Antologia su Alba de Céspedes
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«Ho capito: neanche tu saresti contenta di morire. Dev’essere
perché non vuoi lasciare gli uomini. T’hanno già incantata.
Altrimenti perché una donna non dovrebbe desiderare di morire?
Lassù c’è un buon profumo di gigli come in chiesa per il Corpus
Domini. I santi portano in mano fiori bianchi e santa Cecilia
suona la musica, Eleonora suona Il sogno di un valzer. E qui
invece? Qui lavorare, mettere al mondo i figli, allattare i figli,
lavorare nei campi, lavorare in casa, tutto il giorno lavorare. E
sempre aver paura degli uomini perché sono di cattivo umore,
perché hanno l’amica e spendono danaro con l’amica. Sempre
tremare, piangere, piangere sempre per questi antipatici uomini.
Se non fossero incantate da loro, perché le donne non dovrebbero
desiderare di morire?»
Sveglia, ero oppressa da un incubo: nell’appartamento di sopra,
in quello contiguo, nei bianchi casamenti moderni che sorgevano
accanto al nostro, in tutte le case di Roma, in tutte le case del
mondo, vedevo le donne sveglie nel buio, dietro l’invalicabile
muro delle spalle maschili. Parlavamo lingue diverse, ma tutte
tentavamo invano di fare udire le stesse parole: nulla poteva
attraversare l’incrollabile difesa di quelle spalle. Bisognava
rassegnarsi ad essere sole, dietro il muro; e stringerci tra noi,
sorreggerci, formare un grumo di sofferenza e di attesa.
Era il solo conforto che ci fosse consentito, insieme con quello di
lavorare, partorire, piangere; e questo davvero era il nostro
sollievo: piangere, sole, sedute nelle cucine azzurre che al
tramonto divengono livide e tristi, nelle cucine grigie dove i
ragazzini giuocano in terra e spesso anche loro piangono con voci
lugubri e già adulte. Alcune tra noi, come la Nonna, si
appagavano nell’esser padrone dei grandi armadi della
biancheria, cupi e solenni come bare: altre, senza saperlo, si
riducevano addirittura a dimenticare se stesse in un seguito di
giorni ricchi, futili, mondani.
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