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L’effluvio spezza il fiato, brucia gli occhi, aggredisce le<br />
narici prima ancora di varcare la soglia. È una porta, se così<br />
si possono chiamare quei quattro assi grezzi e la maniglia<br />
d’ottone recuperata chissà dove. In questi casi hai due<br />
possibilità: fermarti e lasciare il grosso ai ragazzi della<br />
scientifica, oppure buttarti dentro e farti inghiottire<br />
dall’inferno che si spalanca a un metro da te.<br />
Per Enrico Mancini questo è l’unico modo di esaminare<br />
la scena di un crimine. Osservare tutto insieme, in un unico<br />
colpo d’occhio, lasciarsi vincere dalla prospettiva<br />
dell’accesso, improvvisa e illuminante, e posare lo sguardo<br />
sui macabri tasselli del mosaico solo un istante dopo.<br />
«Cinque minuti», sussurra ai tecnici della scientifica ed<br />
entra con la Beretta in mano, il solito pensiero lo fulmina<br />
come uno schiaffo immateriale. È arrivato il momento? Sta<br />
per beccarsi la sua ultima pallottola? È allora che torna<br />
quell’immagine: il suo corpo per terra, gli occhi scuri sbarrati<br />
e un buco rosso e nero in mezzo alla fronte.<br />
Però non troverà lì il suo uomo, lo sa. I controlli<br />
all’aeroporto hanno confermato già da mezz’ora che il<br />
sospettato ha preso un volo per Caracas due giorni prima.<br />
Se l’è fatto scappare. Voleva prenderlo. Sentiva già il sapore<br />
della caccia, l’eccitazione dell’inseguimento.<br />
Quando l’aspro cigolio dei cardini lo spinge a ficcare lo<br />
sguardo nella penombra, la memoria recupera ogni<br />
centimetro, ogni linea, ogni minima imperfezione del viso di<br />
Marisa. È lei la garanzia della sua eternità, la certezza di<br />
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