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Antologia su Alba de Céspedes

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durante la guerra, quando lavoravamo fino a tardi. Intanto il

direttore, sorseggiando il caffè, apriva una cartella. Io gli ho

offerto: «Lavoriamo?», lui ha risposto: «No, è sabato» e io ho

soggiunto: «Che importa?». Lui non desiderava altro, in verità.

«Che le ho detto?» ha osservato ridendo: «È un vizio», ma

eravamo contenti.

Discutevamo di certe nuove forniture, io prendevo appunti per

scrivere una lettera a Milano. L’ufficio intorno a noi era calmo,

accogliente, i tavolini, in ogni stanza s’immaginavano ordinati,

chiusi gli armadi degli archivi, i telefoni non squillavano, non

s’udivano gli scatti secchi del centralino né il nervoso ticchettare

delle macchine da scrivere. Mi pareva di apprezzare per la prima

volta tutto quanto era attorno.

21 febbraio

Il direttore è stato due giorni a Milano, è tornato stamani. Sono

andata a parlargli di alcune pratiche che avevo dovuto lasciare in

sospeso perché, ignorando la sua partenza, non gli avevo chiesto

istruzioni. Lui ha detto che credeva di vedermi sabato

pomeriggio in ufficio, e pensava di avvertirmi allora. Mi sono

affrettata a dirgli che infatti, avevo avuto in animo di andarci,

ma che poi me ne ero astenuta, temendo di disturbarlo: ho anzi

aggiunto che ero arrivata sino alla fermata del tram. «Che

peccato!» ha detto lui. Stavo per assicurarlo che andrò senz’altro

sabato prossimo, poi ho giudicato meglio tacere.

Però è tutto il giorno che ripenso al tono in cui ha detto «Che

peccato!». Forse Michele aveva ragione di essere geloso di lui.

Forse da anni egli va in ufficio ogni sabato, aspettando che ci

vada anch’io.

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