Antologia su Alba de Céspedes
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Antologia di Ciclomaggio
17 maggio 2022
ALBA DE
CÉSPEDES
Ciclomaggio è un'iniziativa organizzata da un gruppo
di studenti dell’Università di Siena per promuovere la
conoscenza e l’approfondimento di un autore della
contemporaneità italiana attraverso un approccio
multidisciplinare.
Per l'anno 2022, il direttivo è composto da Clara,
Luca, Maddalena, Maria Laura, Marta e Serena.
Ringraziamo per la partecipazione all'evento del
17/05/2022 l'associazione Non una di meno, la
radio degli studenti universitari di Siena uRadio e il
sindacato universitario Link Siena.
Inoltre ringraziamo il presidio e la biblioteca
umanistica di Fieravecchia per averci fornito la
strumentazione e averci permesso di tenere nei loro
spazi il primo evento in presenza di Ciclomaggio
2022.
I N D I C E
P A R T E I
D A L L A P A R T E D I L E I
4 Presentazione
5 Un passo dopo l'altro
31 Presentazione
P A R T E I I
Q U A D E R N O P R O I B I T O
33 Introduzione
35 Mirella e Valeria
44 Clara, Michele e Valeria
53 Guido e Valeria
70 Conclusione
P A R T E I
D A L L A P A R T E D I L E I
“ «Sono stanche» essi dicevano senza
indagare mai sui motivi di quella
stanchezza. Tutt’al più pensavano: “Sono
donne”; ma nessuno di loro si domandava
che cosa l’essere donna rappresentasse. E
nessuno intuiva che ogni gesto, ogni
abnegazione, ogni eroismo femminile
rispondeva a un segreto desiderio
d’amore.”
Pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1949, Dalla
P R E S E N T A Z I O N E
parte di lei è uno tra i più importanti romanzi dell'autrice.
Quella che de Céspedes stessa definì "la storia di un grande
amore e di un delitto" ha per protagonista Alessandra
Corteggiani, una giovane romana che racconta come una lunga
memoria la sua vita, dall'infanzia alla sua reclusione in una casa
di pena.
Attraverso profonde riflessioni sulla natura femminile e sui suoi
contrasti con quella dell'altro sesso, Dalla parte di lei unisce
narrazione e critica sociale in un connubio avvincente e allo
stesso tempo molto attuale.
Per questi motivi, noi di Ciclomaggio abbiamo selezionato per voi
alcuni passi di questa immensa opera, sperando che la loro
lettura possa immergervi nel pensiero di de Céspedes e spingervi
ad approfondire la conoscenza di questa autrice poco conosciuta,
ma di grande rilevanza per il panorama artistico-culturale del
Personaggi
Novento italiano.
Alessandra Corteggiani - protagonista e voce
narrante
Fulvia - vicina di casa e migliore amica di Alessandra
Maddalena, Aida e Rita - amiche di Alessandra e
Fulvia
Ariberto - padre
Sista - la serva di casa Corteggiani
Clarice - zia di Alessandra
Francesco Minelli - marito di Alessandra
Tomaso - compagno partigiano di Francesco
Denise - compagna partigiana di Francesco
4
U N P A S S O D O P O L ' A L T R O
Incontrai per la prima volta Francesco Minelli a Roma, il venti
ottobre del mille novecento quarantuno. Io stavo allora
preparando la tesi di laurea e mio padre, da un anno, era
divenuto quasi cieco a causa di una cateratta. Abitavamo in uno
dei nuovi casamenti sul Lungotevere Flaminio, dove avevamo
preso alloggio subito dopo la morte di mia madre. Io potevo
considerarmi figlia unica sebbene, prima della mia nascita, un
mio fratello avesse avuto il tempo di venire al mondo, rivelarsi
un fanciullo prodigioso e morire annegato a tre anni. Di lui si
vedevano, in casa, molte fotografie nelle quali la sua nudità era
appena difesa da una camiciola bianca che scivolava sulle spalle
rotonde; era anche ritratto bocconi sopra una pelle d’orso ma mia
madre, fra tutte, ne prediligeva una piccola che lo mostrava in
piedi, con una mano tesa verso la tastiera del pianoforte. Ella
sosteneva che, se fosse vissuto, sarebbe stato un grande
compositore come Mozart. Si chiamava Alessandro e quando io
nacqui, pochi mesi dopo la sua morte, mi venne imposto il nome
di Alessandra per rinnovare la sua memoria e nella speranza che
in me si manifestassero alcune di quelle virtù che avevano
lasciato di lui un inestinguibile ricordo. Questo legame al piccolo
fratello defunto pesò moltissimo sui primi anni della mia infanzia.
Non riuscivo mai a liberarmene: quando mi si rimproverava era
per farmi notare che avevo tradito, nonostante il mio nome, le
speranze che mi erano state affidate; né si tralasciava di
aggiungere che Alessandro mai avrebbe osato agire in tal modo;
e finanche quando meritavo un buon voto a scuola, o davo prova
di diligenza e lealtà, mi si toglieva metà del merito insinuando
che fosse Alessandro ad esprimersi attraverso me.
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Quest’abolizione della mia personalità mi fece crescere forastica e
taciturna e, più tardi, io scambiai per fiducia nelle mie doti ciò
che era soltanto l’affievolirsi del ricordo di Alessandro nei nostri
genitori. Tuttavia alla spirituale presenza di mio fratello, col
quale mia madre comunicava per mezzo di un tavolino a tre
gambe e con l’aiuto di una medium chiamata Ottavia, io
attribuivo un malefico potere. Non dubitavo che egli si fosse
stabilito in me, ma al contrario di quanto i miei genitori
sostenevano solo per suggerirmi azioni riprovevoli, cattivi
pensieri, malsane voglie. Perciò mi abbandonavo ad essi,
giudicando inutile combatterli. Alessandro rappresentava,
insomma, ciò che per altre bambine della mia età era il diavolo o
lo spirito maligno. “Eccolo” pensavo, “è lui che comanda.”
Credevo che potesse impadronirsi di me come del tavolino.
Ma il casamento, all’esterno abbandonato e triste, respirava
attraverso il suo grande cortile come attraverso un generoso
polmone. Strette logge dalle ringhiere rugginose passavano
davanti alle finestre interne rivelando, nel loro assetto, la
condizione e l’età dei pigionanti. Alcuni vi ammucchiavano mobili
vecchi, altri stie di polli, o giocattoli. La nostra era adorna di
piante. Nel cortile le donne vivevano a loro agio, con la
dimestichezza che lega coloro che abitano un collegio o un
reclusorio. Ma tale confidenza, piuttosto che dal tetto comune,
nasceva dal fatto di conoscere reciprocamente la faticosa vita che
conducevano: attraverso le difficoltà, le rinunce, le abitudini,
un’affettuosa indulgenza le legava, a loro stessa insaputa.
Lontane dagli sguardi maschili, si mostravano veramente quali
erano, senza la necessità di portare avanti una gravosa
commedia. Il primo sbattere delle imposte era il segno d’avvìo
alla giornata, come la campanella in un convento di monache.
6
Tutte, rassegnate, accettavano, col nascere di un nuovo giorno, il
peso di nuove fatiche: si davano pace considerando che ogni loro
gesto quotidiano era appoggiato a un altro gesto simile compiuto,
al piano di sotto, da un’altra donna ravvolta in un’altra sbiadita
vestaglia. Nessuna avrebbe osato arrestarsi, per tema di
arrestare il moto di un preciso ingranaggio. E, anzi, in tutto ciò
che faceva parte della loro vita casalinga inconsapevolmente
avvertivano la presenza di un modesto valore poetico. Una
cordicella che correva da una loggia all’altra per meglio stendere
i panni era simile a una mano che si tendesse premurosa; cestini
saltellavano da un piano all’altro soccorrendo, con un utensile
prestato, un’improvvisa necessità. Tuttavia, nel corso della
mattinata le donne parlavano poco tra loro: talvolta, nei momenti
di pausa, qualcuna veniva ad appoggiarsi alla ringhiera e
guardava il cielo dicendo: «Che bel sole, oggi». [...] In estate,
spesso, dopo cena, anche gli uomini sedevano sulle logge, in
maniche di camicia o in pigiama addirittura: nel buio si vedevano
palpitare le rosse lucciole delle sigarette. Ma le donne si dicevano
appena «Buonasera», e la loro voce era diversa. Qualche volta
parlavano delle malattie dei bambini. Tutti perciò, tediati,
rientravano presto, chiudendo le imposte, e fra le logge si
scavava un grande vuoto nero. Mia madre appariva raramente
nel cortile e solo, come ho detto, per annaffiare i fiori. Questa
riservatezza che indispettiva le inquiline, le valeva però la loro
ammirazione. Così la nostra famiglia, sebbene poverissima,
godeva di una considerazione speciale a causa della gentile
bellezza, del portamento elegante di mia madre, e del suo umore
sempre lieve e sereno. Non mancavano nel palazzo donne
graziose e disinvolte; alcune avevano anche un po’ di cultura,
perché prima di sposarsi erano state maestre o impiegate in un
ufficio. Però mia madre non scambiava con loro che un rapido
buongiorno o un fuggevole commento sul tempo o sul mercato.
La sola eccezione era costituita da una signora che abitava al
piano di sopra e che si chiamava Lydia.
7
La mamma mi conduceva spesso in casa di questa signora perché
giocassi con Fulvia, la figliuola di lei: ci lasciavano sole nella
camera della bambina, sempre ingombra di giuochi, o in un
terrazzino interno che serviva anche da ripostiglio.
Di uomini si parlava spesso in casa di Fulvia. Dirò, anzi, che
raramente si parlava d’altro. Verso sera, soprattutto in
primavera e in estate, parecchie ragazze si riunivano da lei sul
terrazzino che ella usava al modo di salotto. Alcune di queste
ragazze abitavano lo stesso casamento, altre erano compagne di
scuola o vicine. Fulvia costituiva il centro di quelle riunioni: ella
aveva un forte potere su queste sue coetanee, le quali, al pari di
me, andavano lì per ubbidirle. Spesso le trattava duramente, le
comandava addirittura: «Va’ a prendermi un bicchiere d’acqua in
cucina». Oppure diceva: «Adesso ho fame, mangio» e, con una
indelicatezza che mi faceva arrossire, addentava pane condito
con l’olio, o un bel frutto, davanti agli occhi cupidi delle altre.
[...] Spesso Fulvia leggeva ad alta voce le lettere di Dario o
qualche biglietto che i compagni le facevano trovare fra i
quaderni. Una sua compagna, di nome Rita, diceva che perfino il
maestro, un uomo di trent’anni, era innamorato di Fulvia. «Sì, e
poi mi dà sei…» replicava Fulvia. «Ma dovrebbe darti zero.» Noi
ridevamo sapendo che era vero. Maddalena, una bionda morbida
e rosea la quale frequentava la stessa classe, sosteneva che anche
suo fratello si era innamorato di Fulvia. E assicurava che
Giovanni, da allora, era divenuto un fratello premurosissimo.
«Viene persino a prendermi all’uscita» diceva ridendo. Si capiva
che sarebbe stata felice di sapere Giovanni fidanzato con Fulvia
(si usava allora tra noi la parola “fidanzamento” per qualsiasi
amoretto della nostra età), forse egli si era addirittura rivolto a
lei perché fungesse da abile intermediaria ed ella scopriva un
piccante sapore in questo compito.
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«Vieni con me domani a Villa Borghese, ci sarà Giovanni. Poi
quando si fa buio vi lascio soli su una panchina.» «Vacci» le altre
la incitavano: «vacci, Fulvia» ed era come se tutte fossero
nell’ombra della villa, in attesa. Io la guardavo, seria: avrei
voluto trattenerla pel braccio. «Non mi piace, tuo fratello» Fulvia
rispondeva. «Mi chiama signorina. Dev’essere uno stupido» le
ripeteva spesso, per umiliarla: e Maddalena si ribellava a
quell’insinuazione, quasi il prestigio di tutta la sua famiglia fosse
compromesso dalla facile ironia dell’amica. Un giorno, mentre
eravamo tutte riunite sul terrazzo, Fulvia domandò a Maddalena:
«Non vedo più tuo fratello. Che fa, è entrato in seminario?».
Tutte presero a ridere, a schernirlo. Aida imitò il gesto del prete
e, gettando gli occhi in tralice, finse di miagolare il rosario.
Maddalena le guardò con una sorta di rabbia compressa: «Ridete,
ridete» diceva «ridete. Se sapeste che cosa ho trovato nel
cassetto di mio fratello…». «Che cosa?» domandarono le altre,
subito incuriosite. Maddalena senza rispondere: «Ridete, ridete
pure di Giovanni» ripeteva. «Che cosa hai trovato? Lettere
d’amore di Greta Garbo?» Fulvia domandò sprezzantemente.
«Ho trovato la fotografia di una donna tutta nuda che si
nasconde il viso con le mani. Una donna bellissima.» Vi fu un
silenzio. Le ragazze tacevano e guardavano ammirate
Maddalena, che era in possesso di questo segreto, e poi Fulvia,
che supponevano umiliata e sconfitta.
Ma Fulvia, con un balzo, si levò in piedi. «Più bella di me?» disse,
lasciando cadere la vestaglietta e apparendo nuda sullo sfondo
del grigio serbatoio dell’acqua. Le ragazze ebbero un piccolo
grido e la guardarono. Io distolsi subito gli occhi senza neppure
distinguere le forme del suo corpo e fuggii via. Traversai la
cucina, il buio corridoio. Avevo la mano sul chiavistello quando
Fulvia mi raggiunse. Era ancora nuda, ma aveva stretto a sé la
vestaglietta per coprirsi. Mi piombò addosso, mi costrinse in un
angolo presso la porta di casa. Vedevo il suo viso e le sue spalle
come un confuso biancore. «Mi disprezzi, vero?» ella mi disse
pigiandomisi contro acciocché non scappassi.
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Le forze mi mancavano. «Lasciami» mormorai. «Mi disprezzi,
vero?» ripeteva; e, carezzandomi il viso: «Hai ragione» mormorò.
«Perdonami. Vattene. Va’ via, Alessandra. Vattene.» Mi carezzò
i capelli. Mi baciava teneramente come una sorella minore. Poi
aprì lei stessa la porta, mi spinse fuori. Udii che diceva,
rientrando sul terrazzo: «Quella stupida è già scappata via».
Un uomo, forse, non potrà comprendere come, nel grande
casamento dove abitavamo, tutto si movesse in virtù dell’amore;
neppure gli uomini che vivevano con noi se ne avvedevano. Essi
credevano che l’amore fosse stato per le loro compagne solo una
breve favola, una leggera esaltazione necessaria per procurarsi il
diritto d’essere padrona in una casa, aver figli, e dedicare, poi,
tutta la vita ai problemi del mercato e della cucina. Sì,
effettivamente essi pensavano che l’odore dei cibi, il peso della
sporta sul braccio, i lunghi pazienti rammendi e le lezioni di
asticelle impartite ai bambini, potessero sostituire il romanzo
d’amore che era stato alla radice dei loro incontri. Conoscevano
così poco le donne da credere che quello fosse davvero il disegno
e l’ideale della loro vita. «È una donna frigida» confidavano agli
amici, con un sospiro: «si occupa solamente della casa, dei
figliuoli.» E, attraverso queste facili conclusioni, rifiutavano di
far credito a un problema di cui non volevano accettare l’impegno
e la responsabilità. Tuttavia sarebbe bastato ascoltare i discorsi
che le donne facevano quando erano sole e che troncavano al
sopraggiungere degli uomini, come i bambini all’avvicinarsi dei
genitori; o far caso ai libri posati sul comodino, nelle camere ove,
in molti casi, con loro uno o due bambini dormivano; o notare il
modo che le donne avevano di aprire la finestra dopo cena, con
un lieve sospiro. «Sono stanche» essi dicevano senza indagare
mai sui motivi di quella stanchezza. Tutt’al più pensavano: “Sono
donne”; ma nessuno di loro si domandava che cosa l’essere donna
rappresentasse. E nessuno intuiva che ogni gesto, ogni
desiderio d’amore.
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abnegazione, ogni eroismo femminile rispondeva a un segreto
Talvolta egli [mio padre] mi si avvicinava mentre sedevo nel mio
angolo, presso la finestra. La sua presenza mi disturbava tanto
da farmi assumere un atteggiamento ostile e ribelle. «Che fai?»
egli domandava, interrompendomi nella lettura.
«Non lo vedi?» rispondevo aspramente.
«Già. Di che si tratta?» Malvolentieri gli mostravo il frontespizio.
«Ti piace leggere, eh?» Poi aggiungeva: «Sei come tua madre».
Nel tono della sua voce correva una vena di sottile disprezzo;
sempre assumeva quel tono quando diceva “tua madre” invece di
dire “la mamma”. «E cioè?»
«E cioè non siete come le altre donne alle quali piace andare al
cinematografo, sedere al caffè, e quando sono in casa cuciono,
lavorano, rassettano la casa. Siete principesse.» Si serviva
spesso di questa parola intendendo nel titolo nobiliare riassumere
la pigrizia, l’inerzia, e il gusto per le cose inutili e raffinate.
Fremente di rabbia, io mantenevo tuttavia verso di lui una calma
gelida, per non ammetterlo nell’intimità di un mio risentimento.
«Perché dici questo?» domandavo senza guardarlo, seguitando a
tagliare le pagine del libro: «spendiamo troppo, forse?»
«Oh, no davvero.»
«La casa è in disordine? Non ti piace il vitto?»
«Al contrario.»
«Chiediamo divertimenti e vestiti lussuosi?»
«No, no certamente.»
«E allora?» domandavo alzando finalmente su di lui uno sguardo
carico di repressa antipatia: «E allora?»
«E allora non lo so, ma siete donne diverse dalle altre, te lo dico
io. Forse sarà colpa dei libri. Ma avete qualche cosa, qui, che non
funziona.» Si portava l’indice teso alla tempia fingendo di girare
una vite: quel gesto, che egli ripeteva spesso, aveva il potere di
esasperarmi. Sentivo in me l’impulso di colpirlo coi pugni,
duramente; e invece, con grande sforzo, tornavo ad abbassare gli
occhi sul libro, riprendevo a leggere.
11
Egli rimaneva lì, in poltrona, perché non aveva niente da fare; si
puliva le unghie col mio tagliacarte e intanto mi osservava come
se io fossi stata una persona qualunque, una ragazza seduta
accanto a lui nel tram. Quando mi guardava così, istintivamente
mi veniva fatto di allungare la gonna sui ginocchi. Succedevano
lunghi silenzi imbarazzanti. Poi egli concludeva il lungo esame
della mia persona: «Sei magra» diceva: «alla tua età le ragazze
hanno già il petto.» Arrossivo, come schiaffeggiata, e un
umiliante disagio si diffondeva in me, sotto la pelle: non gli
riconoscevo il diritto di parlarmi di cose tanto intime e del tutto
estranee alla confidenza che un rapporto paterno giustifica. «Sei
come tua madre.»
«Mia madre è una donna bellissima» io protestavo vivacemente.
«Sì» egli rispondeva calmo. «Però non ha petto.» S’alzava,
andava a leggere il giornale, ad ascoltare la radio, e mi lasciava
sconfitta.
Mio padre entrò, subito venne ad affacciarsi in cucina. Non fece
alcuna domanda, ma volse lo sguardo attorno come se la mamma
si fosse nascosta in un canto. Eppure all’aria misteriosa del
nostro viso avrebbe dovuto subito avvedersi che eravamo sole. Io
lo guardai e non dissi buonasera perché quella che si preparava
non sarebbe stata davvero una buona serata. Egli, ricordo, disse
che aveva fame e voleva mangiare al più presto, sebbene, poi,
entrambi quasi non toccassimo cibo. Era sabato, e io notai che
egli non si lasciava dietro l’insopportabile odore di brillantina.
A tavola dicemmo poche frasi indifferenti. Tra noi due c’era quel
posto vuoto presso il quale Sista aveva preparato, come ogni
sera, una boccettina di certo medicinale che mia madre usava
prendere prima dei pasti, perché soffriva di anemia. Ero forte;
ma non potevo guardare quella boccettina senza aver voglia di
buttare la testa tra le braccia e piangere.
Sista sparecchiò, in fretta, ansiosa di cancellare quel posto vuoto.
Io presi un libro.
12
Mio padre aveva tolto dal cassetto un vecchio giuoco di carte e
andava disponendolo sulla tavola per un solitario. Era una cosa
che non faceva mai. Del resto anch’io, a quell’ora, leggevo
raramente. Pareva che entrambi tentassimo di prendere nuove
abitudini. [...]
Supponevo che mia madre a quell’ora fosse già molto lontana,
fuori dalla nostra città, dalle campagne che conoscevo; vedevo
due fari luminosi bucare la fitta oscurità, sotto un alto costone di
montagna. Non avrebbe più scritto, più dato notizie di sé.
Consideravo che questa ormai doveva essere la mia vita
quotidiana: l’altra era stata una vacanza, un regalo. Tuttavia non
soffrivo: mentalmente riuscivo persino a canticchiare quella
canzone: Me ne vogl’i’ a Surriento.
Poco dopo mio padre s’alzò e andò a chiudere la porta che dava
verso la cucina. Questo volermi isolare da Sista m’insospettì:
d’istinto scattai in piedi e misi le spalle al muro per difendermi.
«Alessandra» egli disse: «dov’è andata tua madre?»
Aveva parlato piano. Non gli conoscevo quella voce sommessa e
tagliente: somigliava a una lama che volesse far saltare la
serratura di uno scrigno. Così parlava con mia madre, certo,
quando si chiudevano nella camera. Non risposi e lo sfidai con la
durezza del mio sguardo.
Egli fece qualche passo verso di me e domandò ancora:
«Dov’è?»
Mi era vicino, vicinissimo: sentivo il fastidioso calore della sua
persona.
Nel taschino del panciotto si vedeva la chiave della casa dove
eravamo ormai condannati a vivere insieme.
Non avevo paura: pensavo che mia madre era lontana, e a me
toccava difenderla, anche a prezzo di patire aspramente per lei.
Perciò lo guardai per un momento e poi dissi, violenta e precisa,
come se gli lanciassi contro un coltello:
«È andata via.» «Dov’è andata?» «Non lo so.» «Lo sai.»
«Non lo so» ripetei. Volevo che mi credesse: così ella gli sarebbe
apparsa ancora più lontana, irreperibile.
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«Dov’è andata?» egli insisteva contenendo, in quella domanda, la
sua rabbiosa impotenza.
«Via. È andata via. Via.»
Mi prese per il polso e mi scrollò. Avrei voluto che mi facesse
male, che mi facesse scricchiolare le giunture, che mi facesse
soffrire fisicamente, insomma; volevo, in tal modo, essere
costretta a esibire una forza che in quel momento sentivo
vacillare. Ma, in realtà, egli mi stringeva appena, forse aveva
preso il mio braccio per sostenersi.
«Dov’è andata?» ripeteva.
«Non lo so.»
Nel mio petto sentivo la grande macchina correre, piegarsi alle
voltate.
“Presto” la incitavo col pensiero, “presto”, mi pareva che un
indugio avrebbe potuto perderci tutti, “presto.”
«Non tornerà più» ripetevo furiosamente. «Non metterà più piede
in questa casa.»
«Con chi è andata?» egli mi domandò, sottovoce.
«Che ne so, io? È andata via.»
Sentivo di avere negli occhi e nel viso un’espressione spavalda,
impertinente: volevo irritarlo, fargli intendere che ero partita con
la mamma anche se la legge mi costringeva a restare.
«Lo sai» disse. «Sai tutto.» Poi, brusco, domandò: «Che ora è?».
Alzammo entrambi lo sguardo al grande orologio che pendeva
sulla credenza. Mancavano pochi minuti alle dieci, tra breve il
portone si sarebbe chiuso lasciando fuori mia madre. Era fatto,
ormai, era fuggita. Io respirai.
Ogni rumore taceva. I vicini avevano spento la radio, i ragazzi
non giocavano nella strada, come sempre in estate, prima di
andare a dormire. Mi parve che il silenzio non fosse mai stato
così fondo: s’udiva solamente il sordo ticchettìo dell’orologio,
monotono, inesorabile, opprimente.
«Tornerà» mio padre disse. «Domattina la farò ricercare dalla
polizia.»
14
Rapido lasciò la stanza e andò in camera sua, senza chiudere a
chiave la porta di casa, temendo forse, con quel gesto, di
distruggere un’ultima speranza.
Sista e io c’incontrammo nell’ingresso. Mi pareva di avere la
febbre addosso e credo che l’avessi veramente. Mi strinsi a lei,
per non vedere il suo sguardo affossato nel cavo delle occhiaie.
«È salva» le dissi. «Domattina sarà troppo tardi, vero? Non
potrà riprenderla più, è andata via.»
Immaginavo le frontiere chiudersi come altissimi cancelli: e lei
era già lontana, la grande macchina correva attraverso una
campagna fresca e verde. Sulla pelle, nello stomaco, una acerba
sofferenza si svegliava in me.
«È andata via» Sista ripeteva cupamente «è andata via, è andata
via.»
Fu in quel momento che udimmo alcuni passi nelle scale. Subito
io mi staccai da Sista, atterrita. I passi salivano, si facevano
sempre più vicini, più distinti, raggiunsero il nostro pianerottolo.
Dinanzi alla nostra porta tacquero e io corsi ad aprire.
Erano due uomini vestiti di scuro: benché fosse estate avevano il
cappello in testa né se lo tolsero per salutare.
«Abita qui Corteggiani Eleonora?» l’uno domandò a bassa voce.
L’altro stringeva in mano la borsetta della mamma.
Li guardai per un momento, inebetita. Poi dissi piano, movendo
appena le labbra:
«È morta, vero?»
Serio, quello che aveva parlato, accennò di sì con la testa. L’altro
guardava in giro, sospettoso.
Allora io mi staccai dalla porta, traversai di corsa il corridoio e,
senza bussare, entrai nella camera nuziale. Mio padre, dal
rumore della serratura, doveva aver tratto la sicurezza che la
moglie fosse tornata. Severo e burbero stava in piedi presso la
toletta, in attesa.
Io scoppiai in una risata convulsa.
«Che t’avevo detto?» dissi: «Non torna più.»
15
Egli mi guardava ridere, incerto, diffidente.
«È morta» spiegai. «S’è ammazzata.»
Vidi gli occhi di mio padre sbarrarsi in un disumano terrore. Poi
caddi a terra, svenuta nella mia risata come in una pozza di
sangue.
Alcuni giorni dopo zia Clarice venne nella mia camera.
«Senti un po’, Alessandra» mi disse arrampicandosi sulla sedia e
lasciando i suoi piccoli piedi calzati di nero dondolare nel vuoto:
«è vero che Eleonora è morta?»
Io la fissai per un attimo, incerta: mi pareva che avrei dovuto
inventare una bugia come si fa con i bambini.
«Se è morta» ella continuò senza attendere la mia risposta «sono
molto contenta. Poiché così troverò anche lei, in paradiso. Ho già
tanta altra gente che m’aspetta: mamma, papà, Cesira, e poi
molte zie, cugini, nipoti, mia nonna, che, quando ero piccola, mi
voleva tanto bene. Faranno una gran festa nel vedermi. Non
vedo l’ora che venga quel momento. Chi sa come accadrà: mi
piacerebbe ch’io potessi arrivare di sorpresa, mentre sono tutti
seduti in circolo e dicono: “Come tarda, Clarice!”.»
Ero vicina a lei, la carezzavo sui capelli bianchi, lisci, lucenti:
«Davvero saresti contenta?» le domandai.
«Certo» rispose, quasi risentita, stringendosi nelle spalle con
delicate movenze di gatto: «non ho più voglia di stare qui: ormai
sono vecchia, mi annoio. Non faccio niente tutto il giorno.
L’inverno passa presto perché mi corico al tramonto e dormo;
d’estate, invece, le giornate non finiscono mai. M’annoio: vorrei
andare in paradiso a sentire la musica.»
Aveva sulle carni un odore di polvere di riso e di confetto: «Che
musica ti piace, zia Clarice?» le chiedevo per incitarla a parlare.
16
«Tutta la musica: quando sento la musica mi pare di stare in
chiesa e sto bene. Eleonora sonava l’armonium, quando venne
qui: tu eri nata da poco. Una volta andammo insieme in soffitta,
dove c’è l’armonium, e lei sonò una musica che si chiamava, lo
ricordo ancora, Il sogno di un valzer. Sonava piano, perché la
Nonna non sentisse, sembra che vi fosse qualcosa di male: io non
capisco come vi possa essere qualcosa di male nella musica, ma io
non capisco mai. Le serve ridono di me, in cucina, quando
parlano di cose sporche, cose che fanno gli uomini. Non capisco e
sono contenta di non capire. Non mi piacciono gli uomini.»
«Non ti sono piaciuti mai? Neppure quando eri giovane?»
«Oh, no! Mi mettevano molta paura, allora: adesso non li calcolo
più. E poi, senti» soggiunse abbassando la voce: «gli uomini non
capiscono niente, questo te lo dico io. Chi è che manda avanti la
casa, che lava, stira, cucina, chi è che sa fare i dolci? Le donne.
Tutto le donne. Gli uomini bevono, s’ubriacano, litigano per la
politica, senza concludere niente. Quando loro sono in casa
bisogna dire sempre “sì, sì” e poi far tutto il contrario. Credi che
un uomo saprebbe sonare Sogno di un valzer?»
«Non so» io risposi in un soffio.
«Macché! Te lo assicuro io, non saprebbe. Giuliano, spara e
ammazza gli uccelletti: che bravura c’è in questo? Alfredo si
porta le contadine nella legnaia e poi escono fuori tutte rosse,
arruffate, come le galline. Che stupidi. Lo sai che Rodolfo si
burla di me perché voglio andare presto in paradiso? Già, crede
che sia più bello stare a vedere lui che gioca con le carte e beve il
vino.»
Aveva assunto un’espressione imbronciata. «Ma tu non ti
crucciare...» aggiunse premurosamente «appena arrivo dico a
Eleonora che ti faccia venire subito. Sei contenta?»
Seduta ai suoi piedi, io la guardavo senza rispondere. La luce che
calava dai suoi capelli la vestiva tutta di bianco: era come se
nella mia camera, per miracolo, fosse entrata una colomba.
«Non mi rispondi» ella disse.
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«Ho capito: neanche tu saresti contenta di morire. Dev’essere
perché non vuoi lasciare gli uomini. T’hanno già incantata.
Altrimenti perché una donna non dovrebbe desiderare di morire?
Lassù c’è un buon profumo di gigli come in chiesa per il Corpus
Domini. I santi portano in mano fiori bianchi e santa Cecilia
suona la musica, Eleonora suona Il sogno di un valzer. E qui
invece? Qui lavorare, mettere al mondo i figli, allattare i figli,
lavorare nei campi, lavorare in casa, tutto il giorno lavorare. E
sempre aver paura degli uomini perché sono di cattivo umore,
perché hanno l’amica e spendono danaro con l’amica. Sempre
tremare, piangere, piangere sempre per questi antipatici uomini.
Se non fossero incantate da loro, perché le donne non dovrebbero
desiderare di morire?»
Sveglia, ero oppressa da un incubo: nell’appartamento di sopra,
in quello contiguo, nei bianchi casamenti moderni che sorgevano
accanto al nostro, in tutte le case di Roma, in tutte le case del
mondo, vedevo le donne sveglie nel buio, dietro l’invalicabile
muro delle spalle maschili. Parlavamo lingue diverse, ma tutte
tentavamo invano di fare udire le stesse parole: nulla poteva
attraversare l’incrollabile difesa di quelle spalle. Bisognava
rassegnarsi ad essere sole, dietro il muro; e stringerci tra noi,
sorreggerci, formare un grumo di sofferenza e di attesa.
Era il solo conforto che ci fosse consentito, insieme con quello di
lavorare, partorire, piangere; e questo davvero era il nostro
sollievo: piangere, sole, sedute nelle cucine azzurre che al
tramonto divengono livide e tristi, nelle cucine grigie dove i
ragazzini giuocano in terra e spesso anche loro piangono con voci
lugubri e già adulte. Alcune tra noi, come la Nonna, si
appagavano nell’esser padrone dei grandi armadi della
biancheria, cupi e solenni come bare: altre, senza saperlo, si
riducevano addirittura a dimenticare se stesse in un seguito di
giorni ricchi, futili, mondani.
18
Ma tutte, talvolta o sempre, dormivano nel freddo, dietro un
muro. Tutte. Le sentivo gemere, implorare, senza essere udite:
perché la voce di una donna è solamente povero fiato; e il muro è
pietra, cemento, mattoni.
Francesco una sera venne a riprendermi e, nel vedermi, sorrise
teneramente: forse per il mio modo di vestire che era rimasto
piuttosto antiquato, o per l’espressione modesta che avevo
sempre in viso, sembravo una trovatella, che le altre
accogliessero per pietà.
Nel rincasare Francesco sorrideva, ricordando la mia immagine
tra quelle delle amiche di sua madre. Era un po’ cambiato, da
quando viveva con me: per esempio non si curava più di ciò che
diceva la signora Spazzavento.
Io gli dissi: «Sai? Quando sono con loro provo la stessa penosa
impressione che provavo con le compagne, quando ero alle
elementari. Ero alta, più alta di tutte: la maggiore mi arrivava
appena alle spalle. Perciò mi guardavano come se mi fossi
introdotta nella classe con uno stratagemma. Accadeva che io
avessi anche i punti migliori e ciò accresceva il mio imbarazzo.
Stavolta, almeno, i miei calzettoni sono bruttissimi». Francesco
rideva, ma io d’improvviso mi feci seria: «Senti» ripresi: «io non
so fare i calzettoni. Non posso adattarmi come le altre a lenire il
male prodotto dalla violenza: vorrei lavorare attivamente perché
non si ricorresse alla violenza. Hai capito, Francesco?».
Camminavamo adagio pel viale che allora era detto dei Martiri
Fascisti:
19
una salita tortuosa, asfaltata: di qua e di là si stendevano terreni
incolti nei quali detriti e immondizie erano ammonticchiati.
«Insomma» dissi «vorrei lavorare con te.»
Francesco non rispose subito; vedevo il suo agro profilo contro il
cielo già schiarito da un annunzio di primavera. Arrossivo, quasi
fossi venuta meno al mio femminile riserbo, osando per prima
una dichiarazione amorosa: ma avevo parlato d’impeto, come
quando avevo detto a mia madre: «Non partire senza di me».
«Non so che cosa potrei fare, precisamente» insistetti. «Ma tu lo
sai, certo. Tomaso l’altra sera mi ha detto che potrei essere
utile.»
«Chi ha detto questo?»
«Tomaso.»
«Tomaso è scapolo» rispose con durezza.
«Che c’entra questo?»
«Tomaso non capisce niente.»
«Perché dici così? Quando tu esci, e non mi dici dove vai, so che
vai coi compagni, io resto a casa legata alle faccende, molto
spesso in cucina. Ma tra noi sento un vincolo di solidarietà tanto
stretto che a volte duole, quasi. Rimeno la minestra e ogni giro
che do nella pentola è guidato da una volontà così precisa, un
sentimento così profondo di colleganza con te, da farmi credere
che il mio gesto casalingo e pacifico possa produrre, per
miracolo, gli stessi effetti del tuo rischio e della tua battaglia.
Così quando vado a fare la fila al mattino presto, prima di andare
in ufficio, mentre tu dormi. D’inverno è ancora buio, è molto
freddo, tutte le donne si lamentano, non sono contente; e ogni
volta che io faccio un passo avanti nella fila, penso a te che
dormi. Mi pare che ti sarà concesso di riposare solo a patto che io
non abbandoni il mio posto, anche se ho le mani che sembrano
staccarsi, intirizzite. Ma adesso questo non mi pare più
sufficiente. Sono diventata così forte, dentro di me, così
vigorosa...» dicendo queste parole mi passai un dito sul
sopracciglio per nascondere la mia timidezza:
20
«So che potrei aiutarti.»
Camminammo ancora un poco in silenzio. Francesco mi prese il
braccio e lo strinse forte; lo lasciò, lo riprese per stringerlo di
nuovo. Eravamo una sola persona, un solo passo; intorno
circolava un tempo di dolce marcia che ci sospingeva. Commossa
io pensavo “Siamo sposati”.
«No» egli disse «non è possibile.» «Perché?» gli domandai delusa.
«Perché non sono cose per le donne.»
«Eppure vi sono molte donne tra voi, che lavorano. E anzi
Tomaso mi ha detto...»
«Domandagli perché non fa lavorare Casimira.»
«Chi è Casimira?»
«Una ragazza» rispose evasivo; e insisteva: «domandaglielo.»
«Forse Tomaso non crederà che questa Casimira sia abbastanza
coraggiosa, o pronta, oppure...»
«Appunto: io penso per te ciò che lui pensa per Casimira.»
Io tacqui un momento, e poi domandai, con incerta trepidazione:
«Cioè
che io non sia?...».
Vi fu una pausa; infine Francesco confessò a bassa voce, con
fermezza:
«Già».
Rincasammo in silenzio. Non eravamo più una sola persona, ma
due persone diverse: e l’una aveva coraggio e l’altra non ne
aveva.
Mi piaceva tanto. Non era bello, ho già detto, ma possedeva
quella naturale grazia che negli uomini si esprime in riserbo e
sobrietà. Spesso avevo osservato come tutti, in qualche
momento, apparissero brutti o sgradevoli: Francesco mi piaceva
sempre, invece. Talvolta, quando eravamo in casa di altri, non ci
trovavamo vicini e tuttavia io mi sentivo sempre legata a lui da
un filo invisibile; egli teneva il capo di questo filo senza neppure
lo scegliessi ancora una volta.
21
guardarmi. “Ti amo” gli dicevo, ed era come se, tra tutti gli altri,
“Hai capito? Amore, vòlgiti. Ti amo.” Ma egli non sentiva mai
ciò che gli dicevo dentro di me. È un uomo odioso, pensavo,
egoista, freddo, e sentivo il filo invisibile stringermi i polsi,
“lasciami” gli dicevo: “voglio respirare”. Ma anche nel rancore
che gli portavo mi sentivo a lui legata indissolubilmente; egli era
mio marito, e quelle sorde difficoltà, quelle delusioni scottanti ci
appartenevano; gli riconoscevo il diritto di essermi nemico.
Lo amavo e non intendo accusarlo: intendo solo far conoscere
quello che egli era per me. Poiché tutti sanno ciò che valeva per i
suoi scritti, ciò che era per i suoi allievi, gli amici conoscono il
suo modo di essere amico e sua madre quello di essere figlio, ma
io sola posso sapere di lui come marito. Non pensava mai che io
ero la stessa donna che egli aveva amato e desiderato un giorno,
e avevo lo stesso carattere e le stesse esigenze di allora.
Francesco era molto intelligente, eppure sembrava credere che
tutto fosse cambiato in me, per il solo fatto di essere divenuta sua
moglie. Mi aveva detto «Tutto dovrà cominciare, dopo»; se mi
avesse detto, “tutto dovrà finire” io non lo avrei sposato, forse,
perché sapevo di non essere tanto forte da poter rinunziare a
tutto. Io ero rimasta la stessa; e in più lavavo i piatti dove lui
mangiava, lustravo le scarpe con le quali camminava, copiavo i
suoi scritti e poi li nascondevo sulla credenza di cucina, facevo la
fila. Io avrei preferito mangiare pane e olio soltanto, piuttosto
che lavare i piatti e fare la fila. Non è vero che fare queste cose
sia nella vocazione delle donne: le fanno quando è necessario e
soprattutto per essere utili e gradite agli uomini, come fanno
molte altre cose per loro, quando amano, anche le cose orribili e
crudeli che ho fatto io. E gli uomini credono di compensare tutto
ciò con la certezza che essi hanno di mantenerle. Ma solo
raramente lo fanno, in verità: certo, vi sono donne che dormono
fino a mezzogiorno e quando escono vanno dal parrucchiere,
dalla sarta o al teatro, benché gli uomini lavorino giorno dopo
giorno per dare loro agio, comodità, vistose pellicce e gioielli: e si
accontentano di questo.
22
Io non ne conoscevo alcuna, non le incontravo mai perché
passavano rapide nelle loro automobili. Conoscevo invece le
donne che lavoravano con me, quelle che abitavano in via Paolo
Emilio, e quelle che facevano la fila, nel freddo, con un bambino
in collo, quelle che mi sedevano vicino, nel tram, quando andavo
in ufficio o a dare lezioni. Quasi tutte, in casa, facevano lo stesso
lavoro di una serva; ma alla serva non diciamo mai “ti
mantengo” perché lei – in cambio del danaro che riceve, e del
vitto, e del letto – ci dà il suo fidato lavoro. E la moglie, invece,
fa lo stesso lavoro di una serva, e quello di una donna che si
paga, e allatta i bambini, e li custodisce, e cuce i loro vestiti, e
rammenda i panni del marito, senza pretendere neppure lo
stipendio della serva. Eppure, nonostante questo, il marito può
dirle: “Ti mantengo”.
Alcune sere dopo [...] ella venne a rifugiarsi in casa mia, prima
del coprifuoco; disse che osava chiedermi ospitalità non solo in
seguito a un suggerimento di Tullio, ma anche perché, dopo la
nostra breve conversazione, aveva sempre avuto voglia di
tornare a parlare con me.
«Andrò via domattina presto» disse: «questi sono giorni molto
difficili.» Insieme seppellimmo alcune carte nei vasi della
terrazza, tra le radici dei gelsomini, e io pensavo al giorno in cui
avevo comperato quelle piante; qualche ramo fioriva già,
mandando un tenue odore. Poi discorremmo; io le dicevo che
poteva essere tranquilla: il portiere era fidato e c’era pur sempre
il deposito dei cassoni.
«Non credo che verranno» ella riprese. Quando si tolse il basco
vidi i suoi capelli grigi alla radice, colore del ferro. «Spesso noi
esageriamo il pericolo e, andando di casa in casa, cerchiamo
soltanto riparo alla nostra inquietudine. A volte penso che la
paura che loro hanno di trovarci sia pari a quella che noi abbiamo
più o meno a lungo questa paura.»
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di essere trovati. La lotta si basa sulla possibilità di sopportare
«Sì» dissi «e forse la sofferenza che essi ci impongono non è
minore di quella che noi imponiamo loro costringendoli ad essere
inumani e crudeli.»
«Però è più facile sopportare la crudeltà che essere crudeli» ella
aggiunse; dopo una pausa seguitò: «noi vinceremo appunto
perché la crudeltà è contraria a ogni legge naturale della vita. La
ragione, alla fine, è sempre dalla parte dei pazienti e dei deboli.»
«Non credo» risposi: «e in ogni caso io non mi rassegnerò mai ad
essere paziente e debole.»
«Me ne accorgo» disse crollando la testa: «sono molto più vecchia
di te, posso darti del tu, vero? e anch’io pensavo così, una volta.
Ma forse è un errore.»
Intanto si spogliava della camicetta maschile che le nascondeva il
seno grosso e pesante. «Quando venivo a trovare Francesco»
seguitava «mi piaceva vederti muovere attorno a lui, sempre
graziosa, nella tua femminile gentilezza. Speravo che tu non fossi
intelligente. Le donne non debbono mai essere molto intelligenti
se vogliono essere felici. Per gli uomini è diverso: essi non
affidano mai tutta la loro vita all’amore. Giudicano che non sia
un sentimento molto importante, a volte lo credono persino meno
importante dell’ambizione. Lo considerano una debolezza, anzi.
Si vergognano di aver sbagliato qualcosa nella loro carriera, o
magari soltanto in una operazione finanziaria; ma neppure si
propongono di non sbagliare in amore. Le donne, invece, se sono
veramente intelligenti, riconoscono che nessun sentimento è più
importante dell’amore.»
«E allora?» domandavo sgomenta.
«E allora comprendono che i rapporti tra un uomo e una donna
sono alla radice della vita la quale, del resto, si perpetua in essi.
Tutti gli altri sentimenti sono meno importanti, spesso non sono
neppure originari in noi, ma creati dalla particolare società in cui
viviamo; inoltre non si può conformarsi totalmente ad essi se non
attraverso la consapevolezza dell’amore. Ma gli uomini non
amano le donne che capiscono queste cose e che sanno ciò che li
muove, li fa agire:
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preferiscono chiudersi in loro stessi, non ammettono di subire un
giudizio, rischiando, così, di essere condannati.»
«E allora?» io insistevo.
«Be’, quando si è intelligenti e non ci si può rassegnare, bisogna
adattarsi a rimanere sole.»
Nella penombra distinguevo appena il profilo di lei, pesante sotto
gli occhi. Presto ella si addormentò e quel corpo ammassato
accanto al mio m’impaurì: il sonno la murava in una solitudine
amara e rassegnata che faceva nascere in me una incontenibile
rivolta. “È vecchia” pensavo schernendola. “Parla così perché è
vecchia.” Eppure, osservandola attentamente, consideravo che
poteva avere appena quarant’anni, e che, forse, il suo aspetto era
soltanto il risultato di un proponimento. Fu con sollievo che la
vidi andarsene, presto al mattino. Prima di uscire mi affidò
alcuni incarichi: la sua voce era diversa da quella che usava per
domandarmi se aspettavo un bambino.
M’aggiravo in questi pensieri quando Francesco si volse e mi
carezzò una spalla. Io mi volsi a lui, sorridendo; ma vidi che egli
aveva gli occhi chiusi e forse credeva d’essere ancora in prigione
quando, al risveglio, tutti i compagni di cella, e anche lui,
tacevano nel torturante desiderio di una donna. La sua carezza
era così insistente, limitata, esatta che rivelava appunto lo
stimolo di una pertinace ossessione. Non volevo servire soltanto
ad appagare quell’ossessione, non potevo ridurmi ad essere guida
alla fantasia. Mi avrebbe chiamato col mio nome, mi avrebbe
detto: “Alessandra” e così, ritrovandomi, sarebbe uscito
dall’incubo della nostra lontananza. Ma egli seguitava a tacere e
la sua mano invadeva tutto il geloso territorio della mia persona.
«No» io mormoravo: «No, Francesco» dicevo affannosamente,
ma egli non sentiva la mia voce, non ci conoscevamo più, non
ricordavamo più nulla di ciò che l’uno aveva amato nell’altra.
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Egli conosceva il mio carattere romantico, come poteva aver
dimenticato tutto ciò e ricordare soltanto gli articoli del codice
che il prete ci aveva letto? Mi pareva che ci fosse pure un codice
intimo che bisognava rispettare e al quale entrambi, finora,
avevamo voluto tener fede. Se fossimo vissuti al tempo della
schiavitù egli avrebbe rivendicato i diritti dell’uomo, si sarebbe
battuto, si sarebbe fatto uccidere per impedire che un uomo fosse
padrone di un altro uomo. Perché nessuno ha il diritto di avere in
proprietà il corpo di una persona umana. Non si poteva
comperare il corpo di uno schiavo, ma si poteva godere la
proprietà del corpo di una donna, invece. Lo si acquistava con
l’obbligo di mantenerla, proprio come gli schiavi; e qualora io
avessi deciso di abbandonare Francesco, la legge gli avrebbe
ugualmente riconosciuto il diritto di rimanere padrone del mio
corpo. Durante anni e anni, durante tutta la mia vita, poteva
impedirmi di disporne, seppure egli fosse stato cattivo, o infedele,
o abitasse, da decenni, a centinaia di chilometri da me. Poiché c’è
più libertà per uno schiavo che per una donna. E se io avessi
usato della libertà del mio corpo, non avrei avuto soltanto
frustate, come gli schiavi, ma addirittura il carcere e il disonore.
L’unico modo in cui potevo disporre del mio corpo era quello di
gettarlo nel fiume.
Aprii il cassetto, presi la pistola. Era fredda, dura, e il mio
braccio, sfinito da quel peso, s’abbandonò lungo il fianco del
letto. La stanchezza e la disperazione si placavano in me e anche
il cane rabbioso s’acquietava. Sarebbe stato difficile, molto più
difficile di quando avevo portato le bombe sotto la verdura.
Ancora più difficile della sera in cui avevo chiuso la porta sul
viso angosciato di Tomaso. Ma, dopo, non avrei più dormito
dietro il muro, non sarei più andata a raccogliere gli avanzi fuori
la porta delle cucine. Avevo paura. Anche mia madre e la nonna
madre era pallida nel vestito azzurro.
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Editta avevano paura. Impietosite seguivano i miei gesti e mia
Le chiamavo e non mi rispondevano. Ancora una volta pensai di
fuggire, rifugiarmi nella vecchia casa in Abruzzo. Avrei trovato
lo zio Rodolfo seduto alla scrivania, nel pacifico studio, ov’era
dipinto il grande albero che imprigionava il mio nome tra i rami.
Zio Rodolfo era un uomo del mio sangue e in lui potevo fidare.
Era il solo che potesse prendermi tra le braccia, portarmi via,
farmi riposare in un letto dalle cortine bianche. Non avevo
incontrato che lui, in tutta la vita, al quale potessi appoggiarmi.
«Zio Rodolfo...» ripetevo: «Zio Rodolfo...» Non venne. Ero sola
dietro le spalle di Francesco, un muro livido nella fioca luce
dell’aurora. Provavo finalmente il refrigerio della fredda pistola
sulla tempia. «Tous mes adieux sont faits» mi dicevo guardando
in viso mia madre: «Tous mes adieux...»
«Francesco» proruppi disperata: «Aiutami, Francesco...»
Egli si scosse appena: «Dormi» mormorò: «sta’ tranquilla, dormi.
Parleremo domani».
In me il cane rabbioso ebbe un balzo, si slanciò. M’avventai
contro Francesco e gli scaricai la pistola nella schiena.
Così fu pronunciata contro di me la sentenza più dura. Francesco
era stato un uomo integro e non aveva fatto nulla che fosse
condannato dalla legge. Durante il processo io neppure tentai di
difendermi. Se mi fosse stato possibile svelare, dinanzi a tanta
gente, tutto ciò che m’aveva offeso nella vita, non sarei stata più
Alessandra, ma un’altra. E allora anche la mia vita sarebbe stata
altra. Non ero mai riuscita a parlare fin dalla prima volta in cui il
giudice mi aveva interrogato, aspro, ostile, dettando poi
freddamente al cancelliere. Mi avevano condotto in una stanzetta
grigia nel palazzo di giustizia che, guardando in una strada dei
Prati, somigliava alle stanze della casa dove avevo trascorso la
mia infanzia.
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Lì, rincorata, avevo incominciato a parlare con spontanea
confidenza. Ma il giudice, subito, alla mia sincerità aveva opposto
un incredulo sarcasmo, come faceva mio padre. Era già tanto
difficile esprimere in poche parole ciò che m’aveva spinto ad
agire così: e, soprattutto, citare fatti concreti. Mia madre usava
dire che le donne sono sempre in torto di fronte ai fatti concreti.
Sentivo che quell’uomo sarebbe stato sordo alle mie ragioni,
come certo lo era a quelle delle donne di casa sua. Perciò, da
allora, ho preferito tacere sempre, accettando intiera la mia
colpevolezza.
Anche l’avvocato che mi difende, un abruzzese officiato da mio
padre, sa ben poco di me.
Non mi conosceva prima né io mi sono aperta con lui nei nostri
rari colloqui: ha dovuto quindi attenersi alle cause tradizionali di
altri orribili gesti simili al mio. Ha parlato di una infedeltà di
Francesco e di una probabile scena di gelosia avvenuta, di notte,
prima del fatto. Ha accennato persino a un improvviso accesso di
follia. Anche lui, per scagionarmi, ha alluso al suicidio di mia
madre e ad alcuni fenomeni di ereditarietà. L’ho lasciato parlare
giacché quello era il suo ufficio e lo assolveva con fervore.
Credo che se avessi avuto per avvocato una donna mi sarebbe
stato facile spiegarmi; e così se tra i componenti della Corte
avessi visto una figura femminile. Invece, pur avvedendomi che i
miei ostinati silenzi sollevavano indignazione tra i presenti e
allontanavano da me ogni movimento di simpatia e di pietà, non
potevo parlare. Se non era stato possibile farmi comprendere
dall’uomo che mi viveva accanto e che amavo con tutte le mie
forze, se non avevo potuto parlare con lui, come sarebbe stato
possibile con gli altri? Perciò, accennando col capo di non aver
nulla da replicare, accolsi serenamente la condanna per
sottostare alle norme che la lunga consuetudine della comunità
ha stabilito.
Ma non appena fui qui, nella casa di pena, e mentre attendo
l’esito del ricorso, ho voluto narrare la cronaca esatta di questo
tragico avvenimento poiché mi sembra giusto che esso
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sia visto anche dalla parte di chi lo ha vissuto essendone
protagonista. Non so se coloro che mi giudicheranno avranno
tempo di leggere questa memoria. È una lunga memoria, infatti,
perché infinitamente lunga è, giorno dopo giorno, ora dopo ora,
anche la breve vita di una donna; e raramente è una sola la causa
che la costringe a un’improvvisa ribellione.
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P A R T E I I
Q U A D E R N O P R O I B I T O
“A volte penso che già da molti anni io
non amo più Michele e continuo a
ripetere questa frase per abitudine, senza
avvedermi che i sentimenti amorosi non
esistono più, tra noi, e sono stati
sostituiti da altri, forse ugualmente
validi, ma del tutto diversi.”
P R E S E N T A Z I O N E
Questa è la storia di Valeria.
Una storia che racconta di speranze giovanili impallidite, di
amori sottaciuti, di oneri matrimoniali, di sacrificio e riscatto
negato.
È la storia di tante donne e madri che hanno devoluto con
abnegazione la giovinezza al lavoro domestico, sperando di
trovarvi l'appagamento necessario a far sì che il pensiero delle
precluse possibilità non si facesse intrusivo.
È una storia come tante, ordinaria se non mediocre nella sua
regolarità piccolo borghese, lontana dagli eccessi romanzeschi e
dalle mondanità.
Ad essere straordinaria però è la vibrante intensità che Valeria
infonde alla sua scrittura clandestina, nascosta agli sguardi
insistenti di una famiglia che talvolta sembra soffocarla.
È un storia di coraggio e passione, di rimpianti e di umanità
ferita, affidata alla forza di una penna brandita come arma contro
le piccole usurpazioni quotidiane.
Una storia che abbiamo scelto di raccontare per rendere onore a
Valeria e a quanti come lei trovano nella letteratura un valore
salvifico.
Abbiamo deciso di trattare la storia di Valeria non
cronologicamente, come è strutturato il romanzo, ma seguendo
tre filoni tematici giudicati da noi fondamentali:
il rapporto generazionale conflittuale di Valeria con la figlia
Mirella;
il confronto tra la figura di Valeria e quella di Clara, che
incarnano modelli femminili contrapposti;
la messa in discussione da parte di Valeria dalla sua vita di
doveri a seguito della relazione extraconiugale con Guido.
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Personaggi
Valeria - protagonista e voce narrante
Michele - marito di Valeria
Mirella - una dei figli di Valeria
Clara - amica di Valeria, che lavora dentro il settore
cinematografico
Guido - capoufficio di Valeria e successivamente suo
amante
32
I N T R O D U Z I O N E
26 novembre 1950
Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma
ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto. Non
so neppure che cosa m’abbia spinto ad acquistarlo, è stato un
caso. Io non ho mai pensato di tenere un diario, anche perché un
diario deve rimanere segreto e, perciò, bisognerebbe nasconderlo
a Michele e ai ragazzi.
Non mi piace tenere qualcosa nascosto; del resto, in casa nostra
c'è tanto poco spazio che sarebbe impossibile riuscirvi. È andata
così: quindici giorni fa, era domenica, uscii di casa piuttosto
presto al mattino. Andavo a comperare le sigarette per Michele,
volevo che, svegliandosi, le trovasse sul comodino: la domenica
dorme sempre fino a tardi. Era una giornata bellissima, calda,
nonostante l’autunno inoltrato. Provavo un’allegria infantile nel
camminare per le strade, dalla parte del sole, e vedere gli alberi
ancora verdi e le persone contente come sembrano sempre nei
giorni festivi. Sicché decisi di fare una breve passeggiata,
spingermi fino alla tabaccheria ch’è nella piazza.
Lungo il cammino vidi che molti si fermavano presso la
bancarella della fioraia e mi fermai anch’io, comperai un mazzo di
calèndole.
«Ci vogliono un po’ di fiori sulla tavola, la domenica» mi disse la
fioraia: «gli uomini ci fanno caso.» Io sorrisi, annuendo: ma, in
verità, comperando quei fiori non pensavo a Michele né a
Riccardo, che pure li apprezza molto: li comperavo per me, per
tenerli in mano mentre camminavo. Dal tabaccaio c’era molta
gente. Nell’aspettare il mio turno, col danaro già pronto, vidi una
pila di quaderni nella vetrina.
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ha osservato ironico: «Noi? Ah questa è bella». E lei
Michele
«Sì, voi. Non è possibile che io non esca mai sola, di
insisteva:
alla mia età. O esca accompagnata da mio fratello. È
sera,
mi rendo ridicola. Riccardo sa bene che molte altre
ridicolo,
Il fratello l’ha interrotta bruscamente dicendo che
ragazze...».
permetterebbe mai a sua sorella di fare quello che fanno
non
altre ragazze.«Non me lo permetteresti? Che c’entri tu? Al
tante
posso essere obbligata a obbedire mio padre. In quanto
massimo,
te...» Michele stava per intervenire ma io conosco il carattere di
a
e ho avuto paura che, in questo caso, fosse peggio. Ho
Mirella
che mi lasciassero sola con lei.
detto
invitata a sedersi, come se fosse in visita, mi sono seduta
L'ho
Era imbronciata, aveva il viso di quando era bambina. È
anch’io.
buona ragazza, in fondo, pensavo, questo è un atteggiamento
una
passerà. Intanto ella aveva tratto dalla borsa un
momentaneo,
di sigarette americane che non aveva quando era
pacchetto
Fino allora l'avevo vista raramente fumare; invece notavo
uscita.
apriva il pacchetto con un gesto abituale. Non ho voluto dire
che
delle sigarette. Le ho domandato con dolcezza dove fosse
nulla
e con chi. Ha risposto che era stata al cinema e poi a
stata
con Sandro Cantoni, un avvocato che aveva conosciuto la
ballare
di Natale, dai Caprelli. Le ho domandato con affetto,
sera
di prenderle la mano che ella ritraeva, se fosse
tentando
di lui. Ha risposto: «Non credo, non lo so: non mi
innamorata
L’ho guardata negli occhi e speravo almeno che mentisse:
pare».
è parso che dicesse la verità. Le ho domandato perché allora
mi
sola con lui, giocando così la sua reputazione. S’è messa a
uscisse
«Mammà, tu sei rimasta all’ottocento!» Volevo
ridere.
che non ero nata in quel secolo, ma ho continuato
risponderle
di farmi comprendere e comprenderla. «Riccardo dice
cercando
è una persona molto maggiore di te. Vedi, sarebbe diverso,
che
tu fossi uscita con un tuo collega dell'università, si capisce
se
che possiate fare tardi a parlare. Ma così, con quest'uomo
anche
maturo...» Stavo per parlarle delle sigarette, ho resistito:
già
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so» ho continuato «ma c’è qualcosa che non mi piace in
«Non
tua nuova amicizia. Sono due volte che rientri tardi,
questa
tardi; inoltre mi sembri inquieta, e la sera non sei più
troppo
per cena. Ieri, figurati, ho avuto perfino il sospetto che
puntuale
avessi cenato fuori...». La guardavo per interrogarla,
tu
che mi contraddicesse. Mi ha detto che, infatti,
desiderando
cenato fuori. Poi s’è assestata sulla sedia e ha
aveva
a parlarmi, con freddezza: «Senti, mammà, è bene
incominciato
parliamo chiaro. Sono stufa di uscire con gli amici di
che
Non hanno un soldo, ti fanno camminare per ore,
Riccardo.
camminare dicono una quantità di sciocchezze. Se
camminare,
t’invitano a sedere in qualche posto, è in una latteria
finalmente
poco dopo ti vengono le mani fredde, i piedi freddi. Senti,
dove
io non voglio condurre la vita che tu e papà avete
mammà:
Papà è un uomo straordinario, fuori dal comune, lo so,
condotto.
lo adoro, ma insomma piuttosto di fare la vita che ha fatto fare
io
te mi ammazzerei. Io ho una sola carta da giocare: il
a
E presto, perché non posso troppo pretendere, non
matrimonio.
che la giovinezza. Non ho un nome, che so?, un padre con una
ho
politica, una posizione mondana, non ho neppure vestiti
posizione
mettermi. Perciò se debbo uscire uscirò, dovete abituarvi.
da
uscire mi diverte. Devi farlo capire anche a papà. Se
Oltretutto,
nel vostro atteggiamento, aspetterò di essere
insistete
e me ne andrò di casa. Ma pensateci, sarebbe
maggiorenne
Lo dico per voi e anche per me: dovete abituarvi. Non
peggio.
paura mammà» ha soggiunto quasi affettuosamente «non
aver
nulla di ciò che tu chiami far qualche cosa di male».
faccio
e insieme mi guardava con freddezza come quando, a
Sorrideva
anni, aveva detto: «So tutto» per annunziarmi che non
sei
più nella Befana. Ancora adesso mi domando se fosse
credeva
Mirella a parlare così o una ragazza che io non conosco
proprio
Pensavo a quando le avevo comperato la sciarpa di velo
affatto.
la festa di Natale; avevo esitato perché costava molto cara
per
perfino uscita del negozio, poi ero tornata indietro per
ero
comperarla.
36
i sentimenti non li calcoli, dunque?» Mi ha interrotto dicendo
«E
non capivo. Ho risposto che capivo benissimo. Le ho
che
se non calcolasse neppure l’amore. «Che c’entra?» ha
domandato
«Ti pare che questo vostro sia amore? Questa miseria
obiettato.
logorarvi, questo rinunziare a tutto, questo correre
questo
al mercato? Non vedi come sei ridotta alla tua età? Ti
dall’ufficio
mamma, tu non vuoi capire niente della vita, ma io ho
prego,
pensato che tu sia una donna intelligente,
sempre
Ragiona, che vita fate, con papà? Non vedi che
intelligentissima.
è un fallito e ha trascinato anche te? Se mi vuoi bene, come
papà
augurarti che io abbia una vita simile alla tua?»
puoi
mi sono alzata e sono andata a chiudere la porta perché
Subito
non udisse. Questo gesto mi ha fatto arrossire, mi
Michele
ciò che avevo scritto la sera prima in questo quaderno,
ricordava
Michele e su Wagner. Ho detto a Mirella che sono stata
su
felicissima, che davvero le auguravo di esserlo
sempre
Ho aggiunto che questa è la vita che ogni donna deve
altrettanto.
che non le avrei permesso di agire come si proponeva:
avere,
fosse stata in casa mia non glielo avrei permesso. «So che
finché
un momento che passerà. Rifletterai, ti farò riflettere io, ti
è
quando sarai innamorata, quando stimerai un uomo e
sposerai
amerai la tua famiglia, i tuoi bambini, come ho fatto io. Se
allora
ricco tanto meglio, se no lavorerai, come lavoro io...»
è
mi ha guardato con occhi duri e ha detto: «Sei gelosa».
Mirella
12 aprile
non ho scritto, benché mi avrebbe giovato, almeno per
Ieri
con più calma. Durante tutta la giornata mi sono
riflettere
quale debba essere il mio contegno verso Mirella; mi
domandata
soprattutto, se sia bene porle una precisa alternativa,
chiedevo,
«O interrompi ogni relazione con quell’uomo, o esci di
dirle:
casa».
37
non gliel’ho detto subito, martedì sera, è stato perché temevo
Se
se ne andasse senza esitare. Me lo ha offerto lei stessa, del
che
L’avvocato Barilesi le ha proposto di lavorare nel suo
resto.
durante tutta la giornata e non solo nel pomeriggio, come
studio
ora; se lei accettasse guadagnerebbe oltre cinquantamila lire al
fa
Le basterebbero appena per vivere; ma io so che Mirella è
mese.
di qualsiasi sacrificio per non cedere. Questa
capace
mi trattiene dal metterla di fronte a una scelta che
considerazione
già di sapere quale sarebbe. Per lo stesso motivo non ne ho
temo
a Michele. Ho vagliato anche la possibilità di farle
accennato
da mia madre; poi mi sono convinta che servirebbe solo a
parlare
Potrebbe parlarle qualcuno che non avesse un
indispettirla.
diretto, un amico. È triste aver dato tanto di se stessi ai
interesse
per arrivare a riconoscere che le sole persone nelle quali non
figli
fiducia siamo proprio noi. Sabina è l’unica che potrebbe
hanno
ascoltare da lei; ma mi pare umiliante ricorrere a una
farsi
di quell’età, e, soprattutto, dubito che sia disposta ad
ragazza
Sfinita da tante incertezze, ancora scossa dalla notizia
aiutarmi.
e dal colloquio con Mirella, iersera sono stata colta da
appresa
invincibile voglia di dormire a lungo per rimandare la
una
di questo problema. Prima di cena ho detto a Mirella:
soluzione
non esci, hai capito?, non esci assolutamente». Speravo
«Stasera
si ribellasse e che in tal modo gli avvenimenti prendessero la
che
piega naturale, inevitabile. Invece ha risposto: «Va bene
loro
ed è andata a telefonare per disdire l’appuntamento. Ma
mamma»
proprio questa condiscendenza tanto insolita in lei a
è
giacché la facilità con la quale ella rinunzia a un
impensierirmi:
incontro mi dimostra quanto il suo legame con quell’uomo
breve
saldo e disteso nel tempo. La sua calma mi ha sgomentato fin
sia
primo momento, martedì sera, e mi ha tolto la possibilità di
dal
con calma uguale: l’immaginavo aprire la porta, guardinga,
agire
non so perché, me la figuravo pallida, con i capelli scomposti,
e,
labbra stinte. Invece è tornata poco dopo mezzanotte ed era
le
ravviata, come quando era uscita.
fresca,
38
la porta di casa tranquillamente e, vedendomi sulla
Richiudeva
della stanza da pranzo, ha sorriso; ma l’espressione del
soglia
viso l’ha raggelata. È rimasta con la mano sulla maniglia e
mio
guardava interrogandomi. «Entra» le ho ingiunto sottovoce.
mi
passarmi dinanzi, pur fingendosi tranquilla, si scostava come
Nel
temesse d’essere picchiata. È stato il suo timore ad aizzarmi:
se
andata verso di lei e le ho dato uno schiaffo. Lei ha
sono
sgranando gli occhi senza protestare. «Sapevi che è
sobbalzato
Lo sapevi?» le ho chiesto. Mi guardava atterrita sicché
sposato?
sono illusa che ignorasse la verità. «Lo sapevi?» insistevo
mi
e maligna. Mirella aveva ancora una mano sulla
trionfante
arrossata dallo schiaffo; senza togliermi gli occhi di
guancia
ha annuito. Allora l’ho presa pel braccio e l’ho scrollata
dosso
violenza. «Non ti vergogni, di’? Non ti vergogni di
con
ripetevo seguitando a scrollarla. Tremava: sentivo
confessarlo?»
fragilità del suo corpo sotto la mia mano, e ne traevo conferma
la
sua colpa. «Ah, basta, ora basta» dicevo: «Non permetto,
della
vergognati.» Ero disperata, sentivo di parlare come
vergognati,
di pronunziare parole praticamente prive di senso, ma
Michele,
le sole che mi soccorressero in quel momento. «Dimmi che
erano
ha ingannata, almeno, di qualche cosa. Quando l’hai saputo?»
ti
ha risposto lei. Ho abbandonato il suo braccio e mi
«Sempre»
accasciata su una sedia presso la tavola. Mi calmavo, a poco
sono
poco, ma, al posto dell’ira, un doloroso scoraggiamento mi
a
«Vieni qui, Mirella, siediti» le ho detto. Ci siamo
pervadeva.
l’una di fronte all’altra come sediamo a tavola; l’ho vista
trovate
raggiungermi, è più alta di me, ormai; è una donna.
crescere,
pensi a noi, qualche volta?» le ho chiesto. Lei taceva. «A
«Non
i sacrifici, a tutte le rinunzie che io ho fatto per te, tante,
tutti
neppure sai.» Pensavo a Guido, in quel momento, mi pareva
che
ella avrebbe dovuto capire dal tono della mia voce che si
che
di una rinunzia importante. «Sì» ha risposto dopo una
trattava
«Fin dal primo giorno ti ho detto che, se volevi, me ne
pausa:
andata.» Parlava in un tono serio e accorato che mi
sarei
disarmava.
39
«Dove vuoi andare?» le ho detto teneramente, scotendo la testa.
Senza guardarmi lei ha ripreso: «Non t’impensierire per me.
Dimmi soltanto se vuoi che me ne vada». Era pallida, si vedeva
che aveva paura. «Saresti felice, Mirella?» le ho chiesto,
istintivamente evitando di risponderle: «Senza di noi, senza tua
madre, senza tutto quello che è stata la tua vita finora? Saresti
felice, di’?» Ella ha esitato un poco e poi ha detto, quasi in un
soffio: «Non lo so. Mi dispiacerebbe molto lasciarvi». Nell’udirla
dire soltanto “mi dispiacerebbe” ho avuto un brivido di rivolta.
«Ma forse mi adatterei facilmente» continuava: «Decidi tu quello
che vuoi ch’io faccia. Non pensare a me. Pensa solo a voialtri, a
papà.» Non potevo prendere una decisione e lei lo sentiva;
temevo, anzi, che giocasse su questo e la sua calma fosse dovuta
a un calcolo. Le ho domandato affettuosamente: «Parli così
perché credi di non poter agire altrimenti? Di non avere scelta?
Invece a tutto si può sempre rimediare, almeno evitando un
danno maggiore. Sei stata la sua amante, vero?». L’ho vista
arrossire violentemente rispondendo: «Questo riguarda me
soltanto». Allora ho di nuovo perduto il controllo: «Sfacciata!» le
ho detto. «Non ti vergogni di parlare così?» «No» ha risposto lei
recisamente: «E, in ogni caso, qualunque fosse la mia risposta,
non cambierebbe nulla. Tu puoi impormi la tua volontà, ancora
per pochi mesi; puoi chiudermi in un convento o cacciarmi di
casa. Ne hai pieno diritto e io ti ubbidirò. Questi sono i rapporti
tra me e te. Il resto riguarda me soltanto.» Annichilita da tanta
freddezza: «Dunque la morale non ha importanza per te?» ho
ribattuto. Lei è rimasta un momento in silenzio; poi ha detto
piano: «Oh, io rifletto molto, credimi, mi domando continuamente
ciò che è bene e ciò che è male. Tu mi accusi sempre di essere
cinica, fredda; ma non è così. Non è vero. Sono diversa da te,
ecco tutto. Te l’ho ripetuto tante volte: tu hai la possibilità di
affidarti ai modelli convenzionali del bene e del male. Sei più
fortunata. Io, invece, ho bisogno di rivederli secondo il mio
giudizio prima di accettarli».
40
«Ma quale può essere il tuo giudizio, a vent’anni?» ho esclamato
con rabbia: «Devi fidarti di chi ha già esperienza, rimetterti.» Lei
ha sorriso: «Se fosse così nulla cambierebbe mai, tutto si
trasmetterebbe intatto da generazione e generazione, senza
migliorare, si venderebbero ancora gli schiavi sulle piazze, non ti
pare? È proprio adesso che posso ribellarmi, a quarant’anni,
quando sarò vecchia, non potrò più far molto, mi piacerà di star
comoda». Stavo per dire che, al contrario, è proprio a
quarant’anni che ci si ribella, ma non so se è vero, e poi Mirella è
tanto più colta di me, cita sempre nomi e libri che mi danno torto.
«Tu non sei religiosa, Mirella?» le ho chiesto, invece. Ha esitato
un momento prima di rispondere, poi ha detto: «Penso di sì.
Almeno lo sono stata finora. Ma non so spiegarti… Ecco, ora
saprò se la mia fede è più forte di alcune mie idee, alcuni miei
propositi che la religione condanna. Capisci? Insomma ora io
devo consapevolmente accettare la religione che voi mi avete
imposto quando ero bambina. Finora era facile esserlo. Adesso…
adesso è molto diverso, se vogliamo considerare la religione come
un impegno serio che deve regolare le nostre azioni e non ci
accontentiamo di andare alla messa di mezzogiorno ogni
domenica, magari con un cappello nuovo». «E allora?» le ho
chiesto ansiosamente. Mi pareva che dalla sua risposta avrei
capito se è o non è l’amante di Cantoni. «Anche questo riguarda
me sola, mamma. Qui davvero non si può seguire l’esempio degli
altri senza convinzione.» Il suo continuo riflettere mi mette paura
e, soprattutto, m’ispira pietà. È inutile pensare tanto, i giorni
svolgono ugualmente il loro corso, con indifferenza; Mirella
sembra stretta in una macchina crudele che la stritolerà. Ho
tentato ancora di farla ravvedere, le ho consigliato di scrivere
una lettera a quell’uomo annunziandogli la sua intenzione di non
vederlo più. «Dopo sarai più contenta, vedrai.» [...]
Eravamo in piedi, ormai, lei mi pregava di lasciarla andare a
letto perché era stanca. «Hai pensato che non potrai mai avere
una famiglia tua, tuoi bambini?» le ho detto: «Che stai
distruggendo il tuo avvenire per qualcosa che finirà presto
41
capisci?, finirà in ogni caso. Non sarai mai felice.» «E tu, sei
felice?» mi ha domandato lei, duramente. Io avevo le lacrime agli
occhi perché quel colloquio mi aveva commosso, sfinito. «Certo»
ho risposto con enfasi «sono felice, sono stata sempre felice,
felicissima». Lei mi fissava teneramente con uno sguardo che mi
dava voglia d’abbassare il mio. «Quanto sei brava, mamma!» ha
esclamato. Mi ha detto buonanotte in un rapido abbraccio e io
l’ho seguita nel corridoio come una mendicante «Perché vuoi
essere così dura, così amara, Mirella?» mormoravo. L’ho sentita
chiudere la porta e sono tornata indietro, nella stanza da pranzo.
24 maggio
Ero in camera di Mirella: io lavoravo e lei studiava come fa
spesso ora, fino a notte inoltrata, perché ha deciso di dare molti
esami. [...]
Mirella si è volta verso di me stropicciandosi gli occhi, stanchi
dalla lettura. «Senti, mamma...» ha incominciato. Adesso ho
sempre paura quando i figli incominciano a parlarmi. Lei
continuava: «Io partirò, fra due o tre mesi. Questa è una bella
camera, la migliore della casa. Tu potrai avere un po ' di pace,
finalmente. Si sta bene. Qui» ha osservato guardando attorno
affettuosamente.
C’è stato un silenzio e io studiavo i suoi occhi innocenti. «Ti
sposi?» le ho domandato con un sorriso. Lei scoteva la testa,
spiegando: «Barilesi apre uno studio a Milano, lo affida a Sandro.
Io vado con lui» ha aggiunto senza abbassare lo sguardo:
«Insomma vado a Milano, abiterò in una pensione, per ora dovrò
svolgere lo stesso lavoro che faccio qui; ma l’anno prossimo sarò
laureata e tutto sarà diverso. Allora potremo veramente lavorare
insieme, capisci?». Non ho risposto. Era inutile parlarle del
nostro consenso, tra pochi mesi non avremo più diritto di
trattenerla. Le ho domandato: «È deciso?». Lei mi ha fissato per
un attimo intensamente, poi ha detto: «Sì».
42
Io guardavo una fotografia di Cantoni che, da qualche tempo, ella
tiene sulla scrivania e che ho sempre finto di non notare.
Ricordavo la voce di lui, il modo in cui parlava di Mirella, la
fermezza che il suo linguaggio preciso esprimeva. Le ho chiesto a
quale punto fossero le pratiche del divorzio e se avrebbero
almeno tentato di ottenerne qui, la delibazione; lei ha risposto che
non c’era nulla di nuovo. Parlava brevemente, come per esaurire
al più presto la necessità di ferirsi e di ferire. Mi domando se non
v’è più bontà nella freddezza con cui ella difende la sua vita che
nella debolezza con cui io acconsento a lasciar divorare la mia.
Riccardo, da quando non può più permettersi di disapprovare la
sorella, dice che oggigiorno ci sono molte ragazze come lei che, a
poco a poco, dimenticano di essere donne. [...]
Il momento nel quale ho dato la vita ai figli è il solo che ho
vissuto con quella consapevolezza con cui Mirella compie ogni
sua azione. È questa consapevolezza a renderla libera dal
femminile sentimento di colpa che sempre pesa su di me,
opprimendomi ad essa Mirella si richiama per affermare i suoi
diritti come Riccardo alla sua debolezza per suscitare pietà. «Te
ne vai» le ho detto. «Presto se ne andrà anche Riccardo, rimarrò
sola.»
C L A R A , M I C H E L E E
V A L E R I A
7 gennaio
Avrei voluto telefonare a Clara Poletti, almeno per farle gli
auguri di Natale, pensavo nel trascrivere il suo nome. Il fatto è
che non ho tempo, ho sempre meno tempo. Mi pareva persino
inutile riportare il suo numero nella nuova rubrica; non ci siamo
viste quasi più, da quando lei s’è separata dal marito.
43
Negli ultimi mesi del suo matrimonio io avevo tentato di esserle
vicina il più possibile, confortarla: lei mi diceva sempre che non
la comprendevo e che ascoltare i miei consigli era come leggere
un libro di lettura. Dopo la separazione, Clara s’è messa a fare
sceneggiature per il cinematografo, frequenta gente che noi non
conosciamo. Avrei voluto telefonare a Clara Poletti, almeno per
farle gli auguri di Natale, pensavo nel trascrivere il suo nome. Il
fatto è che non ho tempo, ho sempre meno tempo. Mi pareva
persino inutile riportare il suo numero nella nuova rubrica; non ci
siamo viste quasi più, da quando lei s’è separata dal marito.
Negli ultimi mesi del suo matrimonio io avevo tentato di esserle
vicina il più possibile, confortarla: lei mi diceva sempre che non
la comprendevo e che ascoltare i miei consigli era come leggere
un libro di lettura. Dopo la separazione, Clara s’è messa a fare
sceneggiature per il cinematografo, frequenta gente che noi non
conosciamo. È diventata una donna abbastanza nota e, quando
andiamo al cinematografo, ci accade spesso di leggere il suo
nome al principio del film. Ogni volta che sono andata a trovarla
era affaccendatissima, mi parlava frettolosamente tra una
telefonata e l’altra, mi annunziava sempre di essere innamorata.
Spesso mi domandava se avevo mai tradito Michele. Da un'altra
persona, che non mi avesse conosciuto bene, non avrei tollerato
questa domanda. Invece a lei rispondevo, ridendo: «Che
sciocchezza!». È simpatica, però. Forse sarebbe stata contenta se
le avessi telefonato per Natale. «Sempre Michele?» mi avrebbe
chiesto. Le avrei risposto: «Finiscila, Clara. Ricordati della
nostra età. Vieni a trovarci, vedessi che cosa sono diventati i
ragazzi». Mentre finivo di copiare i nomi sulla rubrica nuova, ho
pensato che, per fortuna, Michele e io non siamo cambiati affatto
in questi anni, o almeno entrambi siamo cambiati nello stesso
modo.
44
Mi piaceva guardare Clara e anche a Mirella piaceva guardarla.
Michele la guardava come avrebbe guardato un frutto. Ella
parlava con spirito, fumando, mangiava con appetito giovanile,
ha molto gradito il dolce. Intanto raccontava degli attori, delle
loro abitudini. Riccardo era divertito da quei discorsi, ma li
ascoltava con dispetto, a suo malgrado. A un certo punto Clara
ha accennato alla scarsità di buoni soggetti. Allora Michele ha
detto che lui aveva una trovata per un soggetto, una trovata
originale. «Lo scriva» Clara ha ribattuto con entusiasmo,
servendosi ancora un po’ di dolce: «Lo butti giù, come se me lo
raccontasse. Con un buon soggetto si possono guadagnare
milioni.» Anch'io lo incoraggiavo: «Davvero, scrivilo, Michele,
non si sa mai». Clara diceva che avrebbe pensato lei a
presentarlo a un produttore suo amico: «Lo scriva, Michele, e me
lo porti». Lui ha chiesto: «Quando?». «Quando sarà pronto.»
Michele ha esitato un momento e poi ha detto che è già pronto.
Clara ha avuto un lieve moto di sorpresa, di disappunto, quasi:
forse temeva di aver promesso troppo, nella certezza che Michele
parlasse per ischerzo. I ragazzi non hanno detto nulla,
seguitavano a mangiare. Io ho domandato, con un filo di voce:
«Ah, bravo, quando l'hai scritto, Michele?». Lui si schermiva, era
incerto tra il desiderio di far credere a me che si tratta di una
cosa di poco conto, che ha scritto per passare il tempo, e il timore
di annullare in anticipo l'interesse di Clara. «Ma quando l'hai
scritto?» insistevo io, incuriosita. «Quando?» egli ha ripetuto:
«Dio mio, non lo so, qualche volta mi sono trovato solo in ufficio
e non avevo molto da fare. Il sabato pomeriggio, per esempio.»
Michele e Clara hanno preso appuntamento per uno dei giorni
della settimana prossima. Michele andrà da lei per leggerle il
soggetto.
46
20 marzo
Clara ha detto che il soggetto è interessante, ma che, per vari
motivi, è di difficile attuazione; sicché bisogna correggerlo, prima
di presentarlo al produttore. È stata molto gentile: si è offerta di
aiutare Michele ad apportare le correzioni necessarie. Michele è
tornato ieri da lei, perché era festa, e vi tornerà di nuovo giovedì
sera. Gli ha detto che dovrebbe essere contento: Clara avrebbe
potuto trovare brutto il soggetto e non parlarne più. Ma non
riesco a convincerlo. Molto spesso, guardandosi attorno, parla
dell’arredamento della casa di Clara; e io intuisco che non è la
casa, ma Clara che egli ammira. Pur sapendo di commettere un
errore gli ho ricordato che non pensava allo stesso modo qualche
tempo fa e che anzi spesso aveva disapprovato il comportamento
di lei e la sua separazione dal marito. Michele mi ha risposto che
ormai tutto ciò non ha più importanza e ha preso a parlare con
sprezzo del marito di Clara, benché sia un suo amico di gioventù.
Diceva che Clara ha fatto benissimo, non avrebbe mai saputo
adattarsi a una vita mediocre, a un uomo mediocre: citava i
lusinghieri successi di lei, e le cifre che guadagna, mentre il
marito non è mai riuscito a uscire dal piccolo impiego ove fu
assunto appena laureato. «C’è un diritto» egli diceva «che deriva
dal valore intrinseco di ognuno di noi. Sicché quello che per uno
può essere colpa, per altri non lo è. A un certo punto, nella vita,
bisogna essere consapevoli della propria condizione e affermarla;
anche questo è uno dei nostri doveri.» Stavo per chiedergli se
tutto questo lo avesse appreso da Clara, ma il tono con cui
parlava me lo ha impedito. Sembrava dire frasi ripetute
innumerevoli volte tra sé e che ormai vedeva chiare come se
fossero scritte in un libro. Trascinata da un istintivo timore gli
ho fatto notare che se Clara ha conquistato l’indipendenza, e
anche la notorietà e il benessere materiale, ha tuttavia perduto
qualcosa più importante. «Che cosa?» egli ha domandato,
incredulo. Con un sorriso che voleva essere condiscendente e che
invece, mio malgrado, era venato d’albagia, ho detto che si parla
di lei come di una donna che abbia avuto molti amanti.
47
Michele s’è messo a ridere. «E con questo?» ha domandato
«Clara è una donna libera, ancora giovane, non fa male a
nessuno.» Volevo replicare che fa male a se stessa, ma sentivo
che non era un principio morale a farmi parlare così sibbene una
meschina animosità contro qualcosa che mi pareva ingiusto nella
mia vita. Mi domandavo se Michele pensasse veramente ciò che
diceva o se volesse soltanto difendere Clara; tuttavia le sue
parole mi hanno turbata e ancora mi turbano profondamente.
Non ho potuto a meno di ripetergli che Clara ha la mia età, lo
dicevo con un doloroso proposito di ferirmi. Michele ha detto che
il concetto d’età è relativo all’attività che svolgiamo e citava
attrici e uomini di stato. «Ho capito» ho ribattuto io «allora se la
reputazione non conta e una donna a quarantatré anni è libera di
agire ancora come una ragazzina in cerca di marito, se tu stesso
approvi tutto questo, vuol dire che anch’io potrei…» «Che c’entri
tu?» egli mi ha interrotto subito con accento di stizzoso
rimprovero: «Come puoi paragonare il tuo caso con quello di
Clara, mammà? tu hai un marito, due figli già grandi… Clara è
sola, e tutti conosciamo il mondo del cinematografo…» Mentiva
come si mente ai bambini e, d’un tratto, ho capito che non era la
prima volta che mi parlava così; è da sempre, o almeno da tanti
anni che io ho dimenticato qualsiasi altro suo modo di parlare. E
nel rispondergli docilmente, ammettendo che il mio caso è
diverso, anch’io mentivo, per timore di lui, del suo giudizio. Egli
mi si è avvicinato, mi ha fatto una carezza. «Lo capisci, vero?»
ha detto e io ho annuito; ma, forse per la menzogna o forse
perché confusamente intuivo che egli aveva ragione, sentivo
nascere in me una irrefrenabile malinconia. Temo che il mio
modo d’essere non abbia più alcun valore ai suoi occhi, giacché
gli pare naturale. Anzi, egli ammira Clara che è tanto diversa da
me e con la quale non ho più nulla in comune, neppure il nostro
passato di giovani spose che ella, oggi, con la sua vita presente
rinnega, deride. Mi chiedevo se per Michele sono ancora una
donna viva o già, come sua madre, un ritratto sulla parete. Così
sono per i miei figli, di certo, così mia madre è per me.
48
C’era qualcosa che mi sfuggiva nel suo discorso. Di nuovo ho
avuto il sospetto che Michele sia innamorato di lei, ma il fatto che
avesse mandato me a parlarle e l’umiliazione alla quale egli si
piegava chiedendole con tanta insistenza di aiutarlo, lo hanno
dissipato subito. «Una donna che lavora» Clara continuava
«soprattutto una donna della nostra età, porta sempre in sé la
lotta tra la donna tradizionale che le hanno appreso a essere e
quella indipendente che ha scelto di divenire. C’è un continuo
conflitto in lei. Risolverlo, superarlo, costa: soprattutto nei
riguardi degli uomini. Tu non puoi capire questo, forse. Tu hai
un altro carattere e in fondo hai avuto tutto quello che ti eri
proposta d’avere sposandoti: sei stata fortunata.» Le ho chiesto
se lo pensasse davvero. «Oh, certo» ha esclamato, e continuava:
«Io mi sentivo sempre debole di fronte a te, proprio perché non
eri mai combattuta. Tu conducevi la vita che avevi scelto e io ti
ammiravo perché eri sempre coerente con te stessa, sempre
serena. Ricordo quando lavoravi a maglia, quando facevi i dolci
per guadagnare. E ora hai tutto sulle tue spalle, lo so bene, la
casa, l’ufficio. Non so come fai. Io non potrei essere tanto forte.
O forse non riusciamo mai ad essere forti quando siamo soli, è la
certezza di essere necessari agli altri che ci costringe ad essere
forti. Comunque, bisogna avere la tua salute, per riuscire». Io ho
detto che ero d’accordo per quanto riguarda la salute, ma ho
tentato di accennare a tante altre mie debolezze e Clara mi ha
interrotto: «No, no, credi di averle avute, ma ti sbagli. È inutile
che cerchi di convincermi, sei stata sempre fortissima». Rideva di
un riso arguto, giovane. [...]
Spesso provo il desiderio di confidarmi con una persona viva, non
solo con questo quaderno. Ma non ho mai potuto; più forte del
desiderio di confidarmi era il timore di distruggere qualcosa che
sono andata costruendo giorno per giorno, in vent’anni, e che è il
solo bene ch’io possieda. Clara mi parlava con calore: «Il fatto è
che bisogna sempre avere uno scopo nella vita.
51
Tu hai i figli. Chi ha uno scopo non ha bisogno della minuta
felicità quotidiana; insegue quello scopo e rimanda sempre
l’occasione di essere felice. Se anche non lo raggiunge, in quel
tentativo è già lo scopo della sua vita e la felicità. In fondo è
stato per questo che io ho incominciato a lavorare, più ancora che
per il guadagno. Perché ero stanca di aspettare di essere felice a
causa di un uomo, o di un altro. È questa speranza di felicità che
logora una donna, giorno per giorno, la distrugge. Tu,
aspettando che i ragazzi divenissero grandi, avevi la possibilità di
dimenticartene. Aspettavi che camminassero, che andassero a
scuola, che facessero la prima comunione, ora aspetti che
prendano la laurea, che si sposino no?, e intanto il tempo passa».
«Già» ho ripetuto io «il tempo passa.» Il tono della mia voce,
l’espressione del mio viso dovevano sembrare inconsueti perché
Clara mi ha domandato che avessi. Avrei voluto dirle che ormai i
ragazzi sono grandi, io non ho più nulla da aspettare. Invece,
alzandomi per andarmene, le ho detto, con un sorriso: «Nulla.
Pensavo, appunto, che il tempo passa».
G U I D O E V A L E R I A
10 febbraio
Mentre ero immersa in queste riflessioni, ho sentito una chiave
entrare nella serratura, la porta dell’ufficio aprirsi. Ho chiuso di
scatto il cassetto, sono balzata in piedi e sono andata
nell'ingresso. Era il direttore.
52
Ci siamo trovati a disagio, ci siamo scusati d’essere lì, anche lui
che pure è il padrone. Io mi sono affrettata a spiegargli che ero
tornata per lavorare, ho accennato a una pratica urgente lasciata
in sospeso. Lui ha detto: «Io no. Adesso lei conosce un mio
segreto: io torno sempre in ufficio, il sabato pomeriggio, proprio
per far nulla, riposare. Naturalmente, se mi capita, scrivo
qualche lettera. Non lo dico a nessuno perché non oso confessare
che mi trovo perduto, quando non sono in ufficio. La domenica è
un supplizio. Del resto, fuori, non trovo gran che d’interessante.
Il lavoro è un vizio, insomma» ha aggiunto sorridendo.
Siamo entrati nella sua stanza, io ho assicurato che sarei andata
via subito, non volevo disturbarlo. Lui s’è opposto vivacemente:
«No, no, perché? Al contrario, rimanga: mi fa piacere». Intanto
era andato alla sua scrivania e, tratta una chiave dal panciotto,
apriva il cassetto con un piccolo moto di soddisfazione. «Si sieda»
ha detto «anzi, telefoniamo al bar qui di sotto, facciamo portare
su due caffè.»
Io mi sono seduta come se fossi in visita. «A casa» egli
continuava «il sabato c’è più movimento del solito, i ragazzi
invitano sempre i loro amici fanno chiasso. Io dico che ho un
appuntamento in ufficio ed esco» ha concluso con un sorriso
furbo. Anche Michele ha detto la stessa cosa, oggi. Anch’io.
Adesso mi pare di ricordare che il garzone del bar, nel
consegnarmi il vassoio con le due tazze di caffè, mi abbia
guardato in modo ambiguo, ma è certo un’impressione, mi
conosce da tanti anni. A causa degli avvenimenti di questi giorni
son tanto nervosa che, nel porgere il caffè al direttore, mi
tremavano le mani. «Non offro sigarette perché so che lei non
fuma» ha detto. Ero sorpresa che lo avesse notato, ma, in fondo,
è naturale, ogni giorno stiamo a lungo insieme.
Michele mi ha domandato quanti anni ha; meno di cinquanta,
certo, benché abbia già quasi tutti i capelli bianchi; aveva le
tempie appena brizzolate quando sono stata assunta nell'ufficio.
Pensavo a ciò che Michele aveva detto di lui, dell’abitudine che
aveva preso di riaccompagnarmi a casa,
53
durante la guerra, quando lavoravamo fino a tardi. Intanto il
direttore, sorseggiando il caffè, apriva una cartella. Io gli ho
offerto: «Lavoriamo?», lui ha risposto: «No, è sabato» e io ho
soggiunto: «Che importa?». Lui non desiderava altro, in verità.
«Che le ho detto?» ha osservato ridendo: «È un vizio», ma
eravamo contenti.
Discutevamo di certe nuove forniture, io prendevo appunti per
scrivere una lettera a Milano. L’ufficio intorno a noi era calmo,
accogliente, i tavolini, in ogni stanza s’immaginavano ordinati,
chiusi gli armadi degli archivi, i telefoni non squillavano, non
s’udivano gli scatti secchi del centralino né il nervoso ticchettare
delle macchine da scrivere. Mi pareva di apprezzare per la prima
volta tutto quanto era attorno.
21 febbraio
Il direttore è stato due giorni a Milano, è tornato stamani. Sono
andata a parlargli di alcune pratiche che avevo dovuto lasciare in
sospeso perché, ignorando la sua partenza, non gli avevo chiesto
istruzioni. Lui ha detto che credeva di vedermi sabato
pomeriggio in ufficio, e pensava di avvertirmi allora. Mi sono
affrettata a dirgli che infatti, avevo avuto in animo di andarci,
ma che poi me ne ero astenuta, temendo di disturbarlo: ho anzi
aggiunto che ero arrivata sino alla fermata del tram. «Che
peccato!» ha detto lui. Stavo per assicurarlo che andrò senz’altro
sabato prossimo, poi ho giudicato meglio tacere.
Però è tutto il giorno che ripenso al tono in cui ha detto «Che
peccato!». Forse Michele aveva ragione di essere geloso di lui.
Forse da anni egli va in ufficio ogni sabato, aspettando che ci
vada anch’io.
54
10 marzo
Oggi egli mi aspettava con impazienza, ne sono certa. Appena ha
udito la chiave nella serratura deve aver lasciato la scrivania per
venirmi incontro perché, quando ho richiuso la porta, era già di
fronte a me, nell’ingresso. Io ho riso sottovoce, come se fossi
arrivata lì dopo una fuga. Anche lui ha riso aiutandomi a
togliermi il cappotto. Sulla mia scrivania ho trovato un rametto
di mimosa. Mentre lo guardavo, per assicurarmi che fosse stato
lui prima di ringraziarlo, egli ha detto, quasi scusandosi:
«Abbiamo il giardino pieno di mimose, sono già tutte in fiore.
Così ne ho colto un rametto, ma l’ho messo in tasca e s’è
appassito». Ho detto appena grazie, non volevo dare importanza
a un gesto che in fondo è naturale; la mimosa aveva un profumo
caldo, l’ho odorata a lungo, poi l’ho messa all’occhiello del
vestito. Egli era di fronte a me, mi guardava in silenzio: io ho
alzato gli occhi su di lui, sorridendo, e per la prima volta ho
pensato che si chiama Guido.
Abbiamo lavorato durante due ore; io ero molto nervosa. Ho
visto tante volte la sua firma, il suo nome sulla carta intestata,
eppure ogni volta che egli mi guardava io pensavo “Guido” e,
arrossendo, chinavo di nuovo la testa sul lavoro. Mi sentivo
impacciata, commossa: mi sembra che solo da oggi egli mi guardi
come una creatura umana. Ecco, è tutto qui. Non c’è altro.
Abbiamo sbrigato molta corrispondenza, discusso alcuni problemi
urgenti, poi egli ha detto: «Adesso basta» e a me pareva di aver
lavorato per ischerzo. «Basta» ho ripetuto, come smettendo un
giuoco. Mi ha chiesto se ero stanca e come impiegassi la
domenica. Avrei voluto accennare al diario, ma non ho osato; ho
detto che andavo a trovare mia madre, scrivevo qualche lettera.
Lui ha detto che non scrive più lettere personali da anni e che un
uomo che lavora molto finisce per non avere più veri amici, ma
solo conoscenze d’affari, amicizie obbligate, calcolate, quasi.
55
«Rimaniamo soli» ha detto. Io gli ho ricordato che ha dato vita a
una bella impresa e questa gli rimane. Chi ha creato qualcosa,
dicevo, non è mai solo: un libro, un quadro, un’azienda, che so,
una fabbrica, sono cose che rimangono. «Io ho dedicato tutta la
mia vita ai figli, invece» ho aggiunto con un sospiro «e i figli se
ne vanno.» Lui scrollava la testa: «Non se ne vanno» ha corretto
«altrimenti, in un certo senso, sarebbe già un bene. Saremmo
soli, ma potremmo almeno godere i vantaggi della nostra
solitudine. Invece non abbiamo alcuno di questi vantaggi e siamo
soli lo stesso.» Mi piaceva sentirlo dire che è solo, anche se
parlava indifferentemente, con un lieve accento di cinismo.
Tuttavia, scotendo la testa, insistevo nel dire che egli ha una
grande azienda e la possibilità di condurre una vita comoda,
agiata. Egli replicava che anche questo non conta niente; sono
altre cose che contano, diceva; e a me, in un lampo, passava negli
occhi Venezia. «A una certa età» seguitava «tutto ciò che
abbiamo fatto non ci basta più; ha servito solo a renderci quelli
che siamo. E così come siamo, ora che siamo veramente noi,
quelli che abbiamo voluto o potuto essere vorremmo incominciare
a vivere nuovamente, consapevolmente, secondo i nostri gusti di
oggi. Invece, dobbiamo seguitare a vivere la vita che abbiamo
scelto quando eravamo altri. Io ho lavorato tutta la vita, ho
impiegato trent'anni a divenire quello che sono. E adesso?» Ha
rivolto questa domanda nel vuoto con grande amarezza. Poi,
quasi pentito di essersi lasciato andare, ha aggiunto ridendo che
bisognerebbe stabilire un’età «quarantacinque anni, mettiamo»
oltre la quale si avesse diritto a essere soli al mondo, e a poter
scegliere daccapo la propria vita.
«Del resto» ha osservato «nessuno capisce ciò che facciamo, lo
sforzo che ci costa, nessuno, eccetto coloro che lavorano con
noi.» Ho sentito che parlava contro sua moglie; forse anche
Michele parla così contro di me, qualche volta. Mi dicevo che io
non chiedevo nulla, comperavo soltanto scarpe per i ragazzi,
vestiti per i ragazzi, cibo, e non pellicce di visone.
56
Mi domandavo però se ci fosse una differenza; e concludevo di sì,
ma a mio svantaggio, perché Michele non può neppure accusare.
«Tuttavia» gli ho detto con un sorriso malizioso, ricordando ciò
che Mirella aveva detto di Barilesi «se le offrissero di rinunziare
alla fatica che le costa il lavoro ci rinunzierebbe?» Nel parlare ci
eravamo alzati ed eravamo andati presso la finestra: l’ombra
calava sul giardino sottostante, un malinconico giardino di palme
e oleandri. «No» egli ha confessato candidamente. Abbiamo riso.
«Ma forse appunto perché non ho altro» ha aggiunto a più bassa
voce. La sua presenza mi sembrava una presenza del tutto
nuova, ma gradita. Egli diceva che, fino a pochi anni or sono,
aveva dovuto ancora lottare ora per ora, c’erano giorni in cui non
sapeva come far fronte a grosse scadenze, a pagare gli impiegati.
Gli ho detto che me ne ero sempre avveduta e avevo trepidato
per lui, che avevo sempre apprezzato la sua forza, la sua tenacia,
la sua capacità di mostrarsi sereno in ogni occorrenza. Non
doveva lamentarsi, gli dicevo, poiché aveva avuto una vita
straordinaria: e, sorridendo, gli rammentavo che aveva
incominciato a lavorare come contabile in una ditta di tessuti. Lui
ha ricordato il giorno in cui sono entrata in ufficio: diceva che nei
primi tempi era intimidito dal mio fare mondano, ogni volta che
entravo nella sua stanza avrebbe voluto alzarsi in piedi come se
fosse in un salotto e, quando gli portavo la cartella della posta,
era infastidito che voltassi le pagine, che asciugassi la sua firma
col tampone. «Non me ne sono mai avveduta» ho detto
sorridendo. «Oh» ha esclamato lui «ero sempre attento a che lei
non se ne avvedesse.»
Il giardino era scuro ormai; nel vetro della finestra si rifletteva il
mio viso, era il viso di una persona giovane, forse perché venivo
dal parrucchiere. Io ho detto: «È tardi» ed egli mi ha aiutato a
indossare il cappotto. Poi ha osservato che tra dieci minuti
sarebbe arrivata la macchina, avrebbe potuto accompagnarmi. Io
ho rifiutato cortesemente, ma d’impeto. Lui ha detto che non
c’era nulla di male.
57
Ho replicato, ridendo, che non era per questo. Allora egli mi ha
accompagnato alla porta come se non fossi una sua impiegata.
«Grazie per essere venuta» ha detto «abbiamo potuto lavorare
con calma e, inoltre, mi ha fatto bene parlare. Non parlo mai con
nessuno.» Stavo per dire: «Neanche io». Invece ho detto appena
«Buona sera» senza sorridere, e sono uscita.
Nella strada c'era una brezza fresca, piacevole. Non è possibile
che sia vero, mi dicevo, mi conosce da tanti anni: parla con me
come parlerebbe con qualunque altra persona. Eppure mi pareva
che tutto attorno fosse migliore, i lumi brillassero allegramente.
Per giuoco ho provato a mormorare: «Guido» e tutto s’è
illuminato anche in me.
22 marzo
Mi domando se è stato davvero perché voleva lavorare a un
promemoria urgente che ha pregato la Marcellini e me di tornare
in ufficio, benché sia Giovedì Santo. La Marcellini, pur sapendo
che avrebbe ricevuto il compenso straordinario, era furiosa.
Lavorava di malavoglia, nel copiare commetteva numerosi errori;
è molto giovane. Quando il direttore le ha detto che non aveva
più bisogno di lei è uscita salutando appena.
Io stavo rassettando le carte quando egli è entrato nella stanza.
Allora, subito, dal suo sguardo ho avuto la certezza che il
promemoria era una scusa. L’avevo intuito fin da quando nel
congedare la Marcellini mi aveva chiesto cortesemente di
rimanere ancora qualche minuto. Come sempre m’ero detta che
se davvero avesse un interesse per me mi avrebbe notato prima
d’ora, non avrebbe resistito a tacere.
Ma ora comprendo che io sono divenuta un’altra, da qualche
tempo, e perciò gli sembro una persona nuova. Nel vederlo
entrare mi sono smarrita: ho preso il cappotto per andarmene.
Egli ha detto: «Aspetti ancora un momento, la prego». E poi,
dopo una pausa: «Sabato non potremo vederci: è la vigilia di
Pasqua». Io ho riappeso il cappotto e mi sono lasciata cadere
sulla sedia dietro la scrivania come per dire: «Eccomi».
58
Sulla scrivania c’era la mia vecchia borsetta ornata da
un’iniziale, regalo di Michele per un mio compleanno. Egli si è
seduto dall’altra parte della scrivania con un respiro di
benessere. Siamo rimasti un poco in silenzio; godevamo
nell’essere soli. Egli passava il dito sull’iniziale del mio nome
quasi la disegnasse e intanto dicevamo cose senza importanza.
Non riesco neppure a ricordare ciò che abbiamo detto, ricordo
solo il gesto della sua mano: era come se mi chiamasse. Ne avevo
i brividi, mi pareva che la sua mano fosse su di me, sulla mia
pelle, e avevo voglia di implorare: “Basta, basta”. Lui ha detto
sottovoce, quasi leggesse una parola scritta: «Valeria».
Poi c’è stato un silenzio e io ero beata nell’eco del mio nome.
«Che cosa accade, Valeria?» ha domandato lui senza guardarmi,
fissando sempre quell’iniziale. Io ho risposto: «Non so» e ho
abbassato gli occhi. Egli continuava: «Vogliamo essere franchi?
Posso parlare?». Avrei voluto dire no, riprendere il cappotto e
andarmene, invece ho annuito. «Ho avuto paura» ha confessato.
Io ho rialzato gli occhi, stupita, perché avevo sempre pensato a
lui come a un uomo forte. «È incominciato due mesi fa, circa,
quando lei mi disse, ricorda?, che le condizioni economiche della
sua famiglia sembravano migliorare. Io le domandai, quasi
scherzando, se mi avrebbe abbandonato. Lei rispose seria,
invece, come se avesse già riflettuto su questa possibilità. Disse,
lo ricordo bene: “Non per ora”.» Subito gli ho spiegato che avevo
risposto così senza volerlo, forse istintivamente considerando
che, priva di una giustificazione economica, non avrei saputo
come far accettare in casa questa mia personale attività; ma che
al contrario... Lui mi ha interrotto: «Sì, sì, capisco. Del resto io
stesso non vi detti peso, sul momento. È stato dopo: quel sabato
in cui ci siamo trovati soli qui in ufficio, per caso.
D’un tratto, mentre stavamo lavorando insieme e io provavo una
sconosciuta sensazione di dolcezza le sue parole mi sono tornate
alla mente. Da allora ho incominciato ad avere paura
immaginando di venire qui, ogni mattina, e non trovarla.
59
Forse perché gli altri, ha visto la Marcellini?, lavorano solo per
prendere lo stipendio e andarsene, lavorano con me come
lavorerebbero con un altro. O forse perché lei sa tutto dell’ufficio,
e sa quanta tenacia, quanti sforzi... O forse non è per questo» ha
soggiunto abbassando la voce. «Insomma ho avuto paura di
tornare a essere solo come quando ho incominciato a lavorare;
peggio, anzi, perché oggi non ho più quell’entusiasmo, quell'ansia
di arrivare che allora mi sosteneva. Non credo più a nulla, oggi.
Ecco: ho capito che qui, senza di lei, sarei solo come sono solo in
casa. Dapprima ho pensato che fosse un momento di stanchezza,
ogni tanto mi piace compatirmi... E invece, col passare dei giorni,
sempre meglio comprendevo quale sarebbe la mia vita senza di
lei, Valeria. Mi coglieva persino un invincibile tedio del lavoro,
un tedio della vita addirittura, una nausea. Capisce?» Ho
mormorato: «Sì, capisco». E poi, dopo una pausa: «Sarebbe così
anche per me».
Non appena ho pronunziato queste parole egli ha sorriso, trepido,
commosso; e io ho provato di nuovo quel senso di fiducia che
provo solamente quando c’è lui. Abbiamo continuato a parlare e
tutto ciò che diceva rinnovava la mia contentezza. Mentre mi
guardava ero giovane, molto più giovane di quando sono entrata
in ufficio per la prima volta: giovane come non sono stata mai,
perché ne avevo la felice consapevolezza che mi mancava a
vent'anni. Siamo rimasti l’uno di qua e l’altro di là dalla
scrivania: così abbiamo parlato per anni e sembrava impossibile
stabilire una confidenza diversa da quella oramai tanto profonda.
Lui mi ha teso la sua mano, io gli ho dato la mia, la scrivania ci
univa invece di dividerci. Poi ho detto che era tardi, dovevo
ancora andare in chiesa per i Sepolcri. Egli non mi ha trattenuto:
sentivamo entrambi di avere molto tempo, lunghe ore, tutti i
giorni, dinanzi a noi. Abbiamo rassettato le carte, chiuso i
cassetti, spento le luci come compagni di scuola.
«In quale chiesa va?» egli mi ha domandato sulla porta. Intanto
mi guardava e io mi vergognavo delle vecchie scarpe marrone
ha chiesto se poteva accompagnarmi, per un tratto.
60
che porto tutti i giorni. «Qui vicino» ho detto: «a San Carlo». Mi
Non appena siamo usciti nella scala, mentre eravamo fermi
aspettando l’ascensore, ho cominciato a trovarmi a disagio. Non
so definire ciò che provavo, ero libera dentro di me, ma fuori di
me mi sentivo legata. Questa impressione è durata anche mentre
eravamo in istrada. Da tanto tempo non camminavo accanto a un
uomo; con Michele, ormai, esco raramente. Le strade erano
affollate di gente che andava svogliatamente da una chiesa
all’altra. Quasi portato dalle loro vesti, mi pareva di sentire
odore di fiori ammassati, di ceri, l’odore della giornata dei
Sepolcri nei miei ricordi di educanda. Molte donne vestivano di
nero e chiacchieravano ghiottamente, sottovoce, come ai funerali.
Abbiamo evitato via dei Condotti: io mi studiavo di trovare un
accordo col passo di lui, ma è difficile camminare con una
persona molto alta, non potevo parlargli. Via della Croce era
rumorosa e animata come per una sagra di paese. Facevamo
fatica ad andare avanti tra tanta gente: quando passava una
macchina tutti si stringevano contro il muro, alcuni
protestavano, io ridevo e avevo molto caldo. Mi pareva che
fossimo insieme, in viaggio, in una città del Sud, allegra e
stracciona. Ridevo, ma il mio disagio non accennava a dissiparsi.
Finora non avevamo avuto in comune che i freddi oggetti
dell'ufficio, le carte, le macchine da scrivere, i telefoni, come se
fossimo vissuti insieme, per anni, in un mondo inumano. E al
confronto, i carrettini colmi di verdura, le vetrine dei negozi
alimentari, le luci smaglianti, le voci, tutto mi pareva privo di
pudore. Forse anche lui provava la stessa impressione perché
d’un tratto mi ha preso pel braccio senza considerare che era
un’imprudenza. Non è abituato a trovarsi in strada, a piedi.La
gente lo intimidiva: si scostava esageratamente per far posto a
chi passava. Io lo guardavo intenerita, sorridendo, e lo guidavo
nelle strade che da sempre sono mie amiche. «A domattina» egli
mi ha detto quando, infine, abbiamo raggiunto la scalinata della
chiesa come un’isola sulla quale ci fossimo tratti in salvo. Si è
tolto il cappello volgendo un rapido sguardo attorno: «Buonasera,
riconoscevo in quelle parole, in quel gesto; ma ero felice.
61
Valeria» ha mormorato. Mi ha baciato la mano. Io non lo
17 aprile
Quando ho udito il rumore della serratura mi sono alzata di
scatto, ansiosa. Cercavo un motivo plausibile, per giustificare
l’urgenza della mia telefonata. Non volevo confessare che avevo
soltanto bisogno di vederlo, di stare con lui. Egli è entrato
rapido, deciso; quasi non mi scorgeva, dapprima, poiché aveva gli
occhi abbacinati dalla luce di fuori: la stanza era in penombra e io
m’ero rifugiata nel vano della finestra: «Che cosa c’è, Valeria?»
ha detto venendo verso di me. Intanto riponeva le chiavi nella
tasca e quel gesto familiare mi ha commosso. «Non è possibile»
ho mormorato mentre egli mi baciava le mani: «Bisogna che lasci
l’ufficio, che mi allontani, qui è troppo difficile. Non so più dove
rifugiarmi. Ho bisogno di un permesso, quindici, venti giorni di
permesso, prenderò ora le mie vacanze estive. Ho deciso di
andare da una sorella di mia madre, a Verona, per staccarmi di
qui, rasserenarmi.»
Non ci avevo mai pensato seriamente prima d’allora, eppure
d’improvviso quella partenza m’appariva come la sola via di
liberazione, la salvezza. Ma il mio annunzio sembrava rallegrare
Guido.
«Quando?» mi ha chiesto dopo una pausa. Io ho risposto: «Non
so. Vorrei partire subito, ma temo di non poter lasciare
d'improvviso la casa, i ragazzi. Tra quindici giorni». Egli si è
allontanato per andare a sfogliare il suo calendario sulla
scrivania. Quando è tornato presso di me, mi ha preso di nuovo le
mani e, guardandomi amorosamente negli occhi, ha detto: «Tra
due settimane io devo essere a Trieste. Mi basta rimanere un
giorno a Trieste. Al ritorno posso fermarmi a Venezia. Tre
giorni, cinque anche, Verona è molto vicina». Poi ha soggiunto,
piano: «Cinque giorni a Venezia».
Da quando egli ha detto queste parole non ho più trovato pace.
La colpa è mia. Non avrei dovuto arrivare fino a questo punto,
non avrei dovuto telefonargli, farmi raggiungere in ufficio dove
ero sola.
62
Mi sono lasciata cadere nella poltrona lì presso: pensavo che
aveva detto Venezia perché è molto vicina a Verona, ma avrebbe
potuto dire Padova o Vicenza; mi pareva che avesse letto nei
miei pensieri, che conoscesse quel mio desiderio logorante, e
sentivo di non avere più scampo. Dicevo: «No, no» e aggrottavo
la fronte, atterrita dalle sue parole. Lui mi pregava di non
rispondergli subito, mi supplicava di non farlo, diceva che ho
tempo per pensarci, lui farà quello che io vorrò, senza insistere.
Ha detto anche che devo aver fiducia in lui, nella sua devozione,
e intanto mi stringeva teneramente tra le braccia, sfiorava le mie
tempie con le sue labbra, mormorava che non possiamo
rinunciare all’amore, alla felicità, ne abbiamo diritto. «Pieno
diritto» ripeteva. Sentivo che, con queste parole, alludeva a
qualcosa della sua vita che non conoscevo. Io pensavo: “Basta
Mirella, basta Riccardo, oh, basta basta”. Quando l’usciere è
tornato ci ha sorpresi vicini, nella penombra; ma io ero tanto
assorta che il suo sguardo stupito non mi ha neppure raggiunta.
Ormai credevo già d’essere in treno.
24 aprile
Spesso, insomma, mi domando quali siano i rapporti che corrono
tra Michele e me, da qualche anno. Sento che dovrei interrogarmi
e scrivere a lungo: sarebbe uno sforzo troppo grande, e perciò vi
rinunzio.
Ma questa domanda torna insistentemente a propormisi da
quando mi sono avveduta che seppure il pensiero di un altro
uomo occupi sempre la mia mente, io posso ancora dire con
sincerità: “Amo mio marito”. Nel pronunziare questa frase non
provo alcun disagio. L’ho detta anche a Guido, spesso. Nel dirla
mi sento difesa; mi pare, anzi, che essa mi permetta di ascoltare
tutto quanto egli dice di Venezia, di non ribellarmi ai suoi primi
timidi baci, e di non riprenderlo quando, come fa da due giorni,
mi dà del tu.
63
Io gli rispondo sempre in forma indiretta perché non voglio
offenderlo, ma neppure incoraggiare questa nostra nuova
confidenza. Iersera ho detto a Mirella: «Io ho sempre amato tuo
padre, lo amo ancora» e non avevo l’impressione di dire una
bugia. Ma ora comincio a domandarmi che cosa significhi per me
la parola “amore”, riferita a Michele, e insomma a quali
sentimenti voglia alludere quando dico: “Amo mio marito”.
Che angoscia. Farei bene a smettere di scrivere: temo che la
stanchezza mi impedisca di essere obiettiva. A volte penso che
già da molti anni io non amo più Michele e continuo a ripetere
questa frase per abitudine, senza avvedermi che i sentimenti
amorosi non esistono più, tra noi, e sono stati sostituiti da altri,
forse ugualmente validi, ma del tutto diversi. Ripenso all’ansia
con la quale attendevo Michele, da fidanzato, al desiderio che
avevamo di trovarci soli, per parlare, al tempo che trascorreva
rapido, sul filo degli sguardi e delle parole, e al tedio che adesso
piomba su di noi quando restiamo soli insieme, senza che alcuna
distrazione, la radio o il cinema, venga a soccorrerci dall’esterno.
Eppure un tempo ho persino desiderato che i ragazzi si
sposassero presto, perché noi potessimo tornare ad essere soli
come allora; credevo che tutto fosse ancora intatto. Forse, se i
nostri figli fossero rimasti sempre bambini, non mi sarei mai
avveduta di questo cambiamento. O se Guido non mi avesse
parlato mai, o non avessi mai sentito parlare Cantoni. Ero
proprio convinta che si trattasse ancora d’amore e, fino a quando
Mirella non mi ha confessato di temere che la sua vita somigli
alla mia, ero anche convinta di essere stata felice. Forse lo sono
ancora, in realtà, ma quella che provo quando sono con Michele è
una felicità gelida, molto diversa da quella che provo quando
Guido mi parla o mi prende la mano. Questi candidi gesti sono
amore e i gesti che compio con Michele, invece, sono soltanto
affetto o solidarietà o abitudine, neanche quei rari più intimi sono
amore: pietà, piuttosto, compassione delle debolezze umane. Mi
pare di aver capito tutto ciò d’improvviso. Forse Michele lo ha
già capito da tempo, lui è molto più intelligente di me,
64
soprattutto per queste cose. Poi ho sentito dire da Clara che
l’amore va inventato giorno per giorno. Non so che cosa ciò
significhi, in pratica, ma intuisco che io non ho saputo inventarlo
mai.
27 maggio
Ieri, nel pomeriggio, non appena ho aperto la porta dell’ufficio,
ho provato un senso di refrigerio: le stanze erano deserte nella
fresca penombra. Guido era senza giacca e aveva rimboccato le
maniche della camicia, odorosa di seta stirata. Non l’avevo mai
visto così attraente, così giovane; e, nella trepida dolcezza che
m’invadeva, mi pareva di riconoscere per la prima volta l’amore.
Mi sono seduta, come sempre, di fronte a lui; anch’io ero vestita
di seta e, alzando le braccia per ravviarmi il nodo dei capelli, mi
specchiavo nell’espressione del suo viso e mi vedevo bella.
Ho detto che non potevo rimanere a lungo; lui ha risposto che
non aveva importanza, da quando avevamo deciso che saremmo
partiti insieme era sempre felice, e il tempo sembrava aver
assunto una misura diversa, tutta di fantasia. Mi sorrideva
dicendo: «Ti amo». Io, guardandolo fisso, mormoravo: «Ti amo».
Era la prima volta che lo dicevo ed egli, illuminandosi, mi ha teso
la sua grande mano aperta attraverso lo spazio della scrivania,
tra le carte. Io vi ho posto la mia. Siamo rimasti così, per un
lungo momento. Non potevo staccare gli occhi dal suo viso e in
me tutto era un bene che doleva. «Lo sai, vero, Guido, che non
partiremo mai?» gli ho domandato. Egli è rimasto immobile,
interrogandomi con uno sguardo disperato, poi ha detto molte
parole che non ricordo, forse perché mi stordivo in un continuo
scrollare della testa.
«Saremmo anche lì in prigione» ho replicato «come lo siamo qui,
o nella tua macchina, o nel caffè quando ci guardiamo attorno.
Dietro sbarre che non possiamo abbattere perché non sono fuori
di noi, ma in noi stessi. Non potrei rassegnarmi alle piccole
bugie, ai sotterfugi.
65
E non per il fatto di compiere una doppiezza. No: io sono una
piccola borghese e sono più familiare col peccato che col coraggio
e con la libertà. Ma perché non avremmo nulla da dividere, oltre
il peccato. Tu avresti la tua vita, io la mia. L’hai detto tu stesso:
siamo troppo vecchi per adattarci. L’adattamento è solo
momentaneo e presuppone una speranza che noi non possiamo
avere, alla nostra età.» Guido è venuto presso di me, mi ha preso
tra le braccia. L’odore fresco della sua camicia, il contatto delle
sue braccia nude, mi smarrivano. “Dio, Dio mio” invocavo nel
mio cuore. «Vuoi che andiamo via per sempre? Che non torniamo
più?» ha mormorato mentre mi stringeva. Io scotevo la testa
contro la sua spalla. «No» ho risposto «anche per questo sarebbe
troppo tardi. E forse, verso coloro che ci circondano, sarebbe più
ingiusto che adattarci a un compromesso.»
Lui si è affrettato a ribattere che non ha alcun dovere, è libero,
ma io gli ho impedito di andare avanti a dir cose che poi avrebbe
rimpianto di aver detto. «Lo so» ho ammesso; «ne avremmo il
diritto. Del resto, basterebbe quello di essere innamorati.» «E
allora?» lui insisteva ansiosamente. «E allora non so, non riesco
a spiegarmi, ma mi sembra che per usufruire di un diritto
bisogna non sentirsi colpevoli di usufruirne. Per me l’amore, se
non è giustificato dalla famiglia, è una colpa. Mirella, invece, dice
sempre che la colpa è nel sentire l’amore come un peccato. Credo
che abbia ragione, ma io sono così come sei tu che, per alleviare
la tua, vorresti richiamarti a colpe che altri, forse attorno a te,
hanno commesso. Ma Mirella dice anche che l’amore non è tale
quando è ingiustificato, quando è solo passione, istinto...»
Stavo per aggiungere: “O quando, come il nostro, forse è solo
desiderio di riparare frettolosamente il fallimento della nostra
vita”. Se Guido e io ci fossimo incontrati ancora molto giovani
sarebbe stato diverso; se fossimo stati giovani nel tempo di oggi,
soprattutto; forse io non avrei dato peso al giudizio della
portiera. «E il lavoro non è una giustificazione?» ha detto lui:
«Noi lavoriamo insieme da otto anni...» Mi guardava sperando
che in questo fosse la salvezza.
66
Anch’io l’ho sperato, per un momento. Ci siamo baciati, stretti.
Poi ho ripreso: «No. È difficile spiegarmi. Vedi, io ho
incominciato a lavorare perché avevo bisogno di uno stipendio, tu
mi hai detto che hai lavorato notte e giorno, per trent’anni,
perché avevi deciso di diventare ricco. Mi pare che il danaro non
sia una giustificazione. Lavorare insieme per diventare ricchi non
mi pare che possa essere uno scopo». Sento, anzi, che il danaro ci
divide, suscitando in me un altro desiderio, basso, colpevole:
quello di possedere ciò che possiede lui, ciò che lo rende sicuro
dove io sono incerta e indifesa. Giorni or sono, Guido era senza
macchina, volle accompagnarmi a casa in tram.
Fu un’avventura per lui, non conosceva il prezzo del biglietto: il
fattorino lo guardava, insospettito, e io ridevo: ma ero dalla parte
del fattorino. Qualche volta camminiamo a piedi per un tratto;
Guido non ne ha l’abitudine e, quando attraversa la strada, teme
sempre di essere investito dalle automobili.
Una sera io lo guidavo per mano, scherzando, ma intanto
pensavo: “Hanno paura, i ricchi...” quasi godendo di sentirlo
soggetto a un timore a me sconosciuto, proprio lui che è salvo da
tanti timori che a me, invece, sono familiari. E quando lo vedo
tirare fuori dalla tasca molti biglietti di grosso taglio cercando
cento lire per pagare il caffè, non mi piace: perché sento che, se
me li offrisse, forse li prenderei. Avrei in comune con lui soltanto
il peccato e il danaro. «Non è possibile, credi» ho concluso.
Sono stata io a dire che era ora di andare, a spegnere la luce
sulla scrivania, a chiudere la porta. Guido mi guardava, muto, e
io compivo quei gesti senza soffrire, come se, da quel momento,
nulla potesse più procurarmi dolore, o gioia. In istrada
camminavamo accosti, ma la gente, passando, ci divideva. Così
abbiamo raggiunto il lungotevere, ci siamo presi sottobraccio. Io
parlavo, calma, dicevo che lunedì non potrò andare in ufficio,
occupata dai preparativi del matrimonio di Riccardo, che avrò
bisogno di un lungo permesso, e che Michele e i ragazzi hanno
deciso che io smetta di lavorare, che resti a casa col bambino.
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Ho aggiunto: «Nessuno può occuparsi di un bambino meglio della
nonna». Avevo pronunziato questa parola con intenzione.
Ero certa che tutto quanto sembrava doloroso, prima, dopo
averla pronunziata sarebbe sembrato naturale. Ma nulla
cambiava: eravamo due persone giovani che camminavano
sottobraccio nella dolce sera primaverile. Quando ci siamo
separati avrei voluto richiamarlo: ho sentito che era la mia ultima
possibilità di essere giovane che si allontanava. E certo anche lui
pensava la stessa cosa, lo vedevo camminare con le spalle curve.
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C O N C L U S I O N E
27 maggio
Devo distruggere il quaderno, distruggere il diavolo che in esso
si nasconde tra pagina e pagina, come tra le ore della vita. La
sera, quando sediamo a tavola tutti insieme, sembriamo chiari e
leali, senza insidie; ma io, ormai, so che nessuno di noi si mostra
qual è veramente, ci nascondiamo, ci camuffiamo tutti, per
pudore o per dispetto. Marina mi guarda a lungo, ogni sera, e io
temo che, guardandomi, ella veda in me questo quaderno,
conosca i sotterfugi cui ricorro per scrivervi, la furberia con cui
lo nascondo. È certa di trovarlo, un giorno, e trovare in esso un
motivo per dominarmi come io domino lei per quello che ha fatto
con Riccardo. Seduta di fronte a me, aspetta con l’inesorabile
pazienza delle persone poco intelligenti.
Ma non lo troverà, non troverà nulla: sono voluta rimanere sola
apposta, per far scomparire il quaderno. Lo brucerò. Quando
Marina tornerà a casa sentirà l’aria lievemente intiepidita, poserà
la mano sulla terracotta della stufa, come per caso, e capirà
tutto. Capirà, ne sono certa, perché tutte le donne nascondono un
quaderno nero, un diario proibito. E tutte debbono distruggerlo.
Adesso io mi domando dov’è che sono stata più sincera, se in
queste pagine o nelle azioni che ho compiuto, quelle che
lasceranno di me una immagine, come un bel ritratto. Non lo so,
nessuno lo saprà mai. Mi sento inaridire, le mie braccia sono rami
di un albero secco. Ho tentato di divenire vecchia e forse sono
soltanto divenuta cattiva. Ho paura. Marina potrebbe indurre gli
altri a rincasare innanzi tempo, per sorprendermi. Bisogna che
bruci il quaderno al più presto, subito, senza neppure rileggerlo e
rischiare d’intenerirmi, senza dire addio.
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Questa sarà l’ultima pagina: in quelle seguenti non scriverò e le
mie giornate future saranno, come quelle pagine, bianche, lisce,
fredde. Liscia sarà la grande pietra bianca sulla quale alla fine,
tornerò a chiamarmi Valeria. “Era una santa” Riccardo dirà a
Marina singhiozzando, come Michele disse a me. E lei non potrà
smentirlo, non saprà nulla. Di tutto quanto ho sentito e vissuto in
questi mesi, tra pochi minuti non vi sarà più traccia. Rimarrà
solo, attorno, un lieve odore di bruciato.
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Alba de Céspedes, nata a Roma l’11 marzo del 1911, è
autrice di romanzi, di testi radiofonici e teatrali, poetessa e
partigiana italiana. Donna di rara tenacia, ha rivolto la sua
penna su due fronti, quello letterario e quello dell’impegno
politico con un’insopprimibile esigenza di libertà e
giustizia.
Tra i suoi romanzi più famosi si ricordano "Dalla parte di
lei", "Quaderno proibito", "Il rimorso", "La bambolona".
Prestò la sua voce a Radio Bari sotto il nome di Clorinda,
partecipando attivamente alla resistenza civile e nel 1944
fondò la rivista artistica, politica e letteraria "Mercurio"
che si avvalse degli interventi di grandi personalità
letterarie italiane come Moravia, Bontempelli e Aleramo.
Cittadina di Roma e Parigi, sentì sempre di appartenere a
Cuba, la terra delle sue origini, che per storia e identità ha
sentito per tutta la vita più affine al suo animo.
L’abbiamo scelta come autrice di Ciclomaggio 2022 per la
sua natura poliedrica di scrittrice e per l’attitudine che
contraddistingue la sua produzione e la sua vita, ovvero la
capacità di difendere le proprie idee con sincerità e
orgoglio, anche andando contro forti opposizioni.
Ciclomaggio ci è parso perfetto per dare spazio a questi
ideali, così da permettere in un futuro che altre idee
possano crescere e fiorire.
Qui sono presentati dei passi tratti da "Quaderno proibito" e da "La
parte di lei" che ci sono sembrati significativi per rendere il pensiero
militante e femminista di Alba de Céspedes.