, non verrà mai meno. Il giovane
infatti su quegli alberi crescerà, scoprirà
l’amore in Viola, condurrà rivolte e conoscerà
Voltaire attraverso uno scambio di lettere.
Senza scendere mai a terra. Il rifiuto delle
logiche aristocratiche e nobiliari, dell’etichetta
mondana, della costruzione di un’immagine
artefatta di sé e della sua famiglia, sarà ciò
che gli permetterà di vivere davvero la sua
vita, in maniera intensa e istintiva: libera. E
mai rinuncerà alla sua libertà, mai scenderà a
contraddirsi. Tanto che alla fine, ormai vecchio,
quando l’inevitabile morte avrebbe potuto da
un momento all’altro buttarlo giù, come un
corpo ormai spento che si abbandona alla
forza di gravità, Cosimo si aggrappa a una
mongolfiera e, arrivato a sorvolare il mare, si
lascia cadere nell’infinità dell’acqua. Che non
è, e mai sarà, terra.
Una reazione come rifiuto alla prigionia, una
reazione per la libertà.
Amore, felicità, libertà: quando sui tre vocaboli
più abusati vengono edificate storie di
reazioni del tutto prive di retorica.
#Area Pasolini
Vi ringrazio ancora e ancora per l’onore che
mi avete fatto con la vostra proposta, ma
accettarla per me è assolutamente impossibile.
I miei sentimenti me lo vietano sotto ogni aspetto.
Posso esprimermi più chiaramente di così?
Non consideratemi adesso come una donna
raffinata che si diverte a stuzzicarvi, ma come
una creatura razionale, che dice la verità dal
più profondo del suo cuore.
Dopo questa conversazione nulla farà
cambiare idea alla giovane donna, né l’insistenza
ottusa del goffo pretendente, né i deliri
di sua madre, né – soprattutto – la paura che
a quel tempo attanagliava la maggior parte
delle ragazze della sua età, quella cioè di
rimanere nubili, non scelte come mogli e
future madri da alcun uomo.
Altra storia di ribellione, altra storia di reazione.
In fondo, in modi ogni volta diversi, si può
forse affermare che rifiuto, reazione e ribellione
siano tra loro legati, a volte disposti in
un rapporto di causa/effetto-conseguenza,
altre addirittura sovrapposti per formare un
unico processo che ha, sempre, una direzione
controcorrente.
Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista de Il
barone rampante di Italo Calvino, ha dodici
anni, vive nel Settecento ed è figlio del ricco
e conosciuto barone di Rondò. A raccontare
la sua storia è suo fratello, di quattro anni più
piccolo di lui.
Fonti:
[1] Omero, Iliade, trad. it. G. Tonna, Garzanti 2014
[2] J. Austen, Orgoglio e pregiudizio, trad. it. M. La Russa, Feltrinelli 2018
[3] Calvino, Il barone rampante, Mondadori 2016
#Area Pasolini
Il rifiuto di Elizabeth, e la successiva reazione
alla prepotenza maschile, è un atto che scardina
dal basso il conglomerato obsoleto dei
valori sette-ottocenteschi.
Una reazione per l’autoaffermazione e per
Tutto inizia quando i due fratelli cominciano
a essere ammessi a tavola, durante i pasti,
insieme al resto della famiglia (in precedenza
avevano sempre mangiato nella loro stanza);
la breve convivenza durante pranzi e cene
però crea ben presto tensioni: i due fratelli
18 Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
19
#Area Pasolini
Scritto da Sibilla Fontanella
Librerie ‘reazionarie’
e dove trovarle
Intervista a Giorgio Santangelo, co-fondatore della libreria
indipendente «La confraternita dell’uva» di Bologna
Palin parla con Giorgio Santangelo, giovane proprietario e co-fondatore de ‘La Confraternita dell’Uva’,
libreria indipendente bolognese nonché luogo di scambio e di scoperta, che incarna perfettamente
lo spirito della città. Un contenitore trasparente, all’interno del quale i numerosi ed eterogenei elementi
di colore culturale possono essere visti, avvicinati, studiati da ogni angolazione.
Gli aperitivi letterari, la scoperta di prodotti
agroalimentari di qualità, le presentazioni
di libri, la passione per la letteratura e per
l’editoria indipendente sono elementi che
trovano, tutti, spazio in un progetto coraggioso
che risponde al nome di ‘La Confraternita
dell’Uva’, fondata cinque anni fa da Giorgio
Santangelo e Antonio Ciavarella nel centro
storico di Bologna.
Nell’ultimo anno, le librerie indipendenti come
quella di Giorgio e Antonio hanno dovuto riorganizzarsi,
riscoprire altri modi per perseguire
i propri obiettivi: anche la cultura vive
e si nutre attraverso le idee di imprenditori
che riescono a slegare il prodotto che
offrono dall’impossibilità fisica di aprire i
propri spazi.
È proprio nell’ottica di capire le interazioni tra
piattaforme digitali, librerie indipendenti e fedeltà
ai propri valori che Sibilla Fontanella ha deciso di
rivolgere alcune domande a Giorgio Santangelo.
Qual è il percorso che ha portato all’apertura
della libreria indipendente?
La libreria nasce dall’incontro e dalla
volontà di Giorgio Santangelo (io) e
Antonio Ciavarella nel dicembre 2016.
Ci chiamiamo ‘La confraternita dell’uva’ perché
questo nome ci sembrava l’ideale per raccontare
la nostra realtà: libreria e wine bar
insieme, scaffali ricolmi di libri e ottimi vini.
Inoltre, John Fante è il mio scrittore preferito
e quindi è una sorta di tributo alla sua memoria
e alla sua produzione.
Probabilmente avrete risposto centinaia
di volte alle curiosità di chi ricerca un significato
nella scelta del nome ‘Confraternita
dell’Uva’: come è possibile coniugare l’idea
di fondo e le sensazioni che racconta Fante
– che trovano difesa e territorio sicuro nello
spirito del vostro locale/libreria – con
la situazione presente che vi trovate ad
affrontare?
Portare avanti tutt’oggi questa mission è
più difficile, da un anno a questa parte ospitare
gente è complicato. Ci siamo però subito
mossi in modo da venire incontro al bisogno
delle persone che ci frequentano: organizzando
consegne a domicilio di libri, bottiglie,
veri e propri pacchetti aperitivo, regali e ceste.
Se la comunità non può venire in libreria, è la
libreria che va dalla comunità!
Librerie come servizi essenziali. Durante il
periodo di confinamento dello scorso anno
e poi nei mesi successivi, avete avvertito
il disagio di quelli che erano vostri clienti
abituali? Si sono avvicinati all’universo delle
librerie indipendenti anche nuove figure?
Le librerie sono state dichiarate attività
essenziali solo in un secondo momento e,
durante il lockdown di marzo 2020, sono state
chiuse. Le consegne a domicilio e le spedizioni
in tutta Europa ci hanno permesso di
avvicinarci a chi ci conosceva già ma anche
ad aprirci a tante nuove persone. Ricordo che
è capitato, alla riapertura, che una signora che
aveva ricevuto un pacchetto regalo da parte di
una persona cara durante il lockdown, venne
poi a in libreria spinta dalla curiosità di conoscerci.
Alla stessa maniera c’è gente che continua
a comprare i nostri libri a distanza, anche
senza essere mai venuta tutt’ora in libreria.
Da un po’ di tempo è attiva la piattaforma
Bookdealer.it. Cos’è cambiato grazie a
questo nuovo sistema?
Il mondo editoriale durante il lockdown non
è stato fermo e ha fatto tesoro della lezione
imparata da tante e tante librerie che, in tutto
lo Stivale, hanno deciso di non arrendersi alle
chiusure lavorando a distanza. Da questo
contesto sono nate alcune realtà, tra cui a
fine agosto 2020 Bookdealer.it, alla quale
abbiamo subito aderito.
Un portale che ha facilitato le nostre consegne
e spedizioni dandoci la struttura e la facilità
di un e-commerce. La differenza principale
è l’etica che c’è dietro.
Acquistando da questo portale, sarà una libreria
de te scelta a farti recapitare il libro, facendo
sì che il prezzo intero del libro finisca direttamente
nelle tasche della libreria. Inoltre, i libri
ti vengono consigliati dai librai stessi e non
da un algoritmo. L’unica maniera per scoprire
nuovi libri fuori dalla propria comfort zone.
Un circuito virtuoso che ci permette tutt’oggi
di spedire ovunque e competere contro i
colossi dell’e-commerce mondiali. Ne siamo
davvero felici.
Per approfondire la storia della ‘Confraternita
dell’uva’ si possono trovare altre letture interessanti
su About Bologna e ZERO oltre che
rimanere aggiornati seguendo le pagine
Facebook e Instagram!
Per approfondire la storia della ‘Confraternita
dell’uva’ si possono trovare altre letture interessanti
su About Bologna e ZERO oltre che rimanere
aggiornati seguendo le pagine Facebook
e Instagram!
#Area Pasolini
20 #palinparlacon: Librerie reazionarie e dove trovarle. Intervista a Giorgio Santangelo
#palinparlacon: Librerie reazionarie e dove trovarle. Intervista a Giorgio Santangelo
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Scritto da Martina Cofano
REAGIRE ALL’INEVITABILE:
Demostene, voce di un
ribelle o di un illuso?
Uno dei problemi politici più grandi del IV secolo a.C. solleva un interrogativo attuale: è più reazionario
chi avversa l’inevitabile o chi ribalta un modello passato per costruirne uno inedito?
Se la grecità costituì un vessillo in età arcaica
e classica, le carte avrebbero iniziato a mescolarsi
nel pre-ellenismo [1] con l’ascesa di Filippo
(fig.1, nell’illustrazione dell’arch. Panaiotis
Kruklidis) al trono di Macedonia nel 360 a.C..
Non il suo debutto, ma di sicuro l’inizio di un
grosso affare, la rivalità con Atene, ormai eclissata
nel microcosmo delle città-stato: dopo
lotte, episodi di diplomazia e persino una
pace, Filippo intraprese l’inevitabile guerra,
ma Atene non fece nulla per impedire la sua
avanzata. A nulla servì la ribellione: Filippo
sbaragliò gli Ateniesi e i complici Tebani
nella battaglia di Cheronea del 338 a.C..
La sua reazione a un dominio inevitabile e a
una grandiosa evidenza fu però assai singolare:
egli sognava non il potere della Grecia
tutta, ma il ripristino dell’Atene egemone. Le
Filippiche pronunciate contro il suo avversario
risultano dunque più la testimonianza di
un nostalgico parolaio, una «true lie» [3] , che
una fonte storica senza diaframmi.
C’è da dire che le posizioni dell’oratore ateniese
non furono sempre le stesse: se in un primo
periodo egli promosse istanze pacifiste, tuttavia
non andò mai nella direzione di una conciliazione
totale.
#Area Pasolini
Sono questi i prerequisiti che servono –
almeno in questa sede – per immergersi
nella ristretta schiera di voci che fino alla fine
si oppose al dominio, non velleitario e ormai
fattuale, del crudele, barbaro, violento Filippo.
Demostene (fig. in copertina, nella rappresentazione
del pittore ottocentesco Eugène Delacroix),
ateniese e di famiglia facoltosa, oratore per antonomasia,
non si stancò mai di sostenere la sua
democrazia: ad Atene il destino aveva assegnato
un ruolo, che al suo tempo era minacciato
da un tiranno «nemico della libertà» [2] .
La definizione di bàrbaro (lat. barbarus, da gr.
βαρβάροςβαρβάροςος) sintetizza la ‘geniale’ invenzione
greca per designare l’altro, uno straniero
per due volte e per questo in simmetrica antitesi
rispetto all’uomo greco. Essa costituisce
uno dei pilastri della reazione demostenica,
contestuale alla valorizzazione dell’imperialismo
ateniese: per lui Filippo «non solo non
è un greco e con i Greci non ha niente a che
fare, ma non è nemmeno un barbaro di un
paese da dove è bello dire di essere originari,
ma è un maledetto macedone (ὀλέθρουὀλέθρου
Μακεδόνος), di un paese da cui un tempo non
22
Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?
Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso? 23
propina un modello inedito e migliorante
(un modello antitirannico secondo i filomacedoni
Diodoro, Speusippo ed Isocrate); ne
consegue che chi non sia disposto a lasciare
il presente nel passato, sta sacrificando le
proprie intenzioni in una battaglia persa in
partenza. Dunque Demostene incarna in
sé la sincerità di un eroe romantico portatore
di sentimenti e ideali collettivi; ma l’altra
faccia della medaglia è un’incapacità di
fondo di dare ascolto alla storia.
Se Demostene fu promotore di una reazione
alla novità (Filippo), era un ribelle o un conservatore
illuso? Un ribelle o un conservatore
idealista? In sostanza: guardò più al passato
o al futuro della sua Atene?
Ai posteri l’ardua sentenza.
#Area Pasolini
Fonti:
#Area Pasolini
si riusciva a comprare neanche uno schiavo
decente!» [4] .
La sua resistenza si fece espressione di un
grande ‘a priori’: Atene e Sparta – immeritevoli,
perché incapaci di gestire il proprio
possesso – sarebbero comunque state un’alternativa
migliore rispetto a quello «schiavo
o figlio scambiato» (δοῦλος ἢ ὑποβολιμαῖος) che
è Filippo. I Macedoni però, pur memori della
precedente condizione schiavile, erano i nuovi
ricchi e Demostene sembrava ignorare tutti
i cambiamenti a cui la Grecia era andata
incontro nel corso di un secolo.
Resta, la sua, una coscienza dei valori antichi
e la strenua difesa della democrazia: ma
sui piatti di una bilancia pesa di più un sogno
passatista o un rischio all’avanguardia? Quella
di Demostene fu davvero reazione o soltanto
il tentativo di ripristinare qualcosa di astorico,
senza valore di circostanza?
Un filone della critica ha riconosciuto a Demostene,
al di là della qualità innegabile in fatto di oratoria,
una linea d’azione giusta[5], ma inapplicabile
per la forza dell’avversario. La scuola tedesca
ha posto l’accento sull’impatto negativo
di un’opposizione inutile, ostacolo all’unificazione
del mondo greco e all’eliminazione
del particolarismo delle città-stato.
Gli antichi – si sa – sono stati maestri, se non
di ideali, almeno di interrogativi sostanziosi.
E la vicenda del Demostene che Drerup definisce
un miope, richiama alla memoria un
grande problema: quando si reagisce, si è
più illusi o idealisti? La risposta è complessa,
individuale, troppo poco univoca per dare a
questa brevissima trattazione la parvenza di
un finale chiuso.
È forse una questione di adesione a paradigmi
più o meno consolidati dell’eroe-reazione,
che pure va storicizzato: il ribelle del IV
secolo è sicuramente Filippo, che propone/
[1] Si intenda la periodizzazione canonica lato sensu e si assuma l’inizio dell’ellenismo coincidente
con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), secondo la definizione di Droysen.
[2] G. Squillace, L’ultimo intervento di Filippo II in Tessaglia nella propaganda macedone e
antimacedone, Milano, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,
2000.
[3] G. Mader, Fighting Philip with Decrees: Demosthenes and the Syndrome of Symbolic Action,
Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2006.
[4] Demosth. 9. 31.
[5] Tesi di H. Schaefer.
Guido Cortassa (cur.), Demostene. Filippiche, Garzanti, 1996.
Francesco Lamendola, Demostene il megalomane
Gottfried Mader, Fighting Philip with Decrees: Demosthenes and the Syndrome of Symbolic Action,
in «The American Journal of Philology», Autumn, 2006, Vol. 127, No. 3 (Autumn, 2006), pp. 367-386
Manuela Mari, Bastardi senza gloria. Filippo II e i Macedoni in Demostene IX 30-31, in M. Capasso
(cur.), Cinque incontri sulla cultura classica, in «I Quaderni di ‘Atene e Roma’» 5, 2015, 117-133.
Antonietta Porro, Walter Lapini, Claudia Laffi, Letteratura greca. Storia, autori, testi. L’età classica.,
Loescher, 2017
Giuseppe Squillace, L’ultimo intervento di Filippo II in Tessaglia nella propaganda macedone e
antimacedone, in «Aevum», Gennaio-Aprile 2000, Anno 74, Fasc. 1 (Gennaio-Aprile 2000), pp. 81-94
24 Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?
Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?
25
Illustrazione di Gabriele Conte, @gabriele_conte88
Palin ha incontrato anche Heisenberg.
Con lui Palin scopre che il mondo può
sempre essere scoperto e visto con occhi
nuovi, in un continuo interscambio di
posizioni: dal cosmo alle particelle.
Quest’area tratta quindi di Scienza, in
tutto ciò che ci circonda, dall’immensità
dell’Universo al più piccolo atomo,
cercando di dare una visione di insieme,
senza relegare l’argomento scientifico a
qualcosa di unicamente accademico, ma
di interesse comune.
La scienza naturale non descrive semplicemente, interpreta la
natura: è una parte dell’interfaccia tra la natura e noi stessi.
Werner Karl Heisenberg
Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Illustrazioni di: Dalila Amendola,
@dalila.amendola
#Area Heisenberg
Werner Karl
Heisenberg
Scienza, politica e vita privata. La vita di
Werner Karl Heisenberg, scienziato tedesco
attivo nella prima metà del secolo scorso e
divenuto famoso per la conquista del premio
Nobel nel 1932 “per la creazione della meccanica
quantistica”, fu caratterizzata da una
serie d’infiniti compromessi fra le regole e
i pregiudizi del regime nazista e la necessità
di difendere la propria vita e la propria
carriera.
La Germania è stata per anni il più importante
centro culturale per lo sviluppo delle
maggiori teorie nell’ambito della fisica, almeno
fino al momento della salita al poter di Hitler
che costrinse molti scienziati ebrei e non
solo a fuggire via dal paese pur di non rinnegare
le proprie origini e la propria scienza. Si,
perché la scienza stessa fu messa in discussione
in quegli anni e fu ridotta a mero mezzo
di promozione politica del regime, tanto
che insorse addirittura il rifiuto verso l’astrazione
di quella che venne definita “scienza
ebraica” in contrapposizione alla fisica tedesca
in diretto contatto con la natura. Si trattava
principalmente della teoria della relatività
di Einstein colpevole di non essere stata
concepita da sangue ariano. Fu proprio per
questo che Heisenberg, sostenitore di tale
teoria, fu definito dal collega premio Nobel
(nel 1905) e sostenitore nazista, Lenard <<lo
spirito dello spirito di Einstein>> e il settimanale
della SS “Das Schwarze Korps” in suo
riferimento scrisse dei <<Weisse Juden in der
Wissenschaft>> (Ebrei bianchi nella scienza)
considerandoli ancora più subdoli e pericolosi
degli ebrei veri. Solo allora lo scienziato,
pur di non lasciare la sua amata terra, decise
di rinnegarsi, aderire al programma nucleare
nazista e litigare con altri grandi colleghi
come nel caso di Bohr. Nonostante ciò la
Germania, orfana di alcune delle menti più
brillanti del secolo, fallì miseramente, oggi
possiamo anche aggiungere: per fortuna!
28
#rubricaritratti: Werner Karl Heisenberg
Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?
29
Scritto da Alfredo Petrella
#Area Heisenberg
REAZIONE ALL’UMANO.
ANCHE LE MACCHINE PROVANO SENTIMENTI?
#Area Heisenberg
Compreresti un’automobile il cui pilota automatico potrebbe scegliere di sacrificare te per salvare la
vita di due passanti? E se provassi affetto per loro, o se fossero invece i responsabili di ciò che sta per
succedere?
L’etica dell’intelligenza artificiale è, sin dagli
albori di quest’ultima, un tema estremamente
dibattuto dagli addetti ai lavori, ma spesso
eclissato dalle mirabolanti imprese compiute
dai sistemi intelligenti agli occhi del grande
pubblico. Uno dei settori più promettenti e
più esposti allo stesso tempo è la robotica,
che negli ultimi anni è passata dal cercare
disperatamente di evitare cadute rovinose
alle proprie creazioni, al produrre ballerini di
Rythm&Blues più abili del 70% della popolazione
mondiale, come dimostra il video
pubblicato dalla Boston Dynamics alla fine
dello scorso anno [1] .
Come ci insegna lo zio Ben di Spider-Man!
però, «da un grande potere derivano grandi
responsabilità» [2] , e le innumerevoli applicazioni
delle nuove tecnologie non fanno eccezione:
uno dei tratti distintivi degli esseri intelligenti,
infatti, è la capacità di reagire agli
stimoli esterni sulla base dei dati acquisiti
e processati in tempo reale, ed è così
che l’enorme vantaggio di poter programmare
un sistema veloce nel prendere decisioni
seguendo schemi prestabiliti costringe
i produttori a chiedersi, d’altro canto, quali
debbano essere tali schemi.
Tutto ciò sta già accadendo attorno a noi.
Pensiamo ai software per il riconoscimento
delle emozioni: bisogna sapere che hanno
raggiunto performance sorprendenti, come
risulta particolarmente chiaro, ad esempio,
sul sito di MorphCast [3] (sul quale ci si può
divertire gratuitamente e senza temere per la
propria privacy) e che presto saranno implementate
in robot umanoidi che si interfacceranno
con noi in modo più efficace e vario,
a seconda del nostro stato d’animo.
Come vi sentireste se il vostro nuovo robot
da compagnia, percependovi un po’ giù di
tono, vi offrisse uno di quei dolci al pistacchio
che ordinate una volta al mese su Amazon,
e reagisse prenotando a sorpresa un pranzetto
per due al ristorante di sushi nel quale
avete incontrato per la prima volta il vostro
attuale partner, approfittando di un buco in
comune nella vostra agenda personale? Forse
il vostro morale si risolleverebbe, ma a quale
prezzo? E se quel pranzo aveste voluto farlo
dal messicano a un isolato da casa, che non
è su JustEat, e rivedere un amico di vecchia
data che non seguite sui social? Che domande,
avreste potuto sicuramente parlarne al vostro
assistente digitale! Ma quante, di tali informazioni,
si è disposti a condividere con l’azienda
produttrice, al fine di rendere più soddisfacente
il servizio ricevuto?
Il messicano non ha l’all you can eat, vero, ma
non è questo il punto. Proviamo così: concentriamoci
sui veicoli a guida autonoma. Se ne
parla moltissimo, ma stupisce ogni volta ricordare
che in media, ogni giorno, più di 3500
persone perdono la vita a causa di incidenti
stradali, la maggior parte dei quali dovuti a
distrazioni del conducente o a infrazioni del
codice della strada, prima su tutte la guida in
stato di ebbrezza [4] . L’inquinamento provocato
dall’elevato numero di veicoli e dalle strutture
e infrastrutture destinate a ospitarli, inoltre,
verrebbe notevolmente ridotto se, invece
di avere centinaia di veicoli privati fermi in un
parcheggio per buona parte della giornata, un
esiguo numero di mezzi pilotati da un’intelligenza
artificiale soddisfacesse i bisogni di più
passeggeri, in base alla sua posizione attuale
e alle richieste ricevute, e gli spazi superflui
venissero adibiti alla costruzione di parchi e
alla produzione di energia rinnovabile.
Dove si nascondono le responsabilità qui?
Nella scelta della reazione che ci aspettiamo
venga assunta dal nostro pilota automatico
nel caso in cui dovesse gestire una
situazione non ordinaria o, addirittura, mai
affrontata prima da nessun altro veicolo con
cui abbia mai interagito.
Facciamo un passo indietro e ripartiamo
da un classico esperimento mentale di filosofia
etica, formulato negli anni Settanta: il
30 Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?
Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?
31
Scritto da Filippo Dodero
#Area Heisenberg
#Area Heisenberg
problema del carrello ferroviario [5] . Nella sua
formulazione più semplice, esso prevede la
presenza su delle rotaie di un tram che non
può essere arrestato e si dirige verso cinque
persone che non avrebbero scampo; l’unica
alternativa che ci viene fornita è la possibilità
di azionare un deviatoio che reindirizzi il
tram verso una persona, anch’essa impossibilitata
ad evitare il peggio, risparmiando le
prime cinque. Chiaramente, il quesito non
prevede una risposta corretta, ma è estremamente
utile per riflettere sul fatto che situazioni
simili potrebbero effettivamente verificarsi,
seppur con una probabilità molto più
bassa rispetto a quella di incidente oggi.
Assumendo, poi, che ciò non accada nel caso
in cui il sistema sia implementato in modo
Fonti:
particolarmente efficiente, altri quesiti sorgono
spontanei: ad esempio, è possibile comunicare
al veicolo che ci si trova in una condizione
di emergenza e richiedere che alcune
norme vengano violate per perseguire un
bene più alto? A quali condizioni? Se si trattasse
di condizioni di salute, il veicolo sarebbe
in grado di verificarle e, eventualmente, fornire
primo soccorso? Qual è il giusto compromesso
tra efficacia ed etica? A queste e a molte altre
domande cerca di rispondere la cosiddetta
Machine Ethics (etica delle macchine), introducendo
il concetto di Artificial Moral Agent
(soggetto artificiale dotato di morale) e adattando
i princìpi giuridici al mondo dell’Artificial
intelligence [6]. .. Ma questa è un’altra storia,
riservata ai più curiosi.
Spero che il sushi sia stato all’altezza delle 4.73 stelle su 5 del ristorante, le foto di quegli uramaki
sembrano davvero invitanti ma negli ultimi 13 giorni le recensioni sono peggiorate dello 0.012%...
Per stasera messicano con Max allora? Cucino volentieri io! Ah, un ultima cosa, mi imbarazza
chiedertelo, ma sto imparando: selezioneresti dal menù la lingua parlata dal gatto? Non riesco a
rilevarla automaticamente.
[1] Do you love me?
[2] Stan Lee (testi), Steve Ditko (disegni); Spider-Man!, in The Amazing Spider-Man n. 15, Marvel
Comics, agosto 1962.
[3] Morphcast
[4] Road Traffic Injuries and Deaths—A Global Problem, in Center of Disease Control and Prevention
[5] Trolley problem, in Wikipedia
[6] Ethics of Artificial Intelligence and Robotics, in Stanford Encyclopedia of Philosophy
Palin parla col professor Raffaele Giuseppe Agostino, docente di fisica presso l’Università della Calabria.
Non mi fare domande difficili a cui non saprei
rispondere.
È in questi toni informali che inizia l’intervista
a Raffaele Giuseppe Agostino, docente di
Fisica sperimentale della materia all’Università
della Calabria, che ha da sempre visto la sua
crescita formativa legata in maniera imprescindibile
alla crescita del territorio.
Noi di Palin lo abbiamo intervistato per scoprire
non solo il suo attento punto di vista sulla
ricerca in Italia ma soprattutto ciò che c’è alla
base: una forte passione per il proprio lavoro,
per la Scienza e per il proprio territorio.
Partiamo dalle presentazioni: Lei è un
professore conosciuto nel Dipartimento
di Fisica dell’Università della Calabria. Si
presenti anche ai lettori di Palin.
Allora, io sono un Professore di Fisica
Sperimentale della Materia. Mi occupo da
sempre di problemi legati alle superfici.
All’opinione pubblica è chiaro cosa sia l’astrofisica
o la fisica delle particelle, mentre la Fisica
Scienza, ricerca e territorio:
un rapporto di reazione
Intervista a Raffaele Agostino, docente di Fisica
dell’Università della Calabria
delle Superfici potrebbe essere un concetto
che sfugge. In realtà tutto quello che abbiamo
intorno, che vediamo e tocchiamo tipicamente
lo facciamo per mezzo della sua superficie.
Noi vediamo il colore della superficie di un
oggetto, non del corpo. Moltissimi fenomeni
che avvengono nel nostro quotidiano sono
legati alle proprietà delle superfici e c’è una
Scienza apposta, la Scienza delle superfici,
che se ne occupa.
Cosa vuol dire essere un professore di
Fisica in un’università italiana (e calabrese)
in termini di mansioni, obiettivi, ricerca, ecc.?
Questa domanda è molto complessa, perché
i compiti di un docente universitario ormai
sono molti e diversificati. La parola ‘docente’
rimanda principalmente all’insegnamento e
sicuramente io insegno (NdA come a dire ‘e
sicuramente l’insegnamento è una grossa
parte del mio mestiere’): fisica di base ai matematici,
laboratorio di elettromagnetismo e
fenomeni ondulatori ai fisici. Quello che faccio
però non è semplicemente prendere i libri di
32 Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti?
#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
33
#Area Heisenberg
testo e trasferire le nozioni agli studenti, piuttosto
provo a tradurre quella che è la mia esperienza
nel campo della ricerca scientifica nei
concetti e nel contenuto dei corsi. Perché io
sono convinto del legame intimo tra ricerca
e insegnamento universitario: non dobbiamo
fare l’errore di pensare all’università come alla
naturale successione della scuola superiore.
Il docente universitario ha come compito non
semplicemente insegnare, ma tradurre la
propria esperienza scientifica in insegnamento
per gli studenti. Quindi gli studenti apprendono
‘a fare’ e, con questo taglio, apprendono
sempre ciò che è alla ‘frontiera della conoscenza’.
Per questo, non si tratta di trasferire
conoscenza consolidata, ma nuova conoscenza.
Questo è il grande salto che si fa dal
liceo all’università ed è per questo assolutamente
necessario che un docente universitario
faccia ricerca.
I modelli esteri che guardano alla possibilità
di avere ‘teaching university’ (cioè università
in cui si fa solo insegnamento) sono modelli
perdenti perché la qualità dell’insegnamento
ne risente se il docente non è artefice della
propria conoscenza attraverso la ricerca.
Naturalmente questo si fa con un processo
che va dai primi agli ultimi anni di università,
in cui le conoscenze si spostano sempre più
dal ‘consolidato’ alla ‘frontiera’ sfumandone
sempre di più i confini. Dunque, l’impegno di
un docente sulla ricerca è fondante, è una
delle ragioni d’essere di un docente universitario.
Questa è una principale differenza tra i
modelli ‘tipo-italiano’ e alcuni modelli esteri in
cui c’è una gran divisione tra l’insegnamento
e la ricerca, che viene magari demandata ad
enti di ricerca che non hanno l’insegnamento
tra i propri mandati.
Che impatto ha la ricerca e l’università sul
territorio e la società?
Io mi sono iscritto a questa università nell’83
perché ne ho letto lo Statuto. Lo Statuto di
questa università fu scritto alla fine degli anni
Sessanta e inviterei a rileggerlo ai molti che
parlano di università e del ruolo che essa
dovrebbe avere nel territorio. Quello era uno
Statuto innovativo, tant’è vero che l’Unical per
molti anni era totalmente dissimile per regole
e comportamento interno, partecipazione
democratica, per il modo in cui si gestiva
rispetto alle altre università. L’Unical è nata
grazie ad un’intuizione dei padri fondatori
che vollero un’università dedicata al territorio.
Questo è uno dei motivi che mi ha spinto
a scegliere questa università, perché oltre
alla mia crescita personale e culturale mi
dava la possibilità di assistere alla crescita
del territorio. Nacque come un’università residenziale,
abbiamo infatti ancora oggi il più
grande centro residenziale delle università
italiane per rapporto al numero di studenti.
La nostra residenzialità era voluta per poter
dare (in una regione come la nostra) la possibilità
di studiare ad un gran numero studenti
che altrimenti non avrebbero potuto. Emigrare
per studiare come avviene ancora adesso è
una cosa che discrimina per reddito tra chi
può e chi non può. Questa università è nata
anche con l’obiettivo di dare al territorio un
progresso legato alla conoscenza. Questa
cosa mi convinse molto a 18 anni, idealista
come tutti a quell’età, e decisi di restare qua
invece di spostarmi a Padova dove avevo
inizialmente puntato. Questo è l’inizio, come
l’ho tradotto dopo? Quando poi attraverso un
lungo percorso che mi ha fatto anche conoscere
altre realtà, sono ritornato in Calabria,
quello che ho fatto è stato tradurre questa
spinta iniziale e ideale nella necessità ogni
volta di raffrontarsi al territorio e di mettere
su delle iniziative che potessero non solo far
crescere i miei studenti ma anche avere una
ricaduta. Anche per questo ho iniziato una
serie di progetti con l’ambizione di portare
innovazione basata sulla conoscenza scientifica
e tecnologica sul territorio.
Parlando di territorio abbiamo chiesto al
professore il perché le università italiane
non riescano a trattenere i ricercatori che
esse stesse faticano tanto a formare e se è
solo una mancanza di fondi o c’è dell’altro.
Infatti, secondo i dati del Consiglio Europeo
della Ricerca (ERC) i ricercatori italiani sono
i primi beneficiari di fondi per progetti finanziati
nel 2020, ma le nostre università sono
tra le ultime fra quelle in cui questi soldi
vengono spesi. È l’ennesimo segno di una
‘fuga di cervelli’ ormai generazionale?
Ci dice che, secondo lui, la realtà di solito
è molto più complessa di come ci appare.
È vero, i fondi disponibili per l’Italia e per la
ricerca italiana sono tanti. È anche vero che
la ricerca universitaria italiana non è ancora
strutturata per ottimizzare l’utilizzo di questi
fondi. All’interno delle università, le strutture
che si occupano della progettualità sono
carenti, non strutturali e non esistevano ad
esempio quando mi sono iscritto all’università.
Sono diventati una necessità quando i
fondi strutturali, diciamo ‘automatici’, sono
diminuiti a favore dei fondi per cui è richiesta
una ‘competizione’ tra progetti. Le università
si stanno lentamente attrezzando: l’UNICAL
ha avuto ad esempio la fortuna, più o meno
25 anni fa, di mettere su un ‘Liaison office’, un
ufficio dedicato alla progettualità. A capo di
questo ufficio è stato dal principio nominato
un fisico, il Prof. Barberi, che ha costruito una
struttura che si occupasse della nuova progettualità
a partire dal reperimento dei fondi fino
alla costruzione d’impresa. L’UNICAL non
solo ha il Liaison Office, ma anche un incubatore
di imprese (il TechNest) cioè un luogo
dove le imprese fatte da giovani ricercatori
e laureati possano crescere fino a spiccare
il volo. Esattamente come un nido (nest), si
prova ad incubare le nuove imprese nei primi
tre anni di vita per poi lasciarle camminare
con le proprie gambe una volta pronte. Le
imprese spin-off, le start-up dell’Unical sono
numerose e hanno avuto riconoscimenti interessanti.
Non tutte le università italiane fanno
questo, il tentativo in una terra che non è ricca
di infrastrutture industriali e tecnologiche era
proprio quello di assolvere quel mandato
dello Statuto di cui parlavamo all’inizio e di
avere una ricaduta non solo in termini di nuove
conoscenze, che è fondamentale, ma anche
in termini di nuove attività produttive. Attività
produttive che, in un’epoca di dematerializzazione,
sono diventate forse più semplici:
non abbiamo bisogno di un substrato industriale
per andare a costruire nuove imprenditorialità
sana e pulita ma abbiamo bisogno
di conoscenza e di strutture.
Raffaele Agostino crede che questa sia una
delle scommesse da raccogliere per le nostre
Università. Naturalmente non nasconde che
rispetto a questa traiettoria non tutta l’Università
si muove concorde. Questo però è
nell’ordine delle cose: ci sono diversità e
#Area Heisenberg
34 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
35
#Area Heisenberg
#Area Heisenberg
ben vengano, l’importante è che ci sia una
spinta verso qualcosa di innovativo che sia
anche un contrasto alla fuga dei cervelli. La
cosa che più ci fa star male in generale è
notare che molte persone scelgono direttamente
di andare all’università fuori in base alle
maggiori possibilità lavorative future. Questa
è un’emigrazione che va a beneficiare direttamente
l’economia di altri posti: uno studente
calabrese che va a studiare in un’università
del Nord contribuisce all’economia del Nord
ancora prima di iniziare a lavorare lì. Abbiamo
un travaso di risorse mentali ed economiche
dal Sud al Nord e questa è una cosa che fa
molto male. Non importa quando avviene
ma questo trasferimento di energie, di intelligenze
e risorse materiali è qualcosa che sta
continuamente impoverendo, immiserendo
in tutti i sensi la nostra Regione.
Lei invece è uno di quelli che sono rimasti.
Cosa l’ha spinta a fare questa scelta e
cosa consiglia a chi vuole intraprendere una
carriera universitaria?
Io mi sono convinto nel tempo che il principio
fondante di ogni ricercatore è la passione,
lo traduco dicendo che nulla è difficile quando
qualcosa ti piace. Seguire le proprie passioni,
seguire la propria capacità di agire e di portare
qualcosa di nuovo, avere la coscienza di fare,
di dire, di scrivere è l’unica base da cui partire.
Ho visto colleghi che partivano da conoscenze
di base limitate, cito sempre come la
prima laureata del mio corso, adesso ricercatrice
dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare,
proveniva da quella che era negli anni ‘80 la
scuola magistrale, dove la matematica, la
fisica che io avevo fatto e molte altre cose non
erano state affrontate, eppure la sua volontà,
la sua capacità, la sua passione ha portato
lei ad essere la prima e la migliore del corso.
Questo è solo un esempio ma ne potrei citare
tanti per dire che le difficoltà che si hanno nello
studio e nell’affrontare la ricerca che consegue
lo studio, vengono superate quando si
ha passione verso una cosa e quello che mi
fa tristezza e vedere molti ragazzi, magari
brillanti e con ottimi voti, che alla fine delle
superiori non sanno cosa fare. Vedo un capitale
sprecato, dei talenti inespressi. Quelli che
scelgono semplicemente ingegneria o economia
come grandi contenitori per dire «vabbè,
poi tanto decido dopo», secondo me fanno
una scelta perdente. Ho visto molte persone
che hanno cambiato corso di studio al primo
anno di università, che si sono resi conto che
la loro passione era tutt’altra: non erano più
sotto il giogo della famiglia o della società,
e quindi avevano la possibilità di tirar fuori le
proprie tendenze per poi riuscire. L’importante
è scoprire la propria passione e cavalcarla, poi
è abbastanza semplice: semplice non vuol
dire facile, significa che si riescono a superare
gli ostacoli, non che gli ostacoli non ci siano.
Il professore ha anche parlato dei due
lavori di ricerca di cui va più fiero:
Il primo è l’aver visto che, in alcune condizioni,
l’impossibile diventa possibile. Normalmente
uno dei vettori di energia che costituirà il
nostro futuro che è l’idrogeno, è un gas difficile,
perché per raccoglierne una quantità
sufficiente per riscaldare o far andare un’auto
elettrica, come la Mirai della Toyota, ce n’è
bisogno in quantità così grande che è difficile
compattarla in un piccolo spazio. É leggero,
poco denso, ma questo significa che c’è bisogno
di grandi volumi da portarti dietro. È stato
tentato di risolvere questo problema in vari
modi. Ciò che il mio gruppo di ricerca ha fatto,
riuscendoci, è stato andare a vedere cosa
succede alle molecole di idrogeno, che sono
di dimensione del miliardesimo di metro,
quando vengono confinate in spugne, strutture
che hanno pori della dimensione delle
molecole stesse. Come a dire, vediamo se l’effetto
sull’acqua di una spugna posso ottenerlo
anche per l’idrogeno. La scelta è stata trovare,
produrre e inventare spugne di dimensione
nanometrica e poi andare a indagare il loro
comportamento. Quello che abbiamo scoperto
è che l’idrogeno condensa sulle superfici di
questi pori e raggiunge densità simili a quelle
dell’idrogeno liquido che si ottiene normalmente
a -250° centigradi. Avere scoperto che
questa cosa può essere ottenuta a temperature
molto superiori, permette di avvicinare
quel traguardo tecnologico di avere grandi
quantità di idrogeno, quindi grandi quantità di
energia, in piccoli spazi. Un bel risultato di cui
vado fiero, perché il percorso ha visto anche
l’ideazione e la realizzazione totale, dalla
meccanica all’elettronica, al software, degli
strumenti che servono a realizzare questo
esperimento. Un inciso, la società spin-off
DeltaE di questa università (fondata dal prof.
Agostino e altri tre colleghi nel 2000) opera nel
campo della produzione di prototipi ancora
adesso, a distanza di ventuno anni ed è fra le
più longeve d’Italia. Opera e costruisce per il
Politecnico di Milano, per la KAUST in Arabia
Saudita, per università belghe e via dicendo.
Come ricaduta non c’è solo il risultato della
ricerca ma c’è anche la capacità di sviluppare
nuova metodologia e costruire nuova
strumentazione: nuova conoscenza porta la
capacità di costruire nuovi strumenti, nuovi
strumenti portano ancora nuova conoscenza.
Secondo risultato, l’aver contribuito a far
nascere nell’Università della Calabria, unica
università in Italia, un’infrastruttura di ricerca
che si chiama STAR. Infrastrutture di ricerca
in Italia ce ne sono poche e sono a gestite
dal CNR (Consiglio Nazionale di Ricerca) o
dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare,
insomma grandi enti di ricerca. STAR è un
innovativo progetto realizzato nell’Università
della Calabria, un’infrastruttura di ricerca sui
materiali tramite sorgente di raggi-X duri per
la diagnostica per immagini ad alta risoluzione.”
Il professore ci tiene a spiegare come
sia un progetto che si estende al di fuori anche
dell’ambito puramente fisico, si potrebbe dire
che STAR è dotata di una super macchina fotografica
e un super microscopio al contempo,
capaci di realizzare immagini 3D ad altissima
risoluzione di oggetti che spaziano da sistemi
biologici o medici, a reperti di beni culturali
o a materiali avanzati per le ingegnerie e le
nanotecnologie e tutto questo in maniera non
invasiva o distruttiva, mostrando, per esempio,
risultati eccellenti e del tutto senza precedenti
utilizzando la tecnica della tomografia
a contrasto di fase. STAR è un’Infrastruttura
di ricerca di carattere multidisciplinare.
Accanto alla sorgente di raggi X sono nati 6
laboratori per l’erogazione di servizi di ricerca.
I campi di interesse vanno dalle scienze (Fisica,
Chimica, Biologia, …) all’Ingegneria (meccanica,
36 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
37
telecomunicazioni, informatica, elettronica, …).
Si vuole offrire agli utenti provenienti da altri
enti di ricerca o dalle imprese, la possibilità
di affrontare problemi complessi, quelli che
tipicamente richiedono un approccio esteso
a più materie o campi di studio.
Il professor Agostino si occupa anche di
materiali porosi per la cattura e l’immagazzinamento
di gas quali metano, carbonio e
in particolare idrogeno.
Alla nostra domanda su come funzionano
e su che impatto avrebbe lo sviluppo di tale
tecnologia sull’ambiente ha risposto:
La conversione verde, quella che stiamo
affrontando come Europa, ha bisogno di avere
laboratori che conoscono gli effetti dell’idrogeno
sui materiali. Questo processo di trasformazione
tecnologica è ancora non concluso,
ma l’obiettivo di utilizzare un combustibile
che ha come risultato l’emissione di acqua è
sicuramente qualcosa che potrebbe risolvere
una serie di problemi di inquinamento nelle
grandi città e centri industriali. Non pensiamo
all’idrogeno solo sulle automobili, il grosso
del consumo energetico non è quello del
trasporto: il grosso delle emissioni di gas
serra viene da processi industriali. Questo è
qualcosa che presuppone una serie di studi
sulla fisica dell’interazione delle molecole
dei materiali che è la fisica di base e che è
quella che lo ha sempre appassionato. Si
tratta di avere capacità tecnologica e guardare
come questa possa essere trasferita sul
territorio che abbiamo intorno. Su questo argomento,
un grande player nazionale, un’industria
nazionale che si chiama RINA (Registro
Italiano Navale, Centro Sviluppo Materiali),
una società per azioni multinazionale con
sede principale in Italia, ha realizzato insieme
all’UNICAL un laboratorio per la validazione
dei materiali per l’idrogeno.
Se questa cosa cresce ci saranno giovani ricercatori
che potranno restare a fare il proprio
mestiere in Calabria, e se ci sarà un indotto
sarà naturalmente locale. Tutto questo senza
però chiudersi a localismo e all’autarchia;
insomma, guardare a traguardi più ampi, non
fermarsi al fatto che se non c’è la siderurgia
in Calabria non bisogna occuparsi della sua
conversione green.
#Area Heisenberg
#Area Heisenberg
38
#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 39
Scritto da Filippo Dodero
#Area Heisenberg
5G, radiazioni e
reazioni sull’uomo
#Area Heisenberg
Le radiazioni elettromagnetiche sono sempre intorno a noi, ma non sono tutte uguali. Potremmo dire
che ci sono tante radiazioni e altrettanti quesiti: che differenza c’è fra le radiazioni? Quali sono i
rischi per la salute dell’uomo? È vero ciò che si dice sulla nuova connessione dati 5G? Quanto c’è di
scientificamente provato?
Radiazione. Per chiunque mastichi un po’ di
vocabolario scientifico, questo è un normale e
innocuo termine d’uso. Allargando però il suo
raggio a quella che è la maggioranza delle
persone, ci si rende conto dello scetticismo
che incute nella mentalità di molti: solo a
sentirlo pronunciare la mente va subito ai
disastri nucleari di Chernobyl e della bomba
atomica di Hiroshima, sfociando a volte persino
in errate credenze popolari o addirittura logiche
complottistiche.
Risulta perciò importante fare una distinzione
per comprendere questa diversità di punti
di vista. Partiamo proprio dalla definizione di
radiazione:
Fenomeno di emissione e propagazione di
energia secondo raggi che costituiscono il
percorso di corpuscoli o la direzione di onde.
In particolare:
R. radioattive, radiazioni ionizzanti emesse da
nuclei atomici quando subiscono trasformazioni
strutturali, spontanee o provocate da reazioni
nucleari.
Radiazioni sono quindi quei fenomeni, del
tutto comuni all’esperienza umana come lo
è la semplice luce, tra cui sono comprese
anche le radiazioni radioattive (dette anche
ionizzanti), altamente pericolose per gli organismi
biologici e che possono generare danni
sia somatici che a livello genetico.
Il mondo in cui viviamo è da sempre costituito
dall’unione di materia e radiazione. Se oggi
potessimo vedere tutte le onde elettromagnetiche
intorno a noi, ci renderemmo conto che
tra radio, televisioni, satelliti e via dicendo, ci
troviamo immersi in un enorme campo di
radiazioni, capaci o meno di interagire con la
materia. La domanda che sorge spontanea è
se tali interazioni possano causare danni biologici
e se ciò dipende principalmente dall’energia
trasportata o anche dalla durata del
tempo di esposizione.
Nel 2019 è iniziata la distribuzione globale
della rete a consumo dati di quinta generazione
per la telefonia mobile: in breve, il
tanto discusso 5G. Si narra di uccelli morti
nelle regioni di installazione delle antenne,
aumento dei casi di autismo, addirittura di un
legame con il coronavirus e di un Bill Gates
malvagio che mira allo sterminio di massa.
Ma quanto c’è di vero in tutto ciò? Anche in
questo caso la cattiva informazione ha facilmente
prevalso su quella scientifica (e corretta)
ma per smentirla basta semplicemente informarsi
sulle bande di frequenza utilizzate per
controllare se corrispondono a quel range
nocivo di radiazioni ionizzanti. La rete 5G è
suddivisa in tre bande di frequenza al variare
dell’area di copertura: bassa da 694 e 790
MHz, media da 2,5-3,7 GHz e alta da 25-39
GHz. Da un semplice confronto con lo spettro
elettromagnetico si nota immediatamente
che siamo nell’intervallo delle onde radio:
nulla di particolarmente allarmante quindi,
considerando che radio, televisioni ma anche
le reti wireless funzionano con lo stesso tipo
di radiazioni. Queste non presentano un’energia
sufficiente da modificare direttamente
gli elementi che costituiscono gli
esseri viventi.
Sia chiaro a questo punto che chi diffonde
notizie contro l’uso del 5G tramite Internet
sta già peccando di mancanza di coerenza.
Va precisato, però, che esiste effettivamente un
fenomeno definito ‘elettrosmog’ riguardante
l’indagine dei danni dovuti a tipi di radiazione
non ionizzante, che sono stati dimostrati
in condizioni di forte intensità; anche se,
escludendo gli incidenti sul lavoro, per ora
nessuno è mai stato sottoposto ad emissioni
così elevate. Questi studi per ora non
hanno portato a risultati così chiari ed evidenti,
per cui si è scelta una strada precauzionale
e nel febbraio 2000 l’ORNI (Organizzazione
sulla protezione da Radiazioni Non Ionizzanti)
40 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo
41
#Area Heisenberg
ha imposto dei limiti massimi per l’esposizione
a breve termine delle persone, rivolgendosi
con tale legge principalmente ai
grandi impianti elettrici. In casi limite come
questi ultimi, gli effetti causati sono, per le
radiazioni a più bassa frequenza, disfunzioni
a livello delle cellule nervose o muscolari e
in rari casi – anche se non c’è una certezza
– rischio di leucemia infantile, mentre per le
alte frequenze gli effetti sono principalmente
di tipo termico, associati quindi all’aumento
della temperatura corporea. Per fare un esempio
concreto, una chiamata di diversi minuti
al cellulare va a influenzare la temperatura
dei tessuti ma solo nella zona della testa
intorno all’orecchio e solo di qualche frazione
di grado. In pratica, ci si riscalda molto di più
prendendo il sole al mare.
Insomma, il progresso tecnologico ci ha messo
a disposizione sempre più mezzi e strumenti
in vari ambiti e a vari livelli, soprattutto a livello
medico, aziendale e di ricerca, ma questo
vuol dire sottoporre la società a un numero
di radiazioni sempre maggiore che, se non
controllato, potrebbe avere conseguenze
spiacevoli sul lungo termine. Nonostante ciò,
come si è visto, esistono studi anche nel senso
opposto ed è a quelli che bisogna fare riferimento
quando si parla di danni alla salute
dell’uomo, senza credere a tutto ciò che si
legge in giro che non si basi su evidenza di
tipo scientifico, perciò logisticamente non
attendibile.
C’è quindi da prestare attenzione alle radiazioni,
giusto, ma anche alle reazioni.
Fonti:
AA.VV., L’elettrosmog nell’ambiente, Ufficio federale dell’ambiente UFAM, 2005, p. 56
Diana Restrepo, Salud mental de los cardiólogos intervencionistas: Estrés ocupacional y
consecuencias mentales de la exposición a radiación ionizanteMental health of interventionist
cardiologists: Occupational stress and consequences of exposure to ionising radiation, «Revista
Colombiana de Cardiología», 2020
#Area Heisenberg
Theodore S. Rappaport, Robert W. Heath, Jr., Robert C. Daniels e James N. Murdock, Millimeter
Wave Wireless Communications, Prentice Hall, 2014
42
5G, radiazioni e reazioni sull’uomo
Una reazione ci salverà
43
Scritto da Alessandro Rossi
#Area Heisenberg
UNA REAZIONE
CI SALVERÀ
Per chi è nato e cresciuto in una società consapevole, anche se sorda, dell’emergenza ambientale e
climatica, immaginare il futuro ha sempre corrisposto a immaginare una società sostenibile, pulita,
armonica. Il futuro presuppone ormai la necessità di cambiare paradigma energetico: meno consumi,
emissioni e sprechi, più energie rinnovabili, recupero dei rifiuti, maggiore efficienza. Recentemente
anche le classi politiche sembrano essersene accorte, e in tutto il mondo si cercano soluzioni. Ma la
società globale ha bisogno di una reazione decisa per raggiungere l’obiettivo… e forse la reazione è
stata trovata!
#Area Heisenberg
Lentamente, negli ultimi anni, i popoli e la
politica si stanno accorgendo di quanto sia
urgente cambiare modello energetico, e in
tutto il mondo si assiste a un’accelerazione
nella produzione di energie rinnovabili. Ma
cos’è precisamente l’energia rinnovabile?
Possiamo davvero sperare di soddisfare il
nostro bisogno energetico solo grazie ad essa?
Innanzitutto, le fonti di energia dette ‘rinnovabili’
sono tutte quelle che possono, appunto,
rinnovarsi all’interno della scala temporale
umana, essendo pressoché inesauribili.
Energie a basso impatto ambientale e
senza rischi per la salute umana e l’ecosistema.
Purtroppo, però, possono non essere
abbastanza.
Le più importanti energie rinnovabili (eolica,
idroelettrica, solare) coprono in Europa soltanto
il 10% circa del fabbisogno energetico comunitario.
Per ambire all’indipendenza dalle fonti
non rinnovabili e inquinanti come i combustibili
fossili e nucleari dovremmo decuplicarne
la produzione. È un’impresa titanica, soprattutto
se si pensa al fatto che l’Europa è uno
dei continenti più all’avanguardia dal punto di
vista della sostenibilità energetica, con eccellenze
sparse in tutto il Continente [1][2] .
L’intenzione non è quella di sminuire la necessità
e l’utilità delle fonti rinnovabili che sono
anzi fondamentali. Hanno solo bisogno di
una piccola mano, così piccola da risiedere
appunto nel più piccolo elemento presente
in Natura: l’idrogeno.
L’idrogeno (H2) ha attirato l’attenzione, ormai da
qualche decennio, per via della sua enorme
disponibilità (è l’elemento più presente nell’Universo)
e per la sua grande potenzialità come
vettore energetico. È usato questo termine,
invece del più comune fonte di energia,
perché in effetti non è l’idrogeno in sé e per
sé a produrre energia, ma le reazioni esotermiche
che può generare. In altre parole,
‘bruciare’ idrogeno dà energia proprio come
la combustione di carburanti come il petrolio.
Il dispositivo abile a far reagire l’idrogeno
e a convertirlo in energia è chiamato
cella a combustibile al cui interno avviene
una semplicissima ossidoriduzione – come
quelle che si studiano al liceo – rappresentabile
attraverso due reazioni parziali:
• Ossidazione dell’idrogeno all’anodo:
H2→2H++2e-
• Riduzione dell’ossigeno al catodo:
½O2+2H++2e-→2H2O
Il guadagno di energia detta ‘libera’ a seguito
di queste reazioni sarebbe pari a circa 237 kJ/
mol (kiloJoule per moli d’acqua prodotta) che,
se convertito in voltaggio, equivale a circa 1.23
44 Una reazione ci salverà
Una reazione ci salverà
45
#Area Heisenberg
Cella a combustibile ‘PEM’
V. Se questi numeri suonano un po’ oscuri,
si può ragionare in termini di calore emesso
durante la reazione: l’idrogeno emetterebbe
tre volte più calore del petrolio [3] . In più, la
produzione sarebbe totalmente non inquinante
in quanto, come si vede dalle reazioni in
alto, l’unico prodotto sarebbe della semplice
acqua pura (H2O). Un altro punto a favore
delle celle a combustibile rispetto ai tradizionali
motori a scoppio alimentati da combustibili
fossili consisterebbe nell’efficienza: la
cella a combustibile è un motore elettrico e,
in quanto tale, non incorrerebbe nelle limitazioni
imposte dal Ciclo di Carnot come nel
caso dei motori termici come quello a scoppio,
il cui rendimento è limitato dalle temperature
in ingresso e in uscita. Questo porterebbe
le celle a combustibile a rendimenti al
di sopra del 50% e, in alcuni casi, fino all’80%
mentre i motori a benzina e diesel si attestano
più o meno tra il 30 e il 40% (per le temperature
a cui operano).
Pila - Motore a scoppio. Fonte: Treccani.it
I condizionali appena usati sono però d’obbligo
in quanto l’idrogeno è un combustibile
difficile da trattare in tutte le fasi della produzione
energetica, come la sintesi dell’idrogeno
stesso, il suo immagazzinamento (storage), il
trasporto e infine la reazione chimica capace
di produrre energia (in copertina) per realizzare
ciò che viene chiamato comunemente
ciclo dell’idrogeno. Da almeno tre decadi la
comunità scientifica si sforza quotidianamente
di ottimizzare ogni passo del ciclo, riunendo
competenze che vanno dalla chimica pura
all’ingegneria energetica, dalla scienza dei
materiali agli impianti elettrici industriali.
Efficienza voltaggio. Fonte: Treccani.it
La reazione stessa infatti trova nella riduzione
dell’ossigeno una sorta di barriera da
superare piuttosto significativa, chiamata in
gergo barriera di potenziale, che ne limita
il rate (tasso di reazione). Questa proprietà
purtroppo ne abbassa le reali prestazioni,
arrivando a generare voltaggi tra lo 0.6 e 0.9
V o anche minori in caso di correnti elettriche
più elevate. Per mitigare il problema, il
catodo conduttivo nella cella va arricchito
con catalizzatori che ne aumentino la reattività
(abbassino insomma la barriera di potenziale)
e quindi le prestazioni. I metalli nobili
come il platino, ad esempio, hanno un’ottima
efficacia in tal senso, ma sono così costosi da
costringere gli addetti ai lavori a grandi sforzi
per ridurre al minimo gli sprechi (economici
e ambientali).
Anche l’utilizzo dell’idrogeno, elemento principale
coinvolto nel ciclo, non è privo di
inconvenienti. Come poter convogliare, immagazzinare
e trasportare infatti l’elemento più
leggero e reattivo dell’Universo?
È così poco denso che un serbatoio di idrogeno
pressurizzato ha una capacità energetica
di circa sette volte minore di un serbatoio
di pari volume pieno di benzina! Questa
sua caratteristica tuttavia non è eccessivamente
limitante in particolari applicazioni di
‘grandi dimensioni’, come i grandi impianti industriali
o i motori di un aereo, mentre potrebbe
essere assolutamente sconveniente applicare
un serbatoio di idrogeno in un’autovettura di
modeste dimensioni. Infine, altri problemi di
infiammabilità e cattura vanno tenuti in considerazione
tramite l’uso di materiali porosi ed
ignifughi.
Soprattutto, però, sta creando grossi problemi
la sintesi dell’idrogeno in maniera sostenibile.
L’obiettivo comune è quello di isolare l’idrogeno
dall’acqua (per completare così il ciclo,
essendo l’acqua anche il prodotto finale) in
una reazione chiamata elettrolisi utilizzando
energia rinnovabile, come l’eolica o la solare.
L’idrogeno prodotto in questa maniera è chiamato
idrogeno verde ed è l’obiettivo numero
uno nelle agende politiche di tutti i Paesi avanzati,
tanto da essere citato anche dal nostro
Fonti:
nuovo Ministro alla Transizione Ecologica
Roberto Cingolani nel suo primo discorso alle
Camere [4] . L’idrogeno verde corrisponde per
ora solo al 2% di quello prodotto, che viene
per il resto principalmente ottenuto tramite
sintesi dai combustibili fossili: idrogeno grigio
o blu. Ovviamente, questi altri ‘colori’ dell’idrogeno
hanno un impatto ambientale significativo
che non può essere sostenuto.
L’ultimo passo da compiere è proprio questo:
implementare fonti di energia rinnovabile
combinandole con la produzione di idrogeno
per ottenere finalmente un ciclo globale di
produzione energetica totalmente pulito,
sostenibile e praticamente inesauribile; obiettivo
sempre più vicino grazie alla drastica
riduzione dei costi di produzione delle energie
rinnovabili [5] .
Nonostante i problemi elencati, la ricerca
scientifica ci ha portati ad un passo dall’obiettivo.
Di fronte all’epocale problema
ambientale, siamo riusciti a reagire e trovare
quella che sembra una via d’uscita. La nostra
salute, il nostro stile di vita e tutto il pianeta
possono essere salvati. Raccolta differenziata
dopo raccolta differenziata, pannello fotovoltaico
dopo pannello fotovoltaico, reazione
dopo reazione.
[1] Fuel cells and Hydrogen Joint Undertaking
[2] Anmar Frangoul, Orsted to link a huge offshore wind farm to ‘renewable’ hydrogen production,
CNBC, 1/04/2021
[3] World Nuclear Association
[4] Cingolani l’ambiguo, tra idrogeno verde e fusione nucleare, «Il manifesto», 17-03-2021
[5] I ‘colori’ dell’idrogeno nella transizione energetica, EAI ENEA 2/2020
[6] The Future of Hydrogen – seizing today’s opportunities, Report by the IEA
#Area Heisenberg
46 Una reazione ci salverà
Una reazione ci salverà
47
Scritto da Salvatore Bruno
Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone
Quando ‘canzone’ fa
rima con ‘reazione’
#Bootleg è l’angolo di Palin Magazine dedicato alla musica. Arricchito di mese in mese da tematiche,
artisti e storie e collegato a una playlist, è lo specchio musicale del magazine. Perché sì, anche la musica
è cultura e possiede un linguaggio universale, di cui Palin non ha potuto fare a meno
Fine anni Sessanta, Italia.
Anche il Bel Paese conosce il clima delle
contestazioni studentesche e operaie, la
rivoluzione sessuale, nonché la ‘madre di
tutte le stragi’: la strage di Piazza Fontana,
evento che diede inizio a quelli che sarebbero
passati alla Storia come gli ‘anni di piombo’,
anni di estremismo violento. Nel frattempo,
sullo sfondo mondiale avvenivano altri eventi
epocali come la morte del presidente Kennedy
e l’assassinio di Martin Luther King in America,
la «primavera di Praga», lo sbarco sulla Luna
e la guerra in Vietnam.
È stato un periodo carico di tensione, al di là
degli avvenimenti politici e non, che conosciamo,
e fare televisione era diventato dequalificante.
Mi nauseava un po’ una certa formula, mi
stavano strette le sue limitazioni di censura,
di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi,
d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto
successo, ma ora a questo successo vorrei
porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività
teatrale riacquistasse un senso alla luce del
mio rifiuto di un certo narcisismo.
È con queste parole che, nel 1993, Giorgio
Gaber racconta in un’intervista la nascita
del teatro canzone, genere innovativo e di
fusione tra la musica e il teatro, al quale dà
vita insieme all’amico pittore e paroliere
Sandro Luporini.
Il signor G non è (più) un cantante né uno
dello spettacolo, bensì un uomo comune,
diviso tra dubbi e contraddizioni come qualsiasi
suo altro simile, oltre a essere il titolo
dell’omonimo album del 1970 del rinnovato
Giorgio Gaber.
Ciò che caratterizza le nuove vesti e la nuova
poetica dell’artista milanese è un linguaggio
schietto e privo di retorica, specchio di un’anima
anarchica e stretta nelle convenzioni
sociali; un personaggio nel mirino del quale
ci sono l’ipocrisia, il moralismo intellettuale,
Gaber e Luporini preparano il debutto de Il Grigio nel 1988. Foto di Enrica Scalfari.
Dall’account Facebook della Fondazione Giorgio Gaber.
le ideologie precostituite, il conformismo di massificazione che tramuta l’uomo in automa
facciata e le istituzioni spesso stantìe, in un’eco e mero consumatore. Quelle del signor G non
continua tra ‘personale’ e ‘politico’ in una possono quindi che essere canzoni volutamente
provocatorie e senza filtri, che vanno
ricerca dell’individuo a scapito dell’uomo
come ‘soggetto politico’. Il signor G si fa, consapevolmente
e inconsapevolmente, spectenimento
da pochi minuti. La si potrebbe
oltre il concetto stesso di ‘canzone’ di intratchio
e modello generazionale che inse-
scambiare per ironia o satira – e di fatto lo è
gue una libertà estrema, fuori dal consumismo
e dalle logiche, dai meccanismi della
– ma è anche una fortissima volontà di sfuggire
alla banalità e all’alienazione dettata
48 Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’
Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 49
#Bootleg
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exped eos eius, sum quianim agnihit optis
suntist, velicietur sumquatae nullibercil min
esti rempore rchitis et perae ped quia illessedit
ommodit maior mintia ni que pratecatem
di beaquiat unt dignatemquo quat pore
si sunt, volendio. Solorro estibus.
Ed erum rehendelicid mosapedist, ut landes
dolupic ipsant mi, ipsa aciandi tiusciet qui
reriberrum et alit es quisqui optaerio te pos
suntionsed est, ut pelit vende doluptium aut
volor asinctemodit quos atecerio commo
erferiae nati disquaes pro odis idelecusamet
rem ut apiscie ndaernatem ius et volorem
volut optios eate omniene cus sam aut
volles earume asperum venis eturemqui omni
comnist unt, ant alia nosto del elisitium untiatquia
vent auta denim con re dolesendam,
comnime dese volum sitatat endit et omni
utatemporia qui non repra simaximin nosa con
repudae reperum que re quam, comnihil molut
audi dolent volorpore ipsant labore sitint, od
et abo. Sectur aut imin num in parum quatet
aut reicte odit et volupturia aut am reruntus,
sinti con con num re, cus re plandicia volores
tiaeresequis dunt in essimos solore, volut
aut et quunt.
Ciis dollupt iorehent. Imet dipisto tatur?
Facest reperupta inullique voluptas sum, tet
omni dem fugiam repta periasincto idem dolliquam
iunt am faci corum nosam, quidebit
pliquo tem quo officiis eictiation pa as mos ant
ut volore volore perum ium duciis etur reicti
nis evel eaquateculpa perions equatis quatquunt
dolupta quosapisit omnis doluptur, venis
ex earupti num faccus volenimust, unt essum
aut et dolupit accuptas ium est ut ventotas
dolum quas essitatur aliatque duci acit, od
magnis renda quaturio. Ut voluptatusae vid
qui odigenim qui at omnitatur maxime volenis
mi, nonsequae. Bus deri incturit lab inimi,
conet officiet quatur reperor ehendae pratione
eatis utemper umquatu santia cum que ne
et eveliquid ulliquides dolupta in rem fugia
nonsequamus, soluptam doluptae et iustis
ressima qui recepellabo. Et int et doluptatur
si dolore dolo beatibusamus quibus, accuptu
mquatem quatem. Pudaesc iligend aerferum
eium faceaquia eatesciis millic temporibus.
Gentibus, quatio dolupta que voluptatum
volorpo remporia nobitatios ullabor iandam
alia sequae nobit officipsa con cusapientem
vera dolupta tiatur milis conseque et plit
audantotat lique veliquo molorep eriam, cupiet
volore natqui des derae eatem quaspidenim
accum aut est, que nit, officima dolupta tiorporunti
volut quo omnim facculpa sim doluptate
quo volupie niendam hit es pos voluptia
ni berspie ntiassum non con netusapero
ommod molorro cor aut porest re sum quate
nis nosant, ut mod quam quunt aut harchil
liquisq uatent aliquis essunt.
Laborporepe liquae plicid ut aut eaquis doluptatem
aliquiam cus arciam sequaes susdantis
core cuscia de pedi dolesti bla poriae comniae
stiscipsandi delignam a nullam essi sendaer
itiscium que experum quiatis etur?
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seni aut aut enimillaut quis maxim que optat
et liqui dolorum alitate mporeprovid quid ut
volupta volori doleste porit venempeles et
adisquam, asperent omnis aut impores net
andam quisciassit modit, abor aborrupta sunt
doluptatus et qui alibus dolor accum fugitaspero
corporitatia nossi senitibusam commoste
perrum et min nestiistrum aditae plam ra
sum acea dunt.
#Bootleg
50 Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’
Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 51
dall’omologazione: così lo spettacolo a metà
tra monologo e cantato diventa momento
di riflessione autentica sui propri umani
dubbi e sulle proprie perplessità, oltre che
riflessione pura sul mondo contemporaneo.
Linguaggio, musica e teatro si fondono e
diventano sfogo di disillusione, utopia e disincanto
ma anche voglia di scrollarsi di dosso
alcune speranze e talune certezze per indossarne
altre.
In un periodo come gli anni Settanta, e più
in generale nella storia della musica italiana,
Giorgio Gaber è sempre inequivocabilmente
la voce fuori contesto e priva di filtri che
sfugge a ogni genere di etichetta. Non è un
caso che per moltissimi, artisti e non, il signor
G sia un mito artistico di riferimento e i suoi
testi ancora di profonda attualità.
Siamo onesti: quante volte oggi ci capita di
uscire da una sala concerto e da un teatro
consapevoli di aver ricevuto una lezione catartica
per noi stessi?
Sembra che, per rispondere a questa domanda,
basti dare un’occhiata – e un ascolto – a
qualche nuova leva della canzone italiana
contemporanea. A partire dall’ormai noto
Willie Peyote, rapper torinese sempre vicino alla
critica sociale e con il gusto della provocazione,
ispirato proprio dall’insegnamento di Gaber.
In Metti che domani, brano del suo penultimo
disco Sindrome di Tôret, cita proprio il
suo maestro:
Libertà è partecipazione
Ma anche il maestro vedesse in che situazione
siamo adesso cambierebbe posizione.
In un’intervista al «Corriere» di qualche anno
fa il rapper dice:
Se tutti parlano tanto per dire la loro non è vera
partecipazione. Di Gaber condivido l’approccio
non giudicante. Solo su un tema prendo posizione
diretta: l’antifascismo è la linea di confine.
Ancora oggi, il rapper non ha perso il gusto
per l’anticonformismo privo di compromessi.
Gaber per me è stato un maestro, e soprattutto
perché mi sembra molto attuale. Attuale nelle
tematiche e attuale nei sentimenti, e forse tutti
noi abbiamo bisogno di vivere certi sentimenti
e certe emozioni nella musica italiana. Io vivo
Gaber come un nonno, quindi mi piace pensare
a questa figura così familiare e mitica e avercela
intorno a me ogni tanto, quando scrivo una
canzone.
Così racconta invece Cimini, giovanissimo
cantautore della scuderia Garrincha, esibitosi
al Piccolo Teatro di Milano in occasione
dell’ultima edizione dell’evento Omaggio a G
– Io ci sono, sei serate dedicate a Gaber per
la manifestazione Milano per Gaber conclusasi
il 23 marzo scorso. Sul palco, ad alternarsi
con altri giovani artisti del panorama italiano
anche N.A.I.P., all’anagrafe Michelangelo Mercuri,
l’eclettico polistrumentista divenuto famoso
nell’ultima edizione di X-Factor, che dell’artista
maneghino dice:
A me Gaber ha insegnato tanto, mi ha illuminato
tantissimi punti bui della comprensione mia e
della società, e nonostante siano passati gli anni
è uno di quei casi in cui le sue parole valgono
sempre. A chi vuole fare luce consiglio Gaber
perché lui ha fatto fare a me luce.
Lo scorso gennaio, ospite di Far finta di essere
sani, format digitale per una serie di incontri
virtuali con artisti contemporanei, N.A.I.P. si
era già espresso su Gaber attraverso il brano
I borghesi:
Ho scelto questo brano perché lo trovo più che
mai attuale; si parla dell’ imborghesimento
e delle classi sociali, molto definite negli
anni ’60 e ’70 ma che, a mio parere, sono
riemerse nuovamente durante la pandemia che
stiamo attraversando. Ascoltando il brano mi
sono inoltre reso conto di alcune somiglianze
linguistiche col racconto che faccio io nelle
mie canzoni. Ascoltare Gaber per i giovani di
oggi può voler dire trovare un secondo padre.
Bene, alla domanda di prima non si può quindi
che rispondere con autentico ottimismo: nonostante
la società e il periodo in cui viviamo, è
ancora possibile ascoltare musica e imparare.
Imparare su di noi e magari reagire alla
contemporaneità, ponendoci vecchie e nuove
domande. Anche negli anni Venti del Nuovo
Millennio.
Giorgio Gaber, intanto, continua a fare da maestro.
#Bootleg
Link e video consigliati:
Milano per Gaber, giovani artisti sul palco per l’evento «Omaggio a G-Io ci sono», in «Corriere»,
19/03/2021
Far finta di essere sani, il nuovo format di Fondazione Gaber: ospite di questa puntata
N.A.I.P. artista rivelazione di X-Factor che sceglie e commenta “I Borghesi” del Signor G, in
«Spettacolinews», 15/01/2021
Milano per Gaber 2019 - incontro con Willie Peyote
Far Finta Di Essere Sani ...con N.A.I.P., “I borghesi”
Bibliografia:
Manfredi, Roberto, Skan-zo-na-ta. La canzone umoristica e satirica italiana da Petrolini a
Caparezza, Prefazione di Alberto Tonti, Skira, 2016
Foto nella pagina precedente proveniente dall’account Facebook ufficiale della Fondazione
Giorgio Gaber
#Bootleg
Cimini sul palco del Piccolo Teatro di Milano.
Dal profilo Instagram ufficiale @ancoramegliocimini
52
Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’
Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 53
Illustrazione di Claudia Corso, @aetnensis
Palin incontra anche Warhol.
Con lui Palin scopre nuovi linguaggi
dell’arte, imparando che le astrazioni
sono veicoli potenti per invadere lo spazio
percettivo.
Quest’area tratta quindi di Arte, in tutte
le sue forme e declinazioni, al di là di
ogni possibile categorizzazione, al fine
di indagare il mondo artistico in ogni
sua forma: scultura, pittorica, musicale,
teatrale e così via.
Tutte le cose sono nell’aria, conta solo chi le realizza
Andy Warhol
Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Illustrazioni di: Andrea Innocenti,
@monsayk_art
Scritto da Martina Trocano
#Area Warhol
56
“Sarebbe fantastico se altre persone si mettessero a fare serigrafie in modo che nessuno
possa sapere se un’opera è mia o di qualcun altro”
Andy Warhol personaggio eccentrico, controverso
in grado di scuotere e rivoluzionare
totalmente il mondodell’arte.
Siamo nel 1962 e Warhol dipinge trentadue
quadri rappresentanti lattine di zuppa
Campbell, sostenendo che il cibo in scatola
costituiva un degno soggetto artistico per
una generazione ossessionata dal business.
Con le lattine di zuppa si attuò la trasformazione
dell’arte in bene di consumo. Nello
stesso anno, basandosi su fotografie realizzate
in studio a scopo pubblicitario, inizia a
realizzare serigrafie di personaggi celebri:
Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Elvis Presley
e Jackie Kennedy. Si concentra, in seguito,
sulla rappresentazione di tragedie realmente
avvenute: Five Deaths, ad esempio, mostra
degli adolescenti in abiti da festa vittime di
un incidente d’auto; Suicide- Fallen body,
l’opera più famosa della serie, dalla foto di
cronaca di Robert C. Wiles, rappresenta una
Andy
Warhol
modella gettatasi dall’Empire State Building
e finita sul tettuccio di una limousine, per
l’espressione serena del volto e la compostezza
dal corpo, nonostante il volo dall’86°
piano dell’edificio la fotografia è stata rinominata
“The most beautiful suicide”.
Dopo aver raggiunto la celebrità Warhol torna
alla realizzazione di stampe che avevano
per oggetto beni di consumo: la Coca-Cola,
Brillo Box, altre latine di zuppa Campbell. Il
suo studio, nel frattempo, prendeva il nome
di “The Factory” di fatto sottintendendo che
l’arte poteva essere prodotta con tecniche
industriali, in catena di montaggio, proprio
come i beni di consumo frutto della società
capitalista che rappresentava, assunse degli
assistenti per trasformare le foto in serigrafie,
in seguito commissionò il lavoro a stamperie
esterne. Andy Warhol deve il suo posto
nella storia dell’arte al fatto di aver scardinato
l’autorialità delle opre d’arte e all’utilizzo
di mezzi di produzione di massa.
#Ritratti: Andy Warhol
LA ROSA REAZIONARIA:
Gulabi Gang
e Nishtha Jain
Cosa accade dall’altra parte del pianeta? In India le donne stanche di un sistema corrotto da decenni,
si ribellano utilizzando come simbolo il colore rosa, Nishtha Jain narra splendidamente la storia della
Gulabi Gang attraverso lo strumento cinematografico.
Fra i luoghi comuni più infantili, emerge che
il rosa viene identificato come il colore delle
‘femminucce’. Questo non è certamente
quello che pensano le attiviste della Gulabi
Gang (gulabi infatti significa rosa) un gruppo
di donne militanti che opera in tutto il territorio
dell’India settentrionale, proponendosi
come scopo la difesa delle donne vittime di
soprusi e ingiustizie. Una delle loro caratteristiche
è difatti quella di indossare l’abito
tradizionale, il sari, proprio di colore rosa; un
abito che ha una origine molto antica, risalente
al VI secolo a.C.
Come si legge nell’articolo de «La Stampa»
del 27 febbraio 2008, la Gulabi Gang «è considerata
una delle gang più agguerrite e temute
dell’India settentrionale: rapida e feroce, si
sposta tra i villaggi e le campagne brandendo
coltellacci e bastoni, e togliendo il sonno a
ufficiali di polizia e proprietari terrieri. Urla,
minacce, pugni, impiegati terrorizzati, caserme
assaltate».
Tuttavia non nasce come movimento violento:
usano come primo strumento l’indagine e il
dialogo, e solo se l’individuo utilizza la violenza
rispondono a loro volta con la stessa. Accade
spesso, infatti, che vengano attaccate e che
per difendersi rispondano con il laathis, il
ramo di bambù divenuto simbolo di questa
battaglia.
In media, nel subcontinente indiano vengono
commesse 92 violenze ogni ventiquattr’ore,
ma gli esperti ritengono che molte di esse non
vengano neanche segnalate. La reazione che
si è avuta dinanzi a un sistema fortemente
patriarcale è stato l’attivismo politico della
Gulabi Gang mostrato nell’omonimo film di
Nishtha Jain del 2012.
In quali termini, quindi, si pone il cinema d’autore?
Qual è la sua reazione all’imponente
violenza patriarcale?
Jain, classe 1965, è una regista indiana di fama
internazionale e la sua reazione artistica si è
occupata di indagare proprio quell’attivismo
‘rosa’ in uno splendido documentario disponibile
sulla piattaforma Cinema Politica. Il
film si interroga su esperienze riguardanti
violenza di genere, caste e classi sociali, ed
esplora il politico nel personale scoprendo i
La rosa reazionaria: Gulabi Gang e Nishita Jain 57
diversa e con un maggiore impatto se la si
mette a confronto con il cinema di registi
come Paolo Sorrentino.
Il lungometraggio è un ottimo esempio di
inchiesta cinematografica che, attraverso
una serrata analisi, mette a fuoco problemi
e aspetti della condizione femminile in India,
quali lo sfruttamento fisico e ideologico a cui
il patriarcato ancestrale sottopone la donna.
l’uso dell’arte cinematografica?
Al di fuori delle porte del mondo occidentale
vi sono delle realtà che non stenteremmo a
definire primitive, con una forte accezione
negativa. Il ruolo del cinema – e dell’arte in
generale – è quello di reagire mostrando
e registrando, al fine di creare un discorso
critico sulle realtà circostanti, e infine gettare
un seme per il cambiamento.
#Area Warhol
L’occhio della regista si configura come reazione
a un determinato sistema immobile da anni. Come
reagire se non direttamente denunciando con
Questo è il ruolo delle forme d’arte degne di
questo nome.
Fonti:
Ramesh Prasad Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India: A Study of Kalinga from Earliest Times
to Sixteenth Century Ad, Publishing Corporation, 1992, p. 35
Geraldina Colotti, Violenza di genere, impotenza del patriarcato, «Il Manifesto», 25 novembre 2014
All’India la maglia nera di peggior paese al mondo per le violenze sulle donne, «Il Messaggero»,
24/12/2019
Bernie Mak, Cinema Politica Screening Review : The Gulabi Gang, «Graphite Publications»,
29/01/2015
Nandini Krishnan, Nishtha Jain on documenting the Pink Sari Revolution, sify.com, 14/02/2014
#Area Warhol
sistemi della classe privilegiata.
Spesso, quando si parla di documentario, si
pensa a qualcosa di didascalico, a un personaggio
affascinante come Alberto Angela
che presenta e spiega la realtà. Lo sguardo
di Jain invece nella regia quasi scompare,
diviene trasparente e persino antropologico:
il suo occhio scruta, provoca e condanna un
sistema innegabilmente corrotto da decenni.
Il film si apre con campi lunghi e la fotografia
è attenta e studiata come il suo bilanciamento
di colori, ma non si distoglie mai
dalla realtà e non teme di mostrare immagini
forti come il corpo carbonizzato di una
donna vittima di omicidio.
Il gruppo di eroine mostrato nel film ha scisso
l’opinione internazionale tra sostenitori e non.
Tuttavia, in un mondo in cui la corruzione è la
regola e non l’eccezione, appare quasi superfluo
schierarsi a favore di queste donne coraggiose,
nella misura in cui, laddove non arrivi la
mano della giustizia, arriva l’individuo singolo
che, utilizzando l’educazione, il dialogo e la
dialettica, cerca di trovare una soluzione ai
drammi quotidiani.
La reazione della regista è la medesima delle
componenti della Gulabi Gang, un gruppo
di donne stanche di soffrire e soccombere
silenziosamente. La pellicola è tra le prime
indagini cinematografiche sulla condizione
femminile in India analizzata nei suoi
diversi aspetti economici, sociali, psicologici,
di costume.
Il tipo di immagini a cui è abituato il grande
pubblico occidentale appartiene a quella
società definita ‘dei consumi’; un’immagine
capitalistica, fredda, edulcorata e piena di
contraddizioni. I meccanismi del capitalismo
sfruttano i Paesi dove la manodopera
costa meno e uno di questi è proprio l’India.
Le patinate immagini di Marilyn Monroe o
Belen Rodriguez imposte dall’industria culturale
sono molto lontane dalle diapositive
proposte da Jain; quelle di donne impaurite,
maltrattate, in una realtà drammaticamente
58 #Ritratti: Andy Warhol
#Ritratti: Andy Warhol
59
#Area Warhol
La Galleria de’
Foscherari
#Palinvisita la Galleria de’ Foscherari di Bologna attraverso le parole di Francesco Ribuffo.
Francesco Ribuffo dirige, insieme a Bernardo
Bartoli ed Elena Ribuffo, la Galleria d’arte
de’ Foscherari di Bologna, fondata negli
anni Sessanta da Enzo Torricelli al quale si
uniscono in seguito nella direzione Franco
Bartoli e Pasquale Ribuffo. Fin dall’inizio fedele
al proprio programma articolato in due filoni
d’ indagine strettamente connessi: l’attenzione
alla tradizione criticamente consolidata
da un lato e l’interesse per la ricerca
e la sperimentazione dall’altro.
Krizia Di Edoardo ha intervistato Francesco
Ribuffo per Palin Magazine.
In quale contesto nasce la Galleria de’
Foscherari, ed in che modo si afferma in una
scena attiva e vitale come quella degli anni
Sessanta in Italia?
La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni
Sessanta, in un momento in cui erano già
conclamate le espressioni letterarie ed artistiche
prodotte dalla rivisitazione delle avanguardie.
Sono anche gli anni in cui si intravedono
quei fermenti sociali, soprattutto giovanili,
che sarebbero poi esplosi nella seconda
metà del decennio. È dunque nell’ambito
Scritto da Krizia Di Edoardo
dell’affermarsi delle neoavanguardie, che la
de’ Foscherari pone le basi della propria identità
culturale, avviando un intenso programma
di mostre, articolato lungo due direttrici strettamente
connesse. Da un lato la riproposta
della ‘tradizione del nuovo’, cioè una letterale
rivisitazione delle avanguardie storiche
nella loro sostanza criticamente consolidata,
dall’altro l’attenzione alla ricerca sperimentale
che proprio allora manifestava particolare
vivacità e tendeva ad identificarsi con la
neoavanguardia. Il biennio 1967/68 risulterà
particolarmente significativo: vengono allestite
le mostre di otto tra i più significativi artisti
pop italiani (Angeli, Festa, Fioroni, Kounellis,
Pascali, Schifano e Tacchi), poi una importante
esposizione di Domenico Gnoli e una
grande rassegna della Pop newyorkese. Ma
non ci si è limitati ad individuare nella Pop una
delle esperienze più alte della neoavanguardia,
l’interesse è andato oltre con la mostra
dedicata all’Arte Povera curata da Germano
Celant nel febbraio del 1968.
Dalla nascita della Galleria de’ Foscherari
fino al 1989 i cataloghi pubblicati sono stati
la sede di un dibattito teorico sull’arte,
diretto da Pietro Bonfiglioli, che ha ospitato
gli interventi di grandi critici d’arte, quali
Barilli, Arcangeli, Celant e grandi artisti,
quali Pistoletto e Guttuso. Ad oggi il dibattito
critico intorno all’arte contemporanea è
ancora così vivido? In che modo è cambiato?
Fu proprio la mostra ‘Arte Povera’ a indurre
Pietro Bonfiglioli a spingere più a fondo sul
concetto di confronto teorico sull’arte, coinvolgendo
i più prestigiosi e combattivi critici
italiani del tempo. Il dibattito fu ininterrotto,
pur con qualche inevitabile discontinuità, tra il
1965 e l’emblematico 1989. Dopo quella data,
il dibattito critico ha segnato il passo, poiché
si era consolidata l’idea di quella che Francis
Fukuyama aveva definito la ‘fine della storia’,
ovvero il trionfo definitivo ed irreversibile del
connubio democrazia-capitalismo che da lì
in poi avrebbe dominato l’esistenza umana. In
questo orizzonte l’arte non può sfuggire alla
sua oggettivazione come merce ed il denaro
diviene l’unico valore simbolico; in questo
contesto l’esercizio della critica non trova più
spazio ed il mercato diviene il luogo in cui si
negoziano tutti i valori, economici e simbolici.
Forse è presto per dirlo, ma ritengo che
con la pandemia del 2020 si siano manifestati
fenomeni che possano suggerire che la fase
storica inaugurata con il 1989, sia giunta alla
conclusione e che ci avviamo ormai verso la
fine della fine della storia. Se questo porterà ad
una rinascita della critica e dell’arte è presto
per dirlo, ma sicuramente molti interrogativi
sono gettati sul tavolo.
Negli anni Sessanta abbiamo figure di
galleristi che collaborano strettamente
con gli artisti, come Iris Clert in Francia o, in
ambito italiano, l’esempio di Fabio Sargentini.
Attualmente, invece, come si pone la figura
del gallerista accanto all’artista? È importante
conoscerlo personalmente?
Fino a quando la società è mossa da una radicale
richiesta di rinnovamento, artisti, galleristi
e pubblico si possono incontrare in un
terreno comune, rappresentato proprio da
questa comune istanza. Con il tramonto di tale
#Area Warhol
60 La Galleria de’ Foscherari
La Galleria de’ Foscherari
61
rinnovato. È ancora troppo presto per poter
comprendere la portata dei cambiamenti
che sono in atto, la pandemia deve ancora
toccare il picco, ma già certi fenomeni sono
rilevabili. È la fine della fine della storia, l’equilibrio
è spezzato, un mondo sta morendo, un
mondo nuovo sta sorgendo. Intendo qui il
mondo come comunità, come orizzonte di
senso entro in cui l’umanità vive e si organizza.
Pensiamo ad esempio al mondo nel
quale abbiamo vissuto gli ultimi decenni, dove
tutto succedeva sulla superficie, sulla pelle
del mondo divenuto immagine. Non è forse
l’invisibile che oggi a dare forma alla nostra
vita? Un mondo che sorge è destinato sempre
a manifestarsi prima sotto forma artistica, non
perché gli artisti siano avanti, ma per il motivo
opposto, per il carattere originario dell’opera
d’arte. Io ho sempre creduto che interrogare il
destino sia il compito dell’arte di ogni tempo.
Ritengo dunque compito della Galleria e più
in generale di coloro che operano nel campo
artistico, possa essere quello di mettersi in
ascolto, di accogliere l’altro, inteso non come
ente con cui porsi in competizione, ma come
parte di se stessi, con cui scoprire ed inventare
nuove possibili relazioni.
#Area Warhol
#Area Warhol
prospettiva e con l’affermarsi dell’idea della
fine della storia e del neo liberismo economico,
questo terreno comune non esiste più.
I rapporti umani sono regolati dal modello
del mercato. L’altro diviene dunque il concorrente
rispetto al quale chiunque deve cercare
di prevalere.
Come sono cambiate le relazioni con il
pubblico?
Il contesto culturale degli anni Sessanta era
caratterizzato, come abbiamo detto, da forze
sociali che chiedevano un radicale rinnovamento
della società ed in quel periodo il
pubblico dell’arte era certamente formato
dalla borghesia interessata all’acquisto di
opere, ma anche da un ceto intellettuale che
si sentiva coinvolto in quelle istanze di rinnovamento
sociale che si esprimevano con forza
nel campo artistico. Con la restaurazione,
cominciata con il Sessantotto e consolidatasi
con gli anni Ottanta, l’istanza avanguardista
dell’unione arte-vita si è rovesciata in identità
dell’arte con il mondo, un mondo trasformato
in infinito arsenale di merci. L’oggetto
artistico non è più merce in quanto arte, ma
al contrario diviene arte in quanto merce. E
tutte le merci entrano nel campo dell’estetica.
Il pubblico diventa di massa mentre il
ceto intellettuale perde il suo ruolo sociale
e si disperde.
La Galleria de’ Foscherari come ha reagito
ed affrontato la situazione COVID-19?
Ricevo questa domanda nel momento in cui
Bologna torna zona rossa, come un anno
fa. La stagione è identica, l’aria è tiepida, il
sole splendente, la città, vuota e silenziosa, è
bella. Rispetto ad un anno fa tanti sono stremati
economicamente e psicologicamente,
le gallerie i musei, i cinema ed i teatri sono
chiusi. Per ora si naviga a vista, cercando di
sopravvivere, ma consapevoli che l’approdo
sarà in un mondo differente e profondamente
62 La Galleria de’ Foscherari
La Galleria de’ Foscherari
63
Scritto da Krizia Di Edoardo
artisti che raccontavano le opere in mostra;
il secondo canale dedicato alla collezione
permanente; il terzo canale era dedicato a
Giorgio Morandi con approfondimenti, piccoli
saggi, la parole di alcuni testimoni, documenti
d’archivio; il quarto canale era il dipartimento
educativo. L’ultimo canale era dedicato
agli ospiti invitati dal museo a lasciare
come uno degli obiettivi di un museo relegata
spesso solo all’ideazione di mostre. Grazie
al Nuovo Forno del Pane, questo il nome del
progetto, è stata possibile invece la creazione
di una vera e propria comunità fisica.
Nuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti
e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna
#Area Warhol
Quando l’arte reagisce alla
pandemia.
Intervista a Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo -
Museo di Arte Moderna di Bologna.
Palin parla con Lorenzo Balbi, direttore artistico del MAMbo, il Museo di Arte Moderna di Bologna.
#Area Warhol
Il settore artistico rientra tra quelli più duramente
colpiti dalle misure anti-Covid19. Ed è
in questo clima che, insieme a teatri e cinema,
anche i musei hanno reagito reinventandosi
e proponendo soluzioni alternative di fruizione
grazie alla capacità organizzativa di
chi ci lavora.
Krizia Di Edoardo ha intervistato Lorenzo Balbi,
direttore artistico del MAMbo – Museo di Arte
Moderna di Bologna.
È da più di un anno che conviviamo con la
pandemia da Covid-19. In che modo i musei,
in particolare il MAMbo, hanno reagito?
Più di un anno fa la situazione di emergenza
ci ha colto alla sprovvista. A febbraio avevamo
appena inaugurato una mostra collettiva
dal titolo AGAINandAGAINandAGAINand,
quando Emilia-Romagna, insieme a Veneto
e Lombardia, vennero chiuse per un primo
lockdown. Non era mai successo niente di
simile in 45 anni di attività del museo, per cui
ci siamo trovati a far fronte a una situazione
del tutto imprevista e imprevedibile da un
giorno all’altro.
In quella prima settimana abbiamo deciso
subito di reagire tentando di rendere i contenuti
della mostra che avevamo in atto fruibili al
pubblico: abbiamo quindi deciso insieme all’artista
islandese Ragnar Kjartansson, nonché
protagonista con la sua opera Bonjour nella
sala centrale del MAMbo, di proporre uno
streaming live di quell’opera sui canali social
del museo, quasi a permettere di sbirciare dal
buco della serratura e avere la possibilità di
ingaggiare nuovi pubblici, mantenendo viva
l’attenzione sulla mostra (2 minuti di MAMbo
17. Ragnar Kjartansson).
Dopo una piccola riapertura, abbiamo dovuto
chiudere in modo perentorio e senza un’aspettativa
di breve durata. A quel punto abbiamo
adottato una seconda linea di reazione: 2 minuti
di MAMbo in lockdown, un nuovo format di
brevi video, appunto di 2-3 minuti, massimo
3 e mezzo, simbolicamente dal martedì alla
domenica, giorni di apertura del museo. Questi
brevi erano orientati secondo cinque canali
tematici: il primo sulla mostra in corso, con gli
Nuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna Musei
una loro testimonianza. Ad oggi i due minuti
di MAMbo sono diventati un format proprio
del museo divenendo i 2 minuti di MAMbo
Extended, approfondimenti più lunghi su tematiche
relative al museo.
Il terzo e più appariscente tentativo di reazione
è stato pensato e proposto all’inizio di aprile
2020, quando fu chiaro che sarebbe stato
impossibile pensare di fare attività aperte al
pubblico. Si è deciso di utilizzare lo spazio
del museo non più come spazio espositivo
ma come spazio di produzione artistica. Sono
stati selezionati tredici artisti che hanno potuto
usufruire del museo come spazio di lavoro,
ripensando di fatto il ruolo del MAMbo nell’idea
di quella creazione di comunità citata
MuseiNuovo Forno del Pane Foto Valentina
Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione
Bologna Musei
In che modo si evolverà il progetto Nuovo
Forno del Pane?
Il Nuovo Forno del Pane non cesserà la propria
attività perché l’idea del museo di un dipartimento
permanente che si occupi di produzione
artistica è sempre stato un mio obiettivo
anche pre-pandemia. Questa è stata
l’occasione per varare in grande stile questo
progetto che continuerà la sua azione con
nuovi artisti, ovviamente, e altri stimoli.
Nell’ottica di riallestire gli spazi, con varie
64 #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi
#palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi
65
appunto, vasi e fiori finti di seta che l’artista
dipingeva, potendo fare la combo tra modello
e opera che solo noi possiamo permetterci.
Questo focus è stato disallestito e ora ne è
stato inaugurato uno che mette al centro il
tema della produzione pittorica di Morandi,
quindi i materiali della sua produzione e curiosità
legate al suo modo tecnico di intendere
la pittura. Inoltre, sempre nell’ottica di mediazione
culturale e riscoperta delle collezioni,
è stata ideata un’app che offre possibilità
di percorso personalizzate in base ai visitatori,
che siano singoli, in coppia o in gruppi
e famiglie.
un’analisi più approfondita perché siamo stati
aperti per diversi mesi. In un’estate anomala
senza turisti, il pubblico è stato composto
prevalentemente da persone provenienti
dalla città metropolitana o della regione. Se
nel 2019 eravamo circa 1000 visitatori a settimana
nel 2020 ne abbiamo avuti 600- 650 che
è un ottimo risultato considerando che nel
2019 di quel 1000-1200 un buon 60% erano
turisti. Certo, i dati sono fortemente plasmati
dalla situazione contingente di emergenza.
Speriamo non più verificabile.
Come si pone in relazione alle normative
anti-Covid attinenti ai musei?
#Area Warhol
#Area Warhol
riaperture a singhiozzo, come è cambiato il
percorso di visita del museo?
Lo spazio delle mostre temporanee non è visitabile
da febbraio 2020, mentre al pubblico è
stato sempre aperto, quando è stato possibile,
dal 19 maggio al 4 novembre e di nuovo
da due settimane ad oggi la parte della collezione
permanente. Al primo piano due spazi
sono stati adibiti a luoghi di mostre temporanee:
la project room del MAMbo ha ospitato
una mostra su Castagne matte a cura di
Caterina Molteni che metteva insieme delle
opere mai viste dalla collezione dei depositi
del museo con opere provenienti da altri
musei dell’istituzione Bologna Musei.
Il tema molto attuale legata alla ritualità alla
scaramanzia dei piccoli riti domestici e questa
mostra fa parte di un ciclo di mostre che si
chiama ‘RE COLLECTING’ sull’idea di riappropriarsi
delle collezioni perché in qualche
modo questo sarà il futuro dei museo , cioè
ripartire dalle proprie collezioni, in dialogo
con la comunità locale.
Giocoforza perché il turismo sarà fortemente
penalizzato e il primo pubblico di riferimento
è il pubblico di prossimità, più vicino al museo.
Offrendo a delle persone che probabilmente
hanno già visto quel museo una nuova modalità
di visita, nuove chiavi di lettura e nuovi
accostamenti a partire dalle opere della collezione.
A queste mostre nella project room
si collegano anche quelle fatte nell’ultima
sala del percorso del museo Morandi in cui
abbiamo allestito un primo focus, dedicato ai
fiori del maestro bolognese, in cui erano stati
accostati un numero eccezionale di dipinti
a tema floreale della nostra collezione con,
Non mi piace dire che la pandemia è stata
un’opportunità, perché è stata ed è un’immane
tragedia per la nostra generazione, ma
ciò che è successo è che di fronte ad una
situazione molto negativa, ma sicuramente
eccezionale, si ha avuto modo e tempo di
pensare a modelli diversi dando quell’idea di
adattabilità. Il museo non più pensato come
edificio che conserva degli oggetti ma come
centro culturale in grado di offrire delle risposte
alla comunità.
In che modo è mutato il pubblico, in termini
numerici?
È difficile fornire una stima sui visitatori perché
abbiamo aperto e chiuso diverse volte, per
cui i dati lasciano il tempo che trovano. Ad
esempio, le ultime due settimane abbiamo
aperto da martedì a venerdì con un pubblico
possibile decisamente ridotto.
Tra un lockdown e l’altro, invece, si può fare
Io non ho mai criticato né criticherò le decisioni;
se ci dicono di rimanere chiusi è giusto
ed è un provvedimento necessario per contenere
la pandemia. Questa volta, tuttavia, è
più complicato capire le ragioni per cui non
si possa riaprire durante il weekend, anche
perché tra un lockdown e l’altro abbiamo
dimostrato di saper reagire dotandoci dei
sistemi necessari per poter riaprire al pubblico
in totale sicurezza, e non sono mai stati segnalati
focolai o problemi provenienti da un’eccessiva
frequentazione di spazi culturali. Critico,
inoltre, il costante stato di incertezza per cui
questa settimana non si sa cosa avverrà di
noi la prossima quindi questo ci impedisce
di fare una programmazione seria e sensata.
Per assurdo per noi sarebbe più facile un provvedimento
che ci faccia rimanere chiusi fino ad
aprile piuttosto che farci riaprire a singhiozzo.
Questo ci impedisce programmazione e lungimiranza
perché per noi è un danno notevole
in termini di lavoro ed economici.
Intervista realizzata il 15 febbraio 2021
Immagine in copertina: Direttore artistico MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Foto Claudio Cazzara
66 #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi
#palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi
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Scritto da Ilaria Monarini
#Area Warhol
Reazione come nuova definizione
artistica dell’essere e dell’agire
Ruota tutto intorno a una nuova idea di reazione e soprattutto di rivoluzione. Germano Celant parla
dell’Arte Povera come di un’azione povera sottolineando il senso eteronomo dell’attività artistica come
di una «possibile strategia socio-culturale, in cui processo eversivo e gnoseologia giungono alla frantumazione
del sistema di dittatura industriale». L’arte si trasforma in un teatro di azioni povere non
strumentalizzabili, in cui l’eteronomia dell’arte è la sua vera povertà.
#Area Warhol
La storia dell’arte insegna che all’atto creativo
ogni autore si è sempre approcciato in
qualche misura reagendo, condizionato dal
contesto sociale del suo tempo.
Nell’era della contemporaneità, l’Arte Povera
può essere considerata uno dei movimenti
che ha fondato la propria ragion d’essere
proprio sul principio di reazione. A mettere in
luce questo nuovo modo di vedere e pensare
è stata la Galleria de’ Foscherari di Bologna,
nel febbraio del 1968, con l’inaugurazione
della seconda mostra a livello mondiale dedicata
a un linguaggio espressivo teorizzato
dal noto critico Germano Celant, purtroppo
scomparso lo scorso anno. Per Arte Povera
si ritrovarono Gilberto Zorio, Alighiero Boetti,
Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Mario
Merz, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Luciano
Fabro, Giovanni Anselmo, Emilio Prini, Gianni
Piacentino e Mario Ceroli. Un evento che fornì
l’occasione di un dibattito fra i più importanti
e partecipati, a cura di Pietro Bonfiglioli.
Di quel tempo di contestazione, dal maggio
parigino agli scontri tra studenti e polizia a
Valle Giulia a Roma, alle piazze d’Europa e in
America occupate da rivolte pacifiste contro la
guerra in Vietnam, gli artisti hanno dimostrato
una profonda presa di coscienza, facendo
propri i valori umani e l’ansia di libertà e giustizia
sociale che in quel preciso momento della
Storia stava animando specialmente una
generazione nuova di studenti e di lavoratori.
Si è imposta una nuova visione dell’arte: non
più solo estetica ma materiale, non isolata
Inaugurazione della mostra “Arte Povera”, 1968
Galleria de’ Foscherari. Courtesy Galleria de’ Foscherari
68 Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire
Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire
69
#Area Warhol
Emilio Prini Ipotesi sullo spazio totale
Courtesy Galleria de’ Foscherari
rispetto al contesto sociale, ma anzi capace
di interagire provocatoriamente con esso.
Provare oggi a rivisitare l’esposizione alla de’
Foscherari, a mezzo secolo di distanza da
quell’evento, può aiutare a mettere a fuoco
quella stessa ansia di reazione, ma soprattutto
di rivoluzione, che sembra animare più
di una scena figurativa del nostro tempo; la
stessa che in Pistoletto si faceva riconoscere
con gli specchi con l’intento di ricreare fenomenologicamente
noi e il nostro io.
La realtà si fa dunque strada nello specchio
e diventa la prima possibilità di reazione per
stabilire un rapporto univoco tra l’arte e la vita.
Il mondo non è più un modello da seguire e
sente quindi l’esigenza di farsi coinvolgere
esclusivamente dal suo movimento presente,
creando opere senza un’aspettativa codificata.
Con Ipotesi sullo spazio totale, Prini si crea
una propria area – vuota, firmando la stanza di
una galleria e appropriandosi del contenitore.
Ritroviamo una serie di punti e di proiezioni
plastico-volumetriche della sua percezione.
Si parla di una reazione mentale, dove l’idea
diventa molto più importante del manufatto e
rende la presenza fisica dell’opera un motivo
scatenante di movimento, di pensiero negli
spettatori, trasmettono in tutto e per tutto la
loro voglia di inventare e sperimentare.
A seguire c’è Paolini, che con le bandiere, le
tele, i quadri, racconta la sua ricerca personale
improntata sull’analisi dei fondamenti
costitutivi della creazione artistica; con Merz,
la luce al neon da medium dissociante passa
a elemento segnico associante, creando
insiemi di lavori formati da bottiglia, giglio,
bicchiere, meccanismo, neon, oppure bottiglia,
tubo, plexiglas, neon, assemblaggi autonomi
senza una particolare storia, volti a rappresentare
la sua visione del mondo. Ceroli, invece,
abbraccia la scultura (il legno è il suo materiale)
portandola in scena come manifestazione
macroscopica di una sua libertà inventiva
e poetica. Si parla ancora di autonomia
con Piacentino, con le sue composizioni
difficili da collocare, sfuggevoli ed essenziali.
Kounellis dalla pittura passa a un’idea
di libertà dell’uomo e delle cose, e così
anche Fabro, che si mostra libero dall’esterno,
concentrandosi su nuove suggestioni mentali
per l’artista e per il visitatore, grazie a materiali
figurativi coinvolgenti.
Si appoggiano reagendo a nuovi contenuti
e c’è la necessità di un’arte non statica ma
performativa. L’Arte Povera si mostra, dunque,
come materia vitale e in continuo divenire.
Prende forma grazie alle energie degli artisti,
rendendo invisibile ma percepibile la loro
essenza. Anche Boetti affida il lavoro allo
spettatore, vuole che la viva; nell’opera Pietre
e lamiere, ad esempio, usa materiali «che
ostentano solo il loro ‘farsi’», per denotare
lo stupore di ogni azione inventata o reperita
nuovamente per la prima volta, quale il
taglio, l’incastro, l’accumulo, la creazione dei
segni associativi, la scoperta di una decorazione
già «in natura».
Imprevedibilità, reazione, espressività, ciò
che mostra Zorio. A lui dell’immagine interessa
la forza dei materiali e la possibilità di
combinazione che crea positive conflittualità
e tensioni piene di energia. Infine, con
Anselmo scopriamo opere mutabili, che si
formano nell’istante in cui vengono montate
e che mirano ad una corrispondenza tra
forze equivalenti, quali l’uomo e la natura,
giungendo così ad un grado elevatissimo di
concentrazione.
Una mostra che si conclude con l’inizio di un
cambiamento che prosegue tutt’oggi, in cui
le installazioni diventano finalmente attive
con lo spettatore.
Fonti:
Vittorio Boarini, Il notiziario della Galleria de’ Foscherari 1965-1989, Galleria de’ Foscherari, 2019.
Pietro Bonfiglioli, Arte Povera quaderno n 1 Ed Galleria de’ Foscherari, Presentazione di un dibattito,
1968.
De’ Foscherari www.defoscherari.com
Giulio Paolini, in Castello di Rivoli
09 - ARTE POVERA - L’estetica dell’ordinario - Germano Celant
Alighiero Boetti Pietre e lamiere
Courtesy Galleria de’ Foscherari
#Area Warhol
70 Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire
Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire
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Scritto da Annalisa Foglia
#Area Warhol
Pubblica Reazione Artistica
#Area Warhol
Quanto può un’opera d’arte coinvolgere il pubblico? Se la valutassimo attraverso parametri estetici
(e soggettivi) all’interno di un museo, non riusciremmo di certo a quantificarlo. Se invece i parametri
fossero ben altri e l’opera venisse resa pubblica, imponendosi quindi come elemento costitutivo di uno
spazio urbano, la reazione generale degli avventori sarebbe nettamente diversa. L’arte site-specific
risponde esattamente al secondo caso e, di fatto, sia in Europa sia in America, ha avuto la sua ragion
d’essere in termini di coinvolgimento.
Nell’ambito dell’arte pubblica, in particolar
modo quella site-specific, il pubblico assume
un ruolo centrale in quanto non si limita a
essere spettatore ma diventa parte attiva.
Alcuni progetti di arte pubblica a cura di grandi
artisti hanno innescato delle reazioni inaspettate
e decisive da parte del pubblico, della
comunità, come dimostra l’opera che è divenuta
l’emblema del rinnovato e complesso
rapporto tra artista e pubblico: Tilted Arc (in
copertina Richard Serra, Tilted Arc, 1979-1999).
Nel 1981 l’artista statunitense Richard Serra
realizzò per la Federal Plaza di New York
un’opera site-specific; il suo lavoro divenne
parte integrante della piazza in questione
ridefinendola strutturalmente e concettualmente.
L’organizzazione della piazza stessa
venne modificata profondamente in quanto
l’arco (lungo 37 m, alto 3,7 m e dello spessore
di 6,7 cm) attraversava l’intero sito. L’opera
era stata commissionata all’artista nel 1979,
esattamente venti anni dopo Richard Serra
fu costretto a distruggerla in seguito a una
profonda reazione della comunità del luogo.
Le accuse mosse contro Tilted Arc furono
molteplici e non solo di carattere estetico o
artistico: tra gli oppositori c’era chi sosteneva
che l’opera fosse psicologicamente oppressiva
e un esperto della sicurezza sottolineò
come tale scultura impedisse la sorveglianza
totale della piazza favorendo graffiti e azioni
vandaliche.
Le udienze del 1985 etichettarono Tilted Arc
«as an arrogant and highly inappropriate assertion
of a private self on public grounds» [1] . La
rimozione dell’opera è diventata, negli anni
successivi, il simbolo di una reazione collettiva
per il recupero di spazio pubblico da parte di
una comunità che fino a quel momento non
era mai stata così unita.
Un altro caso singolare è quello a opera, o
per meglio dire non-opera, di Daniel Buren
a Weimar. Un testo su tale intervento artistico
ha come titolo La Piazza mai costruita
– un fallimento di successo, in riferimento
al progetto dell’artista per la Rollplatz della
città tedesca.
In occasione della nomina di Weimar come
Capitale della Cultura Europea per l’anno
1999, fu invitato nella cittadina tedesca Daniel
Buren per la realizzazione di un’installazione
in una piazza a sua scelta. L’artista francese
scelse Rollplatz, un parcheggio a cielo aperto
che avrebbe voluto trasformare in una piazza
all’italiana, un luogo di incontro non per auto
ma per cittadini. Il progetto di Buren sarebbe
stato inaugurato in occasione della grande
manifestazione temporanea, ma avrebbe
assunto un carattere permanente che avrebbe
modificato per sempre l’assetto urbanistico,
estetico e concettuale della città.
Organizzando una riunione a cui era stata
invitata tutta la cittadinanza di Weimar, Buren
espose il suo progetto pubblicamente con
l’intento di arricchirlo attraverso le considerazioni
o le obiezioni che avrebbero manifestato
gli abitanti. La partecipazione fu alta
soprattutto perché molti dei partecipanti
erano già venuti a conoscenza del progetto
dell’artista attraverso la pubblicazione di un
render non autorizzato su un giornale locale.
Naturalmente le reazioni e le prese di posizione
furono varie e ci furono numerose obiezioni
sia per la viabilità che per aspetti tecnici.
La partecipazione continuò a essere elevata:
si formarono due schieramenti ben distinti
tra i favorevoli e i contrari. Il fervore culturale
della città si manifestava in maniera
costruttiva e creativa. Ad esempio:
I sostenitori del progetto rivelarono invece una
vivace creatività. Durante alcune sedute del
Consiglio Comunale riuscirono a sgombrare
il Rollplatz dalle macchine parcheggiate e
organizzarono delle performance in cui veniva
simulata l’installazione delle steli, posizionando
persone di diversa altezza nell’assetto della
griglia progettata da Buren: nel centro i bambini
e nella periferia gli uomini più alti con i figli
sulle spalle. [2]
72 Pubblica Reazione Artistica
Pubblica Reazione Artistica
73
#Area Warhol
L’ampio dibattito attorno all’opera si concluse
con la proposta di realizzare lo stesso
progetto in un’altra piazza, offerta che venne
rifiutata da Buren, mentre Rollplatz mantenne
il suo ruolo di parcheggio automobilistico.
Le reazioni intorno all’opera di Buren continuarono
e, nella notte tra il 31 dicembre 1998
e il 1 gennaio 1999, un gruppo di cittadini
piantò, forando il manto stradale della piazza in
questione, 200 alberi di Natale; inoltre, nell’estate
del 1999, fu organizzata una piccola festa
in piazza durante la quale venne presentato
un disegno parietale rappresentante Rollplatz
con l’installazione di Buren dal titolo Questo
sarebbe stato il vostro premio.
Sia Piazza che Tilted Arc non rappresentano
un successo in termini materiali, formali e
tangibili per l’arte pubblica; nessuna delle
due opere esiste a New York come a Weimar.
Quello che accomuna questi lavori di due dei
più grandi artisti contemporanei nel campo
dell’arte site-specific è il risultato ottenuto in
termini di reazione e coinvolgimento sociale.
Fonti:
[1] M. Kwon, One place after another. Site-specific Art and Locational Identity, MIT Massachusetts
Institute of Technology, Cambridge 2002
[2] Julia Draganovic (a cura di), La Piazza mai costruita – un fallimento di successo, in E. Cristallini (a
cura di) L’arte fuori dal museo. Saggi e interviste, Gangemi editore, 2008
Suzanne Lacy (edited by), Mapping the terrain. New Genre Public Art, Bay Press, 1994
Performance svoltasi presso la
Rollplatz di Weimar in occasione
del progetto Piazza ad opera di
Daniel Buren, 1998.
74 Pubblica Reazione Artistica
Pubblica Reazione Artistica
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Scritto da Stefano Laddomada
#Area Warhol
Dissenso e
provocazione.
La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli”
#Area Warhol
“Don’t feed the troll” (Non alimentare il troll) è un’espressione familiare soprattutto ai nativi digitali in cui il
troll, demoniaca creatura delle fiabe scandinave, diventa l’utente di internet che trova piacere nell’alimentare
una polemica e provocare il proprio interlocutore. Lontanamente da quanto si possa credere, anche
il mondo dell’arte ha conosciuto i suoi troll con l’Entartete Kunst, l’ ‘arte degenerata’, nel pieno periodo di
propaganda nazista.
Così come in ogni fiaba scandinava che si rispetti,
anche il web ha i suoi trollt: quelli buoni, ossia
semplici utenti dal dubbio senso dell’umorismo
che durante un’accesa discussione, per esempio
sotto l’ultimo post del Presidente del Consiglio,
chiedono delucidazioni sulla preparazione dell’
orata all’acqua pazza, e i troll cattivi, creature
subdole e fameliche che si confondono nella
selva dell’internet e che si cibano della rabbia
e delle reazioni altrui per tornaconto personale
e ai quali è meglio non dar da mangiare. Il
trabocchetto che ci viene teso da quest’ultimi
è a volte così velato da trarre in inganno anche
il più abile dei leoni da tastiera.
Sembrerebbe quindi naturale pensare che i
troll siano frutto di usi e conseguenze della
rete, in cui lo spazio digitale viene condiviso da
tutti e in cui ognuno coltiva determinati gusti,
certezze e interessi che comunica con il mondo
virtuale generando conflitti e discussioni su siti
e social. Questo tipo di atteggiamento, tuttavia,
non vede la sua origine nell’era di Internet ma è
un fenomeno che esiste da ben più tempo con
dinamiche simili; lo stesso mondo dell’arte ha
dato vita a episodi degni dei più fastidiosi troll
dell’epoca contemporanea.
Il caso che più di tutti spicca è quello della cosiddetta
Entartete Kunst, l’arte definita ‘degenerata’,
che i più appassionati di arte e storia ricorderanno
come un movimento controverso e sadico.
Nel 1937, durante il picco di potere del Terzo
Reich, il ministro della Propaganda Joseph
Goebbels decise di sfruttare le opere confiscate
dalle truppe naziste a artisti etichettati come
sovversivi per comporne una mostra composta
da più di 600 pezzi, con lo scopo di una intenzionale
denigrazione nei confronti di tutti gli stili
(soprattutto moderni) e le rappresentazioni in
contrasto al Reich. L’atto di censurare gli artisti
e tutti coloro che in un qualsiasi altro modo
decidevano di comunicare il proprio dissenso,
venne ripensato e riadattato successivamente
dal ministro della Propaganda per comporre
quella che potremmo definire oggi una bacheca
di haters: sminuire l’altro, il diverso, per rafforzare
la propria identità e la propria visione, un
atto di cattivo gusto che ricorda, neanche così
difficilmente, un uso contemporaneo dei social
network da parte di alcuni utenti.
La mostra, della quale fecero parte, tra le altre,
opere di Klee, Chagall, Dix, Kandinsky e Picasso,
venne accompagnata da didascalie e slogan
provocatori, in un ambiente scarsamente illuminato
e reso volutamente inospitale e tedioso.
Inizialmente esposta a Monaco di Baviera, la
mostra divenne in seguito itinerante e attraversò
undici città tra Germania e Austria. Il biglietto
per visitarla era gratuito così da coinvolgere il
maggior numero di persone in questo spiacevole
teatrino dell’orrido.
Nonostante la Storia si sia poi giustamente
ritorta contro il regime nazista e una parte delle
opere sia comunque riuscita ad essere valorizzata
–grazie anche alla scoperta della collezione
Gurlitt di pochi anni fa – nei musei di tutta
Europa, quest’episodio dimostra la tragica attualità
di un comportamento e di un fenomeno
risalente non solo al periodo di digitalizzazione
in cui siamo ormai destinati a vivere, ma ad un
modo di agire insito nell’uomo con origini quasi
sicuramente primitive. Lo scherno suscitato
Fonti:
dal dissenso è ormai una pratica ‘propagandistica’
di uso comune soprattutto per chi fa
delle proprie idee l’unico, inconfutabile valore
da contemplare, con totale noncuranza delle
possibili sfaccettature delle credenze e delle
abilità altrui, cancellando gradualmente lo
spirito critico dei propri sostenitori.
In un periodo che premia i trend topic, il dissenso
costante a portata di schermo è una pratica in
cui il troll, sapendo di trollare, banchetta quotidianamente
senza mai saziarsi, spinto dalle
interazioni e dai commenti sia dei suoi sostenitori
che dei suoi dissidenti, generando così
un circolo vizioso di fastidiosi botta e risposta
basati su nient’altro che una provocazione.
Spuntarla è difficile ma non impossibile; è necessario
non inciampare sui contenuti pensati per
istigarci, tenersi strette le proprie briciole di
speranza (e la propria arte) e impegnarsi a sfruttarle
per un nutrimento più sano e morale, in
primis per noi stessi.
http://www.artspecialday.com/9art/2021/01/27/arte-degenerata-censura-1937/
https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/entartete-kunst-mostra-nazista-arte-degenerata
https://www.treccani.it/enciclopedia/entartete-kunst/
https://www.youtube.com/watch?v=eDPQW5aP9Rc
76 Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli”
Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli”
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Palin incontra anche Gramsci.
Con lui Palin scopre che per indagare nel
vasto mare della storia bisogna partire dalle
singole increspature delle onde, intendere
ogni evento nella sua specificità sociale.
Quest’area tratta quindi di Sociopolitica,
dallo studio delle disuguaglianze ai nuovi
confini della contemporaneità, cercando
di offrire uno sguardo molteplice e aperto
su ogni aspetto che costituisce il mondo
come lo conosciamo oggi.
Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà.
Antonio Gramsci
Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Illustrazioni di: Claudia Corso, @aetnensis
#Area Gramsci
Meticcio, ma orgogliosamente italiano,
Antonio Sebastiano Francesco Gramsci
ha camminato sulla penisola scrivendo e
ragionando, finché ne ha avuto le forze.
Gramsci aveva grande consapevolezza
della sofferenza della vita che si era scelto,
ma chiaramente vedeva degli obiettivi più
alti, uno scopo più importante e così scrive
il 10 maggio 1928 alla madre, prima della
condanna a vent’anni di reclusione:
«La vita è così, molto dura, e i figli qualche
volta devono dare dei grandi dolori alle
loro mamme, se vogliono conservare il
loro onore e la loro dignità di uomini.»
Antonio
Gramsci
Ma prima del carcere, prima di una consapevolezza
così profonda, Gramsci era un
bambino dato per morto, per le condizioni
di salute che avevano portato la madre a
comprargli una bara a quattro anni. Ma lui
cresce e aiuta la famiglia lavorando in un
catasto sardo, mentre il padre è in carcere.
A 15 anni riesce ad iscriversi al ginnasio e
diventa uno studente modello, appassionato
di scienze umanistiche, storia e politica.
All’università di Torino conosce Togliatti,
ha Bartoli come insegnante e lega il
proprio nome a quello di altri grandi.
Con la Prima Guerra Mondiale inizia a scrivere
per giornali socialisti, quali l’«Avanti»,
ma dopo gli avvenimenti sindacali e le
sommosse operaie del ’20, si avvicina alle
idee bolsceviche di Lenin. Il suo legame
con la Russia lo porta anche a incontrare
sua moglie, la violinista Julka Schucht,
con la quale avrà i figli Delio e Giuliano.
Inoltre, nel 1921, nasce il Partito Comunista
e lui ne sarà leader, anche se per poco.
Solo cinque anni più tardi la sua vicenda
politica si stravolge: l’8 novembre 1926,
violando l’immunità parlamentare, viene
arrestato e condannato a vent’anni di carcere.
Ma la sua attività intellettuale e politica continua,
con i colloqui-lezioni durante l’ora d’aria
e con i Quaderni del carcere, interrotti nel
1935, a causa delle condizioni di salute. Solo
nel 1937 passò dalla libertà condizionata
alla piena libertà, ma ormai era gravemente
malato, e morirà nello stesso anno.
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comnist unt, ant alia nosto del elisitium untiatquia
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repudae reperum que re quam, comnihil molut
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et abo. Sectur aut imin num in parum quatet
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tiaeresequis dunt in essimos solore, volut
aut et quunt.
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omni dem fugiam repta periasincto idem dolliquam
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ut volore volore perum ium duciis etur reicti
nis evel eaquateculpa perions equatis quatquunt
dolupta quosapisit omnis doluptur, venis
ex earupti num faccus volenimust, unt essum
aut et dolupit accuptas ium est ut ventotas
dolum quas essitatur aliatque duci acit, od
magnis renda quaturio. Ut voluptatusae vid
qui odigenim qui at omnitatur maxime volenis
mi, nonsequae. Bus deri incturit lab inimi,
conet officiet quatur reperor ehendae pratione
eatis utemper umquatu santia cum que ne
et eveliquid ulliquides dolupta in rem fugia
nonsequamus, soluptam doluptae et iustis
ressima qui recepellabo. Et int et doluptatur
si dolore dolo beatibusamus quibus, accuptu
mquatem quatem. Pudaesc iligend aerferum
eium faceaquia eatesciis millic temporibus.
Gentibus, quatio dolupta que voluptatum
volorpo remporia nobitatios ullabor iandam
alia sequae nobit officipsa con cusapientem
vera dolupta tiatur milis conseque et plit
audantotat lique veliquo molorep eriam, cupiet
volore natqui des derae eatem quaspidenim
accum aut est, que nit, officima dolupta tiorporunti
volut quo omnim facculpa sim doluptate
quo volupie niendam hit es pos voluptia
ni berspie ntiassum non con netusapero
ommod molorro cor aut porest re sum quate
nis nosant, ut mod quam quunt aut harchil
liquisq uatent aliquis essunt.
Laborporepe liquae plicid ut aut eaquis doluptatem
aliquiam cus arciam sequaes susdantis
core cuscia de pedi dolesti bla poriae comniae
stiscipsandi delignam a nullam essi sendaer
itiscium que experum quiatis etur?
Samus ea sinia volorum, tori anima apidicitatur
seni aut aut enimillaut quis maxim que optat
et liqui dolorum alitate mporeprovid quid ut
volupta volori doleste porit venempeles et
adisquam, asperent omnis aut impores net
andam quisciassit modit, abor aborrupta sunt
doluptatus et qui alibus dolor accum fugitaspero
corporitatia nossi senitibusam commoste
perrum et min nestiistrum aditae plam ra
sum acea dunt.
#Area Gramsci
80
#Ritratti: Antonio Gramsci
#Ritratti: Antonio Gramsci 81
Scritto da Tommaso Bassi
#Area Gramsci
REAGIRE DAL BASSO
Il potenziale dei piccoli
borghi e la lezione di Riace
Il paradosso ‘case senza persone – persone senza casa’ è senza dubbio tra le grandi contraddizioni del
nostro tempo. Il caso di Riace è riuscito a scardinare questa dicotomia, mostrando il potenziale ruolo
dei piccoli borghi italiani, oggi rivalutati alla luce della pandemia.
#Area Gramsci
Il sociologo John Holloway, nel suo libro
Crack Capitalism, usa una metafora suggestiva
per indicare un’alternativa alla visione
rassegnata al dominio del paradigma neoliberista.
L’autore parla di una stanza le cui quattro
pareti lentamente avanzano verso il centro,
rimpicciolendosi lentamente. Coloro che sono
all’interno si dividono tra chi discute su come
disporre l’arredamento e chi si concentra sul
trovare delle fessure e degli spiragli nelle
mura, cercando di individuarli per poi allargarli.
Stando ben attenti a non cadere nel romanticismo
della lotta o nell’utopia, seguire l’appello
di Holloway, concentrandosi quindi sull’agire
(e reagire) umano in un mondo che appare
dominato da forze incontrollabili e deterministiche,
può rivelarsi un utile esercizio intellettuale
nonché un’ottima pratica quotidiana.
La Riace che Mimmo Lucano ha contribuito
a creare si avvicina molto a questo concetto,
coniugando il resistere al reagire, trovando le
fratture nei muri per poi trasformarle in porte.
L’ex sindaco di Riace, infatti, ha risposto a
fenomeni globali tramite piccole azioni locali,
cercando di raggiungere quella che lui stesso
ha definito una «utopia della normalità». Il
borgo calabrese si è proposto come un esperimento
di innovazione sociale nato dalle contingenze
del nostro tempo, mettendo in campo
politiche sociali e di accoglienza ora studiate
in tutto il mondo. Lefebvre avrebbe probabilmente
definito il borgo calabrese in questione
un’ eterotopia, «uno spazio dell’altro» vale
a dire uno di quegli «spazi liminali ricchi di
possibilità» originati da una forma auto-organizzata
di partecipazione. Questo tipo
di spazi rimettono in discussione il concetto
di diritto alla città – in questo caso diritto
al borgo – teorizzato dall’autore francese,
percorrendo la logica della riappropriazione
dei luoghi e della loro autodeterminazione.
Ciò che colpisce del caso di Riace è il modo
in cui si sia riuscito a scardinare la dicotomia
urbano-rurale, centro-periferia, rendendo
quel piccolo borgo una periferia al centro del
mondo, trasformando una comunità rurale
sempre più svuotata e isolata in una società
complessa e poliglotta.
Si potrebbero dare diverse chiavi di lettura del
modello Riace, o focalizzarsi su diversi esempi
virtuosi emersi grazie al lavoro di Lucano e
dei suoi collaboratori. Quello su cui si prova
interesse a soffermarsi, tuttavia, è il modo in
cui due temi apparentemente distinti (ma
in realtà profondamente connessi) come il
sottoutilizzo del patrimonio immobiliare e
i flussi migratori siano stati combinati nella
pratica risultando in una soluzione da prendere
ad esempio.
Per contestualizzare meglio questi fenomeni
è necessario allargare un attimo il
focus. Uscendo dal borgo e guardando alla
Calabria, si scopre che è la regione con il più
alto rapporto case vuote-abitanti, con 450.000
abitazioni vuote all’attivo. Questi dati risultano
ancora più inaccettabili se si pensa che la
regione in questione è la stessa in cui si trova
l’insediamento informale di San Ferdinando,
dove le persone vivono in condizioni inammissibili
e rischiose. Se allarghiamo ancora
l’obiettivo e lo puntiamo sull’intero stivale,
ritroveremo le stesse contraddizioni accompagnate
dallo stesso paradosso: case senza
persone e persone senza casa. Si stima infatti
che in Italia siano circa sette milioni le case
vuote, più o meno un quarto del patrimonio
immobiliare complessivo. Le ragioni di ciò
sono diverse, e variano da contesto a contesto.
Tuttavia, è possibile delineare almeno
due tendenze ricorrenti. Nelle grandi città, in
molti casi, la speculazione edilizia e la pressoché
inesistenza di una politica per l’Edilizia
Residenziale Pubblica (ERP) creano le
condizioni per un patrimonio immobiliare inaccessibile
e quindi sottoutilizzato. Nei borghi e
nelle aree rurali, invece, le case sono vuote a
causa dell’esodo verso le città, dove si spera
di trovare servizi e opportunità assenti nelle
realtà che ci si lascia alle spalle.
Nell’attuale fase pandemica si sente spesso
parlare di un’inversione di tendenza, di un
ritrovato bisogno dello spazio, del verde, della
natura, e di un nuovo interesse verso le aree
rurali e montane del territorio. Negli oltre
cinquemila piccoli comuni italiani una casa
su tre è vuota, e già molte regioni e amministratori
si stanno operando per attirare nuovi
abitanti. La direzione sembra essere quella di
puntare sulla flessibilità del mondo del lavoro
e sullo smart working, rivolgendosi quindi
ad un determinato target della popolazione
appartenente a una classe media con un
82 Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace
Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace
83
Scritto da Tommaso Bassi
#Area Gramsci
#Area Gramsci
certo potere di acquisto, probabilmente già in
possesso di un’abitazione in un’area urbana,
e attirata dal paesaggio e dai vantaggi dell’area
pulita. Se ci si muoverà in questo senso,
tuttavia, l’occasione per contribuire a ridurre
la forbice tra case vuote e abitanti, nonché
la forbice delle diseguaglianze sociali, verrà
ancora una volta sprecata. Non basta riempire
le case ma serve, come ci insegna il caso
di Riace, avere una visione per questi luoghi
abbandonati che rimetta al centro la comunità
e l’economia locale. In tal modo sarebbe
Fonti:
John Holloway, Crack Capitalism, Palgrave Macmillan, 2010.
possibile garantire una vita dignitosa e gettare
le basi per la costruzione di una collettività
ritrovata, stimolata da chi davvero ha bisogno
di un tetto e si trova in difficoltà economica.
Mai come oggi, un tempo in cui il dibattito sul
futuro dei piccoli comuni è attivo, il caso Riace
va discusso e compreso, partendo dagli ideali
che lo hanno mosso e che, implicitamente,
hanno messo in evidenza le contraddizioni
di un sistema economico che genera case
vuote e senzatetto.
Henri Levebvre, La révolution urbaine, Editions Gallimard, 1970.
Mimmo Lucano, Il fuorilegge: La lunga battaglia di un uomo solo, Feltrinelli, 2020.
Laura Cavestri, Recuperare i borghi d’Italia può valere 2 miliardi, «Il Sole 24 Ore», 31/08/2020
Alberto Ziparo, Case vuote abbandonate al degrado, la soluzione è il riuso sociale, «Il Manifesto»,
16/02/2019
Alberto Ziparo, Un paese di case vuote. Un quarto del patrimonio abitativo è sottoutilizzato, «Il
Manifesto», 2/09/2017
Palin parla di diritti dei migranti e libertà di movimento con Andrea Costa, coordinatore di Baobab
Experience a Roma.
Baobab Experience è un’associazione nata
nel 2015 che da anni presidia un insediamento
informale dietro alla stazione Tiburtina di
Roma, offrendo prima accoglienza a chi fa
tappa nella capitale. Lì dormono in maniera
fissa decine di persone invisibili alle istituzioni
italiane ed europee. Come raccontano nel loro
sito, l’associazione nasce dall’idea di garantire
la libertà di movimento a tutti e di rivendicare
i diritti di chi, a causa di forze maggiori,
è costretto ad abbandonare la propria terra
in cerca di un altrove più sicuro.
Palin incontra Andrea Costa, coordinatore di
Baobab Experience, per cercare di capire cosa
significa fare attivismo sul territorio facendo
i conti con i risvolti materiali prodotti dalle
mancanze del sistema di accoglienza italiano
ed europeo.
Ogni mese qui a Palin affrontiamo un
tema che cerchiamo di approfondire sotto
diversi punti di vista, quello di questo mese è
reazione. L’esperienza di Baobab Experience
nasce in reazione a cosa?
Continuare a muoversi per
ottenere il diritto di restare
fermi
Intervista ad Andrea Costa di Baobab Experience
Si può tranquillamente dire che Baobab
Experience nasce come reazione, se vuoi
quasi impulsiva e di cuore, ad un’ingiustizia.
Per ingiustizia intendo centinaia di persone
abbandonate per strada con le istituzioni
che fanno finta di non vederle perché se lo
facessero dovrebbero adottare un progetto di
accoglienza e quindi un investimento economico.
Per questo nasce Baobab, dall’unione
di una serie di persone che cominciano ad
organizzarsi per portare aiuto e solidarietà a
queste persone che vivono ditro la stazione
Tiburtina a Roma.
Seguendovi si viene a conoscenza dei
numerosi sgomberi che l’insediamento
dietro alla stazione tiburtina ha subito dal
2015 a oggi. Materialmente come avvengono
questi sgomberi? Che alternativa viene
offerta?
Guarda questa domanda è perfetta perché
proprio stamattina all’alba è avvenuto il trentottesimo
sgombero. Non viene offerta nessuna
alternativa, sono sgomberi parziali: li prendono,
84 Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace
#palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa
85
#Area Gramsci
li portano in questura e poi li rilasciano la sera.
Quindi è proprio un gesto simbolico, anche
perché sono persone già schedate e segnalate.
Devono fare vedere che hanno tutto
sotto controllo. Buttano quello che trovano,
coperte, materassini e le poche cose che
questi ragazzi hanno ma poi la sera saranno
costretti a tornarci, finché non si troverà
un centro di accoglienza o un luogo in cui
possano stare. Noi non demordiamo mai,
nemmeno dopo la giornata di oggi, continuiamo
a portare avanti le nostre richieste
rivendicazioni e qualcosa abbiamo ottenuto,
per qualcuno riusciamo a trovare un tetto. il
punto è che gli arrivi continuano, sono addirittura
raddoppiati rispetto all’anno scorso,
anche nel periodo invernale. In più, anche se i
decreti Salvini sono stati superati le centinaia
di persone messe in strada da questi decreti
sono ancora lì, non è che questa cosa è retroattiva.
Il danno è stato fatto.
A proposito di questo, voi portate avanti,
tramite sit-ins e manifestazioni, le istanze
dei migranti rivendicando la tutela dei loro
diritti. Come pensate vada affrontata la tematica
delle migrazioni per garantire una vita
dignitosa a queste persone?
Queste persone sono state escluse da
un circuito di vita regolare, dalla possibilità
di trovare un lavoro, un appartamento
o un percorso formativo. Il problema non
viene affrontato alla radice e si ragiona solo
nella logica di misure emergenziali. Qualsiasi
governo che agisca razionalmente e con buon
senso dovrebbe capire che investire in accoglienza
significa investire in sicurezza, perché
si toglierebbero da situazioni estreme e di
povertà persone già vulnerabili e disperate
per il viaggio traumatico che hanno affrontato.
Recentemente abbiamo avuto il piacere
di intervistare Michele Lapini (link all’intervista
a Lapini), un fotografo freelance che
ci ha raccontato le condizioni drammatiche
e le violenze che subisce chi tenta il ‘Game’
in Bosnia. Siete attivi anche lungo le frontiere
Italiane ed Europee?
Ti ringrazio per la domanda perché questo
tema è molto legato all’attività di Baobab
Experience in quanto, occupandoci di migranti
in transito, abbiamo molto focalizzato i nostri
sforzi su quelli che poi in Europa, e verso l’Europa,
sono stati i transiti di migranti. È un anno
e mezzo che facciamo missioni in Bosnia e
stiamo anche mettendo in piedi un progetto
molto grosso a Ventimiglia, dove fino a due
settimane fa c’erano 50 migranti e oggi ce
ne sono 300. Noi lo sappiamo bene anche
perché spesso partono da Roma provenendo
dal sud del paese. Va detto che a Ventimiglia
si incontra la rotta mediterranea con la rotta
balcanica, ovvero le persone che tentano il
Game in Bosnia e Croazia, per poi attraversare
la Slovenia ed entrare nel territorio italiano
tagliando da oriente ad occidente il settentrione
del nostro paese per poi provare ad
entrare in Francia e raggiungere il nord Europa.
Qual è la situazione attuale al vostro presidio
dietro la stazione Tiburtina?
Ora ci sono circa 120 persone, ma dipende…
c’è il giorno che ne arrivano 40 e ne partono
20. Diciamo che i numeri oscillano tra 70 ai 130.
Devo dire che in questo periodo di pandemia
il nostro lavoro è stato più duro, intanto perché
abbiamo voluto continuare a non far mancare
niente a queste persone e siamo stati quindi
esposti al rischio di contagio, e poi per la difficoltà
di muoversi e fare missioni all’estero. In
più il Covid, come abbiamo visto, colpisce
le fasce più deboli e non protette, anche se
fortunatamente noi abbiamo avuto pochissimi
casi. Però ecco diventa tutto più difficile,
anche con gli arrivi, in quanto sappiamo che
quando li comunichiamo, facendo sapere a
chi di dovere che sono arrivate persone, nei
(pochi) casi in cui accettano qualcuno bisogna
assicurare un periodo di quarantena, test e via
dicendo. Diciamo che è una difficoltà in più
scaricata su chi fa tutto ciò come volontario.
La mia impressione è che la narrazione sui
migranti sia fitta di stereotipi e generalizzazioni,
senza riportare la complessità delle
diverse situazioni e trattando i migranti
come un grande gruppo omogeneo, attribuendogli
spesso connotazioni negative.
Cosa ne pensi?
Noi l’abbiamo sempre detto, la percezione
che si ha in Italia e anche in Europa delle
migrazioni è dovuta alla narrazione che se ne
fa, ed è una narrazione assolutamente dopata.
Tu puoi fare mille ricerche sociologiche, ma
i migranti non sono un’entità astratta, sono
persone che scappano da delle situazioni,
se noi continuiamo a considerarli dei numeri,
confrontando gli arrivi di quest’anno con l’anno
scorso, producendo diagrammi e proiezioni,
non ne usciamo. I migranti sono persone, con
nomi, cognomi, sogni, pregi e difetti. A chi
porta avanti la narrazione dei migranti come
malintenzionati non bisogna rispondere che i
migranti son tutti buoni, i migranti sono cattivi
e sono buoni. C’è di tutto, come in Italia e in
ogni altro paese del mondo. Non è che c’è
una percentuale più alta di imbroglioni, ladri
o criminali rispetto ad altri gruppi. Dobbiamo
ricominciare a considerarli persone uscendo
da stereotipi tendenzialmente negativi, ma
pure dallo stereotipo dei migranti tutti buoni
e carini. Se non si fa questo non se ne esce e
ci si ritrova a parlare dei migranti esattamente
come si parla delle periferie, ci sogno gli angeli
e i demoni, non è così, né nelle periferie né tra
i migranti. Dobbiamo essere capaci di ribaltare
questo tipo di narrazione. L’agenda politica
e la narrazione sui migranti ce la siamo
fatti dettare dal populismo, dalla demagogia,
e ora siamo costretti a rincorrere, a giustificarci
quasi. Dobbiamo fare lo sforzo di comprendere
un fenomeno, partendo dal capire chi
abbiamo davanti. Ci si trova di fronte ragazzi
che studiavano all’università nei loro paesi e
che interrompono il loro percorso per anni.
Così si buttano via cervelli e risorse facendole
rimanere in un limbo, magari in Libia o
sotto il giogo dei trafficanti.
Pensi sia possibile mettere a sistema
diverse lotte, penso per esempio al femminismo,
ai movimenti ambientalisti, al diritto
alla casa e ai diritti dei migranti, tramite una
visione di insieme che accomuni le diverse
istanze?
Mi fa piacere che proprio oggi mi fai questa
domanda perché proprio oggi abbiamo festeggiato
la vittoria dei riders di JustEat che hanno
conquistato il contratto, la tredicesima e gli
straordinari. L’abbiamo festeggiato come
abbiamo festeggiato l’abolizione dei decreti
#Area Gramsci
86 #palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa
#palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa
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#Area Gramsci
Salvini. Un altro esempio può essere la lotta
per la casa, che in questa città vede i migranti,
o meglio ex-migranti, visto che vivono qui
da anni ormai, come assoluti protagonisti.
Chiaramente sono loro adesso in quelle fasce
che più devono darsi da fare per lottare per
avere una casa. Questo è solo un esempio per
farti capire come queste lotte siano intrecciate,
e probabilmente ci si deve sforzare di più per
far comunicare meglio queste diverse istanze
in maniera sinergica, cosa che non tutti hanno
ancora capito bene. A mio parere la lotta per
i diritti dei migranti è sicuramente centrale
perché intorno ad essa si potrebbero unire e
ritrovare tante lotte apparentemente distanti.
Noto un divario sempre più ampio tra i
problemi affrontati dai soggetti che sono
presenti e calati nel territorio, come Baobab
Experience, e l’agenda politica istituzionale.
Secondo te cosa possono fare i soggetti
attivi sul territorio per colmare questo divario?
È necessario scendano loro stessi in
politica?
Intanto è una domanda molto interessante
e da un milione di dollari. Io posso dirti che
quello che sono riuscito a fare in questi sei anni
di coordinatore di Baobab nella mia esperienza
precedente in politica non l’avevo mai fatto,
ma anche perché la politica non mi avrebbe
mai lasciato quello spazio. Io mi auguro che le
nostre istanze possano essere rappresentate
nuovamente. Questo non significa che devi
mettere in lista uno che si occupa di immigrazione,
uno di verde e via dicendo, ma che si
devono creare delle liste che sappiano rappresentare
il quartiere, o la città, e le sue contraddizioni.
Detto ciò, noi come Baobab collaboriamo
spesso con persone che coprono cariche
politiche. Ti posso fare l’esempio dell’amico
ed europarlamentare Pietro Bertone, il
medico di Lampedusa che ha salvato centinaia
di persone in mare. Con lui abbiamo
collaborato diverse volte e lo abbiamo anche
stimolato a fare una missione in Bosnia. Quello
che la società civile può fare è questo, stimolare
la classe politica. Intanto cominciamo con
quello, poi vediamo.
#Area Gramsci
Fonti:
Foto prese dal profilo Facebook di Baobab Experience
88
#palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa
Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi
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Scritto da Luca Speziale
#Area Gramsci
Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo
La storia di
Mohamed Bouazizi
La reazione di singoli esseri umani all’efferata e incontrastata ferocia del mondo ha determinato la
caduta di regimi, l’inclinazione dei mercati internazionali, crisi di valori e una serie di effetti e fenomeni
macroscopici.
#Area Gramsci
Può il battito delle ali di una farfalla in Brasile
scatenare un tornado in Texas? era il titolo
di un articolo con il quale il matematico
Edward Lorenz si presentava al centotrentanovesimo
meeting dell’American Association
for the Advancement of Sciences nel 1972.
L’illustre matematico è ricordato per essere il
creatore della Teoria del caos e del famoso
Effetto farfalla, ovvero la nozione secondo
la quale variazioni minuscole nelle condizioni
iniziali di un sistema complesso producono
effetti molto più grandi a lungo termine.
Piccole azioni apparentemente insignificanti
creano reazioni dagli effetti giganteschi e
incontrollati: ovviamente, Lorenz applicava la
sua teoria ai fenomeni scientifici come il meteo
o la statistica, ma è evidente invece come
questo effetto farfalla abbia avuto conseguenze
ben più note nella storia umana e, si
potrebbe dire, anche nella quotidianità stessa.
Si pensi a quando un monaco inchiodò al
portone di una chiesa di Wittenberg un
foglietto con alcuni enunciati e il cuore
dell’Europa bruciò come non mai; oppure a
quando una sarta afroamericana rimase seduta
al suo posto su un autobus a Montgomery
non cedendolo a un passeggero bianco; a
quando un manipolo di giovani coloni buttò
in segno di protesta delle casse di tè; si pensi
anche a quella marcia durata settimane terminata
con un pugno di sale nelle mani di un
giovane indiano.
La storia dell’umanità è piena di eventi microscopici,
apparentemente privi di significato,
eppure catalizzatori di cambiamenti storici.
La reazione di singoli esseri umani all’efferata
e incontrastata ferocia del mondo ha determinato
la caduta di regimi, l’inclinazione dei
mercati internazionali, crisi di valori e una
serie di effetti e fenomeni macroscopici. Un
vero e proprio tornado causato dal battito di
ali di piccole farfalle.
Una di queste storie è quella di Tarek el-Tayeb
Mohamed Bouazizi, conosciuto più semplicemente
come Mohamed Bouazizi. Il 4 gennaio
2021 è stato il decimo anniversario della morte
90 Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi
Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi
91
nuovamente teatro di manifestazioni dovute
all’aggravarsi della situazione socio-economica
e all’epidemia mondiale di Covid-19.
Oggi va ricordato, va ricordata la sua reazione, il
suo coraggio e la sua disperazione, un binomio
che molto spesso accompagna la reazione al
cambiamento e forse una delle vere costanti
che andrebbe inserita all’interno della funzione
della Teoria del caos e dell’Effetto farfalla
così da capire realmente com’è possibile che
azioni tanto piccole cambino il mondo intero.
#Area Gramsci
Fonti
Osman El Sharnoubi, Martyr’ Muhammad Bouazizi’s Birthday remembered on Twitter, Ahman
Online, 29/03/2011
American Association for the Advancement of Sciences
Mohamed Bouazizi, Channel 4
Remembering Mohamed Bouazizi, Al Jazeera
Proteste in Tunisia
#Area Gramsci
di Mohamed, un uomo che ha contribuito a
cambiare la storia di questo secolo.
Mohamed Bouazizi era un venditore di frutta
e verdura nelle strade della Tunisia, veniva
da una famiglia di umili origini e conobbe in
prima persona la brutalità del mondo, in particolare
quella del mondo tunisino.
La storia è semplice: tutte le mattine il ragazzo,
per mantenere la famiglia, spingeva la sua
carriola di verdure comprate per rivenderle.
Un giorno la polizia gli sequestra la merce e le
bilance (forse chiesero dei soldi che Mohamed
rifiutò di dare), e dopo aver discusso in municipio
con altri funzionari, non ricevette indietro
la sua merce. Così Mohamed, dopo una
vita passata in balia della brutalità e della
corruzione di questo mondo, comprò della
benzina e si diede fuoco dinanzi al municipio.
Potreste pensare: «beh… uno dei tanti», e
avreste anche ragione, se non fosse che con
l’immolazione di Mohamed Bouazizi il mondo
cambiò. Il gesto dell’umile fruttivendolo colpì
allo stomaco la gente in Tunisia e di lì a poco
scoppiarono le manifestazioni del gennaio
2011, quelle che passarono alla storia come
la Rivoluzione dei gelsomini. Queste manifestazioni
avrebbero portato alla primavera
araba, alla caduta o alla mutazione dei regimi
in nord Africa, alla caduta di Gheddafi e al
fenomeno delle attuali migrazioni, le fluttuazioni
del mercato petrolifero e la riorganizzazione
dell’economia del nord Africa e nella
penisola arabica.
Non sappiamo se Mohamed Bouazizi, Martin
Lutero, Rosa Parks, Mahatma Gandhi e gli
altri artefici della Storia immaginassero a
cosa avrebbe portato il loro ergersi, più o
meno consciamente, dinanzi alle ingiustizie
del mondo; non sappiamo se si aspettassero
questi risultati, però ci sono stati, e ancora oggi
permangono nella Storia. Un fruttivendolo,
un prete, una sarta, un gruppo di coloni, uno
studioso, persone comuni che hanno deciso
di reagire, spesso pagando per le loro azioni.
L’ultima parte della storia di Mohamed, infatti,
non è un lieto fine: il giovane venditore morì
il 4 gennaio 2011 all’ospedale di Ben Arous
con ustioni gravi su oltre il 90% del corpo; inoltre,
a dieci anni dalla sua morte, la Tunisia è
92 Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi
Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi
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Scritto da Meron Shawel
#Area Gramsci
Minoranze: le conseguenze del
non appartenere
La non appartenenza è la dimensione centrale del disagio vissuto dagli individui parte di una minoranza.
In questa analisi vediamo come la speranza di un miglioramento della condizione delle minoranze
passi necessariamente dalla presa di coscienza delle dinamiche di oppressione e da una reazione
collettiva, contro la discriminazione passiva e interiorizzata.
[In collaborazione con Francesca Puntillo, dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche]
Non si può risolvere il disagio delle minoranze
se prima non si comprende in che modo il loro
naturale bisogno di appartenere viene leso.
abbandonati o come la richiesta di non esprimere
la propria identità, nasconderla in nome
del mantenimento di una pace fittizia.
#Area Gramsci
L’appartenenza è fondamentale per l’uomo:
significa sentirsi inclusi e apprezzati per il
proprio valore individuale in un determinato
contesto. Quando si appartiene si viene accettati
nel pieno della propria identità, qualunque
essa sia, e ci si sente liberi di esprimerla.
Significa non sentirsi soli, poter partecipare
attivamente come membro della propria
comunità, sentirsi connessi a tutti gli altri.
Franz Fanon, nel suo saggio di psicoanalisi
Pelle nera, maschere bianche (1952), analizza
con precisione tali meccanismi nel caso
dell’uomo di colore, comunque applicabili a
tutte le minoranze.
Chi fa parte di una minoranza può andare
incontro al sentimento di non appartenenza
in due contesti: quello familiare e quello
sociale. In quello familiare l’esclusione si
presenta come il non essere accettati, l’essere
Nell’ambito sociale, invece, si parla di discriminazione
sistematica, pregiudizi che vengono
portati avanti a livello collettivo – talvolta
apertamente, talvolta in modo più subdolo
–, bullismo, assenza del riconoscimento di
pari diritti, e nel peggiore dei casi persecuzione
e violenza nei confronti della minoranza
in questione. Quindi, mentre nel primo caso
si ha a che fare con dinamiche che coinvolgono
individui all’interno di nuclei familiari, nel
secondo tali dinamiche avvengono a livello
collettivo e possono coinvolgere gli organi
dello Stato. Naturalmente i due ambiti non
sono affatto separati: se non vi fosse pregiudizio
a livello sociale e sistemico, difficilmente
ne esisterebbe uno a livello familiare.
Prendiamo il caso della comunità LGBTQ+:
i suoi membri sperimentano molto spesso
un esplicito rifiuto in entrambi gli ambienti.
L’allontanamento dalla propria famiglia da una
94
Minoranze: le conseguenze del non appartenere
Minoranze: le conseguenze del non appartenere 95
costo di una penosa esclusione. Egli si sente
cronicamente ‘di troppo’, ‘l’Altro’, e non sa dare
valore alla propria identità perché nessun altro
sembra averlo mai fatto. La sua vita, attraversata
da tale sentimento di non valore, è uno
sforzo per ottenere quell’accoglienza che gli
è stata negata attraverso la conformità. Così,
per paura di venire nuovamente abbandonato,
egli abbandona se stesso.
presa di coscienza della propria ‘diversità’,
con la pretesa che essa venga rispettata e
accolta. Questa è una reazione non solo più
sana, ma anche più utile al fine del concreto
raggiungimento del proprio benessere. Anzi,
si può dire che mentre la prima descritta
sia una non-reazione (poiché caratterizzata
dalla passività), questa sia una reazione vera
e propria.
#Area Gramsci
#Area Gramsci
parte e il trattamento ricevuto dalla società
dall’altra non fanno altro che ricordare loro
che ciò che sono non è che una devianza,
qualcosa di ‘diverso’ dal ‘normale’, una stranezza
o persino il sintomo di una patologia.
Di recente, nelle direttive per le vaccinazioni
anti-Covid rilasciate dall’Asl 5 di La Spezia si
leggeva fra i soggetti considerati ‘con comportamenti
a rischio’ «omosessuali, tossicodipendenti
e soggetti dediti alla prostituzione».
La Regione Liguria, dopo le polemiche sollevate
in particolare dalla menzione ingiustificata
degli omosessuali, si è scusata e ha poi
dichiarato che tali linee guida fossero state
riprese direttamente da quelle del Ministero
della Salute. Se già era grave che ciò fosse
emerso a livello regionale, è ancora più preoccupante
che all’origine del problema vi fossero
direttive nazionali. Il copia-incolla acritico
che sarebbe stato alla base di questo errore
è il sintomo di pregiudizi che ancora resistono
anche fra i membri delle istituzioni; è
semplicemente inaccettabile che in documenti
ufficiali si parli di comportamenti a rischio in
relazione ad un orientamento sessuale che
nulla ha a che fare con l’effettivo stile di vita
di un individuo.
Dunque, riprendendo l’analisi sulla natura
della non appartenenza, il risultato che si
ottiene è un sentimento di solitudine, isolamento
e soprattutto abbandono. Si finisce
così per avvertire la propria identità come
non apprezzata, non pienamente valida, e
di conseguenza non ci si sente sicuri nell’esprimerla.
Ci si domanda quindi: qual è la
reazione di un individuo quando il suo bisogno
di appartenere viene negato?
Fanon si sofferma nell’analizzare l’influenza
che la condizione di abbandono ha su un individuo,
e su come gli impedisca di esprimersi
autenticamente. Non essendosi mai sentito
accolto per quello che è, ‘l’abbandonico’
non crede di poter essere se stesso se non a
Passivizzandosi, si fanno propri inconsciamente
tutti quei giudizi per cui si è sofferto, e
si finisce per partecipare anche direttamente
alla propria stessa oppressione.
Si pensi a quanto è comune vedere donne
fare victim-blaming (colpevolizzazione della
vittima) nei confronti di altre donne che hanno
subìto una violenza sessuale, spostando sulla
vittima la responsabilità dell’esperienza traumatica
vissuta; è evidente che per una donna
sia controproducente rinforzare quella stessa
mentalità che non le permette di sentirsi al
sicuro nel camminare da sola per strada. Ma
d’altronde come si può difendere il proprio
valore – in questo caso di donna – se semplicemente
non lo si conosce?
Fanon intende proprio questo quando,
parlando della liberazione dell’uomo di colore,
insiste su come questa debba significare
innanzitutto liberazione da se stesso, smettendo
di essere «schiavo dei propri archetipi»;
è necessario che si rigettino tutti i pregiudizi
che si sono interiorizzati o che ci si è arresi a
credere veri pur di sentire meno la sofferenza
del sentimento di appartenenza negato.
Le lotte per l’affermazione dei diritti delle
minoranze non sono affatto espressione di
questo atteggiamento passivo, ma anzi di un
giustificato risentimento che spinge a farsi attivamente
partecipi della propria liberazione.
Di contro, in questa ‘seconda fase’, poiché si
è imparato a conoscere il proprio valore, si è
anche in grado di provare una legittima rabbia
verso chi lo ha ignorato.
Dunque, in opposizione allo sforzo di conformarsi
per ottenere l’accettazione, vi è la piena
Non è certamente scontato che un individuo
riesca a maturare fin da subito la coscienza
del valore della propria identità e a difenderla
in un ambiente ostile, ma nel momento in cui
ci riesce può finalmente mettersi in contatto
con i membri della propria stessa minoranza
o di altre minoranze (intersezionalità) e coniugare
lo sforzo di cambiare lo status quo. Solo
con la nascita di questa coscienza prima
individuale e poi collettiva sono pensabili i
processi di liberazione.
Una liberazione che avviene per ‘gentile e
spontanea concessione’ della maggioranza,
infatti, non è sufficiente, perché non è il risultato
di una reale dialettica: essa sarà avvenuta
attraverso le stesse dinamiche di potere
che pongono le minoranze in una posizione
di soggezione e dipendenza.
Il tema dell’appartenenza aiuta a leggere e
comprendere in modo più profondo la natura
delle lotte e del malcontento espresso dalle
minoranze, poiché ne costituisce il punto
centrale.
Il gay pride non è – come spesso si sente
dire – un semplice show, un’inutile spettacolarizzazione
della realtà queer: esso è, al
contrario, una reazione diretta all’oppressione.
Difendere l’orgoglio gay significa respingere
la mentalità per cui essere gay dovrebbe
essere motivo di vergogna. Analogamente,
mostrare apertamente le identità queer in
tutte le loro sfaccettature è la reazione ad
una realtà che suggerisce di nasconderle o
che le ignora. Insomma: finché ci si continuerà
a lamentare del gay pride se ne continuerà
anche a confermare la necessità.
Allo stesso modo, lo slogan Black Lives Matter
96 Minoranze: le conseguenze del non appartenere
Minoranze: le conseguenze del non appartenere
97
non è che la risposta ad una realtà che sembra
affermare il contrario e, se ci si chiede perché
le proteste contro il razzismo siano sfociate
talvolta in violenza e caos, la risposta è ancora
una volta da cercarsi nell’esasperazione del
non appartenere e del non sentirsi al sicuro.
Pur non essendo questa una giustificazione
all’uso della violenza, è certamente una chiave
di lettura della realtà.
Impossibile esaurire in questa sede tutto ciò
che ci sarebbe da dire sul tema delle minoranze:
si è cercato di mettere in luce come
un concreto miglioramento della condizione
delle minoranze passi necessariamente da
una loro netta presa di coscienza delle dinamiche
di oppressione e da un’attiva reazione a
queste ultime. Come visto, limitarsi a sperare
in un futuro migliore è ancora sintomo di un
atteggiamento passivo che contribuisce ben
poco a modificare nella sostanza il presente.
Come più efficacemente espresso da Fanon:
Ogni problema umano richiede di essere
considerato a partire dal tempo. Ma se la libertà
consiste nel non farsi vittima del passato al fine
di poter costruire un avvenire, è solo nel presente
che questa libertà può esercitarsi, e/o questo
avvenire rischia di perdere ogni significato
reale nel momento in cui cessa di essere a
misura di un’esistenza umana. Il postulare una
salvezza futura delle minoranze o in generale
dell’umanità non apporta alcun rimedio alle
disgrazie che essi vivono nel presente.
Pertanto, diventa vitale la ricostruzione di
una nuova prospettiva in cui vengano riscritti
i fondamenti, muovendo dall’interrogazione
sull’umano e sull’uomo in relazione con gli
altri. Solo in questo modo è possibile pensare
ai processi di liberazione.
#Area Gramsci
Fonti:
Marco Lignana Matteo Macor, ‘Omosessualità comportamento a rischio Covid’. L’incredibile
documento è del Ministero della Salute e non della Asl di Spezia, «La Repubblica», 11/02/2021
Fanon F., Pelle nera, maschere bianche, Edizione ETS, 2015.
#Area Gramsci
98 Minoranze: le conseguenze del non appartenere
Minoranze: le conseguenze del non appartenere
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Reazione fisica
Gabriele
Conte
Riemergi, galleggi, reagisci.
Ma cosa ti salva dalla possibile rapina del
nulla? Perché dopotutto, dopo tutto quello che
hai passato, la spinta che il mondo può darti
sarà sempre uguale a quanta forza ti darai per
emergere. Prendi la rincorsa, raccogli il coraggio.
La tua forza è quella dei gesti leggeri,
ma grandi. E non sai quanta acqua riuscirai a
spostare.
Giovane Concept Artist italiano,nasce a
Palermo e affronta un percorso di studi che si
conclude con una laurea biennale, nel 2014,
in scenografia all'Accademia di Belle Arti di
Bologna, dove vive e lavora come concept
artist/illustratore freelance.
Reazione Reaction
Social, foto, like. Ma quanti sono? Anche se non
riesci a liberarti dal migliore degli amici, anche
se riconosci le catene della #reaction, come
reagisci alla vista del cuore ? Io, come te, sono
dipendente dalla dose quotidiana della sola
insulina che calma il mio mare. Post, tap, like.
La paranoia del doppio tocco.
Reazione emotiva
Reazione, reagire, rivivere.
Cosa porta i tuoi occhi al di là della sofferenza?
Come riesci a superare la delusione? Cosa
resta di tutta quella sete?
La rinascita, la primavera, i fiori che sbocciano.
Il mondo è nelle tue mani, ricordalo. Riscattati,
dibattiti, reagisci. Ché alla fine del tunnel arriva
sempre un bel panorama, e al di là della linea
dell’orizzonte c’è ancora luce
Reazione chimica
Subisci, reagisci, ma come riesce un corpo a
reagire a tutto?Il tuo “ormone del buonumore”
sarà il ritrovare gli altri quando tutto sarà finito.
Intanto fermenti, scalci, vuoi uscire.
La boccia è troppo stretta e tu sei ancora in
formazione, in carica. Ti hanno detto di cibarti
di tutto ma tu hai deciso di reagire alla tempesta
con una tazza di serotonina calda, che gusti
in attesa del risveglio nel mondo.
Reazione Natura
Erba che ricresce, che reagisce. Rigermina da
se stessa nonostante tutto. E noi? Qualsiasi
cosa accada e nonostante tutto, il rizoma della
mia pianta è l’invisibile alla vita che il sottoterra
nasconde.
La Natura è parte di noi e anche nei momenti
devastanti apparteniamo ai suoi frangenti. La
società arborescente canta e suona l’arrivo di
nuove genti.
100 #ProgettoGrafico: Gabriele Conte
#ProgettoGrafico: Gabriele Conte
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