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Antologia su Alba de Céspedes

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Le chiamavo e non mi rispondevano. Ancora una volta pensai di

fuggire, rifugiarmi nella vecchia casa in Abruzzo. Avrei trovato

lo zio Rodolfo seduto alla scrivania, nel pacifico studio, ov’era

dipinto il grande albero che imprigionava il mio nome tra i rami.

Zio Rodolfo era un uomo del mio sangue e in lui potevo fidare.

Era il solo che potesse prendermi tra le braccia, portarmi via,

farmi riposare in un letto dalle cortine bianche. Non avevo

incontrato che lui, in tutta la vita, al quale potessi appoggiarmi.

«Zio Rodolfo...» ripetevo: «Zio Rodolfo...» Non venne. Ero sola

dietro le spalle di Francesco, un muro livido nella fioca luce

dell’aurora. Provavo finalmente il refrigerio della fredda pistola

sulla tempia. «Tous mes adieux sont faits» mi dicevo guardando

in viso mia madre: «Tous mes adieux...»

«Francesco» proruppi disperata: «Aiutami, Francesco...»

Egli si scosse appena: «Dormi» mormorò: «sta’ tranquilla, dormi.

Parleremo domani».

In me il cane rabbioso ebbe un balzo, si slanciò. M’avventai

contro Francesco e gli scaricai la pistola nella schiena.

Così fu pronunciata contro di me la sentenza più dura. Francesco

era stato un uomo integro e non aveva fatto nulla che fosse

condannato dalla legge. Durante il processo io neppure tentai di

difendermi. Se mi fosse stato possibile svelare, dinanzi a tanta

gente, tutto ciò che m’aveva offeso nella vita, non sarei stata più

Alessandra, ma un’altra. E allora anche la mia vita sarebbe stata

altra. Non ero mai riuscita a parlare fin dalla prima volta in cui il

giudice mi aveva interrogato, aspro, ostile, dettando poi

freddamente al cancelliere. Mi avevano condotto in una stanzetta

grigia nel palazzo di giustizia che, guardando in una strada dei

Prati, somigliava alle stanze della casa dove avevo trascorso la

mia infanzia.

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