Antologia su Alba de Céspedes
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Egli mi guardava ridere, incerto, diffidente.
«È morta» spiegai. «S’è ammazzata.»
Vidi gli occhi di mio padre sbarrarsi in un disumano terrore. Poi
caddi a terra, svenuta nella mia risata come in una pozza di
sangue.
Alcuni giorni dopo zia Clarice venne nella mia camera.
«Senti un po’, Alessandra» mi disse arrampicandosi sulla sedia e
lasciando i suoi piccoli piedi calzati di nero dondolare nel vuoto:
«è vero che Eleonora è morta?»
Io la fissai per un attimo, incerta: mi pareva che avrei dovuto
inventare una bugia come si fa con i bambini.
«Se è morta» ella continuò senza attendere la mia risposta «sono
molto contenta. Poiché così troverò anche lei, in paradiso. Ho già
tanta altra gente che m’aspetta: mamma, papà, Cesira, e poi
molte zie, cugini, nipoti, mia nonna, che, quando ero piccola, mi
voleva tanto bene. Faranno una gran festa nel vedermi. Non
vedo l’ora che venga quel momento. Chi sa come accadrà: mi
piacerebbe ch’io potessi arrivare di sorpresa, mentre sono tutti
seduti in circolo e dicono: “Come tarda, Clarice!”.»
Ero vicina a lei, la carezzavo sui capelli bianchi, lisci, lucenti:
«Davvero saresti contenta?» le domandai.
«Certo» rispose, quasi risentita, stringendosi nelle spalle con
delicate movenze di gatto: «non ho più voglia di stare qui: ormai
sono vecchia, mi annoio. Non faccio niente tutto il giorno.
L’inverno passa presto perché mi corico al tramonto e dormo;
d’estate, invece, le giornate non finiscono mai. M’annoio: vorrei
andare in paradiso a sentire la musica.»
Aveva sulle carni un odore di polvere di riso e di confetto: «Che
musica ti piace, zia Clarice?» le chiedevo per incitarla a parlare.
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