Mousse 26 ~ <strong>Moyra</strong> <strong>Davey</strong> From top, clockwise – Receivers, 2003. Courtesy: Murray Guy, New York. Long Life Cool White, 1999. Courtesy: Murray Guy, New York. Fridge, 2003. Courtesy: Murray Guy, New York. Paw, 2003. Courtesy: Murray Guy, New York. Opposite – Shure, 2003. Courtesy: Murray Guy, New York.
Mousse 26 ~ <strong>Moyra</strong> <strong>Davey</strong> gdv: C’è sempre una sorta di senso di immobilità nelle tue opere, la sensazione di cose e oggetti che non abbiano visto la presenza umana per molto tempo. Le persone sono raffigurate molto raramente. Potresti parlare di questo elemento? Perché una simile distanza? Ovviamente è una questione che non riguarda solo l’atmosfera dell’immagine... md: È vero, è raro che nelle mie fotografie compaiano esseri umani, ed è così da più di vent’anni. Fino al 1984 circa ho realizzato molti ritratti ma, grazie all’esposizione alla critica della rappresentazione – attraverso la scuola di dottorato e il Whitney Program – quell’impulso si è gradualmente atrofizzato. Ho pensato a lungo a una frase, tratta dal saggio di Walter Benjamin Piccola storia della fotografia e citata da George Baker: “La rinuncia all’uomo per la fotografia è, fra tutte, la più irrealizzabile”. È un sentimento che condivido pienamente; tuttavia, Benjamin adorava anche Atget, la cui opera è quasi completamente svuotata della presenza umana: “come la scena di un crimine” è la famosa frase con cui Walter Benjamin stesso ha descritto le opere di Atget. Amo la tradizione della strada, incarnata da Robert Frank, e quella del diario, esemplificata dal Larry Clark degli inizi e da Nan Goldin, Peter Hujar, David Wojnarowicz. Ammiro particolarmente questo tipo di lavoro, ma il mio temperamento e la mia visione si sono in qualche modo evoluti in una direzione ermetica, perfino agorafobica, più in linea con la fotografia testimoniale o, in qualche caso, perfino con le immagini di eBay: oggetti che lasciano intuire una presenza umana, ma che essenzialmente vivono di vita propria. Forse quell’immobilità caratteristica deriva dal lungo tempo che ci è voluto per scattare alcune di quelle fotografie: il tempo penetra nell’immagine. gdv: Nel testo di Eric Rosenberg sulla tua opera vi è un passo in cui si dice: “Lasciate che il presente sia, dicono le immagini di <strong>Davey</strong>, lasciate che abbia il suo tempo, che si prenda il suo tempo, specialmente se il futuro significa disfarsi di ciò che è rotto prima ancora che abbiamo determinato in md: Mi piace che Adam abbia citato dei diari, perché io stessa ritengo che molte delle mie fotografie siano diaristiche; di questi giorni penso che la macchina fotografica e il quaderno per gli appunti siano quasi intercambiabili. Amo il libro di Pavese. Lo scorso anno ne ho lette alcune parti in francese e proprio recentemente l’ho recuperato dallo scaffale. In due punti ho piegato gli angoli delle pagine e uno di quei due passi riguarda la lettura: “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi,” e il secondo riguarda la scrittura: “vogliamo realizzare un’opera che comincerà stupendoci”. La stessa cosa vale per la fotografia, (Garry Winogrand: “Scatto fotografie per scoprire che aspetto avrà la cosa fotografata”): vogliamo essere sorpresi dall’immagine. In termini di dimensione politica, credo che in alcune delle immagini vi siano elementi di politica femminista, specialmente in quelle che ritraggono uno spazio domestico, il pavimento, il frigorifero, la polvere ammassata. Inoltre viene suggerito uno stile di vita che non concentri l’attenzione sulle cose materiali. La posizione femminista emerge più chiaramente nelle cose che scrivo. Ho tenuto una conferenza su Louise Bourgeois in cui effettuavo una triangolazione tra lei, in quanto figura storica del periodo bellico, Marguerite Duras e Mildred Pierce, il personaggio fittizio del romanzo di James M. Cain. E ora sto lavorando ad un testo che deve molto a Mary Wollstonecraft, la femminista, educatrice e attivista politica di fine Settecento. gdv: Vorrei chiederti della tua esperienza e della tua amicizia con una figura importante come quella di Colin De Land di American Fine Art, dove hai cominciato a esporre nel 1994. Ma vorrei che mi parlassi anche dell’esperienza di far parte del collettivo che ha creato Orchard, la galleria newyorchese gestita da artisti. Il programma era davvero eccitante e, a parer mio, uno degli ultimi momenti culturali importanti. Orchard ha messo in scena e ha prodotto i nuovi progetti di Allan McCollum, Andrea Fraser, Michael Asher e molti altri. che modo ciò che è rotto potrebbe essere riutilizzato, tenuto o visto”. Pensi di poter aggiungere qualcosa a tale osservazione? Che significato attribuisci esattamente al tempo? md: Sono molto felice di leggere la parola “presente” nella frase di Eric, perché spessissimo mi vengono poste domande sul “passare del tempo”. So che molti degli oggetti che compaiono nelle fotografie sono antiquati, ma non è quello il motivo per cui li fotografo. C’è un motivo specifico per ciascuna immagine: può essere per il modo in cui cade la luce (Speaker); una confluenza di forme (Nyro); la mia continua attrazione per la polvere (Shure, Paw, Two Streaks, ecc.). Glad, invece, è una sorta di scherzo sulla costipazione da un punto di vista freudiano. E poi c’è l’importanza che per me riveste la rappresentazione della musica (Greatest Hits ecc.). Per esempio, considero il collezionismo di dischi una forma di salvaguardia e di omaggio e qualcosa di intrinsecamente ottimistico. Ma sono totalmente d’accordo con il sentimento espresso da Eric: il ritmo con cui consumiamo nuovi oggetti è spaventoso. L’uso di combustibili fossili, l’industria e le manifatture stanno rendendo tossico il pianeta; ma qui negli Stati Uniti ci viene detto di comprare, comprare, comprare per salvare l’economia. In un modo o nell’altro ci stiamo dirigendo verso l’implosione. gdv: Le tue fotografie, sempre di dimensioni modeste e mai troppo spettacolari, mostrano le condizioni di vita e di lavoro come metafora della condizione umana. Adam Szymczyk ha paragonato il tuo lavoro a quello che Cesare Pavese, nei suoi diari, chiamava “il mestiere di vivere”. Questa posizione, dal tuo punto di vista, si lega maggiormente a una dimensione poetica, politica o a entrambe? Perché? md: Colin era una figura poetica e ambigua, che interpretava il ruolo di mercante d’arte quasi come una messinscena. Dopo la sua morte e quella di Pat Hearn, molti di noi, che gravitavamo nella loro orbita, hanno sentito un forte senso di perdita, la sensazione di un vuoto nel mondo dell’arte, e volevano trovare uno spazio che potesse essere un po’ quello che l’American Fine Art aveva rappresentato per loro. Penso che abbiamo sgobbato molto nei tre anni di attività di Orchard: abbiamo dato vita a una moltitudine di mostre (prevalentemente collettive), proiezioni, eventi e abbiamo dialogato molto tra noi e con la comunità che si è rapidamente formata intorno a quello spazio. gdv: Come funzionava? Com’era organizzato il programma di Orchard? Qual era il clima culturale al suo interno e quale fuori? md: Il clima culturale era quello rappresentato da George Bush e dai repubblicani, quindi orribile. Molti di noi erano così depressi per la rielezione di Bush che sentivano di dover fare qualcosa semplicemente per sopravvivere fisicamente e moralmente. Nic Guagnini (eravamo undici membri) insisteva particolarmente sul fatto che le mostre dovessero protestare contro, o almeno riguardare la guerra in Iraq (in realtà penso che solo una mostra, curata da Nic e intitolata “September 11, 1973” fosse esplicitamente incentrata sulla guerra). Inizialmente siamo partiti da una posizione unitaria, ma nella pratica si è assistito ben presto ad un processo di diversificazione e le mostre hanno cominciato a riflettere un insieme d’interessi individuali piuttosto che quelli di un gruppo preso nella sua totalità. Nonostante ciò l’idea di esporre opere intergenerazionali (come quelle di Asher) è sopravvissuta e nella maggior parte dei casi ci siamo attenuti alla regola di non organizzare mostre monografiche. Il primo anno ci siamo incontrati spesso come gruppo e abbiamo avuto accese discussioni sul programma; poi alcuni membri hanno ottenuto lavori in California, mentre altri erano sempre in viaggio per le mostre e così il nucleo si è ridotto. È stato allora che sono cominciati i disaccordi che sembrano endemici ai collettivi... Nonostante ciò, è evidente l’importanza che ha avuto Orchard in quei tre anni, e una comunità di artisti di New York ne sente ancora la mancanza. Sono fiera della profusione di mostre e di eventi a cui abbiamo dato vita; basta dare un’occhiata al sito web (Orchard 47) per rendersi conto della riflessività e dell’inventività che emergevano da ogni progetto. 49