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LA GESTIONE POSITIVA DEI CONFLITTI INTERPERSONALI

la gestione positiva dei conflitti interpersonali - Ciessevi

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323312 ARTICOLO DI INTERESSEL'educazione alla pace come bisogno eticodi Daniele Novara, Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti www.cppp.itEducare alla pace è sempre stato un pensiero ricorrente nell'opera dei grandi educatoridel Novecento, preoccupati che la cultura della guerra s'infiltrasse nelle nuovegenerazioni e producesse quei danni che poi ha effettivamente prodotto. Jean Piaget,Maria Montessori, Celestin Freinet, Gianni Rodari, Danilo Dolci e Don Lorenzo Milanisono solo alcuni fra i tanti nomi che si possono ricordare per dimostrare quanto nel pensieroeducativo ci sia sempre stata questa vocazione pacifista e nonviolenta. IndubbiamenteMaria Montessori rappresenta il vertice di questa istanza: due volte candidata alNobel per la pace proprio per il suo continuo richiamo all'impegno educativo come prevenzionedella guerra. In effetti di pedagogie militari è pieno il mondo europeo e non solo,dalla Hitlerjugend tedesca ai Ballila fascisti, dal pionierismo sovietico all'educazione militarenei paesi del blocco dell'Est, il Novecento fino ai suoi epigoni, ha spesso prodottoculture educative che di fatto si muovevano dentro il perimetro della formazione militare.Ma quest'istanza puramente oppositiva ha sempre trovato il suo limite nella difficoltà a essereuna pedagogia operativa, ossia a uscire dall'esortazione e anche da un certo intimismoe a diventare una procedura operativa penetrante sia a livello scolastico che fuoridagli ambienti scolastici. È per questo che a partire dagli anni '80 in Italia e a livello internazionale(almeno nell'ambito occidentale) si è iniziato a lavorare con molta rapidità econ molta dedizione a un'idea di educazione alla pace decisamente più operativa andandoverso una logica apparentemente antitetica al concetto stesso di pace, ossia lagestione dei conflitti. Si è pertanto passati da un'idea che creava una sorta di contrapposizionefra pace e conflitto - vedendo la guerra come una forma di completamentodel conflitto -a una posizione che, al contrario, vede la pace come la capacità di assumerepienamente il conflitto, vivendolo come momento centrale delle relazioni e andandoverso una diffusa alfabetizzazione al conflitto che diventi concretamene operativae strumento di apprendimenti per le nuove generazioni. In tutto il mondo occidentalesono sorti istituti con questa finalità e in Italia questo tipo di lavoro è stato assunto fin dal1989, giusto l'anno della caduta del muro di Berlino, dal CPP - Centro Psicopedagogicoper la Pace e la gestione dei conflitti di Piacenza, che si è assunto il compito di elaborarein Italia strumenti sia didattici che teorici. Questo libro, grazie al prezioso incontro con l'UNI-CEF Italia, diventa uno degli strumenti più interessanti dal punto di vista didattico proprioperché rivolto alle scuole come manuale operativo che si integra nell'attività scolasticae nei processi di apprendimento e diventa occasione per una crescita comune.Il conflitto come apprendimento relazionaleSuperata pertanto l'ambiguità di una concezione di pace come assenza dì conflitti, cisi è posti il problema di quali sono le competenze che vanno sviluppate per poter gestiree vivere il conflitto come occasione di crescita e di apprendimento. Innanzitutto ladistinzione fra conflitto e violenza, una distinzione che da un punto di vista epistemologicorappresenta un punto di passaggio assolutamente inequivocabile e inevitabile. Tenendoconto dell'assoluta particolarità della lingua italiana - forse anche legata aretaggi culturali abbastanza facili da riconoscere - che tende a confondere e a sovrapporresemanticamente la parola conflitto con la parola guerra (improponibile in inglese,dove conflict e war hanno significati completamente diversi) occorre definireun'area di significati opposti che vedono nella violenza l'aspetto distruttivo e quindi ladannosità irreversibile, e che vedano invece nel confitto l'elemento relazionale che nonostantela sofferenza, il disagio e la difficoltà presenta caratteristiche di reversibilità. Inaltre parole il danno della violenza è sostanzialmente irreversibile, il danno del conflittoha caratteristiche di reversibilità, cioè di riparabilità. Ecco allora che queste due esperienzemostrano un confine se non nettissimo senz'altro definibile, che ci permette di assumereil conflitto come area di lavoro e respingere la violenza come strumentoinefficace nella gestione delle relazioni fra le persone e i gruppi. Non solo inefficace,ma anche terribilmente dannoso. Il senso comune in realtà porta spesso a pensare cheevitare il conflitto è sempre meglio perché comunque è dal conflitto che nascono laviolenza e la guerra. Questo è vero. Ma in che percentuale?Se noi osserviamo attentamente è una percentuale piuttosto bassa. Dal conflitto nasconomolte altre situazioni, molte altre esperienze, molti altri esiti. L'esito violento, guerresco,rappresenta una percentuale minimale dei nostri comuni e quotidiani conflitti, alpunto che si può tranquillamente dire che tante situazioni di violenza non sorgono affattoda conflitti. Al contrario, possono nascere da situazioni di rimozione e di occultamentodel conflitto che possiedono un potenziale esplosivo ben visibile in certi comportamentidavanti ai quali viene spontaneamente da pensare che il soggetto non abbia potutomanifestare il suo disagio, ma soltanto farlo esplodere. Da questo punto di vista la gestionedel conflitto rappresenta proprio l'antidoto naturale alla violenza e alla guerra. Edè su questo versante che si può quindi operare una profonda alfabetizzazione chetenga conto di alcune componenti ben precise. Vediamo di elencare alcuni obiettivi primari,perché in realtà il discorso è estremamente complesso e articolato.a) Saper stare nel conflitto. La formula assunta dal Centro Psicopedagogico per laPace e la gestione dei conflitti è so-stare nel conflitto, che vuoi dire anzitutto saper viverele proprie emozioni dentro il conflitto, capirle, dialogarci, osservarle e ovviamenteaddomesticarle. Il conflitto contiene le emozioni, ma è una strutturarelazionale ben più articolata che non le semplici emozioni. La pura e semplice rabbianon ci dice nulla rispetto alla gestione del conflitto. Quest'ultima nasce quandoin qualche modo c'è un contenimento emotivo della rabbia stessa, che consente distrutturare un inizio di relazione. È per questo che il so-stare nel conflitto rappresentaun momento di decantazione e di distanziamento che non sempre viene capitocome necessità relazionale, perché nella nostra cultura la relazionalità viene normalmentevissuta come vicinanza, come legame e con una certa fusionalità rituale.

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