28.04.2013 Views

Rosetta Nulli - Testimonianze dai lager

Rosetta Nulli - Testimonianze dai lager

Rosetta Nulli - Testimonianze dai lager

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

<strong>Rosetta</strong> <strong>Nulli</strong><br />

Sono <strong>Rosetta</strong> <strong>Nulli</strong>, sono nata ad Iseo il 30 luglio 1918.<br />

Il 12 settembre 1944 era una splendida mattina, io mi sono svegliata piuttosto presto e mi<br />

sono subito affacciata alla finestra. Ho aperto per fare entrare un po’ di luce, non molta<br />

perché avevo paura di svegliare mio figlio che stava ancora dormendo. Il lago d’Iseo era<br />

meraviglioso. Ho sentito delle voci che parlavano in tedesco. Ho aperto ancora un poco la<br />

finestra pensando fossero soldati della Todt, che lavorano in basso, venuti a fare un giro.<br />

Lo facevano alcune volte. Poi ho guardato meglio ed ho visto che non era la divisa dei<br />

soldati della Todt. C’era un ufficiale che si è girato e aveva il simbolo delle SS sul collo.<br />

Sono andata subito da mio padre ad avvisarlo e lui si è alzato. Hanno bussato e ho aperto.<br />

Questo ufficiale mi ha detto “Signora Bonomelli?” “Sì” ho detto io. “Dov’è il suo bambino?”<br />

Dico “Non c’è qui, non c’è, l’ho lasciato via” “Ma no signora, il suo bambino sarà qui”. Ha<br />

aperto la porta ed è entrato. Con lui sono entrati altri due soldati. Era un gruppetto di<br />

quattro o cinque militari con un maresciallo e un tenente. Subito hanno visto mio figlio che<br />

io avevo coperto. Mio figlio allora aveva quattro anni. Ci siamo alzati tutti, si è alzata mia<br />

sorella, mia suocera, mio padre, mia madre, io e il bambino. Ci hanno fatto uscire dalle<br />

stanze e siamo andati nella veranda sotto dove ci hanno detto “Vi portiamo via con noi<br />

perché dobbiamo fare dei controlli. Vi porteremo al Comune di Iseo e poi vedremo”. Ma<br />

loro erano venuti soltanto con due macchine, ed erano già in cinque, noi pure eravamo<br />

cinque. Allora hanno mandato via le macchine, ci hanno incolonnato e ci hanno fatto<br />

andare a piedi in paese. Davanti stava l’ufficiale con il maresciallo, dietro stavo io con il<br />

bambino, poi il drappello, che era chiuso dagli altri cinque SS. Nel tragitto ci chiedevamo<br />

“come mai ci hanno preso? Cosa sarà successo?”. Passando davanti al cimitero di Iseo<br />

vedo che ci vengono incontro due anziane signorine. Erano le sorelle di un certo Tanzi,<br />

che dopo l’8 settembre aveva passato le linee insieme con mio marito e mio cognato.<br />

Chiedo all’ufficiale “posso salutare le mie due cugine?”. Ci fa fermare. Una signorina mi<br />

abbraccia e mi dice “non abbiamo fatto in tempo ad avvisarvi. Tuo marito e tuo cognato<br />

sono riusciti ad evadere dalla Gestapo di Verona”. Allora abbiamo capito che ci avevano<br />

preso come ostaggi.


Siamo arrivati nella piazza di Iseo e sotto i portici si affacciava la gente un po’ intimorita,<br />

perplessa. Ci hanno portato nello studio del Sindaco di Iseo, che era un amico di mio<br />

padre e mi aveva anche tenuta sulle ginocchia quando ero piccola. E’ stato solo un<br />

proforma, non capisco neppure perché ci abbiano portato lì, forse questo tenente doveva<br />

fare un paio di telefonate. Poi ci hanno portato alla casa di mio padre in paese e ci hanno<br />

fatto sedere in cucina, intanto che loro perquisivano tutta quanta la casa.<br />

Ad un certo punto hanno detto “possiamo andare”. Intanto era arrivata una terza macchina<br />

con un autista. Ci hanno caricato su due macchine. Io ero con il mio bambino e mia<br />

suocera. Ci hanno portato al comando delle SS a Brescia. Quando siamo entrati c’era il<br />

maresciallo Leo che ha chiesto qualcosa in tedesco a mia suocera. Mia suocera non ha<br />

risposto e lui le ha dato un manrovescio tremendo. Abbiamo chiesto “scusi, che cosa ha<br />

fatto?” ma non ci ha detto niente. Nel frattempo è arrivato un altro ufficiale con un plico in<br />

mano che ha consegnato a Leo. Leo ha guardato il plico, ha fatto dire dall’interprete di<br />

scendere e ci ha fatti caricare di nuovo sulle macchine per portarci al palazzo della<br />

Gestapo a Verona. Al Palazzo della Gestapo ci hanno messo nelle cellette sotto la strada,<br />

con finestrelle che guardano su quel viale. Quel palazzo c’è ancora, ci passo sempre<br />

quando vado a Verona. Io ero in cella con mio figlio, mia sorella con mia suocera, e mio<br />

padre con mia madre. Le celle erano piccolissime, se si faceva scendere la branda dal<br />

muro non si poteva più camminare. Sono venute le otto, le nove di sera. Nelle altre celle<br />

c’erano prigionieri che conoscevano mio marito e mio cognato, uno di questi era il<br />

radiotelegrafista di mio cognato. Si misero a cantare una canzone per dirci di stare<br />

tranquille. Non ci sarebbe successo niente. Anche loro sapevano già che Bruno e Paride<br />

erano riusciti ad evadere. Così abbiamo avuto una conferma. Verso le nove scendono due<br />

soldatesse delle SS, aprono la cella e nel vederle mio figlio ha voluto subito che lo<br />

prendessi in braccio. Mi fanno uscire e una che parlava abbastanza bene l’italiano, forse<br />

dell’Alto Adige, mi dice “il bambino non possiamo lasciarlo con lei, non può fare la vita di<br />

cella, ma lei stia tranquilla perché andrà in un posto bellissimo, meraviglioso”. Mio figlio mi<br />

si è attaccato al collo, quelle tiravano e io lo stringevo. Dallo spioncino delle celle mio<br />

padre e mia madre gridavano “non lasciarlo andare!”. Non ce la facevo quasi più perché<br />

stringevo fortissimo. Ad un certo punto scende dalla scala a chiocciola un maresciallo.<br />

Chiede spiegazioni, si parlano in tedesco. Quindi chiama l’interprete e gli dice di dirmi di<br />

stare tranquilla, che il bambino lo lasciano con me. Dopo questo fortissimo shock, mi dice


“Adesso metta il bambino in cella e venga su che dobbiamo interrogarla” Altra scena di<br />

mio padre e mia madre che gridavano “Non andare! resta qui! dove vai? non sai dove ti<br />

portano” Mi porta su in un ufficio. Mi ha fatto entrare, ho visto che c’era una finestra e ho<br />

pensato che se si metteva male mi sarei buttata di sotto e buona notte. Invece lui ha<br />

chiamato l’interprete e mi ha detto “stia tranquilla, cercheremo di trattarvi il meglio<br />

possibile e lasceremo uscire un po’ in giardino il suo bambino”. “La ringrazio”. Mi ha fatto<br />

riaccompagnare di sotto.<br />

Il giorno dopo mi vengono a prendere sotto e mi portano in un’altra stanza dove c’era un<br />

tenente delle SS piuttosto robusto e col naso un po’ schiacciato. Mi chiede che cosa<br />

faceva mio marito, dove stava, se io sapevo. Io dico “non so niente” perché mio marito mi<br />

aveva detto “se per una ragione qualsiasi dovessero arrestarti devi stare tranquilla, noi<br />

abbiamo l’ordine di dire tutto. Noi dobbiamo dire cosa stiamo facendo, da dove veniamo,<br />

da chi dipendiamo, come è fatto il comando eccetera. Quindi se loro ti prendono, tu non<br />

devi dire niente, tu non sai niente”. A tutte le domande ho risposto che non sapevo niente,<br />

che mio marito non mi diceva niente e che tra l’altro non l’avevo neanche quasi mai visto.<br />

Il giorno dopo ci dicono di prendere tutto quello che avevamo. Io avevo un vestito<br />

leggerissimo e nient’altro. Il bambino era in calzoncini, maglietta e forse aveva un<br />

maglioncino di cotone. Non avevamo niente perché quando ci avevano presi ci avevano<br />

detto che andavamo in paese. Ci caricano su un pullman con alcuni di quelli che erano<br />

nelle celle, con altra gente che veniva dalle prigioni degli Scalzi di Verona ed altri ancora<br />

che venivano da Forte San Leonardo. Partiamo. Sul pullman noi eravamo in quaranta ed i<br />

nostri guardiani pochissimi, anche se armati di mitra. Ad un certo punto dei prigionieri<br />

chiedono di fermarsi perché avevano necessità. Eravamo oramai fuori Verona, a metà<br />

strada tra Verona e Trento. Ci fermiamo e scendo anch’io con il bambino. Si avvicina un<br />

certo Bassi e mi dice “ State attenti perché adesso cercheremo di impossessarci del<br />

pullman”. “Per carità non fatelo!” dico io. “Non vede che ci sono pochissime guardie?” “Ma<br />

hanno il mitra, ci fate uccidere tutti, non fatelo!” “Tenga vicino il bambino”. Sono salita ed<br />

ero molto preoccupata per questa cosa. Ho detto a mio padre “quel signore mi ha detto<br />

che vogliono impossessarsi del pullman”. Quando i Tedeschi hanno visto che c’erano<br />

cinque o sei prigionieri che non erano ancora saliti, hanno chiuso subito gli sportelli e sono<br />

andati a cercarli. Noi siamo rimasti soli a porte chiuse con l’autista, che era armato, non<br />

aveva il mitra ma si vedeva benissimo che aveva una rivoltella. E’ andata bene perché


questi hanno detto che si erano solo un po’ allontanati e così i Tedeschi non hanno capito<br />

che stavano per mettere in atto una sommossa.<br />

Arriviamo a Bolzano, a Gries, ci fanno scendere e entriamo nel campo. Era ormai<br />

l’imbrunire, le tre e mezzo, quattro del pomeriggio del 14 settembre 1944. Mio padre viene<br />

messo subito nel blocco B e noi, Ennio compreso, nel blocco E, il blocco delle donne. Poi<br />

ci chiamano in ufficio e ci assegnano i numeri, un rettangolo bianco con impresso in nero il<br />

numero. Io avevo il numero 4131, mio figlio il 4132, mio padre il 4130, mia madre il 4133,<br />

il 4134 mia sorella e il 4135 mia suocera. Non ricordo che cosa abbiamo mangiato quella<br />

sera. Alle sei e trenta chiudevano i blocchi perché cominciava a fare buio. A me avevano<br />

assegnato il posto basso del castello perché avevo il bambino. Al primo piano c’era mia<br />

madre, al secondo piano mia suocera e al terzo piano mia sorella. Dopo un’ora e mezza<br />

riaprono il blocco e ci chiamano fuori. Chiediamo al soldato altoatesino dove ci portano e<br />

lui risponde “al blocco celle”. Tutti cominciano a commiserarci dicendo “Siete sfortunati, vi<br />

portano in un posto dove di sicuro non uscirete più vivi”. Ci portano in una bella celletta<br />

con tre letti a castello, un tavolo e uno sgabello, una finestrella alta e il pavimento in terra<br />

battuta. I materassi erano di iuta con dentro la paglia. Le coperte erano grigie, spesse e<br />

pesantissime, ma fredde perché non erano di lana. La cella non era riscaldata. U ragazzo<br />

di Torino, che era caporeparto alla Fiat ed era stato arrestato per sabotaggio, ci aveva<br />

costruito una specie di stufa, usando un bastone, una spirale di ferro e una resistenza.<br />

Questo povero ragazzo è morto mi sembra a Mauthausen.<br />

In questo campo di concentramento mio figlio era veramente un’eccezione assoluta<br />

perché era un bambino ariano ed era un ostaggio. Per prima cosa cercammo di renderci<br />

conto come era organizzato questo campo perché nel blocco celle c’erano dei prigionieri<br />

particolari, che non vivevano la vita del campo. Eravamo con il capitano Barda, col figlio<br />

del colonnello Duca, prigionieri che andavano tenuti sotto controllo. Noi non abbiamo<br />

potuto neanche uscire e lavorare quindi le giornate erano lunghissime. Io potevo uscire<br />

dalla cella perché facevo passeggiare un po’ il bambino. Ennio non gradiva la zuppa che ci<br />

davano ed è stato due mesi senza mangiare. Beveva un goccio di latte, un cucchiaio di<br />

latte in polvere sciolto nell’acqua che gli davano al mattino, poi non mangiava più. Il<br />

medico tedesco, direttore sanitario del campo, ha visto che era veramente deperito, me ne<br />

ha chiesto il motivo e gli ha fatto una prescrizione. A mezzogiorno gli mandavano un<br />

piattino di patate e il cuoco, un ebreo olandese, sotto le patate nascondeva un bocconcino


di carne. Mio figlio si sedeva sullo sgabello al centro del tavolo e tutti lo guardavano<br />

mangiare le patate con sotto la fetta di carne. Mia sorella la sera gli raccontava la storiella<br />

del Nano Sabbiolino. Se tu non dormi viene un Nano Sabbiolino coi sacchetti di sabbia e ti<br />

butta la sabbia negli occhi così tu il giorno dopo non potrai più vedere niente. E poi gli<br />

faceva dei disegni. Quando mio figlio ha compiuto cinque anni, il comando tedesco del<br />

<strong>lager</strong> gli ha mandato un giochino, con gli animali da mettere nella giusta casella e le lucine<br />

che si accendevano.<br />

Siamo rimaste chiuse nelle celle fino al 29 aprile 1945. Una volta al mese radunavano tutti<br />

gli internati, uomini e donne, nel grande piazzale del campo che era molto vasto. Intorno<br />

c’erano capannoni da una parte e dall’altra, al centro c’era un fabbricato basso con le<br />

docce e l’infermeria, in fondo la cucina e di fronte un altro piccolo fabbricato con le celle di<br />

punizione. Dentro queste celle c’erano due muretti rivestiti di cemento e alti settanta<br />

centimetri circa, dove mettevano i prigionieri quando volevano punirli. Quando partivano i<br />

trasporti per i campi in Germania, facevano un’adunata, non quella solita che si faceva<br />

tutte le mattine alle cinque e trenta, mezz’ora dopo che era suonata la prima sirena. Era<br />

un’adunata particolare che si faceva verso sera dopo che tutti erano ritornati dal lavoro.<br />

C’era il maresciallo Haage, che era il vice comandante, e un altro maresciallo.<br />

Chiamavano numeri e nomi, questi uscivano dal gruppo e venivano chiusi tutti in un<br />

blocco, che era lasciato sempre libero. Erano quelli che erano stati scelti per andare nei<br />

campi di sterminio in Germania. Alla stazione venivano portati sui camion. Normalmente<br />

questo avveniva una volta al mese. Il campo poteva contenere dalle milleduecento alle<br />

millecinquecento persone, ma siamo sempre stati molti di più. Non ci hanno mai lasciato<br />

lavorare. La persona che si occupava di assegnare il lavoro alle donne era la prima moglie<br />

di Indro Montanelli, Margherita, una bella donna austriaca. E io e mia sorella le dicevamo<br />

“Cerca di fare in modo che anche noi si possa uscire a fare qualche cosa”, perché c’era un<br />

gruppo di donne che andavano a tenere pulite le stanze delle villette dei soldati e degli<br />

ufficiali tedeschi appena al di là dei reticolati. Ma non ce l’hanno mai concesso. Nel campo<br />

ho conosciuto dei religiosi, don Gaggero di Genova, che era dei Padri della Pace, e don<br />

Berselli, segretario del Vescovo di Cremona, che ogni due giorni veniva a farsi attaccare i<br />

bottoni delle mutande. Don Berselli l’ho rivisto anche dopo, mi ha invitato a pranzo al<br />

palazzo del vescovo di Cremona. Funaro era un famosissimo direttore d’orchestra, aveva<br />

un’orchestra di musica leggera ed era stato preposto ad organizzare i gruppi che


dovevano pulire i corridoi e le celle. S’imboscava sempre da noi, diceva che doveva fare le<br />

pulizie e se veniva un controllo prendeva la scopa e la faceva prendere anche al suo<br />

batterista. Così, giorno per giorno abbiamo modificato le parole di una canzone – non<br />

ricordo il titolo che le abbiamo dato – ma comunque è uscita una cosa molto, molto carina.<br />

Una canzone riferita alla vita del campo, al piacere che avremmo provato quando<br />

saremmo usciti e qualora avessimo potuto fare indossare le nostre tute ai carcerieri. La<br />

canzone diceva “tutto passa e si scorda / tutto deve finir / se verrà l’armistizio / ce ne<br />

andremo di qui / della tuta con croce / un pacchetto farem / ed ai repubblichini / volentier la<br />

darem / proveranno la sveglia / alle cinque del mattin / proveranno il brugiolo / proveranno<br />

il frustin / non vedrem più Tedeschi / fame non avrem più / scorderemo l’appello / se<br />

torniamo laggiù”.<br />

Mio figlio un giorno ha combinato un piccolo guaio. Gli avevo appena messo il suo<br />

cappottino ridicolissimo, che ci aveva mandato un amico di mio padre di Bolzano e che gli<br />

avevano concesso di portare, e lui è sgattaiolato fuori dal corridoio delle celle che erano<br />

state aperte. Gli sono corsa dietro e ho visto che era a metà strada tra le nostre celle e la<br />

recinzione di entrata. Sono rimasta perplessa perché improvvisamente ho sentito un<br />

fischio. “Questo è un fischietto, stanno fischiando un’adunata. Fermati! Ennio fermati” e lui<br />

invece che correva e questo fischietto che continuava a fischiare. Alcuni internati che<br />

stavano sistemando dei mattoni hanno mollato tutto e sono andati nel piazzale, nel grande<br />

cortile e anche tutti gli altri hanno fatto così, quelli che stavano facendo le pulizie e quelli<br />

che stavano lavorando dietro le celle di punizione. E’ intervenuto il maresciallo Haage,<br />

stupito della cosa. Quando ho girato l’angolo in fondo e ho agguantato mio figlio, mi sono<br />

accorta che era stato lui a fischiare. Ennio si è divincolato ed è corso subito nella cella.<br />

Sono entrata anch’io mentre all’altoparlante ordinavano di rientrare. Seduti al primo piano<br />

del letto a castello dicevo a Ennio “ma che cosa ti è venuto in mente? Dove l’hai trovato il<br />

fischietto? Adesso dov’è?” “Non ce l’ho più” “Dove l’hai buttato? Pensi che finisca così?<br />

Adesso verrà qui qualcuno” “ Ma io non ce l’ho più il fischietto, non ce l’ho più”. Dopo dieci<br />

minuti che siamo in cella, viene il maresciallo Haage. Entra con l’interprete e ci dice di<br />

restituire il fischietto. Allora lì a scongiurarlo “Ennio per favore, ti preghiamo, quando<br />

andiamo via, ti compreremo un fischietto grandissimo, però adesso devi dare questo<br />

fischietto” Allora lui ha messo la mano nella tasca del suo cappottino – il posto più ovvio, io


l’avevo cercato nel pagliericcio – e ha restituito il fischietto. Quando è uscito dalla cella, il<br />

maresciallo Haage ci ha chiusi dentro.<br />

La liberazione. Si capiva che era successo qualcosa però lì era tutto in un ordine perfetto,<br />

assoluto. Non ci si poteva muovere, non si poteva fare niente. Era il 29 aprile, domenica<br />

29 aprile 1945. Alle quattro del pomeriggio si apre la porta della cella, entra il maresciallo<br />

Haage con una delle guardie altoatesine che parlavano italiano. Ci dice di prendere le<br />

nostre cose, che doveva portarci al comando. Noi prendiamo quelle poche cose che<br />

avevamo e ci portano al comando. Lì ci hanno portato in una stanza e ci hanno dato gli<br />

abiti che avevamo quando eravamo entrati. Hanno detto che non dovevamo toccare le<br />

tute, invece io ho staccato coi denti i triangoli. Poi siamo andati dal tenente Tito, che era il<br />

comandate del campo. Ci ha dato il foglio di scarcerazione e ci ha detto che eravamo<br />

liberi. Ci hanno messo fuori alle quattro e mezza. Eravamo i primi. Il campo era ancora<br />

tutto pieno, tutto funzionava regolarmente, sembrava che dovesse andare avanti ancora<br />

per dieci anni. Il clima non era per niente cambiato. Ci mettono fuori dal campo e noi ci<br />

siamo chiesti cosa dovevamo fare lì a Gries, dove dovevamo andare. Non avevamo una<br />

lira in tasca ed eravamo in cinque, perché mia sorella Mariuccia era stata scarcerata un<br />

paio di mesi prima circa. Mio padre a Bolzano aveva un amico. Abbiamo pensato di<br />

cercare la strada di questo amico e verso le undici o mezzanotte siamo arrivati a casa sua.<br />

Lui non c’era ma c’era il figlio che ci ha ospitato. Comunque quello che ci ha veramente<br />

stupito è che Bolzano era ancora tutta presidiata <strong>dai</strong> Tedeschi. Non c’era niente che<br />

potesse farci pensare che la guerra era finita.<br />

Io poi ero ansiosa di tornare a casa perché da tantissimo tempo non sapevo niente, se mio<br />

marito era vivo o se era morto, che fine aveva fatto. E così ci siamo incamminati a piedi.<br />

Quando siamo stati vicino Bolzano è passato un mezzo militare tedesco con l’autista e un<br />

soldato. Ci hanno caricato e ci hanno portato fino a una ventina di chilometri dietro<br />

Bolzano. Anche lì erano ancora tutti Tedeschi. Mio padre ha detto “Non dobbiamo stare<br />

sulla strada principale perché non sappiamo ancora come mai ci hanno lasciato uscire”<br />

Non avevamo il coraggio di parlare con nessuno. Abbiamo nascosto i nostri fogli di<br />

scarcerazione e ci siamo messi d’accordo di dire che eravamo andati a trovare un nostro<br />

parente. Il 4 maggio siamo arrivati a Mori. Siamo andati a cercare la chiesa e il sacerdote<br />

ci ha detto che potevamo sistemarci in una piccola sagrestia separata. Alle quattro del<br />

mattino successivo abbiamo sentito dei passi cadenzati. Sono scesa e ho visto i Tedeschi


in ritirata, a piedi, come in un film. Erano con le giubbe tutte slacciate senza i cinturoni e<br />

senza le armi. Verso le dieci circa non abbiamo più visto soldati tedeschi. Siamo usciti<br />

fuori e siamo andati verso la strada che doveva portarci a Riva ma l’abbiamo trovata<br />

interrotta, con un grande buco. Dall’altra parte abbiamo visto due camionette americane.<br />

Ho pensato “Finalmente adesso qualcuno mi raccoglierà e non dovrò più continuare a<br />

piedi” invece gli Americani hanno girato intorno a questa voragine con le loro jeeps ma<br />

non sono riusciti ad attraversarla, era troppo profonda. Abbiamo vedere il foglio di<br />

scarcerazione e loro hanno preso sulla loro jeep mia suocera, mia madre e il bambino. Io<br />

e mio padre abbiamo dovuto andare a piedi fino a Riva di Trento. Il nostro ritorno a casa è<br />

un finale veramente incredibile.<br />

A Riva di Trento ci riuniamo tutti. In inglese cerco di spiegare agli Americani la nostra<br />

situazione e chiedo cosa possono fare per noi. Ci portano con un mezzo anfibio al di là di<br />

Malcesine, fino a un bel prato in riva al lago, dove c’era un distaccamento di soldati<br />

americani. Mentre siamo a chiederci come fare per proseguire si avvicina un giovanotto<br />

che ci dice “ho sentito che state cercando un mezzo per tornare a casa. Vorrei farle una<br />

proposta. C’è un giovane laggiù che ha una moto con un sidecar. Se lei riesce a farsi dare<br />

dagli Americani la benzina, lui vi porta a casa” Arriva il giovane, sul sidecar c’era una<br />

bandiera tricolore. Era stato partigiano in quelle zone. Quindi ci sentiamo sicuri. Gli<br />

Americani riempiono il serbatoio e ci danno anche una tanichetta piccola. Ci siamo<br />

disposti così: mia madre nel sidecar con mio figlio, mio padre dietro il guidatore, mia<br />

suocera dietro il sidecar e io in piedi con un piede sul sidecar e uno sulla moto. Tremavo.<br />

Andiamo velocissimi e a un certo punto di viale Venezia si rompe una gomma. Proprio<br />

squarciata. Mio padre propone di andare la Fiat da un certo Bertolotti per trovare una<br />

gomma. Andiamo e lì siamo avvicinati da dei capi partigiani. Tra loro un tedesco. Mio<br />

padre decide di portarlo fino a Iseo. Dopo avremmo pensato cosa fare. E’ stato sei mesi a<br />

casa nostra, perché non voleva tornare in Germania, aveva paura. Era di Colonia.<br />

A casa nostra è stata dura ma abbiamo trovato tutto. Mio marito l’ho visto soltanto il 12 di<br />

maggio perché non l’hanno smobilitato finché non è stata firmata la pace gli Alleati. Anzi,<br />

gli avevano concesso solo di venire a casa, non era ancora stato smobilitato.

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!