Anch’io l’ho sperato, per un momento. Ci siamo baciati, stretti.Poi ho ripreso: «No. È difficile spiegarmi. Vedi, io hoincominciato a lavorare perché avevo bisogno di uno stipendio, tumi hai detto che hai lavorato notte e giorno, per trent’anni,perché avevi deciso di diventare ricco. Mi pare che il danaro nonsia una giustificazione. Lavorare insieme per diventare ricchi nonmi pare che possa essere uno scopo». Sento, anzi, che il danaro cidivide, suscitando in me un altro desiderio, basso, colpevole:quello di possedere ciò che possiede lui, ciò che lo rende sicurodove io sono incerta e indifesa. Giorni or sono, Guido era senzamacchina, volle accompagnarmi a casa in tram.Fu un’avventura per lui, non conosceva il prezzo del biglietto: ilfattorino lo guardava, insospettito, e io ridevo: ma ero dalla partedel fattorino. Qualche volta camminiamo a piedi per un tratto;Guido non ne ha l’abitudine e, quando attraversa la strada, temesempre di essere investito dalle automobili.Una sera io lo guidavo per mano, scherzando, ma intantopensavo: “Hanno paura, i ricchi...” quasi godendo di sentirlosoggetto a un timore a me sconosciuto, proprio lui che è salvo datanti timori che a me, invece, sono familiari. E quando lo vedotirare fuori dalla tasca molti biglietti di grosso taglio cercandocento lire per pagare il caffè, non mi piace: perché sento che, seme li offrisse, forse li prenderei. Avrei in comune con lui soltantoil peccato e il danaro. «Non è possibile, credi» ho concluso.Sono stata io a dire che era ora di andare, a spegnere la lucesulla scrivania, a chiudere la porta. Guido mi guardava, muto, eio compivo quei gesti senza soffrire, come se, da quel momento,nulla potesse più procurarmi dolore, o gioia. In istradacamminavamo accosti, ma la gente, passando, ci divideva. Cosìabbiamo raggiunto il lungotevere, ci siamo presi sottobraccio. Ioparlavo, calma, dicevo che lunedì non potrò andare in ufficio,occupata dai preparativi del matrimonio di Riccardo, che avròbisogno di un lungo permesso, e che Michele e i ragazzi hannodeciso che io smetta di lavorare, che resti a casa col bambino.67
Ho aggiunto: «Nessuno può occuparsi di un bambino meglio dellanonna». Avevo pronunziato questa parola con intenzione.Ero certa che tutto quanto sembrava doloroso, prima, dopoaverla pronunziata sarebbe sembrato naturale. Ma nullacambiava: eravamo due persone giovani che camminavanosottobraccio nella dolce sera primaverile. Quando ci siamoseparati avrei voluto richiamarlo: ho sentito che era la mia ultimapossibilità di essere giovane che si allontanava. E certo anche luipensava la stessa cosa, lo vedevo camminare con le spalle curve.68
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