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In questo numero - L'IRCOCERVO

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<strong>In</strong> <strong>questo</strong> <strong>numero</strong><br />

l’ircocervo - la rivista delle libertà - Trimestrale di cultura politica edito da Bietti Media Srl<br />

Sede legale: Corso Magenta, 25 - 25121 Brescia<br />

Anno 1, <strong>numero</strong> 1, Primavera 2007<br />

Registrazione presso il Tribunale di Brescia n. 7/2007 del 15 marzo 2007<br />

Direzione, Redazione e Amministrazione: Bietti Media Srl, Corso Magenta, 25 - 25121 Brescia<br />

www.bietti.it - tel. 030 295751 - fax 030 290445- e-mail: info@bietti.it<br />

Direttore: Fabrizio Cicchitto<br />

Vice Direttori: Sabatino Aracu - Pierluigi Borghini<br />

Direttore editoriale: Francesco Gironda<br />

Direttore responsabile: Gianluigi Da Rold<br />

Coordinamento di redazione: Beatrice Gironda, Monica Gironda, Ludovica Paolucci<br />

Stampa: Plus Group srl, Roma<br />

1<br />

l a r i v i s t a d e l l e<br />

l i b e r t à<br />

Nota dell’Editore pag. 3<br />

Politica<br />

Evoluzione e involuzione del bipolarismo all’italiana di Fabrizio Cicchitto 7<br />

Ds senza memoria storica di Gianfranco Polillo 18<br />

Margherita: un puzzle da interpretare di Gianni Baget Bozzo 26<br />

Le ragioni di un programma riformista di Maurizio Sacconi 30<br />

Modernizzatori, innovatori, riformatori di Daniele Capezzone 37<br />

Geopolitica, democrazia, terrorismo di Gianstefano Frigerio 40<br />

Economia<br />

Berlusconi e Prodi: il costo della discontinuità di Renato Brunetta 49<br />

Il bluff delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni di Pierluigi Borghini 54<br />

La risibile ascesa di Giovanni Bazoli di Cicchitto e Polillo 61<br />

F2i: le proposte del manager di Vito Gamberale 68<br />

F2i: il parere dell’economista di Francesco Forte 72<br />

Le telecomunicazioni per lo sviluppo del paese di Luigi De Vecchis 74<br />

Energia: rischi e opportunità di Alessandro Clerici 78<br />

Conflitto di interessi e proprietà dei giornali di Francesco Forte 86<br />

Storia<br />

Soccorso bianco di Arturo Gismondi 91<br />

Il vaso di Pandora degli archivi sovietici di Giancarlo Lehner 100<br />

Rischi nelle Commissioni parlamentari di inchiesta di Salvatore Sechi 110<br />

Rubriche<br />

Mentre andiamo in stampa: congratulazioni Sarkozy S. Berlusconi, F. Cicchitto 124<br />

La nuova comunicazione<br />

Stampa on line, la rivoluzione del terzo millennio di Gianluigi Da Rold 125<br />

La battaglia su Wikipedia di Francesco Gironda 126<br />

Recensione<br />

Luciano Canfora strumentalizza di Pier Ernesto Irmici 127


la rivista delle libertà<br />

è integralmente leggibile<br />

e scaricabile da <strong>In</strong>ternet:<br />

www.ircocervo.it<br />

www.bietti.it<br />

www.mediaonlinedellelibertà.it


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Nel luglio del 2002, a prefazione del primo <strong>numero</strong> de “l’ircocervo”, nel dare vita ad una<br />

pubblicazione che è poi uscita episodicamente in tutti questi anni, per raccogliere i progetti,le<br />

idee e le speranze della cultura liberal democratica, socialista e cattolico riformista,<br />

che in Italia si era riconosciuta, in grande maggioranza, nel programma della Casa<br />

della Libertà, scrivevamo che:<br />

Essere europei è una cosa complessa: una storia più che millenaria, culture e popolazioni<br />

nel tempo sovrapposte, scontri sanguinosi, nascita e crollo di ideologie, grandezze<br />

e abissi incommensurabili, domìni imperiali e schiavitù, filosofie, religioni, ricordi e<br />

oblii, rovine e monumenti... <strong>questo</strong>, e di più, è l’Europa!<br />

E noi italiani di questa complessità siamo partecipi. Le semplificazioni che così bene<br />

funzionano in altre società dell’Occidente, se applicate da noi rischiano di distorcere la<br />

corretta percezione della realtà, impedendoci di trasformarla in qualcosa di diverso e più<br />

corrispondente ai bisogni della nostra epoca.<br />

Non ci si chieda quindi di essere semplici, univoci, come se fossimo nati ieri. L’Ircocervo<br />

– animale mitologico, fantastica sintesi di molte nature – ci somiglia. Nell’assumerlo<br />

come simbolo, abbiamo voluto sottolineare la necessità, per gli europei e per gli italiani,<br />

di aggregare nel nuovo tutto ciò che, del tempo e delle esperienze passate, è restato<br />

vitale pur nelle contraddizioni della storia, nel superamento delle differenze, e nel permanere<br />

di importanti specificità. Ircocervi siamo quindi noi: laici, liberali e socialisti, cattolici<br />

liberali, pragmatici o idealisti, efficientisti o sognatori, decisi a<br />

comporre le nostre differenti storie in un nuovo progetto culturale<br />

e politico e a dotarlo di una sua autonoma prospettiva e di un suo<br />

percorso futuro che, partendo dalle nostre antiche storie, le superi,<br />

per realizzare un programma che consenta all’Italia e all’Europa<br />

di vincere il confronto con le sfide che i tempi nuovi ci impongono<br />

di affrontare.<br />

Gli scenari mondiali – succeduti al crollo del muro di Berlino e alla<br />

sconfitta del comunismo come progetto politico credibile e<br />

modello economico alternativo alle pragmatiche regole delle<br />

civiltà occidentali – presentano infatti altri ma non meno minacciosi<br />

pericoli per la pace, la libertà, la convivenza fra i popoli.<br />

Al fanatismo politico, all’utopia salvifica del totalitarismo comunista,<br />

si sono sostituiti il fondamentalismo religioso, l’odio<br />

per l’altro e una perversa volontà di spingere le nazioni e i popoli<br />

a uno scontro totale tra modelli inconciliabili di civiltà.<br />

Oggi, di fronte all’epoca di incertezza, che si è aperta sul “che<br />

fare” e che investe il nostro come gli altri paesi occidentali, l’Ircocervo<br />

si offre come spazio e laboratorio di studi e riflessioni. Spazio<br />

di meditazione e confronto, per tutti coloro che sentono il bisogno di esplorare<br />

nuovi percorsi culturali e politici per sciogliere i nodi che impediscono alla<br />

3


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

società italiana ed europea di sviluppare appieno le potenzialità necessarie a ricoprire<br />

il ruolo che la storia ci assegna in questi anni difficili dell’inizio del terzo millennio.<br />

Editando in questa primavera di cinque anni dopo, questa rivista trimestrale, che abbiamo<br />

chiamato, non a caso, “l’ircocervo - rivista delle libertà”,ci riproponiamo, con una<br />

veste aggiornata, come una voce di quella che si è, in questi anni dimostrata come la<br />

più importante e innovativa, tra le aree culturali italiane, in termini di volontà riformatrice,<br />

e di coerenza con le radici democratiche e liberali europee ed occidentali.<br />

Ricordiamo che, proprio a queste radici, fa riferimento quel vastissimo mondo, rappresentato<br />

dagli italiani che non accettano di consegnare definitivamente le sorti del nostro<br />

paese ad una nomenclatura senza più ideologia, superstite di ideologie sconfitte dalla<br />

storia. Una nomenclatura, di fatto autoritaria e autoreferenziale, riemersa più arrogante<br />

di prima, quale braccio esecutivo di un patto di potere, che salda gli interessi, di chi basa<br />

i suoi progetti per il futuro su una rinunciataria richiesta di assistenzialismo fondato<br />

sul voto di scambio, con l’egemonia di chi fa, dell’economia assistita e monopolistica, il<br />

cardine dei suoi progetti di personale arricchimento negli affari e di dominio sulla società<br />

italiana.<br />

Con questi cittadini, uomini liberi e non sudditi, speriamo di costruire, con analisi non<br />

pregiudiziali e nel confronto, le proposte programmatiche vincenti della sfida che oppone,<br />

ancora una volta nel nostro paese, il mondo delle libertà a quello della rinuncia e<br />

della conservazione e offrendo con <strong>questo</strong> il nostro contributo alla costruzione di un<br />

progetto politico ed organizzativo, capace di ridare all’Italia prospettive stabili di giustizia,<br />

progresso e sicurezza.<br />

4<br />

L'Editore


p o l i t i c a<br />

Cicchitto Polillo BagetBozzo Sacconi Capezzone Frigerio


Evoluzione e involuzione del<br />

bipolarismo all’italiana<br />

di Fabrizio Cicchitto<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Quali sono, o possono essere, i riflessi<br />

sulla vita politica italiana della formazione,<br />

nel centro-sinistra, del partito democratico<br />

che, dopo i congressi dei Ds e<br />

della Margherita, può considerarsi irreversibile?<br />

L’operazione ha due aspetti. Il primo consiste<br />

in una relativa semplificazione del<br />

sistema politico. Diciamo relativa perché<br />

alla fusione fra Ds e Margherita si accompagna<br />

la scissione di Mussi e Angius. Può<br />

darsi che anche ciò spinga una parte rilevante<br />

della maggioranza e del governo a<br />

firmare il referendum. A nostro avviso il rimedio<br />

è peggiore del male. Non crediamo<br />

al bipartitismo coatto fatto per legge.<br />

Si è anche detto che sia i Ds che la Margherita<br />

hanno scelto la strada di raffreddare<br />

la durezza dello scontro politico,<br />

dismettendo la tendenza alla criminalizzazione<br />

dell’opposto schieramento: si è<br />

parlato di “bipolarismo mite”. <strong>In</strong> sé il fatto<br />

è certamente positivo. Noi però riteniamo<br />

che la legittimazione autentica della Casa<br />

delle Libertà non dipenda dalla sinistra<br />

ma dal voto di milioni di cittadini.<br />

Siamo anche molto scettici sulla genuinità<br />

di questa operazione. Una parte di<br />

centro-sinistra è così preoccupata dalla<br />

debolezza del governo Prodi e dai rapporti<br />

di forza al Senato che cerca in tutti i<br />

modi di ammorbidire l’opposizione. Poi<br />

7<br />

vediamo che il centro-sinistra alla Camera<br />

spinge come un forsennato verso una<br />

sollecita approvazione di una legge molto<br />

dura sul conflitto d’interesse. <strong>In</strong>oltre,<br />

siccome finora non c’è alcun segno di<br />

rottura sul terreno del governo fra la sinistra<br />

moderata e la sinistra radicale, a nostro<br />

avviso prima delle elezioni amministrative<br />

è bene che il centro-destra continui<br />

a contestare globalmente il governo<br />

Prodi e il centro-sinistra. Ciò è richiesto<br />

dal nostro elettorato e anche dalla catena<br />

di cose sbagliate che sta facendo<br />

<strong>questo</strong> governo. Proprio mentre scriviamo<br />

<strong>questo</strong> saggio, il governo ha deciso di<br />

smantellare la Bossi-Fini e di proporre<br />

una legge ultrapermissiva per ciò che riguarda<br />

l’immigrazione che per di più propone<br />

una modifica del corpo elettorale alle<br />

elezioni amministrative per gli immigrati<br />

che sono in Italia da cinque anni:<br />

un’operazione gravissima anche perché<br />

punta a decidere unilateralmente una cosa<br />

molto delicata.<br />

Comunque la formazione del “partito democratico”<br />

è nel suo complesso un’operazione<br />

assai discutibile. <strong>In</strong> primo luogo,<br />

esso si fonda sull’assiemaggio fra l’apparato<br />

e il sistema di potere dei post-comunisti<br />

e quello dei popolari senza alcuna<br />

sintesi culturale “superiore”. Il documento<br />

fondativo del partito è solo una foglia di fi-


co. Per di più nei due congressi, come<br />

premessa a un’operazione che dovrà avvenire<br />

di qui ai prossimi mesi, è stata fatta<br />

una minuziosa operazione di lottizzazione<br />

interna fra le varie correnti o tendenze<br />

che attraversano sia i Ds sia la<br />

Margherita. Esattamente il contrario di<br />

quello che ha “visto” Scalfari il quale ha<br />

lodato il “superamento delle oligarchie”.<br />

L’espressione mediatica di un complesso<br />

di contraddizioni molto più profonde esistenti<br />

nei due partiti è l’offerta dal <strong>numero</strong><br />

straordinario di probabili candidature alla<br />

leadership futura del Partito Democratico.<br />

Nell’immediato <strong>questo</strong> ruolo è svolto da<br />

Prodi e tutti gliene sono grati. Più o meno<br />

gli stessi che hanno organizzato correnti<br />

o gruppi all’interno dei partiti in corso di<br />

unificazione – e cioè Fassino, D’Alema,<br />

Veltroni, più Bersani, e Finocchiaro fra i<br />

Ds, e Rutelli, Franceschini, Letta, Fioroni<br />

nella Margherita – sono anche i possibili<br />

candidati leaders. Francamente la cosa ci<br />

appare grottesca anche se ha avuto<br />

un’ottima copertura mediatica.<br />

Aldilà di questa proliferazione di leader, di<br />

gruppi e sottogruppi, i due congressi non<br />

hanno risolto due problemi di fondo. <strong>In</strong><br />

primo luogo quello riguardante l’affiliazione<br />

internazionale. Non si tratta di un problema<br />

secondario che può essere esorcizzato<br />

con le vaghe formule adottate nel<br />

congresso dei Ds: in effetti l’affiliazione internazionale<br />

non è tanto importante per il<br />

ruolo delle centrali politiche internazionali,<br />

ma perché essa serve a definire, anzi<br />

ad autodefinire una forza politica. Orbene,<br />

finora il partito democratico in formazione<br />

sfugge a ogni precisa definizione<br />

mentre, però, su <strong>questo</strong> terreno i due partiti<br />

confluenti accentuano la loro caratterizzazione<br />

e quindi la loro differenza: i Ds<br />

ribadiscono il loro riferimento al Pse,<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

8<br />

mentre la Margherita, tutta la Margherita,<br />

conferma il suo rifiuto di aderire al Pse.<br />

L’altro aspetto singolare dei congressi di<br />

due partiti che sono larga parte dal governo<br />

Prodi è che essi non si sono affatto<br />

misurati con il principale problema che ha<br />

oggi il centro-sinistra e cioè la crescente<br />

impopolarità del governo Prodi per le politiche,<br />

a partire dalla finanziaria, che esso<br />

ha finora svolto. Delle politiche del governo<br />

Prodi i due congressi hanno evitato<br />

di parlare, forse perché avrebbe guastato<br />

la festa.<br />

I due congressi hanno avuto una ben diversa<br />

intensità e drammaticità. La Margherita<br />

aveva già da tempo metabolizzato<br />

la fine drammatica della Dc e aveva<br />

composto un partito pluriculturale anche<br />

se a prevalenza cattolica. L’operazione<br />

fusione, in effetti, è vissuta dai leader della<br />

Margherita come un’operazione di razionalizzazione<br />

dell’esistente e senza<br />

un’elevata ambizione politico-culturale<br />

ma con l’intenzione di gestire il potere in<br />

modo assai invasivo.<br />

Il fatto è che nel gruppo dirigente della<br />

Margherita è prevalente un iperpoliticismo<br />

che lo porta a credere che tutto – valori,<br />

cultura, affiliazione internazionale,<br />

programmi, cariche, posti – verrà contrattato<br />

con i Ds. L’obiettivo è quello di “democristianizzare”<br />

il nuovo partito.<br />

Il gruppo dirigente della Margherita, però,<br />

non si è misurato con tre motivi di sofferenza<br />

della sua base: il fatto di realizzare<br />

addirittura un partito con quei post-comunisti<br />

che oggi certamente non sono più tali,<br />

ma una parte dei quali sono diventati<br />

laicisti anticlericali sul piano della cultura<br />

politica in assenza di altro (non c’è più il<br />

comunismo e svapora anche la socialdemocrazia)<br />

e che sono dotati di una strut-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

tura organizzativa e di potere molto più<br />

forte di quella della Margherita; la presenza<br />

in un governo finora dominato dall’alleanza<br />

fra Prodi e la sinistra radicale, nel<br />

quale gli elementi di moderatismo e di riformismo<br />

sono molto scarsi; la spinta fortissima<br />

dei Ds per l’adesione al Pse.<br />

La nostra impressione è che nella Margherita<br />

possa avvenire un fenomeno inverso<br />

a quello dei Ds: mentre questi ultimi<br />

sono andati incontro ad una scissione<br />

costruita da esponenti del gruppo dirigente<br />

storico, nella Margherita, a fronte di<br />

una convergenza unitaria, Parisi a parte,<br />

nella gestione del patito attuale e di quello<br />

futuro di tutto il gruppo dirigente originario,<br />

la “scissione” può invece farla una<br />

parte più o meno vasta della base come<br />

reazione di rigetto per il fusionismo con i<br />

post-comunisti.<br />

Molto più complesso e drammatico di<br />

quello della Margherita è stato il congresso<br />

dei Ds. La drammaticità di fondo deriva<br />

dal fatto che a suo tempo il Pci si è trasformato<br />

in Pds e <strong>questo</strong> nei Ds, ma nella<br />

sostanza, pur fra queste vicissitudini, la<br />

forma-partito originaria, il vincolo associativo<br />

storico finora erano rimasti in piedi,<br />

per non parlare della continuità di fondo<br />

dei gruppi dirigenti nazionali e locali. Allora<br />

la scissione di Mussi e dei suoi compagni<br />

ha concorso ad accentuare un “lutto”<br />

che molti si portavano dentro, perché ha<br />

testimoniato l’esistenza di un dissenso fino<br />

alla rottura nei confronti di quella parte<br />

prevalente del gruppo dirigente che ha<br />

deciso di chiudere totalmente anche con<br />

il partito post-comunista perché intende<br />

fonderlo con un altro di derivazione democristiana.<br />

Non è stato elaborato per il<br />

nuovo partito un sistema di valori e di<br />

convinzioni etico-politiche altrettanto forti<br />

9<br />

di quelle del passato. A <strong>questo</strong> punto c’è<br />

una soluzione di continuità più forte di<br />

quella avvenuta dalla Bolognina in poi.<br />

Le cose non si fermano qui. L’ambiguità<br />

dei Ds è ancor più aggrovigliata perché riguarda<br />

anche le alleanze politiche e la<br />

qualità stessa del partito post-comunista.<br />

I Ds si sono mossi in modo assai diverso<br />

da un partito socialdemocratico autentico<br />

come la Spd di Schroeder. L’Spd<br />

ha rifiutato l’alleanza con il partito della<br />

sinistra radicale di Gys e di Lafontaine e<br />

per <strong>questo</strong> è arrivato a realizzare con la<br />

Cdu un governo di grande coalizione. I<br />

Ds procedono a zig zag: per un verso si<br />

alleano con la sinistra radicale, per altro<br />

verso fondono il loro partito con quello<br />

post-democristiano facendo venir meno<br />

anche l’esistenza di un partito socialdemocratico.<br />

Il nodo irrisolto dei Ds è anche quello<br />

ideologico-culturale. Su <strong>questo</strong> terreno si<br />

verifica una situazione paradossale: oggi<br />

i DS rimangono un partito ideologizzato –<br />

come tendenza metodologica dal suo<br />

gruppo dirigente – ma che però è senza<br />

ideologia; ciò vuol dire il massimo della<br />

contraddizione e della frustrazione.<br />

I Ds sono un partito post-comunista “rinato”<br />

e “rifondato” nel 1989-1990 attraverso<br />

una singolare operazione per cui<br />

esso è diventato il partito giustizialista<br />

per eccellenza (e in questa veste ha svolto<br />

un ruolo di killer in primo luogo nei<br />

confronti del Psi). Poi per un verso, proprio<br />

per marcare di aver “sostituito” integralmente<br />

il Psi, il Pds-Ds è entrato nell’<strong>In</strong>ternazionale<br />

Socialista, ma per un altro<br />

verso non si è mai trasformato per in<br />

un organico partito socialdemocratico.<br />

Già nel 1989 con Occhetto il Pds si è autodefinito<br />

come “democratico” ma era


molto netta, non solo nel titolo, la scelta<br />

di essere, appunto, “democratico di sinistra”.<br />

Dal congresso di Pesaro in poi i Ds<br />

hanno cominciato a lavorare per diventare,<br />

pur fra mille contraddizioni, finalmente<br />

un partito socialdemocratico.<br />

<strong>In</strong> tempi rapidissimi e nello spazio di circa<br />

un anno hanno dovuto fare un’altra<br />

conversione a U per arrivare a diventare<br />

“democratici” tout court, non più socialdemocratici<br />

e nemmeno “democratici di<br />

sinistra” ma, appunto, democratici e basta,<br />

il che vuol dire tutto e quindi niente.<br />

<strong>In</strong> sostanza nel corso di poco tempo i Ds<br />

hanno fatto il più veloce e integrale spogliarello<br />

ideologico che una forza politica<br />

abbia mai fatto. Essi avevano appena cominciato<br />

a fare i primi passi e a emettere<br />

i primi vagiti nella nuova veste di socialdemocratici<br />

e in un batter d’occhio adesso<br />

devono smontare la nuova impalcatura<br />

appena costruita per procedere ad<br />

una nuova ristrutturazione – ideologica,<br />

politica, organizzativa – nella chiave di<br />

un inedito partito democratico fatto insieme<br />

a democristiani che sono in servizio<br />

permanente effettivo come ha dimostrato<br />

il modo con cui hanno gestito il loro congresso.<br />

Questa scelta toglie ai diessini perfino il<br />

fiore all’occhiello del simbolo del partito<br />

socialista europeo mentre da qualcuno<br />

viene ipotizzata un’identità con l’omologo<br />

partito americano che è ben altra cosa<br />

dalla socialdemocrazia. Neanche Fregoli<br />

riuscirebbe agevolmente in un’operazione<br />

così veloce di travestimento politico,<br />

culturale, antropologico. Così si verifica<br />

l’ennesimo paradosso della vita politica<br />

italiana. Un partito ancora ideologico se<br />

non altro nella cultura e nelle esigenze<br />

dei suoi quadri, si ritrova totalmente senza<br />

ideologia: sarebbe stato possibile, ed<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

10<br />

è stato anche fatto, tracciare i termini<br />

ideali di un trapasso dal comunismo alla<br />

socialdemocrazia: invece il passaggio<br />

dalla socialdemocrazia alla democrazia<br />

“tout court” non ha motivazioni di fondo.<br />

La democrazia rimane nel vago e nel generico.<br />

L’unico che si muove a suo agio in questa<br />

melassa è Veltroni che se la cava, però,<br />

sul terreno dell’artificio retorico e quindi<br />

parla di Gandhi e di Martin Luther King,<br />

essendosi già a suo tempo identificato sia<br />

in Kennedy che in Berlinguer.<br />

Ora, negli Usa operazioni “teoriche” di<br />

<strong>questo</strong> tipo sono possibili e talora, se<br />

espressi con stilemi linguistici efficaci e<br />

penetranti, hanno anche successo mediatico,<br />

ma in Italia e con una formazione<br />

politica che ha nel suo retroterra Gramsci,<br />

Togliatti, Berlinguer e, sul piano culturale,<br />

personalità come Galvano della Volpe,<br />

Antonio Banfi, e per venire ai giorni nostri,<br />

pur con una minore statura, Beppe Vacca<br />

o Massimo Salvatori o Giacomo Marramao<br />

o Pietro Barcellona, <strong>questo</strong> esito non<br />

si fonda su un’operazione culturale “nuova”,<br />

ma è solo un exploit mediatico-politicista.<br />

Né basta Michele Salvati a riscattare tutto<br />

ciò, anche perché il congresso dei Ds,<br />

una volta sancita la fine totale delle ideologie,<br />

non è stato neanche chiaro sul terreno<br />

del riformismo pratico: nessuno sa<br />

qual è la posizione dei Ds sul piano della<br />

legge elettorale, della legge sulle convivenze<br />

di fatto, della riforma previdenziale,<br />

della destinazione del “tesoretto” ecc: non<br />

parliamo, poi, della politica estera e della<br />

confusa miscela multiculturale, antiamericana<br />

e antiisraeliana, finora cucinata da<br />

D’Alema.<br />

Allora, a fronte di tutte queste contraddi-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

zioni che permangono allo stato di bombe<br />

inesplose qual è il reale terreno d’incontro<br />

sul quale si sta coagulando il partito-democratico?<br />

Nella realtà il partito democratico ha il suo<br />

unico, reale fondamento nell’assiemaggio<br />

del potere nazionale e dalle molteplici forme<br />

del potere locale. Regioni, comuni,<br />

province prevalentemente controllate dal<br />

centro-sinistra hanno di fatto surrogato i<br />

partiti originari, per larga parte liquefatti, e<br />

sono esse la struttura portante del “superpartito”<br />

diessino-popolare che si esprime<br />

nella gestione onnivora degli enti locali<br />

fra cui, oltre alle scelte urbanistiche<br />

sul territorio, c’è anche il controllo del potere:<br />

un pieno di appalti, di consulenze, di<br />

cooperative, di consorzi d’impresa, di organizzazione<br />

della cultura che si estrinseca<br />

in una gestione del potere che a livello<br />

regionale e comunale se la gioca quasi<br />

alla pari con i meccanismi di tangentopoli<br />

ma gode della più totale impunità grazie<br />

alla copertura politica di una magistratura<br />

che mai farebbe all’odiato berlusconismo<br />

il favore di far sentire i rigori della giustizia<br />

agli intoccabili amministratori locali di<br />

centro-sinistra. Quindi il reale retroterra<br />

del partito democratico si fonda su <strong>questo</strong><br />

“pieno” di potere regionale e comunale e<br />

invece sul vuoto di un reale retroterra culturale<br />

e programmatico.<br />

Questo retroterra di potere politico-partitico<br />

locale però si fonda su una realtà di<br />

governo fortemente condizionata dalla sinistra<br />

radicale e che si è espressa in una<br />

legge finanziaria che ha rastrellato dalle<br />

tasche degli italiani circa quindici miliardi<br />

di troppo. Sono state bloccate alcune delle<br />

infrastrutture più significative e sono in<br />

atto delle controriforme per ciò che riguarda<br />

la riforma della scuola, la legge<br />

Biagi, la stessa riforma delle pensioni, la<br />

11<br />

Bossi-Fini. Non parliamo della politica<br />

estera, dove la politica chiaramente occidentale<br />

del governo Berlusconi viene rovesciata<br />

dalla linea antiisraeliana e antiamericana<br />

di D’Alema.<br />

Quindi, in <strong>questo</strong> quadro allo stato attuale<br />

le politiche di governo del centro-sinistra<br />

sono del tutto allo sbando. Ciò è destinato<br />

a complicare molto la vita alla formazione<br />

del partito democratico insieme<br />

alla definizione di una nuova legge elettorale.<br />

E veniamo al centro-destra, passato, presente,<br />

futuro.<br />

Ovviamente partiamo dal passato, cioè<br />

dal governo Berlusconi. Sul terreno della<br />

politica economica il centro-destra aveva<br />

fatto molto meglio di quanto esso stesso<br />

credesse: il rapporto deficit-Pil era intorno<br />

al 3,8 e, proprio attraverso i condoni, era<br />

stato messo in moto un meccanismo di<br />

recupero fiscale che ha regalato al centro-sinistra<br />

un incredibile aumento del<br />

gettito fiscale. <strong>In</strong> effetti – a parte i due gravi<br />

errori di non aver creduto nel Patto di<br />

Roma con Cisl e Uil, e alla sbagliata iniziativa<br />

sull’art. 18 che ha messo contro il<br />

governo Berlusconi tutte e tre le centrali<br />

sindacali, mentre invece con la Uil e la<br />

Cisl era possibile un rapporto positivo,<br />

tant’è che in quella fase contro Pezzotta e<br />

i suoi si scatenò un’ondata di violenza<br />

che andava messa in conto all’area della<br />

Cgil nel suo complesso – è tutta la cosiddetta<br />

“finanza creativa”, volendo usare la<br />

stessa frase usata per demonizzarla, di<br />

Giulio Tremonti che, al netto degli errori<br />

sopra indicati, va invece rivalutata.<br />

Va rivalutata facendo a Visco e a Bersani<br />

la seguente domanda: in una situazione<br />

recessiva, prima internazionale, poi europea<br />

e italiana, che altro si può fare se non


cartolarizzazioni, condoni di vario tipo e<br />

privatizzazioni se non si vuole tagliare lo<br />

stato sociale e/o aumentare la pressione<br />

fiscale? Il governo Berlusconi non ha fatto<br />

“macelleria sociale” (di <strong>questo</strong> termine,<br />

allora, insieme a quello di “declino” e di<br />

“povertà crescente” erano piene le gazzette<br />

e la televisione, in primo luogo quella<br />

Mediaset di Canale 5), ha leggermente<br />

diminuito la pressione fiscale (a partire<br />

dai redditi più bassi), ha incentivato l’aumento<br />

dell’occupazione con la legge Biagi,<br />

ha avviato una serie di grandi opere e<br />

alcune vere riforme (scuola, sanità, pensioni,<br />

federalismo, la Bossi-Fini), il tutto in<br />

piena recessione. Per di più l’ultima finanziaria<br />

del governo Berlusconi è stata molto<br />

rigorosa.<br />

Piuttosto l’errore di quel governo e del suo<br />

Presidente del Consiglio è stato paradossalmente<br />

quello di non aver comunicato<br />

quello che stava realizzando per circa<br />

quattro anni (Bruno Vespa, un signore che<br />

di queste cose si intende, recentemente<br />

su “Panorama” ha rinfacciato <strong>questo</strong> errore<br />

a Berlusconi) e quello di non aver modificato<br />

la gestione del potere reale.<br />

Quali furono i punti deboli di quella esperienza,<br />

visto che nella seconda metà della<br />

legislatura la popolarità del governo<br />

era in discesa?<br />

Il primo punto debole è stata appunto la<br />

comunicazione. Ci fu la valutazione sbagliata<br />

che “il fare” avrebbe comunque<br />

prevalso sul “parlare”. Quindi per quattro<br />

anni il gap comunicativo è stato pesante.<br />

Se si aggiunge che nella parte finale della<br />

campagna elettorale è scattata la par<br />

condicio è evidente che di fatto Berlusconi<br />

ha “comunicato” solo per un anno: a<br />

restringere ulteriormente i tempi c’è stata<br />

anche l’anticipazione della data delle ele-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

12<br />

zioni al 13 aprile perché, non si sa per<br />

quale ragione, il governo di centro-destra<br />

ha accettato il bizzarro criterio di evitare<br />

un cosiddetto “ingorgo istituzionale” inventato<br />

dai “dottor Stranamore” che stavano<br />

intorno a Ciampi per favorire il centro-sinistra.<br />

Con il ritmo assunto dalla rimonta<br />

berlusconiana, quindici giorni in<br />

più di campagna elettorale avrebbero<br />

consentito una vittoria piena al centrodestra.<br />

A <strong>questo</strong> aspetto comunicativo vanno aggiunte<br />

altri tre ordini di questioni: le crescenti<br />

contraddizioni all’interno della coalizione<br />

che hanno avuto varie fasi e caratteristiche;<br />

il comportamento di una<br />

parte dei ministri e sottosegretari; l’ostilità<br />

di tutto l’establishment presidenziale,<br />

amministrativo, finanziario; la mancata<br />

modifica del sistema di potere.<br />

Le contraddizioni all’interno della coalizione<br />

hanno avuto tre tappe. <strong>In</strong> primo luogo<br />

i “lunedì di Arcore” fra Berlusconi, Tremonti<br />

e la Lega hanno segnato una sorta<br />

di egemonia dell’asse del Nord che per i<br />

primi due anni è stato subito da An e dall’Udc.<br />

A un certo punto fra Fini e Casini si è realizzata<br />

un’alleanza che dapprima è stata<br />

motivata dall’insofferenza per l’asse del<br />

Nord e poi dalla convinzione del tutto sbagliata<br />

dell’ineluttabilità della sconfitta. Nel<br />

mirino prima fu Tremonti, che non a caso<br />

fu sostituito come Ministro del Tesoro, poi<br />

lo stesso Berlusconi. Per il Ministero del<br />

Tesoro il rimedio fu largamente peggiore<br />

del male presunto perché per un verso fu<br />

legittimata la del tutto erronea polemica<br />

del centro-sinistra contro la politica economica<br />

del governo; per altro verso la gestione<br />

di Siniscalco fu una mezza catastrofe.<br />

Comunque venne fuori l’immagine<br />

di una coalizione divisa, nella quale la


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

leadership di Berlusconi era esplicitamente<br />

contestata. Ma oltre a ciò, il governo<br />

era indebolito dal fatto che una parte dei<br />

ministri tecnici (l’eccezione fu la Moratti)<br />

da un lato non rispondeva affatto ai parlamentari<br />

della maggioranza, dall’altro non<br />

si occupava di mantenere i rapporti con il<br />

territorio specialmente per quello che riguardava<br />

il Sud. Ora la cosa può piacere<br />

o dispiacere, ma il Mezzogiorno è fatto<br />

così: richiede, anzi pretende che i ministri<br />

e i sottosegretari della maggioranza seguano<br />

le grandi, le medie e le piccole<br />

questioni del territorio. Paradossalmente<br />

a favore del Sud ci furono positive decisioni<br />

di grandi investimenti e anche un utilizzo<br />

assai più avveduto che nel passato<br />

dei fondi comunitari, ma mancò la gestione<br />

politica di tutto ciò sul terreno delle regioni<br />

e dei comuni. Così il Mezzogiorno,<br />

che nel 2001 era stato determinante per<br />

la vittoria del centro-destra, nel 2006 è<br />

stato determinante per il pareggio-sconfitta<br />

(vedi Calabria-Campania). Quel risultato<br />

fu preceduto dal risultato negativo delle<br />

regionali ove non si capisce come mai<br />

regioni tradizionalmente a indirizzo moderato<br />

quali l’Abruzzo, il Lazio, la Campania,<br />

la Puglia, la Calabria sono diventate<br />

di centro-sinistra (alle elezioni politiche,<br />

però, in Puglia il centro-destra ha realizzato<br />

un grande recupero): evidentemente<br />

ci sono stati rilevanti errori di direzione<br />

politica a tutti i livelli.<br />

Tutto ciò si collega anche con la cosiddetta<br />

gestione del potere. <strong>In</strong> Italia la situazione<br />

è da tempo paradossale sia dal<br />

punto sociale sia dal punto di vista del sistema<br />

del potere. Mentre negli altri paesi<br />

del mondo occidentale il blocco sociale<br />

conservatore è costituito dall’alleanza fra<br />

i grandi gruppi industriali-finanziari, l’altamedia<br />

borghesia e settori di destra del<br />

13<br />

sottoproletariato, e quello progressista-laburista<br />

è fondato sull’alleanza fra i “piccoli”<br />

operatori economici, i sindacati, i lavoratori<br />

dipendenti, in Italia la situazione è<br />

del tutto rovesciata. Il blocco sociale del<br />

centro-destra è di tipo interclassista, è<br />

fondato sui “piccoli” (piccoli imprenditori,<br />

artigiani, commercianti, professionisti) e<br />

su una larga quota di lavoratori dipendenti<br />

(al Nord la maggioranza della classe<br />

operaia ha votato nel 2006 per la Casa<br />

delle Libertà). <strong>In</strong>vece il centro-sinistra sul<br />

piano sociale si fonda sull’alleanza fra i<br />

grandi gruppi industriali-finanziari, le banche,<br />

la Cgil – e in parte la Cisl e la Uil come<br />

gruppi dirigenti, mentre circa una metà<br />

dei loro aderenti vota per Forza Italia o<br />

l’Udc – i dipendenti pubblici, i pensionati<br />

inquadrati nei sindacati, la maggioranza<br />

del voto giovanile.<br />

Sul piano del sistema di potere, l’establishment<br />

bancario, istituzionale (Csm,<br />

Cassazione, Corte Costituzionale, alcune<br />

autorithy), la Presidenza della Repubblica<br />

sotto Ciampi erano tutti nettamente schierati<br />

contro Berlusconi. <strong>In</strong> quegli anni si è<br />

creato un presidenzialismo atipico, dove<br />

l’interventismo del duo Ciampi-Gifuni ha<br />

travalicato i meccanismi costituzionali: su<br />

ogni legge, su ogni nomina significativa,<br />

contro molte esternazioni di Berlusconi<br />

c’è stato un pressing pressante, e francamente<br />

eccessivo, certamente non neutrale<br />

della Presidenza della Repubblica le<br />

cui “lance spezzate” “lavoravano” ogni<br />

giorno sui giornali, “Corriere della Sera” in<br />

testa, contro il governo. <strong>In</strong> sostanza c’è<br />

stato una sorta di presidenzialismo strisciante,<br />

di fatto, senza regole. <strong>In</strong>oltre non<br />

si è mai visto un governo gestire una situazione<br />

economica assai difficile avendo<br />

un ragioniere generale dello Stato – ci riferiamo<br />

al prof. Grilli – che in parte si


muoveva con difficoltà perché era un ottimo<br />

economista macroeconomico, ma<br />

non era un esperto di quel settore decisivo<br />

dell’amministrazione, e in parte perché<br />

ostile al centro-destra (la sua nomina fu<br />

salutata positivamente dall’On. Visco).<br />

A fronte di tutto ciò, molti sono stati i punti<br />

forti del governo di centro-destra. Della<br />

politica economico-sociale e delle riforme<br />

reali messe in campo abbiamo già detto.<br />

Va aggiunto l’organico piano di infrastrutture<br />

che puntava ad eliminare una serie di<br />

strozzature che strangolavano la crescita<br />

del paese.<br />

L’altro contributo fondamentale dato da<br />

Berlusconi ha riguardato la politica estera.<br />

Nessun altro leader politico italiano del<br />

passato ha avuto la profondità dei rapporti<br />

politici e personali che Berlusconi ha<br />

avuto con i “grandi” della terra, da Bush,<br />

a Putin, a Blair. Nel periodo 2001-2006 l’Italia<br />

ha avuto una politica estera di alto livello<br />

e per la prima volta assai coerente.<br />

Partendo da un’analisi fondata sul fatto<br />

che l’11 settembre del 2001 metteva in<br />

evidenza che, una volta crollato il comunismo,<br />

nel mondo era esplosa una nuova<br />

drammatica contraddizione, rappresentata<br />

dal fondamentalismo islamico e dal terrorismo<br />

da esso espresso, la scelta dell’Italia<br />

è stata quella di contrapporsi a sua<br />

volta alla tendenza (Chirac, Schroeder,<br />

poi Zapatero) di mettere l’Europa contro<br />

gli Usa, ma anzi di puntare tutto su una<br />

forte alleanza occidentale fra Europa,<br />

Usa, Israele, stati arabi moderati, Turchia.<br />

<strong>In</strong> <strong>questo</strong> contesto l’Italia è andata in Iraq<br />

dopo la guerra proprio perché Berlusconi<br />

non condivideva la linea di intervento armato<br />

scelta da Bush, ma poi ha ritenuto<br />

necessario esprimere una precisa scelta<br />

di solidarietà occidentale.<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

14<br />

Secondo la “dottrina” di politica “estera” di<br />

Berlusconi, per rispondere all’offensiva<br />

fondamentalista è indispensabile combinare<br />

insieme l’intervento armato con<br />

un’azione di politica economica-sociale<br />

che, però, non si deve fondare sui termini<br />

tradizionali della cooperazione internazionale<br />

perché si è visto che gli aiuti vengono<br />

spesso vanificati da classi dirigenti insieme<br />

corrotte e incapaci.<br />

Detto tutto <strong>questo</strong> il problema per Forza<br />

Italia e gli altri partiti del centro-destra è<br />

oggi quello di condurre una grande battaglia<br />

di opposizione al governo di centro-sinistra.<br />

Questo governo è caratterizzato da una<br />

catena di elementi negativi: l’impopolarità<br />

di Prodi; una legge finanziaria fondata su<br />

un’analisi economica del tutto sbagliata<br />

per cui si è tradotta in un indebito e inutile<br />

aumento della pressione fiscale che ha<br />

colpito tutte le classi sociali; una politica<br />

estera insieme astiosamente antiamericana<br />

e antisraeliana e per molti aspetti dilettantesca<br />

(la gestione del sequestro Mastrogiacomo<br />

da parte di Prodi-D’Alema è<br />

stata davvero una sequenza di errori che<br />

ci hanno messo ai margini della comunità<br />

internazionale e che hanno collocato il Sismi<br />

in una posizione imbarazzante a livelli<br />

internazionale); l’imprevedibile mancanza<br />

di professionalità di una parte cospicua<br />

del personale politico e di governo espresso<br />

dal centro-sinistra; l’infinita quantità di<br />

contraddizioni politiche che la nascita del<br />

partito democratico sta provocando nei Ds<br />

e nella Margherita e fuori da essi (vedi la<br />

costituente socialista organizzata da Boselli);<br />

il fortissimo condizionamento esercitato<br />

da una sinistra radicale che ha posizioni<br />

in politica economica e in politica<br />

estera così estremiste che spesso, anche<br />

aldilà degli orientamenti di Prodi e di D’A-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

lema, la politica estera dell’Italia appare<br />

del tutto allo sbando.<br />

Detto tutto <strong>questo</strong>, però, c’è anche il fatto<br />

che il centro-sinistra, compresa Rifondazione<br />

Comunista il cui gruppo dirigente<br />

appare del tutto integrato nel sistema di<br />

potere del centro-sinistra, vive in una condizione<br />

contraddittoria: la consapevolezza,<br />

all’interno dei Ds e della Margherita,<br />

che con <strong>questo</strong> tipo di miscela infernale<br />

fra dilettantismo, estremismo e intrinseci<br />

limiti di Prodi, il centro-sinistra rischia di<br />

andare “a sbattere” per il crollo dei consensi,<br />

e per altro verso, però, la convinzione<br />

che se si cambia qualcosa si corre<br />

il rischio di far franare tutta l’impalcatura<br />

faticosamente costruita nel 2006 andando<br />

ad elezioni anticipate e ad una sconfitta<br />

annunciata, aldilà degli stessi meriti o<br />

demeriti del centro-destra. Di conseguenza<br />

mentre scriviamo la situazione appare<br />

assai contraddittoria. Il governo è in coma<br />

ma, in assenza di alternative, può essere<br />

sottoposto ad un accanimento terapeutico<br />

che può prolungarne a tempi indeterminati<br />

l’agonia.<br />

Quindi allo stato attuale delle cose il centro-sinistra<br />

è sempre in crisi, ma tende appunto<br />

a sopravvivere proprio metabolizzando<br />

questa sua crisi come una condizione<br />

normale. A ciò bisogna aggiungere il<br />

fatto che siamo in una situazione del tutto<br />

anormale: l’attività della Camera e specialmente<br />

del Senato è stata ridotta ai minimi<br />

termini; l’esecutivo governa attraverso<br />

atti amministrativi senza leggi e decreti.<br />

Allo stato l’unica vera incognita è la legge<br />

elettorale nella quale si scaricano due<br />

tendenze contraddittorie: la richiesta dei<br />

“minori” di entrambi gli schieramenti di<br />

mantenere la propria identità politica, e la<br />

tendenza fortemente presente nella Mar-<br />

15<br />

gherita e nei Ds di liberarsi proprio del<br />

condizionamento eccessivo dei “minori” e<br />

come si dice di “razionalizzare” il sistema<br />

politico. Se questi due divergenti “interessi”<br />

non trovano una mediazione, la legge<br />

elettorale può anche essere una delle<br />

cause di quella possibilità di “implosione”<br />

di cui ha parlato recentemente Berlusconi.<br />

Questa continua esplosione di contraddizioni,<br />

il fatto evidente che l’ipoteca della<br />

sinistra radicale su Prodi e sulle stesse<br />

componenti più ragionevoli della coalizione<br />

è tale che rende impraticabile ogni riforma<br />

e che fa pesare un’ipoteca gravissima<br />

sulla politica estera del governo, tutto<br />

ciò, sommato insieme, potrebbe portare<br />

i gruppi dirigenti di Ds-Margherita a<br />

considerare fallito anche per loro e per il<br />

loro futuro l’esperienza dell’alleanza fra<br />

sinistra moderata e sinistra radicale e ritenere<br />

che l’unica via è quella seguita dall’Spd,<br />

cioè un governo di larga coalizione.<br />

Berlusconi l’ha proposto all’inizio della legislatura<br />

facendo i conti con i risultati elettorali.<br />

Allora Margherita e Ds hanno respinto<br />

quella proposta seguendo la linea<br />

opposta. Oggi il fallimento è di fronte a<br />

tutti, ma allo stato nei gruppi dirigenti dei<br />

Ds e della Margherita non emerge la volontà<br />

di cambiare linea politica. È molto<br />

forte il rischio che, in assenza di una iniziativa,<br />

il fallimento del centro-sinistra si<br />

traduca nel fallimento del sistema politico<br />

in quanto tale con la conseguenza di<br />

qualche altra operazione di “antipolitica”<br />

fatta da settori del mondo economico e<br />

mediatico. Di ciò, leggendo il “Corriere<br />

della Sera”, la “Stampa”, “Repubblica”,<br />

esistono molti segni.<br />

Detto <strong>questo</strong>, i problemi del centro-destra<br />

sono elementari anche se seri. Il problema<br />

principale è quello di condurre senza


sconti una forte battaglia di opposizione<br />

nel parlamento e nel paese. Come abbiamo<br />

visto, a nostro avviso è molto problematica<br />

la divisione fra sinistra moderata e<br />

sinistra radicale. Qualcuno, però, si fa<br />

delle illusioni se pensa che essa possa<br />

determinarsi se il centro-destra ammorbidisce<br />

la sua opposizione. Anzi è più probabile<br />

esattamente il contrario. Solo una<br />

dura opposizione può spingere settori<br />

della maggioranza a un ripensamento. A<br />

nostro avviso la formazione del partito democratico,<br />

di per sé, non sollecita molte<br />

riflessioni nel centro-destra per la semplice<br />

ragione che un’operazione analoga di<br />

molto maggiore spessore ed efficacia nel<br />

centro-destra è già avvenuta con molti<br />

anni di anticipo rispetto al centro-sinistra<br />

nel 1994 con la formazione di Forza Italia<br />

che non a caso ha aggregato insieme, sul<br />

versante di centro, cattolici, liberali, socialisti-riformisti.<br />

Per altro verso a nostro avviso<br />

il partito unico del centro-destra è impraticabile:<br />

ci troveremmo di fronte alle<br />

difficoltà del partito democratico moltiplicate<br />

per tre.<br />

È da perseguire invece l’ipotesi della federazione<br />

nel senso di definire alcune<br />

materie (ad esempio la legge elettorale,<br />

le riforme costituzionali, la politica estera)<br />

nelle quali la sovranità dei partiti in quanto<br />

tali è limitata e si vota secondo un quorum<br />

in un organismo direttivo formato sulla<br />

base di una ponderazione derivante dal<br />

risultato elettorale ottenuto da ogni singola<br />

forza politica.<br />

Detto <strong>questo</strong>, poi, esiste il problema di<br />

ognuna delle forze politiche che compongono<br />

la Casa delle Libertà. Per quello<br />

che riguarda Forza Italia noi riteniamo<br />

che la leadership di Berlusconi, che evidentemente<br />

è fuori discussione, ha bisogno<br />

di essere sostenuta da un forte par-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

16<br />

tito che si strutturi sul territorio. Ciò pone<br />

problemi ideali-politici e problemi politicoorganizzativi.<br />

Forza Italia è un grande partito di centro,<br />

anzi per certi aspetti di “centro-sinistra”<br />

nel senso originario del termine. La grande<br />

intuizione di Berlusconi è stata quella<br />

di dar vita ad una grande formazione pluriculturale<br />

e interclassista. Come abbiamo<br />

già visto, in Forza Italia, sulla base di<br />

alcuni valori comuni, convivono cattolici,<br />

laici, socialisti-riformisti.<br />

Ciò richiede una grande capacità di mediazione,<br />

l’intelligenza di capire che ognuno<br />

deve fare la sua parte e coprire un’area<br />

politico-culturale, che non si può ipotizzare<br />

che Forza Italia copra solo lo spazio<br />

cattolico-integralista perché ciò metterebbe<br />

in difficoltà non solo i laici esistenti<br />

al suo interno, ma un elettorato “medio”<br />

che molto spesso ha un orientamento<br />

“moderato” su ogni tema, compreso quello<br />

religioso: è cattolico, ma anche laicoautonomo.<br />

La formula giusta, a nostro avviso,<br />

è stata quella indicata da Berlusconi<br />

parlando al congresso dei repubblicani:<br />

Forza Italia riconosce alla Chiesa il diritto<br />

di pronunciarsi su ogni materia che essa<br />

scelga come campo del suo intervento.<br />

Poi sul piano politico la scelta a livello delle<br />

decisioni dei partiti e dei singoli parlamentari<br />

viene fatta in autonomia e sulla<br />

base della libertà di coscienza. Anche i<br />

laici non devoti come il sottoscritto reputano<br />

che oggi come nel XX secolo contro<br />

il nazismo e il comunismo, per misurarsi<br />

con la sfida eversiva lanciata dal fondamentalismo<br />

islamico, è indispensabile<br />

l’alleanza fra due correnti di pensiero,<br />

quella cattolico-liberale e sociale e quella<br />

liberalsocialista.<br />

Certo in Italia, come ha rilevato qualche


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

giorno fa Marcello Pera, c’è il rischio di<br />

qualche deriva neo-clericale, ma la risposta<br />

non può essere certo l’anticlericalismo<br />

estremista dello Sdi e di una parte<br />

dei Ds. <strong>In</strong> Italia, e anche in Europa, ha ragione<br />

Gennaro Acquaviva, la Chiesa<br />

svolge un ruolo di equilibrio e di tenuta<br />

socio-culturale. Poi su temi come il divorzio,<br />

l’aborto, la fecondazione assistita, la<br />

ricerca scientifica tramite le staminali, i<br />

laici, anche quelli di Forza Italia, hanno<br />

un “diverso parere”, ma sempre tenendo<br />

conto dell’equilibrio generale e che è preferibile<br />

l’alleanza con i cattolici alla convergenza<br />

con la sinistra radicale.<br />

Forza Italia deve condurre un’opposizione<br />

rigorosa e coerente nel parlamento e<br />

nel paese, sempre mantenendo le caratteristiche<br />

di un partito di governo, cioè indicando<br />

soluzioni e proposte dotate di interna<br />

coerenza e compatibilità. Ciò vuol<br />

dire che su ogni tema di fondo e rispetto<br />

alle molteplici forze che costituiscono il<br />

blocco sociale del centro-destra Forza<br />

Italia deve sviluppare un lavoro di elaborazione<br />

programmatica e di tutela nel lavoro<br />

parlamentare e nel paese.<br />

Il coordinamento nazionale di Forza Italia<br />

ha convocato per il periodo di giugno-ottobre<br />

i congressi comunali e provinciali<br />

proprio per costruire un partito radicato<br />

sul territorio che in parte, pur fra luci e<br />

ombre, già c’è. Il nodo della piena trasformazione<br />

di Forza Italia in un partito è però<br />

quello spesso indicato da Sandro Bondi:<br />

la nomina di una direzione che sia la<br />

sede di un confronto aperto, di idee e di<br />

proposte, il luogo dove si costruisce una<br />

unità reale del movimento anche sulla base<br />

di punti di partenza differenti. Forza<br />

Italia deve intrecciare il momento presidenziale<br />

(la nomina dei coordinatori regionali)<br />

con quello di base (elezioni diret-<br />

17<br />

te e indirette) dei coordinatori comunali e<br />

provinciali: in <strong>questo</strong> modo per un verso<br />

c’è un esercizio di democrazia dal basso<br />

e la garanzia che il partito non possa essere<br />

“scalato” a livello regionale attraverso<br />

l’incetta di tessere.<br />

A loro volta i coordinatori regionali, anche<br />

se di nomina presidenziale, devono essere<br />

dei primi inter pares, nel senso di<br />

una gestione collegiale attraverso un<br />

esecutivo rappresentativo di parlamentari,<br />

consiglieri regionali ecc. Quanto ai Circoli<br />

della Libertà, il loro ruolo è stato definito<br />

in un recente confronto tra i deputati<br />

di Forza Italia e la loro presidente, la<br />

dott.ssa Brambilla. I circoli devono rivolgersi<br />

a tutti coloro i quali sono all’opposizione<br />

di <strong>questo</strong> governo e di <strong>questo</strong> assetto<br />

di potere, ma che non vogliono<br />

iscriversi ad un partito politico e invece<br />

sono attratti da una struttura associativa<br />

che ha una dimensione tematica: seguendo<br />

questa linea è possibile un positivo<br />

lavoro politico comune.<br />

<strong>In</strong> sostanza bisogna attrezzarsi per fare,<br />

in buona compagnia, una nuova traversata<br />

nel deserto. La crisi nel rapporto tra sinistra-centro<br />

(partito democratico) e sinistra<br />

radicale può avvenire solo di fronte<br />

all’eventuale esplosione di contraddizioni<br />

sul merito di problemi decisivi e per una<br />

nostra durissima opposizione in parlamento<br />

e nel paese.


Verso il Partito Democratico<br />

Nomina sunt cosequentia rerum: diceva<br />

Giustiniano nelle Istitutiones. Dietro ogni<br />

nome vi è una cosa, vale a dire un oggetto<br />

del mondo reale, una storia, un’esperienza.<br />

Un susseguirsi di avvenimenti<br />

che, via via, si consolida. Diventa prassi<br />

e consuetudine e solo allora si trasforma<br />

in un nome. Che non è un’aggregazione<br />

casuale di lettere e di suoni. Ma un<br />

gate: una porta di comunicazione tra<br />

l’Essere e l’universo circostante. Di cui<br />

l’Essere è esso stesso parte. Un universo<br />

in continuo movimento. Che con il suo<br />

divenire costringe anche i nomi a cambiare<br />

nello spazio e nel tempo. Ecco perché<br />

risalire alla loro origine, studiandone<br />

l’etimologia, diventa importante. L’archeologia<br />

linguistica non è una scienza<br />

nominalistica, ma la ricerca di quel mondo<br />

perduto che il nome riassume. Una riscoperta<br />

che svela particolari inediti, intenzioni<br />

nascoste, una verità altrimenti<br />

impossibile da percepire. Che c’é dietro<br />

al Partito Democratico? Per il momento<br />

nulla di tutto <strong>questo</strong>. Forse vi sarà in seguito,<br />

se quell’esperienza andrà avanti.<br />

Se non deperirà rapidamente, come è<br />

successo al nome Pds o alla famosa “cosa”.<br />

Quell’aggregazione e quel progetto<br />

politico talmente indefinito da non poter<br />

nemmeno essere classificato con un nome<br />

transitorio e transeunte.<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Ds senza memoria storica<br />

di Gianfranco Polillo<br />

18<br />

E allora Forza Italia? si potrebbe dire.<br />

Non è la stessa cosa. Quel nome nacque,<br />

come si ricorderà, da una necessità<br />

improvvisa: impedire al partito di Occhetto<br />

di vincere una partita, senza avversari.<br />

Un nome figlio dell’emergenza,<br />

anche se indubbiamente legato alle<br />

scelte del leader. Capace comunque di<br />

evocare un progetto pur se abbozzato<br />

solo nelle linee di carattere generale. E<br />

in grado di raccordarsi con una storia<br />

sottostante. Quella di un intero Paese da<br />

sempre refrattario al comunismo e deciso<br />

a non subirlo, proprio nel momento in<br />

cui il comunismo usciva dalla storia e dagli<br />

orizzonti dei popoli. Il filo rosso che lega<br />

tanti “ex” a questa nuova esperienza<br />

è tutta racchiusa in questa forma di resistenza.<br />

Ma non è poco. Ha alle spalle<br />

una lunga storia nazionale: quel susseguirsi<br />

di esperienze che hanno trovato<br />

nella difesa intransigente del principio di<br />

libertà il proprio comune denominatore.<br />

La ragione prima dello stare insieme, pur<br />

nella differenza delle posizioni politiche<br />

e culturali.<br />

Si ritrova un barlume di questa vicenda<br />

nel partito democratico? Qual è la storia<br />

cui far riferimento? Vale a dire l’insieme<br />

delle esperienze di vita, i valori che ne sono<br />

presupposto e conseguenza. La giustificazione<br />

ultima di un progetto comune.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

È difficile rispondere a questa domanda.<br />

Quel nome non fa parte della tradizione e<br />

dell’orizzonte europeo. È traslato dall’esperienza<br />

americana: figlio, semmai, di<br />

avvenimenti lontani nel tempo e nello<br />

spazio. Il partito democratico, nelle forme<br />

attuali, si affermò definitivamente, negli<br />

Usa, solo negli anni Trenta, quando Roosevelt,<br />

nella corsa vittoriosa alla Casa<br />

Bianca, trasformò radicalmente il sistema<br />

politico di quel paese. Superando le divisioni<br />

tipiche di una comunità multietnica,<br />

ancora senz’anima e coscienza di sé. Di<br />

una multidudine che fino ad allora non<br />

aveva superato il retaggio delle culture<br />

politiche dei paesi di origine e le segmentazioni<br />

che ne erano conseguenza. Prima<br />

di Roosevelt esistevano i cattolici irlandesi,<br />

gli anarchici italiani, – ricordate Sacco<br />

e Vanzetti? – i protestanti inglesi, i socialisti<br />

di ogni rito e appartenenza. Questi residui<br />

furono spazzati via dal nuovo legame<br />

populista che il neo presidente aveva<br />

intessuto direttamente con il popolo.<br />

Lo aveva fatto dando vita, con la machine,<br />

ad un comitato elettorale potente ed<br />

autonomo dalla vecchia dirigenza politica<br />

frammentata e rissosa. Utilizzando per la<br />

prima volta la forza dei media – il viaggio<br />

in treno, le conversazioni radio di fronte<br />

al caminetto – per costituire un grande<br />

contenitore dove potesse nascere e fermentare<br />

una cultura nuova. Non più<br />

quella degli ex immigrati, giunti nella terra<br />

promessa; ma una coscienza nazionale<br />

indispensabile per garantire al più forte<br />

paese dell’Occidente quella leadership<br />

che la storia gli aveva assegnato.<br />

Il partito democratico fu la risultante di<br />

<strong>questo</strong> processo. Ed a quel nome corrisposero,<br />

immediatamente, nuovi contenuti<br />

politici. Il new deal ne fu la conseguenza.<br />

Non uno slogan, ma qualcosa<br />

che prima di allora le democrazie occi-<br />

19<br />

dentali non avevano conosciuto. La configurazione<br />

di un assetto costituzionale<br />

capace di coniugare l’interventismo pubblico<br />

con l’accresciuta libertà dei singoli.<br />

Non solo libertà politiche e di costume,<br />

ma la progressiva liberalizzazione dal bisogno<br />

in uno dei momenti più difficili della<br />

storia contemporanea. Quando gli effetti<br />

della grande crisi – quella del 1929 –<br />

non si erano ancora spenti. E gli avvenimenti<br />

sembravano dar ragione alla pretesa<br />

superiorità storica degli Stati totalitari<br />

– fossero essi di matrice comunista o fascista<br />

– che vedevano in essa i segni<br />

inequivocabili della crisi irreversibile del<br />

capitalismo liberale. Questo è stato il partito<br />

democratico in America.<br />

Che c’entra con la storia europea? E con<br />

quella italiana? Una storia talmente diversa<br />

da rendere questi mondi inconciliabili,<br />

pervasi da un antagonismo che, ancor<br />

prima di essere politico, è culturale.<br />

Come in Francia, da sempre protesa ad<br />

affermare un suo primato competitivo. O<br />

in Germania, nella contrapposizione tra<br />

“modello renano” e capitalismo di stampo<br />

anglosassone. Per non parlare dell’Italia<br />

e del suo residuo ideologico, difficile da<br />

eliminare. Si può essere, al tempo stesso,<br />

più o meno apertamente antiamericani<br />

e subire il fascino del partito americano?<br />

Si può essere amici di Fidel Castro e<br />

plaudire al Kennedy che tentò di rovesciare<br />

quel regime con l’avventura della<br />

Baia dei porci? L’esistenza di queste<br />

contraddizioni dimostra quanto sia difficile<br />

assumere quell’esperienza come modello<br />

da seguire, percorso da intraprendere,<br />

approdo da raggiungere.<br />

E allora perché “partito democratico”?<br />

L’analisi torna, inevitabilmente, alle vicende<br />

della nostra storia nazionale. Nel<br />

lessico comunista, democratici erano coloro<br />

che non si opponevano all’egemonia


del regime. Democratiche erano le repubbliche<br />

satelliti dell’Urss. Democratica<br />

quella sinistra indipendente dietro la quale<br />

il Pci si nascondeva per evocare l’immagine<br />

di un pluralismo interno, che mascherasse<br />

il nocciolo duro del centralismo<br />

democratico. Democratici erano i<br />

paesi non allineati. Ma non Tito, almeno<br />

nel periodo della sua dura contrapposizione<br />

alla Terza internazionale. Quando<br />

era solo un traditore revisionista. Lo divenne<br />

solo dopo, quando cambiò la politica<br />

estera sovietica, nel tentativo di utilizzare,<br />

in funzione antioccidentale, il movimento<br />

dei non allineati. Democratiche<br />

erano alcune componenti della Dc, ma<br />

non Saragat servo degli americani. Non<br />

Nenni dopo la fine del “Fronte popolare”.<br />

Mai quei socialisti che fecero dell’autonomia<br />

la loro bandiera. Questi ultimi erano<br />

solo una “terza forza”, come venivano<br />

definiti dai vertici del Pci: l’ostacolo che<br />

impediva l’incontro storico delle grandi<br />

masse popolari sotto la grande bandiera<br />

di un progressismo a senso unico.<br />

Qual è, quindi, il riferimento del costituendo<br />

partito democratico? Ma, soprattutto,<br />

qual è la sua piattaforma programmatica?<br />

La cartina al tornasole che svela<br />

il segno effettivo dell’operazione avviata.<br />

C’è continuità o discontinuità con il<br />

passato, come avvenne per il partito di<br />

Roosevelt? A leggere il suo atto costitutivo,<br />

c’è da dubitarne. Un continuismo<br />

culturale con le vicende più minute della<br />

storia minore del Paese segnato da<br />

grandi vuoti. Vuoti nel metodo di analisi,<br />

nella rappresentazione della realtà contemporanea,<br />

nella prospettazione dei<br />

grandi problemi irrisolti e delle sfide da<br />

affrontare. Dov’è finito quel lato forte della<br />

cultura del ’900 che, comunque, pur<br />

tra tragici errori e falsificazioni consapevoli<br />

– la “doppiezza” di Togliatti – ha ac-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

20<br />

compagnato l’Italia nel suo sviluppo economico<br />

e sociale? È stato completamente<br />

rimosso.<br />

Forse era inevitabile. Una rivisitazione di<br />

quel retroterra teorico avrebbe comportato<br />

lo sforzo di capire ciò che si poteva<br />

salvare, separandolo dalle scorie del<br />

tempo. E quanto invece si doveva buttare<br />

alle ortiche. Ma avrebbe comportato<br />

anche il riconoscimento sincero degli errori<br />

compiuti. Momento di forza, non di<br />

debolezza. Storicizzando una prospettiva,<br />

che si voleva millenarista, si sarebbero<br />

enucleati gli aspetti non caduchi. E<br />

quindi le chiavi interpretative con cui aggredire<br />

un presente difficile da dominare<br />

e interpretare. Si sarebbe così ritrovato<br />

quel nesso tra le “cose” e i “nomi”, riconciliandoli<br />

in una prospettiva diversa. Che<br />

avrebbe dato continuità alla vicenda storica<br />

italiana, invece di aprire e chiudere,<br />

come fece Croce a proposito del fascismo,<br />

una nuova parentesi.<br />

La mancanza di questa riflessione non<br />

poteva non avere conseguenze sulla<br />

qualità della piattaforma programmatica.<br />

Comprendiamo, quindi, lo stupore di Fabio<br />

Mussi di fronte a quella sorta di brodo<br />

primordiale, che è il manifesto del partito<br />

democratico, prodotto dai “saggi”. Nessuna<br />

riflessione sulle vicende passate.<br />

Nessuna idea forza, ma un insieme di<br />

elementi scontati. Dov’è finito il rigore<br />

scientifico, o ritenuto tale, di una tradizione<br />

che si fregiava di <strong>questo</strong> statuto per<br />

interpretare il moto della storia? Dov’è il<br />

conflitto, che non è un invenzione dei<br />

marxisti, ma il motore principale del processo<br />

evolutivo? Dove le contraddizioni,<br />

che la politica deve risolvere e dipanare?<br />

Nulla di tutto <strong>questo</strong>. All’analisi del presente<br />

si preferisce un lungo elenco di cose<br />

da fare. Un insieme di progetti, non<br />

accompagnati da alcuna indicazione sul-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

le risorse da impegnare. Come se tutto<br />

fosse risolvibile con un appello agli “uomini<br />

di buona volontà”.<br />

L’incipit è straordinario: “noi, i democratici,<br />

amiamo l’Italia”. Ricorda, ma è una<br />

semplice assonanza, il punto centrale<br />

della Costituzione americana: “We, the<br />

people”. Ma quale altra forza evocativa<br />

in queste parole. Che, da sole, delineano<br />

un intero orizzonte programmatico:<br />

quel populismo, divenuto la bestia nera<br />

del perbenismo di sinistra. Il resto è solo<br />

un’orazione. Un’omelia pasquale, dalla<br />

quale è stata espunta, tuttavia, la rappresentazione<br />

drammatica della morte,<br />

preludio della successiva resurrezione.<br />

Un modo simbolico per esprimere la<br />

contraddizione che caratterizza la realtà<br />

contemporanea. Cristo prima di sedere<br />

alla destra di Dio padre onnipotente deve<br />

morire. Pagare il prezzo più alto, per<br />

poi risorgere. Il dovere che si coniuga<br />

con il diritto.<br />

Ma nel manifesto del partito democratico<br />

i doveri non esistono. Sono citati solo di<br />

passaggio, quale semplice appendice di<br />

diritti, continuamente riaffermati. “Non ci<br />

piacciono – è detto – la cultura, la mentalità<br />

e le politiche che puntano solo al<br />

vantaggio egoistico e all’arricchimento individuale.<br />

I progetti dei singoli, nella società<br />

che vogliamo, sono progetti di persone<br />

aperte agli altri, che affermano diritti<br />

ma anche riconoscono doveri”. I doveri<br />

sono sempre verso gli altri. Verso i poveri.<br />

Verso chi non ha. Ma qual è il compito<br />

dei singoli, in quanto tali? Possono riscattare<br />

le proprie condizioni di vita, con<br />

un maggior impegno personale? Possono<br />

fare di più per ricevere altrettanto?<br />

Nessuno chiedeva gli estensori del manifesto<br />

di sposare il credo liberale, secondo<br />

il quale il prezzo del lavoro è misurato<br />

dalla sua produttività intrinseca. Il merca-<br />

21<br />

to dà. Il mercato toglie: quasi fosse un bilancino<br />

del farmacista capace di misurare<br />

il merito ed il bisogno. Ma l’etica della<br />

responsabilità è uno dei cardini della cultura<br />

europea. E allora va bene combattere<br />

il “vantaggio egoistico” e “l’arricchimento<br />

individuale”. Ma ancor meglio sollecitare<br />

l’impegno del singolo – aiutati<br />

che Dio ti aiuta – per migliorare le proprie<br />

condizioni di vita. Per non dipendere da<br />

uno “Stato compassionevole”, ma rivendicare<br />

il diritto a costruire la propria felicità<br />

– un altro cardine dell’odiato americanismo<br />

– contribuendo ad elevare la soglia<br />

di un benessere più generale e collettivo.<br />

Unico modo, che conosciamo, per<br />

celebrare quella “concorrenza dei mercati”<br />

indicata nel manifesto come “cura<br />

straordinaria” di cui l’Italia ha estremamente<br />

bisogno.<br />

Se non c’è <strong>questo</strong> si incorre in un salto<br />

logico, in un’asimmetria. Dove non vi sono<br />

diritti e doveri da declinare insieme,<br />

nel solco del tracciato dell’articolo 2 della<br />

nostra Costituzione: diritti inalienabili -<br />

doveri inderogabili. Ma solo diritti. Una<br />

pioggia di diritti. Un diluvio di diritti. L’elenco<br />

– contenuto nel Manifesto - è pressoché<br />

sterminato. Da chi rimane indietro<br />

nella competizione per la vita ai salariati<br />

(“questione aperta nel nostro paese”);<br />

dalle donne ai bambini; dalle famiglie agli<br />

immigrati; dai creativi agli insegnanti,<br />

passando per i giornalisti, il cinema e la<br />

cultura. Grandi rivendicazioni. Promesse<br />

di intervento. Richieste pressanti da soddisfare.<br />

E una piccola, insignificante dimenticanza.<br />

Le risorse da ridistribuire, da dove vengono?<br />

Chi le produce? Con quali strumenti<br />

e grazie a quali politiche? Particolari<br />

che sembrano irrilevanti in <strong>questo</strong><br />

scenario di panna montata, dove basta<br />

allungare una mano per risolvere definiti


vamente il problema della scarsità relativa.<br />

Il rovello su cui i grandi pensatori dei<br />

secoli passati – a partire da Carlo Marx –<br />

hanno consumato notti insonni e sprecato<br />

fiumi d’inchiostro.<br />

De Amicis, nel libro “Cuore”, aveva dato<br />

una rappresentazione più realistica del<br />

mondo a lui contemporaneo. Che non è<br />

cambiato molto – e semmai in peggio –<br />

nei suoi fondamentali. <strong>In</strong> quel libro c’erano<br />

i buoni sentimenti, la solidarietà, l’amicizia<br />

e quant’altro; ma anche la descrizione<br />

di una vita che non è mai “un pranzo<br />

di gala”. Che richiede impegno e sacrificio<br />

personale nonché una politica<br />

maschia, capace di dare un indirizzo. Armando<br />

il popolo perché reagisca di fronte<br />

alle difficoltà del presente. Che non sono<br />

diminuite. Ma che richiedono lucidità,<br />

determinazione nelle scelte, una guida<br />

sicura ed esperta, nonché un indirizzo<br />

pedagogico adeguato.<br />

Non viviamo in un Eden ritrovato. Nel<br />

mondo di oggi chi sbaglia, paga. E paga<br />

duramente. La Fiat che non indovina il<br />

modello di un’autovettura, la Telecom<br />

che non riesce ad abbassare il proprio indebitamento,<br />

l’Alitalia che non riduce un<br />

organico eccessivo, non hanno a disposizione<br />

una mossa di riserva. Lo Stato<br />

non è più in grado di essere il grande ammortizzatore<br />

sociale del passato. Non ha<br />

più le risorse necessarie. Le nuove regole<br />

comunitarie gli impediscono di essere<br />

il finanziatore in ultima istanza. La concorrenza<br />

internazionale ne martella i<br />

fianchi. Soprattutto sono gli altri che non<br />

ci stanno. Quei “dannati della Terra”, per<br />

riprendere il bel libro di Franz Fanon,<br />

che, grazie alla globalizzazione, hanno<br />

intravisto una possibilità di riscatto. E per<br />

<strong>questo</strong> si battono con una determinazione<br />

fino a ieri sconosciuta.<br />

Perché i neofiti del partito democratico<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

22<br />

non rileggono le cose dette da Enrico<br />

Berlinguer? Alla fine degli anni ’70, intuì<br />

un dato che i successivi avvenimenti storici<br />

avrebbero più che confermato. I rapporti<br />

di forza a livello internazionale stavano<br />

cambiando. Cresceva il peso dei<br />

paesi produttori di materie prime – specie<br />

di petrolio – che, con il loro comportamento,<br />

rompevano un tradizionale vincolo<br />

di dipendenza. Facendo venir meno<br />

quella rendita di posizione, su cui le<br />

grandi metropoli occidentali avevano costruito,<br />

negli anni del dopoguerra, le basi<br />

del loro benessere materiale. Occorreva<br />

pertanto che, a questa presa di posizione,<br />

corrispondesse un mutamento profondo<br />

nel modo di produrre e di consumare<br />

degli stessi paesi economicamente<br />

più avanzati.<br />

Com’è noto, il suggerimento fu quello<br />

dell’austerità. Risposta sbagliata a un<br />

problema reale. Sbagliata perché costruita,<br />

come si direbbe oggi, sul lato<br />

della domanda più che su quello dell’offerta.<br />

Vale a dire prospettando un contenimento<br />

del livello dei consumi, all’insegna<br />

di un pauperismo, che risentiva del<br />

condizionamento ideologico di una tradizione<br />

culturale. Quando invece l’accento<br />

doveva essere posto, fin da allora,<br />

sulla necessità di un impegno maggiore<br />

per lo sviluppo, possibile solo eliminando<br />

quei vincoli al mercato che ne<br />

impedivano o limitavano la potenza. Posizione<br />

difficilmente sostenibile per chi,<br />

allora, aveva nella testa il teorema di<br />

uno scambio politico: la moderazione<br />

sociale, gestita attraverso il sindacato,<br />

contro una partecipazione piena del Pci<br />

nel governo nazionale. Il “compromesso<br />

storico” appunto.<br />

Risposta debole, nei suoi elementi propositivi.<br />

Tant’è che non funzionò né quel<br />

“compromesso”, durato lo spazio di un


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

mattino; né l’ipotesi di frenare una domanda<br />

sociale incomprimibile. Come dimostreranno<br />

gli anni successivi, caratterizzati<br />

da una ricorsa salariale irrefrenabile,<br />

foriera di un’inflazione irriducibile, da<br />

un deficit di bilancio dilagante e dalla crescita<br />

di quel debito pubblico, che ancora<br />

oggi grava sulle spalle degli italiani. Ciò<br />

non toglie nulla, tuttavia, all’intuizione di<br />

fondo – strumentale o meno che fosse –<br />

che l’aveva sostenuta. Essa partiva da<br />

un dato di realtà: quel mutamento irreversibile<br />

dei rapporti di forza tra centro e<br />

periferia, che oggi ritroviamo nel volto<br />

nuovo dell’economia mondiale. Dove la<br />

spinta originaria, proveniente dai paesi<br />

Opec, si è amplificata fino ad abbracciare<br />

interi continenti. Dall’Asia guidata dalla<br />

Cina, all’<strong>In</strong>dia, al Brasile, destinati, nel<br />

volgere di pochi anni, a divenire il volano<br />

dello sviluppo mondiale e mettere all’angolo<br />

paesi di più antica civiltà: culla del<br />

benessere economico e baricentro della<br />

civiltà fin allora realizzati.<br />

Non a caso, proprio in questi giorni, Benedetto<br />

XVI, accennando al tema demografico,<br />

ha detto che l’Europa rischia di<br />

“congedarsi dalla storia”. Una riflessione<br />

che non può non colpire. <strong>In</strong>nanzitutto per<br />

il pulpito dal quale proviene. Ma soprattutto<br />

perché quell’analisi, pur nella sua<br />

drammaticità, è ancora parziale. Se lo<br />

sguardo si allarga ai rapporti economici o<br />

a quelli militari, la prospettiva diventa ancora<br />

più buia, evocando quei pericoli insiti<br />

in possibile “crollo dell’Occidente”,<br />

che tanta eco sta avendo nel dibattito<br />

contemporaneo.<br />

Ci si sarebbe, quindi, aspettati che nella<br />

piattaforma programmatica del partito<br />

democratico, queste tematiche avessero<br />

avuto un qualche diritto di cittadinanza.<br />

Che il tema dello “sviluppo delle forze<br />

23<br />

produttive” – evocato non da Adam Smith<br />

o David Ricardo, ma da Carlo Marx –<br />

quale “presupposto materiale per una società<br />

storicamente superiore” avesse<br />

mantenuto una qualche presenza. Ma<br />

così non è stato. Si è preferito, invece, un<br />

diverso approdo culturale: quello di un<br />

dossettismo di ritorno in una visione quasi<br />

apologetica del mondo contemporaneo,<br />

senza conflitti e contraddizioni. Un<br />

dossettismo fuori dal suo tempo storico –<br />

l’ambiente keynesiano – che, in passato,<br />

l’aveva in qualche modo legittimato. Offrendo<br />

strumenti di comprensione di<br />

quella realtà, pur nel lessico di un afflato<br />

religioso, attento ai bisogni degli esclusi<br />

e dei reietti. Che la potenza del neo-capitalismo<br />

era in grado di includere in una<br />

prospettiva di progresso.<br />

Ma perché questa rimozione? Questo è il<br />

grande interrogativo non risolto da quel<br />

documento. Perché i dirigenti post-comunisti<br />

hanno rinunciato, senza combattere,<br />

alla loro storia è quel che resta della loro<br />

identità culturale? Scelta incomprensibile<br />

non solo dal punto di vista culturale. La<br />

contraddizione principale è nelle prospettive<br />

politiche più immediate. Il presupposto<br />

sistemico del partito democratico è il<br />

consolidamento del sistema bipolare italiano.<br />

Ciò significa, pertanto, un obbligo<br />

di convivenza con chi ancora si dichiara<br />

“comunista”. Come conciliare il permanere<br />

di un’alleanza così stretta e necessitata<br />

con una rottura di carattere epistemologico?<br />

La storia più complessiva della<br />

sinistra italiana dimostra quanto sia difficile<br />

superare quelle fratture. Non sono<br />

bastati cento anni per sanare la scissione<br />

di Livorno. Quanto tempo ci vorrà per<br />

ritrovare una comune prospettiva, che<br />

faccia prevalere le ragioni dell’unità su<br />

quelle dell’appartenenza?<br />

<strong>In</strong>terrogativi legittimi, che non trovano ri


sposta. Se non esaminando, in controluce,<br />

il lato oscuro dell’esperienza storica<br />

del comunismo italiano. Il credere cioè<br />

che, al di là delle parole, dei programmi,<br />

delle enunciazioni ciò che conta effettivamente<br />

sono i rapporti di forza, il peso determinate<br />

dell’organizzazione, la capacità<br />

di mobilitazione. Anche a prescindere<br />

dalle parole d’ordine che possono essere<br />

cambiate con disinvoltura per piegarle al<br />

realismo della lotta politica immediata.<br />

Se questa è la vera essenza della politica,<br />

allora si può delegare ad altri il compito<br />

di scrivere manifesti.<br />

Per quello che valgono le enunciazioni<br />

programmatiche: sono parole al vento.<br />

La partita vera si gioca su un terreno diverso.<br />

Quanto pesa la Margherita, con le<br />

sue divisioni interne? Quanto vale Prodi,<br />

Marini o Parisi. Per non parlare di Rutelli<br />

già messo al margine nello scontro interno<br />

a quel partito. E quanto peseranno i<br />

Ds, sebbene decimati dalle scissioni e<br />

dagli abbandoni? Certamente di più. E<br />

sarà questa la forza che darà le stimmate<br />

al nuovo movimento. Ragionamento<br />

realistico addirittura brutale che ha dalla<br />

sua almeno parte dell’esperienza storica<br />

del passato: a partire dalla vicenda del<br />

“Fronte popolare” dell’immediato dopoguerra.<br />

Anche allora, con i socialisti di<br />

Nenni, non si andò troppo per il sottile<br />

nelle dispute programmatiche. Il confronto<br />

vero era dato dai rapporti di forza. Dal<br />

peso della struttura organizzativa e di<br />

massa. Dai contatti internazionali con le<br />

grandi centrali della sovversione, dalle<br />

quali ottenere le risorse necessarie – non<br />

solo di carattere finanziario – per tessere<br />

la propria tela. Funzionerà così, anche<br />

questa volta?<br />

Il dubbio è legittimo. Da allora il mondo è<br />

profondamente cambiato. Quei riferimenti<br />

internazionali non esistono più. La poli-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

24<br />

tica si è liberata del suo costoso armamentario<br />

organizzativo. Le idee e la comunicazione<br />

ne sono divenuti il lievito<br />

principale. Ed un nuovo movimento politico<br />

non può nascere senza quelle basi<br />

programmatiche che ne sono il presupposto<br />

indispensabile. Il gruppo dirigente<br />

diessino non ha avvertito quest’esigenza,<br />

delegandola ad altri.<br />

Non l’ha avvertita a causa di una formazione<br />

culturale che è, ancora, tutta interna<br />

ai paradigmi del comunismo italiano.<br />

D’Alema, Fassino e Violante sono i figli<br />

non ravveduti di quell’esperienza. Era<br />

quindi inevitabile che si muovessero nel<br />

solco di quella tradizione, riproducendola<br />

nella nuova confezione offerta loro dal<br />

partito democratico. Un modo come un<br />

altro per garantire il salvataggio collettivo<br />

di un gruppo dirigente che da oltre<br />

trent’anni cavalca le scene della politica<br />

italiana.<br />

Ma sono le idee che muovono il mondo,<br />

quando camminano con le gambe degli<br />

uomini. Se vengono meno, non c’è architettura<br />

organizzativa in grado di svolgere<br />

ruoli di supplenza. È già avvenuto<br />

negli altri paesi europei. È accaduto in<br />

Francia, in Spagna, in Grecia e in Portogallo,<br />

dove l’esperienza storica del comunismo<br />

è rimasta un piccolo residuo<br />

del passato. Per rivivere, nella parte migliore,<br />

nell’esperienza di un socialismo<br />

rinnovato. Capace di dare risposta, nei<br />

termini nuovi richiesti dal mutare dei<br />

tempi e delle situazioni, all’antico dilemma<br />

del merito e del bisogno. Quella forza<br />

– laica, riformista e liberale – che oggi<br />

manca in Italia. E che il partito democratico<br />

vorrebbe sostituire. Cosa non facile,<br />

se l’esperimento è condotto dopo<br />

aver disperso una grande patrimonio di<br />

esperienze, solo per salvare un vecchio<br />

gruppo dirigente.


Dopo i congressi<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Non abbiamo molto da aggiungere a quanto detto dopo lo svolgimento dei congressi dei Ds e<br />

della Margherita se non prendere atto che le critiche da noi avanzate al “Manifesto” si sono dimostrate<br />

più che fondate. Tant’è che quel documento non solo è stato ignorato, ma definitivamente<br />

riposto in un cassetto. Di impostazioni programmatiche se ne parlerà a babbo morto.<br />

Al termine di una fase costituente che non si sa quanto durerà. Nel frattempo si andrà avanti<br />

alla giornata, grazie a quel passepartout linguistico con cui è stato battezzato il nuovo partito<br />

e che Piero Fassino, nella sua replica, ha enfaticamente richiamato. Un riferimento né leggero,<br />

né banale, come ha detto, ma riflesso di una maturazione profonda. Che affonda le sue radici<br />

in uno degli elementi essenziali dell’epoca moderna. Ne siamo convinti da sempre. Del resto<br />

di democrazia si discute fin dai tempi di Aristotele. E non riusciamo a scorgere quali ulteriori<br />

elementi siano stati portati dal dibattito congressuale dei due partiti.<br />

Non sarà quindi un argomento leggero – ma chi ne ha mai dubitato? – ma forse per il Ds non<br />

tutto era così scontato. Se lo stesso Fassino ha dovuto ricordare che solo durante la segreteria<br />

di Enrico Berlinguer essa è stata assunta dal Pci – da tutto il Pci? – come “valore universale”.<br />

Siamo quindi lieti di questa conferma, che archivia finalmente una lunga storia di tentennamenti,<br />

di incertezze e di cedimenti alla “ragion di Stato”. E fa strame di una distinzione<br />

ch’era solo nella testa dei comunisti di ogni rito ed estrazione. Quella tra “democrazia formale”<br />

e “democrazia reale”, vista la seconda come superamento e quindi negazione della prima.<br />

Finalmente abbiamo la democrazia senza aggettivi. Termine che risarcisce solo in parte chi,<br />

per tutti quegli anni, aveva cercato di dimostrare l’ambiguità di quella distinzione e la doppiezza<br />

che ne era sottesa.<br />

Partito democratico perché partito della democrazia. Teorizzato in Italia, nel terzo millennio,<br />

<strong>questo</strong> elemento distintivo è senza significato. Quali sono le forze politiche che negano, ancora,<br />

il valore della democrazia? Gli stessi Bertinotti e Diliberto hanno dovuto fare i conti, da<br />

tempo, con <strong>questo</strong> requisito storico che appartiene all’orizzonte naturale della nostra epoca.<br />

Chi parla, ancora, di “dittatura del proletariato”? Ed allora perché “partito democratico”? Risposta<br />

non facile. Che si può articolare solo scavando nelle ambiguità del processo che sta<br />

portando alla sua costituzione. Nell’accezione “borghese” – si sarebbe detto una volta – la<br />

democrazia è soprattutto una procedura che può svilupparsi solo accettando il principio della<br />

libertà e dell’eguaglianza di fronte alla legge. E grazie alla quale si giunge a decisioni condivise.<br />

Lo diceva bene Norberto Bobbio, nel parlare di “universi procedurali”, ossia degli elementi<br />

caratteristici del concetto occidentale di democrazia, contrapposta agli stereotipi marxisti -leninisti.<br />

La democrazia è un insieme di regole che stabiliscono “come si debba arrivare alla decisione<br />

politica, non che cosa si debba decidere”.<br />

Ds e Margherita promettono, in definitiva, che le future decisioni del saranno prese democraticamente.<br />

Una testa un voto: com’è stato detto, facendo infuriare Emanuele Macaluso. Ma<br />

questa è solo un escamotage per nascondere la tregua armata tra le componenti dei due ex<br />

gruppi dirigenti. Non una proposta che si misura con il tema della rappresentanza e quindi con<br />

l’essenza stessa e la ragion d’essere del “moderno principe”, vale a dire il partito politico. I<br />

contenuti, assicurano comunque i protagonisti della vicenda, verranno dopo. Aspettiamo con<br />

ansia di sapere. La stessa ansia di Cofferrati che, da vecchio dirigente sindacale, ha più volte<br />

sollecitato i congressisti, troppo assorti nelle tattiche necessarie a conquistare una pole position,<br />

a pronunciarsi sul merito delle questioni. Che il riferimento esclusivo al metodo tende<br />

solo ad occultare (GP).<br />

25


Verso il Partito Democratico<br />

La Margherita è un fenomeno complesso<br />

che ha le sue origini nella permanenza<br />

di una forte influenza democristiana<br />

nelle regioni meridionali e soprattutto in<br />

Calabria, Campania, Sicilia e Basilicata.<br />

La crisi della Dc nel nord non ha avuto<br />

una eguale influenza nel sud, in cui la<br />

Democrazia cristiana non era tanto come<br />

nel nord dovuta alla organizzazione<br />

ecclesiastica, ma aveva radici nella<br />

clientela meridionale, cioè nel rapporto<br />

tra notabili ed elettori. Un’organizzazione<br />

fondata sul rapporto di fiducia personale.<br />

Tuttavia la crisi della Dc, avvenuta al<br />

nord, ebbe conseguenze in tutte le aree,<br />

sia quelle rosse dell’Italia centrale, sia a<br />

Roma, sia nel mezzogiorno. La Dc meridionale<br />

aveva una sua realtà di organizzazione<br />

e una sua cultura politica. Le figure<br />

più significative della Dc vennero<br />

dal sud, specie dopo la generazione che<br />

era stata nel partito di Sturzo. Ma tuttavia<br />

la crisi della Dc al nord travolse anche<br />

quella meridionale, rese impossibile<br />

la formazione del partito fondato sull’unità<br />

dei cattolici come era stata la Dc.<br />

Occorreva quindi determinare un’altra<br />

forma per conservare la struttura democristiana<br />

delle clientele meridionali. E<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Margherita, un puzzle da<br />

interpretare<br />

di Gianni Baget Bozzo<br />

26<br />

questa venne offerta proprio dal nord,<br />

ma da una zona singolare del nord, il<br />

Trentino, in cui, come nel sud, la Dc aveva<br />

radici quasi etniche. Era stata l’espressione<br />

del popolo trentino anche<br />

sotto regime austriaco. <strong>In</strong>oltre la facoltà<br />

di Sociologia realizzata a Trento era stata<br />

una delle matrici del ’68, uno dei luoghi<br />

preferiti dei cattolici del dissenso.<br />

L’idea di creare una alleanza composita<br />

di democristiani e di laici nacque con<br />

una lista alle elezioni provinciali del<br />

Trentino, denominata appunto la Margherita,<br />

per indicare la pluralità dei petali<br />

che vi convenivano. Ma il nome corrispondeva<br />

anche al desiderio di trovare<br />

un riferimento per il leader designato<br />

dall’alleanza di centrosinistra, Romano<br />

Prodi, che desiderava avere un insediamento<br />

nel mondo cattolico, ma senza radicarsi<br />

in un partito che fosse formalmente<br />

cattolico o composto prevalentemente<br />

da cattolici.<br />

La Margherita diviene perciò il punto di<br />

raccordo dei cattolici che pensavano a<br />

un rapporto organico con la sinistra postcomunista,<br />

ma fatto in modo di comprendervi<br />

non formalmente, la componente<br />

cattolica. Tuttavia la forza elettorale<br />

della Margherita era soprattutto nelle<br />

regioni del sud: e la Campania era la ter-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

ra in cui le clientele democristiane avevano<br />

posto più organicamente radici.<br />

Ma il personale politico democristiano<br />

era tutto troppo connotato nei suoi vertici<br />

perché gli uomini della Dc potessero<br />

comparire in primo piano. Tanto più che<br />

la figura fondamentale della Campania<br />

democristiana era Ciriaco De Mita, che<br />

rappresentava, con la sua stessa figura,<br />

la continuità con la Dc storica.<br />

La sinistra di De Mita aveva sempre conservato<br />

i rapporti con il Pci e preferiva<br />

l’alleanza con i postcomunisti piuttosto<br />

che quella con i socialisti, anche se doveva<br />

esprimerla in un modo improprio,<br />

mantenendo nel mutuo riconoscimento<br />

la differenza dell’alternativa. Non a caso,<br />

l’amnistia dell’89, sui finanziamenti ai<br />

partiti politici, che contribuì a rendere<br />

inagibili le azioni contro il finanziamento<br />

sovietico del Pci, servì anche a rendere<br />

inagibili le azioni della magistratura contro<br />

la segreteria De Mita, che appunto<br />

nel ’89 era venuta meno e non aveva<br />

avuto più parte nella gestione finanziaria<br />

del partito.<br />

La sinistra democristiana aveva, con la<br />

Segreteria Martinazzoli, gestito il cambiamento<br />

del nome da Democrazia cristiana<br />

a Partito popolare, aveva prodotto<br />

la legge elettorale maggioritaria con<br />

quota proporzionale ed aveva salvato<br />

nella quota proporzionale tutti gli esponenti<br />

della sinistra democristiana, rimasta<br />

ormai l’unico agonista politico di<br />

quella cultura. Bisognava dunque ricomporre<br />

le clientele democristiane del mezzogiorno<br />

con laici non comunisti per togliere<br />

alle clientele democristiane del<br />

sud la figura di partito cattolico e dargli<br />

27<br />

una linea anodina, fondamentalmente<br />

legata alla collaborazione con i Ds.<br />

Il rinato Partito popolare corrispondeva<br />

nel mondo democristiano al cambiamento<br />

avuto nel mondo comunista con il passaggio<br />

del Pci al Pds. La Margherita era<br />

un partito che non aveva definizioni<br />

ideologiche e i suoi deputati europei si<br />

iscrissero nel Parlamento europeo nei<br />

democratici liberali proprio per garantire<br />

il suo carattere culturalmente non democristiano.<br />

Leader della Margherita divenne un giovane<br />

della scuola di Marco Pannella e<br />

resosi da lui autonomo con la scelta ambientalista:<br />

Francesco Rutelli. La sua<br />

conversione religiosa divenne a un tempo<br />

il punto di riferimento implicito con i<br />

postdemocristiani senza alterare la sua<br />

storia radicale ed ambientalista. Le<br />

clientele democristiane meridionali si<br />

esprimevano con volti diversi da quelli<br />

classici democristiani. La Margherita non<br />

poteva caratterizzarsi che con la più<br />

marcata ostilità al movimento di Silvio<br />

Berlusconi, perché questa avversità era<br />

l’unica chiave possibile all’identità di forze<br />

politiche: quelle dei prodiani e quelle<br />

dei laici come Bianco e Bordon. Ma l’altro<br />

problema della Margherita era la<br />

componente prodiana. Con Arturo Parisi<br />

si prefigurava un risultato più ambizioso:<br />

quello di superare la forma partito in uno<br />

schieramento molteplice in cui fossero<br />

superate anche le identità democristiane<br />

e comuniste.<br />

Ma la forza della Margherita era la componente<br />

postdemocristiana. Diveniva<br />

per tanto necessario trovare un punto di<br />

identità con le nuove richieste poste dal<br />

mondo cattolico specie in materia di fa


miglia e il diritto alla vita. Anche la Chiesa<br />

cattolica era entrata in fase postdemocristiana<br />

e non accettava più di riconoscere<br />

il partito cristiano come cassa di<br />

mediazione delle sue richieste alla società<br />

civile. L’obbligo di mantenere la Dc<br />

aveva imposto alla gerarchia cattolica di<br />

accettare il divorzio e l’aborto, di non ottenere<br />

riconoscimenti alla famiglia sul<br />

piano fiscale e alla scuola privata sul<br />

piano finanziario. Che la Chiesa scendesse<br />

in campo su <strong>questo</strong> punto rendeva<br />

possibile ai democristiani di sinistra<br />

che costituivano la Margherita in quanto<br />

componenti del Partito popolare, di premere<br />

ulteriormente sia sulla componente<br />

laica che su quella prodiana. Essi così<br />

ottennero la possibilità di radicarsi, in<br />

quanto esponenti delle tesi cattoliche, all’interno<br />

della Margherita, ma al tempo<br />

stesso come mediatori dei rapporti con il<br />

mondo laico.<br />

Bisognava concepire l’alleanza con i<br />

postcomunisti in un modo che la garanzia<br />

verso il paese dei Ds fosse mediata<br />

dai postdemocristiani e dai prodiani. Nei<br />

Ds rimaneva l’esigenza di superare ancora<br />

più radicalmente la storia comunista<br />

e <strong>questo</strong> li conduceva ad accettare,<br />

dopo anni di resistenza, l’insistenza di<br />

Arturo Parisi per fondare un partito unico:<br />

il partito democratico. Usare l’insistenza<br />

della Chiesa sui temi della vita e<br />

della famiglia offriva ai democristiani della<br />

Margherita la possibilità di identità anche<br />

se al tempo stesso li poneva in difficoltà<br />

nel loro rapporto con la sinistra<br />

diessina e con gli altri partiti dell’Unione.<br />

Ma era anche la migliore occasione per<br />

spingere i diessini ad accettare la fusione<br />

del partito democratico che riconduceva<br />

ad avere avversari a sinistra, cosa<br />

che il Pci non aveva mai tollerato. Defi-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

28<br />

nire il partito democratico era il modo migliore<br />

per costringere i diessini a riconoscere<br />

la mediazione democristiana, ad<br />

accettare cioè che il nuovo partito fosse<br />

assai più simile alla Dc che non al Pci.<br />

Le diverse componenti culturali ricordano<br />

le antiche correnti democristiane, anch’esse<br />

fondate sulla legittimazione<br />

ideologica diversa una dall’altra ma poi<br />

convergenti nella vita del partito quando<br />

il suo destino era in gioco. Il Ds poteva<br />

situarsi nell’Unione a mezza strada tra<br />

Margherita e Rifondazione, cioè continuare<br />

a beneficiare dell’identità della sinistra.<br />

Proporre immediatamente il partito<br />

democratico significa per i popolari<br />

della Margherita obbligare i diessini a<br />

una svolta verso il centro.<br />

Il pd diviene simile alla Democrazia cristiana,<br />

non solo nella sua formula di politica<br />

ma anche nel suo contenuto. I postdemocristiani<br />

della Margherita spingono<br />

perciò verso il partito unico del centrosinistra<br />

perché ciò sposta al centro il baricentro<br />

dell’Unione e obbliga i diessini a<br />

scegliere di preferenza i popolari della<br />

Margherita piuttosto che i partiti di sinistra<br />

dell’Unione. Con ciò essi hanno ottenuto<br />

anche il fatto che il partito democratico<br />

nascesse dalla fusione dei partiti,<br />

come un rituale nettamente partitico. I<br />

due congressi paralleli di scioglimento<br />

hanno sciolto i partiti al modo dei partiti<br />

che hanno perciò dato luogo a un partito<br />

democratico che rappresenta una figura<br />

di partito come quella della prima Repubblica.<br />

Come la Democrazia cristiana, il partito<br />

democratico è disposto a scegliere alleanze<br />

alternative a destra o a sinistra.<br />

Franco Marini è il leader popolare che ha


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

presieduto alla composizione e alla ricomposizione<br />

dei due partiti nel partito<br />

democratico. Il punto fondamentale del<br />

suo intervento al congresso di Roma è<br />

stato quello di ricordare che sarà il partito<br />

democratico e non l’Unione, a scegliere<br />

le sue alleanze. E affermando esplicitamente<br />

che vi è una alternativa all’alleanza<br />

con la sinistra radicale. Assorbire<br />

il partito postcomunista in una forma democristiana<br />

è certo un capolavoro politico:<br />

la nascita del partito democratico,<br />

partito fatto dai due partiti storici della<br />

prima Repubblica, è un immagine fascinosa.<br />

D’altro lato la componente laica della<br />

Margherita e il personale cattolico legato<br />

ad Arturo Parisi sostengono la necessità<br />

di far nascere il partito come metodo delle<br />

primarie, cioè di raccogliere le adesioni<br />

nei gazebo aprendosi a un elettorato<br />

ignoto. Questa è del resto la figura culturale<br />

del partito democratico, pensato sul<br />

modello americano di un partito istituzione,<br />

a cui ci si iscrive come appartenenza<br />

dinanzi agli organi pubblici nel conferimento<br />

della cittadinanza.<br />

Questa idea è portata avanti da Arturo<br />

Parisi, che significativamente non ha<br />

partecipato al voto nel congresso della<br />

Margherita. A quanto si comprende ci<br />

saranno varie candidature innanzi al popolo<br />

dei gazebo. Aderendo al partito democratico,<br />

se ne sceglie nel gazebo, con<br />

il medesimo atto dell’adesione, il suo<br />

candidato leader. E si annunciano candidature<br />

plurime a questa carica. I popolari<br />

ex democristiani e i diessini postcomunisti<br />

terranno però le file della politica.<br />

Ed è ancora da comprendere con quali<br />

metodi il partito democratico sosterrà il<br />

potere dei due partiti che lo hanno co-<br />

29<br />

struito, non permettendo che esso venga<br />

travolto da un intervento esterno, magari<br />

anche organizzato da gruppi della<br />

società civile.<br />

Il modello di questa complessa operazione<br />

politica è la genesi di Forza Italia,<br />

cioè di un partito nato senza avere strutture<br />

di partito ma solo mediante il rapporto<br />

tra un popolo e un leader.<br />

Possiamo dire che l’ultimo esito del compromesso<br />

storico è stato una lunga marcia<br />

per trasformare il partito di Gramsci e<br />

di Togliatti in una Dc più laica, ma non<br />

laicista. <strong>In</strong> <strong>questo</strong> i postdemocristiani<br />

hanno lavorato bene mostrando di essere<br />

di gran lunga i più scaltriti politici della<br />

Repubblica. La Margherita ora esiste<br />

nel dominio dei popolari che hanno cambiato<br />

i termini dello statuto, esautorando<br />

il presidente, cioè Francesco Rutelli, e<br />

potenziando il coordinatore federale e<br />

l’assemblea federale dove essi sono in<br />

maggioranza.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Le ragioni di un programma<br />

riformista<br />

di Maurizio Sacconi<br />

L’Italia ha bisogno dei riformisti per almeno<br />

tre ragioni che si collegano al fatto<br />

che essi si sono formati soprattutto<br />

nei processi politici connessi alla continua<br />

evoluzione dei sistemi di protezione<br />

sociale, combattendo le resistenze della<br />

sinistra conservatrice e la miopia di coloro<br />

che trascurano le esigenze di coesione<br />

sociale.<br />

E invero in Italia oggi:<br />

1) è necessario promuovere una faticosa<br />

transizione verso l’economia della<br />

conoscenza attraverso l’investimento<br />

nel capitale sociale;<br />

2) è necessario invertire il processo di<br />

annichilimento della società italiana, stimolato<br />

da una sinistra decadente, attraverso<br />

la visione di una società attiva<br />

fondata sul binomio opportunità-responsabilità;<br />

3) è necessario sconfiggere la resistenza<br />

del sindacato conservatore attraverso<br />

l’offerta alle associazioni della rappresentanza<br />

disponibili alle riforme di un<br />

interlocutore determinato ad innovare<br />

ed insieme capace di dialogo sociale,<br />

secondo lo schema che ha condotto all’accordo<br />

di S. Valentino e al Patto per<br />

l’Italia.<br />

I riformisti praticano il metodo delle rifor-<br />

30<br />

me graduali e coerenti, ancorate a un sistema<br />

di valori immutabili, con lo scopo<br />

di renderli sempre effettivi nella realtà<br />

che cambia, favorendo lo sviluppo delle<br />

potenzialità di ciascuna persona.<br />

La nuova questione sociale consiste infatti<br />

nel garantire a tutti gli strumenti dell’autosufficienza<br />

rimuovendo gli ostacoli<br />

del vecchio modello sociale, paradossalmente<br />

difeso oggi da chi lo contestò<br />

negli anni della sua edificazione.<br />

Il vecchio modello è superato perché è<br />

stato costruito sulla necessità di risarcire<br />

le negatività dello sviluppo industriale.<br />

Il nuovo modello si deve rivolgere invece<br />

a sostenere le positività dell’economia<br />

della conoscenza. Dal concetto<br />

negativo di bisogno si passa così a<br />

quello positivo di autonomia della persona<br />

così come dal concetto di disoccupazione,<br />

nelle politiche del lavoro, si passa<br />

a quello di occupabilità.<br />

Si tratta di un ritorno alla centralità della<br />

persona e di una riscoperta del diritto<br />

naturale rispetto all’ideologismo che antepone<br />

il concetto di classe e che, ancor<br />

meno prosaicamente, spesso difende<br />

l’autoreferenzialità inefficiente dell’offerta<br />

rispetto alla domanda di buoni servizi<br />

di cura, di assistenza, di sanità, di educazione,<br />

di orientamento, di collocamento,<br />

di sicurezza sociale. <strong>In</strong> <strong>questo</strong><br />

senso – ovvero nella direzione della so-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

cietà attiva – si sono mosse le tre grandi<br />

"riforme per il futuro" del governo Berlusconi<br />

che oggi devono essere difese<br />

"con le unghie e con i denti" attraverso<br />

iniziative per la loro piena implementazione<br />

e proposte legislative per il loro<br />

completamento.<br />

Sono questi i principali contenuti della<br />

moderna sfida che ancora una volta i riformisti<br />

sono costretti a rivolgere alla sinistra<br />

nichilista e conservatrice sul terreno<br />

storico della questione sociale, dell’incremento<br />

del capitale umano e sociale<br />

del Paese.<br />

Tanto i neo-nichilisti:<br />

1) incoraggiano – con la campagna sulla<br />

precarizzazione – la perdita del senso<br />

del lavoro (e della vita) dei giovani che<br />

spostano in avanti le scelte di vita e<br />

scelgono i percorsi educativi più facili<br />

attraverso la facile promessa di tutele<br />

passive come un salario garantito o<br />

contributi figurativi;<br />

2) difendono l’autoreferenzialità corporativa<br />

dei docenti pigri e incolti nella logica<br />

del monopolio pubblico dell’educazione;<br />

3) mortificano i talenti nel processo educativo<br />

burocratico e i meriti nel rapporto<br />

di lavoro attraverso politiche salariali<br />

"piatte" e politiche fiscali esasperatamente<br />

ispirate alla progressività;<br />

4) incentivano l’accorciamento della vita<br />

lavorativa (che spesso inizia tardi) con i<br />

pre-pensionamenti utilizzati come protezione<br />

passiva della disoccupazione;<br />

5) stimolano flussi migratori dequalificati<br />

con le sanatorie continue e la rinuncia<br />

alla selezione nei Paesi di origine;<br />

31<br />

6) difendono l’attuale struttura della spesa<br />

corrente e anzi intendono riaprire la<br />

voragine della spesa previdenziale, con<br />

la conseguenza che la società che hanno<br />

in mente è fatta di pochi attivi e di<br />

molti inattivi e in essa l’equità è interpretata<br />

come circolo vizioso dell’equa ripartizione<br />

della diminuzione della ricchezza,<br />

la quale così si riduce ancor di<br />

più velocemente;<br />

7) attuano una politica fiscale e regolatoria<br />

che penalizza l’intrapresa, la sottopone<br />

ad un regime esasperato di controlli<br />

invasivi che muovono da un atteggiamento<br />

di sfiducia, produce una contrazione<br />

del volume complessivo degli<br />

affari e del <strong>numero</strong> di nuove imprese;<br />

8) promuovono iniziative legislative sui<br />

temi etici che ineriscono il ciclo di vita e<br />

la sua riproduzione diffondendo un pericoloso<br />

messaggio di annichilimento in<br />

una società già declinante dal punto di<br />

vista demografico;<br />

9) penalizzano la famiglia <strong>numero</strong>sa<br />

nella disciplina fiscale con l’abbandono<br />

delle deduzioni per le persone a carico e<br />

con il collegamento degli assegni familiari<br />

a più stretti criteri di progressività;<br />

10) praticano una politica estera ambigua,<br />

in quanto una parte significativa<br />

della sinistra si qualifica da sempre come<br />

anti occidentale e si oppone alle<br />

azioni di difesa delle nostre radici identitarie<br />

dall’aggressione del fondamentalismo<br />

islamico.<br />

Quanto i neo-riformisti, orientati a produrre<br />

una società attiva, ispirano tutta la<br />

loro azione politica a tre principi di riferimento<br />

così riassumibili:


1) la libertà prima dell’uguaglianza,<br />

2) la produzione della ricchezza prima<br />

della sua distribuzione,<br />

3) la responsabilità dei singoli e dei<br />

gruppi prima della regolazione pubblica.<br />

Essi operano infatti per una vera e propria<br />

rivoluzione della responsabilità che<br />

deve riguardare<br />

a) la sfera individuale, affinché ciascuno,<br />

opportunamente attrezzato in termini<br />

di conoscenza, assuma e mantenga il<br />

controllo sulla propria vita;<br />

b) la famiglia, affinché realizzi la sua<br />

funzione naturale di orientamento e accompagnamento<br />

del percorso educativo<br />

dei figli e quella di protezione domiciliare<br />

dei suoi componenti non autosufficienti;<br />

c) l’impresa, affinché persegua obiettivi<br />

di qualità totale in relazione a sé e a tutti<br />

gli interessi che coinvolge;<br />

d) le forme associative, affinché non si<br />

chiudano nella autoreferenzialità delle<br />

loro burocrazie interne ma, in sussidiarietà,<br />

concorrano ad ampliare le opportunità<br />

per le persone e per le imprese;<br />

e) le istituzioni, affinché riconoscano,<br />

ovunque possibile, il primato sussidiario<br />

degli attori sociali e operino secondo un<br />

equilibrio dei poteri di spesa e di entrata.<br />

I riformisti sono così, ancora una volta,<br />

portatori di vitalità e di responsabilità<br />

quanto i loro avversari di pigrizia e di abbandono.<br />

Essi vogliono muovere l’ascensore<br />

sociale quanto i neo-nichilisti<br />

lo tengono bloccato dagli infausti anni<br />

’70. Tocca quindi proprio ai riformisti,<br />

collocati nell’alveo naturale della Casa<br />

delle Libertà, fermare questa deriva perché<br />

più attrezzati dalla dimestichezza<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

32<br />

con le dinamiche sociali ed i corpi intermedi.<br />

Il Patto per l’Italia – sottoscritto da tutte<br />

le organizzazioni dei lavoratori e degli<br />

imprenditori tranne la Cgil – fu il risultato<br />

non casuale del paziente lavoro dei riformisti.<br />

È stato poi colpevole non averlo<br />

interamente attuato in quanto non tutti<br />

nel Governo ne capirono la portata di<br />

"blocco sociale" per il cambiamento.<br />

Diventa così particolarmente importante<br />

ora ricostruire quei rapporti intorno ad<br />

un pacchetto di proposte utili a disegnare<br />

il nuovo modello sociale auspicato<br />

dalla Casa delle Libertà.<br />

La Giovane Italia, associazione di riformisti<br />

fondata da Bettino Craxi nel momento<br />

dell’esilio, ha recentemente presentato<br />

nel corso di un grande convegno<br />

a Milano tre linee di riforma che si<br />

sono già tradotte in disegni di legge sui<br />

temi nodali dell’educazione, del lavoro e<br />

della previdenza secondo i termini che<br />

seguono.<br />

A. Oltre la legge Biagi: più tutele<br />

attive, più salari, più produttività<br />

1) Più salari, più produttività: le componenti<br />

variabili del salario, dagli straordinari<br />

ai premi, devono essere incentivate<br />

attraverso una tassazione separata e<br />

definitiva sulla base dell’aliquota media<br />

del precedente biennio ridotta del 50%<br />

in modo da sottrarle alla logica penalizzante<br />

della progressività; in <strong>questo</strong> modo<br />

si favoriscono relazioni industriali<br />

collaborative e non conflittuali, come gli<br />

accordi individuali o collettivi in sede<br />

aziendale con i quali si scambiano gli incrementi<br />

retributivi con la maggiore produttività<br />

derivante dalla flessibilità organizzativa<br />

e dall’impegno a conseguire risultati<br />

in tempi convenuti.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

2) Welfare to work: la protezione del lavoratore,<br />

più che del posto di lavoro, si<br />

realizza completando la Borsa del Lavoro,<br />

i servizi pubblici e privati ad essa collegati<br />

e i fondi per la formazione con i<br />

nuovi ammortizzatori sociali disegnati<br />

dal Patto per l’Italia; questi includono<br />

una indennità di disoccupazione al 60%<br />

dell’ultimo reddito – con progressiva riduzione<br />

ed esaurimento nei sei mesi –<br />

ed un secondo “pilastro” di integrazione<br />

del reddito del disoccupato, finanziato<br />

su base mutualistica e perciò gestito<br />

dalle parti sociali attraverso i loro enti bilaterali;<br />

si stabilisce uno stretto nesso di<br />

responsabilità tra fruizione del sussidio,<br />

dovere di partecipazione alle attività di<br />

formazione e ricerca del nuovo lavoro,<br />

accettazione di ogni proposta compatibile<br />

con la residenza e la professionalità.<br />

3) Dalla legge Biagi allo Statuto dei Lavori:<br />

a) rimodulazione delle tutele e delle<br />

relative sanzioni, comprese quelle riguardanti<br />

i licenziamenti non discriminatori<br />

prevedendo un più lungo periodo di<br />

prova, una fase nella quale la sanzione<br />

consiste in un congruo risarcimento ed il<br />

passaggio alla tutela della reintegrazione<br />

nel posto di lavoro sulla base della<br />

anzianità di servizio presso lo stesso<br />

datore di lavoro; b) estensione delle tutele<br />

fondamentali a tutti i lavori anche<br />

attraverso la diffusione della certificazione;<br />

c) previsione di un diritto alla formazione<br />

continua del lavoratore lungo l’intero<br />

arco della vita.<br />

4)Azionariato dei dipendenti: il coinvolgimento<br />

e la partecipazione dei lavoratori<br />

devono essere favoriti attraverso<br />

modi agevolati – incluso l’impiego del<br />

Tfr – per l’acquisto di titoli o quote della<br />

33<br />

società presso cui lavorano, potendo<br />

esprimere propri rappresentanti nel collegio<br />

sindacale.<br />

5)Riforma del processo del lavoro: prevenzione<br />

del contenzioso attraverso limiti<br />

certi all’intervento del giudice nell’autonomo<br />

potere di organizzazione del<br />

datore di lavoro, la certificazione dei<br />

contratti ed una più agevole conciliazione<br />

tra le parti; incentivazione dell’arbitrato<br />

secondo equità e non impugnabile<br />

se non per vizi del procedimento.<br />

B. Completamento e sviluppo della<br />

riforma Berlusconi del sistema<br />

pensionistico: più attivi, meno<br />

pensionati, più tutelati<br />

1) Età pensionabile: a) conferma del<br />

percorso previsto dalla riforma del 2004<br />

a partire dal 1° gennaio 2008; b) i nuovi<br />

requisiti anagrafici a regime nel 2014<br />

(62 anni per i dipendenti e 63 per gli autonomi)<br />

diventano il piede di partenza,<br />

nel sistema contributivo, di opzioni di<br />

pensionamento flessibile tra 62 e 67 anni<br />

a cui corrispondano nuovi coefficienti<br />

di trasformazione; c) il pensionamento è<br />

unificato come tipologia e genere, salvo<br />

verificare per le donne, alla fine della fase<br />

sperimentale nel 2013, il tasso di occupazione<br />

e quindi l’effettiva parità di<br />

opportunità nel mercato del lavoro.<br />

2) Totalizzazione: ampliamento delle<br />

possibilità di cumulare senza vincoli ed<br />

oneri periodi contributivi presso differenti<br />

enti e regimi come nel caso delle collaborazioni<br />

a progetto con il lavoro dipendente.<br />

3) Lavori usuranti: completamento della<br />

normativa sulla base delle disposizioni<br />

già vigenti e dei lavori già individuati dal


le apposite commissioni tecniche, riduzione<br />

dei requisiti di età attraverso il<br />

moltiplicatore 1,2 per ogni anno effettuato<br />

in attività ritenute usuranti, istituzione<br />

di un Fondo di solidarietà presso<br />

l’<strong>In</strong>ps finanziato pro quota da datori, lavoratori,<br />

Stato nell’ambito degli aumenti<br />

contributivi già disposti.<br />

4) Agevolazioni per le lavoratrici madri: i<br />

periodi di astensione dal lavoro per maternità<br />

valgono il doppio, ai fini dell’anzianità<br />

contributiva, fino ad un massimo<br />

cumulato di anni due.<br />

5) Pensione delle casalinghe: sviluppo<br />

degli accantonamenti attraverso l’emissione<br />

di "buoni" destinati ai soggetti dalla<br />

distribuzione commerciale quali incentivi<br />

ai consumatori.<br />

6) Reddito minimo garantito agli ultrasessantacinquenni:<br />

misura di solidarietà<br />

infragenerazionale che individua un minimo<br />

vitale di 800 euro per gli anziani indigenti,<br />

tenendo conto del reddito del<br />

coniuge e del nucleo familiare.<br />

7) Periodo legale del corso di laurea: riconoscimento<br />

dei relativi contributi figurativi<br />

in misura analoga al servizio militare<br />

obbligatorio.<br />

8) Cumulo pensione-reddito: superamento<br />

dei residui limiti a partire dal<br />

2008.<br />

9) Abolizione dell’obbligo (per le aziende<br />

con 50 e più dipendenti) di trasferire<br />

le quote inoptate del Tfr al Fondo di Tesoreria<br />

gestito dall’<strong>In</strong>ps.<br />

10) Libertà di provvedere al futuro: effettiva<br />

par condicio tra le diverse forme di<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

34<br />

previdenza complementare anche per<br />

quanto riguarda la corresponsione e la<br />

"portabilità" del contributo del datore di<br />

lavoro; ampliamento a settemila euro<br />

annui della quota di contribuzione - fiscalmente<br />

agevolata - ad una forma di<br />

previdenza complementare per i lavoratori<br />

autonomi e i collaboratori a progetto;<br />

riduzione al 6% dell’aliquota fiscale<br />

su rendimenti.<br />

C. Libertà di scelta delle famiglie e<br />

offerta plurale nel sistema<br />

educativo: attuazione delle riforme e<br />

nuovi elementi di “mercato” e di<br />

“sussidiarietà”<br />

1) Centralità della persona, autonomia<br />

scolastica e libertà di scelta:<br />

• la persona al centro del processo educativo<br />

e di transizione alla vita attiva, libera<br />

di scegliere i percorsi educativi attraverso<br />

una pluralità di offerte e di soggetti<br />

formativi; piani di studio personalizzati,<br />

flessibilità del tempo scuola e delle<br />

materie di apprendimento, orientamento<br />

continuo e interazione tra scuola e sistema<br />

produttivo;<br />

• il lavoro parte del processo educativo:<br />

organizzazione presso ogni istituzione<br />

educativa di secondo grado e universitaria<br />

degli uffici di placement disegnati<br />

dalla legge Biagi per offrire agli allievi<br />

servizi di orientamento e collocamento e<br />

garantire un canale di dialogo con il<br />

mercato del lavoro; diffusione delle buone<br />

pratiche di alternanza tra scuola e lavoro;<br />

promozione, a cura delle Regioni,<br />

dei nuovi contratti di apprendistato per<br />

garantire i 12 anni di apprendimento, favorire<br />

la transizione dalla scuola al lavoro,<br />

sviluppare le alte professionalità attraverso<br />

la collaborazione tra scuole o<br />

università ed aziende qualificate;<br />

• la famiglia libera di scegliere la scuola


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

che preferisce per i propri figli (statale,<br />

paritaria, regionale, etc.) in base ad un<br />

finanziamento pubblico con governance<br />

regionale e pienamente sussidiaria;<br />

• decentramento a livello regionale della<br />

gestione complessiva del sistema scolastico,<br />

risorse umane e finanziarie e<br />

abrogazione degli Uffici scolastici territoriali<br />

(Regionali e provinciali) del Ministero<br />

in attuazione del Titolo V della Costituzione<br />

e dell’art. 21 della legge<br />

59/97;<br />

• conferimento alle istituzioni scolastiche<br />

dell’autonomia finanziaria e di reperimento<br />

di risorse anche tramite la costituzione<br />

di consorzi ( tra pubblico e privato)<br />

e fondazioni;<br />

• attribuzione alle scuole della responsabilità<br />

del reclutamento dei docenti,<br />

garantiti da un nuovo stato giuridico, del<br />

personale amministrativo e degli esperti.<br />

2) Finanziamento e valutazione del sistema<br />

di istruzione:<br />

• attribuzione alle regioni delle risorse finanziarie<br />

statali corrispondenti, in attuazione<br />

del Titolo V della Costituzione e<br />

della giurisprudenza costituzionale;<br />

• finanziamento pubblico delle scuole<br />

statali e paritarie in base al <strong>numero</strong> degli<br />

iscritti e aumento della partecipazione<br />

privata al finanziamento del sistema<br />

universitario; finanziamento diretto alle<br />

scuole scelte dalle famiglie all’atto dell’iscrizione<br />

in base a quote capitarie calcolate<br />

sul costo medio per alunno, parametrato<br />

al contesto territoriale, alla tipologia<br />

e grado di scuola e all’indirizzo<br />

scelto; prestiti agevolati sull’onore agli<br />

studenti universitari, garantiti dallo Stato,<br />

in modo da consentire rette generalizzate<br />

più adeguate, la permanenza dei<br />

meno abbienti in sedi lontane dalla resi-<br />

35<br />

denza, il controllo degli utenti e il miglioramento<br />

della qualità; borse di studio e<br />

borse formative legate al merito e alle<br />

condizioni reddituali dei singoli che diano<br />

la possibilità ai giovani di arricchire il<br />

proprio piano di studi anche con la partecipazione<br />

a stage e moduli formativi in<br />

altre sedi, in Italia o all’estero;<br />

• sistemi di valutazione per promuovere<br />

competizione e scelte consapevoli: potenziamento<br />

dei Servizi nazionali di valutazione,<br />

indipendenti dai Ministeri, per<br />

valutare gli esiti (gli apprendimenti degli<br />

allievi) delle istituzioni scolastiche, formative<br />

e universitarie anche al fine di<br />

differenziare i finanziamenti erogati;<br />

• iniziative private di Fondazioni, Enti di<br />

ricerca, associazioni imprenditoriali ed<br />

altri soggetti per la produzione di punteggi<br />

e classificazioni delle istituzioni<br />

scolastiche e universitarie nell’ambito di<br />

Guide alle famiglie contenenti informazioni<br />

sulle sedi, sui percorsi di studio,<br />

sugli esiti degli allievi, incluso il monitoraggio<br />

sulla prosecuzione degli studi e<br />

sull’inserimento nel mondo del lavoro.<br />

L’attuazione di questi ed altri ambiziosi<br />

percorsi di riforma – come la costruzione<br />

delle necessarie alleanze sociali –<br />

impone il consolidamento di Forza Italia<br />

come partito organizzato, radicato nel<br />

territorio e capace di dialogo con la società<br />

e le sue rappresentanze di interessi.<br />

E Forza Italia si appresta invero ad assumere<br />

- attraversi congressi comunali<br />

e provinciali regolati in termini innovativi<br />

rispetto al passato – la forma organizzativa<br />

di un partito a larga base associativa,<br />

radicato nelle comunità locali e in<br />

tutti i ceti sociali, impegnato a realizzare<br />

canali di dialogo biunivoco tra gli eletti e<br />

la società ed una più efficace rappre


sentanza degli interessi e delle emozioni<br />

dei propri iscritti ed elettori.<br />

Questo salto organizzativo sarà possibile<br />

nella misura in cui si affermerà una<br />

più compiuta definizione della identità<br />

politica di Forza Italia sulla base delle<br />

esperienze nel governo delle istituzioni<br />

e nella società che consentono oggi una<br />

sintesi alta ed originale tra le storiche<br />

antinomie della politica italiana.<br />

Forza Italia può infatti definirsi partito<br />

laico e cristiano, conservatore e modernizzatore,<br />

liberale e solidale, popolare e<br />

riformista.<br />

È partito laico e cristiano perché assume<br />

una dimensione alta della laicità<br />

che incorpora – non relegandoli nel<br />

ghetto della soggettività individuale –<br />

quei fondamentali valori cristiani che<br />

possono essere condivisi da credenti e<br />

non credenti, secondo percorsi tanto<br />

della fede quanto della ragione, come<br />

la centralità della persona, in sé e nelle<br />

sue proiezioni relazionali, prima tra tutte<br />

la famiglia. Si tratta di un valore a<br />

lungo negato da coloro – non pochi –<br />

che hanno preferito la centralità dello<br />

Stato o quella del Partito o quella ancora<br />

della classe.<br />

È partito conservatore e modernizzatore<br />

perché impegnato a difendere i valori<br />

tradizionali dell’identità occidentale dai<br />

pericoli del relativismo culturale ed insieme<br />

animato dall’ansia di renderli<br />

sempre effettivi nella realtà che cambia<br />

attraverso gli strumenti della modernità.<br />

È partito liberale e solidale perché riconosce<br />

che la libertà precede l’uguaglianza<br />

e che la produzione della ricchezza<br />

precede la sua distribuzione, rifiuta<br />

il livellamento delle persone ma<br />

promuove la continua uguaglianza delle<br />

opportunità per tutti, stimolando in cia-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

36<br />

scuno la responsabilità di essere utile a<br />

sé e agli altri.<br />

È partito popolare e riformista perché<br />

aspira a rappresentare il grande cuore<br />

interclassista della società italiana sollecitando<br />

in esso le migliori pulsioni al<br />

continuo e graduale rinnovamento economico<br />

e sociale.<br />

Forza Italia si colloca così naturalmente<br />

nel centro della politica italiana non solo<br />

perché eredita larga parte degli elettori<br />

dei cinque partiti che hanno realizzato la<br />

ricostruzione e il grande sviluppo economico<br />

e sociale del Paese ancorandolo<br />

al suo naturale alveo occidentale, ma<br />

anche perché, grazie a questa sintesi<br />

dei grandi valori, è il partito che più è in<br />

grado di realizzare progresso, coesione<br />

nazionale, equilibrio e stabilità.<br />

<strong>In</strong> esso non possono non trovare il loro<br />

luogo naturale di impegno politico i moderni<br />

riformisti - laici e cattolici - che vogliono<br />

operare per una nuova dimensione<br />

sociale. Ad esso i "nuovi" riformisti<br />

apportano una cultura della politica sociale<br />

che costituisce il modo più efficace<br />

per svelare il carattere anti-storico dell’attuale<br />

sinistra italiana e per costruire<br />

un sistema di nuove sicurezze nella<br />

complessa transizione italiana.


Modernizzatori, innovatori,<br />

riformatori<br />

di Daniele Capezzone*<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

È, questa, una stagione difficile da interpretare<br />

per i modernizzatori, gli innovatori,<br />

i riformatori, ovunque siano<br />

collocati. Forse può essere utile ripartire<br />

da tre “sfide”, o – meglio – da tre<br />

“opportunità”.<br />

La prima è quella dell’arretramento<br />

dello spazio della legge, della normazione.<br />

Un intellettuale originale e coraggioso<br />

come Alain Finkielkraut non smette di<br />

ricordarci che una società libera non è<br />

un “accumulo di diritti” (diritto a <strong>questo</strong>,<br />

diritto a quello...).<br />

Già la Costituzione italiana è negativamente<br />

gravata da questa impostazione,<br />

sul piano economico-sociale (diritto<br />

alla casa, diritto al lavoro, ecc: tanto<br />

più solennemente proclamati, quanto<br />

più difficilmente realizzati, peraltro): e<br />

non sarebbe un buon affare per nessuno<br />

trasferire <strong>questo</strong> “metodo” anche in<br />

altri ambiti. E infatti, a mio avviso,<br />

un’impostazione coraggiosa (di destra<br />

liberale, di sinistra liberale, pragmatica,<br />

postideologica, volenterosa…) dovrebbe<br />

essere opposta.<br />

Un po’ su tutto, bisognerebbe chiedere<br />

non necessariamente una norma in<br />

più, ma – più spesso – una norma in<br />

meno. Non un diritto in più, ma una fa-<br />

37<br />

coltà in più. Non un intervento in più<br />

dello Stato, ma un intervento in meno.<br />

Il secolo appena trascorso è stato caratterizzato<br />

dall’impronunciabilità della<br />

parola “individuo”: ed era sempre<br />

un’entità collettiva (la Famiglia, il Sindacato,<br />

il Partito, la Chiesa, lo Stato:<br />

tutti rigorosamente maiuscoli) a dire<br />

l’ultima parola. Ora, è venuto il momento<br />

di immaginare un nuovo spartiacque<br />

politico rispetto a schemi e categorie<br />

più tradizionali: e la distinzione<br />

è tra chi (in economia come sul fronte<br />

delle scelte personali) vuole allargare<br />

e chi – invece – vuole restringere la<br />

sfera della decisione individuale e privata<br />

rispetto alla sfera delle decisioni<br />

pubbliche e collettive.<br />

La seconda sfida è quella del merito,<br />

della competizione, della concorrenza,<br />

contro le chiusure corporative, contro<br />

le protezioni a favore dei garantiti, contro<br />

le tutele degli “insider”.<br />

Qualcuno dice o teme che una società<br />

troppo dinamica, centrata sul merito,<br />

rischi di lasciare indietro tanti, troppi.<br />

Non nego che il rischio ci sia. Ma, poiché<br />

il “rischio zero” non esiste, noi<br />

dobbiamo scegliere tra due alternative:<br />

la “discriminazione” (chiamiamola<br />

così, tra virgolette) secondo merito, o


la discriminazione (stavolta scritta senza<br />

virgolette) secondo censo, secondo<br />

ricchezza.<br />

Oggi, in Italia, è questa seconda ipotesi<br />

che si realizza: il reddito dei genitori,<br />

della famiglia di provenienza, è non<br />

solo l’elemento decisivo, ma il più decisivo<br />

(più decisivo – dati alla mano –<br />

di quanto accada negli Stati Uniti e in<br />

quasi tutti gli altri paesi dell’Occidente<br />

avanzato) per le concrete opportunità<br />

di studio e di lavoro dei figli. È per <strong>questo</strong><br />

che occorre una svolta riformatrice.<br />

Ed è per <strong>questo</strong> che oggi siamo ad un<br />

crocevia emozionante, in cui una politica<br />

liberale e di modernizzazione è<br />

anche una politica “sociale”, mentre –<br />

all’opposto – proprio le politiche sostenute<br />

in gran parte dei decenni passati<br />

hanno la caratteristica di cristallizzare<br />

la situazione sociale esistente, o addirittura<br />

di peggiorarla in chiave regressiva,<br />

o comunque di fotografare una situazione<br />

in cui non si può ipotizzare –<br />

se non in casi molto limitati – lo schema<br />

del “self made man”, di chi “ce la<br />

fa” essendo di prima generazione.<br />

“Circolazione delle élites”, scriveva Vilfredo<br />

Pareto. “Sinistra reazionaria”,<br />

scriveva alcuni decenni dopo Ernesto<br />

Rossi.<br />

Siamo ancora lì.<br />

Le proposte dei volenterosi su pensioni<br />

e welfare sono un esempio nitido di<br />

quello che si potrebbe fare. Con altri<br />

colleghi, abbiamo proposto la sostituzione<br />

dei miseri ammortizzatori sociali<br />

esistenti, e l’introduzione – al loro posto<br />

– di un ammortizzatore unico di un<br />

anno (quindi, con una enorme estensione<br />

della rete di welfare); il tutto, fi-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

38<br />

nanziato con l’aumento dell’età pensionabile.<br />

Si potrebbe dire giustamente: “Chi è<br />

più di sinistra?” È meglio capace di tutelare<br />

i più deboli chi difende la pensione<br />

a 57 anni, o chi, alzando l’età,<br />

consente la creazione di un vero sistema<br />

di ammortizzatori sociali, come<br />

chiedeva tra l’altro lo stesso Libro<br />

Bianco di Marco Biagi?<br />

<strong>In</strong> un bello studio della Brookings <strong>In</strong>stitution<br />

(è il think tank che scrive programmi<br />

per i democratici americani, e<br />

che in buona parte d’Italia sarebbe<br />

considerato – temo – un pericoloso<br />

esempio di “destra selvaggiamente liberista”),<br />

studio che è stato chiamato<br />

“Hamilton project”, si trovano le parole<br />

giuste: abbiamo bisogno di una rete di<br />

welfare che non sia fatta di “amache”,<br />

ma di “trampolini”, di una rete elastica<br />

che consenta a chi ha avuto la disavventura<br />

di perdere il lavoro, di formarsi,<br />

di ri-formarsi, e di avere una chance<br />

per rientrare, mentre percepisce un<br />

sussidio (ovviamente, non così elevato<br />

da creare l’“effetto-amaca”). E <strong>questo</strong><br />

possiamo permettercelo operando sull’età<br />

pensionabile.<br />

La terza sfida è quella di capire la nuova<br />

realtà di impresa (e soprattutto di<br />

microimpresa), esposta al vento (e alle<br />

opportunità) della globalizzazione.<br />

Qualcuno, ad esempio, ha parlato di<br />

“vendetta” di un pezzo di centrosinistra<br />

nei confronti delle piccole imprese. Dal<br />

mio punto di vista, se possibile, la diagnosi<br />

è ancora più impietosa: siamo<br />

dinanzi ad un’inadeguatezza, ad un’incapacità<br />

profonda, ad una non-lettura<br />

di quello che accade nella nostra società<br />

e nel nostro tempo.<br />

Ancora si ragiona, da parte di tanti, in


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

termini di “blocchi sociali” (che, come<br />

tali, non esistono più), o comunque ci<br />

si “siede” sul vecchio schema della<br />

“triangolazione” con sindacato e grande<br />

impresa. Dimenticando che oggi<br />

gran parte dei lavoratori non sono rappresentati<br />

dal sindacato, così come<br />

gran parte degli imprenditori sono – di<br />

fatto – senza voce.<br />

Esemplifico: chi si occupa dei sei milioni<br />

di piccole e piccolissime imprese,<br />

che non vanno nei tg, ma rappresentano<br />

il cuore pulsante del paese?<br />

Gian Maria Fara, il Presidente dell’Eurispes<br />

parlò, nel 1999, di Gulliver, del<br />

gigante imbrigliato. Ora siamo alle prese<br />

con sei milioni di “piccoli Gulliver<br />

imbrigliati”, o, se preferite, con un “imbrigliamento”<br />

generale, sia di Gulliver<br />

che dei lillipuziani…<br />

Il centrodestra ha avuto un’opportunità<br />

straordinaria nella scorsa legislatura<br />

(con cento deputati di maggioranza alla<br />

Camera, e cinquanta al Senato), e –<br />

a mio avviso – non l’ha sfruttata appieno.<br />

Mentre da sinistra, a questa parte<br />

del paese, “arriva” nei giorni pari il ripristino<br />

della tassa di successione, nei<br />

giorni dispari l’abolizione del secondo<br />

modulo della riforma fiscale, e la domenica<br />

magari le norme sulla privacy<br />

(quelle per cui un imprenditore, anziché<br />

preoccuparsi – che so – del suo<br />

scoperto in banca di ventimila euro,<br />

deve perdere tempo per comunicare<br />

chi sia il “custode delle password” – è<br />

incredibile, ma <strong>questo</strong> è ciò che accade!):<br />

in queste condizioni, quello che si<br />

crea è un sentimento di paura e di diffidenza<br />

profonda, mista a sconcerto e<br />

distanza, e in qualche caso anche a<br />

disprezzo per lo Stato.<br />

39<br />

Vorrei che non si dimenticasse che, in<br />

tre mesi di campagna elettorale, l’Unione<br />

ha gettato al vento circa 7-8<br />

punti di vantaggio, e altri 8-9 punti sono<br />

stati persi nel primo anno di Governo:<br />

e l’incertezza sulle tasse (o, peggio,<br />

la certezza della vessazione) ha<br />

giocato un ruolo rilevantissimo. Ed è<br />

anche a causa di <strong>questo</strong>, cioè del “tremendismo<br />

fiscale”, che non solo non<br />

attraiamo capitali, ma assisteremo<br />

(<strong>questo</strong> è il fatto nuovo) anche alla delocalizzazione<br />

da parte delle stesse<br />

piccole imprese, non solo delle grandi.<br />

Del resto, diciamocelo: avendo dei soldi<br />

da investire, ciascuno di noi preferirebbe<br />

la Polonia (con tasse al 19%),<br />

l’Estonia (con tassa piatta al 24%), o<br />

l’Italia (con tasse fino al 60%)?<br />

Ci sarà spazio, nei prossimi mesi, per<br />

una discussione di merito lungo questi<br />

tre percorsi? Spetta ai modernizzatori,<br />

agli innovatori, ai riformatori la fatica di<br />

provare a conquistarlo.<br />

* Daniele Capezzone<br />

Presidente della Commissione attività<br />

produttive della Camera dei Deputati


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Geopolitica, democrazia,<br />

terrorismo<br />

di Gianstefano Frigerio<br />

L’alba del Terzo Millennio sale ormai nel<br />

cielo con il suo corteggio corrusco di nubi<br />

minacciose alternate a rasserenanti<br />

squarci di speranza.<br />

Il sogno di un’armonia globale, di un nuovo<br />

ordine di pace, si è spento in una acuta<br />

incertezza, in un sentimento di confusione,<br />

di mancanza di senso con lucido<br />

realismo è ora di prendere coscienza che<br />

l’Occidente è immerso nelle nebbie della<br />

crisi della postmodernità.<br />

La crisi si sta consumando sul crinale di<br />

due sentimenti profondamente contrastanti.<br />

Da un lato l’inquietudine ed il pessimismo<br />

per il perdurare, senza prospettive, di<br />

uno scontro di civiltà segnato dalla violenza<br />

del terrorismo fondamentalista,<br />

dallo stillicidio mortifero di attentati, dalla<br />

conseguente trasformazione dei nostri<br />

modelli di vita e delle nostre libertà, dai<br />

sussulti del processo di globalizzazione.<br />

Dall’altro lo stupore ottimistico per l’espansione<br />

economica, per le luminose<br />

conquiste della scienza (staminali, DNA,<br />

ecc.), per le applicazioni tecnologiche<br />

(nanotecnologie, robotica, tecnologie<br />

della comunicazione).<br />

E i tasselli delle due linee di tendenza si<br />

dispongono nella vita quotidiana di ognuno<br />

di noi secondo logiche di casualità, di<br />

irrazionalità, di frammentarietà, di istantaneità.<br />

Ne esce un puzzle che anela ad una li-<br />

40<br />

nea di ordine, ad una prospettiva ricca di<br />

senso.<br />

L’insostenibile leggerezza dell’ONU<br />

La solenne Assemblea di New York, nel<br />

60° anniversario della Carta di San Francisco,<br />

non ha corrisposto le vaste speranze<br />

di una grande riforma dell’ONU.<br />

Ma forse la complessità degli organismi<br />

e le profonde difficoltà della situazione<br />

del Pianeta possono realisticamente<br />

permettere solo piccoli avanzamenti,<br />

marginali aggiustamenti, una lenta coscientizzazione.<br />

Questa è l’epoca del riformismo realistico<br />

e gradualista.<br />

E, del resto, un grande conoscitore dei<br />

meccanismi internazionali come Holbrooke<br />

dice che il documento finale è comunque<br />

un buon risultato, perché c’è più<br />

attenzione ai Balcani, al Darfur, all’Africa;<br />

perché c’è un largo e deciso rifiuto del<br />

terrorismo; perché gli obiettivi del Millennium<br />

sono stati ridefiniti e riconfermati<br />

come strategia di Governo del Mondo.<br />

Ma le contraddizioni della globalizzazione,<br />

il faticoso definirsi di un nuovo ordine<br />

mondiale, l’incrocio delle culture tra Nord<br />

e Sud, il gap tra sviluppo economico ed<br />

evoluzione politica, i foschi scenari del<br />

terrorismo fondamentalista, ecco questi<br />

sono tutti elementi che caricano di speranza<br />

l’ansia di riforma permanente delle<br />

Nazioni Unite.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

E nel mondo della cultura e dell’impegno<br />

sociale si rafforzano e si espandono l’aspirazione<br />

universale della democrazia, il<br />

sogno kantiano di un diritto internazionale<br />

cosmopolita e la invocazione di Giovanni<br />

Paolo II ad assumere sempre l’uomo<br />

come fine e mai come mezzo.<br />

Ma è arduo lasciarsi alle spalle la civiltà<br />

ferrigna di Hobbes e raggiungere la<br />

“grande società” di Hayek che realizza<br />

“l’ordine esteso”.<br />

Ci vuole realismo, ci vuole consapevolezza<br />

profonda delle condizioni del mondo<br />

e della politica, ci vuole una speranza<br />

ferrea.<br />

Ed allora continuiamo questa strada senza<br />

fine delle riforme, partendo da un dato<br />

positivo, cioè che i conflitti nel mondo,<br />

anche grazie all’ONU, dal 1991 (ben 51)<br />

sono diminuiti a 20 nel 2004, nonostante<br />

la copertura mediatica svolga spesso un<br />

ruolo distorsivo:<br />

• l’allargamento del Consiglio di Sicurezza<br />

va adeguato alle nuove “regioni” del<br />

mondo e va aggirato l’anacronistico diritto<br />

di veto;<br />

• l’Assemblea Generale, intorno alle<br />

grandi sfide dell’umanità, deve coinvolgere<br />

le organizzazioni della società civile;<br />

• la priorità assoluta della sicurezza richiede<br />

prevenzione, coordinamento delle<br />

intelligence, forze di schieramento rapido,<br />

vigilanza sugli “Stati falliti”;<br />

• rafforzare le Agenzie contro le nuove<br />

sfide (Acqua, Ambiente, Aids e Pandemia,<br />

diritti umani, parità dei sessi, ecc.);<br />

• le risorse per le emergenze, come dice<br />

il vicesegretario generale Egeland “bisogna<br />

creare una dotazione permanente di<br />

500 milioni di dollari per azioni immediate<br />

in modo da non perdere tempo come<br />

purtroppo è accaduto in quasi tutte le<br />

emergenze registrate finora”;<br />

41<br />

• integrare i Caschi Blu con la Nato, le<br />

forze dell’OUA e dell’Aseam per potenziare<br />

le azioni di peacekeeping;<br />

• collegare in unico disegno (Millennium<br />

development goals) tutte le grandi istituzioni<br />

transnazionali: G8, Fmi, Wto, Banca<br />

Mondiale, Ocse, Nato, ecc..<br />

La globalizzazione ed i grandissimi rischi<br />

che sfidano l’umanità esigono una cultura<br />

universalistica ed una autorevole governance<br />

globale: sta proprio nei limiti<br />

concreti di queste esigenze, nella loro<br />

difficoltà a realizzarsi ed a funzionare, sta<br />

proprio in <strong>questo</strong> senso di impotenza e di<br />

incertezza, la fonte di molte nostre paure,<br />

angosce, preoccupazioni.<br />

Il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione<br />

dell’Urss nel dicembre del ’91 concludono<br />

la Guerra Fredda e pongono fine<br />

al bipolarismo mondiale e all’ordine di<br />

Yalta.<br />

Ma il vuoto lasciato dall’equilibrio di Yalta<br />

non viene riempito da un Nuovo Ordine<br />

Mondiale.<br />

È pur vero che Bush padre, all’Assemblea<br />

delle Nazioni Unite nel settembre<br />

del 1991, aveva delineato con chiarezza<br />

l’esigenza di costruire un nuovo ordine<br />

mondiale.<br />

È pur vero che nella cultura politologica<br />

dei primi anni novanta sono <strong>numero</strong>si gli<br />

studi che definiscono con lucida chiarezza<br />

la consapevolezza della fine di un’epoca,<br />

fino al famosissimo saggio di Fukuyama<br />

sulla “Fine della Storia”.<br />

Per 10 anni l’Occidente si ripiega soddisfatto<br />

sull’inattesa vittoria e non riesce a<br />

costruire un nuovo sistema di valori e di<br />

principi, un assetto istituzionale (Onu,<br />

G8, Wto), che si adatti alla situazione radicalmente<br />

mutata.<br />

Per assurdo, il Consiglio di Sicurezza<br />

dell’Onu è l’esempio più abnorme di questa<br />

incapacità a capire il presente.


Le facezie della Storia<br />

L’89 segna la fine degli equilibri di Yalta,<br />

addirittura segna la conclusione del ciclo<br />

storico nato dalla pace di Westfalia.<br />

La transizione viene immaginata, nel clima<br />

ottimistico dei primi anni ’90, come un<br />

radioso periodo di pace e di benessere.<br />

Ma come dice Musil, “Il cammino della<br />

Storia non è quello di una palla da biliardo,<br />

che una volta partita, segue una certa<br />

traiettoria. Esso somiglia al cammino<br />

di una nuvola o di chi va bighellonando<br />

per le strade; e qui è sviato da un’ombra,<br />

lì da un gruppo di persone o dallo spettacolo<br />

di una piazza barocca; e infine giunge<br />

in un luogo che non conosceva e dove<br />

non desiderava andare”.<br />

Ecco, la transizione dalla Guerra Fredda<br />

è un’epoca incerta, sanguinosa, segnata<br />

da forti spinte irrazionali e da una fragile<br />

capacità di Governo.<br />

L’ombra di Yalta, anzi, per certi aspetti, la<br />

cultura della Pace di Versailles, determina<br />

il comportamento e gli assetti degli organismi<br />

internazionali e delle singole potenze.<br />

Matura con fatica una consapevolezza<br />

diffusa e profonda di nuovi scenari; forse<br />

perché si consuma la fine di una concezione<br />

“hegeliano-progressiva” del divenire<br />

storico (sintetizzata nella sfida bipolare,<br />

in cui entrambi i poli sono figli del pensiero<br />

occidentale).<br />

Certo è che questa lunga fase di transizione,<br />

mentre nel suo svolgersi rispondeva<br />

all’onda lunga dei meccanismi e<br />

della cultura di Yalta, ora, riletta alla luce<br />

ferrigna e livida dell’11 settembre, appare<br />

segnata da alcune linee di tendenza<br />

premonitrici.<br />

<strong>In</strong> primo luogo la prospettiva della rottura<br />

del sistema politico internazionale e del<br />

suo farsi plurale: l’Occidente come un regime<br />

internazionale fondato sulla democrazia,<br />

sul mercato, su una alta istituzio-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

42<br />

nalizzazione; l’Asia come equilibrio tra<br />

potenze regionali; il Medio Oriente come<br />

“conglomerato prewestfaliano” segnato<br />

da guerre religiose e da stati fragili; l’Africa,<br />

uno scenario tragico di progressiva<br />

decomposizione legata anche alla decolonizzazione.<br />

Quindi il formarsi di una pluralità di regimi<br />

internazionali, con fragile comunicabilità,<br />

con poche regole in comune; e l’unica<br />

potenza globale, gli Usa, non riesce a<br />

costruire la legittimazione di un sistema<br />

imperiale.<br />

<strong>In</strong> secondo luogo un processo di globalizzazione<br />

economico – tecnologico –<br />

culturale, a cui però fa riscontro una<br />

avanzata disarticolazione della statualità<br />

e dei sistemi politici: e le forze del mercato<br />

non bastano né per costruire un governo<br />

del mondo né per definire regole<br />

che riducano i costi e l’impatto negativo<br />

del processo di globalizzazione, né per<br />

trovare un equilibrio positivo e fecondo<br />

tra multiculturalità ed identità.<br />

<strong>In</strong> terzo luogo, per troppo tempo dopo il<br />

crollo dell’Urss il sistema occidentale ha<br />

cercato di proseguire con le vecchie regole,<br />

sottovalutando l’espansione ed il radicamento<br />

del terrorismo fondamentalista.<br />

E l’Europa si è cullata nell’illusione della<br />

“fine della Storia”, nella mitologia della<br />

pace mondiale, non ponendosi in alcun<br />

modo il problema della sicurezza e dei<br />

suoi costi economici, sociali e culturali.<br />

Questo è il connotato più evidente della<br />

crisi dell’Europa e delle lacerazioni nell’Occidente.<br />

Una lunga fase di transizione<br />

Dal 1989 si apre una lunga fase di<br />

transizione, segnata dall’incertezza,<br />

dalla instabilità violenta, dalla debole<br />

progettualità verso un Nuovo Ordine<br />

Mondiale.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Nel quadro sopradefinito si colloca tutta<br />

una vasta gamma di tasselli, la cui evidenza<br />

drammatica esplode solo dopo<br />

l’11 settembre: il collasso del sistema sovietico<br />

alimenta un incontrollato e perciò<br />

pericolosissimo mercato di armi, di armi<br />

chimico-batteriologiche, di materiali nucleari,<br />

di cervelli, l’esplosione delle guerre<br />

etniche nei Balcani e nel Caucaso; la<br />

fragilità dell’Europa di fronte al nazionalstalinismo<br />

di Miloscevic; gli enormi costi<br />

delle cosiddette guerre dimenticate (Niger,<br />

Congo, Burundi, Somalia, Cecenia,<br />

Angola, Cashmir); le terribili violenze del<br />

fondamentalismo islamico (Sudan, Cashmir,<br />

Timor, Egitto, Filippine, Giacarta); le<br />

ambiguità Wahabite ed i petrodollari come<br />

fattori di crescita di Al Qaeda; l’incancrenirsi<br />

del conflitto Palestinese, l’emergenza<br />

umanitaria dell’Africa; la forza devastante<br />

delle migrazioni bibliche dal<br />

Sud del Mondo verso l’Occidente.<br />

Comunque, l’elemento saliente di questa<br />

fase di transizione resta il crescere ed il<br />

diffondersi del fondamentalismo islamico,<br />

a fronte di una sorta di inconsapevole<br />

acquiescenza dell’Occidente, che tende<br />

drammaticamente a perdurare nella<br />

cultura europea.<br />

La dimensione storica del fenomeno islamico<br />

è lucidamente descritta da un grande<br />

studioso occidentale; dice Bernard<br />

Lewis “sono molti gli arabi che considerano<br />

l’influenza della civiltà occidentale la<br />

più grande catastrofe che abbia colpito il<br />

Medio Oriente, ancora peggiore delle devastazioni<br />

causate dalle invasioni mongole<br />

del XIII sec.; e quindi vorrebbero invertire<br />

la rotta”.<br />

Il terrorismo fondamentalista,<br />

una sfida globale<br />

Chi crede che le sanguinose e devastanti<br />

ondate terroristiche che assediano<br />

43<br />

l’Occidente e molti Paesi musulmani,<br />

traggano origine e motivazioni dalla<br />

guerra in Iraq, finge di ignorare la lunga<br />

scia di lutti che si è snodata, con ritmi alterni,<br />

per tutta la seconda parte del XX<br />

secolo; anzi, in realtà, emblematizzando,<br />

l’Iraq rivela il ritorno di vecchi fantasmi<br />

antimperialisti ed antiamericani.<br />

<strong>In</strong> fondo ha ragione Bernard-Henry Lévy<br />

quando dice che “l’antiamericanismo della<br />

Sinistra Europea ci ha fatto sottovalutare<br />

i pericoli del terrorismo”.<br />

Una lunga scia di tragedie<br />

La lunga scia di sangue che attraversa la<br />

Storia degli ultimi 50 anni del XX sec. disegna<br />

uno scenario senza linee unificanti,<br />

almeno fino allo spartiacque dell’11<br />

settembre.<br />

Però alla luce di quell’emblematico evento<br />

epocale, ora, assumono collegamenti e<br />

razionalità i <strong>numero</strong>si, diversi, tragici<br />

eventi, che noi allora non riuscivamo né a<br />

collegare né a leggere.<br />

L’attacco alle Torri Gemelle appare quindi<br />

come una epifania possente di un movimento<br />

storico sotterraneo che nei decenni<br />

aveva lanciato segnali per così dire non<br />

capiti o sottovalutati per la miopia della<br />

“ubris” occidentale.<br />

Ad esempio le Olimpiadi di Monaco del<br />

’72, l’assassinio di Sadat, Lockerby, i ricorrenti<br />

attentati in Israele e Libano, la<br />

guerriglia in Afghanistan, il World Trade<br />

Center del ’93, Mogadiscio (’93), la Metropolitana<br />

di Tokio e il gas Saarin, gli attentati<br />

a Mosca ed in Cecenia, Luxor<br />

(’96), Nairobi e Dar es Salaam (’98), la<br />

portaerei Cole (2000), Ryiad e la Mecca,<br />

la metropolitana di Manila (2000). Certo<br />

è che ora si potrebbero rileggere, in questa<br />

nuova luce, <strong>numero</strong>si oscuri atti terroristici<br />

avvenuti in Italia ed in Europa,<br />

che allora trovarono spiegazioni legate


alla cosiddetta “strategia della tensione”<br />

e ad altre semplificazioni ideologiche tipiche<br />

del clima culturale della Guerra<br />

Fredda.<br />

Però <strong>questo</strong> lungo elenco di terribili<br />

eventi va illuminato ed approfondito con<br />

altre precisazioni ed analisi.<br />

<strong>In</strong> primo luogo nessuno deve ignorare le<br />

influenze occidentali sulle motivazioni<br />

culturali del terrorismo fondamentalista.<br />

Ad esempio Buruma e Margalit in “Occidentalism”<br />

dicono in modo provocatorio<br />

che Osama è figlio di Marx e di Heidegger.<br />

<strong>In</strong> realtà il peso del nichilismo europeo,<br />

dei Totalitarismi di Lenin e di Hitler, è tuttora<br />

evidente; soprattutto hanno influenzato<br />

la formazione delle élites arabe nei<br />

decenni tra le due guerre mondiali (nazionalismo<br />

nasseriano, il socialismo baathista,<br />

i Fratelli Musulmani e la lotta armata<br />

per liberare l’uomo già in questa<br />

terra).<br />

<strong>In</strong> fondo, anche il grande mito del “complotto<br />

sionista” proviene direttamente dal<br />

bagaglio propagandistico di Hitler e di<br />

Stalin.<br />

La seconda osservazione storico-metologica<br />

ci porta a collocare mezzo secolo di<br />

“eventi terroristici” dentro il quadro di riferimento<br />

della Guerra Fredda, con i suoi<br />

intrecci e le sue coperture, il gioco delle<br />

alleanze sugli scacchieri periferici del<br />

pianeta.<br />

Soprattutto siamo costretti a riflettere sui<br />

collegamenti tra le varie centrali terroristiche:<br />

ad esempio, per lungo tempo Praga<br />

è stata per così dire una “centrale formativa”<br />

per i Palestinesi, la Raf, le Br, l’Ira,<br />

l’Eta.<br />

<strong>In</strong> <strong>questo</strong> torbido quadro hanno giocato<br />

un ruolo oscuro, ma fondamentale i principali<br />

servizi di sicurezza.<br />

Il contenitore della Guerra Fredda, con la<br />

sua violenta contrapposizione ideologica,<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

44<br />

ha svolto un ruolo da incubazione per le<br />

“intellighenzie” europee e per i movimenti<br />

pacifisti.<br />

I miti, gli slogan, i fantasmi ideologici di<br />

quegli anni e di quel clima, sembrano<br />

non morire mai.<br />

Spesso, anche ora, dopo 15 anni dal<br />

crollo del Muro di Berlino, ci capita di registrare<br />

nelle manifestazioni di piazza,<br />

particolarmente in Italia, l’esplodere delle<br />

parole d’ordine antimperialiste ed antiamericane.<br />

Tipiche della propaganda veterocomunista.<br />

Il passato non muore mai ed i suoi fantasmi<br />

riemergono con rinnovato fascino<br />

per le masse manifestanti.<br />

La rivoluzione islamica<br />

di Khomeini<br />

Il 1979 è un anno cruciale per l’invasione<br />

sovietica in Afghanistan, contro cui prende<br />

forma l’alleanza inedita tra gli Usa ed<br />

Osama, sostenuto da un continuo flusso<br />

di danaro Saudita.<br />

Qui prende forma l’esercito talebano, qui<br />

fa le prime esperienze la cultura dei kamikaze.<br />

L’Afghanistan ed in particolare la valle di<br />

Peshawar è l’incubatrice del nuovo terrorismo<br />

islamico; certo, con il sostegno del<br />

rigoroso fanatismo di Khomeini e con<br />

l’appoggio massiccio del Pakistan.<br />

Nel 1979 esplode anche la rivoluzione<br />

Komeinista.<br />

Questa Jihad prende forma a Qom, negli<br />

slogan carichi d’odio dell’Ayatollah: la<br />

guerra Santa contro “il Grande Satana”,<br />

contro gli ebrei, contro i crociati, contro i<br />

regimi arabi corrotti ed apostati.<br />

L’odio è il collante, il fondamentalismo la<br />

materia prima.<br />

La predicazione di Khomeini fa perno<br />

sulla resistenza in Afghanistan ed infiamma<br />

il Medioriente: la guerra con l’Iraq non


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

rallenta né riesce a circoscrivere la funzione<br />

e la risonanza mondiale del khomeinismo.<br />

<strong>In</strong> questi anni molti Paesi arabi moderati<br />

utilizzano i proventi del petrolio per finanziare<br />

madrasse, università ed altri focolai<br />

di fanatismo antioccidentale, per<br />

scaricare all’esterno le tensioni provocate<br />

dalla mancanza di riforme, di democrazia,<br />

di giustizia sociale nei propri regimi<br />

satrapici.<br />

Negli anni l’Iran continua ad essere una<br />

polveriera di Ayatollah, dapprima protetta<br />

dall’Urss; dopo l’89 si intensificano i collegamenti<br />

con Pechino e si accelera il<br />

piano di nuclearizzazione.<br />

L’Occidente appare pericolosamente diviso<br />

sul nodo cruciale dei rapporti con l’Iran.<br />

Anche ora, da qui, partono sostegni per<br />

Hamas, per Hezbollah, e per la guerriglia<br />

in Iraq.<br />

Il Muro di Berlino<br />

Dopo la caduta dell’Impero Sovietico, il<br />

fondamentalismo islamico si ritrova con<br />

un unico nemico occidentale, che porta<br />

la guerra nel Golfo e lascia le sue truppe<br />

sul suolo dell’Arabia, sacro al Profeta.<br />

L’Occidente si crogiola nella beata illusione<br />

“della fine della storia” e non elabora<br />

alcuna preveggente strategia geopolitica<br />

per governare i processi di ristrutturazione<br />

autogena che si sprigionano nel Medio<br />

Oriente.<br />

Così crescono le cellule fondamentaliste<br />

in Bosnia ed Erzegovina e di qui in altre<br />

metropoli europee; così si rafforzano i Talebani<br />

in Afghanistan che diventa una vera<br />

e propria università della Jihad globale;<br />

così va in fiamme il corno d’Africa ed<br />

Al Turabi ospita Osama; così si incancrenisce<br />

la situazione palestinese.<br />

L’Onu, la Ue, la Nato sono impegnate<br />

45<br />

nei Balcani con la “missione umanitaria”<br />

dopo gli orrendi massacri di Srebrenica.<br />

Ed i diversi attentati che si succedono in<br />

questi dieci anni non vengono letti con<br />

seri approfondimenti.<br />

L’Occidente non riesce ad intuire che la<br />

Storia sta voltando pagina e che i sogni<br />

di una pace duratura stanno per infrangersi<br />

in un orrendo massacro.<br />

L’11 settembre<br />

Finisce l’era geopolitica apertasi nel<br />

1989 ed il terrorismo, da fenomeno locale,<br />

diventa una consapevole ed esibita<br />

sfida globale; una dichiarazione di guerra<br />

sofisticata ed efficacissima nella ricerca<br />

delle simbologie e degli impatti mediatici<br />

a catena.<br />

La esplicita dichiarazione di guerra riguarda<br />

il grande “Satana” superpotenza<br />

simboleggiante tutto l’Occidente cristiano<br />

e crociato, ma coinvolge anche molti<br />

Paesi musulmani conniventi con l’Occidente<br />

e comunque tiepidi in merito al disegno<br />

di Jihad.<br />

Le conseguenze di questa sfida globale<br />

investono profondamente la organizzazione<br />

economica, culturale, istituzionale<br />

dell’Occidente: l’età dell’incertezza, della<br />

instabilità, della paura, alla lunga modifica<br />

le nostre istituzioni, il nostro modo di<br />

vivere; riesce perfino a scalfire l’Unità<br />

dell’Occidente ed a logorare nell’Europa<br />

la consapevolezza identitaria.<br />

La nuova minaccia strategica del fondamentalismo<br />

radicale è asimmetrica perché<br />

manca di una minaccia militare globale<br />

di tipo tradizionale; è una ostentata ed<br />

arcaica volontà di morte ed una vocazione<br />

al suicidio-omicidio religiosamente motivato,<br />

che poggia storicamente sulle origine<br />

guerriere e militarmente espansionistiche<br />

della tradizione maomettana; porta in<br />

sé i pericoli concreti di una ecatombe nu


cleare; provoca lo scontro tra la guerra<br />

tecnologica, scelta dall’Occidente per la<br />

sua crescente incapacità alla fatica ed alla<br />

sofferenza e per la paura della morte; e<br />

l’Islam pervaso dalla sua fede militante e<br />

totalizzante, che ricerca la sofferenza e la<br />

morte quasi con pulsioni mistiche.<br />

Cruciale a <strong>questo</strong> punto risulta il confronto<br />

interno alla società occidentale. Cruciale<br />

risulta il confronto nella società islamica.<br />

L’America sta cercando di rendere convenzionale<br />

un conflitto intrinsecamente<br />

non convenzionale: cerca perciò di demonizzare<br />

e di personalizzare una tattica<br />

(Osama, poi Saddam, poi Al Zarkawi,<br />

ecc.).<br />

Tentando una sintesi storicistica si potrebbe<br />

dire che Al Qaeda è l’autentica<br />

faccia oscura della globalizzazione; un<br />

fondamentalismo medioevale ma globalizzato<br />

e tecnologicamente avanzato.<br />

Il terrorismo nichilista diventa un incrocio<br />

transnazionale di antichi e nuovi terrorismi;<br />

quasi l’orizzonte del nostro XXI sec.,<br />

transnazionale e transideologico, cultura<br />

di morte contro ansia di vivere.<br />

Il network di Osama<br />

Una rete per aiutare i «guerrieri della Jihad»<br />

nasce negli ultimi anni del secolo<br />

XX e non ha struttura piramidale: è invece<br />

una struttura orizzontale a rete che<br />

aspira ad investire la intera umma, cioè<br />

la comunità islamica mondiale. È quindi<br />

una organizzazione omogenea alla globalizzazione,<br />

perciò transazionale e senza<br />

regole: usa le tecnologie della comunicazione<br />

occidentale; agita la minaccia<br />

batteriologica e nucleare; esercita il ricatto<br />

petrolifero; si sostiene con società finanziarie<br />

transnazionali e multifunzionali<br />

(narcotraffico, riciclaggio, armi, petrolio,<br />

società caritative); le roccaforti dell’Arabia<br />

e i rifugi della valle di Pashawar; il<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

46<br />

ruolo capillare delle madrasse e delle<br />

università.<br />

Sotto il simbolo della rete ormai si collocano<br />

molte iniziative estremistiche locali;<br />

la ragnatela di cellule è planetaria.<br />

<strong>In</strong>ternet è il motore della “guerra santa”;<br />

infatti passano dai siti web le rivendicazioni<br />

e le istruzioni per diventare kamikaze:<br />

una sorta di holding del male che può<br />

contare su un network di finanziamenti e<br />

logistica.<br />

<strong>In</strong>torno alla mitologia del Califfato Universale<br />

c’è un corpo gelatinoso che si<br />

espande in tutte le direzioni e continua a<br />

crescere; i giovani emarginati delle grandi<br />

megalopoli del Medioriente e dell’Europa<br />

costituiscono una facile preda per i<br />

fondamentalisti; la difficile integrazione<br />

nelle città europee ha provocato la rivolta<br />

della seconda e terza generazione.<br />

Un passaggio storico importante è la costituzione<br />

da parte di Al Qaeda (la Rete) nel<br />

1998 del Jihad islamico mondiale, con il<br />

seguente programma politico: cacciare gli<br />

Usa dall’Arabia; cacciare i Saud e impadronirsi<br />

del petrolio; liberare i luoghi Santi<br />

palestinesi; costruire il Califfato universale.<br />

E questa espansione semina di tragedie<br />

terribili il Pianeta: Djerba in Tunisia<br />

(2002), Mombasa (2002), Filippine<br />

(2003), Riyad (2003), Istambul (2003),<br />

Casablanca (2003), Al Kobar in Arabia<br />

(2004), Beslam (2004), Madrid (2004),<br />

Taba in Egitto (2004), Londra (2005),<br />

Sharm, Kusadasi, le continue stragi in Afghanistan,<br />

e la guerra civile giornaliera in<br />

Iraq dove si intrecciano motivazioni diverse<br />

di massacri e di tragedie che non<br />

risparmiano neppure i bambini.<br />

L’Occidente è attanagliato da <strong>questo</strong> stato<br />

perdurante che alla lunga si rivelerà<br />

psicologicamente intollerabile.<br />

È la normalità che viene messa in forse; è<br />

l’Occidente che appare del tutto vulnerabile.


e c o n o m i a<br />

Brunetta Borghini Cicchitto Polillo Gamberale Forte<br />

DeVecchis Clerici


Berlusconi e Prodi:<br />

il costo della discontinuità<br />

di Renato Brunetta<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Il ruolo perverso dei messaggi contraddittori,<br />

scostanti, incoerenti; il ruolo della sindrome<br />

di Penelope, dell’approccio Gino<br />

Bartali, delle facce feroci; il ruolo della demonizzazione<br />

dei governi precedenti, dello<br />

smontaggio sistematico delle riforme altrui,<br />

delle docce fredde, delle docce calde, del<br />

cambiare le regole retroattivamente, di<br />

rompere per legge i contratti privati già sottoscritti;<br />

dell’attribuirsi meriti altrui, dell’accusare<br />

gli altri di colpe proprie e della fragilità<br />

ideologica di riconoscere i meriti altrui;<br />

in definitiva, il ruolo di tutti questi cattivi<br />

comportamenti sulla distruzione della<br />

credibilità della politica economica di un<br />

qualsiasi governo e, quindi, sulla distruzione<br />

di competitività istituzionale ed economica<br />

di ogni povero paese che tristemente<br />

si trova ad avere una siffatta cultura (cultura<br />

molto probabilmente prodotta da una<br />

perversa legge elettorale).<br />

<strong>In</strong> questi 12 mesi di governo Prodi abbiamo<br />

ascoltato dagli esponenti di governo e<br />

maggioranza dichiarazioni controverse,<br />

false e contraddittorie. Abbiamo visto il<br />

Parlamento approvare, ancorché a fronte<br />

di una forte opposizione, provvedimenti a<br />

danno degli italiani e dell’immagine dell’Italia<br />

all’estero. Sono stati votati decreti in<br />

barba alle regole comunitarie e tutto <strong>questo</strong><br />

è sempre stato accompagnato da una<br />

compiacente propaganda mediatica.<br />

Qui di seguito, solo alcuni degli esempi<br />

delle tante dichiarazioni e dei provvedimenti<br />

di controriforma di <strong>questo</strong> governo:<br />

49<br />

• A proposito della situazione della finanza<br />

pubblica: “siamo peggio che nel ’92” (Tommaso<br />

Padoa-Schioppa);<br />

• a proposito della situazione della finanza<br />

pubblica: “siamo peggio che nel ’96” (Romano<br />

Prodi);<br />

• il governo incarica dell’esercizio di due diligence<br />

la commissione guidata dal prof.<br />

Faini ne emerge che il rapporto deficit/Pil<br />

per il 2006 era previsto al 4,6% (il doppio di<br />

quello che effettivamente si è realizzato);<br />

• Visco pensa che: “gli italiani sono un popolo<br />

di evasori” (anche i ricchi piangano...);<br />

• viene bloccata la realizzazione del ponte<br />

sullo stretto di Messina;<br />

• vengono revocati per legge (decreto legge<br />

7/2007) tre importanti contratti per la<br />

realizzazione dell’alta velocità (riducendo<br />

l’attrattività degli investimenti);<br />

• durante la trattativa tra Autostrade e<br />

Abertis viene cambiato il quadro regolamentare<br />

delle concessioni autostradali (facendo<br />

scattare la procedura di infrazione<br />

dell’Unione europea);<br />

• viene, di fatto, bloccata la fusione Autostrade-Abertis<br />

(con una squallida intromissione<br />

da parte del governo);<br />

• viene bloccata con atto amministrativo la<br />

riforma della scuola (la ragione è semplice:<br />

cancellare l’impianto del ministro Moratti);<br />

• viene bloccata con atto amministrativo la<br />

riforma della giustizia (la ragione, ancora<br />

una volta, è solo quella di smontare la riforma<br />

varata dal governo Berlusconi);<br />

• vengono nuovamente modificate con la


legge Finanziaria per il 2007 le aliquote fiscali<br />

IRPEF (per una demagogica, sbagliata<br />

e inutile volontà di redistribuzione del<br />

reddito);<br />

• DDL delega su capital gain: viene prevista<br />

la modifica (aliquota al 20%) della normativa<br />

e successivamente (negli ultimi giorni)<br />

vengono cancellate le modifiche fatte;<br />

• viene bloccata con atto amministrativo la<br />

riforma del codice ambientale;<br />

• viene messo per legge un tetto al fatturato<br />

delle imprese (disegno di legge Gentiloni),<br />

anche se lo stesso governo riconosce,<br />

a parole, nella concorrenza tra imprese il<br />

propulsore della crescita del sistema economico;<br />

• Visco: “i risultati di finanza pubblica 2006<br />

sono merito del governo Prodi grazie alla<br />

tax compliance” (clamorosamente smentito<br />

dalla Banca d’Italia nel Bollettino economico<br />

di aprile 2007);<br />

• il buco non c’è più... c’è il tesoretto;<br />

• “diminuiremo le tasse”... ma non si sa<br />

quando e con quale entità;<br />

• rinnovo del contratto del Pubblico Impiego<br />

con un aumento medio per i ministeriali<br />

di 101 euro (3,7 miliardi di euro).<br />

Nelle moderne economie industrializzate e<br />

di mercato i governi non sono né onnipotenti<br />

né totalmente impotenti: conta, più dei<br />

governi, il mercato. Contano, più dei governi,<br />

le regole di lungo periodo, la continuità,<br />

la coerenza, il rispetto delle regole.<br />

Contano, più dei governi, gli agenti economici:<br />

famiglie, imprese, investitori. Contano,<br />

più dei governi, le istituzioni che governano<br />

l’economia, la loro autonomia, la loro<br />

stabilità.<br />

Nessun governo in un’economia di mercato<br />

industrializzata può, né nel breve né nel<br />

medio periodo, modificare i trend in atto.<br />

Può solo fare confusione, aumentando i<br />

costi delle transazioni, aumentando l’incer-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

50<br />

tezza. Prerogative dei governi, di tutti i governi<br />

nelle economie di mercato industrializzate,<br />

sono quelle di:<br />

• cambiare le regole e vederne gli effetti<br />

nel medio e lungo periodo;<br />

• accompagnare con misure di politica<br />

economica di breve, medio e lungo termine<br />

gli andamenti tendenziali;<br />

• controllare nel breve, medio e lungo termine<br />

gli andamenti della spesa pubblica;<br />

• individuare e determinare nel breve, medio<br />

e lungo periodo gli andamenti degli investimenti.<br />

Senza, però, pensare di poter mutare dall’oggi<br />

al domani, con le facce feroci, con<br />

meri editti e proclami, con provvedimenti di<br />

urgenza, le tendenze in atto. Ne deriva che<br />

gli andamenti congiunturali delle principali<br />

macro variabili economiche di un sistema<br />

sono figlie di variabili strutturali e regolative<br />

in gran parte esogene agli ambiti di controllo<br />

dei singoli governi nazionali e, quindi,<br />

in gran parte esulano dalle loro possibilità<br />

di modifica. Ne deriva, anche, che gli andamenti<br />

di finanza pubblica, occupazione,<br />

inflazione, consumi, investimenti sono tutti<br />

determinati dai comportamenti di politica<br />

economica degli anni precedenti, dagli andamenti<br />

congiunturali interni ed internazionali<br />

degli anni precedenti, dalle aspettative<br />

che si sono sedimentate nel tempo, dagli<br />

operatori economici: famiglie, imprese, investitori,<br />

ecc.<br />

Sono tutti valori determinati nel medio-lungo<br />

periodo, per cui è assolutamente folle,<br />

per qualsiasi governo, attribuirsi i meriti di<br />

un andamento congiunturale positivo a pochi<br />

mesi dal suo insediamento.<br />

1996-2001 e 2001-2006:<br />

due quinquenni a confronto<br />

Fuor di generalità, ci sono alcuni punti su<br />

cui occorre fare un po’ di chiarezza. Prendiamo<br />

i due quinquenni di governo 1996-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

2001 (metà ’96, metà 2001) e 2001-2006<br />

(seconda metà 2001, prima metà 2006),<br />

ossia i due periodi caratterizzati in Italia rispettivamente<br />

dai governi di centro-sinistra<br />

e dai governi di centro-destra. Alcuni<br />

dati in merito:<br />

1996 - 2001<br />

• il tasso di crescita medio dell’economia è<br />

stato di poco superiore al 2% nel quinquennio,<br />

in linea con la crescita europea,<br />

ma comunque con una tendenza alla minor<br />

crescita rispetto alla media UE di circa<br />

il 25-30%: il tasso di crescita medio europeo<br />

nello stesso periodo era, quindi, del<br />

25-30% superiore a quello dell’intero periodo<br />

in Italia;<br />

• il lascito di finanza pubblica del governo<br />

di centro-sinistra nel periodo considerato è<br />

stato del 3,1% in termini di deficit/Pil, e con<br />

un rapporto debito/Pil al 110,9%;<br />

• l’avanzo primario lasciato in eredità dal<br />

governo di centro-sinistra al governo di<br />

centro-destra è stato del 3,2%, dopo aver<br />

ricevuto in eredità un avanzo primario di oltre<br />

il 6% (del 6,6% nel 1997);<br />

• il tasso di inflazione medio nel periodo è<br />

stato superiore al 2,3%;<br />

• è stato creato 1.000.000 di nuovi posti di<br />

lavoro (su spinta del pacchetto Treu);<br />

• la pressione fiscale lasciata in eredità è<br />

stata del 41,3%.<br />

2001-2006<br />

• Tasso di crescita medio dello 0,7% (cioè<br />

un terzo del tasso di crescita medio del<br />

quinquennio precedente), dovuto anch’esso<br />

a ragioni esogene internazionali. Considerata<br />

la media UE, il differenziale è tra<br />

mezzo punto e due terzi di punto (in termini<br />

percentuali) e quindi accentuato rispetto<br />

al quinquennio di centro-sinistra, ma <strong>questo</strong><br />

non vale in termini assoluti;<br />

• il tasso di inflazione è stato leggermente<br />

51<br />

più basso rispetto al quinquennio precedente,<br />

cioè circa del 2%-2,2%;<br />

• il rapporto deficit/Pil nel 2006, al netto<br />

delle una tantum, sia peggiorative che migliorative,<br />

è stato del 2,4%;<br />

• l’avanzo primario che si è pressoché azzerato<br />

nel 2005 (0,2%), nel 2006 è salito<br />

all’1,5%, mentre le prime previsioni per il<br />

2007 vedono <strong>questo</strong> dato in controtendenza<br />

salire al 2,6%;<br />

• creazione di nuovi posti di lavoro circa<br />

2.000.000;<br />

• la pressione fiscale lasciata in eredità dal<br />

centro-destra nel 2005 è stata del 40,6%,<br />

ed è passata nel 2006 al 42,3 per effetto<br />

dell’allargamento della base impositiva pur<br />

senza ritoccare al rialzo le aliquote fiscali.<br />

Quali considerazioni trarre da questa semplice<br />

comparazione brutale, schematica e<br />

semplificatoria?<br />

Il centro-sinistra ha potuto usufruire di un<br />

tasso di crescita medio triplo (soprattutto<br />

per ragioni esogene) di quello del centrodestra.<br />

Nonostante <strong>questo</strong> tasso di crescita<br />

medio triplo, rispetto al periodo successivo,<br />

il centro-sinistra negli anni 1996-2001 si è<br />

mangiato almeno metà dell’avanzo primario<br />

lasciato in eredità dal governo precedente.<br />

La spesa corrente rispetto al Pil è rimasta<br />

sostanzialmente costante, mentre la finanza<br />

pubblica lasciata in eredità dal centrosinistra<br />

nel 2001 al governo susseguente<br />

(governo Berlusconi) era in leggero sfondamento<br />

rispetto ai parametri di Maastricht<br />

(3,1%). Per quanto riguarda l’abbassamento<br />

del rapporto debito/Pil (nel 2006 al<br />

106,8%), durante il quinquennio di centrosinistra<br />

non si erano fatti sostanziali progressi.<br />

Di contro, il governo di centro-destra ha<br />

dovuto scontare una crescita media del<br />

periodo molto più bassa del periodo precedente.<br />

Tuttavia, in <strong>questo</strong> stesso periodo<br />

il centro-destra ha diminuito la pressione fi


scale, per quattro anni, di circa 1 punto<br />

(salvo che la pressione fiscale nell’ultimo<br />

anno, vale a dire nel 2006, è cresciuta di<br />

circa un punto, soprattutto in ragione dell’effetto<br />

dell’abbassamento delle aliquote,<br />

della maggiore crescita economica e dell’allargamento<br />

della base impositiva);<br />

Il centro-destra, nello stesso periodo, ha<br />

proseguito nel trend di azzeramento della<br />

curva di discesa dell’avanzo primario,<br />

praticamente agli stessi ritmi del periodo<br />

precedente, tenendo conto, però, del fatto<br />

che il centro-destra doveva scontare,<br />

come già ribadito, una crescita di un terzo<br />

rispetto a quella del periodo precedente,<br />

ma è anche riuscito ad invertire<br />

questa tendenza chiudendo il 2006 con<br />

un avanzo primario al 1,5%.<br />

C’è anche da dire che, nel periodo del centro-destra,<br />

è aumentato il rapporto spesa<br />

corrente/Pil, e ciò è stato dovuto a un effetto<br />

molto semplice: essendo rimasta sostanzialmente<br />

invariata, in valori assoluti,<br />

per ragioni di ovvie isteresi e rigidità, la<br />

spesa corrente, ed essendo, nello stesso<br />

periodo, diminuito il tasso di crescita del<br />

Pil, ne consegue che il differenziale di crescita<br />

delle due variabili (costante l’incre-<br />

INDICATORI DI FINANZA PUBBLICA<br />

NUOVA SERIE ISTAT<br />

1994<br />

1995<br />

1996<br />

1997<br />

1998<br />

1999<br />

2000<br />

2001<br />

2002<br />

2003<br />

2004<br />

2005<br />

2006<br />

INDEBITAMENTO AVANZO<br />

NETTO PRIMARIO<br />

-9,1<br />

-7,4<br />

-7,0<br />

-2,7<br />

-2,8<br />

-1,7<br />

-2,0<br />

-3,1<br />

-2,9<br />

-3,4<br />

-3,4<br />

-4,1<br />

-2,4<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Fonte: ISTAT<br />

2,3<br />

4,2<br />

4,6<br />

6,6<br />

5,1<br />

4,9<br />

4,3<br />

3,2<br />

2,7<br />

1,7<br />

1,3<br />

0,2<br />

1,5<br />

52<br />

mento della spesa corrente, praticamente<br />

zero la crescita del Pil) ha portato all’aumento<br />

del rapporto spesa corrente/Pil.<br />

Quindi, la critica che viene fatta al centrodestra,<br />

di aver aumentato la spesa corrente<br />

nel periodo considerato, è una critica vera<br />

dal punto di vista formale, ma del tutto<br />

ingiustificata dal punto di vista sostanziale<br />

(in termini percentuali è aumentata, ma<br />

non in termini assoluti).<br />

Nel periodo 2001-2006, il <strong>numero</strong> di posti<br />

di lavoro è aumentato di circa 2.000.000 di<br />

unità (tenendo conto anche di regolarizzazioni<br />

ed emersione del sommerso) facendo<br />

registrare il record storico degli occupati<br />

in Italia dal dopoguerra.<br />

Il centro-destra lascia, quindi, in eredità al<br />

nuovo quinquennio:<br />

• un rapporto deficit/Pil assolutamente virtuoso<br />

2,3-2,4%;<br />

• un mercato del lavoro assolutamente<br />

funzionante;<br />

• un allargamento della base impositiva;<br />

• un gettito record fiscale (+37,7 miliardi di<br />

euro);<br />

• una leggera diminuzione del rapporto debito/Pil<br />

conseguente ad un primo aumento<br />

dell’avanzo primario, cioè ad un’inversione<br />

dell’andamento dell’avanzo primario, che<br />

nel decennio precedente era, invece, costantemente<br />

diminuito;<br />

• un tasso di inflazione leggermente più<br />

basso (nel 2006 al 2,1%);<br />

• un’eredità generosa del 2006 rispetto al<br />

2007, che fa presagire tassi di crescita costanti<br />

nel 2007-2008, come dicono tutti i<br />

previsori, attorno al 2%.<br />

Considerazioni conclusive<br />

e riassuntive<br />

Sarebbe ora di smetterla di incolpare i governi<br />

precedenti di tutte le nefandezze e di<br />

attribuirsi tutte le virtù. Sarebbe ora di smetterla<br />

di cancellare, ad ogni cambio di go-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

verno, le politiche economiche dei governi<br />

precedenti. Sarebbe ora di smetterla di<br />

smontare le riforme precedenti, di smontare<br />

i loro impianti di lungo periodo (ad esempio:<br />

la legislazione sul mercato del lavoro,<br />

la legislazione pensionistica, la legislazione<br />

societaria, la legislazione fiscale sulle aliquote).<br />

Tutto <strong>questo</strong> non porta altro che a<br />

rallentamenti, cambiamenti di aspettative<br />

ed incertezza negli operatori economici.<br />

Sarebbe il caso che i governi si facessero<br />

carico di una virtuosa continuità rispetto alle<br />

migliori pratiche dei governi precedenti.<br />

Per cui, se la pressione fiscale è stata diminuita<br />

nel quinquennio precedente e ha<br />

dato origine ad un exploit di gettito considerevole,<br />

è chiaro che la strategia di medio<br />

periodo adottata si configura come virtuosa,<br />

quindi non ha senso smontare una<br />

strategia virtuosa che ha successo per iniziarne<br />

un’altra di controtendenza di aumento<br />

delle aliquote fiscali, ingenerando<br />

anche e soprattutto confusione nei contribuenti.<br />

Questo vale per il fisco, vale per il<br />

mercato del lavoro, vale per le pensioni.<br />

Per favore, non inventiamoci la tax compliance,<br />

non inventiamoci le facce feroci, i<br />

comportamenti virtuosi o meno virtuosi dei<br />

contribuenti, che, in tutte le parti del mondo,<br />

dipendono da regolazioni di lungo periodo<br />

dei sistemi, vale a dire dall’efficienza<br />

della macchina fiscale, dalla non invasività<br />

della macchina fiscale nei confronti dei<br />

contribuenti, dalla fiducia che gli operatori<br />

hanno nello Stato e nel governo; in definitiva,<br />

non solo dal rapporto fiduciario e dalla<br />

pressione fiscale considerata accettabile<br />

da parte del contribuente, che è un valore<br />

relativo alla qualità dei servizi offerti e<br />

ai livelli di pressione fiscale vigenti negli altri<br />

paesi concorrenti. Quindi, per favore,<br />

non cadiamo nel ridicolo attribuendo alla<br />

faccia feroce di Visco le performance di<br />

gettito 2006, perché facciamo solo ridere.<br />

53<br />

IL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO:<br />

LE RIFORME DELLE PENSIONI<br />

Sarebbe anche qui il caso di fare un po’ di<br />

chiarezza. Dal 1992, vale a dire dal governo<br />

Amato, di riforme pesanti ne sono state fatte<br />

almeno 5:<br />

• Amato ’92: limitava alcuni eccessi della<br />

normativa precedente, ad esempio l’indicizzazione;<br />

• Dini ’95: la più importante. Con questa riforma<br />

è stata cambiata la struttura con il passaggio<br />

dai sistemi retributivi a quelli contributivi,<br />

pur sempre nel macro quadro a ripartizione.<br />

Quella di Dini è una capitalizzazione virtuale,<br />

con un periodo di implementazione di 40 anni<br />

(completamente in vigore nel 2035). Questa<br />

lentezza nel processo di implementazione è<br />

indubbiamente un difetto;<br />

• Prodi ’96-’97: ha parzialmente ovviato ad<br />

alcune inefficienze della riforma Dini, senza<br />

toccarne l’impianto;<br />

• Berlusconi 2003: altra accelerazione della<br />

riforma Dini l’ha fatta Berlusconi con la legge<br />

Maroni-Tremonti del 2003. Con questa riforma<br />

si è sostanzialmente velocizzato il periodo<br />

transitorio relativo ai pensionamenti anticipati<br />

di anzianità, il cosiddetto “scalone”. Attualmente<br />

(a normativa vigente), il sistema è<br />

in equilibrio, non presenta gobbe di incremento<br />

della spesa pensionistica sul Pil, che<br />

erano, invece, implicite nella riforma Dini del<br />

’95, per gli anni 2013-2018.<br />

Il sistema di riforme del quindicennio Amato-<br />

Dini-Prodi-Berlusconi porta il sistema pensionistico<br />

italiano, se non alla perfezione, sicuramente<br />

alla sostenibilità.<br />

Modificare le modifiche porterebbe nel caos il<br />

sistema e produrrebbe le relative gobbe di<br />

spesa. Un solo esempio: eliminare lo scalone,<br />

vale a dire l’incremento che parte tra 6<br />

mesi dell’età di pensionamento da 57 a 60<br />

anni, comporta un maggiore esborso di circa<br />

4 miliardi rispetto a quanto già internalizzato<br />

nell’attuale legislazione, che per circa 6-7 anni<br />

a regime risulta in mancati risparmi per circa<br />

30 miliardi di euro (cumulato), il che comporta<br />

una non sostenibilità e lo spostamento<br />

in avanti del punto di equilibrio.(RB)


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Il bluff delle liberalizzazioni<br />

e delle privatizzazioni<br />

di Pierluigi Borghini<br />

Ogni tanto la politica impone delle parole<br />

a cui viene attribuito un potere salvifico.<br />

E vengono evocate – quasi sempre a<br />

sproposito – come la risoluzione di ogni<br />

problema. Parole che diventano vere e<br />

proprie mode che, proprio come avviene<br />

per il mondo del fashion, sembra non se<br />

ne possa fare a meno. È toccato alla parola<br />

riformismo (guai a non definirsi tutti<br />

riformisti!), ora è la volta di “liberalizzazioni”<br />

e “privatizzazioni”. Nel mondo economico<br />

il loro significato è chiaro e non<br />

ammette equivoci. <strong>In</strong> quello della politica<br />

il significato è nebuloso al punto che se<br />

ne abusa tanto nelle aule parlamentari<br />

che nei salotti televisivi.<br />

“Liberalizzazioni” è la bacchetta magica<br />

che tanto piace ai “maghi-ministri” del<br />

governo Prodi. Sia che si parli delle licenze<br />

dei taxi, che dell’apertura dei barbieri<br />

il lunedì; della vendita dell’aspirina<br />

al supermercato che dei distributori di<br />

benzina.<br />

Forse è giunto il momento di fare chiarezza<br />

e capire fino in fondo di cosa parliamo<br />

anche in vista di importanti appuntamenti<br />

che l’Europa ci impone con la Direttiva<br />

Europea che dal 1 luglio imporrà<br />

la piena libertà di domanda e offerta nel<br />

campo dei servizi pubblici. Queste sì che<br />

sono liberalizzazioni! Ma il nostro Paese<br />

54<br />

sarà in grado di affrontarle? O ancora<br />

una volta, la confusione che sui temi economici<br />

contraddistingue il governo Prodi<br />

e i suoi ministri, vedrà l’Italia in affanno rispetto<br />

agli altri paesi europei?<br />

Liberalizzare significa modificare lo scenario<br />

nel quale operano le imprese e i<br />

consumatori, togliendo vincoli e rendendo<br />

quindi il mercato più aperto e più competitivo.<br />

Quindi, i provvedimenti messi in campo<br />

dal ministro Bersani prima con il decreto<br />

del luglio 2006, poi con quello del gennaio<br />

2007 e ora con il Ddl in discussione<br />

alla Camera, che dovrebbe vedere la luce<br />

a luglio 2007, parla sì di liberalizzazioni,<br />

ma che riguardano categorie specifiche<br />

e libertà marginali. Potremmo definirle<br />

– senza incorrere in arbitri – estensioni<br />

di libertà, ma che non vanno a incidere<br />

sulla struttura monopolistica con la<br />

quale vengono gestiti servizi di maggiore<br />

rilevanza nella vita del cittadino. Non<br />

stiamo, insomma, parlando della liberalizzazione<br />

dell’elettricità, del gas, o dei<br />

trasporti pubblici.<br />

Un esempio lampante è quello che sta<br />

avvenendo sul problema della benzina il<br />

cui costo, sicuramente alto per il consumatore<br />

italiano, dipende da più fattori: il<br />

prezzo del greggio, della raffinazione, del-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

la distribuzione e delle tasse. Il ministro<br />

Bersani vuole intervenire liberalizzando la<br />

distribuzione che, sul totale del costo, incide<br />

per una parte minimale, sotto al 5%.<br />

Tanta propaganda che non cambierà più<br />

di tanto la situazione e soprattutto non<br />

solleverà i conti delle famiglie italiane a fine<br />

mese. Perché questa “liberalizzazione”<br />

non intacca il monopolio dei produttori<br />

né quello delle grande compagnie petrolifere<br />

(che certo hanno anche in mano<br />

la distribuzione), né tanto meno libera il<br />

prezzo dalle tante accise governative (le<br />

tasse che gravano sul carburante). <strong>In</strong>somma,<br />

alla fin fine si vanno a colpire i<br />

gestori delle pompe di benzina, che certo<br />

non possiamo mettere sullo stesso piano<br />

delle compagnie petrolifere.<br />

Così come i barbieri o i farmacisti, non<br />

sono certo loro i monopolisti che fanno il<br />

bello e il cattivo tempo sul mercato dei<br />

prezzi.<br />

Sono, infatti, i monopoli ed i cartelli che<br />

detengono la possibilità di fissare a loro<br />

piacimento i prezzi e poco può la presenza<br />

delle varie Autority che in Italia non<br />

hanno né poteri né strumenti di intervento<br />

per poter espellere dal mercato un<br />

operatore che esercita in modo scorretto<br />

forte di un regime di monopolio. Le Autorità<br />

possono soltanto limitarsi a sanzionare<br />

i comportamenti come un arbitro però<br />

privo di fischietti e dei cartellini gialli o<br />

rossi di ammonimento o di espulsione.<br />

Il rischio quindi che il Paese arriverà a<br />

mani nudi alla scadenza Ue del primo luglio<br />

è concreto. Cosa accadrà quindi<br />

quando si dovrà applicare la piena libertà<br />

di domanda e offerta nel campo dei<br />

servizi pubblici?<br />

Il consumatore senz’altro è pronto ad andarsi<br />

a cercare la migliore offerta sul<br />

mercato, ma la domanda troverà un’offerta<br />

diversificata?<br />

55<br />

Oppure, l’offerta diversificata che va a<br />

cercare il consumatore in realtà viene<br />

strozzata dal fatto che la rete di distribuzione<br />

del gas, per esempio, è in mano ad<br />

un unico soggetto che è il proprietario,<br />

nel caso del gas, del tubo che arriva dentro<br />

casa?<br />

Per riuscire a realizzare, davvero, le liberalizzazioni<br />

occorre creare condizioni di<br />

mercato uguali per tutti i soggetti che vogliono<br />

operare.<br />

Come? Separando in modo netto la proprietà<br />

delle differenti rete di distribuzione,<br />

dalla loro gestione.<br />

E tenendo ben distinte le liberalizzazioni<br />

dalle privatizzazioni. Perché vendere le<br />

partecipazioni dello Stato a operatori privati,<br />

trasferendo un monopolio pubblico a<br />

uno privato, non è certo un’operazione di<br />

democrazia.<br />

Ciò che è accaduto negli anni scorsi è<br />

bene tenerlo presente, per evitare di<br />

commettere nel futuro gli stessi errori. E<br />

occorre cambiare in modo radicale la politica<br />

economica finora adottata dal nostro<br />

Paese.<br />

Telecom Italia, Autostrade, ma anche la<br />

privatizzazione della Centrale del Latte di<br />

Roma, sono gli esempi più eclatanti del<br />

flop delle liberalizzazioni e privatizzazioni<br />

targate made in Italy, che non a caso portano<br />

tutte la firma dei governi di centro-sinistra.<br />

Il governo D’Alema vendette sia la Telecom<br />

Italia, che Autostrade senza aver<br />

prima affrontato la liberalizzazione della<br />

rete telefonica o delle concessioni nel caso<br />

di Autostrade.<br />

<strong>In</strong> entrambi i casi chi ha comprato, Colaninno<br />

per la Telecom e i Benetton per<br />

Autostrade ha fatto un grande affare, acquistando<br />

ad un prezzo che non teneva<br />

conto dei futuri redditi, cioè a prezzi da<br />

saldo.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Privatizzazioni: l’Europa rallenta, il mondo, Cina in testa, corre<br />

L’assenza dell’Italia dalla classifica europea delle dismissioni di Stato emerge dal bilancio finale<br />

delle privatizzazioni del 2006 nei 27 Paesi della Ue contenuta nell’ultima newsletter semestrale<br />

del Privatization Barometer (Pb) curato dalla Fondazione Iri e dalla Fondazione Eni Enrico<br />

Mattei. Nella classifica per Paesi degli incassi da cessioni di asset ai privati l’Italia, che un<br />

tempo era nei primissimi posti dell’Europa e che negli ultimi vent’anni è stato il secondo Paese<br />

al mondo per privatizzazioni, è retrocessa l’anno scorso al dodicesimo posto, con un bilancio<br />

assolutamente modesto di 700 milioni di euro, composto dall’Ipo di Ansaldo Sts (400 milioni)<br />

e dalla vendita del patrimonio immobiliare di Fintecna (300 milioni).<br />

L’arretramento dell’Italia,dovuto in parte alle elezioni politiche generali di primavera ma soprattutto<br />

ai veti della sinistra radicale, è vistoso ma è in linea con una tendenza ribassista che ha<br />

investito l’intera Europa (62 operazioni in tutto per un controvalore di 41 miliardi di euro contro<br />

i 67 miliardi del 2005) malgrado lo stato di salute delle Borse. Tutto il contrario di quello che sta<br />

avvenendo nel resto del mondo dove le vendite di Stato sono in netto aumento e dove svetta<br />

la Cina con la più grande Ipo della storia, quella dell’<strong>In</strong>dustrial and Commercial Bank of China.<br />

Secondo gli analisti del Barometro la flessione europea ha principalmente due ragioni: 1) lo<br />

spostamento a sinistra dei governi, con il conseguente colpo di freno alle privatizzazioni; 2) il<br />

risorgere di forme di protezionismo in alcuni Paesi dell’Est europeo e in particolare in Polonia.<br />

Per l’Europa le previsioni non sono entusiasmanti nemmeno per il 2007 perché, secondo il Barometro,<br />

il controvalore finale si abbasserà a 40 miliardi di euro, anche per effetto dell’incertezza<br />

della Francia, che l’anno scorso è stata invece la regina delle privatizzazioni con un saldo<br />

attivo di quasi 9 miliardi di euro (8,968 per la precisione), davanti alla Germania (8,886), all’Olanda<br />

(5,055) e alla Gran Bretagna (4,997). Quest’anno è attesa la staffetta con la Germania<br />

che dovrebbe diventare la locomotiva d’Europa e che nel 2006 ha avuto due formidabili driver<br />

nella Kfw (l’omologa della nostra Cassa depositi e prestiti) e nei governi regionali. Ma l’interrogativo<br />

maggiore che pende sulla Ue dei 27 è capire se e quando ripartiranno le privatizzazioni<br />

nei settori strategici. Un’altra delle novità del 2006 è stata in effetti la rilevanza delle<br />

cessioni pubbliche in comparti concorrenziali come quello manifatturiero e quello finanziario<br />

(dove le operazioni bancarie sono state di spicco) e il rallentamento nelle industrie a rete e soprattutto<br />

nelle utilities, anche per effetto dell’assenza di una politica comune aperta al mercato<br />

nel settore dell’energia.<br />

Un’altra corposa novità del 2006 è stato il protagonismo dei fondi di private equity, che in passato<br />

venivano visti con diffidenza dai governi e che invece stanno assumendo un ruolo sempre<br />

più importante anche nelle privatizzazioni.Oltre il 67% dei proventi da privatizzazioni dell’anno<br />

scorso è stato raccolto con vendite dirette (e cioè fuori dal mercato) e tre delle cinque principali<br />

operazioni sono state concluse da fondi di private equity.<br />

Significativo è ancora una volta il caso tedesco, non solo per la rilevanza della recente acquisizione<br />

di Blackstone di una quota di Deutsche Telekom ma perché operazioni analoghe di intervento<br />

attivo nel capitale sono avvenute anche nelle imprese private ad opera degli hedge<br />

funds. L’ostracismo alle «locuste» sembra insomma lontano e ciò ha permesso anche alla Germania<br />

di fare la parte del leone.<br />

Il placement del 54% di Pages Jaunes, le pagine gialle francesi, effettuata da France Telecom<br />

al fondo americano di private equity Kkr è stata, nell’ultimo semestre del 2006, l’operazione di<br />

maggior peso per ammontare di incasso (3,3 miliardi di euro) e la seconda dell’anno in Europa<br />

dietro la vendita per 4,5 miliardi di euro di Westinghouse Electric Plc, la controllata americana<br />

di British Nuclear Fuel, ai giapponesi di Toshiba.<br />

Ungheria (1,892 miliardi di euro) e Lituania (1,389 miliardi di euro) hanno infine guidato il processo<br />

di privatizzazione nei Paesi dell’Europa dell’Est, che anche l’anno scorso ha raccolto circa<br />

il 10% degli incassi da dismissioni di tutta la Ue ma nella quale affiorano evidenti segnali di<br />

rallentamento.<br />

56


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Nello specifico caso di Telecom Italia,<br />

Colaninno ha rivenduto, in seconda battuta,<br />

dopo un anno e mezzo, a chi sapeva<br />

che da quella operazione di acquisto<br />

potevano svilupparsi i futuri redditi. Questa<br />

operazione ha permesso a Colaninno<br />

di realizzare mostruose plusvalenze.<br />

Un bell’affare per loro, una perdita per lo<br />

Stato e una beffa per i consumatori!<br />

<strong>In</strong>fatti, i vari gestori che si sono affacciati<br />

sul mercato della telefonia fissa, da Fastweb<br />

a Tele2, devono per forza passare,<br />

per entrare nelle nostre case, dalla rete<br />

Telecom. E il costo che il monopolista Telecom<br />

chiede loro, viene poi nuovamente<br />

scaricato sui consumatori-utenti.<br />

Quindi, anche se Telecom si vede disdetto<br />

l’abbonamento come gestore, guadagna<br />

ugualmente, affittando le sue linee<br />

ad altri operatori. Alla faccia del libero<br />

mercato!<br />

E proprio per <strong>questo</strong> altre nazioni, come<br />

Francia o Germania, campioni nelle privatizzazioni,<br />

si sono ben guardate dal<br />

vendere le loro rispettive Telecom.<br />

Diverso quello che è accaduto con la British<br />

Telecom, che ha separato in modo<br />

netto la proprietà della rete, dalla sua gestione.<br />

British Telecom, proprietaria della rete, la<br />

dà in uso a tutti gli altri operatori, e tra<br />

questi, partecipa come tutti gli altri alla<br />

gestione del servizio. Non come avviene<br />

per Telecom Italia, che è non solo proprietaria,<br />

ma gestore e operatore al tempo<br />

stesso, dettando, quindi, in regime di<br />

assoluto monopolio, le condizioni di mercato.<br />

Le liberalizzazioni hanno invece funzionato<br />

nel caso della telefonia mobile che,<br />

non avendo bisogno di rete, ha visto nascere<br />

più operatori: da Tim a Vodafone,<br />

da Wind a 3. La concorrenza è reale e<br />

avviene con le tariffe, dando così real-<br />

57<br />

mente al consumatore la possibilità di<br />

confrontare e di scegliere.<br />

Stessa cosa è avvenuta nel trasporto aereo.<br />

Lì non si è dovuto fare i conti con la<br />

proprietà della rete come nel caso delle<br />

ferrovie e negli anni abbiamo visto nascere<br />

e affermarsi più vettori: dagli antichi<br />

charter per turismo, alle linee low cost<br />

che ormai si sono imposte anche per i<br />

viaggi di lavoro, creando delle vere e proprie<br />

tratte di collegamento ormai indispensabili<br />

per aziende grandi e piccole.<br />

Una vera e propria rivoluzione che ha trasformato<br />

il traffico aereo, lo ha reso accessibile<br />

a tutti e a ogni tasca al punto<br />

che spesso è più costoso un taxi per l’aeroporto<br />

che volare in Europa.<br />

Ecco quindi che il vero problema da risolvere<br />

quando si parla di liberalizzazioni<br />

è nella proprietà della rete di gestione,<br />

sia che si parli di gas, di elettricità o di<br />

trasporto ferroviario.<br />

È chiaro che nessuno pensa di poter duplicare<br />

o triplicare la rete di distribuzione<br />

del gas o dell’elettricità: avrebbe costi folli<br />

e, soprattutto, l’Italia diventerebbe un<br />

enorme colabrodo in perenne transenna<br />

da “lavori in corso”.<br />

Quindi la Snam, che è la proprietaria della<br />

rete gas italiana, e opera in regime di<br />

monopolio, dovrà restare solo come titolare<br />

della rete e consentire a più gestori<br />

di utilizzarla, lasciando poi al cittadino la<br />

scelta fra le diverse offerte?<br />

Certo è che se si vuole seriamente liberalizzare,<br />

allora, chi ha la proprietà della<br />

rete di distribuzione, non può avere in<br />

mano anche la gestione. Così per il gas,<br />

ma la stessa cosa vale anche l’elettricità.<br />

E sicuramente vendere la Snam per il<br />

gas o l’Enel per l’elettricità, privatizzandole,<br />

non significa liberalizzare il mercato:<br />

anche in <strong>questo</strong> caso sarebbe solo un<br />

passaggio di potere da un monopolio


pubblico ad uno privato, addirittura con<br />

minori garanzie per i cittadini-utenti. Perché<br />

se oggi lo Stato porta ad esempio l’elettricità<br />

nel più sperduto luogo d’Italia<br />

con costi altissimi e sicuramente non remunerativi,<br />

altrettanto non farà il monopolista<br />

privato, salvo ricevere incentivi<br />

economici e alte compensazioni dal governo.<br />

E poi non è nemmeno così facile e semplice<br />

individuare fino in fondo chi è il proprietario<br />

unico della rete.<br />

Prendiamo, ad esempio, l’elettricità. Vero<br />

che l’Enel la porta nelle grandi città, ma<br />

sono poi le aziende municipalizzare locali<br />

a farla arrivare nelle case dei cittadini<br />

con la loro rete di distribuzione.<br />

Ed è proprio sulle municipalizzate, aziende<br />

controllate dagli enti locali che erogano<br />

allo stato attuale in regime di monopolio<br />

servizi pubblici fondamentali, che si<br />

dovrebbe giocare la vera partita delle liberalizzazioni.<br />

Ma il governo Prodi ancora una volta si è<br />

dimostrato incapace di mettere in campo<br />

proposte chiare e efficace, come dimostra<br />

il disegno di legge del ministro Lanzillotta<br />

sulle municipalizzate. Altro che efficienza<br />

e servizi di qualità per stare sul<br />

mercato! Il Ddl della Lanzillotta rischia di<br />

rafforzare il monopolio delle municipalizzate<br />

sia che eroghino servizi in modo ottimo<br />

che pessimo.<br />

Come potrà infatti l’amministrazione pubblica<br />

mettere in appalto un servizio sapendo<br />

che se la municipalizzata perde la<br />

gara, per migliaia di lavoratori ci sarà il<br />

baratro della cassa integrazione e poi del<br />

licenziamento?<br />

Oppure l’amministrazione pubblica scaricherà<br />

il doppio costo sui cittadini, chiamati<br />

a pagare non solo il servizio erogato,<br />

luce o pulizia, ma anche con le tasse<br />

gli ammortizzatori sociali per la municipa-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

58<br />

lizzata che ha perso la gara di appalto.<br />

Un bel capolavoro, non c’è che dire!<br />

Certo, forse non c’è molto da stupirsi visto<br />

che il ministro Lanzillotta quando era<br />

assessore al Comune di Roma fu protagonista<br />

della vendita della Centrale del<br />

Latte a Cragnotti. Come è finita lo sanno<br />

tutti, ma è bene ricordarlo: il Comune<br />

vendette la Centrale per la metà del suo<br />

valore. Obbligo per l’acquirente di non rivendere<br />

per cinque anni e di assumere<br />

280 dei 525 lavoratori della Centrale del<br />

Latte. I lavoratori in esubero, 245, dopo<br />

un anno vennero tutti assunti dal Comune<br />

di Roma e Cragnotti rivendette a Parmalat<br />

prima del tempo la Centrale pagando<br />

una multa risibile visti i guadagni<br />

ottenuti comprando a poco e rivendendo<br />

a tanto!<br />

Ecco, non vorremmo che con le gare per<br />

i servizi delle municipalizzate, la pubblica<br />

amministrazione si ritroverà costretta ad<br />

assumere migliaia di dipendenti con l’inevitabile<br />

lievitazione della spesa pubblica.<br />

Due sono le strade da percorrere se si<br />

vuole davvero rendere efficienti e competitive<br />

le aziende municipalizzare. La<br />

prima è quella di consorziarle non più a livello<br />

comunale ma regionale; la seconda<br />

è di aprirle sempre più alla partecipazione<br />

dei privati.<br />

Un esempio valido per tutte: la Regione<br />

Lombardia ha municipalizzate molto importanti:<br />

da quella di Brescia, a quella di<br />

Milano, per arrivare a quella di Varese.<br />

Regionalizzando e fondendo questi operatori<br />

tra loro si verrebbe a costituire una<br />

municipalizzata davvero forte e competitiva<br />

sul mercato, che potrebbe con un<br />

bando di gara, per meriti e competenze<br />

operare anche in altre aree geografiche.<br />

Questo significherebbe trasformare le<br />

municipalizzate esistenti in operatori<br />

reali del mercato, in grado di concorre-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Liberalizzazioni: obblighi Ue<br />

La direttiva 98/30 ha introdotto una serie di novità:<br />

• Accesso alla rete da parte di terzi: la direttiva propone due varianti a scelta, ossia l’accesso<br />

alla rete sulla base di un contratto oppure l’accesso alla rete regolamentato. La maggioranza<br />

degli Stati membri ha optato per l’accesso regolamentato alla rete e ha quindi accettato<br />

la presenza di un regolatore. Questa variante riconosce il diritto di accedere alla rete<br />

sulla scorta di tariffe rese pubbliche.<br />

• Liberalizzazione graduale del mercato: la direttiva prevede un’apertura dei mercati del gas<br />

naturale entro il 2008 articolata in tre tappe, ciò che dovrebbe consentire all’industria del gas<br />

naturale di adeguarsi al nuovo contesto in modo ordinato.<br />

• Unbundling: la direttiva impone inoltre alle aziende del gas integrate di tenere nella loro<br />

contabilità interna un conto separato per ciascuna delle attività svolte (trasporto, distribuzione<br />

e stoccaggio).<br />

<strong>In</strong> un rapporto sullo stato della liberalizzazione, già nel 1999 la Commissione europea era<br />

giunta alla conclusione che occorreva perfezionare l’obiettivo di un’apertura del 33% dell’intero<br />

mercato del gas naturale nell’UE ben prima del termine inizialmente fissato, ossia il<br />

2008.<br />

Per accelerare il processo di liberalizzazione, il 4 giugno 2003 il Parlamento europeo ha<br />

adottato diverse direttive che chiedevano agli Stati UE di aprire rapidamente i mercati dell’elettricità<br />

e del gas naturale. <strong>In</strong> pratica, dal 1° luglio 2007, tutti i clienti privati dell’elettricità<br />

e del gas nell’Unione europea dovranno poter scegliere liberamente il relativo fornitore; ai<br />

clienti commerciali questa facoltà doveva essere garantita già a partire dal 1° luglio 2004.<br />

<strong>In</strong> aggiunta alla tabella di marcia della liberalizzazione, le nuove direttive contemplano <strong>numero</strong>se<br />

normative per la protezione dei clienti finali attraverso tutta una serie di obblighi atti<br />

a garantire il servizio pubblico.<br />

Al 1° luglio 2004, gli Stati membri dovevano tra l’altro ottemperare alle seguenti prescrizioni:<br />

• Libera scelta del fornitore di gas e di elettricità per tutti i clienti commerciali. Dal 1° luglio<br />

2007 estensione a tutti i clienti privati.<br />

• Istituzione in tutti gli Stati membri di organismi di regolamentazione provvisti di un mansionario<br />

unificato a livello europeo incaricati di controllare e approvare i metodi di tariffazione<br />

per l’accesso alla rete prima della loro entrata in vigore, svolgere compiti di monitoraggio<br />

e fungere da ufficio di conciliazione in caso di reclami contro i gestori della rete.<br />

• Separazione (ai sensi del diritto societario) del settore “rete” dalle altre attività esercitate<br />

dalle aziende elettriche e del gas, per garantire una maggiore trasparenza e per controllare<br />

con efficacia le eventuali discriminazioni nei confronti di altri fornitori di gas e di elettricità.<br />

Per le aziende di distribuzione <strong>questo</strong> obbligo diventa effettivo il 1° luglio 2007 a condizione<br />

che assicurino l’approvvigionamento di oltre 100.000 clienti.<br />

Quanti consumatori si avvarranno del diritto di libera scelta del fornitore in un contesto di liberalizzazione<br />

totale del mercato rimane un’incognita. Tra i clienti che già beneficiano di<br />

questa opportunità, infatti, soltanto un <strong>numero</strong> esiguo ha optato per un cambio.<br />

La Commissione europea sta affrontando con crescente determinazione anche le problematiche<br />

legate alla sicurezza dell’approvvigionamento nel settore energetico e valuta i contratti<br />

di fornitura a lungo termine in termini sensibilmente più positivi di quanto non facesse<br />

all’inizio delle discussioni sulla liberalizzazione. Ecco perché auspica esplicitamente che,<br />

anche in futuro, tali contratti svolgano un ruolo importante nell’approvvigionamento di gas<br />

naturale.<br />

59


e tra loro. Creando così, di riflesso, i<br />

presupposti per una maggiore qualità<br />

ed efficienza nell’erogazione dei servizi<br />

pubblici, a vantaggio dei cittadiniutenti.<br />

Fin qui quando si parla di liberalizzazioni.<br />

Ben altra cosa sono le privatizzazioni. Se<br />

in passato abbiamo avuto la vicenda Telecom<br />

e Autostrade, oggi la partita privatizzazione<br />

si gioca sul futuro dell’Alitalia,<br />

con la vendita del 30% delle azioni oggi<br />

in mano del Tesoro.<br />

Ancora una volta il governo Prodi, pur<br />

avendo avuto la reale possibilità di procedere<br />

alla privatizzazione del vettore italiano,<br />

in presenza di tutte le condizioni, non<br />

ha avuto il coraggio di andare fino in fondo,<br />

come dimostrano le ultime vicende.<br />

Lo Stato mettendo in vendita una quota<br />

prima limitata, poi un po’ più alta, ma<br />

sempre inferiore al 51% e ponendo vincoli<br />

e paletti fortissimi per la vendita stessa,<br />

non fa altro che scoraggiare il mercato<br />

e i possibili acquirenti.<br />

L’attuale andamento della gara per privatizzare<br />

la compagnia di bandiera lo dimostra<br />

ampiamente. Le dichiarazioni di interesse<br />

sono state 11, le ammissioni alla<br />

fase successiva 5, ma l’interesse si è focalizzato<br />

per uno soltanto: Air One, che è<br />

allo stesso tempo possibile acquirente e<br />

concorrente di Alitalia.<br />

<strong>In</strong> entrambi i casi, infatti, l’Air One avrebbe<br />

tutto da guadagnare: sia nello smontare<br />

la compagnia, sia nel ricapitalizzarla.<br />

E al riguardo, bisognerà capire fino a che<br />

punto l’Air One avrà capacità di investimento<br />

per rinnovare il 60% della flotta in<br />

cinque anni. E nello stesso tempo fino a<br />

che punto avrà interesse a far decollare<br />

la compagnia rendendola forte e competitiva<br />

sul mercato?<br />

<strong>In</strong> entrambi i casi, è bene tenere presen-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

60<br />

te che non si tratterebbe di una operazione<br />

di privatizzazione, ma di una semplice<br />

vendita al concorrente.<br />

Non si può certo pretendere di privatizzare<br />

alle condizioni poste dal governo Prodi.<br />

Troppi limiti, troppi paletti, troppi sbarramenti:<br />

posti di lavoro da conservare,<br />

aeroporti minori che devono essere comunque<br />

serviti.<br />

Così non ci apre certo al mercato e in<br />

Italia, a parte i soliti pochi nomi ben noti,<br />

non ci sono grandi realtà economiche e<br />

grandi investitori in grado di risanare la<br />

compagnia. Sarebbe stato più opportuno<br />

aprirsi senza remore al mercato internazionale,<br />

ma l’attuale governo non ha<br />

avuto il coraggio di farlo. Si è limitato a<br />

guidare l’intera operazione proteggendo<br />

la compagnia dall’entrata di investitori<br />

stranieri.<br />

Ed proprio alla luce dell’attuale gestione<br />

dell’operazione Alitalia, che è lecito chiedersi<br />

cosa accadrà, in settori ancora più<br />

delicati, come l’elettricità e il gas.<br />

Anche il trasporto su ferro diventerà un<br />

bel rebus. I giornali ci hanno annunciato<br />

che gli imprenditori Montezemolo e Della<br />

Valle hanno formato una società che vuol<br />

far viaggiare i cittadini sui binari. Ma che<br />

rapporto c’è tra la Rete Ferrovie dello<br />

stato e Trenitalia? Chi deciderà quali<br />

convogli e con quali tariffe si passerà sui<br />

binari. È così strano pensare che chi possiede<br />

i binari ha tutte le possibilità di decidere<br />

di far passare solo i propri convogli?<br />

O imporrà agli altri tariffe tanto elevate<br />

da metterli fuori mercato perché non<br />

competitivi?<br />

<strong>In</strong>somma un gran pasticcio. Che difficilmente<br />

riuscirà ad essere compreso dall’opinione<br />

pubblica.<br />

Per il semplice motivo che chi deve gestirlo<br />

e spiegarlo – leggi il governo Prodi<br />

– ha le idee confuse. Molto.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

La risibile ascesa<br />

di Giovanni Bazoli<br />

di Fabrizio Cicchitto e Gianfranco Polillo<br />

Telecom come metafora e crocevia delle<br />

contraddizioni della società italiana. Dove il<br />

confine tra politica ed economia è sempre<br />

più labile. Al punto da nascondere il punto<br />

di congiunzione e rendere opaco il rapporto<br />

di primazia. È la politica che governa l’economia?<br />

O viceversa? Sono, cioè, alcuni<br />

soggetti, collocati fuori dal controllo democratico,<br />

che ne determinano l’agenda. Piena<br />

zeppa di appuntamenti minimalistici – si<br />

prenda il caso delle liberalizzazioni di Bersani<br />

– nei quali tuttavia singoli gruppi di<br />

pressione realizzano il loro immediato tornaconto.<br />

Fatto normale, si dirà. Questo è il<br />

modo di procedere dell’Occidente, il cui<br />

modello di relazioni (si pensi all’ibrido cinese<br />

con quel suo mix esasperato di comunismo<br />

e liberismo) ha contagiato l’intero<br />

Pianeta. E dove <strong>questo</strong> non è avvenuto,<br />

come in alcuni paesi del Medio Oriente, il<br />

fondamentalismo terroristico ne ha colmato<br />

i relativi vuoti.<br />

Risposta solo in parte convincente.<br />

Altrove l’intreccio tra politica ed economia<br />

è meno opaco. Soprattutto non deborda<br />

nel particolarismo, in barba ad interessi di<br />

carattere più generale. Che si misurano<br />

con parametri oggettivi. Il tasso di crescita<br />

del PIL, la forte presenza internazionale<br />

dei singoli campioni nazionali, una gestione<br />

ordinata delle finanze pubbliche, una<br />

coesione del Paese, che rimane forte. Dimostrando<br />

quando azzardate fossero<br />

quelle tesi che postulavano la fine degli<br />

Stati nazionali. Nessuno scempio di dino-<br />

61<br />

sauri. La globalizzazione in atto non ne ha<br />

distrutto le strutture in un abbraccio indistinto.<br />

Ne ha, al contrario, esaltato le potenzialità,<br />

quale strumento potente al servizio<br />

di strategie che richiedono la presenza<br />

attiva di un’intelligenza che non può essere<br />

sostituita dalla semplice organizzazione<br />

aziendale.<br />

Una prova, tra tante? Si guardi al processo<br />

di privatizzazione italiano. <strong>In</strong> quel grande<br />

business degli anni ’90, le acquisizioni<br />

estere di aziende italiane superarono di<br />

poco, con l’11 per cento, il valore degli assets<br />

collocati sul mercato. Il maggior interesse<br />

– 17 per cento – si riversò sull’acquisto<br />

inerente lo smobilizzo delle quote<br />

minoritarie possedute dal Tesoro e dagli altri<br />

Enti pubblici (IRI, ENI, EFIM ed Enti locali).<br />

Scarsamente considerate le imprese<br />

industriali: 7 per cento delle vendite. Ancor<br />

meno le banche, con una percentuale del<br />

4 per cento. Nel complesso, un atteggiamento<br />

scarsamente motivato. “Nel loro insieme”<br />

– ha notato uno studio di Mediobanca,<br />

predisposto per la Commissione<br />

Bilancio della Camera dei deputati – le<br />

operazioni di cessione hanno evidenziato<br />

valutazioni relativamente contenute rispetto<br />

a quelle desumibili dalle quotazioni di<br />

borsa”. Acquistare allora, in altri termini,<br />

era un affare. Che gli investitori esteri hanno<br />

disdegnato. “Gli acquirenti esteri – nota<br />

ancora lo studio – sono stati sempre imprenditori<br />

operanti nello specifico settore<br />

dell’azienda acquisita”. Sulla base di que-


sta logica, la società “Tubi Ghisa” fu ceduta<br />

a Pont-à-Mousson. L’Italgel alla Nestlè.<br />

La SIV alla Pilkington. La nuova Pignone<br />

alla General Electric. E così via.<br />

Guardiamo, invece, all’oggi. Su tavolo c’è<br />

Telecom, Alitalia, Generali. Solo qualche<br />

mese fa: ETI, ETINERA, BNL ed Antonveneta.<br />

Resta inoltre aperta la vicenda Capitalia,<br />

dove spagnoli ed olandesi si contendono<br />

ancora la partita. Come non vedere<br />

dietro questi episodi il delinearsi di uno<br />

scenario profondamente diverso. Che cosa<br />

ha fatto cambiare idea a tanti investitori<br />

internazionali: ieri distratti, oggi convinti di<br />

fare un buon affare anche dove hanno fallito,<br />

a partire da Cimoli, i manager italiani?<br />

Qualcosa di profondo sta quindi cambiando<br />

non solo in Italia, me negli equilibri internazionali.<br />

Ed è un cambiamento che va<br />

tutto a danno del nostro sistema produttivo.<br />

Naturalmente non tutto è negativo.<br />

ENEL ed Unicredit si espandano all’estero.<br />

Ma solo gli unici settori in cui l’Italia tenta di<br />

conservare posizioni acquisite da tempo.<br />

Non si dimentichi, infatti, che dallo smobilizzo<br />

delle quote di ENEL e di ENI, il Tesoro<br />

italiano ha ricevuto il 65 per cento dell’introito<br />

complessivo derivante dalle privatizzazioni.<br />

Erano due campioni nazionali e<br />

tali sono rimasti. Una savana, con due<br />

grandi alberi secolari ed una vegetazione<br />

arbustiva fatta da una miriade di piccole e<br />

medie aziende. Multinazionali tascabili?<br />

Forse. Ma fino a quando e come potranno<br />

supplire alla mancanza di global player in<br />

grado di fronteggiare i grandi concorrenti<br />

esteri?<br />

Il cambiamento a cui accennavamo sta soprattutto<br />

negli equilibri finanziari internazionali.<br />

Il grado di liquidità è ancora molto elevato,<br />

al punto che l’offerta di moneta supera<br />

di gran lunga la domanda, rappresentata<br />

degli investimenti. L’eccesso di liquidità<br />

dà adito a complesse architetture finanzia-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

62<br />

rie, in grado di sfruttare le zone grigie del<br />

mercato. Aziende patrimonialmente forti,<br />

ma deboli sul piano produttivo, possono<br />

essere facilmente comprate, smembrate e<br />

poi rivendute sul mercato, alimentando notevoli<br />

plusvalenze. Altre possono essere<br />

scalate e poi ristrutturate, con una nuova<br />

squadra di manager in grado di operare<br />

dove altri avevano fallito. È il caso della<br />

FIAT, dopo l’acquisto di una manager come<br />

Cesare Marchionne. Vicenda tutta domestica,<br />

nella sua variante italiana. Realizzata<br />

grazie alla presenza di un sistema<br />

bancario che, in quell’occasione, ha saputo<br />

rischiare portando a casa un risultato.<br />

Ma nel complesso l’Italia è fuori da <strong>questo</strong><br />

circuito: più vittima che protagonista.<br />

I nuovi artefici dello sviluppo finanziario sono<br />

soprattutto gli hedge fund ed i private<br />

equity. Si tratta di figure relativamente nuove<br />

nel panorama finanziario internazionale.<br />

Il loro teatro operativo non ha confini.<br />

Spaziano dagli USA alla Cina, dall’Europa<br />

al Medio Oriente e l’America Latina. Hanno<br />

pochi anni alle loro spalle. I private<br />

equity sono nati negli anni ’80. Da allora<br />

hanno accumulato un patrimonio valutabile<br />

intorno ai 1.300 miliardi di dollari. Il loro<br />

effetto leva, circa 40 volte gli asset di proprietà,<br />

è tale da poter garantire loro, qualora<br />

lo volessero, il controllo di tutte le aziende<br />

quotate nelle borse mondiali. Analogo è<br />

il volume di fuoco degli hedge fund. Nel<br />

1990 erano solo 690, con un capitale di<br />

690 miliardi. Oggi sono 6.900 ed il loro capitale<br />

supera i 1.350 miliardi di dollari. Concentrano<br />

quindi nelle loro mani un potere<br />

tale dominare qualsiasi mercato regionale.<br />

C’è solo un modo per evitare di farsi catturare.<br />

Essere competitivi. Evitare cioè che<br />

le plusvalenze possano derivare dalla<br />

semplice riconversione produttiva della<br />

propria attività. I Fondi, infatti, hanno una<br />

visione principalmente speculativa ed un


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

orizzonte di investimento di breve periodo.<br />

Non aggrediscono le singole realtà produttive<br />

per gestirle, secondo una logica industriale.<br />

Ma per eliminare quei malfunzionamenti<br />

che ne deprimono il valore di borsa<br />

ed ai quali è facile rimediare mutandone la<br />

goverance. L’antidoto alla loro alla loro ingombrante<br />

presenza è quindi un paese<br />

che funziona dal punto di vista economico.<br />

Che, assorbendo lo stimolo che proviene<br />

dai mercati internazionali, è in grado di<br />

presentare conti aziendali in ordine ed uno<br />

standard inattaccabile. Se sussistono queste<br />

condizione, quelle incursioni diventano<br />

inutili. E si vive più tranquilli, potendo contare<br />

sulla vitalità del proprio sistema produttivo.<br />

Ricorrono queste condizioni nell’Italia di<br />

oggi? Il marcato disinteresse mostrato dal<br />

capitale estero nei confronti degli investimenti<br />

italiani ha una diversa giustificazione.<br />

Il taglio delle imprese è troppo piccolo<br />

e gli unici global player che restano (Eni,<br />

Enel e Finmeccanica) sono garantiti dalla<br />

presenza pubblica. Restano le banche. Ma<br />

fino a qualche anno fa erano protette dalla<br />

vigilanza occhiuta di Antonio Fazio e dalla<br />

retorica della difesa dell’italianità. Finito<br />

quel periodo, i giochi, come abbiamo già<br />

detto, sono cambiati. Un forte processo di<br />

aggregazione è andato avanti, facendosi<br />

scudo, come nel caso delle popolari, di<br />

norme – una testa un voto – che ben poco<br />

hanno a che vedere con le regole di un<br />

moderno sistema finanziario. Era quindi invitabile<br />

che le Fondazioni – la fenice del<br />

vecchio potere democristiano – facessero<br />

la parte del leone. <strong>In</strong> termini di patrimonio<br />

e di lauta partecipazione nei consigli di amministrazione.<br />

Due grandi banche sono rimaste<br />

fuori dal gioco. MPS, che non riesce<br />

a svincolarsi da un ottica provinciale e<br />

sciogliere il cordone ombelicale che la lega<br />

ai Ds ed al sistema delle cooperative. E<br />

63<br />

Capitalia. Quest’ultima collegata al puzzle<br />

di Mediobanca e delle Generali.<br />

Sulle ceneri di un’antica frammentazione<br />

sono sorte due grandi potenze: Unicredit e<br />

San Paolo <strong>In</strong>tesa. Esse occupano i primi<br />

posti della classifica nazionale, ma si muovono<br />

con logiche e strategie profondamente<br />

diverse. Unicredit intende crescere soprattutto<br />

nella grande arena internazionale,<br />

disdegnando il cortile, ritenuto troppo<br />

angusto, dell’economia italiana. San Paolo<br />

<strong>In</strong>tesa ha, invece, ambizioni diverse. Il suo<br />

modello di riferimento è quello “renano”.<br />

Una grande banca generale che supporta<br />

lo sviluppo nazionale, fornendo i capitali<br />

necessari ad imprenditori capaci di competere.<br />

Alcune volte, come nel caso del<br />

prestito-ponte alla Fiat, Alessandro Profumo,<br />

l’a.d. di Unicredit, e Giovanni Bazoli,<br />

l’ispiratore di San Paolo <strong>In</strong>tesa hanno operato<br />

di concerto. Ma si è trattata di una rondine<br />

che non fa primavera. Nelle altre occasioni<br />

– da Generali a Telecom – i relativi<br />

interessi si sono dimostrati divergenti. Una<br />

sana competizione?<br />

Per rispondere bisogna distinguere. La<br />

concorrenza è proficua quando si inserisce<br />

in un sistema certo di regole che riproduce,<br />

ad un livello più alto rispetto agli interessi<br />

dei singoli attori, una condivisione degli<br />

obiettivi. Se <strong>questo</strong> non si verifica, come<br />

nel caso italiano, allora i risultati possono<br />

essere addirittura negativi. Specie se il<br />

confine tra politica ed economia non è delimitato,<br />

ma i debordamenti sono continui.<br />

È soprattutto il caso di Giovanni Bazoli. La<br />

sua biografia personale lo espone continuamente<br />

a tanti piccoli sospetti, che finiscono<br />

per creare, intorno alla sua persona,<br />

un’aureola di disincanto. Che porta ad interpretare<br />

la sua stessa strategia come<br />

qualcosa di posticcio. Semplice giustificazione<br />

teorica ed astratta contro una concretezza<br />

che invece si nutre di rapporti di


potere e di disegni al servizio di antiche<br />

frequentazioni.<br />

Ma chi è Giovanni Bazoli? È un fervente<br />

cattolico. La sua famiglia ha dato alla Chiesa<br />

un papa importante. Ma <strong>questo</strong> non basta<br />

a rievocare l’antico conflitto tra una finanza<br />

laica schierata contro la mano terrena<br />

del Signore. All’origine della sua resistibile<br />

ascesa sono, soprattutto, fatti e misfatti<br />

più antichi. Giovanni Bazoli divenne banchiere<br />

per grazia ricevuta. Con un incarico<br />

provvisorio che doveva durare sei mesi. E<br />

che invece si è trasformato in una carriera<br />

di lungo corso che non trova riscontro, salvo<br />

forse il caso di Cesare Geronzi, nell’Olimpo<br />

finanziario italiano. Il tempo della sua<br />

iniziazione avvenne quando Mino Martinazzoli<br />

era ancora segretario della Dc. Ma<br />

la trasformazione del giovane docente di<br />

diritto amministrativo all’Università Cattolica<br />

di Milano in banchiere fu opera di Beniamino<br />

Andreatta. Il Banco Ambrosiano di<br />

Roberto Calvi era naufragato sotto il peso<br />

di una delle pagine più oscure della storia<br />

italiana. Ci voleva un uomo che fosse in<br />

grado di estrarlo dalle ceneri, rilanciandone<br />

immagine e funzione.<br />

Giovanni Bazoli fece qualcosa di più. Avviò<br />

un processo di aggregazione, dal passo<br />

felpato, che trasformò nel tempo il vecchio<br />

istituto fino a farlo diventare la più forte<br />

banca italiana. <strong>In</strong>iziò dalla Cattolica del Veneto,<br />

dalla cui annessione nacque l’Ambrosiano<br />

Veneto. Quindi con la Cariplo per<br />

giungere infine all’incorporazione della Comit:<br />

quella ch’era una volta il tempio della<br />

finanza laica. La banca fondata da Giuseppe<br />

Toeplitz, nella cui cassaforte Raffaele<br />

Mattioli aveva conservato i quaderni<br />

del carcere di Antonio Gramsci. Istituto importante<br />

nella storia italiana. Traghettando<br />

nel Bel Paese l’esperienza tedesca, aveva,<br />

agli inizi del ’900, contribuito alla prima<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

64<br />

industrializzazione italiana, partecipando<br />

direttamente al capitale di molte industrie,<br />

allora nascenti. Tentazione destinata oggi<br />

a riaffiorare. Banca <strong>In</strong>tesa fu la risultante di<br />

<strong>questo</strong> processo. La scelta del nome: la<br />

sintesi di un progetto politico all’insegna di<br />

una procedura condivisa da tutti i protagonisti.<br />

Nessuna scalata ostile, quindi, ma<br />

continua ricerca del consenso. Un distillato<br />

della grande scuola democristiana dei<br />

suoi momenti migliori.<br />

San Paolo <strong>In</strong>tesa non fu altro che lo sviluppo<br />

ulteriore di questa stessa logica, all’origine<br />

della quale vi era la pazienza di<br />

una tessitura, ma anche il riflesso dei cambiamenti<br />

intervenuti negli equilibri economici<br />

del Paese. L’asse che si era, nel frattempo,<br />

formato nel triangolo tra Brescia,<br />

Milano e Torino. Brescia era anche la città<br />

dei “capitani coraggiosi”, dove si erano formati<br />

ed operavano uomini come Roberto<br />

Colaninno ed Emilio Gnutti. Non necessariamente<br />

amici. Figli comunque di una<br />

stessa epoca e dell’incubazione derivata<br />

dalla presenza di Olivetti, nel momento più<br />

bello della sua storia. Cercheranno, senza<br />

riuscirci, di dare nuova linfa ad un capitalismo<br />

italiano avviato sulla via del tramonto.<br />

Se questa è la storia di Giovanni Bazoli, riesce<br />

difficile pensare ad un suo rapporto<br />

subalterno con la politica. Esso è semmai<br />

paritario, se non addirittura rovesciato. Come<br />

avviene del resto per tutto l’establishment<br />

italiano. La leggenda di un Bazoli militante<br />

nasce dai suoi contrasti: prima con<br />

Enrico Cuccia, poi con Silvio Berlusconi.<br />

Ma la sua presenza sulla scena finanziaria<br />

italiana, come abbiamo, già detto è di più<br />

antica data. Uomo della Prima Repubblica,<br />

che la Seconda ha reso ancora più forte e<br />

potente: ponendolo al centro di un reticolo<br />

di rapporti, che lo rendono, indubbiamente,<br />

uno dei protagonisti della vita finanziaria<br />

italiana. E non solo.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Che farà ora Bazoli? Continuerà con pazienza<br />

a tessere la sua tela? Il suo archetipo,<br />

grazie anche alle antiche rimembranze<br />

della Comit, resta, come dicevamo, il<br />

“modello renano”. Una grande banca universale<br />

che assume partecipazioni industriali<br />

trasformandosi in una formidabile<br />

holding. Lo aiuta, in <strong>questo</strong> disegno, la<br />

grande liquidità dei mercati e l’unico vero<br />

punto di forza del capitalismo italiano. Una<br />

estesa ricchezza finanziaria – la più alta, in<br />

proporzione al PIL, di tutti i paesi del G8 –<br />

che finora è rimasta congelata. Depositata<br />

nelle banche e da queste, a volte, impiegata<br />

– i casi Cirio, Parmalat e i bond argentini<br />

– in operazioni avventate che hanno<br />

prodotto macerie e contribuito a distruggere<br />

antichi campioni nazionali, ch’erano<br />

in grado di competere sui mercati internazionali.<br />

Il problema è saggiare la consistenza sistemica<br />

di quel modello. <strong>In</strong>dividuando gli<br />

eventuali punti di debolezza. Essi, del resto,<br />

appaiono evidenti. Un modello è un<br />

modello. Richiede, cioè, un minimo di<br />

massa critica ed una strutturazione coerente.<br />

Non può essere, in altri termini, il<br />

vessillo solitario di un’unica banca, per<br />

quanto potente essa sia. Ma richiede ben<br />

altri ingredienti, in grado di supportarlo e<br />

renderlo sistemico. La prima condizione è<br />

che questa strategia sia condivisa dagli altri<br />

operatori finanziari. <strong>In</strong> Germania, almeno,<br />

funziona così. L’ottica industrialista non<br />

è appannaggio esclusivo di un solo istituto<br />

di credito. Ma il modo d’essere dell’intero<br />

sistema. E questa condivisione genera<br />

economie di scala. Forgia una cultura.<br />

Contribuisce alla creazione di quei servizi<br />

collaterali che sono il sale del sistema e<br />

l’antidoto contro fenomeni di possibile arrembaggio<br />

ai danni dell’ignaro risparmiatore.<br />

Presupposti che in Italia non si vedono:<br />

65<br />

almeno a giudicare dal comportamento<br />

degli altri operatori del sistema. Le cui strategie<br />

perseguono obiettivi diversi e concorrenti.<br />

Non tanto sulle scelte immediate – il<br />

che sarebbe logico e naturale – quanto nel<br />

rifiuto di questa impostazione.<br />

Occorrono poi ben altre condizioni che<br />

sfuggono dalle possibilità degli stessi banchieri.<br />

Per quanto forte sia <strong>questo</strong> potere.<br />

Lo ha detto bene Mario Monti, in un suo<br />

editoriale sul Corriere della sera. Ricordando<br />

le più antiche posizioni di Luigi Einaudi<br />

e dello stesso Beniamino Andreatta, se l’è<br />

presa con “i banchieri senza mandato”.<br />

Con coloro, cioè, che si sentono, nell’esercizio<br />

delle loro specifiche funzioni, al servizio<br />

di un interesse più generale. Compito<br />

che spetta, invece, “agli organi a ciò preposti,<br />

quali il Parlamento, il Governo, gli<br />

Enti territoriali”. <strong>In</strong> questa distinzione dei<br />

ruoli non c’è solo il distillato dell’esperienza<br />

di una democrazia liberale. Ma la consapevolezza<br />

delle difficoltà in cui si dibatte<br />

l’economia nazionale. “Procedere”, infatti,<br />

“oltre nel rendere moderno il sistema finanziario<br />

italiano, e con esso il sistema<br />

delle imprese: resta <strong>questo</strong> il miglior contributo<br />

che i banchieri possono dare, su un<br />

terreno proprio, all’interesse generale”.<br />

Evitando, comunque, “l’impressione di essere<br />

‘vicini’ o ‘amici’ di particolari forze politiche<br />

o personalità politiche”.<br />

Lezione di stile su cui meditare. Essa segna<br />

uno spartiacque ed una frattura con la<br />

storia economica più antica del Paese. Si<br />

pensi alla figura di Enrico Mattei o a quella<br />

meno nota al grande pubblico di Raffaele<br />

Mattioli. Entrambi caratterizzati da una<br />

grande passione civile. Ma con un diverso<br />

senso del limite, che impedì al secondo di<br />

varcare il confine dei rapporti diretti con la<br />

politica. Nel caso di Mattei, invece, la sua<br />

passione lo portò ad essere uno dei protagonisti<br />

non solo della vita economica italia


na, ma di quella politica. Con una caratteristica<br />

ed una coerenza, tuttavia, che non<br />

ritroviamo nel caso di Giovanni Bazoli.<br />

Obiettivo del presidente dell’ENI era la difesa<br />

dell’azienda, nel quadro di quell’economia<br />

mista, costituita dalla contemporanea<br />

presenza di aziende pubbliche e private,<br />

che segnò le caratteristiche di un’intera<br />

fase storica. Il suo rapporto con la politica<br />

fu solo strumentale alla realizzazione<br />

di quel disegno. <strong>In</strong>differente alle questioni<br />

ideologhe, Mattei ebbe rapporti con tutti i<br />

partiti politici italiani: dall’estrema sinistra<br />

all’estrema destra. Sostenne coloro che, di<br />

volta in volta, poteva dare maggiore robustezza<br />

al suo disegno strategico. Un atteggiamento<br />

che, oggi, si definirebbe bipartisan.<br />

Finalizzato all’obiettivo di mantenere<br />

integra e sviluppare un’attività industriale<br />

che, ancora oggi, costituisce un grande<br />

patrimonio collettivo.<br />

Ricorrono ancora quelle condizioni? È difficile<br />

sostenerlo. L’economia mista è tramontata<br />

per far posto a delle regole di<br />

mercato che hanno sempre più un contenuto<br />

universalistico. La specializzazione<br />

degli operatori economici è cresciuta di<br />

conseguenza. I modelli di riferimento possono<br />

essere diversi. Ma non la confusione<br />

delle regole. Il “modello renano” presuppone<br />

e vive in un’economia di mercato. Le<br />

banche partecipano all’attività industriale<br />

supportandone lo sviluppo. Ma non si sognano<br />

di invadere campi che non le competono.<br />

A guidarle, soprattutto, è la logica<br />

del rischio d’impresa e dell’efficienza. Non<br />

gli sponsor politici, cui far riferimento. Questa<br />

è la regola di base per chiunque voglia<br />

discutere di quel modello. Regola che vale<br />

per chi è impegnato nella politica. Ma soprattutto<br />

per un “banchiere senza mandato”,<br />

che deve naturalmente avere le sue<br />

idee politiche. Impedendo, tuttavia, a que-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

66<br />

st’ultime di prendere il sopravvento nell’esercizio<br />

della sua specifica funzione.<br />

Detto <strong>questo</strong>, resta naturalmente aperto il<br />

problema di un possibile confronto. Con<br />

Giovanni Bazoli vogliamo discutere non di<br />

come gestisce la sua banca. Ma di come<br />

modernizzare il Paese per reggere alle<br />

grandi sfide del momento. Siamo stati<br />

sempre a favore di un’economia sociale di<br />

mercato. Esiste pertanto un comune sentire<br />

su cui misurare, nel concreto, le politiche<br />

economiche da perseguire per realizzare<br />

un comune obiettivo. Ma è su <strong>questo</strong><br />

terreno che si manifestano, forse, le divergenze<br />

più significative. Non parliamo di<br />

teoria, ma di fatti concreti sulla base dei<br />

quali verificare le coerenze dei singoli<br />

comportamenti, in relazione ad un comune,<br />

seppure ipotetico, obiettivo.<br />

E cominciamo dal sindacato. La cui centralità<br />

nel “modello renano” è uno dei tratti<br />

significativi di quell’esperienza. Un sindacato<br />

non solo conflittuale, ma responsabile<br />

delle sorti più complessive del sistema<br />

economico. Pronto a fare la sua parte ogni<br />

qual volta sono in gioco interessi di natura<br />

superiore. Non è certo compito dei banchieri<br />

intervenire nella dinamica delle relazioni<br />

industriali. Tuttavia, in Germania, la<br />

cogestione ha prodotto istituti specifici,<br />

quali i comitati di sorveglianza, che mirano<br />

a preservare il clima di quelle relazioni. Il<br />

controllo strategico delle imprese spetta,<br />

appunto, alle forze sociali per finalizzare<br />

un impegno comune ed evitare che alla<br />

moderazione sindacale, possa corrispondere<br />

un ingiustificato aumento dei profitti,<br />

ad esclusivo vantaggio di una sola categoria<br />

sociale.<br />

<strong>In</strong> Italia, invece, quello stesso modello, caratterizzato<br />

dalla divisione dei compiti tra<br />

consiglio di amministrazione e comitato di<br />

sorveglianza, è stato, utilizzato, anche in<br />

San Paolo <strong>In</strong>tesa, per far quadrare i conti


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

di alleanze non solo economiche. Ma politiche.<br />

Come dimenticare la telefonata di<br />

Piero Fassino, quando si palesò il rischio<br />

dell’emarginazione di un suo manager di<br />

riferimento? Ecco un uso improprio ed<br />

obliquo del “modello renano”? Ed ancora.<br />

Dove sta la ragionevolezza sindacale nel<br />

caso dell’Alitalia? E perché si è continuato<br />

a finanziare un’attività ormai senza prospettive?<br />

La spiegazione è semplice. L’azienda era<br />

controllata dallo Stato. E, per definizione, lo<br />

Stato non fallisce. Ma questa considerazione<br />

vale solo per chi si limita a prestar denaro,<br />

essendo sicuro che il suo credito sarà,<br />

comunque, onorato. Chi teorizza invece<br />

una comune responsabilità, pur nella distinzione<br />

dei ruoli, non può poi essere complice<br />

di un disastro annunciato. Che forse<br />

non peserà sulle spalle della propria banca.<br />

Ma certo su quelle dell’intera collettività.<br />

È solo un caso? O non il riflesso di un’ambiguità<br />

di carattere più generale, che attiene<br />

all’insieme delle politiche economiche<br />

perseguite? Il dubbio è legittimo. Abbiamo<br />

già detto che il “modello renano” presuppone<br />

un’economia di mercato. Richiede<br />

pertanto politiche economiche coerenti<br />

con <strong>questo</strong> presupposto. Pensiamo solo<br />

alla fiscal policy. Al corrispettivo che deve<br />

unire prelievo fiscale e qualità dei servizi<br />

resi come contropartita. O all’organizzazione<br />

del mercato del lavoro, la cui flessibilità<br />

è condizione e presupposto del processo<br />

di riconversione produttiva indotto<br />

dalle mutate condizioni di carattere internazionale.<br />

Grazie al senso di responsabilità<br />

dimostrato da tutte le forze sociali, la<br />

Germania è riuscita a portare a termine un<br />

grande processo di ristrutturazione e delocalizzazione<br />

industriale, che le ha permesso<br />

di non cedere un palmo alla concorrenza<br />

internazionale. Per non parlare<br />

67<br />

poi degli assetti previdenziali: in cui l’allungamento<br />

della vita lavorativa è stato realizzato<br />

nella piena concordia nazionale. E<br />

se l’IVA è stata aumentata, <strong>questo</strong> è avvenuto<br />

soltanto perché la sua aliquota media<br />

era di gran lunga inferiore agli standard<br />

europea.<br />

Comunque la pressione fiscale era stata ridotta.<br />

Lo sarà ancora di più man mano che<br />

l’integrazione economica con i territori dell’est<br />

diventerà più stretta; riducendo il peso<br />

dei trasferimenti pubblici a loro favore.<br />

Che, dal momento dell’unificazione nazionale,<br />

hanno pesato fortemente sul bilancio<br />

federale. E poi la scuola. Una scuola che<br />

seleziona la futura classe dirigente. Che<br />

forma le nuove generazioni. Aperta al mercato<br />

ed alla competizione. Dove l’inglese è<br />

lingua parlata correntemente, per fornire a<br />

tutti gli strumenti di comunicazione in un<br />

mondo globalizzato. Questa è la Germania<br />

che ha partorito il “modello renano”.<br />

Siamo contenti che Giovanni Bazoli, nei<br />

suoi appassionati interventi, ogni tanto li ricordi.<br />

Lo stimolo di quelle parole va apprezzato<br />

e meditato. Però l’opera di convinzione<br />

dovrebbe essere orientata altrimenti.<br />

Ne parli più spesso con Di Pietro,<br />

Diliberto, Bertinotti, Pecoraro Scanio ed<br />

Epifani. È loro che deve convincere. Ci<br />

perda tutto il tempo che vuole. Ma non dimentichi<br />

quello che è successo, proprio, in<br />

Germania, con La Fontain e gli ex comunisti.<br />

La sopravvivenza di quel modello, che<br />

gli sta tanto a cuore, è stata legata all’estromissione<br />

di quelle forze da ogni prospettiva<br />

di governo. Riconoscendo loro solo<br />

un diritto di tribuna. Non spetta a noi dire<br />

se quella condizione era irrinunciabile.<br />

Ci basta osservare che dopo quella rottura<br />

un Paese in crisi – la maglia nera d’Europa<br />

– ha riacceso i motori, riconquistando<br />

rapidamente un primato, precedentemente,<br />

perduto.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

F2i: le proposte del manager<br />

di Vito Gamberale<br />

I Fondi rappresentano l’evoluzione genetica<br />

del capitalismo.<br />

Il capitalismo, infatti, ha conosciuto vari<br />

stadi: dal singolo imprenditore, alla<br />

società con più soci, alla holding con<br />

più aziende, alla corporate con articolazioni<br />

internazionali, ai fondi come<br />

mega-holding planetarie, in grado sia<br />

di aggregare rilevanti realtà, sia di<br />

esprimersi efficacemente in settori diversi.<br />

I Fondi, quindi, rappresentano i soggetti<br />

imprenditoriali moderni, capaci di aggregare<br />

risorse finanziarie importanti,<br />

per sviluppare politiche industriali adeguate<br />

ad una economia globalizzata.<br />

Per capire l’importanza e la dimensione<br />

dei fondi operanti nel Mondo, si può<br />

riflettere sui dati aggregati riportati in<br />

tabella.<br />

Fondi operanti nel mondo a fine 2006:<br />

Numero fondi: 2.700<br />

Raccolta globale di capitale: 500 mld $<br />

Dotazione media: 185 mln $<br />

Potere d’acquisto complessivo stimato:2.500 mld $<br />

Ranking fondi:<br />

Risorse per oltre 1 mld $: 115 fondi<br />

Risorse per oltre 2 mld $: 65 fondi<br />

Risorse per oltre 3 mld $: 45 fondi<br />

68<br />

Come si vede, con 500 Mld di dollari<br />

raccolti, l’aggregato dei fondi ha una<br />

capacità di spesa pari a c.a 2500 Mld<br />

di dollari ossia circa due volte il Pil della<br />

nostra nazione!<br />

Col tempo i Fondi hanno evidenziato<br />

anche una tendenza alla specializzazione:<br />

private equity puri, a rapido<br />

turn-over (4/5 anni); restracturing, per<br />

casi di ristrutturazioni; destressed<br />

compenies fund per gestire il turnaround<br />

di aziende dissestate; infrastructures<br />

fund, focalizzati sulle infrastrutture,<br />

con caratteristiche di stabilità<br />

e lunghi tempi, connessi ai sistemi<br />

concessionari sottostanti.<br />

<strong>In</strong> più, per i Fondi, si è aggiunta una<br />

tendenza alla delimitazione geografica<br />

dell’attività.


Il sistema infrastrutturale in Italia<br />

Con queste premesse di evoluzione<br />

del capitalismo si è ritenuto di dar vita<br />

ad un fondo infrastrutturale, focalizzato<br />

in Italia, anche per dare una risposta<br />

adeguata ad una delle emergenze nazionali.<br />

Il Paese ha accumulato un enorme<br />

gap nelle infrastrutture.<br />

Tutti gli indici comparativi ci vedono in<br />

posizione di retroguardia (Fonti: AN-<br />

CE, Ecoter-Confindustria, Ai park, Eurostat,<br />

Sycabel, European Media Association):<br />

- autostrade<br />

(Km/milioni di abitanti)<br />

Italia: 113 - Europa: 180<br />

- porti turistici<br />

(Km di costa serviti per porto)<br />

Italia: 73 - Europa: 6,5<br />

- parcheggi (posti auto nelle grandi<br />

città, rebased 100)<br />

Italia: 100 - Europa: 650<br />

- elettrodotti (rebased 100)<br />

Italia:100 - Europa:128<br />

- accesso banda larga<br />

(linee 1000 abitanti)<br />

Italia:136 - Europa:160<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Le proprietà di questi assets sono variegate:<br />

taluni sono stati privatizzati,<br />

talaltri sono di proprietà di Enti pubblici<br />

locali.<br />

<strong>In</strong> generale, tranne poche eccezioni,<br />

non traspare, da parte dei privati, una<br />

forte e reale focalizzazione strategica<br />

sulla gestione efficiente degli asset e<br />

sulla concreta volontà di impegnarsi<br />

nello sviluppo di nuove infrastrutture.<br />

69<br />

Taluni recenti casi hanno dimostrato<br />

che, quando c’è da investire, taluni privati<br />

si defilano.<br />

D’altra parte gli Enti pubblici locali non<br />

riescono ad impegnarsi in una gestione<br />

efficiente e ancor meno ad assicurare<br />

le risorse necessarie allo sviluppo.<br />

Il Governo peraltro non ha risorse da<br />

investire nelle infrastrutture; fa già fatica<br />

a reperire il fabbisogno per portare<br />

avanti i cantieri aperti.<br />

Da qui nacque – nel 2004 – la riflessione<br />

di promuovere, in Italia, un fondo,<br />

importante come capitali raccolti,<br />

da specializzare nelle infrastrutture.<br />

A quel tempo si pensava che potesse<br />

esserne promotore un importante<br />

gruppo infrastrutturale italiano.<br />

Non se ne fece nulla, perché prevalsero<br />

altre visioni.<br />

Ora quel progetto, quello stesso progetto,<br />

ha preso forma e si va realizzando,<br />

sulla base della convergente<br />

visione di manager esperti, di primari<br />

gruppi finanziari italiani, di due importanti<br />

banche internazionali.<br />

F2i: il Fondo Italiano<br />

per le <strong>In</strong>frastrutture<br />

Il Fondo Italiano per le <strong>In</strong>frastrutture<br />

(“F2i”) ha l’obiettivo di affermarsi, come<br />

campione di riferimento in Italia,<br />

nel settore degli investimenti infrastrutturali.<br />

La dotazione patrimoniale del Fondo<br />

sarà pari ad almeno 2 miliardi di euro;<br />

F2i sarà focalizzato su una prevalente<br />

pipeline domestica, concentrata nel<br />

brownfield, mantenendo comunque un<br />

orizzonte di riferimento Europeo. Il<br />

Fondo sarà aperto anche a progetti<br />

greenfield.<br />

Gli Sponsor di F2i sono, come detto,<br />

importanti istituzioni finanziarie italiane


ed estere: Cassa Depositi e Prestiti,<br />

UniCredit, Banca <strong>In</strong>tesa, le principali<br />

Fondazioni Bancarie, la Cassa Previdenziale<br />

dei Geometri, <strong>In</strong>arcassa e<br />

Lehman Brothers.<br />

È inoltre previsto l’ingresso, nel capitale<br />

della Società di Gestione e nel Fondo,<br />

di una seconda Banca internazionale.<br />

<strong>In</strong> definitiva, il basket dei Promotori è<br />

costituito da:<br />

* Sponsor bancari da tempo attivi nel<br />

finanziamento di infrastrutture<br />

* “Sistema Fondazioni”, principale investitore<br />

equity del sistema finanziario<br />

italiano e già investitore in asset infrastrutturali;<br />

* Casse Previdenziali, che, per la prima<br />

volta, avviano strategie d’investimento<br />

in linea con i mitici “fondi pensioni”.<br />

L’operatività di F2i sarà orientata al rispetto<br />

delle best-practices di mercato<br />

e la struttura di governance adottata<br />

garantirà trasparenza per tutti i sottoscrittori.<br />

Il Team demandato agli investiment<br />

apporta un’importante esperienza<br />

di gestione nel campo delle infrastrutture<br />

e delle concessioni. È la<br />

base per disporre di una concreta potenzialità<br />

di deal origination nel campo<br />

infrastrutturale.<br />

Il target di raccolta, non inferiore a 2<br />

Mld di Euro, rappresenta una massa<br />

critica adeguata per effettuare investimenti<br />

rilevanti (capacità di leva fino a<br />

4-5 volte).<br />

L’ottica di investimento sarà di mediolungo<br />

periodo, al fine di garantire stabilità<br />

all’assetto azionario delle società<br />

partecipate e cashflow impegnato per<br />

lo sviluppo delle infrastrutture.<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

70<br />

F2i sarà, per dimensione, tra i primi al<br />

mondo, come fondo focalizzato sulle<br />

infrastrutture.<br />

I principali settori di intervento sono<br />

così schematizzabili:<br />

Strategie di investimento di F2i<br />

Il Fondo opererà nel pieno rispetto delle<br />

regole del mercato, sia come<br />

costi/rendimento, che come governance.<br />

Anzi è sua ambizione proporsi tra<br />

le best-practices del comparto.<br />

<strong>In</strong>fatti i principali riferimenti operativi/<br />

organizzativi saranno i seguenti:<br />

- Management fee (ossia costi della<br />

gestione per l’investitore): 1,2% annuo,<br />

contro una media di 1,8-2%;<br />

- IRR Target (ossia rendimenti attesi):<br />

10-12%;<br />

- Hurdle rate (ossia rendimento minimo<br />

per la maturazione del carried interest):<br />

8%;<br />

- Durata: 15 anni, con l’eventuale aggiunta<br />

di 3 anni per i disinvestimenti;<br />

- <strong>In</strong>vestment period: 5 anni;<br />

- Valorizzazione:<br />

• IPO del Fondo (quotazione in borsa)<br />

dopo l’investment period;<br />

• IPO per i singoli assets;<br />

- Governance:<br />

• <strong>In</strong>vestment Committee per la selezione<br />

degli investimenti, basata sui top<br />

managers della SGR e su esperti indicati<br />

dai soci bancari;<br />

• Comitato conflitti (vera eccezione nei<br />

Fondi) per il monitoraggio dei conflitti<br />

d’interesse, costituito da indipendenti<br />

(e perciò non “pendenti”) scelti dai Limited<br />

Partners (cioè dagli investitori<br />

di mercato);<br />

• Advisory board per il supporto ed il<br />

monitoraggio delle strategie del Fondo,<br />

scelti dai Limited Partners.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Sulla base di <strong>questo</strong> profilo operativo/organizzativo,<br />

il Fondo, come più<br />

volte detto, si prefigge di raccogliere<br />

oltre 2 Mld di euro di cui:<br />

- 1050 Mil di euro provenienti dai 14<br />

sponsors<br />

- 1000 Mil di euro provenienti dai mercati<br />

internazionali, essenzialmente anglo-americani,<br />

la cui raccolta è affidata<br />

al Placement Agent Citigroup;<br />

- 100 Mil di euro impegnati dallo stesso<br />

Placement Agent;<br />

- x Mil di euro da UBM, scelto come<br />

Placement Agent per l’Italia, l’Austria e<br />

la Germania;<br />

- y Mil di euro da un marginale direct<br />

Placement, in Italia, di F2i.<br />

La compagine sociale della SGR, la<br />

società di gestione del Fondo, è la seguente:<br />

I soci non hanno sottoscritto alcun patto<br />

di sindacato. Nessun socio ha diritti<br />

particolari o golden share.<br />

Il CdA della SGR, costituito da 11<br />

membri, prende le decisioni a maggioranza<br />

dei presenti.<br />

Una riflessione sul profilo dei più naturali<br />

investitori in un Fondo per le infrastrutture.<br />

Essi sono, per lo più, soggetti finanziari<br />

interessati a redditività costante nel<br />

tempo, perché investitori di lungo periodo.<br />

Quindi:<br />

* Fondi pensione<br />

* Fondi che gestiscono patrimoni dello<br />

Stato (quali, State of New York, State<br />

of California, Borealis, Ontario Teachers,<br />

ecc.)<br />

<strong>In</strong> Europa, gli omologhi sono, oltre alle<br />

normali banche commerciali nella loro<br />

strategia di asset allocation: la Caisse<br />

71<br />

des Depots in Francia, Kfw in Germania,<br />

la Cassa Depositi e Prestiti in Italia,<br />

ICO in Spagna, ecc.<br />

Sembra pertanto naturale e scontata la<br />

partecipazione, in F2i, anche della<br />

Cassa Depositi e Prestiti, al pari di<br />

quanto fanno tutte le simili organizzazioni,<br />

in vari paesi del Mondo.<br />

Conclusioni<br />

F2i può rappresentare la più moderna<br />

ed ambiziosa iniziativa finanziaria sorta<br />

in Italia negli ultimi tempi, rigorosamente<br />

orientata al mercato ed alla trasparenza.<br />

Promotori ne sono talune tra le più importanti<br />

e moderne strutture finanziarie<br />

italiane e straniere, e un team manageriale,<br />

esperto e coeso.<br />

F2i può rappresentare, per le infrastrutture<br />

italiane,un azionista di stabilità,<br />

illuminato e moderno, impegnato e<br />

proiettato all’efficienza ed all’ammodernamento<br />

delle opere esistenti ed al<br />

loro sviluppo, per offrire e garantire un<br />

servizio scrupoloso agli utenti. F2i<br />

vuole essere una concreta risorsa per<br />

il Paese.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

F2i: il parere dell’economista<br />

di Francesco Forte<br />

Ci sono molte cose che non convincono,<br />

in questa esposizione di Vito Gamberale.<br />

La prima è che la Cassa Depositi e<br />

Prestiti partecipi, con una quota minoritaria,<br />

a un Fondo per infrastrutture<br />

che, a dispetto della sua denominazione,<br />

non ha finalità di preciso interesse<br />

pubblico. E che, ad esempio, potrebbe<br />

anche investire in case circondariali e<br />

di rieducazione, come spiega l’ingegner<br />

Gamberane nel prospetto del suo<br />

scritto.<br />

La Cassa, d’altro canto, con questa attività<br />

si porrebbe dei compiti alternativi<br />

e concorrenti con quelli istituzionali di<br />

finanziamento degli enti locali. Mi domando<br />

se ciò non comporti una grave<br />

deviazione della Cassa dai suoi compiti<br />

istituzionali. Non è un problema di<br />

Gamberale. Ma del governo italiano,<br />

nella persona del Ministro che sovrintende<br />

alla Cassa.<br />

La seconda cosa che lascia insoddisfatti<br />

riguarda la natura di <strong>questo</strong> Fondo.<br />

Sembrerebbe di capire che è un<br />

fondo chiuso. Ma non viene detto. Potrebbe<br />

darsi che sia vero il contrario e<br />

che le quote di partecipazione ad esso<br />

possano aumentare. Sarebbe utile che<br />

se ne chiarisse la natura giuridica anche<br />

perché vi partecipa lo stato, tramite<br />

la Cassa Depositi e Prestiti.<br />

72<br />

La terza osservazione concerne gli obbiettivi<br />

del Fondo , che parrebbe impegnato<br />

a investire in infrastrutture la<br />

estrema nebulosità della nozione di infrastrutture<br />

che risulta da <strong>questo</strong> prospetto.<br />

Essa si allarga alle attività più<br />

disparate. E non si riesce a comprendere<br />

quale sia la ragione di questa<br />

mancanza di specializzazione.<br />

C’era proprio bisogno di un nuovo fondo<br />

a prevalenza bancaria , con la palese<br />

sponsorizzazione dello stato e<br />

con una sua partecipazione al finanziamento<br />

mediante la Cassa Depositi<br />

e Prestiti , per gli investimenti in parcheggi<br />

e istituti di cura? Perché lo stato<br />

deve spendere per cose di competenza<br />

privata, associandosi , in minoranza,<br />

a privati, che, così, hanno un<br />

promotore pubblico dei propri affari? <strong>In</strong><br />

particolare, quando il Fondo investirà<br />

in sfere di competenza o interesse degli<br />

enti locali, non ci sarà un imbarazzante<br />

privilegio derivante dal fatto che<br />

per un comune è difficile dire di no alla<br />

Cassa Depositi e Prestiti da cui dipende<br />

per tanti propri investimenti?<br />

Il Fondo viene presentato come un<br />

operatore finanziario a larga base<br />

azionaria, in cui nessuno comanda.<br />

Ma un rapido calcolo fa capire che in<br />

esso vi è un gruppo di controllo costituito<br />

da Banca <strong>In</strong>tesa, da fondazioni


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

bancarie ad essa collegate e dalla<br />

Cassa Depositi e Prestiti di cui è amministratore<br />

delegato Alfonso Jozzo<br />

l’ex uomo di punta del San Paolo IMI,<br />

che ora fa parte del gruppo <strong>In</strong>tesa San<br />

Paolo.<br />

<strong>In</strong>fatti, assieme, <strong>In</strong>tesa e Cassa Depositi<br />

e Presti hanno il 28,6% del Fondo.<br />

Se a ciò si somma il 22,9 delle Fondazioni<br />

bancarie si raggiunge il 51,5. <strong>In</strong><br />

sostanza si tratta di una operazione<br />

governata da Banca <strong>In</strong>tesa. Gamberale<br />

ha ragiona a dire che in Italia vi è un<br />

ruolo per i Fondi di investimento. Ma in<br />

una corretta economia di mercato, di<br />

<strong>questo</strong> Fondo lo stato non si dovrebbe<br />

impicciare. Dopo di che le banche e le<br />

fondazioni bancarie possono investire<br />

i loro mezzi nelle iniziative che credono,<br />

in concorrenza con altri operatori.<br />

Ad esempio anche in Telecom Italia.<br />

Ma evidentemente proprio la natura<br />

ibrida di <strong>questo</strong> Fondo e le critiche che<br />

ciò ha sollevato hanno indotto <strong>In</strong>tesa a<br />

non adoperarlo per la cordata che sta<br />

cercando di mettere insieme per il controllo<br />

di Telecom Italia tramite Olimpia.<br />

Non mi pare che Gamberale, che ha<br />

una eccellente reputazione come manager<br />

ci guadagni in <strong>questo</strong> fritto misto<br />

fra nuova economia e vecchio intreccio<br />

di politica e affari.<br />

73<br />

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BIETTI<br />

dal 1870<br />

O NOI, O LORO!<br />

di Luigi De Marchi<br />

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Collana: Caleidoscopio<br />

De Marchi anticipa alcuni tratti essenziali di una<br />

società autenticamente liberale e ipotizza il vero<br />

nuovo scontro «di classe» che è il fulcro della<br />

nuova «Rivoluzione Liberale» per il superamento<br />

della società assistenziale. Produttori<br />

contro burocrati, in una battaglia la cui posta è<br />

la scelta tra un futuro progresso civile e l’inevitabile<br />

decadenza. L’autore, che è anche consulente<br />

della Confindustria, con <strong>questo</strong> testo apre<br />

una polemica che influenzerà visibilmente il dibattito<br />

tra liberali e dirigisti nei prossimi anni.<br />

PER GLI EMERGENTI AMANTI<br />

DELLE SFIDE DEL FUTURO<br />

Luigi De Marchi, psicologo, politologo, saggista<br />

ed esponente delle battaglie per i diritti<br />

civili. Già iniziatore e presidente delle scuole<br />

psicologiche di Reich e Lowen in Italia. Attualmente<br />

dirige l’Istituto di Psicologia Umanistica<br />

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l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Le telecomunicazioni<br />

per lo sviluppo del paese<br />

di Luigi De Vecchis*<br />

L’innovazione tecnologica ed il suo impatto<br />

sulla modernizzazione delle industrie<br />

e sull’economia dei paesi, hanno<br />

generalmente come conseguenza<br />

la nascita di nuove imprese e di nuove<br />

inziative da cui scaturiscono successi<br />

e fallimenti, accumulo e perdita di<br />

grandi fortune, eccessi o recessi borsistici.<br />

Tali fatti sono portatori, comunque, di<br />

nuove forme di conoscenza, impongono<br />

velocità di decisione ed una forte<br />

attenzione ai segnali di oggi per potere<br />

tradurre in piani industriali efficaci le<br />

strategie di sviluppo delle aziende. Si<br />

forma una nuova classe dirigente.<br />

L’economia dei paesi e le società stesse<br />

saranno fortemente influenzate dall’innovazione<br />

tecnologica, da nuove<br />

forme di comunicazione, dalla velocità<br />

con la quale circolano le informazioni,<br />

dalla riduzione delle distanze in tutti i<br />

sensi. Logistica e stoccaggio hanno<br />

già cambiato il profilo delle nuove società;<br />

la capacità di gestione, di trasporto,<br />

di utilizzo delle risorse, di comunicazione<br />

ed i costi associati a tali<br />

servizi, saranno fondamentali per la<br />

competizione e lo sviluppo del sistema<br />

paese. La capacità di creare valore da<br />

parte di un’impresa, dipende da alcuni<br />

elementi caratteristici dell’ambiente in<br />

cui opera e dalle misure realizzate dal-<br />

74<br />

l’impresa per competere. È ovvio che<br />

la cultura della competitività si sviluppa<br />

solo in situazioni di mercato aperto.<br />

La “Governance” è uno degli strumenti<br />

impiegati dal vertice aziendale per predisporre<br />

la strategia competitiva dell’azienda,<br />

indicare le direzioni della crescita,<br />

affinare e precisare i contenuti<br />

dei programmi a supporto delle azioni<br />

di indirizzo e controllo della società.<br />

La tenacia e la forza per seguire le linee<br />

di sviluppo delineate e la comunicazione<br />

efficace sono le leve fondamentali<br />

per consentire all’azienda di<br />

attrarre risorse umane pregiate dal<br />

mercato, ma anche per ottenere la fiducia<br />

del mercato finanziario e degli<br />

investitori istituzionali ai progetti intrapresi.<br />

Il contributo delle telecomunicazioni<br />

allo sviluppo del paese<br />

La disponibilità della banda larga,<br />

quella attualmente utilizzabile, ma non<br />

ancora quella necessaria per poter<br />

pienamente usufruire di tutti i servizi di<br />

cui tanto si parla (Tv ad alta definizione,<br />

applicazioni informatiche centralizzate,<br />

scambio di grandi quantità di dati<br />

per operazioni sul territorio, il telelavoro,<br />

la teledidattica, ecc.), raggiunge<br />

circa la metà della popolazione quasi<br />

tutta concentrata nei grandi centri ur-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

bani. Appena si esce fuori da questi il<br />

concetto di banda larga diventa molto<br />

vago.<br />

Quel fino a 20 Mb di cui si parla si riduce<br />

a qualche Mb e addirittura alcune<br />

centinaia di Kb, per di piu fortemente<br />

asimmetrici, in molte aree. <strong>In</strong> aggiunta,<br />

se fossero veramente disponibili i 20<br />

mb simmetrici di cui tanto si parla, allora<br />

la rete di supporto dovrebbe essere<br />

rivisitata e, con molta probabilità, ridisegnata<br />

ed ampliata verso quella<br />

che oggi viene definita come la NGN<br />

(Next Generation Network).<br />

Nella attuale situazione in cui verte il<br />

nostro paese, se lo sviluppo della banda<br />

larga è affidato solamente agli operatori<br />

guidati da giuste logiche di mercato<br />

e profitto ed ai piani di investimenti<br />

a supporto delle strategie di sviluppo<br />

della rete,la conseguenza, per il<br />

10% della popolazione cui però corrisponde<br />

una porzione elevata (circa il<br />

40 %) dei Comuni e del territorio, è che<br />

la banda larga non arriverà mai, impedendo<br />

quindi di distribuire quel processo<br />

di democratizzazione che le tecnologie<br />

comportano ovvero la capacità di<br />

offrire a tutti gli stessi strumenti.<br />

Queste aree caratterizzate da collegamenti<br />

a bassa velocità ed identificate<br />

dal neologismo “Digital Devide”, sono<br />

aree distribuite in tutto il paese, spesso<br />

sono aree turistiche che ospitano turisti<br />

evoluti abituati all’uso spinto di internet,<br />

sono aree industriali dove le multinazionali<br />

investono, ma soprattutto sono<br />

aree dove esistono insediamenti<br />

pubblici e privati quali ospedali, banche,<br />

uffici postali, centri logistici e di<br />

produzione, snodi marittimi e ferroviari.<br />

La tecnologia per colmare il gap tecno-<br />

75<br />

logico ed indirizzare nell’immediato il<br />

problema della banda larga esiste, si<br />

chiama WiMax, ed i tempi per realizzare<br />

una rete di accesso con questa tecnolgia<br />

sono 1/4 rispetto alle tecnologie<br />

alternative ed i costi di realizzazione<br />

sono 1/10 dei costi previsti per la tecnologia<br />

tradizionale.<br />

È chiaro che la rete di accesso da sola<br />

non elimina il problema del Digital<br />

Device, ma nel caso in cui fosse disponibile<br />

una rete di accesso a larga banda<br />

ed equamente distribuita sul territorio<br />

del paese, una rete autonoma realizzata<br />

da un soggetto terzo privato o<br />

pubblico che sia che disponga di una<br />

licenza di network provider, una rete<br />

messa a fattor comune tra tutti gli operatori<br />

del servizio di telecomunicazioni,<br />

allora questi ultimi dovrebbero poter<br />

affrancarsi da investimenti indirizzati<br />

alla copertura del paese e concentrarsi<br />

sulla rete di trasporto e sui servizi da<br />

offrire al mercato.<br />

<strong>In</strong> altre parole gli operatori dovrebbero<br />

arrivare vicino ai potenziali Clienti con<br />

tecnologie, infrastrutture e servizi attraverso<br />

cui competere tra loro per offrire<br />

reali vantaggi agli utenti ed utilizzare<br />

la rete di accesso comune per arrivare<br />

in casa dei Clienti. Una sorta di<br />

gara dove gli operatori sono come i<br />

centometristi ai blocchi di partenza tutti<br />

sulla stessa linea.<br />

Le tecnologie, anche se quelle nuove<br />

vengono guardate spesso con diffidenza<br />

dagli operatori perché l’adeguamento<br />

agli standard è progressivo e<br />

impiega del tempo prima di stabilizzarsi,<br />

sono disponibili come accennavo<br />

prima e costituiscono un vero vantaggio<br />

competitivo che non può essere<br />

trascurato.


<strong>In</strong> una sua relazione tecnica il prof.<br />

Pontarollo, docente del politecnico di<br />

Milano, afferma che l’innovazione tecnologica<br />

vincente che irrompe nei cicli<br />

di sviluppo tradizionali, segue un suo<br />

percorso e si afferma in modo autonomo<br />

rispetto ai percorsi che si determinano<br />

sulla base degli interessi e dei<br />

comportamenti delle imprese e degli<br />

operatori. Il nostro paese ha bisogno<br />

di cambiare modelli di comportamento<br />

e di agire in modo nuovo con nuove<br />

idee. Questa è la via per essere “trend<br />

setter” e non follower quando è necessario<br />

accelerare per recuperare le distanze<br />

accumulate.<br />

Dopo due anni di inutili test della tecnologia<br />

e di difficili negoziazioni tra Ministero<br />

delle Comunicazioni e Ministero<br />

della Difesa, finalmente l’accordo è<br />

stato raggiunto per liberare le frequenze<br />

di lavoro della tecnologia WiMax.<br />

Ora è necessario definire le regole di<br />

utilizzo ed affrontare il tema dei costi<br />

delle licenze che, mi auguro, non siano<br />

quelli delle frequenze rilasciate per<br />

l’UMTS, la rete cellulare di terza generazione.<br />

È evidente che <strong>questo</strong> richiederà la definizione<br />

di un quadro normativo e di regole<br />

per lo sviluppo reale della concorrenza<br />

che si attendono da diverso tempo.<br />

Queste regole dovranno, a nostro<br />

giudizio, tenere anche conto delle attese<br />

di qualità e disponibilità del servizio<br />

che l’utente si aspetta dal fornitore.<br />

Come evidenziato in precedenza, gli<br />

investimenti per trasformare la rete sono<br />

rilevanti. Se non c’è una domanda<br />

adeguata, l’offerta tarda ad arrivare e,<br />

dal momento che l’impresa deve orientarsi<br />

al profitto, è evidente che le prio-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

76<br />

rità di investimento si rivolgono a quelle<br />

aree dove il ritorno calcolato dell’investimento<br />

da fare è maggiore.<br />

Alcuni anni or sono, negli Usa, l’amministrazione<br />

Clinton ha applicato una ricetta,<br />

ovvero una finanziaria, che ha<br />

permesso di realizzare il boom economico<br />

piu’ lungo della storia ed è la<br />

stessa ricetta che il Ministro del tesoro<br />

di Clinton (Rubin), sta rilanciando ora<br />

nel congresso dei democratici:<br />

• aumento delle tasse,<br />

• taglio alla spesa pubblica particolamente<br />

la spesa nelle Forze Armate,<br />

• grande incentivo agli investimenti attraverso<br />

un programma di focalizzazione<br />

e razionalizzazione della spesa<br />

pubblica. Spesa che esiste ed è enorme.<br />

Se ricordate ha favorito lo sviluppo<br />

delle autostrade dell’informazione con<br />

un progetto allora molto avveniristico.<br />

Non lo ha fatto con investimenti o sussidi<br />

particolari all’industria, ha semplicemente<br />

convogliato le necessità di<br />

acquisto della PA con un progetto lungimirante<br />

e globale verso le aziende<br />

ICT fornitrici delle tecnologie che hanno<br />

indirizzato le proprie energie per<br />

soddisfare le esigenze di una domanda<br />

particolarmente forte.<br />

Questo ha dimostrato che non è necessario<br />

individuare risorse straordinarie<br />

da destinare all’innovazione, basta<br />

semplicemente indirizzare in modo<br />

razionale e con una visione universale<br />

i bisogni della PA per migliorare la qualità<br />

dei servizi, semplificare i processi,<br />

ridurre i consumi a parità di efficacia.<br />

<strong>In</strong> altre parole agendo sulla domanda<br />

per sollecitare l’offerta e quindi l’innovazone<br />

e gli investimenti.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

È evidente che il modello di business<br />

deve essere ripensato alla luce delle<br />

esigenze che emergono dalle nuove<br />

tecnologie.<br />

Conseguenza della riduzione<br />

di investimenti<br />

Il settore delle Telecomunicazioni cui<br />

oggi si fa riferimento per misurare lo<br />

stato di salute del comparto, è quello<br />

degli operatori del servizio di telefonia<br />

(mobile e fissa) e quello emergente<br />

della convergenza tra telecomunicazioni<br />

e media (televisione su internet e<br />

su telefonino). Questo aspetto misura<br />

la quantità di traffico telefonico che<br />

transita attraverso le reti ed il <strong>numero</strong><br />

di utenti che utilizzano il telefono cellulare<br />

o il videofonino.<br />

È totalmente trascurata la voce investimenti<br />

per i servizi e le infrastrutture<br />

che alimentano l’industria produttiva e<br />

le multinazionali che, presenti in Italia,<br />

si avvalgono delle maestranze offerte<br />

dalla piccola media industria italiana.<br />

Questo settore è oramai da anni in<br />

continuo declino a causa della contrazione<br />

della spesa degli operatori. Le<br />

poche multinazionali presenti in Italia<br />

che ancora investono in innovazione e<br />

produzione degli apparati ovvero quella<br />

parte dell’industria che genera occupazione/disoccupazione<br />

ed esporta<br />

verso altri paesi prodotti che contribuiscono<br />

alla crescita o decrescita del<br />

PIL, sta gradualmente, ma inesorabilmente,<br />

concentrando le proprie attività<br />

produttive e di ricerca su paesi che offrono<br />

notevoli vantaggi di costo (Cina,<br />

<strong>In</strong>dia).<br />

Il risultato in Italia è evidente: chiusura<br />

o ridimensionamento di impianti produttivi,<br />

spostamento dei centri di Ri-<br />

77<br />

cerca e Sviluppo, disoccupazione crescente<br />

nel settore.<br />

Un rapporto della Comunità Europea<br />

sulla Banda Larga afferma che le reti<br />

di telecomunicazione ad alta velocità<br />

sono un bene prezioso come le reti<br />

elettriche ed idriche per i paesi in via di<br />

sviluppo. Queste reti contribuiranno allo<br />

sviluppo dei paesi in modo determinante<br />

ed il loro apporto economico al<br />

Prodotto <strong>In</strong>terno Lordo sarà decisivo<br />

per riposizionare i parametri economici<br />

entro i livelli di guardia soprattutto<br />

nei paesi dove debito e PIL sono molto<br />

vicini. I paesi in ritardo non riusciranno<br />

mai a colmare il GAP con i paesi<br />

più avanzati.<br />

Questa è la sfida per il nostro paese<br />

ed il comparto delle telecomunicazioni<br />

è cosi importante per lo sviluppo dell’Italia<br />

che non possiamo più permetterci<br />

il lusso di continuare a frammentare e<br />

privatizzare senza avere come riferimento<br />

un piano di sviluppo delle infrastrutture<br />

del nostro paese.<br />

*Luigi De Vecchis<br />

Presidente Gruppo Telecomunicazione<br />

ANIE - Confindustria


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Energia: rischi e opportunità<br />

di Alessandro Clerici*<br />

L’energia in generale e l’energia elettrica<br />

in particolare, stanno sempre più diventando<br />

i fattori fondamentali per lo sviluppo,<br />

la prosperità, la salute e la sicurezza<br />

dei cittadini.<br />

L’Italia con i suoi consumi energetici lordi<br />

pari a 195 MTEP, dipende per oltre l’85%<br />

dalle importazioni; tale percentuale è, e<br />

sarà, in continua crescita a causa della<br />

progressiva diminuzione del contributo<br />

da petrolio e gas nazionali, in parte collegata<br />

anche alle opposizioni ambientali<br />

per lo sfruttamento di nuovi giacimenti.<br />

Nel 2006, rispetto al 2005, la produzione<br />

nazionale di petrolio e gas è diminuita del<br />

6% e dell’8% rispettivamente.<br />

Considerando a livello mondiale la localizzazione<br />

disomogenea delle fonti primarie<br />

rispetto ai consumi e tenendo in<br />

conto i riflessi dell’energia sull’ambiente,<br />

occorre chiaramente inquadrare il “nostro<br />

problema energetico” nel contesto europeo<br />

e mondiale, evitando dannose “vulnerabilità”<br />

per l’Italia.<br />

Pur tenendo in conto il grande aumento<br />

percentuale che le “nuove fonti rinnovabili”<br />

hanno avuto e stanno avendo ogni<br />

anno nel mix energetico globale, considerando<br />

in termini assoluti sia il loro contributo<br />

attuale sia quello nel prossimo futuro,<br />

occorre avere un approccio non<br />

ideologico, ma pragmatico basato su fatti<br />

e dati.<br />

Una corretta politica energetica Italiana<br />

non può essere focalizzata solo sulle risorse<br />

rinnovabili, ma deve considerare<br />

78<br />

sia tutte le possibili fonti (con una corretta<br />

valutazione dei loro vantaggi e delle loro<br />

esternabilità), sia l’efficienza energetica<br />

e sia la competitività del paese.<br />

Negli ultimi dieci anni la popolazione<br />

mondiale è aumentata del 12% e l’Est ed<br />

il Sud Est Asiatico contano ora il 55% dei<br />

6,5 miliardi di esseri umani che vivono<br />

sul nostro pianeta; i consumi delle fonti<br />

primarie e di energia sono aumentati del<br />

20% e quelli di elettricità del 32%.<br />

Il tasso di penetrazione dell’elettricità è in<br />

continua crescita data la sua facile e pervasiva<br />

utilizzazione in tutti i settori: industriale,<br />

domestico e terziario.<br />

Il petrolio contribuisce ora ai consumi di<br />

energia primaria nel mondo con il 36%<br />

(Italia 43%), seguito dal carbone con il<br />

25% (Italia 9%) e dal gas con il 21% (Italia<br />

~ 36%); tutte le altre fonti non fossili<br />

(come importazione di energia elettrica,<br />

idroelettrico, nucleare, biomasse, “nuove<br />

rinnovabili” e geotermico) contano per il<br />

18% (Italia 12% non avendo nucleare).<br />

Al 2050, anche in ambito di una politica<br />

“non business as usual” ma con ampio<br />

sviluppo del risparmio energetico (lasciatemelo<br />

chiamare “efficienza energetica”)<br />

il consumo delle fonti primarie di energia,<br />

secondo la IEA (<strong>In</strong>ternational Energy<br />

Agency) è previsto raddoppiare e quello<br />

di elettricità triplicare.<br />

Per quanto riguarda le possibili riserve di<br />

combustibili fossili [1], il rapporto R/P tra


iserve ad oggi accertate (R) e produzione<br />

attuale (P) risulta praticamente:<br />

• 40 anni per il petrolio<br />

• 60 anni per il gas naturale<br />

• 200 anni per il carbone<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Vale la pena di ricordare che agli inizi degli<br />

anni ’60 si prevedeva una vita residua<br />

per il petrolio di soli 40 anni; l’ingegnosità<br />

umana e le tecnologie di esplorazione<br />

ed estrazione hanno permesso di trovare<br />

e sfruttare a livello economico nuovi giacimenti<br />

una volta impensabili. Vale la pena<br />

di ricordare che il petrolio a prezzi stabili<br />

superiori ai 50-55 €/barile rende già<br />

conveniente lo sfruttamento di scisti bituminosi<br />

ed olii extra pesanti; le riserve del<br />

Canada, Stati Uniti e Venezuela sono<br />

enormi e superano di 10 volte quelle del<br />

petrolio convenzionale.<br />

Chiaramente non esiste quindi una scarsità<br />

di risorse fossili, ma occorrerà implementare<br />

le tecnologie in fase di sviluppo<br />

per “bruciarle” praticamente ad emissioni<br />

nulle di CO2.<br />

La produzione di energia elettrica a livello<br />

mondiale vede ora come fonti primarie<br />

il carbone con il 39% seguito da gas<br />

17%, idroelettrico 16%, nucleare 16%,<br />

petrolio 7%, altro 5%.<br />

L’eolico contribuisce con lo 0,8% ed il fotovoltaico<br />

con lo 0,3 ‰.<br />

Occorre notare che il solare termico<br />

(pannelli per acqua calda) ha una produzione<br />

di energia circa 20 volte superiore<br />

a quella del fotovoltaico ed il 65%<br />

è in Cina.<br />

Per l’Italia nel 2006, a parte i circa<br />

45TWh elettrici di importazione, i ~315<br />

TWh di produzione lorda nazionale, sono<br />

così suddivisi per fonte: gas ~51%, carbone<br />

15%, idroelettrico ~13,5%, prodotti<br />

79<br />

petroliferi 12%, geotermico ~1,8%, eolico<br />

e fotovoltaico 1,1% (in grandissima parte<br />

eolico), altri combustibili ~5,6%.<br />

Se analizzassimo i programmi di Cina ed<br />

<strong>In</strong>dia che contano 2,4 miliardi di abitanti,<br />

vedremmo ad esempio che solo in Cina<br />

sono entrati in servizio nel 2006 oltre<br />

105.000 MW di nuove centrali (vicino alla<br />

totale potenza installata in Germania<br />

dagli albori dell’elettricità di fine ’800 ad<br />

ora!), delle quali oltre il 90% a carbone; si<br />

può ben comprendere come a livello<br />

mondiale anche continuando l’installazione<br />

di eolico e fotovoltaico con tassi di incremento<br />

notevolissimi e sviluppando<br />

anche l’utilizzo delle biomasse, nel 2030,<br />

pur perseguendo politiche di maggior efficienza<br />

energetica, è prevedibile (fonte<br />

IEA) che le fonti fossili domineranno ancora<br />

la scena con circa l’80% di contributo<br />

alla produzione di energia elettrica.<br />

Con i massicci investimenti in centrali a<br />

carbone nei paesi in via di sviluppo e in<br />

centrali a gas a ciclo combinato (vedi Italia)<br />

nei paesi caratterizzati da un libero<br />

mercato, la quota percentuale di produzione<br />

idroelettrica e nucleare subirà una<br />

forte diminuzione a breve-medio termine<br />

con una risalita per il nucleare verso il<br />

2020.<br />

La Commissione Europea con il suo<br />

“Green Paper” del 2006 “European Strategy<br />

for Sustainable, Competitive and<br />

Secure Energy” ha posto alla base di una<br />

politica energetica i tre pilastri di:<br />

• sostenibilità ambientale,<br />

• costi crescenti dell’energia (e loro effetto<br />

sulla competitività di tutta la Comunità),<br />

• sicurezza degli approvvigionamenti (rischio<br />

di rimanere al freddo o al buio).<br />

Chiaramente tali tre “pilastri” devono<br />

convivere in modo dialettico ma equili


ato evitando di creare, con eccessive<br />

penalizzazioni delle energie convenzionali,<br />

una perdita di competitività rispetto<br />

al resto del mondo (vedi Cina, USA, ecc.)<br />

ed una “rilocazione” delle industrie<br />

“energy intensive”; se questa rilocazione<br />

avvenisse (come sta avvenendo) in paesi<br />

come la Cina che hanno una efficienza<br />

energetica di gran lunga inferiore a quella<br />

Europea, si raggiungerebbe a livello<br />

globale un peggioramento delle emissioni<br />

di CO2. Occorre inoltre notare che una<br />

Unione Europea, anche estesa, contribuirà<br />

nel prossimo futuro per meno del<br />

10% alle totali emissioni di CO2, tenendo<br />

in conto, come sopra menzionato, lo sviluppo<br />

delle economie emergenti basate<br />

sul carbone.<br />

Vorrei sottolineare che nessuna “tecnologia”<br />

per la produzione di energia elettrica<br />

è priva di emissioni; <strong>questo</strong> considerando<br />

il suo ciclo di vita dall’estrazione delle<br />

materie prime, alla realizzazione dell’impianto<br />

ed al suo esercizio e smantellamento<br />

finale e considerando i suoi riflessi<br />

sul globale sistema elettrico di generazione/trasmissione/distribuzione.<br />

Le fonti rinnovabili che si basano su “sorgenti<br />

aleatorie e discontinue” (es. vento e<br />

solare) non possono ad esempio essere<br />

realizzate e “funzionare” senza drastici<br />

investimenti nel restante sistema elettrico<br />

e anche per loro devono essere quindi<br />

valutati i “costi addizionali” relativi al loro<br />

allacciamento alla rete ed agli ampliamenti<br />

delle reti stesse, ai costi della capacità<br />

di “riserva di generazione” da fonti<br />

convenzionali che deve essere tenuta a<br />

disposizione e del conseguente funzionamento<br />

di tali centrali con una efficienza<br />

ridotta e quindi con addizionali emissioni<br />

di CO2.<br />

Per i combustibili fossili devono chiara-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

80<br />

mente essere valorizzati tra l’altro i costi<br />

di emissione di CO2, SOx, NOx , polveri<br />

e per il nucleare lo smantellamento delle<br />

centrali ed il trattamento delle scorie.<br />

Occorre rilevare che l’elettricità non può<br />

essere ancora economicamente immagazzinata<br />

e perciò la “produzione” di elettricità<br />

deve seguire la “domanda” che ha<br />

un andamento ciclico durante la giornata<br />

(da circa 1 a 2), durante la settimana<br />

(giorni festivi) e secondo le stagioni.<br />

Dal punto di vista “produzione”, alcune<br />

tecnologie sono utilizzabili ed economiche<br />

come centrali di base e con funzionamento<br />

continuo al massimo carico (come<br />

ad esempio il nucleare), altre sono<br />

più economiche come centrali di punta<br />

(un migliaio di ore all’anno di funzionamento<br />

come i turbogas a ciclo semplice e<br />

le centrali di pompaggio), altre sono flessibili<br />

ed economiche come centrali “midmerit”<br />

con ore di utilizzo all’anno di alcune<br />

migliaia di ore, altre ancora sono operabili<br />

(acqua fluente, eolico, solare) solo<br />

quando è disponibile la “sorgente primaria”<br />

(acqua, vento, sole).<br />

Questo rafforza l’importanza di un adeguato<br />

mix di tipologie di centrali e di materie<br />

prime energetiche, per avere un sistema<br />

elettrico efficiente e sostenibile.<br />

Italia e politica energetica<br />

L’Italia, come sopra accennato, ha una<br />

dipendenza energetica dell’85% ed in<br />

continua crescita ma quello che è critico<br />

non è tanto la dipendenza energetica in<br />

se stessa ma la vulnerabilità del paese al<br />

problema energia.<br />

Definirei come vulnerabilità “l’impossibilità/incapacità<br />

per il paese di fare delle<br />

scelte liberamente consentite di politica<br />

energetica o di farle però ad un costo


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

economico e politico insopportabile per<br />

la collettività”.<br />

Vulnerabilità è diversa da dipendenza<br />

energetica; uno potrebbe essere dipendente<br />

ma non vulnerabile grazie ad<br />

un’importazione di materie prime energetiche<br />

a costi sopportabili e che garantisca<br />

la sicurezza degli approvvigionamenti<br />

con una buona diversificazione delle risorse<br />

per origine e tipologia (e <strong>questo</strong><br />

ahimé non è valido per l’Italia, sempre<br />

più dipendente dal gas proveniente da un<br />

<strong>numero</strong> ridotto di paesi e dove non si riesce<br />

a realizzare un rigassificatore!).<br />

Un paese che producesse la parte essenziale<br />

della sua richiesta energetica a<br />

costi proibitivi (e mi riferisco ad esempio<br />

a tecnologie non ancora mature e senza<br />

orizzonti certi per la loro convenienza)<br />

anche se indipendente, sarebbe vulnerabile.<br />

Occorre sottolineare che il settore energetico<br />

è un settore particolare caratterizzato<br />

da cicli di vita molto lunghi rispetto<br />

agli altri settori. Basti pensare nel campo<br />

elettrico al tempo necessario per la ricerca,<br />

lo sviluppo, la costruzione, la commercializzazione<br />

ed il funzionamento di<br />

una famiglia di impianti/prodotti (centrali<br />

convenzionali di produzione, trasformatori,<br />

interruttori, linee elettriche); è di alcune<br />

decadi.<br />

Nel campo petrolifero, del gas e del carbone,<br />

tempi ancora più lunghi sono necessari<br />

per ricerca e sviluppo di giacimenti<br />

e miniere e per creare ed utilizzare<br />

le infrastrutture di trasporto. Per le nuove<br />

centrali nucleari di terza generazione che<br />

sono progettate e costruite per 60 anni di<br />

funzionamento, anche trascurando il problema<br />

delle scorie, si arriva ad oltre un<br />

secolo dalla ricerca iniziale per un nuovo<br />

tipo di reattore, ai tempi per permessi,<br />

81<br />

costruzione ed esercizio e al decommissioning<br />

finale.<br />

Mi permetto di fare alcune osservazioni<br />

nel campo di una politica energetica che<br />

ritengo sia indispensabile per il nostro<br />

paese e che debba essere portata avanti<br />

dalla classe politica ed industriale con<br />

adeguato consenso per garantire quanto<br />

sopra esposto e cioè sicurezza degli approvvigionamenti,<br />

competitività del paese<br />

e rispetto dell’ambiente.<br />

• Una vera politica energetica ha orizzonti<br />

lunghi che si misurano in decenni e necessita<br />

quindi di un approccio bipartisan<br />

e di una corretta informazione e coinvolgimento<br />

della popolazione; tutte le fonti<br />

debbono essere tenute in debito conto,<br />

considerando l’innovazione tecnologica e<br />

l’evoluzione delle normative ambientali.<br />

Non bisogna idolatrare o demonizzare<br />

nessuna fonte (menziono a tale proposito<br />

carbone, nucleare e nuove fonti rinnovabili).<br />

• Oltre che sui pur importanti progetti a<br />

breve, occorre impostare quindi cosa si<br />

vuol fare per il medio e lungo periodo; se<br />

non si decide mai, saremo sempre al palo<br />

e fra dieci anni avremo gli stessi problemi<br />

di oggi, anzi ben peggiori.<br />

• Una vera politica energetica può essere<br />

uno strumento per creare posti di lavoro,<br />

sviluppare nuove tecnologie ed opportunità<br />

per l’esportazione con un’appropriata<br />

politica industriale (e qui menziono<br />

Germania per rinnovabili e Francia<br />

per nucleare).<br />

• Data la nostra dipendenza dall’estero,<br />

oltre ad una politica industriale, una politica<br />

energetica necessita tra l’altro di un


coinvolgimento della politica estera, della<br />

politica di scambi commerciali, di una<br />

politica ambientale e di una politica fiscale.<br />

• Occorre dare una concreta risposta alla<br />

domanda “politica energetica e liberalizzazione/privatizzazione<br />

sono compatibili<br />

come ora impostati?”. Tutti auspicano<br />

una politica energetica, ma all’atto pratico<br />

nessuno vuole “paletti” attorno al suo<br />

giardino.<br />

La domanda, esige una risposta non generica<br />

ma dettagliata; ”il diavolo giace nei<br />

dettagli” e bisogna definire concretamente<br />

quali indirizzi e vincoli occorra considerare<br />

e far rispettare per il libero mercato<br />

che è condizionato da un mondo finanziario<br />

che esige ritorni sempre più a<br />

breve. Questo se si vogliono salvaguardare,<br />

a breve e lungo termine, quelli che<br />

dovrebbero essere i reali beneficiari di<br />

una vera liberalizzazione e cioè i consumatori<br />

industriali e domestici.<br />

• Considerando gli elevati costi dell’energia<br />

da fonti rinnovabili e i costi crescenti<br />

di combustibili fossili e degli impatti ambientali,<br />

sarà opportuno verificare anche<br />

una possibile opzione nucleare che risulta<br />

già ora competitiva, ma da essa non ci<br />

si possono tuttavia aspettare a breve dei<br />

risultati. Occorre però impostare prioritariamente<br />

una efficace comunicazione e<br />

sensibilizzazione dell’opinione pubblica e<br />

rimando per <strong>questo</strong> a dopo.<br />

• Sarà importante quindi considerare in<br />

una efficace politica energetica sia tutte<br />

le fonti fossili e rinnovabili, sia il nucleare,<br />

sia l’efficienza energetica e sia la competitività<br />

Paese, ristrutturando in modo organico<br />

certificati verdi, certificati bianchi,<br />

penali per emissioni, incentivi a “produ-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

82<br />

zioni privilegiate” ed alla ricerca e innovazione.<br />

Occorre separare però chiaramente<br />

i possibili incentivi alla ricerca per<br />

nuove tecnologie dall’incentivazione all’uso<br />

di alcune forme di energia per un loro<br />

sviluppo economico, incentivazioni all’uso<br />

che vanno a gravare sulla bolletta<br />

degli utenti.<br />

Il nucleare<br />

Come evidenziato chiaramente dal recentissimo<br />

studio WEC “The future role<br />

of nuclear power in Europe” da me coordinato<br />

[2], tenendo in conto l’incremento<br />

dei consumi a livello mondiale (ed italiano),<br />

la sostituzione di vecchie centrali, i<br />

costi crescenti e la sicurezza di approvvigionamento<br />

dei combustibili fossili che<br />

hanno una domanda fortissima da parte<br />

dei paesi emergenti, considerando gli impegni<br />

ambientali, l’opzione nucleare che<br />

non emette CO2, SOx ed NOx non può<br />

non essere esaminata.<br />

<strong>In</strong> Italia negli ultimi due anni si è cominciato<br />

a “riparlare” di nucleare a livello<br />

principalmente di convegni e tavole rotonde,<br />

ma ahimé ben poco sistematicamente<br />

a livello politico.<br />

Nel nostro paese occorrerebbe chiaramente<br />

e celermente considerare almeno<br />

tre settori:<br />

• partecipare a progetti di ricerca, e mi riferisco<br />

fondamentalmente ai reattori della<br />

quarta generazione che saranno sul<br />

mercato tra circa 25 anni con efficienza<br />

di circa 100 volte gli attuali reattori (e<br />

quindi con problemi ridottissimi per le<br />

scorie e per l’utilizzo delle risorse di uranio<br />

disponibili);<br />

• intervenire con propri operatori in società<br />

che hanno e/o stanno realizzando cen-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

trali nucleari (e qui Enel è ormai una realtà<br />

consolidata);<br />

• esaminare un eventuale piano di centrali<br />

nucleari da installare nel paese.<br />

Per quanto riguarda i tempi di una possibile<br />

opzione con centrali nucleari in Italia,<br />

non si possono creare illusioni per il breve<br />

e ricordo che in un paese come la Finlandia<br />

che ha già centrali nucleari, il Parlamento<br />

ha deciso nel 1997 di avere una<br />

nuova centrale nucleare nell’ambito di<br />

una politica di riduzione della vulnerabilità,<br />

degli impatti ambientali e dei costi.<br />

Ebbene questa centrale nucleare che utilizzerà<br />

lo stesso sito di un’altra esistente<br />

entrerà in servizio commerciale nel 2010<br />

e cioè tredici anni dopo la decisione parlamentare.<br />

<strong>In</strong> questi giorni la Finlandia<br />

sta definendo la realizzazione di un’ulteriore<br />

centrale che sia in servizio per il<br />

2020.<br />

Come fatto dalla Finlandia, per ridurre i<br />

rischi economici in generale e quelli di<br />

mercato, occorre un chiaro intervento<br />

dello Stato per garantire i siti e il deposito<br />

finale delle scorie, ma occorre anche<br />

che le industrie “energy intensive” per<br />

avere bassi costi dell’elettricità si impegnino<br />

con contratti take or pay di lungo<br />

termine e che i produttori si consorzino<br />

per definire un <strong>numero</strong> di centrali consistente;<br />

l’effetto scala e serie nel nucleare<br />

È fortissimo (Francia docet) ed incide<br />

quindi sul costo finale del kWh [2].<br />

La Francia che produce e produrrà circa<br />

i 4/5 della propria energia elettrica con il<br />

nucleare non risentirà della sicurezza<br />

degli approvvigionamenti ed avrà costi<br />

praticamente fissi per l’energia elettrica,<br />

costi non legati alla fluttuazione dei<br />

prezzi di petrolio e gas. Il costo previsto<br />

è circa 40-45 €/MWh includendo il “de-<br />

83<br />

commissioning” e il trattamento delle<br />

scorie e loro deposito finale. Oggi in Italia<br />

con i cicli combinati ad alta efficienza<br />

ed il gas a circa 300 €/m3 il costo di<br />

produzione è di circa 70 €/MWh senza<br />

tenere in conto penalizzazioni per le<br />

emissioni di CO2; l’80% di questi 70<br />

€/MWh è il costo del gas!<br />

Con riferimento a nucleare ed opinione<br />

pubblica, vorrei ricordare che la Svezia,<br />

paese ben sensibile ai problemi ambientali,<br />

nel 1980 aveva deciso di chiudere<br />

tutte le proprie centrali nucleari (che producono<br />

circa il 50% dell’energia elettrica<br />

consumata nel paese).<br />

Nello studio [2] emerge chiaramente che<br />

dai recenti sondaggi oltre l’85% della popolazione<br />

non vuole chiudere le centrali<br />

nucleari, anzi ne vuole aumentare la potenza;<br />

la pratica totalità di <strong>questo</strong> 85% ritiene<br />

l’energia nucleare più sicura, più<br />

economica e più rispettosa dell’ambiente<br />

rispetto a quella da fonti fossili e da altre<br />

fonti.<br />

Ben due province sono in competizione<br />

per ottenere il deposito nazionale di scorie<br />

radioattive (tecnologia ed impatto locale);<br />

anche in Finlandia è in fase di realizzazione<br />

un “cimitero” in sito geologicamente<br />

stabile con il pieno supporto della<br />

popolazione.<br />

Per quanto riguarda il deposito delle scorie<br />

ad alta radioattività occorrerà una posizione<br />

europea che eviti soluzioni non<br />

ottimali di “cimiteri” in ogni nazione; pochissimi<br />

siti sarebbero più che sufficienti<br />

per tutti i paesi europei.<br />

Politica industriale<br />

Dobbiamo salvaguardare in Italia la nostra<br />

capacità manifatturiera in generale<br />

ed in particolare anche quella legata all’energia.


Ricordo che le aziende ANIE (Federazione<br />

Nazionale Imprese Elettrotecniche ed<br />

Elettroniche) del settore energetico hanno<br />

perso il 50% dei loro addetti dalla prima<br />

metà degli anni ’90 ad oggi.<br />

Non si chiede nessun protezionismo, ma<br />

non si vogliono nemmeno penalizzazioni<br />

rispetto alla concorrenza. Occorre che le<br />

istituzioni diano un adeguato supporto alla<br />

“terza gamba” del settore energetico e<br />

cioè all’industria manifatturiera locale che<br />

ha realizzato oltre il 90% del sistema italiano<br />

di generazione, trasmissione e distribuzione<br />

dell’energia elettrica. Servono<br />

chiari indirizzi e stabili nel tempo per<br />

orientare risorse per ricerca e sviluppo e<br />

per investimenti in siti produttivi.<br />

Occorre arrivare a specifiche e gare che<br />

valorizzino il life cycle cost di prodotti e<br />

sistemi (incluso service locale) e che<br />

escludano quei fornitori che non rispettano<br />

nei loro stabilimenti le regole di sicurezza<br />

e di salvaguardia dell’ambiente, regole<br />

che per le nostre imprese incidono e<br />

non poco sui loro costi. La scomparsa<br />

dal paese del settore termoelettromeccanico,<br />

creerebbe gravi problemi al sistema<br />

energetico nazionale.<br />

Come già sottolineato, la combinazione<br />

di una politica energetica ed industriale è<br />

creatrice di tecnologie ed occupazione,<br />

contribuendo alla soluzione dei problemi<br />

ambientali, allo sviluppo di nuove fonti<br />

rinnovabili, a diversificazioni e risparmi<br />

energetici [3].<br />

<strong>In</strong>frastrutture energetiche, efficienza<br />

energetica e comunicazione<br />

Sebbene informazione e comunicazione<br />

siano importanti per tutti i settori (ICT, trasporti,<br />

etc.) mi soffermo sulla realizzazione<br />

delle infrastrutture energetiche e sul<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

84<br />

grosso “serbatoio di energia” costituito<br />

dall’efficienza energetica.<br />

<strong>In</strong> <strong>questo</strong> Paese non si riescono a realizzare<br />

centrali, rigassificatori, linee e stazioni<br />

di trasmissione, ma neppure un tetto<br />

fotovoltaico o un generatore eolico<br />

hanno vita facile; non esiste, inoltre un’indispensabile<br />

e diffusa coscienza e consapevolezza<br />

per i risparmi energetici sia<br />

in ambito industriale che domestico.<br />

La Comunità Europea stima pari a circa il<br />

20% dei consumi i risparmi che si potrebbero<br />

conseguire realisticamente con<br />

programmi di efficienza energetica. Questo<br />

per l’Italia corrisponderebbe a circa<br />

30 MTEP pari agli incrementi dei consumi<br />

previsti da qui al 2030. Ricordo ad<br />

esempio che in Italia i consumi finali di<br />

elettricità vanno per il 50-55% in motori,<br />

per il 12-15% nell’illuminazione e per il<br />

12-15% negli elettrodomestici.<br />

Ebbene, per un motore elettrico, lungo<br />

una sua vita di dieci anni (in realtà ben<br />

più lunga), il prezzo di acquisto (sul quale<br />

si concentrano gli acquirenti) influisce<br />

per meno del 3%; ben oltre il 95% è il costo<br />

dell’energia elettrica che il motore<br />

consuma e tale costo aumenterà! Con<br />

l’utilizzo di motori ad alta efficienza e/o<br />

con l’applicazione, a monte del motore,<br />

di speciali dispositivi (inverters), si hanno<br />

dei risparmi sostanziali nei consumi (anche<br />

oltre il 50%) e ritorni dell’investimento<br />

da alcuni mesi a circa 1-2 anni; in Italia<br />

potrebbero essere risparmiati fino a<br />

20 TWh e 10 milioni di tonnellate di CO2<br />

all’anno! Ricordo che l’Italia vede una applicazione<br />

di motori ad alta efficienza ed<br />

inverter con percentuali bassissime pari<br />

ad 1/20 della media europea ed 1/40 di<br />

quella dei paesi nordici!<br />

A parte lo studio di appropriati incentivi e


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

delle loro modalità di erogazione alle popolazioni<br />

che “ospitano” infrastrutture<br />

energetiche, per superare il localismo imperante<br />

occorre una sensibilizzazione ed<br />

un’appropriata comunicazione verso il<br />

pubblico “consumatore”, che risulta anche<br />

il pubblico “oppositore”.<br />

Chi vogliamo intraprenda tale campagna,<br />

in Italia, con un serio e professionale approccio?<br />

Il mondo politico ed i ministeri<br />

con Istituzioni regionali, provinciali e comunali<br />

dovrebbero essere i paladini di tale<br />

iniziativa coinvolgendo Associazioni industriali<br />

e culturali, Università e scuola<br />

ed i mass media. I mass media hanno ed<br />

avranno in tale settore un’opportunità,<br />

ma anche una grande responsabilità.<br />

Conclusioni<br />

L’energia ha assunto con i suoi riflessi<br />

sull’ambiente, i suoi aspetti geopolitici ed<br />

il suo pervasivo uso in tutte le attività, un<br />

ruolo cruciale per lo sviluppo sostenibile<br />

del nostro pianeta; l’energia è e sarà<br />

sempre più un problema globale.<br />

Non esiste a livello mondiale una scarsità<br />

delle risorse energetiche, ma la differente<br />

localizzazione delle risorse stesse<br />

rispetto alle aree di consumo, la grande<br />

disparità dei consumi tra le varie economie<br />

e l’impressionante sviluppo dei consumi<br />

energetici concentrati in alcuni paesi<br />

(Cina, <strong>In</strong>dia) rendono lo scenario problematico<br />

e richiedono un coordinato e<br />

difficile approccio politico globale.<br />

Anche per l’Italia l’energia è un problema<br />

e forse più critico che per altri paesi data<br />

la nostra quasi totale dipendenza energetica<br />

dall’estero.<br />

Il settore energetico è caratterizzato da<br />

cicli di vita molto lunghi (vari decenni)<br />

che trascendono quelli di una legislatura<br />

e necessita di un approccio con stabilità<br />

85<br />

di regole e riferimenti specie nel contesto<br />

di liberalizzazioni e privatizzazioni che<br />

vedono un mondo finanziario sempre più<br />

orientato a ritorni a breve.<br />

L’energia potrebbe costituire il perno per<br />

un “nuovo rinascimento” italiano e trasformarsi<br />

in un’opportunità focalizzando<br />

su di essa l’attenzione e le risorse di politici,<br />

associazioni, università, mondo della<br />

cultura, industria, opinione pubblica,<br />

indirizzando ricerche ed investimenti su<br />

filoni dove possiamo ritrovare un’eccellenza<br />

tecnologica ed una competitività.<br />

La politica deve avere il coraggio di portare<br />

e discutere dati e fatti concreti e non<br />

essere un “follower” di impulsi ed ideologie<br />

che vengono seguiti per raccogliere a<br />

breve termine un effimero consenso.<br />

<strong>In</strong> tale visione tutte le forme di energia<br />

devono essere tenute in conto con i loro<br />

vantaggi e svantaggi in un mix dinamico<br />

che consenta al paese di rimanere competitivo<br />

in un ambiente sostenibile.<br />

Referenze<br />

[1] World Energy Council “2004 Survey<br />

of Energy Resources” pubblicato da Elsevier.<br />

[2] World Energy Council “The Future<br />

Role of Nuclear Power in Europe”.<br />

http://www.worldenergy.org/wecgeis/news_events/news/pressreleases/p<br />

r220107.asp.<br />

[3] Libro Bianco dell’energia elettrica in<br />

Italia. “Energia: l’<strong>In</strong>dustria elettromeccanica<br />

in Italia declino o rilancio?” ANIE e<br />

ANIMA 6 febbraio 2007.<br />

www.fast.mi.it/enermotive.htm<br />

*Alessandro Clerici,<br />

Presidente Onorario del Comitato italiano<br />

del World Energy Council (WEC)<br />

Delegato ANIE e Vice Presidente<br />

Commissione Energia di Confindustria


Il doppio caso delle fotografie compromettenti<br />

di Silvio Sircana che il settimanale<br />

Oggi del gruppo Rizzoli Corriere<br />

della Sera (RCS MediaGroup) ha<br />

comperato per 100.000 euro, tenendole<br />

nel cassetto, e di quelle riguardanti<br />

Silvio Berlusconi nella sua villa, che<br />

tiene per mano e forse accarezza alcune<br />

giovani donne, solleva una grossa<br />

questione sul rapporto fra <strong>questo</strong><br />

gruppo editoriale e le banche e imprese<br />

industriali che ne sono proprietarie.<br />

<strong>In</strong> un caso le foto sono state comperate<br />

da un servizio effettuato in modo legittimo,<br />

sebbene furtivo, in uno spazio<br />

pubblico. Nell’altro caso si tratta di foto<br />

che sono state comperate da un<br />

servizio effettuato abusivamente violando<br />

uno spazio privato.<br />

Nel primo caso non vi era alcuna ragione<br />

legale per non pubblicare, le foto<br />

ma la loro pubblicazione non ha<br />

avuto luogo. Nel secondo la loro pubblicazione<br />

era illegittima, ma è avvenuta,<br />

pur sapendo che ciò avrebbe comportato<br />

una querela di parte.<br />

<strong>In</strong> entrambi i casi le foto riguardano la<br />

vita privata di uomini pubblici. Nel primo<br />

caso l’assistente più stretto del<br />

presidente del consiglio, nel secondo<br />

l’ex presidente del consiglio.<br />

Nel primo caso per altro le foto riguardavano<br />

un’attività non commendevole,<br />

di ricerca di prostituti, per parlare con<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Conflitto di interesse e la proprietà<br />

dei giornali<br />

di Francesco Forte<br />

86<br />

loro o forse per altre ragioni. Nel secondo<br />

caso si tratta di una attività che<br />

non è commendevole per i sessuofobi.<br />

Per l’opinione pubblica il giudizio è,<br />

inevitabilmente diverso. Nel primo caso,<br />

però compromettono la credibilità<br />

dell’interessato. Nel secondo i giudizi<br />

sono molto controvertibili. Solo i sessuofobi<br />

possono pensare che una persona<br />

importante e in età che nella sua<br />

villa, in privato, si lasci andare un poco,<br />

con delle donne giovani, sia un<br />

anormale o faccia qualcosa che è contrario<br />

al suo ruolo pubblico.<br />

<strong>In</strong> entrambi i casi le foto possono infastidire<br />

le famiglie degli interessati. E in<br />

entrambi i casi possono giovare alle<br />

vendite di un settimanale a grande tiratura<br />

dedito sostanzialmente alla cronaca<br />

leggera.<br />

Il comportamento del direttore di Oggi<br />

che ha pubblicato le foto di Berlusconi<br />

rende incomprensibile o sospetto il<br />

comportamento dello stesso direttore<br />

che non ha pubblicato quelle di Sircana.<br />

Semmai vi erano ragioni per fare<br />

l’opposto, dal punto di vista puramente<br />

giornalistico, in cui vale il motto per cui<br />

un cane che morde un uomo senza<br />

fargli male non è una notizia mentre un<br />

uomo che morde un cane, senza fargli<br />

male, lo è. E quindi, posto ciò, occorre<br />

rifarsi alla proprietà dei giornali e ai


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

vincoli espliciti o impliciti che essa pone<br />

alla loro indipendenza<br />

Nel caso di Oggi del gruppo Rizzoli si<br />

tratta di alcune fra le maggiori banche<br />

e imprese italiane, un “salotto” con<br />

fiocchi e controfiocchi. <strong>In</strong>fatti, il patto di<br />

sindacato che controlla RCS col<br />

63,57% del capitale è composto da<br />

Mediobanca col 13,2%,da Fiat col<br />

10,91, da <strong>In</strong>tesa San Paolo col 4,76<br />

per cento, dal gruppo Pirelli (che controlla<br />

Telecom Italia) col 4,8 per cento<br />

e da altre società assicurative, e industriali.<br />

La quota del patto sindacale –<br />

63,57 – è elevatissima. Si spiega coi<br />

difficili equilibri di questa corazzata del<br />

potere.<br />

Si noterà che Mediobanca controllata<br />

da una galassia di grandi banche, assicurazioni,<br />

imprese industriali di varia<br />

grandezza, non è decisiva per la maggioranza<br />

del 50% più uno. C’è nella<br />

proprietà anche <strong>In</strong>tesa San Paolo,<br />

aspra rivale di Mediobanca, che aspira<br />

a detronizzarla e che è molto vicina al<br />

premier Prodi, mentre Mediobanca<br />

punta su altri cavalli, pur essendo in<br />

maggioranza schierata, in modo abbastanza<br />

esplicito, per il centrosinistra<br />

attuale.<br />

Si può supporre che il possesso di imprese<br />

editoriali da parte di banche e industrie<br />

sia motivato da obbiettivi di<br />

profitto.<br />

Ma quando si tratta di un gruppo così<br />

vasto ed eterogeneo di primari soci finanziari<br />

e manifatturieri, non si può fare<br />

a meno di pensare che ci possano<br />

essere anche altri obbiettivi. E ciò tanto<br />

più in quanto il direttore del Corriere<br />

della Sera ha apertamente dichiarato<br />

che il suo giornale, nelle elezioni politi-<br />

87<br />

che, appoggiava Prodi contro Berlusconi.<br />

E visto il piccolo scarto di voti<br />

fra i due, non si può dire che si trattasse<br />

di una uscita per legare il carro a<br />

quello del vincitore. Si è trattato di una<br />

uscita che ha fatto perdere copie vendute,<br />

quindi fatturato, al Corriere della<br />

Sera, in cambio di voti che hanno determinato<br />

la vittoria di Prodi che, certamente,<br />

i sondaggisti del Corriere, nei<br />

sondaggi veri, non quelli edulcorati<br />

pubblicati dalla stampa alleata del centro<br />

sinistra, davano per barcollante.<br />

Dunque, i giornali a questi gruppi bancari,<br />

all’occorrenza, servono per esercitare<br />

una pressione sul mondo politico,<br />

per modificare i rapporti di potere<br />

politico.<br />

L’amministratore delegato di RCS è,<br />

dal 12 settembre 2006, Antonello Perricone.<br />

Anche se si tratta di un noto<br />

tecnico del settore, è l’uomo che il premier<br />

Romano Prodi voleva diventasse<br />

direttore generale della Rai e che è<br />

stato bocciato dal consiglio di amministrazione,<br />

che gli ha preferito Claudio<br />

Cappon, considerato più vicino alla<br />

Margherita e meno al premier. Attualmente<br />

è in gioco una importante partita,<br />

nel campo della telefonia e delle linee<br />

aeree, delle grandi opere, in particolare<br />

la Tav e le autostrade.<br />

E fra le banche e industrie che fanno<br />

parte del patto di sindacato che controlla<br />

RCS è in corso una vertenza per<br />

l’acquisto di Olimpia, con cui Tronchetti<br />

Provera, capo di Pirelli, controlla Telecom.<br />

La compagnia nata dalla fusione<br />

di <strong>In</strong>tesa San Paolo si è articolata in<br />

branche di affari e uno di <strong>questo</strong> è costituito<br />

dalle grandi opere.<br />

<strong>In</strong> ciò il governo ha un potere come


proprietario, concessionario o regolatore<br />

legislativo. Basti pensare al Fondo<br />

F21, che dovrebbe gestire infrastrutture,<br />

in cui accanto a banche e fondazioni<br />

bancarie (fra cui primeggia <strong>In</strong>tesa<br />

con Cariplo) vi è la statale Cassa Depositi<br />

e prestiti.<br />

Ora non si può certo giustificare con fini<br />

di profitto il fatto che un settimanale<br />

di RCS abbia comprato in esclusiva<br />

per duecento milioni di vecchie lire un<br />

gruppo di foto fastidiose del portavoce<br />

unico, braccio destro, del presidente<br />

del consiglio, allo scopo di tenerle nel<br />

cassetto, dato che nel caso di Berlusconi<br />

il fine di profitto è stato utilizzato<br />

per giustificare la pubblicazione delle<br />

foto.<br />

La spiegazione secondo cui la ragione<br />

di tale oneroso acquisto sarebbe quella<br />

di sottrarre le foto ad un altro gruppo<br />

editoriale, per evitarne che la concorrenza<br />

facesse uno scoop non regge.<br />

<strong>In</strong>fatti, per battere la concorrenza,<br />

l’arma regina è quella di pubblicare le<br />

foto. Se non lo si è fatto, rinunciando<br />

alla scoop, è perché s’aveva timore di<br />

infastidire qualcuno oppure gli si voleva<br />

fare un favore.<br />

Il presidente del consiglio è un fervente<br />

cattolico ed è leader di un movimento<br />

politico della sinistra cattolica. Una<br />

foto pruriginosa, irrilevante politicamente<br />

se riguardasse altre persone,<br />

diventa, così, molto rilevante per le<br />

faccende e le lotte nei palazzi del potere<br />

politico. Un potere, dunque, che<br />

s’è intrecciato con quello economico.<br />

E a <strong>questo</strong> punto viene la domanda sul<br />

perché le foto non sono state distrutte,<br />

ma tenute in un cassetto.<br />

All’epoca in cui l’immobiliarista Ricuc-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

88<br />

ci, poi finito in carcere, acquistò il 15<br />

per cento delle azioni RCS, si fece del<br />

moralismo contro di lui. Ora le sue<br />

azioni, sotto sequestro, sono molto ricercate,<br />

nei salotti del potere. Per la<br />

verità non da tutte le banche o imprese.<br />

Unicredito ha preferito investire in<br />

banche estere anziché in azioni RCS.<br />

La concentrazione del potere editoriale<br />

fa parte dell’economia di mercato. E<br />

altrettanto la concentrazione bancaria<br />

e la grande impresa.<br />

Ma queste concentrazioni dovrebbero<br />

essere fra loro separate, affinché la<br />

gara economica sia leale e non ci siano<br />

contaminazioni colla politica.<br />

<strong>In</strong> un libro del 1988, dal titolo “Il controllo<br />

del potere economico”, sostenevo<br />

che il possesso di grandi gruppi editoriali<br />

da parte della grande industria e<br />

della grande banca, spesso, non è solo<br />

un fatto economico, è un fatto di potere.<br />

E il potere eccessivo o improprio<br />

corrompe. È quello che accade ora. E<br />

ciò accade soprattutto a favore dello<br />

schieramento di sinistra e del partito<br />

democratico, che palesemente corrisponde<br />

ai disegni del gruppo editoriale<br />

RCS.<br />

Qui sta il vero grande conflitto di interessi.<br />

Qui sta la vera questione morale,<br />

quella ipocritamente utilizzata per<br />

distruggere il PSI liberal socialista di<br />

Craxi, che costituiva un ostacolo a<br />

questi intrecci di potere.


s t o r i a<br />

Gismondi Lehner Sechi


Soccorso bianco<br />

di Arturo Gismondi<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Nel libro “La sinistra divina”, tradotto in<br />

Italia nel 1986 per Feltrinelli, e dedicato<br />

alla parabola ormai discendente del Pc<br />

francese, Jean Baudrillard inserì una valutazione<br />

che assai più realisticamente<br />

poteva far pensare alla sorte del Pc italiano,<br />

ben più vitale e più attrezzato del<br />

confratello ad affrontare il duro impegno<br />

della sopravvivenza dinanzi ai segni di<br />

crisi e di collasso che venivano dall’immenso<br />

impero sovietico. E ciò perché il<br />

Pci, fra i partiti post-comunisti, è apparso<br />

rispetto al partito fratello più manovriero<br />

e spregiudicato, soprattutto più presente<br />

nella realtà sociale e culturale. Ha contato,<br />

nell’esperienza del Pci arrivato alla<br />

resa dei conti del 1989, la lezione di Antonio<br />

Gramsci e la saggia utilizzazione<br />

che ne ha fatto Palmiro Togliatti, e ne<br />

hanno fatto i suoi successori. Tutto ciò<br />

ha contribuito a far apparire più credibile<br />

di altre sinistre quella “sinistra immaginaria”<br />

italiana che, tornando alla simulazione<br />

di Baudrillard, ha svolto il compito<br />

di salvare il potere della “destra reale”<br />

utilizzando la presenza della “sinistra immaginaria”.<br />

Dice Baudrillard: «occorre salvare il Pcf<br />

<strong>questo</strong> è l’imperativo categorico di tutta<br />

la classe politica, anzi di tutta la società<br />

francese. Unica struttura forte alla quale<br />

possa ancora aderire l’illusione del politico<br />

e del sociale, e con essa la possibi-<br />

91<br />

lità di far gravitare le masse attorno a<br />

questi due astri morti, il Pcf deve essere<br />

salvato, e anzi resuscitato a ogni costo.<br />

È da tempo che il Pcf non rappresenta<br />

più alcuna minaccia di presa del potere,<br />

o di sovversione dell’ordine costituito,<br />

ma tutti hanno bisogno di questa idea, di<br />

<strong>questo</strong> fantasma …altrimenti sarebbe<br />

tutto il potere politico a cadere in disaffezione,<br />

sarebbe l’ordine sociale, e non<br />

soltanto l’ordine sociale, ma il sociale<br />

tout court a crollare per dissimulazione<br />

brutale. Il Pcf è l’ultimo garante della posta<br />

in gioco, non importa se di simulazione...<br />

Il Pcf ha fatto un buon lavoro, ha<br />

bloccato il volano della Storia al punto<br />

più basso e arretrato di una opposizione<br />

politica impotente, anzi al punto più basso<br />

e arretrato di una opposizione nostalgica<br />

e velleitaria salvando così “l’immaginario”<br />

del potere di sinistra e “la realtà”<br />

di quello di destra».<br />

Sostituendo alla sigla Pcf quella di Pci,<br />

in effetti il discorso di Baudrillard, limpidissimo,<br />

fra i più chiari, sarebbe stato, e<br />

anzi sarebbe, assai più persuasivo. <strong>In</strong> un<br />

convegno tenuto a Roma nel mese di<br />

marzo 2007 su “L’influenza del comunismo<br />

nelIa Storia d’Italia” il senatore Quagliarello<br />

in una relazione su “Le fortune<br />

di Togliatti e le sfortune di Thorez” affronta<br />

il problema della diversa fortuna<br />

dei due più forti partiti occidentali (ad es-


si potremmo aggiungere la sorte del terzo<br />

partito latino, quello spagnolo).<br />

Quagliarello, pur non negando la qualità<br />

diversa della presenza del comunismo<br />

italiano nel quadro europeo, fa risalire la<br />

differenza nella storia di Pci e Pcf a un<br />

momento cruciale della vicenda del continente,<br />

alla vigilia della seconda guerra<br />

mondiale, il patto russo-tedesco del<br />

1939. E ha perfettamente ragione nel<br />

sostenere che gravi e rovinose furono le<br />

responsabilità del partito di Thorez per<br />

aver approvato la scelta fatta dall’Urss,<br />

in contraddizione con la politica antifascista<br />

approvata all’indomani del VI<br />

Congresso del Comintern. Il Pci fece, è<br />

vero, la stessa scelta, è nota la cacciata<br />

di Terracini e della Ravera dal collettivo<br />

comunista al confino di Ventotene. Il partito<br />

italiano, però, vivendo in clandestinità,<br />

pagò assai meno per un errore al<br />

quale poté riparare allorché l’aggressione<br />

di Hitler all’Urss del giugno 1941 mutò<br />

secondo i partiti comunisti la natura<br />

della guerra.<br />

Assai più grave apparve, agli occhi dei<br />

francesi, il tradimento del Pcf trattandosi<br />

questa volta di un partito legale e inserito<br />

a pieno titolo nella realtà politica francese.<br />

La caduta degli iscritti al Pcf fra il 1939 e<br />

il 1940, la sua riduzione a poche decine<br />

di migliaia in pochi mesi fu il risultato di<br />

una disfatta politica inevitabile. Il Pci, al<br />

contrario, poté inserirsi senza danni e<br />

con prestigio intatto nella Resistenza. Di<br />

qui, sostiene Quagliariello, il diverso prestigio<br />

democratico nel periodo successivo<br />

alla liberazione. Il Pcf rivendicò è vero<br />

la immagine del “partito dei fucilati” riferito<br />

alla partecipazione alla Resistenza.<br />

Restò tuttavia, in <strong>questo</strong> partito, una<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

92<br />

sorta di imbarazzo, di insincerità e di rigidità<br />

dottrinaria che ne appesantì i comportamenti<br />

per lungo tempo ancora.<br />

Di qui una maggiore disinvoltura e autorevolezza<br />

del Pci una volta inserito nella<br />

vita democratica, e nei decenni successivi.<br />

Il patto russo-tedesco fu un passaggio<br />

certo cruciale. Il “partito nuovo” di Togliatti<br />

poté però avvalersi di alcuni punti<br />

di forza che vanno a merito del suo leader.<br />

Il primo di questi fu l’affermazione<br />

della “ via nazionale al socialismo”, sostenuta<br />

con qualche disinvoltura nel<br />

quadro, tuttavia, di un sistema di alleanze<br />

sempre più esteso nel tempo, e fin<br />

dai primi anni del dopoguerra segnati<br />

dal patto di unità d’azione col Partito<br />

Socialista.<br />

Un altro punto di forza fu la politica culturale<br />

di Togliatti che si avvalse dell’uso<br />

degli scritti di Antonio Gramsci, che già a<br />

Mosca furono nel suo pieno possesso.<br />

La teoria della “egemonia della classe<br />

operaia” venne imposta in Italia, e altrove,<br />

come una novità assoluta rispetto alla<br />

dittatura del proletariato nell’Urss e<br />

l’intellighentsia di sinistra accettò l’affermazione<br />

come un dogma. Soltanto alla<br />

metà degli anni ’70 un saggio su “Mondo<br />

Operaio” di Massimo Salvadori obiettò<br />

che in realtà l’espressione “egemonia<br />

della classe operaia” era solo la traduzione,<br />

per l’Occidente, della leninista<br />

“dittatura del proletariato”. <strong>In</strong> ogni caso,<br />

l’egemonia culturale del Pci era ormai<br />

una realtà, e una realtà restò anche la<br />

“novità” della definizione gramsciana. La<br />

politica nei confronti del mondo cattolico<br />

avviata nel lontano 1947 con l’approvazione<br />

alla Costituente dell’articolo 7 della<br />

Costituzione fu un’altro caposaldo della<br />

strategia di Togliatti, sviluppata peral-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

tro dai successori, e con un convincimento<br />

partecipe da Enrico Berlinguer<br />

che la portò alle sue conseguenze e, vedremo,<br />

alla sua fine.<br />

La “solidarietà nazionale”<br />

e la sua parabola<br />

Senza la pretesa di ricostruire nei dettagli<br />

la storia del Pci nei decenni seguiti alla<br />

segreteria di Togliatti, basterà qui ricordare<br />

che con la prima metà degli anni<br />

‘70, con l’avvio della strategia del<br />

“compromesso storico” di Berlinguer e<br />

con la formazione, all’indomani delle elezioni<br />

del 20 giugno 1976, dei governi<br />

della Solidarietà Nazionale di Giulio Andreotti,<br />

il Pci raggiunse il suo più importante<br />

risultato politico, quello dell’ingresso<br />

nell’area di governo – sia pure con<br />

voto parlamentare esterno – dalla quale<br />

fino ad allora, soprattutto per ragioni internazionali,<br />

era stato tenuto lontano.<br />

<strong>In</strong> verità, nessuno nella Dc pensò a un<br />

ingresso dei comunisti nel governo, ma<br />

la presenza nella maggioranza assicurava<br />

al partito di Berlinguer una influenza<br />

decisiva, e ciò anche rispetto agli anni<br />

precedenti, all’era dell’arco costituzionale<br />

e del consociativismo.<br />

La parabola della permanenza del Pci<br />

nell’area di governo in verità durò poco,<br />

fu intensa e drammatica, costellata dalla<br />

rivolta della sinistra estrema, la mitica<br />

“generazione del 77”, e nella parte finale<br />

segnata drammaticamente dall’uccisione<br />

di Moro nella “prigione del Popolo”<br />

delle Br.<br />

Gli eventi di quegli anni furono raccontati<br />

in un libro che ne dette conto sulla base<br />

dei fatti allora noti (Arturo Gismondi:<br />

“Alle soglie del potere”, Sugarco 1985).<br />

Dell’abbandono clamoroso e quasi re-<br />

93<br />

pentino della “solidarietà nazionale”, sei<br />

mesi dopo la morte di Moro, si dettero diverse<br />

spiegazioni. E queste, anziché alternative,<br />

erano in realtà la sommatoria<br />

di difficoltà, che alla fine apparvero dinanzi<br />

a Berlinguer e al gruppo dirigente<br />

del Pci come insostenibili. <strong>In</strong> un’intervista<br />

concessa a chi scrive Gerardo Chiaromonte<br />

affermò che “non era più possibile<br />

resistere”. Le ragioni venivano individuate<br />

nella politica interna, capaci tuttavia<br />

di determinare il la ragione principale<br />

del ritorno «di là dal guado».<br />

Subito all’indomani della morte di Moro,<br />

Enrico Berlinguer avvertì la situazione<br />

diversa venutasi a creare nei rapporti<br />

con la Dc ove il presidente scomparso<br />

era stato un po’ il garante nei rapporti col<br />

Pci. Moro, in verità, non aveva mai assicurato<br />

ai comunisti un ingresso pieno<br />

nella compagine di governo, ma certamente<br />

la situazione non era migliorata<br />

dopo il trauma che aveva colpito fin nelle<br />

fibre la Dc, una parte della quale aveva<br />

subito la durezza con la quale il Pci si<br />

oppose a qualsiasi tentativo di salvare,<br />

con qualche forma di trattativa, la vita<br />

del leader democristiano.<br />

La morte di Moro accentuò le difficoltà,<br />

giacché il Pci si trovava da tempo, e fin<br />

da prima della tragedia che colpì la democrazia<br />

italiana, in crescenti difficoltà<br />

come sostenitore di un governo del quale,<br />

oltre a tutto, non faceva parte. E soprattutto<br />

per la sua base, che non capì<br />

certi sacrifici e la famosa “austerità” predicata<br />

da Enrico Berlinguer.<br />

Già nell’anno precedente, il 1977, il partito<br />

si era dovuto misurare con una base<br />

che sotto il profilo sociale, e sotto quello<br />

politico, manifestava insofferenze crescenti,<br />

fino a dar vita a ribellioni sociali


estese, specialmente nelle Università, e<br />

la comparsa all’orizzonte politico del terrorrorismo.<br />

<strong>In</strong> più, nei primi mesi del<br />

1978 vi furono risultati elettorali parzialissimi,<br />

ma che fornirono al gruppo dirigente<br />

comunista segnali preoccupanti. E<br />

vi furono alcuni referendum, fra i quali<br />

uno sul finanziamento pubblico dei partiti<br />

che, patrocinato pressoché dai soli radicali,<br />

ancorché respinto manifestò,<br />

sempre agli occhi delle Botteghe Oscure,<br />

segni di pericoloso sbandamento nel<br />

corpo elettorale.<br />

Si aggiunse, dopo la cacciata a seguito<br />

di una campagna mediatica che resta<br />

una della pagine più torbide di quei tempi,<br />

del Presidente della Repubblica Leone<br />

dal Quirinale seguita dall’elezione di<br />

un nuovo Capo dello Stato.<br />

Il candidato del Pci era, anche se si badò<br />

all’inizio a non rivelarlo, Ugo La Malfa,<br />

giudicato dal Pci il solo garante possibile<br />

dopo la morte di Moro. L’operazione,<br />

nonostante un assenso di massima<br />

da parte Dc, fallì per l’opposizione di<br />

Craxi, che rivendicò perentoriamente la<br />

regole della successione di un socialista<br />

a un democristiano. La Dc si limitò ad<br />

accettare un candidato del Psi diverso<br />

da quello di Craxi, che aveva indicato<br />

nell’ordine il giurista Giuliano Vassalli,<br />

poi quella di Antonio Giolitti.<br />

L’elezione di Pertini, in quel contesto,<br />

venne vissuta dal Pci come una sconfitta,<br />

anche perché la Dc non si sentì di<br />

contrastare Craxi, il quale apparve come<br />

il vincitore. Proprio Craxi che aveva contrastato<br />

duramente, durante i 55 giorni<br />

della prigionia di Moro, il “fronte della fermezza”<br />

qualificandosi, anche per l’occasione,<br />

come deciso oppositore del rapporto<br />

privilegiato con la Dc e ancor più<br />

del disegno che a quel rapporto sottin-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

94<br />

tendeva, il compromesso storico e coalizione<br />

della Solidarietà Nazionale.<br />

Il ritorno in campo<br />

della politica estera<br />

Ben altro, però, era in campo al di là dello<br />

stesso tema del governo Andreotti, e<br />

perfino della generale preoccupazione<br />

per un ordine pubblico dominato dallo<br />

spettro del terrorismo. La ragione ufficiale<br />

addotta dal Pci verso la fine di quel difficile<br />

anno 1978 per aprire la crisi di governo<br />

fu la decisione maturata nella<br />

Commissione europea di avviare la costruzione<br />

di un sistema monetario, lo<br />

Sme, nel quale le diverse monete nazionali<br />

erano legate per la prima volta da<br />

una banda di oscillazione, verso l’alto e<br />

verso il basso. Era il primo passo verso<br />

la moneta unica europea, che si realizzerà<br />

solo nella seconda metà degli anni<br />

Novanta con l’euro. Berlinguer non ritenne<br />

però di poter imporre al suo partito un<br />

impegno internazionale giudicato oneroso.<br />

Al punto da decidere all’inizio del<br />

1979 di votare contro lo Sme, avviando<br />

così sostanzialmente il ritorno all’opposizione.<br />

Apparve successivamente chiaro che a<br />

imporre un passo indietro tanto gravoso,<br />

e a renderlo definitivo, fu un altro argomento,<br />

e ben più pesante, di politica<br />

estera: la comparsa all’orizzonte europeo<br />

della “crisi dei missili”. Questa<br />

esplose all’indomani dell’installazione da<br />

parte dei sovietici dei missili a medio<br />

raggio rivolti contro i Paesi dell’Europa<br />

occidentale.<br />

Fu una mossa risultata, in seguito, alquanto<br />

disperata, ma che tendeva a separare<br />

gli interessi militari degli Stati Uniti,<br />

giunti a un accordo e a un equilibrio<br />

missilistico per le armi a lunga gittata, ri-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

spetto agli interessi dei Paesi europei<br />

della Nato.<br />

Il pericolo aveva avviato, da parte del<br />

cancelliere tedesco Schmidt, un’attività<br />

diplomatica volta a rispondere alla minaccia<br />

sovietica con l’installazione sul<br />

territorio tedesco e su quello italiano (la<br />

Francia si era sottratta col pretesto della<br />

sua autosufficienza nucleare) di rampe<br />

di missili americani a media gittata, i<br />

Pershing e i Cruise, destinati a pesare in<br />

modo più specifico sul teatro europeo.<br />

Alla realizzazione, cioè, sul territorio europeo<br />

e in particolare su quello italiano<br />

dei missili a media gittata destinati a<br />

contrapporsi alle rampe missilistiche dei<br />

sovietici nell’Europa orientale. A <strong>questo</strong><br />

scopo si adopererà in modo particolare<br />

Francesco Cossiga, che non durò molta<br />

fatica a tirare dalla sua parte Bettino<br />

Craxi, tornato all’alleanza con la Dc e gli<br />

altri partiti del centro laico e democratico<br />

dopo la fine della Solidarietà Nazionale.<br />

<strong>In</strong> definitiva, l’orizzonte internazionale si<br />

era fatto troppo impegnativo per un partito,<br />

come il Pci, al quale si chiedeva a<br />

quel punto di fornire un appoggio esterno<br />

pressoché gratuito e privo di prospettive<br />

nel senso di una partecipazione organica<br />

al governo, ormai tramontata.<br />

L’onerosità del prezzo da pagare venne<br />

giudicata dal vertice del Pci insopportabile.<br />

La decisione, fra l’altro, rivelò una<br />

realtà assai diversa dagli “strappi” rispetto<br />

alla politica sovietica dei quali si era<br />

parlato tanto, e con tanta longanimità,<br />

negli anni precedenti. Apparve chiaro in<br />

ogni caso che Berlinguer, precipitato in<br />

una crisi politica profonda per quel che<br />

riguardava le ambizioni di governo del<br />

suo partito, messo dinanzi a scelte difficili<br />

sul piano internazionale, aveva scel-<br />

95<br />

to di trovare rifugio nel pur difficile e sofferto<br />

rapporto con l’Urss. Questa decisione<br />

ebbe anche il risultato di rassicurare<br />

la base del partito che, chiamata a<br />

partecipare alle manifestazioni e ai cortei<br />

contro i missili, si ritrovò finalmente in<br />

un clima più naturale rispetto alla sua<br />

storia e ai suoi orientamenti di quanto<br />

non si fosse trovata negli ultimi anni.<br />

Alcuni degli “strappi” precedenti, dal<br />

1968 di Praga ai successivi, furono in<br />

realtà riassorbiti nel tempo, e nei rapporti<br />

fra il Pci e il Pcus. La stessa condanna,<br />

per la prima volta aperta almeno nel<br />

linguaggio, dell’invasione sovietica della<br />

Cecoslovacchia nell’agosto di dieci anni<br />

prima era stata pagata, in realtà, con alcuni<br />

cedimenti “riparatori”: la cacciata<br />

del gruppo del “Manifesto”, spintosi su<br />

posizioni eccessivamente critiche verso<br />

il regime sovietico, e la destituzione da<br />

responsabile dell’Ufficio Esteri del partito<br />

di Carlo Galluzzi, che nella vicenda aveva<br />

assunto una posizione di punta, o almeno<br />

individuata come tale da Mosca.<br />

Resta il fatto che, nella situazione nuova<br />

venutasi a creare, il Pci di Berlinguer si<br />

bloccò, e ciò è particolarmente indicativo,<br />

una volta posto dinanzi a una questione<br />

strategica come quella posta dalla<br />

installazione dei missili a media gittata<br />

SS20, e alla risposta occidentale. Si<br />

bloccò, in definitiva, dinanzi alla contrapposizione<br />

delle strategie militari in Europa<br />

Occidentale. Ed è a <strong>questo</strong> punto, in<br />

effetti, che Berlinguer decise di non por<br />

tempo in mezzo e di tornare “al di là del<br />

guado”.<br />

Il primo smacco elettorale<br />

di Berlinguer<br />

La questione dello Sme, infinitamente<br />

meno gravosa per i rapporti politici, ap


parve comunque un buon pretesto, o il<br />

migliore possibile da esibire, per ritirarsi<br />

all’opposizione, anche in vista delle elezioni<br />

politiche fissate per il il 3-4 giugno<br />

1979, seguite una settimana dopo da<br />

quelle europee.<br />

Il risultato delle elezioni politiche segnarono<br />

il primo sostanzioso passo indietro<br />

rispetto all’avanzata costante delle liste<br />

comuniste nell’intero dopoguerra repubblicano.<br />

Il Pci perdette 4 punti percentuali,<br />

passando alle “politiche” dal 34,4 al<br />

30,4%. L’impressione politica suscitata<br />

da un risultato elettorale che pure non risultava<br />

rovinoso, fu quella di un colpo<br />

d’arresto nei confronti di una strategia,<br />

quella del “compromesso storico” sulla<br />

quale il Pci di Berlinguer aveva impostato<br />

decisamente il decennio degli anni<br />

’70. Alle successive elezioni europee del<br />

10-11 giugno 1979 il Pci arretrò ancora,<br />

sia pure di poco, fermandosi al 29,9 per<br />

cento, un soffio sotto la soglia del 30.<br />

I voti ottenuti dal Pci, beninteso, non erano<br />

pochi ma apparvero, ancora più che<br />

negli anni e nei mesi precedenti, difficilmente<br />

spendibili in termini di governo.<br />

Nel frattempo era ripresa la collaborazione<br />

della Dc col Psici e con i partiti laici.<br />

La sconfitta era a <strong>questo</strong> punto chiara, e<br />

ad essa Berlinguer reagì con con l’arroccamento<br />

all’opposizione, motivato in seguito<br />

da pregiudiziali basate non più sulle<br />

affinità o diversità delle alleanze e dei<br />

programmi, ma sulla “diversità” rispetto<br />

alla questione morale fra le diverse forze<br />

politiche. <strong>In</strong>somma, Berlinguer, e con lui<br />

tutto il partito, preferirono scavare una<br />

barriera di difformità etiche, supponenti<br />

da parte comunista una superiorità intellettuale,<br />

antropologica, morale, che Pasolini<br />

aveva sintetizzato qualche anno<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

96<br />

prima, in uno dei suoi “scritti corsari” sul<br />

Corriere nella formula «un partito pulito<br />

in un Paese sporco, un paese sano in un<br />

Paese malato...».<br />

La “questione morale” fu la barriera, elevata<br />

dopo le sconfitte elettorali del 1979,<br />

e dopo l’uscita dalla maggioranza di governo,<br />

una barriera che assunse come<br />

pretesto le prime polemiche nate dopo il<br />

rovinoso terremoto in Campania e Basilicata<br />

del 1980, e a seguito delle polemiche<br />

scoppiate subito dopo a proposito<br />

delle azioni di soccorso alle popolazioni<br />

terremotate giudicato frettolosamente<br />

come insufficienti e anzi viziate dal malaffare.<br />

E fu proprio durante un viaggio nelle regioni<br />

colpite dal sisma che Enrico Berlinguer<br />

scatenò la sua offensiva. Il segretario<br />

del Pci illustrò anzi la politica dell’alternativa<br />

democratica consistente in un<br />

concreto distacco dalla precedente strategia<br />

del compromesso storico all’indomani<br />

del terremoto con un discorso a<br />

Salerno che dette vita alla retorica di una<br />

Salerno Due. Si faceva riferimento alla<br />

strategia dettata nel lontano 1944, e<br />

sempre nella città campana, da Togliatti,<br />

tornato appena dall’Urss. La relazione<br />

fra i due eventi, assai vaga, tutta politica<br />

quella di decenni prima, tutta diversa<br />

quella del presente, servì a conferire all’evento<br />

un significato storico tutt’altro<br />

che occasionale e passeggero.<br />

La politica suggerita dalla “questione<br />

morale “ e dalla diversità comunista avrà<br />

un esito disastroso nei confronti del rapporto<br />

col Psi di Craxi, contro il quale in<br />

primo luogo verrà agitata chiudendo la<br />

possibilità, aperta dal riconosciuto fallimento<br />

del compromesso storico, di perseguire<br />

l’alternativa di sinistra che pure<br />

poteva contare ancora, in Parlamento,


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

su una forza di partenza rispettabile fra il<br />

Pci e i partiti che si rifacevano al socialismo<br />

e alla sinistra. L’alternativa di sinistra<br />

postulava tuttavia, per essere proposta,<br />

sia pure per il futuro, una revisione<br />

da parte del Pci dopo le polemiche laceranti<br />

create attorno alla politica di Craxi<br />

all’indomani della sua assunzione della<br />

segreteria del partito nell’estate 1976.<br />

Sarebbe stato anche necessario un ripensamento<br />

sul socialismo europeo, in<br />

specie dinanzi agli evidenti scricchiolii<br />

dell’edificio comunista in Europa. Un<br />

percorso, quest’ultimo, reso impossibile<br />

dalla ripresa dei rapporti con Mosca per<br />

l’affare dei missili, oltreché dal rischio di<br />

regalare a Craxi, che del socialismo europeo<br />

si era fatto apostolo in Italia, un argomento<br />

decisivo a suo favore.<br />

<strong>In</strong> ogni caso, né la base galvanizzata<br />

dal riconoscimento di una sua superiorità<br />

etica e antropologica, né il gruppo<br />

dirigente, né l’apparato culturale erano<br />

in grado di proporsi una simile prospettiva<br />

che avrebbe comportato il rischio di<br />

un passaggio dell’egemonia politica<br />

della sinistra dal Pci al socialismo democratico.<br />

Le nuove posizioni di Berlinguer suscitarono<br />

soprattuto a sinistra e nel Psi polemiche,<br />

e fra l’altro ovvie obiezioni e accuse<br />

di impotenza politica, di immobilità.<br />

Esse rivelarono anche, però, l’esistenza<br />

di una strategia conservatrice della quale<br />

il Pci non tardò a giovarsi. Anche perché<br />

la scelta comunista fornì nell’immediato<br />

alla Dc delle opportunità delle quali<br />

un’area consistente di quel partito non<br />

tardò ad approfittare. Alla sinistra democristiana<br />

di De Mita, e non solo ad essa,<br />

si offrì una sponda amplissima per tenere<br />

a bada la politica riformista avviata<br />

energicamente dal Psi di Craxi. La Dc,<br />

97<br />

insomma, e le forze conservatrici si trovarono<br />

a disporre come risultato dell’ostilità<br />

verso il craxismo del Pci di una potenza<br />

di fuoco preziosa ai fini della conservazione<br />

degli equilibri politici. E tutto<br />

ciò mentre Berlinguer dal suo canto riconquistava<br />

una sorta di monopolio dell’opposizione<br />

di massa nel Paese.<br />

E, un po’ paradossalmente ma non tanto,<br />

la nuova strategia del Pci fruì dell’appoggio<br />

di vasta parte dell’establishment<br />

politico che si sentì minacciato dalla forza<br />

e dalla determinazione del Psi tornato<br />

a essere un protagonista dinamico<br />

nelle vicende nazionali.<br />

Il Pci restava disponibile nell’animo dei<br />

militanti e del grosso degli elettori a una<br />

rivoluzione immaginaria, che non farà<br />

mai, che non tenterà neppure di fare,<br />

conservando invece le sue forze, pur<br />

sempre poderose, per un futuro del tutto<br />

incerto, ma nel quale il partito di Berlinguer<br />

conservava posizioni importanti. <strong>In</strong><br />

effetti nelle elezioni politiche successive<br />

a quelle del 1979, celebrate nel giugno<br />

1983, dopo quattro anni di permanenza<br />

nel limbo della “diversità” il Pci riconquistò<br />

il 30% dei voti (29,9) mentre il Psi riuscì<br />

faticosamente a raggiungere l’11%,<br />

bloccato nella sua crescita dalla opposizione<br />

nel corpo sciale del Paese del coriaceo<br />

blocco di potere comunista, e al<br />

centro e sulla destra dall’opposizione,<br />

più sotto traccia ma persistente e tenace,<br />

della Dc nella versione della demitiana<br />

“sinistra di base”.<br />

Rileggiamo, con Baudrillard: «Il Pc è l’ultimo<br />

garante della posta in gioco, non<br />

importa se di simulazione. Ecco perché<br />

la sua esistenza, la sua legittimità sono<br />

tabù da un lato all’altro dello schieramento<br />

politico... Il Pci ha fatto un buon


lavoro... ha bloccato il volano della storia<br />

al punto arretrato di una opposizione impotente<br />

e nostalgica, salvando così l’“immaginario“<br />

del potere di sinistra e la realtà<br />

di quello di destra».<br />

Il “soccorso bianco” in aiuto del Pci<br />

La Dc non cessò mai di coltivare, nonostante<br />

tutto, la teoria dei “due forni”, così<br />

definita da Giulio Andreotti, consistente<br />

in una alleanza particolare e di governo<br />

con il Psi e gli altri partiti laici e democratici,<br />

e nella perpetuazione del “regime<br />

consociativo” destinato ad associare il<br />

Pci non più al governo, ma all’uso del<br />

potere reale, e non certo sotterraneo.<br />

Ma non fu solo dalla Dc, e da parte del<br />

mondo cattolico, che venne quello che<br />

Craxi e il Psi definirono il “soccorso bianco”<br />

al partito comunista in grave crisi di<br />

prospettive politiche, dopo l’abbandono<br />

dell’alleanza di governo con la Dc, e<br />

nonostante la sua conclamata “diversità”<br />

morale, culturale e antropologica teorizzata<br />

da Berlinguer e dai suoi successori.<br />

L’ostilità nei confronti del Psi craxiano<br />

era condivisa da settori consistenti dell’opinione<br />

e dell’apparato mediatico, da<br />

ambienti borghesi, editoriali soprattutto,<br />

nei quali il Pci trovò simpatie e appoggi<br />

che gli evitarono di cadere nell’isolamento<br />

al quale pure si era candidato.<br />

Fu però senza dubbio Eugenio Scalfari,<br />

editore e demiurgo politico, a muoversi<br />

con maggiore coerenza, determinazione<br />

e spregiudicatezza. Fu, la sua, una avventura<br />

contro la quale il Psi polemizzò<br />

vigorosamente denunciando le mene del<br />

“partito editoriale e irresponsabile” sceso<br />

in campo a contrastare gli unici equilibri<br />

politici possibili dopo il ritorno di Berlinguer<br />

all’opposizione. L’azione del “partito<br />

di Scalfari” contribuì senza dubbio,<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

98<br />

per tornare a Baudrillard, ad assicurare<br />

la sopravvivenza di una opposizione arretrata<br />

e velleitaria, immaginaria dunque,<br />

dinanzi a poteri reali e di fatto conservatori.<br />

Il compito propostosi e portato a termine<br />

dal fondatore di “Repubblica” e dal “partito<br />

giornalistico” da lui messo in campo<br />

raggiunse risultati indubbi nella sopravvivenza<br />

della forza organizzata comunista.<br />

Vi fu per tutti gli anni ’80 una sorta di<br />

osmosi fra l’opinione di sinistra, sempre<br />

più confusa man mano che avanzava la<br />

crisi mondiale del comunismo, e il collasso<br />

dell’Urss da una parte, e settori importanti,<br />

e influenti, della società e della<br />

cultura di origine e di ispirazione borghesi.<br />

Il risultato fu quello di tenere insieme,<br />

di salvare confinandola per allora in una<br />

sorta di riserva antropologica, motivi e<br />

suggestioni “di sinistra” con contenuti,<br />

quanto meno con orientamenti di diversa<br />

e di opposta natura.<br />

Il principale punto di convergenza fra<br />

Scalfari e Berlinguer, fra la corazzata<br />

“Repubblica” e il Pci, fu l’anti-socialismo,<br />

nella forma contingente dell’anticraxismo.<br />

Questo fu seminato dal Pci come<br />

alternativa, dinanzi alla prospettiva di<br />

una rovina del mondo comunista e contro<br />

la possibilità di una svolta socialista e<br />

democratica. Contro questa possibile<br />

evoluzione il blocco comunista e i suoi<br />

alleati riuscirono a cementare un fronte<br />

composito, ma compatto nella sua ispirazione<br />

principale, l’anticraxismo. <strong>In</strong><br />

<strong>questo</strong> blocco si potevano riconoscere<br />

motivi e suggestioni conservatori con<br />

motivi nei quali era visibile l’estremismo<br />

e il settarismo di una base fedele ai miti<br />

di un marxismo ridotto ormai a una sorta<br />

di sacello dogmatico.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

L’anticraxismo assunse aspetti viscerali<br />

poiché il nuovo Psi metteva in discussione,<br />

coi princìpi ormai indifendibili del “socialismo<br />

reale”, poteri concreti ed estesi:<br />

quelli delle nomenklature comuniste, diffuse<br />

in modo reticolare nel Paese. <strong>In</strong> più,<br />

con la battaglia seguita dal referendum<br />

sulla contingenza, il craxismo inflisse<br />

una sconfitta storica al massimalismo<br />

sindacale della Cgil e ciò non gli procurò<br />

certo simpatie nella più forte fra le organizzazioni<br />

di massa in Italia. La campagna<br />

contro i socialisti e contro Craxi, infine,<br />

e soprattutto la predicazione sulla<br />

“diversità” etica dei comunisti risultò efficace<br />

poiché in certo senso risarcì, avvalendosi<br />

dell’appoggio di tanta parte della<br />

cultura e dell’apparato mediatico, molte<br />

delle frustrazioni e delusioni del mondo<br />

comunista. La “diversità”, insomma, la<br />

superiorità etica, intellettuale e antropologica<br />

fungeva da gratificazione per le<br />

delusioni patite dal popolo comunista.<br />

E le delusioni certo non mancavano: sul<br />

piano interno, per la fine ingloriosa del<br />

“compromesso storico”, un disegno dal<br />

respiro grandioso dissoltosi nel giro di<br />

pochi anni, e sul piano internazionale dinanzi<br />

ai segni sempre più visibili di disfacimento<br />

che venivano dall’impero sovietico.<br />

L’influenza del mondo comunista,<br />

negli ultimi tempi, negli anni del consociativismo,<br />

della partecipazione del partito<br />

e delle sue ramificazioni al potere reale,<br />

esteso sul territorio, si era ampliato a<br />

strati diversi dalla mitica classe operaia,<br />

avevano trovato, nei settori della cultura,<br />

del pubblico impiego, della scuola, dell’Università,<br />

nel mondo mediatico, campi<br />

nei quali trovare consolazioni non prive<br />

di concretezza.<br />

<strong>In</strong> fondo Scalfari, acquisendo i valori della<br />

“diversità” proclamati da Berlinguer,<br />

99<br />

fece un’operazione spregiudicata ma<br />

proficua, convincendo e in certo senso<br />

legando al suo impero editoriale una opinione<br />

pubblica vastissima, e convincendola<br />

che sì, sul piano politico avrà pure<br />

sbagliato tutto, ma che nonostante gli errori<br />

e le abbacinazioni costituiva la parte<br />

migliore del Paese, la predestinata fra<br />

l’altro a portarlo a salvamento.<br />

L’antisocialismo che individuò in Craxi il<br />

nemico, il mostro, trovava a sua volta<br />

nella storia comunista, con le vicende di<br />

Trotzkj, di Tito, degli occasionali ingombri<br />

italiani (si pensi ai Cucchi e Magnani<br />

dei tardi anni ’40, ma soprattutto alla<br />

ostilità nei confronti dei Saragat, dei Silone)<br />

una fonte di pregiudizio mai estinto.<br />

E non sorprende neppure la relativa<br />

facilità, una volta scomparsa nella rovina<br />

l’Urss, e lo stesso Craxi, di trasferire il<br />

carico di ostilità, la fobia ossessiva coltivata<br />

nei confronti del leader socialista<br />

sulle spalle del nuovo nemico Silvio Berlusconi.<br />

L’una e l’altra fobia hanno funzionato per<br />

tutti questi anni da motivo unificante di<br />

quelle alleanze nelle quali prendeva via<br />

via corpo l’unità fra campagne e luoghi<br />

comuni “di destra” e atteggiamenti e stati<br />

d’animo “di sinistra”. E siamo sempre<br />

all’intuizione di Baudrillard.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Il vaso di Pandora<br />

degli archivi sovietici<br />

di Giancarlo Lehner<br />

Le date sono il sale della storiografia e<br />

in certi casi marcano la soglia tra la nebbia<br />

della disinformazione e il nitore della<br />

verità.<br />

Il 19 agosto 1991 è una giornata memorabile,<br />

dimostratasi decisiva per riempire<br />

le molte pagine bianche della storia comunista<br />

e per smascherare sbianchettamenti<br />

e dissimulazioni dei comunisti, non<br />

esclusi quelli italiani.<br />

Non è ancora l’alba e l’agenzia Tass annuncia<br />

la sostituzione di Gorbaciov con<br />

Ghennadi Ianaiev, per gravi motivi di salute.<br />

Che si tratti di un putsch e non di<br />

un’improvvisa patologia invalidante lo si<br />

evince dall’ultima riga del lancio, dove si<br />

parla di stato d’emergenza della durata di<br />

sei mesi.<br />

Alle ore 7 e 12 si apprendono i nomi dei<br />

veri capi: Valentin Pavlov (primo ministro),<br />

Vladimir Kriuchkov (Kgb), Boris Pugo<br />

(<strong>In</strong>terni), Dmitri Iazov (Difesa). Fa<br />

pensare la stranezza che siano non avversari,<br />

bensì stretti colllaboratori del<br />

presidente destituito, tutti personalmente<br />

nominati da Gorby.<br />

Il centro di Mosca è invaso dai tanks della<br />

divisione Tamanskaja, quando, intorno, alle<br />

ore 9 si viene a sapere che Gorbaciov è<br />

agli arresti domiciliari.<br />

Ebbene, proprio in tali accadimenti si cela<br />

l’origine di quell’evento epocale che fu<br />

l’apertura degli archivi sovietici, in particolare,<br />

dell’archivio del Comitato Centrale<br />

del Pcus situato in via Ilinka a Mosca.<br />

100<br />

Come spesso accade nelle cose umane<br />

la svolta è il prodotto di una beffarda eterogenesi<br />

dei fini.<br />

I neobolscevichi guidati da Pavlov (ma il<br />

“cervello” è Kriuchkov) tentano l’estrema<br />

carta, il colpo di Stato, per rimettere in<br />

piedi il regime ed il partito. È un golpe<br />

anomalo e denso di ambiguità – si dubita<br />

che lo stesso Gorbaciov abbia mandato<br />

avanti i golpisti –, tuttavia, l’azione di<br />

forza appare subito debole ed improbabile,<br />

certamente priva dell’appoggio convinto<br />

dell’Armata rossa, del Gru e soprattutto<br />

dei colonnelli del Kgb.<br />

Armata rossa e Lubjanka, certo, non potevano<br />

vedere di buon occhio un’operazione<br />

politica violenta che, fra gli altri obbiettivi,<br />

mirava a ripristinare la tradizionale<br />

egemonia del Pcus sugli apparati dello<br />

Stato, un antico tradizionale predominio,<br />

messo in discussione la prima volta<br />

da Berija che finì, per quel tentativo, ammazzato.<br />

Dopo il boia georgiano, altri osarono indebolire,<br />

se non colpire, il primato della<br />

“politica”, cioè del Pcus, rimanendo sistematicamente<br />

travolti.<br />

È solo con l’avvento di Andropov che tutto<br />

si ribalta: dal novembre 1982, è il Kgb<br />

a dominare, tant’è che il partito comunista<br />

è costretto ad operare sotto il controllo<br />

della Lubjanka.<br />

Fatto è che il Kgb ha selezionato un<br />

gruppo dirigente di gran lunga più preparato,<br />

aggiornato, informato dei “politici”


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

dediti all’alcool piuttosto che alla cultura<br />

di governo.<br />

Soltanto alla Lubjanka, del resto, si ha il<br />

quadro veritiero del disastro dell’Unione<br />

sovietica, dove, ad esempio, un terzo del<br />

petrolio – tradotto in dollari son cifre da<br />

capogiro – si perde perché dadi e bulloni<br />

non sono ben stretti. <strong>In</strong> Urss – il detto è<br />

sulla bocca di tutti – lo Stato finge di pagare<br />

ed i lavoratori fingono di lavorare,<br />

evitando di serrare i bulloni.<br />

Andropov ed i suoi “ragazzi” (Gorbaciov,<br />

Aliev, Shevardnaze, etc) hanno spezzato<br />

ogni resistenza dei “politici”, usando ogni<br />

mezzo, finanche una lunga serie di stupefacenti<br />

sciagure automobilistiche. Gli<br />

uomini migliori del Pcus, quelli che potevano<br />

ostacolare l’irresistibile ascesa di<br />

Andropov, cominciano a sbandare paurosamente<br />

in curva... sui rettilinei; oppure,<br />

a morire maciullati per l’impatto laterale<br />

di camion sbucati all’improvviso da strade<br />

laterali di autostrade... prive di incroci.<br />

Adesso, col golpe di agosto, Pavlov cerca<br />

di tornare all’antico: basta perestrojka,<br />

glasnost ed egemonia dei servizi, tutto il<br />

potere di nuovo al partito.<br />

Lo strano caso di Romano Prodi,<br />

il cane di Pavlov, anzi di George Soros<br />

Fuori dell’Urss è tutto un coro di proteste<br />

e di condanne. Lo stesso Pci è disorientato<br />

e sceglie di stare col “prigioniero”<br />

Gorby, che in verità sta prendendo<br />

i bagni nel mare di Crimea, giocando<br />

con la ciambella a forma di papera della<br />

nipotina.<br />

A parte Kim Il Sung, Fidel Castro e qualche<br />

alcolizzato dell’estremo Nord, l’unico<br />

che saluta il golpe come prodromo di una<br />

ripresa dell’economia sovietica e, comunque,<br />

come evento per nulla depreca-<br />

101<br />

bile, anzi normale e positivo, è Romano<br />

Prodi.<br />

Certo, è in affari con l’istituto Plekhanov,<br />

ma solo l’ignoranza totale delle cose sovietiche<br />

può spingerlo a rilasciare le seguente<br />

allucinata intervista al “Corsera” :<br />

«Conosco bene Pavlov... Direi che per<br />

certi versi quella che ha fatto in queste<br />

ore è una scelta coerente. Mi aspetto entro<br />

pochi giorni passi decisivi per quanto<br />

riguarda la gestione dell’economia».<br />

Dalle sue parole sembra che non sia accaduto<br />

nulla di importante, anzi Prodi ci<br />

tiene a precisare che in Urss la vita continua:<br />

«Il telex che abbiamo avuto stamattina<br />

dal nostro istituto parla chiaro.<br />

L’anno accademico, la cui inaugurazione<br />

era prevista proprio per oggi, è regolarmente<br />

iniziato».<br />

A testimonianza del grado di attendibilità<br />

delle informazioni raccolte dalla Nomisma<br />

di Mosca, Prodi aveva già preso una<br />

terribile cantonata pochi giorni prima, affermando<br />

che non c’era al mondo Paese<br />

più stabile dell’Urss.<br />

La Nomisma, insomma, gli forniva non<br />

dati oggettivi, ma la paccottiglia della<br />

propaganda comunista, facendo, così, di<br />

Prodi il cane di Pavlov.<br />

Adesso, davanti al golpe, la miopia del<br />

manager, interessato a conservare il rapporto<br />

di consulente anche con i golpisti,<br />

tocca livelli inauditi.<br />

Ecco le sue previsioni tutte orientate a<br />

dare per consolidato il putsch d’agosto:<br />

«Non mi pare il caso di aspettarsi una<br />

sollevazione popolare a favore di Gorbaciov...<br />

E secondo i nostri analisti nemmeno<br />

Boris Eltsin, che è assai più popolare<br />

dispone di una rete capace di promuovere<br />

una sollevazione [sic!]...».<br />

C’è, però, un’altra possibile interpretazione,<br />

che rende giustizia all’intelligenza lu


ciferina di Prodi. Non si trattò di ignoranza,<br />

bensì di una strategia dell’attenzione<br />

dettata dalle velleità di George Soros, il<br />

finanziere invasivo che ha sempre denotato<br />

la vocazione a cambiare i connotati<br />

alle monete (vedi la svalutazione della lira<br />

di oltre il 30% col primo governo Amato),<br />

alle economie nazionali ed alla geografia<br />

politica degli Stati.<br />

Soros aveva proposto al Cremlino un<br />

progetto per riformare l’economia sovietica,<br />

a partire dall’agricoltura e dalla distribuzione<br />

dei prodotti alimentari. Solo Pavlov<br />

pare gli avesse dato credito.<br />

Prodi, non va dimenticato, era, in quegli<br />

anni, uno stipendiato di Soros.<br />

Il retrogusto comico della tragedia<br />

Il giorno 20, inviato dall’“Avanti!”, arrivo a<br />

Mosca insieme all’indimenticabile, bravissimo<br />

Mauro Martini.<br />

Mauro, essendo più esperto di me, si mostra<br />

pessimista, mentre io, con l’ottimismo<br />

dell’ultimo arrivato in cremlinologia,<br />

non credo alla riuscita del golpe.<br />

È vero che un cingolato degli “Omon” ha<br />

orribilmente schiacciato quasi sotto i nostri<br />

occhi un povero ragazzo sulla via Arbat.<br />

È vero che le strade sono invase da<br />

un’interminabile fila di tanks e che anche<br />

la leggendaria Tverskaia – l’ex via Gorkij,<br />

quella del famigerato Hotel Lux – è ridotta<br />

ad accampamento di manipoli.<br />

È pur vero, però, che, appena si mette il<br />

naso fuori Mosca, la situazione appare<br />

ben diversa: il Kgb periferico finge di non<br />

saper niente dello stato d’emergenza,<br />

disapplicando in maniera conclamata gli<br />

ordini di Kriuchkov.<br />

Nella stessa Mosca, la gente circonda i<br />

carri, ci sale sopra e parlotta tranquillamente<br />

con i soldati, i quali fanno capire<br />

che non ci pensano proprio a sparare.<br />

E qualcuno di loro dalla torretta lo dice<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

102<br />

alto forte: “Non sparerò sul mio popolo”.<br />

Del resto, i golpisti non sono riusciti<br />

neanche a portare a termine le elementari<br />

operazioni preliminari: uccidere gli<br />

avversari col maggior sostegno popolare,<br />

come Anatoli A. Sobciak, il sindaco di<br />

San Pietroburgo, e, soprattutto, Eltsin,<br />

che viaggia sull’80 per cento dei consensi.<br />

Il fatto che Boris Nikolaevic’ stia lì in piedi<br />

sul carro armato a parlare ai moscoviti<br />

che verso i comunisti nutrono, più che<br />

mai, disprezzo conferma l’impressione a<br />

naso che gli ordini dei vertici non vengano<br />

affatto eseguiti.<br />

Gli agenti della forza Alfa, mandati ad arrestare<br />

— e certamente ad assassinare —<br />

Eltsin, non solo non obbediscono, ma lo<br />

aiutano a schivare altre possibili “visite” e,<br />

per giunta, prendono accordi per poterlo<br />

meglio preservare.<br />

A proteggere Eltsin, che accende la folla,<br />

chiamandola alla rivolta contro i golpisti,<br />

proprio accanto a lui, ci sono alcuni ufficiali<br />

del Kgb che avrebbero dovuto ammazzarlo.<br />

Altre personalità iscritte nella lista nera<br />

degli avversari da eliminare vengono sì<br />

arrestate, ma a scopo preventivo, cioè<br />

per garantir loro l’incolumità.<br />

Il presidente del Kgb, Kriuchkov, non<br />

controlla più niente. L’Armata rossa esegue<br />

sino ad un certo punto, rifiutando, a<br />

priori, il bagno di sangue. Lo stesso Gru,<br />

il servizio segreto militare, tentenna e<br />

prende tempo.<br />

Nell’arco di 72 ore, il golpe degli inetti finisce<br />

nel ridicolo con l’annuncio del forte<br />

raffreddore di Pavlov, il più inetto di tutti,<br />

che è scivolato dentro una bottiglia di<br />

vodka.<br />

L’occasione mancata<br />

Ringrazio la sorte d’avermi fatto trovare


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

lì, a Mosca, a vivere il momento in cui,<br />

grazie al contraccolpo del fallito golpe, il<br />

Pcus viene sciolto e posto fuori legge,<br />

mentre l’Urss stessa è già sulla strada<br />

d’essere derubricata a Csi.<br />

Potei essere, così, testimone oculare del<br />

botto epocale.<br />

Fu gioia grande ed anche l’inizio di un<br />

nuovo fondamentale percorso di ricerca.<br />

Non mi riferisco solo all’emozione d’aver<br />

personalmente partecipato, nella piazza<br />

della Lubjanka, all’abbattimento del monumento<br />

di quel pazzo assassino di Feliks<br />

Dzerzinski, il creatore della Ceka, la<br />

prima spietata polizia politica, una vera<br />

macchina di morte voluta da Lenin.<br />

L’essere stato più volte in Urss mi aveva<br />

consentito di conoscere personalità russe,<br />

come Mikhail Poltoranin, uomo di Eltsin,<br />

che si riveleranno preziose. Feci<br />

amicizia, fra gli altri, con Francesco Bigazzi,<br />

da anni a Mosca come corrispondente<br />

di agenzie e quotidiani.<br />

Ebbene, già nel settembre del 1991 sarei<br />

stato in grado di raccogliere una serie di<br />

documenti inconfutabili sui finanziamenti<br />

del Pcus al Pci, sulle società di comodo<br />

di import-export, sulle variegate illegalità<br />

commesse dai comunisti italiani, a cominciare<br />

dalle evasioni fiscali.<br />

Gli amici russi, che mi avrebbero aiutato<br />

nella ricerca, mi accennarono qualcosa<br />

sulla società “Maritalia” e sull’associazione<br />

per delinquere tra comunisti russi ed<br />

italiani nell’ambito delle frodi sia al fisco<br />

italiano che a quello sovietico.<br />

Tornato in Italia, avendo con me solo<br />

qualche carta sulle vittime italiane in<br />

Urss, anni Trenta e Quaranta, feci lo sbaglio<br />

di non chiedere un immediato contatto<br />

diretto con Craxi. Ne parlai con <strong>In</strong>tini,<br />

il quale, credo in perfetta buona fede,<br />

non avendo colto la portata politica di<br />

quanto gli prospettavo, si limitò a chiede-<br />

103<br />

re al nuovo direttore dell’“Avanti!”, Roberto<br />

Villetti, se poteva rimandarmi a Mosca<br />

per un paio di mesi.<br />

Villetti, anch’egli certamente in buona fede,<br />

rispose che gli servivo in redazione e,<br />

così, l’appuntamento con le carte-verità<br />

sul Pci fu rinviato di due anni.<br />

Un ritardo che si rivelò fatale.<br />

Quando, all’hotel Raphael, raccontai l’episodio<br />

a Craxi, il leader socialista fece<br />

un salto, sbiancò e pronunciò espressioni<br />

irripetibili.<br />

Quei documenti resi pubblici alla fine del<br />

1991 avrebbero probabilmente cambiato<br />

il corso degli eventi, rendendo impossibile<br />

Mani pulite, il circo mediatico-giudiziario<br />

e il surreale ruolo dell’ex Pci come<br />

partito della “questione morale” di contro<br />

ai “corrotti” della Prima Repubblica.<br />

Anzi, stando a Vladimir Bukovskij, quel ritardo<br />

fu addirittura causa della stagione<br />

dei Di Pietro.<br />

Bukovskij, infatti, ipotizzò che l’inchiesta<br />

di Mani pulite fosse stata avviata proprio<br />

per anticipare gli eventi e distrarre l’attenzione<br />

dal vero enorme scandalo dei<br />

mega-finanziamenti al Pci e dello spionaggio<br />

italico a favore dell’Urss.<br />

Secondo Bukovskij, in vista di una catastrofica<br />

valanga di documenti sulla storia<br />

di un alto tradimento da parte di italiani<br />

nei confronti della loro patria, fu preventivamente<br />

scatenato il “terrore giudiziario”.<br />

<strong>In</strong> tal modo, sarebbe stata scongiurata la<br />

temuta Norimberga comunista.<br />

Gli archivi di via Ilinka<br />

Quando il Psi e l’“Avanti!” sono ormai<br />

moribondi, contando sull’amicizia di alcuni<br />

colleghi delle “Izvestia”, di accademici<br />

russi e di Poltoranin, divenuto ministro<br />

dell’informazione, organizzo una disperata<br />

spedizione a Mosca, per recuperare i<br />

documenti di due anni prima.


Fra questi, a parte le carte sui finanziamenti<br />

del Pcus, che Bigazzi, prima di me,<br />

andava diligentemente raccogliendo, i<br />

più importanti riguardano la seconda<br />

“Gladio rossa” del Pci, quella del periodo<br />

1967-1981.<br />

Un giorno, verso l’ora di pranzo, uscendo<br />

dalla sede delle “Izvestia”, vengo aggredito<br />

da quattro figuri. Ivan, il mio accompagnatore,<br />

mi aiuta a metterli in fuga,<br />

non prima di averli marcati ben bene di<br />

calci e cazzotti.<br />

Alla fine, io zoppico un po’ per un calcio<br />

sulla coscia sinistra e l’angelo custode<br />

russo ha un occhio pesto.<br />

Nulla di che, tant’è che invece del pronto<br />

soccorso prendiamo la strada di un’osteria.<br />

Ivan, davanti a cento grammi di vodka<br />

ed a un piatto di fagioli, mi dice: «Russi?<br />

Ma no, quelli erano italiani».<br />

Secondo me, si sbagliava, per quanto<br />

uno strano articolo pubblicato dall’“Unità”<br />

gli desse ragione.<br />

Il primo documento che recupero è quello<br />

che prova l’azione diretta di Ugo Pecchioli<br />

nell’organizzazione della struttura<br />

illegale e paramilitare del Pci.<br />

La scoperta racchiude un paradosso:<br />

proprio nell’autunno del 1993, lo stesso<br />

Ugo Pecchioli, che aveva mandato, nel<br />

1976, dei comunisti italiani ad addestrarsi<br />

presso il Kgb, era stato nominato presidente<br />

della commissione di controllo<br />

sui servizi segreti italiani.<br />

<strong>In</strong>somma, un po’ come il conte Dracula<br />

eletto alla presidenza dell’Avis.<br />

La notizia è sconvolgente, solo che non<br />

so a chi farla giungere, visto che in quel<br />

momento, il Italia, la marea antisocialista<br />

sta salendo ai livelli massimi.<br />

L’“Avanti!” è in coma profondo e, comunque,<br />

non è il medium giusto per dare credibilità<br />

e risonanza allo scoop.<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

104<br />

Da giornalista senza giornale e da socialista<br />

senza Psi metto a punto un percorso<br />

anomalo, un faticoso gioco di sponda,<br />

per far giungere in buca il documento.<br />

Era appena uscito a Mosca il settimanale,<br />

“Stolitsa” (La Capitale).<br />

Io conoscevo un suo giovanissimo redattore,<br />

Voronov – oggi, è un autorevole<br />

giornalista –. Me l’aveva presentato Andrej<br />

Mironov, un uomo eccezionale che<br />

s’era fatto spaccare tutti i denti senza cedere<br />

di un millimetro ai torturatori del Kgb,<br />

grande indomabile dissidente, l’ultimo prigioniero<br />

politico liberato da Gorbaciov.<br />

A Voronov propongo uno scambio vantaggioso:<br />

ti cedo lo scoop in cambio di<br />

niente, a patto che tu dia la notizia alle<br />

agenzie di stampa e in particolare all’italiana<br />

“Ansa”.<br />

Considerando la deriva filocomunista dei<br />

nostri media, il giorno dell’uscita di “Stolitsa”,<br />

corro alla sede “Ansa” di Mosca<br />

per vigilare.<br />

Lì vi trovo Squillante – uno dei figli del<br />

giudice –, che ricordo sofferente, con un<br />

collarino forse per un colpo di frusta.<br />

Squillante fa il suo dovere di giornalista e<br />

il documento tratto dall’archivio del Cc<br />

del Pcus, datato 30 gennaio 1976 e firmato<br />

da Boris Ponomariov, giunge in<br />

tempo reale nelle redazioni italiane.<br />

<strong>In</strong> quel testo sta scritto:<br />

«Il compagno Ugo Pecchioli della direzione<br />

della segreteria del Pc... ha rivolto<br />

al Cc del Pcus la richiesta dell’assistenza<br />

al Pc per l’addestramento di istruttori, radiotelegrafisti,<br />

esperti di tecniche di partito,<br />

di realizzazione di rifugi segreti, di individuazione<br />

di microspie, ed ha rivolto richiesta<br />

di aiuto anche per la fabbricazione<br />

di documenti italiani in bianco, da utilizzare<br />

sia all’interno che all’estero....».<br />

<strong>In</strong> Italia, l’aria è bestiale al punto che il


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

sindaco di Roma, Rutelli, caccia via un<br />

suo stretto collaboratore, “colpevole”, essendo<br />

avvocato, d’aver assunto la difesa<br />

di Craxi.<br />

Eppure, grazie alla botta Pecchioli, all’inizio<br />

sembra che finalmente l’Italia imbarbarita,<br />

impazzita e a testa all’ingiù sia<br />

pronta a rimettersi nella posizione del<br />

giusto e della ragione.<br />

La Dc chiede, infatti, visti i trascorsi da<br />

gladiatore rosso, le dimissioni di Pecchioli<br />

come sarebbe normale in un paese<br />

dove l’idea di nazione ed il senso della<br />

patria non galleggiassero al di sotto del<br />

bagnasciuga della modica quantità.<br />

Anche il Psi chiede le dimissioni.<br />

Io prendo il primo volo disponibile. Arrivo<br />

a Roma, per godermi gli effetti e scrivere<br />

qualcosa sull’“Avanti!”.<br />

Ovviamente, ai colleghi di via Tomacelli<br />

non dico nulla.<br />

Solo Luca Josi e Bettino Craxi sono informati<br />

del mio piccolo capolavoro.<br />

Scalfaro e Pecchioli, in due<br />

sull’altalena<br />

All’improvviso, senza alcuna ragione<br />

apparente, il vice presidente dei senatori<br />

Dc Franco Mazzola, lo stesso che<br />

aveva suonato la carica sdegnata contro<br />

Pecchioli, se ne esce con una proposizione<br />

kafkiana: «Non mi sento di<br />

condividere una richiesta indiscriminata<br />

di dimissioni».<br />

Anche il Psi molla la presa e alle mie proteste,<br />

Boselli, davanti all’assemblea dei<br />

giornalisti dell’“Avanti!”, ribadisce la strategia<br />

della ritirata.<br />

Trascorrono poche ore e Antonio Maccanico,<br />

sottosegretario alla Presidenza<br />

del Consiglio – il premier è Ciampi – dichiara:<br />

«Alla Procura di Roma c’è un’istruttoria<br />

aperta contro ignoti [sic!] sulla<br />

presunta esistenza di una struttura clan-<br />

105<br />

destina del Pci e di corsi di addestramento<br />

e aiuti da parte dell’ex Unione Sovietica<br />

a movimenti [sic!] italiani. Dunque<br />

il governo non può che osservare il più<br />

scrupoloso silenzio....».<br />

Si trattò in realtà di un minuto di silenzio<br />

in memoria di tre defunti, l’amor patrio, la<br />

verità e la dignità, visto che il Governo<br />

non ritenne opportuno pronunciare mezza<br />

parola su un possibile alto tradimento<br />

e una comprovata connivenza con l’avversario<br />

che ci puntava addosso gli SS20<br />

a testata nucleare.<br />

Pecchioli resta al suo posto.<br />

Ciampi farà una luminosa carriera.<br />

Che diavolo era accaduto?<br />

Oscar Luigi Scalfaro, in piena apnea da<br />

fondi neri del Sisde e non solo, il 3 novembre<br />

1993, a reti unificate regala alla<br />

Nazione il suo: “Non ci sto!”. Può dirlo,<br />

perché sa di essere ormai salvo.<br />

Ebbene, la poltrona di Pecchioli salvata<br />

dalla Dc è speculare al salvataggio di<br />

Scalfaro.<br />

Il 4 novembre 1993, infatti, accade un evento<br />

memorabile: ai dirigenti del Sisde, i quali<br />

stanno parlando troppo di fondi neri e di altri<br />

impicci, la Procura di Roma contesta l’articolo<br />

289 c.p. cioè l’attentato agli organi costituzionali,<br />

una roba da dieci anni minimo di<br />

galera.<br />

Francesco Misiani, l’ex magistrato che<br />

visse dall’interno la singolare iniziativa,<br />

ha raccontato: «Contestare il 289 agli indagati<br />

significava porli in una condizione<br />

senza via di uscita. Ogni ulteriore chiamata<br />

in correità nei confronti di uomini<br />

politici in carica o, comunque, con responsabilità<br />

istituzionali li avrebbe precipitati<br />

nella condizione di indagati per un<br />

reato gravissimo da cui sarebbero usciti


con condanne pesantissime... ribadii che<br />

il 289 era un’assurdita e che come me la<br />

pensava la maggioranza di Md. Michele<br />

[Coiro, ndr] sbottò: “Qui si tratta di difendere<br />

un presidente della Repubblica galantuomo<br />

da una banda di masnadieri.<br />

La storia ci darà ragione...” ...».<br />

Gli 007, con le loro dichiarazioni, peraltro<br />

confermate da Amintore Fanfani, avrebbero,<br />

dunque, messo in pericolo le istituzioni,<br />

turbando il ministro degli interni Nicola<br />

Mancino e il presidente Scalfaro, da<br />

Documenti<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

106<br />

loro coinvolti in vario modo nell’affaire dei<br />

fondi riservati.<br />

Il ricorso all’articolo 289 riesce a tappare<br />

la bocca ai Malpica, ai Galati, ai Broccoletti,<br />

etc. Mancino e Scalfaro sono di nuovo<br />

tranquilli, proprio come Pecchioli.<br />

Dopo pochi mesi, anche l’inchiesta sui<br />

gladiatori del Pci viene archiviata.<br />

<strong>In</strong>somma, a mettere a rischio la Res Publica<br />

sono coloro che fanno rivelazioni<br />

sui fondi neri del Sisde, non la struttura<br />

clandestina paramilitare spionistica in<br />

stretto rapporto con uno Stato nemico.<br />

IL GIP ARCHIVIA<br />

Tribunale di Roma - Ufficio del giudice per le indagini preliminare<br />

decreto di archiviazione ex art. 409 c.c.p.<br />

Il giudice dottor Claudio D’Angelo<br />

- esaminati gli atti processuali relativi agli articoli pubblicati sul settimanale “L’EUROPEO”: “Di Gladio ne esisteva<br />

un’altra, quella Rossa”; “La struttura paramilitare? Esisteva, esisteva eccome”; nonché l’articolo, pubblicato sul<br />

quotidiano “IL GIORNALE”: “Il SISMI: Del Pennino patriota presunto; anche il P.C.I. ebbe la sua Gladio rossa”;<br />

- Ritenuto che il contenuto del copioso materiale documentario e delle informative acquisite agli atti non consentono<br />

di verificare compiutamente la concreta consistenza nonché la effettiva operatività e pericolosità dell’apparato<br />

di vigilanza del P.C.I. che, interessato all’addestramento teorico e pratico di militanti comunisti italiani, si adoperò<br />

e, per anni, operò alla realizzazione del suddetto obbiettivo in stretto collegamento con il P.C.U.S.;<br />

- Ritenuto che, a parte gli inquietanti molteplici e gravi riferimenti, nella documentazione acquisita, a corsi di addestramento<br />

al sabotaggio; all’uso di armi e di esplosivi; a tecniche di travisamento e di comunicazione radio in forma<br />

clandestina, presupponenti la creazione in Italia di strutture paramilitari e spionistiche, realizzate anche con la fattiva<br />

collaborazione del KGB e grazie a un notevole flusso di danaro proveniente dal P.C.U.S. e dalle facilitazioni commerciali<br />

a ditte import-export che, vicine al P.C.I. e/o da <strong>questo</strong> sponsorizzate, hanno per anni tranquillamente ed incisivamente<br />

operato, in epoca antecedente e susseguente all’invasione dell’Ungheria e Cecoslovacchia ad opera<br />

dell’URSS; non appare processualmente possibile dimostrare, a distanza di tanti, troppi anni, che l’interesse dell’URSS<br />

nei confronti di militanti comunisti italiani si sia tramutato - come sinteticamente ma esaudientemente osserva<br />

il P.M. - in una vera e propria corruzione del cittadino italiano per interessi contrari allo Stato italiano”, né che<br />

l’accertata predisposizione da parte del P.C.I. di meccanismi difensivi in vista del temuto cambiamento del clima politico<br />

in Italia abbia assunto - a parere di <strong>questo</strong> Giudice - dimensioni tali da costituire un serio concreto pericolo per<br />

lo Stato, per le sue democratiche istituzioni, per la collettività nazionale, per singoli suoi appartenenti;<br />

- Ritenuto, pertanto, che la richiesta del P.M. meriti accoglimento;<br />

P.Q.M.<br />

Visto l’art. 409 C.P.P.<br />

Dispone<br />

L’archiviazione del procedimento penale in oggetto e la restituzione degli atti al P.M. in sede per l’ulteriore trasmissione<br />

all’archivio.<br />

Roma, 6 luglio 1994<br />

Il GIUDICE<br />

Dott. Claudio D’Angelo


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

GLADIO ROSSA<br />

Il progetto della seconda “Gladio rossa” è documentato dal 7 agosto 1967, quando Luigi Longo si rivolge al Cc del<br />

Pcus chiedendo:<br />

«... di prestare assistenza per quanto riguarda l’insegnamento ad alcuni tecnici del Pci in Urss di tecniche radiofoniche,<br />

di metodi di cospirazione e di sistemi di documentazione speciale ».<br />

La richiesta è accolta il 15 agosto 1967.<br />

Da allora, attraversando tappe terribili, l’invasione di Praga, piazza Fontana, le stragi, le Br, la struttura illegale addestrata<br />

dagli esperti del Kgb cresce, si ramifica e si specializza, specie negli anni del “compromesso storico”, proprio<br />

quando – è un apparente paradosso – il Pci promette di “farsi Stato”. <strong>In</strong> effetti, si fa così “Stato”, che i nostri servizi segreti,<br />

come gattini ciechi, non vedranno mai niente.<br />

Coincidenza singolare è che negli stessi anni polizia, forze armate e magistratura vengano infiltrate da poliziotti democratici,<br />

sottufficiali democratici e da magistrati democratici, dove l’aggettivo “democratico” possiede una valenza semantica<br />

alternativa, significando semplicemente “comunista”.<br />

Sempre in quel periodo, Ugo Pecchioli è in costante contatto con i vertici delle FF.AA e dei nostri servizi segreti.<br />

A parte le trasmissioni radio verso la centrale di Sofia, non si sa come l’esercito illegale del Pci (e del Kgb) abbia operato<br />

e tale mistero rinvia anche ai cosiddetti misteri d’Italia favoriti non da servizi deviati, semmai da servizi distratti.<br />

Il 13 maggio 1981, il sicario Mehmet Ali Agca, spara due colpi di pistola in piazza San Pietro contro Giovanni Paolo II.<br />

Senza attendere rivelazioni e Commissioni parlamentari, l’indimenticabile Irina Alberti dice subito chiaro e tondo che<br />

il mandante è il Kgb di Andropov, col supporto dei servizi bulgari.<br />

Polizia e magistratura – ma sarà un fuoco di paglia -, sono allertate sui mandanti bulgari.<br />

I vertici del Pci entrano in fibrillazione, perché le ricetrasmittenti illegali sono collegate direttamente con Sofia e c’è il<br />

rischio che le indagini sulla “pista bulgara” possano condurre alle Botteghe Oscure.<br />

Per il Pci sarebbe la fine.<br />

Un uomo di Pecchioli, Franco Raparelli, s’affretta a comunicare al Cremlino che alcune postazioni-radio illegali del Pci<br />

più a rischio sono state smantellate. Raparelli, che probabilmente ha motivo di credere che son proprio i sovietici ad<br />

aver armato la mano di Agca, giustifica l’improvvisa dismissione con una botta di fantasia, cioè con operazioni della<br />

polizia italiana contro strutture neofasciste.<br />

<strong>In</strong>somma, il Pci chiude l’avventura gladiatoria non per un qualche ravvedimento liberaldemocratico, ma per il terrore<br />

d’esser mischiato con l’attentato a Wojtyla.<br />

Ecco qui, di seguito, la documentazione sulla “Gladio rossa” 1967-1981:<br />

***<br />

1) Segretissimo – Dossier speciale<br />

Al Cc del Pcus<br />

Oggetto: assistenza speciale al Partito comunista italiano<br />

26 aprile 1974<br />

Il membro dell’Ufficio politico del Partito comunista italiano compagno A. Cossutta, a nome della direzione del Pci<br />

(compagni Luigi Longo ed Enrico Berlinguer) si è rivolto al Cc del Pcus con la richiesta che venga prestata al Pci assistenza<br />

per questioni speciali. Nel corso delle consultazioni di lavoro svolte a Mosca il compagno Cossutta ha specificato<br />

che la direzione del Pci, per agevolare il lavoro del partito nelle condizioni di un forte inasprimento della situazione<br />

politica del paese, chiede di aiutare il Pci nell’addestramento di istruttori e di esperti di collegamenti radio, di cifrari,<br />

di tecniche di partito e di tecniche di travestimento e camouflage, nonché nell’elaborazione dei programmi dei<br />

collegamenti radio, dei documenti in cifra e nella preparazioni di documenti italiani e stranieri per l’uso esterno e interno.<br />

<strong>In</strong> conformità alle delibere del Cc del Pcus (nullaosta del 16 giugno 1970, delibere formali sg.60/53 vot. Del 20 ottobre<br />

1972 e V. 91/3 del 17 maggio 1973). Negli ultimi anni tre persone [del Pci, ndr] hanno seguito in Unione Sovietica<br />

un corso di collegamenti radio e di cifrari, mentre tre radiotrasmettitori e i cifrari sono stati consegnati ai compagni<br />

italiani nel 1973.<br />

Riterremmo opportuno accettare la richiesta della direzione del Pci e accogliere in Unione Sovietica, nel 1974, 19 comunisti<br />

italiani per un corso di preparazione speciale, di cui 6 persone per un corso sui collegamenti radio segreti, sull’utilizzo<br />

delle emittenti BR-3u e sull’uso dei cifrari (durata massima 3 mesi), 2 istruttori per la preparazione di radiotelegrafisti<br />

e di cifratori (durata massima 3 mesi), 9 persone per studiare le tecniche di partito (durata massima 2 mesi)<br />

e 2 persone per studiare le tecniche di travestimento e camouflage (durata massima 2 settimane); si dovrebbe inoltre<br />

autorizzare l’arrivo a Mosca di un esperto del Pci, per le consultazioni sull’avvio di tipi speciali di radiotrasmissione in<br />

ambienti chiusi.<br />

Sarebbe opportuno studiare programmi di telecomunicazione, e documenti in cifra per le trasmissioni radiofoniche unilaterali<br />

dei telegrammi cifrati circolari 13-16, destinate ai centri regionali del Pci, confezionare messaggi in cifra da recifrare<br />

nella rete dei collegamenti radio bilaterali, nonché preparare 500 documenti italiani in bianco tra passaporti per<br />

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l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

l’estero e carte d’identità a uso interno. Si potrebbe inoltre confezionare per il gruppo dei massimi dirigenti del partito<br />

50 passaporti e carte d’identità, 50 copie di riserva degli stessi documenti del tipo svizzero e francese, nonché parrucche<br />

e atri tipi di camouflage atti a cambiare le sembianze.<br />

L’accoglienza dei compagni italiani e i relativi servizi logistici potrebbero essere affidati alla Sezione internazionale del<br />

Cc del Pcus e alla direzione amministrativa del Cc del Pcus, mentre il loro addestramento e la selezione degli interpreti<br />

sarebbero di competenza del Kgb.<br />

Le spese di viaggio dall’Italia a Mosca, andata e ritorno, dei comunisti italiani e quelle per il loro soggiorno in Urss potrebbero<br />

essere addebitate al budget di spesa per l’accoglienza di funzionari di Partito esteri.<br />

La questione è stata concordata con il KGB (compagno Ju. V. Andropov).<br />

Si allega bozza di delibera del CC del PCUS<br />

B. Ponomariov<br />

***<br />

2) Segretissimo – Dossier speciale – V. 136/53<br />

5 maggio 1974<br />

Al comp. Andropov e Ponomariov: tutto; al comp. G. Pavlov: solo punto 2.<br />

Estratto del verbale n.136 della seduta del Politburo del CC del 5 maggio 1974<br />

Oggetto: assistenza speciale al Partito comunista italiano<br />

1. Soddisfare la richiesta della direzione del Pci e ospitare in URSS per un corso di preparazione speciale 19 comunisti<br />

italiani, di cui 6 per apprendere le tecniche della radiotrasmissione, l’uso delle emittenti BR-3u e l’uso dei cifrati<br />

(durata massima tre mesi); 2 istruttori per la preparazione di radiotelegrafisti e di cifratori (durata massima tre mesi);<br />

9 esperti di tecniche di partito (durata massima due mesi); 2 esperti di travestimento e camouflage delle sembianze<br />

(durata massima due settimane). Ospitare altresì per consultazioni un esperto di tipi speciali di radiotrasmissione in<br />

ambienti chiusi (durata massima una settimana).<br />

2. Affidare alla Sezione internazionale del Cc del Pcus e alla direzione amministrativa del Cc del Pcus le questioni logistiche<br />

relative al soggiorno, affidare al Comitato per la sicurezza di Stato presso il consiglio dei ministri l’addestramento<br />

relativo alla radiotrasmissione e al lavoro in cifra e la selezione dei traduttori per tutti i tipi di preparazione speciale,<br />

mentre l’insegnamento di tecniche di partito e dei mezzi per il travestimento e camouflage delle sembianze deve<br />

essere affidato alla Sezione internazionale del Cc del Pcus e al Comitato per la sicurezza di Stato presso il Consiglio<br />

dei ministri dell’Urss. Le spese del viaggio dall’Italia a Mosca, andata e ritorno, e quelle per il soggiorno in URSS<br />

sono da addebitare al budget di spesa per l’accoglienza di funzionari di partito esteri.<br />

3. <strong>In</strong>caricare il Comitato per la sicurezza di Stato presso il Consiglio dei ministri dell’URSS di studiare programmi di telecomunicazione<br />

e messaggi in cifra per le trasmissioni radiofoniche unilaterali dei telegrammi cifrati circolari 13-16 destinate<br />

ai centri regionali del Pci, nonché di messaggi in cifra da recifrare nella rete dei collegamenti radio bilaterali.<br />

4. Accogliere la richiesta della direzione del Pci e confezionare 500 documenti italiani in bianco e 50 nominali (per i dirigenti<br />

del Pci) tra passaporti per l’estero e carte d’identità, più 50 copie di riserva degli stessi documenti di tipo francese<br />

o svizzero, nonché parrucche e altri camuffamenti atti a cambiare le sembianze. La confezione dei documenti in<br />

bianco e la preparazione di travestimenti e camouflage è da affidarsi al Comitato per la sicurezza dello Stato presso<br />

il Consiglio dei ministri e alla Sezione internazionale del Cc del Pcus.<br />

5. Approvare il testo del telegramma da inviare al residente del KGB in Italia.<br />

Il Segretario del Cc del Pcus<br />

***<br />

3) Al residente, Roma<br />

<strong>In</strong>contri il compagno Armando Cossutta e gli comunichi che nel 1974 gli amici possono inviare in Urss per un corso di<br />

addestramento speciale 19 persone, di cui 6 persone per un corso sulla radiotrasmissione, sull’utilizzo di apparecchiature<br />

radio avanzate e sull’uso di cifrari (durata massima tre mesi), 2 istruttori per la preparazione di radiotelegrafisti<br />

e di cifratori (durata massima tre mesi), 9 persone per un corso sulle tecniche di Partito e 2 persone per un corso<br />

sulle tecniche di camouflage delle sembianze (durata massima due settimane).<br />

<strong>In</strong>oltre, potrebbe venire a Mosca un esperto [italiano,ndr] per le consultazioni circa l’avvio di tipi speciali di radiotrasmissioni<br />

(durata massima una settimana). Le prime 4 persone per le questioni relative ai collegamenti radio, ai lavori<br />

in cifra, e alle tecniche di Partito, nonché l’esperto per le consulenze potrebbero arrivare a Mosca separatamente, a<br />

partire da giugno, rispettando le dovute regole di segretezza. Le date dell’arrivo degli altri compagni saranno concordate<br />

in secondo tempo.<br />

Confermi per telegrafo ad esecuzione avvenuta.<br />

***<br />

108


4) Segretissimo<br />

30 gennaio 1976<br />

Al Cc del Pcus<br />

Oggetto: assistenza speciale al Partito comunista italiano<br />

Il membro della direzione e della segreteria del Partito comunista italiano, compagno U. Pecchioli, su incarico della<br />

direzione del Pci (compagno E. Berlinguer) si è rivolto al Cc del Pcus con la richiesta di assistenza al Pci per<br />

quanto riguarda l’addestramento di istruttori, radiotelegrafisti, esperti di tecniche di partito, di travestimento e camouflage,<br />

dell’organizzazione di nascondigli segreti, di individuazione di microfoni segreti nonché assistenza per<br />

quanto riguarda la realizzazione di documenti italiani in bianco per uso esterno e interno.<br />

Queste richieste della direzione del Pci sono motivate dal proposito di garantire al partito la sicurezza in caso di<br />

repentino aggravamento della situazione politica nel paese.<br />

Conformemente alle delibere del CC del PCUS (V. 91/3 del 17 maggio 1973 e V: 136/53 del 5 maggio 1974), negli<br />

ultimi anni è stato prestato ai compagni italiani un aiuto permanente nella preparazione di esperti di collegamenti<br />

radio e in altre questioni speciali, nel 1973 sono stati loro consegnati tre impianti ricetrasmittenti con i quali, in seguito,<br />

sono state effettuate ricezioni in collaudo in Italia.<br />

Riterremmo opportuno soddisfare la richiesta della direzione del Pci e accogliere in Urss, durante l’anno 1976, per<br />

un corso di preparazione speciale 7 comunisti italiani di cui 1 persona per un corso sui collegamenti radio in ambienti<br />

chiusi, sull’uso dell’apparecchiature avanzate (durata massima tre mesi), 1 istruttore per la preparazione di<br />

radiotelegrafisti e cifratori (durata massima tre mesi), 2 esperti di tecniche di partito (durata massima due mesi), 1<br />

esperto di tecniche di travestimento e camouflage (durata massima due settimane), 1 persona da addestrare nella<br />

realizzazione nella realizzazione di nascondigli segreti (durata massima due settimane) e 1 esperto specializzato<br />

nell’individuazione di microspie (durata massima due settimane).<br />

<strong>In</strong>oltre, sarebbe opportuno confezionare per il Pci 100 copie di documenti italiani in bianco tra passaporti per l’estero,<br />

carte d’identità, patenti di guida, ecc. secondo i modelli che verranno spediti dai compagni italiani.<br />

L’accoglienza e i relativi servizi agli allievi potrebbero essere affidati alla Sezione internazionale e alla direzione<br />

amministrativa del Cc del Pcus, mentre la loro preparazione e la sezione degli interpreti sarebbero di competenza<br />

del Comitato di stato per la sicurezza presso il Consiglio dei ministri dell’Urss.<br />

La spese di viaggio e quelle per il soggiorno in Urss dei comunisti italiani potrebbero essere addebitate sul budget<br />

di spesa per l’accoglienza dei funzionari di partito esteri. La questione è stata concordata con il KGB (compagno<br />

Ju. V. Andropov).<br />

Si allega bozza di delibera del CC del PCUS.<br />

B. Ponomariov<br />

[Seguono firme di Suslov, Kulakov, Pelshe, Kosygin, Andropov, Polianskij e Mazurov]<br />

***<br />

5) Segretissimo<br />

Copia Unica<br />

Al compagno B. N. Ponomariov, personale<br />

22 giugno 1981<br />

Il rappresentante del Partito comunista italiano, Raparelli, ha fatto sapere nel maggio scorso al nostro rappresentante<br />

che la direzione del Pci aveva deciso di smantellare e di distruggere per ragioni di sicurezza tre stazioni radio<br />

ricetrasmittenti fornite da noi nel 1973 (vedi delibera V. 91/3 del 17 maggio 1973). Questo perché la polizia, nel<br />

quadro delle operazioni per debellare gli estremisti di destra, stava compiendo rastrellamenti per localizzare emittenti<br />

clandestine.<br />

All’inizio di giugno Raparelli ha informato che le emittenti in questione erano state distrutte dagli amici. I tecnici degli<br />

amici che si trovano in altre zone del paese continuano a ricevere, con i ricevitori di cui dispongono, le nostre<br />

trasmissioni-prova. La situazione in queste zone è tranquilla.<br />

Raparelli ha pregato di riferirlo al CC del PCUS.<br />

V. Kriuchkov<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

109


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Rischi nelle Commissioni<br />

parlamentari di inchiesta<br />

di Salvatore Sechi<br />

Il pericolo che incombe sulla possibilità di<br />

ricostruire la storia politica dell’Italia repubblicana<br />

è di duplice natura.<br />

<strong>In</strong> primo piano metterei l’evanescenza<br />

dei documenti. Sia per malthusianesimo<br />

(ossia per l’irrigidimento delle norme che<br />

ne disciplinano l’accesso) sia per vera e<br />

propria distruzione.<br />

Ciò può avvenire per una scelta deliberata<br />

di apparati. Mi riferisco a quelli che<br />

hanno bruciato o ridotto a poltiglia le carte<br />

dei nostri Servizi segreti (Sifar) nell’agosto<br />

1974 e nell’estate 1990.<br />

Ma penso anche a quelli che nel Ministero<br />

dell’<strong>In</strong>terno hanno imboscato le carte<br />

dell’Ufficio Affari Riservati del dott. Umberto<br />

D’Amato, del Col. Russomanno<br />

ecc. o a quelli che i documenti, invece di<br />

versarli agli archivi dello Stato, preferiscono<br />

tenerli per sé e di volta in volta,<br />

quando vengono a mancare i protagonisti,<br />

eliminarli.<br />

È quanto, temo, imperturbabilmente da<br />

centinaia di anni, faccia l’Arma dei Carabinieri.<br />

Si è avuto tempo e modo, da parte<br />

di F. Frattini e S. Mattarella, di disciplinare<br />

l’uso, la conservazione e l’accesso<br />

delle carte dei Servizi segreti, ma non<br />

quelle, preziosissime, della Benemerita.<br />

La seconda arma letale è il friendly killing,<br />

cioè il fuoco amico. Chiamerei così<br />

l’ipertrofia della domanda democratica di<br />

110<br />

noi studiosi e ricercatori (e in generale<br />

utenti). Animati da un sacro fuoco di conoscenza<br />

finiamo per restare vittime del<br />

nostro incontenibile surplus di giacobinismo<br />

nel voler potere disporre di carte di<br />

ogni istituzione ed ente, pubblico o privato.<br />

Tutte e subito.<br />

L’esito è la progressiva chiusura a riccio<br />

della filiera istituzionale che custodisce la<br />

documentazione che a noi servirebbe<br />

per le nostre ricerche di storia contemporanea,<br />

politica, economica, militare ecc.<br />

Uno sguardo al modo contraddittorio (fatto<br />

di passi in avanti e di retromarcia), cioè<br />

travagliato, con cui è avvenuta la liberalizzazione<br />

degli archivi più riservati negli<br />

Stati Uniti (è il paese al quale si deve la<br />

più massiccia apertura, con circa un miliardo<br />

di carte, incluse quelle della Cia e<br />

dell’Fbi) invita ad essere tanto determinati<br />

quanto cauti e realistici.<br />

Temo che un grande aiuto non ci possa<br />

venire da una fonte che ogni anno si arricchisce<br />

di milioni di carte d’archivio,<br />

cioè le Commissioni parlamentari d’inchiesta.<br />

Occorre capire bene il loro funzionamento<br />

per poter misurare il livello di inattendibilità,<br />

non di rado, dei loro risultati.<br />

Di qui nasce la necessità di essere vigili,<br />

prendendo con beneficio di inventario<br />

quanto, alla fine dei lavori di questi orga-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

ni, si ammassa, con una lentezza impressionante,<br />

nell’Archivio storico del Senato<br />

della Repubblica. È il luogo dove,<br />

per quanto non sia attrezzato a far fronte<br />

a compiti di pubblicazione complessi ed<br />

enormi quali quelli imposti dalle Commissioni<br />

parlamentari d’inchiesta, sono destinate<br />

a concentrarsi le carte in parte ancora<br />

stivate a Roma, al terzo piano del<br />

palazzo San Macuto.<br />

L’Archivio non era in grado, a metà gennaio<br />

2007, di ipotizzare una data di completamento<br />

del lavoro di schedatura analitica<br />

informatizzata con digitalizzazione<br />

di tutto il patrimonio documentale della<br />

Commissione Stragi.<br />

Per la fine della legislatura, cioè nel<br />

2009, si prevedeva di rendere disponibile<br />

l’inventario e tutti i documenti di tutte le<br />

Commissioni d’inchiesta, dall’Archivio<br />

coordinate, in maniera da rendere uniformi,<br />

finalmente, i criteri di indicizzazione<br />

dei documenti e di digitilizzazione.<br />

Nessun accenno veniva fatto alla Commissione<br />

parlamentare d’inchiesta concernente<br />

il “dossier Mitrokhin” e l’attività<br />

dell’intelligence italiana (d’ora in avanti<br />

“la Mitrokhin”) .<br />

Se l’obiettivo non è la pubblicazione di<br />

queste carte, ma la consultabilità da parte<br />

del maggior <strong>numero</strong> possibile di studiosi,<br />

meglio, molto meglio, sarebbe se<br />

esse prendessero un’altra strada, ossia<br />

quella dell’Archivio Centrale dello Stato<br />

(d’ora in poi ACS). <strong>In</strong>fatti, malgrado i gravi<br />

limiti attuali di personale, di manutenzione,<br />

di servizio ecc. dovuti alla ristrettezza<br />

dei bilanci e all’incuria dei governi,<br />

è la struttura più spedita e funzionale,<br />

per assecondare la normale archiviazione<br />

in forme tali da consentire la consultazione<br />

e l’estrazione di copie ad uso degli<br />

studiosi.<br />

Bisognerebbe riformulare le delibere del-<br />

111<br />

le Commissioni parlamentari stabilendo il<br />

principio che i materiali acquisiti (per la<br />

verità non sempre di grande importanza)<br />

siano messi in consultazione presso<br />

l’ACS. Al Senato resterebbe il compito<br />

della pubblicazione, magari in seguito ad<br />

una severa selezione del materiale che i<br />

politici, non essendo degli storici, spesso<br />

non sono in grado di effettuare, giustapponendo<br />

ciò che è essenziale a quanto è<br />

secondario e ininfluente.<br />

Premetto che le osservazioni che seguono<br />

mi sono state dettate dalla esperienza:<br />

per due anni, dal 16 novembre 2003<br />

al 1 febbraio 2006 ho avuto il mandato di<br />

consulente presso “la Mitrokhin”.<br />

Nella lettera di “ingaggio” si parla genericamente<br />

di “ incarico…di supportare i<br />

componenti della Commissione nello<br />

svolgimento dell’inchiesta, coadiuvandoli<br />

in particolare, nell’attività di acquisizione<br />

conoscitiva” relativamente all’oggetto<br />

della inchiesta parlamentare. Specificamente<br />

mi sarei occupato di agenti del<br />

Cominform, spionaggio militare ed industriale<br />

dell’Urss e dei paesi dell’ex Patto<br />

di Varsavia a danno dell’Italia, agitazione<br />

e contestazione della Nato e delle basi<br />

militari Usa nel nostro territorio, l’organizzazione<br />

clandestina e armata del Pci (la<br />

cd “Gladio rossa”), i legami tra la rete Separat<br />

(del terrorista “Carlos”) e i servizi<br />

segreti di alcuni paesi dell’Europa orientale,<br />

e il ruolo da essi svolto nell’attentato<br />

al papa ecc.<br />

<strong>In</strong> Italia quella dell’accesso alla consultazione<br />

delle carte assomiglia ad una sorta<br />

di istruttoria segreta, quasi senza fase dibattimentale.<br />

<strong>In</strong> questa procedura, dunque, il consulente<br />

non è protagonista, ma un semplice<br />

destinatario delle ricerche, fatte da altri,<br />

mai o quasi mai da lui. <strong>In</strong>fatti, non ha accesso<br />

diretto, personale, agli archivi e


quindi viene spogliato della responsabilità<br />

di trovare la prova, raccogliere e valutare<br />

gli indizi.<br />

La prima diffidenza deve avere a bersaglio<br />

il concetto di consultazione, di uso<br />

delle fonti ed espressioni similari.<br />

<strong>In</strong> realtà, dietro questa terminologia pomposa<br />

c’è un’assai sobria realtà.<br />

Lo studioso – tramite il presidente della<br />

Commissione parlamentare (o di qualche<br />

funzionario che lo sostituisce nelle lunghe<br />

assenze, magari perché preferisce<br />

gli studi senatoriali più luminosi di piazza<br />

del Gesù) e della Giunta di Presidenza,<br />

che esaminano ed approvano preliminarmente<br />

le sue richieste – fa pervenire ai<br />

capi di Gabinetto dei Ministeri, dei Servizi<br />

di informazione e sicurezza, ai direttori<br />

delle fondazioni e degli archivi (pubblici e<br />

privati) ecc., una lista di nomi e/o di argomenti<br />

sui quali vorrebbe fare analisi, accertamenti<br />

ecc..<br />

La lista viene scrutinata dai collaboratori<br />

del ministro e poi trasferita agli archivisti,<br />

i quali a loro volta riversano sul tavolo del<br />

consulente, regolarmente autorizzato e<br />

convocato, faldoni o fascicoli di quanto<br />

hanno liberamente, autonomamente e<br />

quindi discrezionalmente selezionato.<br />

Anche se non è una bella consolazione,<br />

qualcosa del genere ha luogo negli Stati<br />

Uniti d’America.<br />

Il motivo di questa farraginosa procedura<br />

risiede nell’enorme mole di documenti<br />

da preservare. Sono miliardi di pagine<br />

e occupano molte decine di chilometri di<br />

spazio .<br />

Perciò, quella di delegare ai funzionari<br />

della CIA la selezione dei documenti da<br />

fornire agli studiosi si configura meno come<br />

una situazione eccezionale e più come<br />

un’abitudine, un costume consolidato,<br />

cioè una prassi. E, pare, esistano persino<br />

forme catalogabili come censura o<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

112<br />

come revisione da parte dell’agenzia del<br />

contro-spionaggio statunitense sugli elaborati<br />

redatti in base a quelle carte.<br />

Nel nostro Paese accade, invece, qualcosa<br />

di diverso…<br />

Con qualche eccezione, che riguardano<br />

alcune questure, non ho avuto la possibilità<br />

di perlustrare liberamente i luoghi in<br />

cui sono stivati i documenti, cioè gli scaffali<br />

o gli armadi, anche se mi è stato detto,<br />

in occasione del conferimento dell’incarico<br />

di consulente, che disponevo formalmente<br />

delle prerogative di un magistrato.<br />

A questi non si possono opporre<br />

segreti d’ufficio. Nel caso della Commissione<br />

Mitrokhin, per la quale ho lavorato,<br />

neanche segreti di Stato.<br />

<strong>In</strong> questa felice condizione ci siamo trovati<br />

in molti, una platea di circa 50 persone.<br />

Tanti, quasi un ministero, erano i docenti<br />

universitari, i ricercatori, i giornalisti,<br />

i funzionari dell’intelligence, i magistrati, i<br />

giovani laureati, i collaboratori dei parlamentari<br />

e quanti in un modo o nell’altro<br />

alleviano le loro fatiche e facilitano il lavoro<br />

politico ecc.<br />

Il presidente aveva il potere di sceglierli,<br />

esercitando un potere autonomo, ma ha<br />

preferito rifarsi alla tradizione, suddividendo<br />

i reclutati non per meriti scientifici<br />

e competenze, ma rigorosamente per coteo<br />

politico, come dicono i cileni.<br />

Bisogna, però, precisare che non si pretendeva<br />

da noi di essere presenti a Roma<br />

né a Palazzo San Macuto e neanche<br />

di infilarci negli archivi delle questure di<br />

mezza Italia.<br />

A fare atto di presenzialismo (che è sinonimo<br />

di diligenza, anzi di un’elementare<br />

prestazione obbligata), ho l’impressione<br />

siamo stati in pochi…<br />

Ci siamo resi conto che, anche per la ristrettezza<br />

degli spazi (a noi era stato riservato<br />

un bugigattolo con un tavolo e


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

due computer collegati a stampanti), girare<br />

tra gli uffici e rovistare frequentemente<br />

tra le carte protocollate e archiviate<br />

veniva considerata qualcosa di diverso<br />

da una elementare virtù, cioè da un atto<br />

doveroso.<br />

Lo si percepiva come qualcosa di simile<br />

ad un’invasione di campo, una sorta di<br />

incursione turbativa del riposante tran<br />

tran degli uffici parlamentari capitolini.<br />

Accettabile se durava poco ed era occasionale.<br />

Ripeto: a infliggere questa pena al personale<br />

siamo stati in circa, forse meno, di<br />

una decina…<br />

Ci incontravamo frequentemente negli<br />

archivi o nella saletta di San Macuto attigua<br />

a quella del Presidente o nell’aula<br />

dove erano accatastati inventari e carte<br />

d’archivio, sotto la vigilanza di due marescialli<br />

dei carabinieri<br />

.<br />

Non c’è mai stata un’occasione in cui i<br />

consulenti, da soli o insieme ai componenti<br />

l’Ufficio di Presidenza o la stessa<br />

Commissione (cioè i parlamentari), si<br />

siano riuniti per fare il punto sullo stato<br />

delle reciproche ricerche, illustrare (e<br />

confrontare) i risultati, programmare attività<br />

“mirate” di consultazione ecc..<br />

Voglio dire che non è stato mai un imperativo<br />

o neanche un’esigenza quello di<br />

soddisfare il principio della divisione del<br />

lavoro, della perlustrazione multilaterale<br />

e quindi della critica delle fonti.<br />

Senza questa trafila, com’è noto, non si<br />

fa ricerca storica, ma solo una raccolta<br />

di carte utile esclusivamente a fini di<br />

scoop giornalistico o di sensazionalismo<br />

politico.<br />

Come si vede, ho indicato un iter e un<br />

terreno neutro. Pertanto, i criteri metodologici<br />

(la completezza delle informazioni,<br />

la loro verifica, la divisione dei compiti,<br />

113<br />

l’uso coordinato delle competenze ecc.)<br />

non potevano entrare in cortocircuito con<br />

le opzioni politiche dei partiti e dei consulenti<br />

più strettamente legati alle loro impostazioni,<br />

se non proprio ai pregiudizi figli<br />

di insuperabili ormai incrostazioni<br />

ideologiche.<br />

L’evidentia in narratione deve essere<br />

propria dello storico. Non può essere<br />

confusa né degradata limitandosi a prendere<br />

per oro colato quanto proviene dai<br />

confidenti della polizia o da altri informatori<br />

come quelli del controspionaggio e<br />

altre pretese “fonti attendibili”.<br />

Sia chiaro: non sto negando la loro importanza,<br />

ma segnalando una preoccupazione<br />

elementare come quella di vagliarle<br />

attentamente, cercando di risalire<br />

all’attendibilità dell’informatore e ad un<br />

controllo incrociato di altre fonti.<br />

Non va sottovalutata una circostanza che<br />

non è prevalentemente italiana, ma si<br />

presenta come decisiva. Nel giudicare il<br />

valore di un’informazione sia i Servizi,<br />

ma anche la polizia, spesso non distinguono<br />

tra chi è un soggetto occasionale<br />

e un agente vero, tra un millantatore e un<br />

informatore inconscio, al limite, un ubriacone.<br />

Anche l’uso del condizionale, nei loro<br />

rapporti o informative, rivela incertezza o<br />

scarsa professionalità.<br />

Il riverbero sulla cultura italiana è assai<br />

spiacevole, dal momento che l’opinione<br />

pubblica, ma anche la stampa e gran<br />

parte del ceto politico non è in grado di<br />

distinguere bene tra polizia e intelligence,<br />

e ansima assai incespicando tra legittimità<br />

e legalità. <strong>In</strong> altre parole, “….Da<br />

noi non esiste la cultura dell’intelligence”,<br />

come ha precisato Francesco Cossiga.<br />

Lo stesso Presidente onorario della repubblica<br />

ha dichiarato che l’Italia è stato l’unico<br />

Paese per il quale vigeva il divieto as


soluto di reclutare informatori che appartenevano<br />

al Partito comunista italiano e credo<br />

che <strong>questo</strong> sia un elemento per molti<br />

aspetti confermato da molte ricerche.<br />

Per tutto il tempo in cui ho lavorato per la<br />

Commissione sul dossier Mitrokhin, il<br />

mio ruolo è stato malinconicamente quello<br />

di chi riceve, scorre, studia e, quando<br />

li ritiene importanti, versa all’archivio della<br />

Commissione i più significativi materiali<br />

che gli sono stati imbanditi da altri.<br />

Di questi oscuri e spesso solerti funzionari<br />

(del Gabinetto del ministro dell’<strong>In</strong>terno<br />

o delle Prefetture e delle Questure,<br />

della Presidenza del Consiglio dei ministri<br />

o del Ministero della Difesa) non conoscevamo<br />

i criteri, i metodi di scelta<br />

adottati nel selezionare le carte che ci venivano<br />

offerte. Ho provato, quindi, una<br />

doppia illusione sulla ricostruzione della<br />

realtà storica che mi era stata richiesta<br />

dal Parlamento.<br />

Non avendo mai potuto attingere, anche<br />

solo con un epidermico contatto, ai faldoni,<br />

agli scaffali o agli armadi, la nozione di<br />

prova, importante tanto per giudicare<br />

quanto per comprendere, mi è stata per<br />

così dire rapita.<br />

È forse uno degli ultimi esempi dell’impoverimento<br />

fino alla morte della fisionomia<br />

giudiziaria assunto dalla storiografia politica<br />

tra il XIX e il l’inizio del XX secolo.<br />

Probabilmente per questa consapevolezza<br />

le testimonianze, le prove, i documenti<br />

sono percepiti come un’arte per persuadere,<br />

una tecnica retorica, un’argomentazione<br />

valida per i tribunali.<br />

Si è progressivamente persa per strada o<br />

paurosamente appannata una virtù antica.<br />

Si chiamava dovere professionale<br />

per l’imparzialità, l’ambizione di essere<br />

“un giudice supremo e imperturbabile”, di<br />

ergersi al di sopra delle contese diventando<br />

”un tribunale riconosciuto”, secon-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

114<br />

do i savi e bellicosi propositi confessati<br />

nell’Ottocento da H. Taine e Lord Acton.<br />

Tutto ciò ha ceduto il passo alla banalizzazione<br />

dei documenti rispetto alla passione<br />

politica propria del Procuratore della<br />

Repubblica o alla requisitoria dell’avvocato<br />

difensore. La storiografia politica,<br />

intinta di positivismo di questa temperie<br />

storica, si misura con la corruzione e con<br />

la responsabilità che nel clima del processo<br />

alla Rivoluzione francese si incarnano<br />

in Danton e Robespierre.<br />

Sul controllo delle fonti<br />

<strong>In</strong> secondo luogo, non sempre il consulente<br />

ha potuto lavorare rispettando il<br />

principio scientifico del controllo delle<br />

fonti, che muove dalla necessità di una<br />

loro moltiplicazione e finale comparazione.<br />

Attraverso un esame incrociato<br />

occorre verificare se la stessa notizia o<br />

informazione sia stata rilevata, con procedure<br />

e personale autonomi, in luoghi<br />

diversi.<br />

La molteplicità dei sintomi, delle tracce, e<br />

la sintonia delle fonti, in altre parole il<br />

contesto, per lo storico costituiscono la<br />

misura della loro attendibilità, se non proprio<br />

della loro veridicità. Non dovendo,<br />

come fa il giudice, irrogare anni di pena o<br />

emettere un verdetto di innocenza, è<br />

sempre sembrato sufficiente.<br />

Un esempio consente di capire meglio<br />

quanto sto dicendo, e cercai di far capire<br />

alla volatile e inafferrabile Commissione<br />

sul dossier Mitrokhin.<br />

Spesso confidenti (occasionali o istituzionali)<br />

o agenti dei Servizi segreti segnalano<br />

a <strong>questo</strong>ri e prefetti l’esistenza di liste<br />

di persone appartenenti all’organizzazione<br />

militare clandestina costituita dal Pci<br />

dopo la guerra di liberazione.<br />

È la trama di uno o più complotti, di processi<br />

di manipolazione della democrazia


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

appena nata che sembra delinearsi. All’accusa<br />

di ordire manovre di destabilizzazione<br />

il Pci ha reagito, per quasi tutti gli<br />

anni della Repubblica, attribuendo la fabbricazione<br />

di colpi di mano, di piani di<br />

eversione ecc. allo Stato o a settori come<br />

l’intelligence, le forze dell’ordine, gli apparati<br />

militari oppure all’eversione di<br />

estrema destra, quando non, euforicamente,<br />

alle forze oscure della reazione (il<br />

noto FOIA).<br />

La massima concessione fatta è stata<br />

quella di attribuire al Pci la formazione di<br />

una struttura di vigilanza e di protezione<br />

dei propri dirigenti per sfuggire ad un colpo<br />

di Stato.<br />

La stessa storiografia comunista ha ignorato<br />

il problema o l’ha banalizzato come<br />

uno strascico ininfluente della guerra di<br />

liberazione oppure si è attestata sulla distinzione<br />

tra apparato para-militare e apparato<br />

di autodifesa.<br />

È la conferma del fatto che un complotto<br />

tira l’altro. Vero o immaginario che sia.<br />

La documentazione fornita da confidenti<br />

e spie viene verificata dagli uffici provinciali<br />

delle questure, che trasmettono l’esito<br />

alla Direzione generale della Pubblica<br />

sicurezza presso il Ministero dell’<strong>In</strong>terno.<br />

A seconda della rilevanza il capo della<br />

polizia lo trasmette al ministro dell’<strong>In</strong>terno,<br />

o lo informa per le vie brevi, cioè a<br />

voce.<br />

Poiché il lavoro della polizia si limita ad<br />

accertare l’identità, il recapito, la appartenenza<br />

politica, lo stato di famiglia, i costumi<br />

ecc., e in generale esprime un giudizio<br />

finale sulla pericolosità delle persone<br />

per l’ordine pubblico e la sicurezza<br />

democratica, facendole iscrivere, per<br />

sorveglianza, nello schedario del Casellario<br />

politico, non sapremo mai se quell’elenco<br />

di persone è da considerare un<br />

apparato militare.<br />

115<br />

Per poter parlare di Gladio “rossa” e addirittura<br />

di Gladio rossa del Pci non basta<br />

l’intenso piacere atteso dal committente<br />

politico.<br />

È invece indispensabile che da una segnalazione<br />

di polizia (certamente importante,<br />

soprattutto se ripetuta e verificata:<br />

a volte lo è stato, a volte no) si passi ad<br />

una prova più sicura, anche se non assoluta.<br />

<strong>In</strong> altre parole, mi pare ragionevole che<br />

si siano resi di pubblico dominio (nella<br />

speranza che anche il Pci si decida a<br />

mettere a disposizione i propri archivi, a<br />

cominciare da quelli della Commissione<br />

centrale di controllo) i documenti principali<br />

di questa organizzazione clandestina<br />

e armata quale emerge da alcuni archivi.<br />

Ma altrettanto ragionevole mi pare<br />

non assumerla come inconfutabilmente<br />

vera, senza altre ulteriori e più stringenti<br />

verifiche.<br />

Non per caso sia Gianni Donno sia io<br />

stesso abbiamo insisitito, e insistiamo, a<br />

chiedere la consultazione degli archivi sia<br />

della Nato sia dell’Arma dei Carabinieri.<br />

Per questi ultimi non vale, come per quelli<br />

di altre istituzioni dello Stato, l’obbligo di<br />

versare le proprie carte, dopo un certo<br />

periodo di tempo, agli archivi di Stato.<br />

Dunque, restano scandalosamente chiusi<br />

e inaccessibili, grazie all’inerzia, se<br />

non alla complicità, dei ministri dell’<strong>In</strong>terno<br />

e della Difesa nel consentire <strong>questo</strong><br />

ingiustificabile privilegio.<br />

Dobbiamo rassegnarci all’esistenza di archivi-caste<br />

in seno alle forze amate?<br />

Mi chiedo dove siano, almeno fino ad oggi,<br />

gli specifici elementi di prova (penso<br />

alle esercitazioni ovunque sia possibile<br />

appostarsi e sparare), i riscontri indiscutibili<br />

del funzionamento, cioè dell’operatività,<br />

del braccio armato messo su dai comunisti<br />

italiani.


Purtroppo sulla nozione di prova e della<br />

stessa verità si è scaricata una lava di<br />

fuoco (o una slavina?) che ne ha provocato<br />

un incessante svilimento come se il<br />

mestiere dello storico, che si affida al<br />

principio di realtà, possa prescinderne e<br />

avere un senso senza di essa.<br />

Delle fonti di polizia bisogna diffidare<br />

sempre perché sono quelle in cui è più<br />

frequente, e forse inevitabile, il controllo<br />

e il pericolo della manipolazione politica.<br />

Essa è massima nei sistemi politici bloccati,<br />

dove cioè non esiste, o è minima, la<br />

prassi dell’alternanza tra i governi. <strong>In</strong> tale<br />

contesto è fisiologico che la burocrazia<br />

tenda a far corpo con i partiti ministeriali,<br />

ai quali deve reclutamento e carriera.<br />

L’intero periodo della guerra fredda (il cosiddetto<br />

centrismo) in Italia è stato contrassegnato<br />

da una certa stabilità, anche<br />

se all’interno delle coalizioni c’è stato un<br />

certo turn over. Di qui la tendenza di apparati,<br />

di lobby, se non dei gruppi di potere<br />

più influenti e forti a cercare di impadronirsi<br />

di informazioni segrete, riservate,<br />

vere o false che fossero, per farne strumenti<br />

di competizioni o di guerra vera e<br />

propria.<br />

Dunque, la maggiore forza della politica<br />

(in termini di stabilità, di sicurezza nello<br />

scambio politico garantito da sé o dai<br />

propri alleati e amici) produce un minore<br />

rispetto delle regole, maggiore lassismo<br />

nei comportamenti del ceto burocratico.<br />

Quando la frammentazione del sistema<br />

politico, e la conseguente volatilità della<br />

composizione delle coalizioni governative<br />

(e al loro interno degli incarichi ministeriali)<br />

è stato maggiore, si è verificato<br />

un fenomeno che non chiamerei di ribellione,<br />

di resistenza, ma certamente di minore<br />

disponibilità della stessa burocrazia<br />

all’obbedienza supina: “Io oggi, con tutte<br />

le imperfezioni del sistema politico italia-<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

116<br />

no, so di non potermi rivolgere a un funzionario<br />

per chiedergli di fare qualcosa di<br />

illegittimo, anche se volessi, perché quel<br />

funzionario mi direbbe: ‘No, mi dispiace,<br />

io non lo faccio perchè tu fra un mese te<br />

ne vai e ne viene un altro’. <strong>In</strong> un sistema<br />

politico in cui vi è una ragionevole persuasione<br />

che vi sia un’alternanza al governo<br />

del paese, i funzionari non deviano,<br />

non fanno favori sottobanco agli uomini<br />

di governo e quindi alle spalle di<br />

quelle deviazioni, anche delle deviazioni<br />

che non c’entravano con i grandi principi<br />

della guerra fredda, c’era, a mio avviso, il<br />

sistema politico bloccato che nasceva<br />

dalla guerra fredda”.<br />

Comunque, resta sempre un buon criterio<br />

quello segnalato da Lucien Febvre secondo<br />

il quale in assenza di domande<br />

appropriate i documenti restano imperturbabilmente<br />

muti.<br />

Non parlano da soli anche perché lo storico<br />

non vaga “a caso attraverso il passato,<br />

come uno straccivendolo a caccia<br />

di vecchiumi, ma parte con un disegno<br />

preciso in testa, con un problema da risolvere,<br />

con un’ipotesi di lavoro da verificare”.<br />

Non si può sottovalutare il fatto che ogni<br />

generazione rivolge ai documenti, cioè al<br />

passato, interrogativi, sollecitazioni, cioè<br />

domande diverse. Esse “gettano una luce<br />

nuova anche su fatti accertati (per<br />

esempio, la presa della Bastiglia) che<br />

nessuno si sogna di mettere in discussione”.<br />

Per fare un passo in avanti, e stabilire il<br />

livello di affidabilità, se non il fondamento,<br />

dell’informazione data da un collaboratore<br />

della polizia sarebbe necessario<br />

compiere una duplice operazione.<br />

<strong>In</strong> primo luogo, verificare chi è il confidente<br />

o la spia, e quale fiducia gli organi<br />

di polizia ripongono in loro.


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Il <strong>numero</strong> di protocollo con cui viene registrata<br />

in un apposito schedario la posta<br />

in arrivo al Ministero dell’<strong>In</strong>terno consente<br />

questa operazione. Purtroppo raramente<br />

il consulente ne viene messo a conoscenza<br />

all’inizio della sua indagine archivistica.<br />

Confesso che io stesso l’ho<br />

scoperta, casualmente, alla fine del mio<br />

mandato di consulenza presso la Commissione,<br />

e quindi non me ne sono potuto<br />

avvalere.<br />

Questo elemento nuovo dovrebbe indurre<br />

quanti, al pari di me, hanno lavorato<br />

sulle carte di polizia, a verificarle ex novo,<br />

a partire dal giudizio sulle serietà del<br />

confidente o dell’informatore.<br />

Mi chiedo, un po’ sconcertato, come mai<br />

i parlamentari delle Commissioni di inchiesta<br />

non pretendano dai loro collaboratori<br />

e consulenti un tale controllo.<br />

Mi rendo conto che se venisse pubblicata<br />

o resa pubblica la lista dei “collaboratori<br />

della polizia”, lo Stato perderebbe<br />

ogni autorevolezza, mettendo a repentaglio<br />

la sicurezza dei propri cittadini. È la<br />

ragione per la quale Togliatti dovette interrompere<br />

la pubblicazione, baldanzosamente<br />

iniziata, sulla Gazzetta ufficiale<br />

dei nominativi delle spie dell’Ovra, la polizia<br />

politica fascista.<br />

Analogamente è eccezionale che al consulente<br />

venga dato in visione il catalogo<br />

o l’inventario degli archivi alla cui consultazione<br />

è stato ammesso. Si tratti di quelli<br />

delle questure, delle prefetture o del<br />

Gabinetto del ministro, degli affari riservati<br />

o del servizio segreto.<br />

Occorre tener conto di una situazione di<br />

fatto che anche chi insegue la lista dello<br />

organico dell’apparato militare del Pci<br />

dovrebbe prendere in seria considerazione.<br />

Spie e confidenti debbono mettere insieme<br />

il pranzo con la cena.<br />

117<br />

Quelli che ogni cinque per cinque dall’Emilia-Romagna<br />

ne scodellavano una<br />

versione allo ambasciatore degli Usa a<br />

Roma, James Dunn, si assottigliano appena<br />

il diplomatico di Washington fa sapere<br />

che non intende pagare con un assegno<br />

in dollari, a piè di lista, le loro ”rivelazioni”.<br />

Era gente costretta a ricavare un reddito,<br />

magari il più alto possibile, dall’inventare<br />

piste, comporre liste di sovversivi, escogitare<br />

piani e progetti di eversione. Tutto<br />

si giocava sulla capacità di convincere la<br />

polizia che esisteva un pericolo incombente<br />

da trattare con la massima concentrazione<br />

dei mezzi di repressione e di<br />

sorveglianza consentiti alle forze dell’ordine.<br />

<strong>In</strong> altre parole, piste, elenchi, circostanze<br />

sono (addirittura per due terzi, secondo<br />

un recente calcolo) un materiale e una<br />

mappa di falsità e manipolazioni. Ma su<br />

di esse vivono singles e intere famiglie.<br />

Né si può dare credibilità agli informatori<br />

esaltando oltre ogni misura la loro capacità<br />

di infiltrarsi in un movimento o in un<br />

partito. Se non si è bravissimi, capacissimi,<br />

si viene individuati, e il prezzo può essere<br />

l’eliminazione anche fisica.<br />

Ci si brucia facilmente a cercare di inserirsi<br />

in un gruppo soprattutto se è d’opposizione,<br />

semiclandestino ed è assai coeso<br />

al proprio interno.<br />

Se non si sta attenti, la difficoltà nel padroneggiare<br />

le carte di questi personaggi<br />

può trasformarle in una camicia di forza<br />

che soffoca il ricercatore.<br />

Non meno che in epoca fascista, anche<br />

nel Pci dopo la seconda guerra mondiale<br />

gli infiltrati furono a ranghi molto ridotti.<br />

La polizia dovette servirsi per lo più di militanti<br />

e dirigenti in crisi.<br />

<strong>In</strong> secondo luogo, occorre rivolgersi all’intelligence<br />

di altre strutture (la Marina,


la Guardia di Finanza, la Nato ecc.) e in<br />

particolare al Comando dell’Arma dei Carabinieri.<br />

Diversi sono i modi di lavorare, le tradizioni,<br />

il rispetto che ognuno di essi ha<br />

nell’opinione pubblica, e quindi l’attendibilità<br />

di cui godono.<br />

Poliziotti e Carabinieri<br />

I poliziotti si limitano a una registrazione<br />

notarile, proiettata nel tempo e nello spazio,<br />

delle persone e delle azioni. <strong>In</strong>formano<br />

anzitutto su chi siano i membri di<br />

un’organizzazione o di un gruppo, chi<br />

hanno visto, dove sono avvenuti gli incontri,<br />

su quali mezzi e a quali ore si siano<br />

effettuati i viaggi e gli spostamenti<br />

ecc..<br />

Anche se è vero che progressivamente,<br />

soprattutto con la costituzione della polizia<br />

politica del regime fascista (l’Ovra) e<br />

la maggiore razionalizzazione delle forze<br />

del controspionaggio e dell’intelligence, il<br />

corpo del Ministero dell’<strong>In</strong>terno addetto<br />

alla prevenzione ha affinato le proprie<br />

competenze e i campi di intervento, tradizionalmente<br />

sono stati i carabinieri a riferire<br />

sia sulla trama delle azioni portate a<br />

termine sia sulle intenzioni politiche da<br />

cui i comunisti (o gli anarchici ecc.) sarebbero<br />

stati animati.<br />

Questa suddivisione del campo di intervento<br />

è diventata assai labile dal momento<br />

che polizia e carabinieri assolvono<br />

entrambi a compiti di polizia giudiziaria.<br />

Alla fine ad entrambi spetta accertare se,<br />

e quando, tale organizzazione comunista<br />

o anarchica o terroristica in armi ha mai<br />

sparato, cioè abbia fatto esercitazioni o<br />

addestramenti in boschi, parchi, montagne,<br />

luoghi pubblici o privati.<br />

Pertanto, anche se è indubbia l’utilità delle<br />

fonti di polizia per ricostruire la cornice<br />

dei fatti, resta incerta la convenienza di<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

118<br />

ricorrere ad esse “per interpretare il quadro<br />

esistente entro tale cornice”.<br />

L’esistenza (e la stessa valutazione della<br />

pericolosità) di una banda armata si può<br />

rilevare, invece, almeno in parte, dalle relazioni<br />

dei comandanti delle tenenze dei<br />

Carabinieri e da quelle dei comandanti<br />

delle singole regioni e soprattutto, quando<br />

il pericolo è consistente, dallo Stato<br />

maggiore della Difesa.<br />

Si tratta di archivi che sino a <strong>questo</strong> momento<br />

hanno una caratteristica originale,<br />

forse unica. Risultano inaccessibili. Ovviamente<br />

anche a me, che ne ho fatto<br />

esplicita richiesta, quando alle testa di<br />

questi ministeri c’erano sia esponenti del<br />

centro-destra sia, successivamente, del<br />

centro-sinistra.<br />

Esiste non una norma, ma semplicemente<br />

una prassi che impedisce in maniera<br />

quasi assoluta la consultazione<br />

dell’archivio storico dell’Arma. È bene ripetere<br />

che ciò avviene in plateale contrasto<br />

con la legislazione vigente sul trattamento<br />

degli archivi di altri corpi e istituzioni<br />

statali.<br />

Sarebbe, pertanto, opportuno che il ministro<br />

della Difesa on. Arturo Parisi facesse<br />

un passo formale sul nuovo comandante,<br />

gen. Gianfranco Siazzu, perché<br />

si ponga fine a un andazzo fondato<br />

sulla pura discrezionalità da parte dei<br />

suoi predecessori.<br />

Questa semplice, ma indispensabile trafila<br />

esige un’analisi incrociata tra le informazioni<br />

raccolte dai <strong>questo</strong>ri, cioè il Ministero<br />

dell’<strong>In</strong>terno, il Ministero delle Finanze<br />

e il Ministero della Difesa. Da quest’ultimo<br />

dipende il corpo dei carabinieri e<br />

degli agenti dell’intelligence.<br />

Non meno che agli inquisitori dei tribunali<br />

periferici della Santa <strong>In</strong>quisizione sui<br />

processi di stregoneria celebrati in Europa<br />

tra Quattrocento e Seicento, ai consu-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

lenti delle Commissioni bicamerali di inchiesta<br />

si chiedono riscontri oggettivi,<br />

cioè fonti di prove il più possibile sicure<br />

per potere costruire un quadro probatorio<br />

e ricco di accertamenti oggettivi.<br />

Ebbene, la documentazione allegata alla<br />

Gladio rossa e al processo a Lotta continua<br />

(attraverso la metafora del processo<br />

al suo capo, Adriano Sofri) delinea una<br />

situazione che consente di misurare l’enorme<br />

distanza tra il giudice e lo storico.<br />

Ciò è vero indipendentemente dalla circostanza<br />

che le accuse a Lotta Continua<br />

siano state provate, come ha sostenuto il<br />

sostituto procuratore della Repubblica di<br />

Milano Armando Spataro, o non lo siano<br />

come, invece, ha argomentato Adriano<br />

Sofri.<br />

Decisivo è l’accertamento dei fatti.<br />

Riguarda non solo l’esistenza della struttura<br />

clandestina di Lotta Continua, ma<br />

anche lo sforzo volto a identificare la zona<br />

di montagna o di collina del Piemonte<br />

nella quale, secondo limputato-accusatore<br />

Leonardo Marino, furono trovate<br />

sagome di uomini disegnate sui muri, o<br />

rilevati i segni dei colpi di arma da fuoco<br />

su di esse, cioè le tracce di esercitazioni<br />

a fuoco.<br />

Il presupposto dell’investigazione giudiziaria<br />

è quello di cercare di documentare<br />

che la struttura clandestina di Lotta Continua<br />

esistesse per davvero, grazie all’ausilio<br />

di armi e documenti. Solo sulla<br />

base dell’operatività di questa organizzazione<br />

collettiva si può escludere che Leonardo<br />

Marino abbia agito di testa propria,<br />

e si può ammettere che si potesse eseguire<br />

in maniera organizzata e coordinata<br />

un omicidio politico come quello del<br />

commissario della questura di Milano<br />

Luigi Calabresi.<br />

Nel caso dell’apparato militare del Pci, la<br />

cd Gladio rossa, che sarebbe esistito al-<br />

119<br />

meno fino agli anni Sessanta, per il periodo<br />

successivo mi pare ci si sia accontentati<br />

di dichiarazioni di seconda e terza<br />

mano, desunte per lo più da relazioni o<br />

telegrammi di organi dello Stato per la difesa<br />

dell’ordine e della sicurezza.<br />

Si tratta di meri indizi senza alcun riscontro<br />

(o con riscontri occasionali e imprecisi)<br />

su addestramento, esercitazioni ecc.<br />

E soprattutto in assenza di elementi probatori<br />

che possono venire dai rapporti<br />

scritti di chi, come l’Arma dei Carabinieri<br />

e la stessa polizia o l’esercito, è deputato<br />

ad accertare movimenti e azioni collettive<br />

come campi di addestramento ed<br />

esercitazioni con armi da fuoco.<br />

Non mi risulta che le commissioni parlamentari<br />

sulle stragi e sul dossier Mitrokhin<br />

abbiano mai predisposto una sorta<br />

di perizia storiografica, a cominciare da<br />

una mappa degli archivi da esaminare.<br />

Tutto è stato affidato all’inventiva individuale<br />

e alla sapienza personale dei singoli<br />

consulenti.<br />

Il loro cilicio di solitudine evoca solo l’assenza<br />

di una direzione, di un orientamento,<br />

una regia, se non proprio una<br />

strategia di comando, da parte del summit<br />

politico (sempre bipartisan)<br />

È il caso di ricordare che raramente essi<br />

sono stati riuniti per fare il punto sui risultati<br />

delle loro missioni di studio. Né hanno<br />

fatto di più per programmarne il seguito,<br />

sulla base di una divisione del lavoro<br />

corrispondente ad un progetto di<br />

volta in volta stabilito e verificato dagli organi<br />

della Commissione.<br />

Spesso è lo stato deplorevole degli archivi,<br />

le plateali sottrazioni o l’indisponibilità<br />

di carte importanti a rendere difficile<br />

la ricostruzione di una vicenda o di un<br />

evento.<br />

Non penso si possa ovviare a tutto ciò<br />

con l’accorgimento (non so se partorito


dalla burocrazia parlamentare o dallo<br />

stesso Ufficio di Presidenza) che venne<br />

adottato in più occasioni dalla Mitrokhin,<br />

cioè di destinare allo spoglio dello stesso<br />

archivio (è il caso di alcune questure, in<br />

cui ho potuto verificare l’esistenza di <strong>questo</strong><br />

fenomeno di controllo partitocratico)<br />

due studiosi considerati di afferenza politica<br />

diversa.<br />

Un principio di ciellenismo applicato alla<br />

storiografia è un pizzico di umorismo,<br />

un rigurgito di comicità in una vicenda<br />

per suo conto poco seria per le nostre<br />

istituzioni.<br />

L’accesso alle fonti<br />

Non esiste solo un problema di quantità<br />

delle fonti da esaminare, ma di disponibilità<br />

a permettere l’accesso ad esse. Fortissima<br />

è la tendenza dei ministeri a conservare<br />

le proprie carte, senza che a<br />

<strong>questo</strong> spirito proprietario si accompagni<br />

una cura adeguata degli archivi detenuti.<br />

Quelli delle questure, come ho potuto<br />

constatare, si stanno rapidamente impoverendo<br />

a causa della distruzione sistematica<br />

conseguente alla mancata cura<br />

dei depositi, degli inventari, del personale<br />

ecc. Si tratta di materiale prezioso che<br />

invece di essere versato rapidamente<br />

agli archivi di stato, inesorabilmente va al<br />

macero in sottoscale, cantine, magazzini<br />

sottoposti a infiltrazioni di acqua e all’opera<br />

di addentatissimi sciami di roditori.<br />

<strong>In</strong>utilmente nel corso delle mie ricerche<br />

ho informato i ministri, compresi quelli in<br />

carica, della necessità di salvaguardare<br />

<strong>questo</strong> grande patrimonio, non solo liberalizzando<br />

la consultazione, ma disponendo<br />

il trasferimento del materiale che<br />

non serve più a fini operativi nelle strutture<br />

degli archivi statali. È un’esigenza che<br />

ho visto condivisa allo stesso personale<br />

delle questure che ho visitato. Ma finora<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

120<br />

non c’è stato niente da fare. Roma tace.<br />

Malgrado i poteri di cui le Commissioni<br />

dispongono, la liberalità e la gentilezza di<br />

capi-gabinetto e funzionari, i ministeri<br />

continuano ad avere una discrezionalità<br />

quasi assoluta.<br />

Anche in <strong>questo</strong> caso, credo basti qualche<br />

esempio.<br />

Su argomenti come lo spionaggio politico,<br />

militare, industriale ecc. sovietico in<br />

Italia, sulla cd rivolta antifascista di massa<br />

dell’estate 1960, sugli attentati ai treni,<br />

sull’addestramento di migliaia di comunisti<br />

in Cecoslovacchia, sui prelievi di<br />

tangenti da parte dei Pci sull’import-export<br />

con i paesi dell’Europa orientale,<br />

sul Cominform, sull’Urss ecc., ho ricevuto<br />

dal Ministero della Difesa del materiale<br />

incredibilmente scarso. È costituito<br />

prevalentemente dalle relazioni dei dirigenti<br />

del servizio segreto (Sifar) relativamente<br />

ad una manciata di anni, quando<br />

era diretto dai generali U. Broccoli ed<br />

E. Musco.<br />

Più ricco, grazie alla maggiore liberalità<br />

del ministro Giuseppe Pisanu, il bottino<br />

raccolto presso il Ministero dell’<strong>In</strong>terno.<br />

Pochissimo o nulla è filtrato dagli archivi<br />

praticamente impenetrabili, in violazione<br />

della legislazione esistente, dell’Arma dei<br />

Carabinieri. Eppure non esiste nessuna<br />

legge che la esenti dal versare le propri<br />

carte all’Archivio Centrale dello Stato o di<br />

ammettere gli studiosi alla loro utilizzazione<br />

nelle stesse sedi dell’Arma.<br />

L’ultima osservazione che intendo fare concerne<br />

la fine del materiale archivistico accumulato<br />

dalle Commissioni. La sua destinazione<br />

è, come dicevo all’inizio, l’Archivio<br />

storico del Senato. Avrei preferito, come gli<br />

altri colleghi storici della Sissco, quella dell’Archivio<br />

Centrale dello Stato dove esiste<br />

un nucleo di personale specializzato e spazi<br />

adeguati per accogliere studiosi e ricer-


l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

catori, anche se la tragica mancanza di<br />

fondi rende l’informatizzazione e la stessa<br />

a manutenzione e salvaguardia di queste<br />

carte non poco problematica.<br />

Di qui la necessità di dividere le funzioni<br />

con l’Archivio storico del Senato. Purtroppo<br />

anche per la tenuta degli archivi<br />

siamo il fanalino di coda dell’Europa.<br />

Il versamento delle carte acquisite dalle<br />

Commissioni parlamentari di inchiesta<br />

esige una procedura che può richiedere<br />

anche lunghissimi anni. Nelle more le<br />

carte diventano oggetto di una sorta di<br />

usucapione, se non di monopolio privato,<br />

dei responsabili degli uffici stralcio. Rude,<br />

pagana, burocratica, razza padrona.<br />

Ad essi e al personale delle relative segreterie<br />

si assicura una vita felice scandita<br />

dal non molto da fare nelle silenziosissime<br />

e deserte stanze del terzo piano di<br />

San Macuto.<br />

<strong>In</strong>vece per gli studiosi questi archivi restano<br />

a cortine abbassate o si trasformano<br />

in merce servita in maniera caritatevole.<br />

<strong>In</strong>somma, sono una pena crescente<br />

perchè diventano sempre più lontani, e<br />

semplicemente inaccessibili.<br />

Possibile che il Presidente del Senato<br />

Franco Marini e della Camera Fausto<br />

Bertinotti e in generale le stesse assemblee<br />

elettive non abbiano l’interesse, e la<br />

forza, per segnare una discontinuità con<br />

questa prassi? Si tratta di imporre agli uffici-stralcio,<br />

se proprio non li si vuole sopprimere<br />

(come sarebbe ragionevole e<br />

opportuno), di sottoporre ad un regime di<br />

apertura, cioè di consultabilità, i materiali<br />

acquisiti dalle Commissioni Oppure di<br />

separare la pubblicazione dei documenti<br />

dalla loro archiviazione e consultazione<br />

(magari presso l’ACS).<br />

Per di più essi subiscono anche un processo<br />

di depauperamento del loro valore<br />

per la seguente ragione.<br />

121<br />

Mi riferisco alla prassi scellerata che discende<br />

da un’interpretazione ottusa dei<br />

poteri del parlamento. <strong>In</strong>vece di poter imporre<br />

la propria sovranità lo si condanna<br />

ad andare a rimorchio di poteri di secondo<br />

grado quali sono le Commissioni parlamentari<br />

di inchiesta, nominate dai presidenti<br />

di Camera e Senato.<br />

Il Comitato nominato ai sensi dell’articolo<br />

22, comma 2, del Regolamento interno,<br />

per definire i criteri di pubblicità degli atti e<br />

dei documenti formati o acquisiti dalla Mitrokhin<br />

nel corso dell’inchiesta, si è riunito<br />

a palazzo San Macuto il 15 marzo 2006.<br />

La riunione è durata dalle 14,10 alle<br />

14,25 .Si è conclusa con una proposta di<br />

delibera che il Presidente e i membri della<br />

Commissione hanno accolto praticamente<br />

senza fiatare.<br />

<strong>In</strong> base ad essa si è escluso di rendere<br />

pubblici atti e documenti provenienti da<br />

privati (persone fisiche, persone giuridiche<br />

ed enti di fatto) che abbiano fatto richiesta<br />

di uso riservato; gli elaborati prodotti<br />

dai commissari e dai collaboratori<br />

della Commissione con esclusione delle<br />

parti che riproducano il contenuto di atti e<br />

documenti classificati, su richiesta degli<br />

enti erogatori.<br />

Perché il lettore si renda conto di quanto<br />

sia priva di senso, cioè meramente formalistica<br />

e di pugno burocratico, questa<br />

delibera, mi limito a ricordare qualche<br />

aspetto.<br />

Per quanto concerne la pubblicazione, la<br />

Commissione fa valere il vincolo di segretezza,<br />

per 20 anni, sulle schede del<br />

Sifar. Si tratta di quanto ho potuto ottenere,<br />

cioè mi è stato imbandito, dal Ministero<br />

della Difesa. Ovviamente, avevo chiesto<br />

più volte di poter consultare i verbali<br />

e le relazioni dello Stato Maggiore della<br />

Difesa, del Comando generale dei carabinieri,<br />

del Sismi, dei responsabili delle


Regioni militari, insieme alle carte delle<br />

Prefetture ecc.<br />

<strong>In</strong> realtà, mi sono state messe a disposizione<br />

soltanto delle informative di alcuni<br />

alti ufficiali gli ufficiali del Sifar. Riguardano<br />

per lo più pettegolezzi, notizie raccolte<br />

di terza o quarta mano sulla vita del<br />

Pci la cui importanza è semplicemente ridicola<br />

o nulla. Oppure sono segnalazioni<br />

relative a riunioni di sezioni o di segreterie<br />

di federazioni su armamenti, manifestazioni<br />

”sediziose”. Il loro fondamento<br />

viene smentito dallo stesso Sifar nel giro<br />

di qualche mese. Oppure si blindano i<br />

dossier (privi di ogni valore) su Massimo<br />

D’Alema e su vecchi dirigenti partigiani.<br />

Per non parlare delle <strong>numero</strong>se carte<br />

dell’intelligence sull’inchiesta relativa alla<br />

Gladio rossa condotta da Franco Ionta,<br />

che si trova allegata al relativo processo<br />

a Piazzale Clodio, a Roma, o alla strage<br />

di Bologna.<br />

<strong>In</strong> base all’infausta delibera, approvata all’unanimità,<br />

della Commissione sul dossier<br />

Mitrokhin le carte trasferite alle Commissioni<br />

parlamentari dai ministeri o da<br />

altri perdono l’eventuale classifica (cioè il<br />

vincolo di segretezza che ne vieta la consultazione)<br />

solo se l’ente erogatore (Ministero<br />

della Difesa, Presidenza del Consiglio,<br />

Sismi ecc.) accetta di rimuoverlo nell’arco<br />

di trenta giorni dal momento in cui<br />

viene informato che tali carte saranno trasferite<br />

all’Archivio storico del Senato.<br />

Fanno il resto la sindrome proprietaria<br />

esclusiva da cui sono dominati i ministeri<br />

e il fatto che nessuno, nei ministeri e in<br />

altri archivi statali, ha voglia e tempo di<br />

esaminare attentamente, fino a rimuoverlo,<br />

la natura del vincolo di segretezza apposto<br />

su migliaia di carte prelevate dai<br />

consulenti.<br />

Dunque, non si avvia alcuna procedura<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

122<br />

per la loro de-classificazione. Esse restano<br />

segrete, riservate, cioè inconsultabili<br />

anche quando approdano al Senato.<br />

Questa procedura sembra essere assai<br />

superbamente insensata. Non si vede<br />

perché le commissioni parlamentari, che<br />

sono espressione, e anzi veri e propri organi,<br />

fonti primarie della sovranità legislativa<br />

rappresentata da Camera e Senato<br />

debbano sottostare alla volontà di organi<br />

secondari, come i ministeri e, peggio, gli<br />

uffici stralcio.<br />

<strong>In</strong> altre parole, le Commissioni devono<br />

poter prescindere, a parte i problemi di<br />

etichetta, da autorizzazioni e decisioni<br />

esterne, de-classificando, se lo si ritiene<br />

necessario e opportuno, i documenti<br />

qualunque siano i vincoli con cui sono<br />

pervenuti dagli enti erogatori.<br />

Stabilire un principio diverso significa fare<br />

strame delle funzioni e dell’identità<br />

stessa del potere del parlamento.<br />

Come mai i presidenti delle Commissioni<br />

e i responsabili dei partiti che le compongono<br />

non hanno mai sentito l’esigenza di<br />

difenderla e preservarla, stabilendo il<br />

principio della consultabilità dei documenti<br />

e quindi della loro de-classificazione<br />

senza rimettersi al benestare degli enti<br />

che li hanno concessi?<br />

Ovviamente quanto non ha fatto il potere<br />

politico, cioè i parlamentari, non può essere<br />

delegato agli uffici delle segreterie,<br />

cioè alla burocrazia di San Macuto, che<br />

deve assecondare le condizioni poste<br />

dagli enti erogatori.<br />

Di qui l’urgenza di un intervento del parlamento.<br />

Ma non basterebbe un’iniziativa<br />

concordata dei presidenti della Camera e<br />

del Senato a finalmente liberalizzare gli<br />

accessi agli archivi, facendo quanto le<br />

Commissioni parlamentari avrebbero potuto<br />

decidere e non hanno fatto?


u b r i c h e<br />

DaRold Gironda Irmici


Mentre andiamo in stampa...<br />

Sarkozy ha vinto e noi con lui, Ségolène ha perso e con lei l’Ulivo mondiale,<br />

il Partito Democratico che non è fatto da liberal all’americana (e speriamo che<br />

lo diventi) e la sinistra antagonista sessantottina, filo-fondamentalista(islamica)....<br />

Consentiteci di felicitarci con il vincitore di cui in tempi “non sospetti” abbiamo<br />

auspicato la vittoria.<br />

Dalle agenzie<br />

FRANCIA:VOTO; BERLUSCONI, ESAURITA CAPACITA'GOVERNO SINISTRA<br />

(ANSA) - ROMA, 6 MAG - ''La netta affermazione di Nicolas Sarkozy dimostra la<br />

volonta' di cambiamento che sta attraversando tutta l'Europa e non solo la Francia.<br />

La sconfitta della Royal e' un'ulteriore prova del fatto che gli europei considerano<br />

ormai esaurita la capacita' di governare della sinistra''. Cosi' Silvio Berlusconi commenta<br />

le elezioni per l'Eliseo.<br />

“Sono legato a Nicolas Sarkozy - aggiunge Berlusconi - da antica stima ed amicizia<br />

sul piano personale. Sul piano politico Sarkozy condivide gli stessi valori e gli<br />

stessi principi che sono alla base del nostro impegno politico e il programma che<br />

egli ha presentato ai francesi coincide sostanzialmente con il nostro. A Nicolas Sarkozy<br />

vanno le mie piu' affettuose congratulazioni e gli auguri piu' cordiali per la sua<br />

presidenza''. (ANSA).<br />

FRANCIA: VOTO; CICCHITTO, SINISTRA IN DIFFICOLTA' IN EUROPA<br />

(ANSA) - ROMA, 6 MAG - ''Complessivamente, in Europa la sinistra e' in grande<br />

difficolta' ''. Lo afferma Fabrizio Cicchitto, vicecoordinatore di FI., commentando i risultati<br />

per l'Eliseo.<br />

''La vittoria di Sarkozy - sottolinea - e' assai netta. Essa dimostra che egli ha saputo<br />

coordinare l'innovazione con la tenuta della societa' francese rispetto a spinte<br />

disgreganti che pure esistono''.<br />

'La Royal ha dato una bella immagine mediatica - aggiunge - che pero' e' stata neutralizzata<br />

dal fatto che ha riproposto le opinioni piu' tradizionali ed invecchiate della<br />

sinistra. I dati numerici dimostrano che a Sarkozy e' riuscito il capolavoro politico di<br />

svuotare la destra di Le Pen e di guadagnare larga parte dei voti del centro''.<br />

''Come spesso gli capita - conclude - Michel Rocard aveva capito molte cose, ma<br />

per realizzarle sarebbe stata necessaria una tempestiva modernizzazione della sinistra<br />

francese, che non e' affatto avvenuta''. (ANSA).<br />

124


La nuova comunicazione<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

Stampa on line, la rivoluzione<br />

del terzo millennio di Gianluigi Da Rold<br />

La tendenza è ormai radicata, si potrebbe definire<br />

inarrestabile. Ed è quella di un passaggio<br />

epocale alla comunicazione via internet, on line,<br />

da quella della stampa tradizionale. Possiamo<br />

cogliere uno degli ultimi segnali più clamorosi<br />

nella rivista “Life”, un mito che non si troverà<br />

più in edicola ma on line. Oppure nella “fuga”<br />

degli editorialisti americani più prestigiosi di<br />

“The New York Times” o di “The Washington<br />

Post” che interagiscono ormai, in tempo, con il<br />

pubblico in “The politico”. Oppure ancora nelle<br />

grandi manovre finanziarie del “re delle comunicazioni”,<br />

Rupert Murdoch che fa offerte da<br />

capogiro per “The Wall Street Journal” e probabilmente<br />

anche per “Reuters”.<br />

È la rivoluzione annunciata, il mondo del “Terzo<br />

millennio” che irrompe sulla scena della comunicazione<br />

in tempo reale e che sconvolgerà la<br />

vita sociale, economica, finanziaria e con tutta<br />

probabilità anche la vita politica. Da anni i grandi<br />

giornali americani perdevano milioni copie e<br />

si allargava la fascia di comunicatori via internet.<br />

La stessa pubblicità, uno dei motori della<br />

comunicazione e un fattore determinante di bilancio<br />

delle imprese editoriali, si trasferisce<br />

sempre di più su internet. <strong>In</strong> Europa si notava la<br />

stessa tendenza; in Italia, come al solito, si<br />

dormiva, pubblicando e vendendo lo stesso <strong>numero</strong><br />

di quotidiani come nel 1939, moltiplicando<br />

una serie di “magazines” di intrattenimento<br />

leggero e soprattutto senza pensare a quello<br />

che in breve tempo sarebbe capitato.<br />

Non passeranno molti anni neppure nel Belpaese<br />

quando, per la sinergia tra telefono e<br />

monitor, con una sofisticata tecnologia che<br />

sfrutta le onde radio, qualsiasi cittadino italiano<br />

potrà arrivare in qualsiasi parte del mondo, in<br />

qualsiasi luogo, aprire il suo computer e aprire<br />

una “finestra sul mondo”, attraverso immagini e<br />

parole, interagendo in pochi minuti, trasferendovi<br />

direttamente le sue telefonate in entrata e<br />

in uscita. La grande rivoluzione del Terzo mil-<br />

125<br />

lennio deve far ripensare tutto il mondo della<br />

comunicazione e in fondo, il dossier Telecom di<br />

queste settimane, non è che l’antipasto di un<br />

autentico terremoto nel mondo dell’informazione<br />

anche in Italia.<br />

Quasi tutti i quotidiani italiani hanno oggi un sito<br />

dove si può trovare un aggiornamento sintetico<br />

delle notizie. Ma è una “goccia nell’oceano”<br />

rispetto alle necessità di un uomo politico o di<br />

un uomo di affari, ma anche di un semplice cittadino.<br />

Sono nate anche nuove esperienze,<br />

con siti più o meno riusciti. Si pensi a “Dagospia”<br />

che rappresenta un “giornale” on line di<br />

aggiornamento tra i più completi di notizie e di<br />

gossip finanziari e politici. Il paradosso è tale<br />

che soltanto un anno fa, nel panorama di tutta<br />

l’editoria italiana, l’unico riconoscimento internazionale<br />

di valore giornalistico è arrivato proprio<br />

al direttore di “Dagospia”, Roberto D’Agostino.<br />

Ma “Dagospia”, in un futuro non tanto remoto,<br />

può rappresentare solo un battistrada in<br />

<strong>questo</strong> nuovo mondo della comunicazione. Chi<br />

scrive queste note, da tre anni collabora con “Il<br />

Velino”, un’agenzia che si è meritata il riconoscimento<br />

di “interesse nazionale”, ma che vuole<br />

essere il prototipo di un giornale on line, che<br />

cura particolarmente il mondo delle aziende italiane,<br />

il mercato finanziario internazionale, la<br />

grande diplomazia europea e la politica italiana.<br />

Siamo ancora su “numeri bassi”, tra lettori<br />

sistematici e i cosiddetti contatti. Ma la potenziale<br />

platea è enorme già adesso, destinata ad<br />

ampliarsi e a sconvolgere i tradizionali canali di<br />

informazione.<br />

Il problema vero è quello dell’interazione (il botta<br />

e risposta tra chi lancia una notizia a e chi<br />

desidera rispondere), che in Italia è ancora trascurato,<br />

e il sistematico aggiornamento che richiede<br />

una copertura giornalistica di 24 ore al<br />

giorno. Quindi il problema è quello di immaginare<br />

nuove imprese editoriali, con sinergie<br />

sempre più raffinate e magari con un terminale


sintetico e quotidiano di carta stampata del tipo<br />

“free press”, il riassunto della grande interazione<br />

che avviene via internet. Lo scenario è già in<br />

grande mutamento e riguarda non solo la carta<br />

stampata. Anche tutto il mondo della televisione,<br />

il notiziario classico, sembra dover essere<br />

travolto dall’integrazione tra telefono e monitor.<br />

Il classico telegiornale a ora fissa, la televisione<br />

generalista, sta già, da anni, per essere sostituita<br />

dalla televisione on demand e dai notiziari<br />

“update” che si rincorrono ogni mezz’ora.<br />

Lo stesso sviluppo tecnologico, con apparecchi<br />

Nuovi scenari vengono aperti dalle novità tecnologiche<br />

nel settore dei mezzi di informazione,<br />

con la diffusione su scala mondiale della rete di<br />

internet e dalle nuove possibilità di accesso e<br />

di trasmissione. La diffusione dei contenuti fa<br />

registrare l’esponenziale consultazione delle<br />

enciclopedie in rete, con l’abbandono di altri<br />

strumenti usati in precedenza, per cercare notizie,<br />

chiarimenti, informazioni scientifiche, resoconti<br />

storici, e quanto altro può servire per aggiornare<br />

le proprie conoscenze con rapidità.<br />

Questa preferenza per le ricerche sul web quale<br />

fonte preferenziale di informazioni, sta provocando<br />

conseguenze non facilmente intuibili<br />

per tutti coloro che, come in particolare gli over<br />

sessanta, non hanno una abitudine consolidata<br />

all’accesso sul web.<br />

Non vi è, di conseguenza, una precisa comprensione,<br />

anche tra gli uomini di cultura ed i<br />

politici, tra i quali vi sono molti over sessanta in<br />

posizioni di responsabilità, di quale scontro sia<br />

in corso nella rete per guadagnare l’egemonia<br />

sui contenuti della proposta informativa. Si sottovaluta,<br />

in particolare nel centro destra, quali<br />

conseguenze nel tempo, una informazione non<br />

obiettiva, unilaterale nella proposta, possa avere<br />

nel condizionare gli orientamenti di una opinione<br />

pubblica, influenzandone direttamente le<br />

scelte elettorali. E non si vede per <strong>questo</strong>, fino<br />

ad ora, nessuna iniziativa, per contrastare questa<br />

deriva.<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

126<br />

televisivi dotati di antenne paraboliche, ha già<br />

“colonizzato” alcuni Paesi da tempo: in Olanda,<br />

tanto per intenderci, si guarda la televisione inglese<br />

o comunque i bambini adottano l’olandese<br />

come seconda lingua tra le mura di casa. La<br />

questione che si pone ha anche aspetti culturali<br />

e di identità che dovranno essere affrontati.<br />

Al momento, secondo gli analisti americani,<br />

una notizia su un sito ha ancora un valore per<br />

la durata di 36 ore. Nel momento in cui, la rivoluzione<br />

on line entrerà nella fase finale, quelle<br />

36 ore saranno sostituite da un spazio di tempo<br />

molto più limitato.<br />

La battaglia su Wikipedia di Francesco Gironda<br />

Nel caso di Wikipedia, la più importante delle<br />

enciclopedie in rete, dove “non soltanto chiunque<br />

può pubblicare on-line il proprio sapere, ma<br />

ognuno può anche modificare, correggere ed<br />

aggiornare ciò che è stato immesso da altri”,<br />

siamo però di fronte ad un contenitore che ha in<br />

sé proprio la regola che stimola dialettica e pluralità<br />

delle fonti, (le linee guida dei cinque pilastri<br />

che ne definiscono le caratteristiche si trovano<br />

facilmente digitando http://it.wikipedia.org.<br />

Ma <strong>questo</strong>, almeno per la sezione in lingua italiana<br />

(292.218 voci già compilate), non è fino<br />

ad ora sempre stato sufficiente a garantire la<br />

correttezza e la completezza dell’informazione.<br />

Proprio le voci più consultate dai navigatori italiani<br />

per cercare informazioni sulla storia italiana<br />

del novecento ed in particolare su quella del<br />

periodo repubblicano (dal 1946 ai giorni nostri),<br />

sono compilate per lo più da estensori condizionati<br />

a priori dalla “vulgata di sinistra”, che<br />

fanno riferimento solo ad autori di testi che contrabbandano<br />

per verità storiche, nell’ambito di<br />

una visione dietrologica e complottista degli avvenimenti<br />

italiani in chiave antioccidentale, solo<br />

ipotesi che confermino questa loro preconcetta<br />

posizione. Sottacendo, e su casi eclatanti,<br />

anche sentenze definitive della magistratura<br />

quando esse non siano in linea con le loro tesi.<br />

Questo sta avvenendo perché in realtà, tranne


pochissime eccezioni, non si apre su queste<br />

voci un confronto, come le regole di Wikipedia<br />

invitano a fare, per mancanza di un intervento<br />

preciso e sostenuto nel tempo, da parte di chi,<br />

di orientamento liberale e democratico, avrebbe<br />

i migliori elementi, per ristabilire la verità o<br />

comunque offrire al navigatore un’informazione<br />

articolata.<br />

Sempre di più nel nostro paese si accetta senza<br />

reagire a sufficienza che la manipolazione<br />

delle coscienze – e tra queste, pericolosissima,<br />

quella delle nuove generazioni – avvenga attraverso<br />

la distorsione nell’uso di mezzi nati per<br />

contribuire alla crescita culturale e alla consapevolezza<br />

nell’uso degli strumenti della democrazia,<br />

che da errate informazioni ai cittadini<br />

viene di fatto distorto, depotenziato.<br />

Già una egemonia, costruita negli anni, sui contenuti<br />

e sugli apparati nel mondo dell’informazione<br />

e della cultura, dalla scuola alle università,<br />

dalle redazioni dei giornali al mondo del cinema<br />

e delle televisioni, ha di fatto rappresentato<br />

la barriera, al riparo della quale la sinistra<br />

italiana ha potuto evitare di sviluppare un processo<br />

di rigenerazione che la rendesse compatibile<br />

con l’appartenenza al mondo democratico<br />

Recensione<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

127<br />

occidentale. Complicità, svendite, ricatti, disattenzioni<br />

hanno creato un groviglio inestricabile<br />

che condiziona elaborando ed aggiornando da<br />

decenni una falsa storia del nostro paese a cui<br />

la larga maggioranza degli appartenenti ai sistemi<br />

informativi e formativi portano, quasi con<br />

automatismo, il loro specifico contributo. La battaglia<br />

per la libertà, la democrazia, il progresso<br />

si vincono in Italia solo se si batte <strong>questo</strong> blocco<br />

conservatore, sia per i contenuti che per i<br />

suoi privilegi.<br />

La una nuova frontiera è internet. <strong>In</strong> <strong>questo</strong><br />

nuovo territorio per lo scambio della conoscenza,<br />

i piccoli gruppi e persino i singoli possono<br />

contare moltissimo per impedire che anch’esso<br />

diventi territorio dominato da un “pensiero unico”.<br />

Mi auguro che gli amici che già su internet<br />

da tempo coordinano la loro presenza come<br />

quelli di Tocqueville, e di Ragion Politica, e tutti<br />

gli autori di siti e dei blog di cultura, informazione,<br />

controinformazione, non omologhi alla<br />

falsa storia che da decenni viene contrabbandata<br />

nelle coscienze degli italiani, si organizzino<br />

per combattere questa battaglia.<br />

(www.gironda.it) - (www.bietti.it)<br />

Luciano Canfora strumentalizza di Pier Ernesto Irmici<br />

Rosa Luxemburg nel pamphlet Junius usava l’espressione<br />

“socialismo o barbarie” per indicare<br />

come unico esito futuro possibile o l’instaurazione<br />

della società socialista o la degenerazione<br />

della comunità umana nel caos.<br />

Luciano Canfora nel suo pamphlet, di recente<br />

pubblicazione, Esportare la libertà. Il mito che ha<br />

fallito (Mondadori ed., Milano 2007, pp.104. Euro<br />

12), sembra sciogliere il dilemma posto dalla<br />

Luxemburg: “Un tempo si disse, e si scrisse, che<br />

l’alternativa al socialismo era ‘la barbarie’. Forse<br />

ci stiamo arrivando” (pag.78). Canfora, che è<br />

un intellettuale comunista orfano dell’Unione so-<br />

vietica, giunge a questa pessimistica conclusione<br />

perché vede ormai un mondo dove trionfa il<br />

capitalismo e il liberalismo e dove l’Occidente ha<br />

come unico antagonista il fondamentalismo islamico.<br />

A Canfora i conti non tornano perché nella sua visione<br />

del mondo avrebbe dovuto vincere il comunismo<br />

sul liberalismo, il blocco sovietico sul<br />

blocco atlantico. <strong>In</strong>vece è avvenuto esattamente<br />

il contrario, e ciò è motivo per Canfora di smarrimento<br />

e di pessimismo, mentre è motivo di ottimismo<br />

per chi oggi vede molti popoli e molti paesi<br />

sottratti al giogo comunista e tornati o quantomeno<br />

avviati alla libertà.


Senza entrare nel merito di alcuni errori, sorprendenti<br />

per uno studioso sempre ben documentato<br />

come Canfora – ad esempio trascura la<br />

battaglia navale di Navarino vinta congiuntamente<br />

da russi, inglesi e francesi contro gli ottomani<br />

per l’indipendenza greca (pag. 16); confonde nella<br />

situazione afgana alla fine degli anni ’70 la<br />

contrapposizione tribale tra i pashtum rurali del<br />

Khalq e pashtum urbani del Parcham con un contrasto<br />

tra diverse fazioni politiche, quando, invece<br />

erano gli uni e gli altri fiolosovietici (pag. 54) –<br />

il pamphlet ripercorre alcune vicende emblematiche<br />

che dovrebbero dimostrare “come il programma<br />

di ‘esportazione’ di idealità e modelli politici<br />

(‘liberta’, ‘democrazia’, ‘socialismo’ etc.) ‘copra’<br />

in realtà esigenze di ‘potenza’ ” (pag. 74).<br />

Atene è prima baluardo della libertà dell’Ellade<br />

contro i persiani, ma diventa successivamente<br />

“ferreo meccanismo di freno e di controllo, oltre<br />

che di repressione nei confronti dei greci già ‘liberati’<br />

” (pag. 9); la Rivoluzione francese sfocia<br />

nel potere personale di Napoleone e nell’Impero<br />

sicché “la guerra che ‘portava’ libertà’ e democrazia<br />

al resto dell’Europa si trasforma in guerra<br />

di conquista ammantata da un sempre meno credibile<br />

paravento ideologico” (pag. 23); quanto all’Urss,<br />

si sofferma sulla rivoluzione ungherese<br />

del 1956. <strong>In</strong> <strong>questo</strong> caso Canfora precisa che<br />

grazie alla normalizzazione non solo l’Ungheria<br />

“fu stabile ma rappresentò ben presto un nuovo<br />

modello”. Il fatto che sia stata repressa spietatamente<br />

nel sangue è del tutto secondario. <strong>In</strong>fatti,<br />

per Canfora l’intervento dell’Urss ebbe in quel<br />

frangente effetti positivi e si limita a sottolineare<br />

soltanto che “quello che ai protagonisti non fu<br />

chiaro, per lo meno non a tutti, fu che procedure<br />

di esportazione manu militari di un modello politico-sociale<br />

(considerato irrinunciabile e perciò<br />

meritevole persino di un disastroso crollo di immagine)<br />

non si possono ripetere due volte” (pag.<br />

45): per <strong>questo</strong> motivo, una decina di anni dopo,<br />

ebbe esito diverso l’invasione dei carri armati del<br />

Patto di Varsavia in Cecoslovacchia per impedire<br />

il rinnovamento politico tentato da Dubcek.<br />

Per nobilitare e giustificare l’invasione militare<br />

sovietica in Ungheria, Canfora, che pensa con<br />

nostalgia alla divisione del mondo stabilita a Yalta,<br />

propone un inaccettabile confronto con il Guatemala<br />

del 1954, quando gli americani nella loro<br />

l a r i v i s t a d e l l e l i b e r t à<br />

128<br />

area d’influenza erano intervenuti in quel Paese<br />

per tutelare gli interessi della “United Fruit Company”<br />

(pag. 41). Canfora per difendere l’indifendibile<br />

evita di dire che il colpo di stato contro il<br />

governo legittimo del Guatemala si ridusse al finanziamento<br />

da parte della Cia di pochi mercenari<br />

e all’invio di mezzi aerei del Nicaragua, cosa<br />

ben diversa dalla repressione della rivolta ungherese<br />

fatta con ingenti mezzi militari che provocarono<br />

la morte di moltissime persone.<br />

Canfora svolge tutto <strong>questo</strong> percorso per dare<br />

maggiore credibilità alla sua tesi e colpire con<br />

maggiore forza il suo vero bersaglio, il suo nemico<br />

di sempre, l’Occidente, il mondo liberale ed in<br />

primo luogo gli Usa. Gli Americani sostengono di<br />

esportare la libertà, dice Canfora, ma in realtà si<br />

tratta di una copertura retorica per giustificare il<br />

loro espansionismo. <strong>In</strong> questa chiave vede i fatti<br />

avvenuti dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre<br />

2001. Anche Benedetto XVI diventa funzionale<br />

a questa logica di potenza, infatti tra i<br />

suoi consulenti per la politica estera c’è Kissinger<br />

(pag 79), che fu tra i responsabili del golpe cileno<br />

del 1973 e dei crimini avvenuti per “esportare<br />

la libertà” in quel Paese (pag. 69).<br />

<strong>In</strong> <strong>questo</strong> pamphlet, che è interessante soprattutto<br />

per capire la crisi di un intellettuale organicamente<br />

comunista, Canfora non riesce a celare la<br />

sua nostalgia per l’Urss e per la divisione del<br />

mondo sulla base degli accordi di Yalta e di Potsdam:<br />

“La causa ‘anti-imperialista’ è nelle mani<br />

dissennate e pre-politiche del ‘partito di Dio’, o<br />

della casta sacerdotale iraniana o del suo braccio<br />

armato” (pag. 78). Da ciò la sua visione catastrofica<br />

di un mondo che va verso la barbarie,<br />

perché non sa riconoscere che nel Novecento<br />

pur attraverso immani tragedie, quella del nazismo<br />

prima e del comunismo poi, la libertà, anche<br />

grazie agli americani che l’hanno esportata, oggi<br />

è più estesa e si può guardare al futuro con ottimismo.<strong>In</strong>fatti,<br />

come ha spiegato Benedetto Croce,<br />

la libertà è “l’eterna formatrice della storia,<br />

soggetto stesso di ogni storia” e nella storia “quel<br />

che solo e sempre risorge e si volge e cresce è<br />

la libertà, la quale […] delle apparenti sue sconfitte<br />

si vale a stimolo della sua stessa vita”.<br />

<strong>In</strong> realtà con Esportare la libertà Canfora non<br />

convince e dimostra soltanto che lui, in un mondo<br />

senza Urss, è una “coscienza infelice”.

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