Antologia su Alba de Céspedes
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17 aprile
Quando ho udito il rumore della serratura mi sono alzata di
scatto, ansiosa. Cercavo un motivo plausibile, per giustificare
l’urgenza della mia telefonata. Non volevo confessare che avevo
soltanto bisogno di vederlo, di stare con lui. Egli è entrato
rapido, deciso; quasi non mi scorgeva, dapprima, poiché aveva gli
occhi abbacinati dalla luce di fuori: la stanza era in penombra e io
m’ero rifugiata nel vano della finestra: «Che cosa c’è, Valeria?»
ha detto venendo verso di me. Intanto riponeva le chiavi nella
tasca e quel gesto familiare mi ha commosso. «Non è possibile»
ho mormorato mentre egli mi baciava le mani: «Bisogna che lasci
l’ufficio, che mi allontani, qui è troppo difficile. Non so più dove
rifugiarmi. Ho bisogno di un permesso, quindici, venti giorni di
permesso, prenderò ora le mie vacanze estive. Ho deciso di
andare da una sorella di mia madre, a Verona, per staccarmi di
qui, rasserenarmi.»
Non ci avevo mai pensato seriamente prima d’allora, eppure
d’improvviso quella partenza m’appariva come la sola via di
liberazione, la salvezza. Ma il mio annunzio sembrava rallegrare
Guido.
«Quando?» mi ha chiesto dopo una pausa. Io ho risposto: «Non
so. Vorrei partire subito, ma temo di non poter lasciare
d'improvviso la casa, i ragazzi. Tra quindici giorni». Egli si è
allontanato per andare a sfogliare il suo calendario sulla
scrivania. Quando è tornato presso di me, mi ha preso di nuovo le
mani e, guardandomi amorosamente negli occhi, ha detto: «Tra
due settimane io devo essere a Trieste. Mi basta rimanere un
giorno a Trieste. Al ritorno posso fermarmi a Venezia. Tre
giorni, cinque anche, Verona è molto vicina». Poi ha soggiunto,
piano: «Cinque giorni a Venezia».
Da quando egli ha detto queste parole non ho più trovato pace.
La colpa è mia. Non avrei dovuto arrivare fino a questo punto,
non avrei dovuto telefonargli, farmi raggiungere in ufficio dove
ero sola.
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