Antologia su Alba de Céspedes
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«Dov’è andata?» egli insisteva contenendo, in quella domanda, la
sua rabbiosa impotenza.
«Via. È andata via. Via.»
Mi prese per il polso e mi scrollò. Avrei voluto che mi facesse
male, che mi facesse scricchiolare le giunture, che mi facesse
soffrire fisicamente, insomma; volevo, in tal modo, essere
costretta a esibire una forza che in quel momento sentivo
vacillare. Ma, in realtà, egli mi stringeva appena, forse aveva
preso il mio braccio per sostenersi.
«Dov’è andata?» ripeteva.
«Non lo so.»
Nel mio petto sentivo la grande macchina correre, piegarsi alle
voltate.
“Presto” la incitavo col pensiero, “presto”, mi pareva che un
indugio avrebbe potuto perderci tutti, “presto.”
«Non tornerà più» ripetevo furiosamente. «Non metterà più piede
in questa casa.»
«Con chi è andata?» egli mi domandò, sottovoce.
«Che ne so, io? È andata via.»
Sentivo di avere negli occhi e nel viso un’espressione spavalda,
impertinente: volevo irritarlo, fargli intendere che ero partita con
la mamma anche se la legge mi costringeva a restare.
«Lo sai» disse. «Sai tutto.» Poi, brusco, domandò: «Che ora è?».
Alzammo entrambi lo sguardo al grande orologio che pendeva
sulla credenza. Mancavano pochi minuti alle dieci, tra breve il
portone si sarebbe chiuso lasciando fuori mia madre. Era fatto,
ormai, era fuggita. Io respirai.
Ogni rumore taceva. I vicini avevano spento la radio, i ragazzi
non giocavano nella strada, come sempre in estate, prima di
andare a dormire. Mi parve che il silenzio non fosse mai stato
così fondo: s’udiva solamente il sordo ticchettìo dell’orologio,
monotono, inesorabile, opprimente.
«Tornerà» mio padre disse. «Domattina la farò ricercare dalla
polizia.»
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