15.06.2022 Views

"Inedito, di sera" 16/06/2022

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

Il team di "Ciclomaggio 2022" presenta

INEDITO,

di sera

EDIZIONE DEL 16/06/2022


P A R T E C I P A N T I

1 A n n a D i M a r t i n o

2 A l i c e D e S a n t i s

A n a s t a s i u s D e l e d d a

6

S e r e n a B a r b a t 9

o

M i c h e l e C a t a p a 1 2

n o

M a r i a C h i a r a S 1 4

i s i

V a l e r i a R a 1 8

z z a n t e

C l a r 2 5

a B a r d e r i

В . 2 9 Л . М и р о в й е в

B i r d s

0 3


A n n a D i M a r t i n o

L e s t a g i o n i d i n o i

Mi ci vuole la luce della notte per interpretare le linee incise

dai tuoi sogni, leggerle tenendo il segno con la punta delle

dita e cercare di non lasciarmi sfiorare dai margini della tua

lingua tagliente. Intingimi nell’inchiostro indelebile e fai di

me un segreto scritto sul muro di un sottopassaggio

qualsiasi, così che tutti possano leggermi, ed io resterò una

vita intera ad aspettare che tu mi vada a raccontare.

Tu ed io siamo sempre stati inclini a strappare via dalle

pareti del cielo i manifesti più colorati dei tramonti grigi,

per conservarli nei fascicoli dei nostri sogni più stropicciati,

dentro ai mobili castano chiaro che si stiracchiano verso le

tue gote azzurre e violente, come un temporale dopo la

lavatrice. Guarda come ti illumina adesso la solitudine

quando sei con gli altri, asciugati con i pezzi di carta

ritrovati nelle tasche; sempre lo stesso errore.

Adesso ti devo tutti i giorni di pioggia, le oscillazioni delle

pozzanghere e i lacci sporchi, i capelli asciutti e la schiena

bagnata. Mi devi i petali calpestati e gli alberi spogli, le

docce calde e i flaconi di shampoo vuoti, i caffè amari e le

fette di torta a metà, gli ultimi due tiri e la malinconia delle

cose belle. Diamocele quando non c’è il sole, nel buio del

pomeriggio, tra i punti ciechi dei parcheggi; ti aspetto come

il primo autobus per tornare subito a casa, perché hai

lasciato lo stendino al sole ma ha iniziato a piovere.

Di tutti questi attimi che mi scorrono tra le dita non riesco

ad afferrarne nemmeno la metà che ti spetta per poterti fare

spazio.

Dodicimila modi su come dimenticarti, ne avessi azzeccato

almeno uno avrei risolto la metà dei miei problemi.

1


A l i c e D e S a n t i s

.

Un giorno ti ho incontrato e il mio stomaco ha iniziato a

sentirsi troppo pesante. Deve essere stato un giorno triste.

Era già successo molte volte, il sentirsi pesante.

Troppo.

Chissà come sarebbe stato se non ti avessi mai incontrato.

Diventavo più leggera e tu dicevi che era giusto così,

bisogna essere leggeri in un mondo troppo pesante. Meglio

viaggiare comodi quando ci si fa questi viaggi mentali.

Ero più leggera ma questo non bastava, non mi parlavi

abbastanza o forse non lo ero io.

Più mi alleggerivo e meno ottenevo le tue attenzioni, il

mondo era sempre troppo pesante e il viaggio si faceva

doloroso.

Un giorno però, tu sei andato via, ma io non ho smesso di

alleggerirmi. Pensavo che se fossi sparita ti saresti accorto

della mia assenza, del posto vuoto che avrei lasciato e così

ho continuato ad alleggerirmi.

Non serviva, niente, ero ancora pesante e per te non faceva

differenza.

Saresti mai tornato? Il mondo avrebbe smesso di girare se il

mio si fosse fermato? E il tuo?

Ritorni ma c'è qualcosa che ancora non va, che a te non va.

Ho fatto il giro del mondo con uno stomaco vuoto, ti ho

raggiunto ad ogni crocevia affollato per sentire se anche tu

viaggiassi alla mia stessa velocità e con il mio stesso bagaglio

leggero.

Ma non c'eri a nessun incrocio, il viaggio era solo un modo

per consumare il mio carburante, per consumare il mio

stomaco, per consumare me.

2


Neanche allora era abbastanza. Non lo sarebbe mai stato

perché tu in realtà non esisti, così come non esiste la

pesantezza del mondo, così come non esistevo io, che ero

solo un'ombra buffa in spazi tristi.

Ho fermato lo spin del mio asse, mi sono fermata. Ho

riempito le valigie, ho smesso di essere leggera e sono

ripartita, rifacendo il giro di tutti i crocevia.

Non lo so dove sono arrivata, ma mi sento pesante ed è

giusto che sia così.

7 L u g l i o

Mia madre mi chiede cosa è successo

Il perché di tanta tristezza.

Ma io non so rispondere.

Mia madre mi guarda e non dice nulla.

Nulla

Vuoto

Forse è il dolore che serve per non sentire il vuoto

Ma se mi faccio male e piango

Se guardo l'aria sporca e soffoco

Se dalle mie vene vengon fuori petali secchi

Che cosa devo rispondere?

Mia madre mi guarda e ripensa al mio sorriso

quello che avevo a cinque anni

e forse il dolore lo prova anche lei.

Chissà a cosa starà pensando ora

Che mi vede triturata e lacerata

Che mi sente chiederle se è fiera di me.

3


Ed io che non trovo risposte abbastanza piene

che riescano a colmare

tutto questo immenso vuoto

Che riempiano il mio corpo con del peso

per farmi sentire che soffro anche io la gravità

e che anche io sono capace di stare al mondo.

Che mondo vuoto

Che corpo assente

Che mente tremendamente pesante.

Mia madre mi guarda e chiede

Cosa mi è successo

Perché sono triste

Perché non so più parlare la lingua degli uomini?

Gli uomini parlano una lingua complessa

Che i morti a volte non riescono a capire.

Chissà cosa è successo

Ma forse lo sappiamo tutti.

3 0 A p r i l e

Ho il sole negli occhi, mi brucia le retine

Nell'aria c'è ovunque odore di salsedine

Sento un tonfo al cuore

una morsa forte al petto

Lo stomaco si fa stretto

Inizio a provare dolore

4


Mia nonna è lì con me

Cammina sulla sabbia che

affonda

Il sentiero è fatto di orme

E la mia anima piano ci

sprofonda

Ci penso e ci ripenso

andavamo sulla spiaggia

per raccogliere i sogni in mare

E quando questo pensiero

inizia a farsi denso

Mi sento soffocare.

Se la guardo adesso non vedo più le reti sciolte

È chiusa in una casa dove non sbattono le porte

Il tempo si è portato via quei sogni di mare

Ed io in quella casa ci ritorno a volte

A volte è difficile restare lucidi

Quando se cammini inciampi in pensieri poco felici

Il mare diventa l'unica via per dimenticare

Per non pensare

Per provare a respirare ancora

E ancora ci penso

Ci penso spesso

Quante volte sarei voluta finire vicino a quel cipresso

Che ho guardato troppe volte

Sognato troppe volte

Alla fine di quel viale... con le luci spente.

5


A n a s t a s i u s D e l e d d a

G i f t i n t h e d a w n

6


R e m e m b e r i n g o f t r a n s g e n d e r s

F a s t e r t h a n t h o u

7


V e l o c i r a p t o r

I n d o r a p t o r r e d e s i g n

C o g i a d i B l a i n v i l l e

T i l a c i n o e p i c c o l o

8


S e r e n a B a r b a t o

M e n t r e t u t t o m u o r e

E fu così che decisero di tornare a letto.

Mentre il mondo pregava, impazziva, lottava invano contro

un meritato destino, loro decisero di amarsi ancora una

volta, di vivere quegli ultimi momenti di vita insieme,

fondendosi in un unico corpo. Entrambi desideravano

ancora una volta quel contatto, quell'incrocio di sguardi e

respiri, quelle sensazioni che mai più avrebbero provato e

che aveva accompagnato il loro tempo insieme. Lei

desiderava ancora una volta che il suo corpo l'avvolgesse,

agognava ancora una volta quei gemiti, quei respiri

affannosi, quegli spasmi, che lui gli avrebbe donato quando

si sarebbe mossa con più audacia e con frequenza maggiore.

Lui l'avrebbe accolta dentro di sé con la solita naturalezza,

come due pezzi perfettamente combacianti. Ancora una

volta avrebbe atteso ogni suo movimento come una danza

ipnotica e accolto le sue parole dominanti, con un segnale di

dolcissima resa. Lei inaspettatamente si era trovata fin

dall'inizio a guidare ogni loro incontro, ogni loro contatto.

Al di là di ogni sua immaginazione, di ogni imposizione

sociale, lei caparbiamente aveva ricoperto quella posizione

che non aveva cercato, né voluto, ma che riusciva a

mantenere nonostante tutto, nonostante se stessa. Un po'

per orgoglio verso chi vedeva in quei gesti qualcosa da

attribuire al genere opposto, ma soprattutto per amore,

aveva fatto suo quello spirito dominatore. Sapeva che

vederla prevalere era tutto ciò che lui voleva e riusciva a

sentire. Lui fin dall'inizio non aveva fatto altro che essere se

stesso, contro quella sfilza di “se stesso” che la società

avrebbe voluto attribuirgli.

9


Vedere il corpo di lei, che da sempre aveva ammirato

nonostante tutti i difetti che lei gli aveva fatto notare,

ancora una volta dominante e dominatore, aveva reso questi

ultimi momenti infiniti, estemporanei da tutto il resto.

Come se quelle urla di disperazione e di preghiera che

sentiva dall'esterno della loro abitazione fossero il

sottofondo di uno dei tanti film che avevano lasciato a metà,

distratti dall'odore di voglia e desiderio dei loro corpi. Lei

aveva imparato a distinguere nitidamente l'odore del suo

desiderio, della sua voglia. Le bastava toccare con una mano

il suo ventre, caldo ed accogliente, ed avrebbe sentito

chiaramente nell'aria quel profumo che l'avrebbe eccitata e

inebriata, come il mosto appena lavorato. Timidamente era

riuscita a confessarglielo durante il loro primo anno di

relazione, in uno dei tanti viaggi in macchina, ma era

sempre stata scettica sul suo averla presa sul serio. Oggi

probabilmente, mentre tutto moriva, anche lui avrebbe

sentito rinascere quell'istinto quasi primordiale tra i suoi

sensi. Avrebbe capito quei momenti in cui, quando lei a

pieni polmoni respirava l'aria intorno a loro, esclamava

ingenuamente di sentire i suoi ormoni espandersi nelle

narici. Avrebbe capito e ne avrebbe fatto incetta.

E mentre tutto moriva.

In un mondo che non aveva capito che nulla è fisso, nulla è

predestinato, soprattutto in “desiderium animae et

corporis”, e che invano aveva cercato di imporre nelle loro

menti un'impostazione che loro naturalmente e

istintivamente avevano ignorato, loro ancora una volta

avevano sfidato con finta inconsapevolezza

quell'immutabilità mutabile e plasmabile.

Ancora una volta e forse per l'ultima volta si erano ritrovati

uniti in un unico corpo caldo.

10


E mentre tutto moriva loro si amarono ancora una volta.

In un accecante bagliore che entrambi ignorarono poiché

entrambi già accecati dal bagliore dei rispettivi corpi, distesi

in un'imperfetta imperfezione.

P e n s i e r i s p a r s i - I

Ogni tuo gesto, anche il più involontario, ogni tuo respiro,

mi ancora a te come in un sortilegio da cui non riesco a

liberarmi, con la consapevolezza di esserne io stessa

l'artefice, nella tua più totale inconsapevolezza. Nella tua

assenza ritroverò me stessa, nel tuo silenzio ritroverò le mie

parole, la mia salvezza.

P e n s i e r i s p a r s i - I I

Avrei dovuto lasciarti qui, in questo piccolo spazio buio,

dove già in passato ho trattenuto le mie platoniche

esperienze. Mi sarei risparmiata i tuoi silenzi, i tuoi non

sguardi, il tuo farmi sentire fuori luogo. Il tempo di un

battito ti saresti dissolta, allo stesso modo in cui sei entrata,

silenziosamente, senza permesso.

11


M i c h e l e C a t a p a n o

D o m e n i c a m a t t i n a

È inutile parlare se tanto hai già deciso

Che questo carnevale non ti toglie più il respiro

Lo sai non so ballare stare sobrio è uno schifo

Dammi un minuto e scendo

Mi finisco il vino

Stare giorni nel letto

Lacrime nel the caldo

Nei tuoi occhi di grano io mi frantumo

Tu sei solo fumo

Io ci passo attraverso

Ogni notte e mi stanco

Di trovarci dentro uno specchio del cazzo

C'è legna nei miei sogni ti hanno preso i turchi

Hai un sole nelle mani non lo senti quanto bruci?

È inutile parlare e poi ti ho già capito

E questo carnevale non mi ha tolto mai il respiro

Starò giorni nel letto

A lacrime nel the caldo

Nei tuoi occhi di grano io mi frantumo

E tu sei solo fumo

E ci passo attraverso

Ogni notte mi stanco

Di trovarti dentro uno specchio del cazzo

12


intervallo

INEDITO,

di sera


M a r i a C h i a r a S i s i

N o , n o n e s i s t o n o i f a n t a s m i

Picchietta le dita sul volante, una dopo l’altra, lentamente.

Ha parcheggiato la macchina davanti al grande cancello

grigio. Un ramo di edera si attorciglia intorno al buco della

serratura. Edoardo non ha ancora il coraggio di uscire.

Rimane seduto al posto del guidatore, il motore ancora

acceso, la cintura agganciata. Sono quasi cinque minuti che

non toglie lo sguardo dalla grande casa al di là del recinto. È

come se gli mancasse l’aria, come se la macchina si stesse

facendo sempre più stretta. Ha abbassato i finestrini ma non

è servito a nulla... La camicia gli si appiccica sudaticcia sulla

pelle.

Sono quindici anni che non torna fra queste due montagne.

L’ultima volta sua madre era ancora viva ed era lei che

faceva tintinnare le chiavi del cancello fra le mani. Proprio

le stesse chiavi mezze arrugginite abbandonate ora sul

cruscotto della sua jeep. L’acciaio riflette la luce tenue della

prima mattina... strani raggi circondano Edoardo, sembrano

spiriti risorti dai morti.

Questa mattina è partito all’alba, colto da una strana

sensazione. Si è svegliato in mezzo alla notte, deciso a

partire in direzione della casa che ogni estate lo ospitava da

bambino.

L’aveva sognata bella come una volta. Davanti all’ingresso

c’era sua madre che tagliava le rose “Edo...” lo chiamava

“Vieni qua...” E lui (uomo adulto e razionale) si era subito

alzato dal letto e si era infilato i pantaloni.

Ma adesso nel giardino di fronte alla casa non c’è nessuno.

Sono morti tutti. Lui, unico superstite, è venuto solo.

14


No, non crede nei fantasmi, ma perché allora non riesce a

scendere dalla macchina? Sarà questo silenzio che lo

spiazza? Sarà l’erba incolta che lo sconsola? No, i fantasmi

no di certo: quelli non esistono.

Spegne quindi il motore, scende dalla macchina con le mani

in tasca. Ma l’aria umida gli pesa nei polmoni, ogni passo è

come muoversi fra le sabbie mobili. Procede lento verso il

cancello, lo apre piano, strappa via l’edera con fatica.

Nel giardino non ci sono più le rose che crescevano copiose

sui cespugli bassi. Sua madre le accudiva ogni mattina, poi

ne prendeva un paio e le gettava sul tavolo della colazione.

Quando Edoardo si affacciava dalla finestra della sua

cameretta vedeva sempre la sua mamma con le cesoie fra le

mani. Tagliava decisa, accarezava le foglie con amore.

Adesso di quei cespugli non c’è più niente se non qualche

ramo rinsecchito. Quale desolazione... Passa una nuvola ad

oscurare il sole. No i fantasmi non esistono ma cos’è

quest’ombra a forma di donna che si proietta sul giardino?

Perché poi tiene delle cesoie fra le mani? Ad Edoardo si

ferma il cuore. Ma è solo un abbaglio e questo solo un

vecchio cespuglio. No, i fantasmi non esistono.

“Edo...Vieni qua...” sussurra il vento.

“Arrivo” risponde subito Edoardo. Ma è solo il vento che

parla. Lui è cresciuto ormai. Soffoca, quindi, le proprie

parole tossendo. No, non esistono i fantasmi. No, lui non gli

ha appena risposto.

Meglio procedere dritto, verso il portone. Cigola questo sui

cardini mentre lo spinge. Dentro buio ed odore di muffa. La

casa è vuota e silenziosa, fra le mura si sente rimbombare

soltanto il battito del suo cuore.

15


Ed è da lì, da dentro il suo petto, che cresce la voglia di

urlare: “Eccomi! Ci sono!”. Ma non lo fa. Questa volta

sopprime le parole aspirando la polvere.

Una volta le finestre erano sempre aperte e il vento giocava

con le tende bianche. Tende ora abbandonate sul

pavimento, grigie e sporche. Ma come scordarsi sua madre

che tutti gli anni ad inizio stagione le stendeva sotto il sole.

Le staccava usando una scala, sotto braccio le portava in

lavanderia e le immergeva in una grande tinozza. Era

magico guardarla mentre posizionava le tende bagnate su

lunghi fili davanti all’ingresso. Il vento spostava il tessuto,

nascondeva il suo volto e poi, quando meno te lo aspettavi,

rivelava i suoi occhi neri.

Edoardo sentiva ancora quello sguardo stuzzicargli il cuore,

era come un sospiro di sollevazione. Ma adesso le tende

sono a terra.

Fermo, di spalle alla porta Edoardo si porta una mano sugli

occhi : sono umidi. Perché? Perché ha voglia di piangere?

No, non esistono i fantasmi, ma se esistessero forse adesso si

sentirebbe meno solo.

Edoardo si scuote tutto d’un tratto. Alla sua destra c’è un

tavolo dalle grosse gambe panciute. Quasi non lo riconosce

ricoperto come è di cianfrusaglie. Lampade, libri, vasi sono

accumulati sopra e tutto attorno. Edoardo si avvicina e

divertito comincia ad osservarli uno ad uno. Ripercorre

nella memoria il loro vero luogo di appartenenza. Questo

vaso era in cucina, sulla destra, l’ultimo scaffale. Questa

lampada era nella camera dei miei, sì sul comodino di

mamma...

16


Edoardo è ancora al buio, deve strizzare le palpebre per

distinguere gli oggetti che ha di fronte. Il gioco all’inizio lo

diverte poi lo prende una strana sensazione. Ancora una

volta in quella giornata gli manca il respiro. Ancora una

volta, senza neanche accorgersene, cerca di riempirsi i

polmoni con un tipo d’aria che non esiste più. Solo la

polvere danza lenta nella luce che filtra dal portone. Non c’è

più la brezza estiva dei suoi ricordi.

Edoardo si allontana dunque dal tavolo, confuso. Tornato

esattamente dove si trovava prima, si ferma di nuovo sui

suoi due piedi. Gli occhi fissi nel buio sembra osservare

qualcosa o qualcuno. Ma cosa scorge di fronte a sé? Un

ricordo? La realtà?

Mentre il sole gli sferza la schiena, sente una leggera

pressione fra le due scapole. No, non esistono i fantasmi. Ma

Edoardo non si gira a controllare di essere solo. Se i

fantasmi esistono sono sicuramente timidi, meglio non

disturbarli. Sulla sua camicia sente la forma di una mano

che lo accarezza piano. Piano, sente il tessuto scostarsi sotto

il tocco immaginario. Dolcemente sente la mano scendere

lungo i fianchi ed entrare nella tasca dei suoi pantaloni.

Chiude gli occhi. No, non esistono i fantasmi, ma se

esistessero sarebbero sicuramente timidi.

Rimane così per un po'. Nel silenzio sente solo il suo

respiro. La mano è sparita. Apre gli occhi al buio della casa.

Cala la sua mano nella tasca dei pantaloni, dentro ci trova

una rosa.

Un’unica realtà (?) e infiniti strati di ricordi. No, sua madre

non ha viaggiato nel tempo per trovarlo. Sua madre è

sempre stata qua, fra le mura di questa casa sperduta. No,

non esistono i fantasmi.

17


V a l e r i a R a z z a n t e

Nelle fotografie che vi propongo si raccoglie un insieme di

immagini di luoghi visti e vissuti personalmente tra il 2017 e il

2022, spazi grazie ai quali gradualmente ho avuto modo di

riscoprire la mia passione per la fotografia. Il confronto con la

fotografia è diventato ormai per me di uso quotidiano e se da un

lato utile a ciò che vedo e studio in ambito archeologico e storicoartistico,

dall'altro è uno dei migliori modi attraverso i quali

riesco a catturare attimi, persone e sensazioni di viaggio e talvolta

di vita quotidiana.

Quello che gli scatti di seguito rappresentano si può definire una

sintesi del mio attuale e passato rapporto con Siena e la Toscana.

18


Le foto spaziano dagli anni trascorsi in città come studentessa

dell'ateneo (2017-2020) a quelli successivi e correnti in cui, ormai

lontana, ritorno e rivedo tutto sempre con lo stesso sguardo legato

ai ricordi che sembrano ancora incastrarsi alla perfezione nei

vicoli di Siena, ma anche con occhi diversi colmi delle realtà

incontrate altrove.

In queste foto vedrete dunque ciò che questi luoghi hanno

rappresentato e rappresentano per me: si susseguiranno foto che

riportano pause di solitudine e riflessione, ma anche momenti

condivisi e di felicità assoluta, altre ancora realizzate durante le

esperienze di scavo archeologico e infine scorci di località

attraversate durante brevi ma indimenticabili gite fuori città.

A Siena, e a tutto ciò che di meraviglioso regala a chi come

studente, come cittadino o come visitatore, la vive intensamente

giorno per giorno.

19


20


21


22


23


24


C l a r a B a r d e r i

G l i i n q u i l i n i d e l p i a n o d i s o p r a

Era passato molto tempo da quando qualcuno era andato ad

abitare nell’appartamento sopra il nostro. Ormai ci eravamo

abituati al silenzio, alla tranquillità del palazzo. La polvere

bluastra che filtrava dalle assi avvolgeva la nostra piccola

tana in un abbraccio nebbioso. Scendevamo le scale, logore

solo dei nostri passi, baldanzosamente, con quella vivace

arroganza propria dei padroni. Ci sentivamo liberi di

aggirarci per gli ambienti vuoti, ma mantenendo sempre un

senso di rispetto e pulizia. Eravamo consapevoli che la villa

non ci apparteneva e facevamo del nostro meglio per

tenerla in ordine e in armonia. Ero io ad occuparmi delle

faccende e del nostro figlioletto, mentre mio marito portava

a casa il pane. Ero lieta nella solitudine silenziosa della casa,

quando il piccolo dormiva. Troppe volte ero stata vittima

del rumore della vita altrui, troppe volte necessità e piaceri

stranieri avevano oppresso i miei. Aver finalmente

abbracciato questa abbacinante pace, lontana da ritmi

caotici, significava tutto per me. Le uniche grida venivano

dal cucciolo, ma ero capace di fermarle o trasformarle in

risate. Sembrava che quel pulviscolo lattiginoso formasse

una calda coperta sopra le nostre teste, quasi a proteggerle.

Grande fu il mio stupore quando, una mattina, mi svegliò

un battere di scarpe. Un tramestio, un girar di chiavi, tocchi

cupi sopra di noi. Mi voltai verso il mio compagno e, con un

sussurro che era quasi uno squittio, - sono arrivati degli

inquilini - dissi. Un gran vociare, parole sconosciute, uno

sbattere di porte. Mio marito mi abbracciò, conoscendo le

mie paure. Rise dei miei timori, assicurandomi che sarebbe

stato tutto come sempre, soltanto un po’ più vivace.

25


Magari avremo anche stretto dei legami, un’amicizia, chissà.

Dovevano essere in due, così sembrava dai toni di voce e dai

calpestii. Non vennero a presentarsi. Ci venne a trovare,

però, un forte odore di cipolle, lenticchie, rosmarino e

pesce. Si impresse nelle pareti e anche nei fiori che avevo

colto con cura, ci fece compagnia per molti pasti successivi.

Da quel momento capii che dovevo tenere tutto ben chiuso

quando cucinavano.

Imparai presto a riconoscere tutte le loro attività: quelle

pareti di carta non trattenevano nulla. Non dovevo far

dormire il piccolo se sentivo musica classica dal piano

superiore, perché poco dopo sarebbero giunti gemiti

soffocati e tonfi di letto. Non dovevo farlo mangiare quando

si gonfiavano le vecchie tubature, diffondendo ripugnanti

olezzi. I loro ritmi iniziarono a scandire i miei, senza che

riuscissi ad adattarmi. Quando tentavo di stendermi, di

abbassare le palpebre, brividi come rampicanti mi salivano

lungo le cosce, un lieve odore pungente iniziava ad emanare

la mia pelle. Gli occhi di nuovo sbarrati, le orecchie vibranti

per un rumore qualsiasi.

Ero pazza, diceva mio marito, ci avrebbero accolto,

sosteneva, una volta trovato il momento propizio per

presentarci. Forse avrei dovuto incontrarli, ma a quale pro

se intuivo la reale impossibilità di un sincero dialogo. Mi

decisi, tuttavia, a mettere lo zampino fuori più spesso.

Uscivo cauta, quando il rombo del motore mi aveva resa

certa di essere sola. Respiravo a pieni polmoni, mi godevo la

luce primaverile. Sorridendo tra le margherite e i denti di

leone, rincorrevo il mio cuccioletto e mi lasciavo scuotere

dalle risate rumorose che riuscivano a slacciarsi dal grumo

che portavo nel basso ventre. Groviglio che trovava nuovi

fili non appena valicato l’uscio, dove il pavimento

dell’ingresso, ormai dimentico delle nostre orme, ci

accoglieva con l’essenza inebriante e mortifera della

varechina.

26


Un giorno sbagliai i miei calcoli. Avevo atteso il silenzio

dopo lo stridio degli ingranaggi nella toppa. Ma muti e

felpati erano stati i passi scalzi di Lei. Furono la prima cosa

che notai, indelebile istantanea impressa nella mia retina.

Quei piedi snelli, dalle unghie smaltate di un rosa

madreperlaceo, avvitati su caviglie eleganti, morbidi, ma

con tendini tesi come spilli sottopelle e la pianta appena

accennata del piede orrendamente callosa, macchiata da

sporcizia esaltata dal bianco freddo della pelle.

Ricordo. Io, tutta scura, ma lucente, immobile. Lei, che se

ne accorge, che mi vede. Il suo volto che si sfregia in una

maschera disumana, le pupille che scompaiono nell’orrore,

la bocca che si storce in un grido di disgusto. E quel verso di

rabbia inorridita che mi fa scattare immediatamente dentro,

come ustionata. Nascondo mio figlio. Siamo stati scoperti.

La sentii urlare dal piano di sopra, un frastuono terribile, un

vero baccano. I suoi ruggiti rimbombavano come esplosioni

in tutto il nostro piccolo seminterrato e io non sapevo dove

trovare rifugio. Mi tenevo stretta al frutto della mia carne e

pregavo. Avevo colto in Lei l’incendio dell’odio, la superbia

della superiorità della razza. Ora avevo la conferma che ai

loro occhi saremo stati soltanto occupanti abusivi,

clandestini immondi.

La sera, tornato il mio compagno, cercai di convincerlo a

scappare. Sapevo che il nostro destino era quello dei

condannati ingiustamente, dei fuggitivi che si illudono di

trovare un luogo ospitale per poi scoprirlo infestato. Riuscì

a dissuadermi dal compiere una fuga precipitosa. Avremmo

finito le scorte che avevamo accumulato e poi saremmo

partiti l’indomani.

La luce che filtrava dalla finestra mi svegliò un’ultima volta

da una notte convulsa. La guardai illuminare le nostre

poche cose, il nostro giaciglio e gli ultimi cereali per la

colazione.

27


Avevo gli occhi lucidi e pensavo che non avrei mai trovato

una vera casa. Sapevo che per quelli della nostra razza non

vi era scampo. Ci eravamo trasferiti in città perché

pensavamo che fosse un luogo dove poter trovare maggiori

opportunità e riscattare la nostra condizione economica, ma

eravamo stati troppo fiduciosi in una umanità che si

rivelava ancora ostile.

Uscimmo con gli occhi lucidi e una forte arsura nella gola.

Furtivi, come ladri. Eppure ci accolse un’offerta, forse di

pace. Del cibo delizioso, dolciumi e cioccolata, ci era stato

lasciato davanti alla nostra entrata. Avevo un pessimo

presentimento, ma prima di poter impedire l’evitabile vidi i

baffi di mio marito coperti di briciole. Subito una barra a

colpirlo. Non si mosse più.

Corsi verso l’esterno, ma il mio piccolo era bloccato.

Qualcosa l’aveva incollato lì, su quel pianterreno che era

stato per tanto tempo il campo dei nostri giochi.

E poi Loro, trionfanti Dei pallidi e crudeli, scesero le scale,

ghignando. E, mentre l’ombra di una suola di plastica mi

impediva di vedere per l’ultima volta il mio innocente

amore, li sentii gioire: «Abbiamo schiacciato quei topi!».

28


В . Л . М и р о в й е в

I l p o p o l o c h e a v a n z a

29


B i r d s

Sono qui, di nuovo, dopo tutto questo tempo mi ritrovo al

Circolo di Pispini, non so se sono prontǝ, ma farò del mio

meglio. Voi siete prontɛ? Vi state divertendo? State bevendo

la vostra birra Moretti? Partiamo allora.

La sera, la notte, quando sono stancǝ sento come un

rumore, un suono ripetuto, qualcosa di fastidioso, che

insiste e insiste. Non vedo nulla, c’è solo buio, e il rumore è

sempre diverso, cambia di sera in sera e addirittura di

minuto in minuto, cambia d’intensità, d’intonazione, ma

ormai posso intuire cosa sia, o almeno provare a indovinare.

Così se lo incontrate, potete scappare, come è usanza fare.

Eccolo! È una alzavola, una canapiglia, un codone, un

germano reale, o magari un moriglione. Intuisco una

moretta, un fischione, una marzaiola, o il mio preferito, un

mestolone.

Potrebbe essere un mergus, uno smergo, un marangone, un

cormorano, una spatola, un airone, un tuffetto, uno svasso,

chi non ha mai visto uno svasso?, oppure una damigella

della numibia, una gallinella d’acqua. Sicuramente non è un

pollo o un tacchino o un gallo, insomma, uccelli importanti,

ma potrebbe essere un fagiano, o una folaga. Potrebbe

essere un gabbiano che si lamenta perché non ha ancora

trovato la compagna, un martin pescatore, il mestolone l’ho

detto?

Speriamo proprio non sia una cicogna. Però potrebbe essere

un gruccione, una poiana, un picchio, un piccione o forse

tanti piccioni, una tortora, non sarà sicuramente un cigno,

troppo snob, ma un rondone, una passera, un pettirosso, un

cardellino, non siamo anatre siamo oche, un merlo, una

civetta, o forse un gufo.

30


Forse è solo un gufo di palude, che bagna le ali nell’acqua.

Però poi, quando il rumore esterno smette, non smette

davvero, perché continua nella mia testa, picchia picchia,

con insistenza, con nostalgia, come un ricordo. E allora

sembra uno strangisso, uno strisciullo o un fucullo e mi

chiedo se sto sentendo bene, perché potrebbe essere anche

una scazzola o l’olurnario, ma no, sono abbastanza sicurǝ: è

la santuccia e poi il coccicone, la dimattera, il confuorto, il

ramaccino, e da lontano sento anche la martazia, la

verdacciola, mi sembra il Galileo e tanti, tanti palmirelli. Ci

sono sicuramente un digenovasso e il paolella, sempre

insieme, infine eccolo lì, il romanoccolo, così vicino da

poter essere facilmente catturabile con una jetball.

Attenti se li incontrate. Non è facile approcciarli.

Alla fine, non è molto diverso da prima, quando sentivamo i

vecchi, gli antichi, gli estinti: il Dromornitide di Stirton, il

Pelagornis chilensis, l’Asteriornis, l’Uccello elefante, il Moa.

I grandi dinosauri volanti della nostra infanzia che

pensavamo fossero rettili e invece avevano le piume.

Di giorno il rumore cessa, si spegne, scompare. Per fortuna

qui è ancora notte.

Speriamo di non finire come Dodo.

31


"Inedito di sera" ringrazia il Circolo Arci Lavoro e Sport di

Via Pispini (SI), senza il quale non sarebbe stato possibile

questo evento.

Un ringraziamento speciale va ai partecipanti che hanno

accolto con entusiasmo il nostro appello, accentando di

essere la vera anima di questa serata.

Il team di "Inedito, di sera" per l'anno 2022 è composto da

Barderi Clara, Cavallari Maria Laura, Cerasa Serena, Di

Matteo Maddalena, Leonesio Marta e Mancini Luca.

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!