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Rosetta Nulli - Testimonianze dai lager

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Siamo arrivati nella piazza di Iseo e sotto i portici si affacciava la gente un po’ intimorita,<br />

perplessa. Ci hanno portato nello studio del Sindaco di Iseo, che era un amico di mio<br />

padre e mi aveva anche tenuta sulle ginocchia quando ero piccola. E’ stato solo un<br />

proforma, non capisco neppure perché ci abbiano portato lì, forse questo tenente doveva<br />

fare un paio di telefonate. Poi ci hanno portato alla casa di mio padre in paese e ci hanno<br />

fatto sedere in cucina, intanto che loro perquisivano tutta quanta la casa.<br />

Ad un certo punto hanno detto “possiamo andare”. Intanto era arrivata una terza macchina<br />

con un autista. Ci hanno caricato su due macchine. Io ero con il mio bambino e mia<br />

suocera. Ci hanno portato al comando delle SS a Brescia. Quando siamo entrati c’era il<br />

maresciallo Leo che ha chiesto qualcosa in tedesco a mia suocera. Mia suocera non ha<br />

risposto e lui le ha dato un manrovescio tremendo. Abbiamo chiesto “scusi, che cosa ha<br />

fatto?” ma non ci ha detto niente. Nel frattempo è arrivato un altro ufficiale con un plico in<br />

mano che ha consegnato a Leo. Leo ha guardato il plico, ha fatto dire dall’interprete di<br />

scendere e ci ha fatti caricare di nuovo sulle macchine per portarci al palazzo della<br />

Gestapo a Verona. Al Palazzo della Gestapo ci hanno messo nelle cellette sotto la strada,<br />

con finestrelle che guardano su quel viale. Quel palazzo c’è ancora, ci passo sempre<br />

quando vado a Verona. Io ero in cella con mio figlio, mia sorella con mia suocera, e mio<br />

padre con mia madre. Le celle erano piccolissime, se si faceva scendere la branda dal<br />

muro non si poteva più camminare. Sono venute le otto, le nove di sera. Nelle altre celle<br />

c’erano prigionieri che conoscevano mio marito e mio cognato, uno di questi era il<br />

radiotelegrafista di mio cognato. Si misero a cantare una canzone per dirci di stare<br />

tranquille. Non ci sarebbe successo niente. Anche loro sapevano già che Bruno e Paride<br />

erano riusciti ad evadere. Così abbiamo avuto una conferma. Verso le nove scendono due<br />

soldatesse delle SS, aprono la cella e nel vederle mio figlio ha voluto subito che lo<br />

prendessi in braccio. Mi fanno uscire e una che parlava abbastanza bene l’italiano, forse<br />

dell’Alto Adige, mi dice “il bambino non possiamo lasciarlo con lei, non può fare la vita di<br />

cella, ma lei stia tranquilla perché andrà in un posto bellissimo, meraviglioso”. Mio figlio mi<br />

si è attaccato al collo, quelle tiravano e io lo stringevo. Dallo spioncino delle celle mio<br />

padre e mia madre gridavano “non lasciarlo andare!”. Non ce la facevo quasi più perché<br />

stringevo fortissimo. Ad un certo punto scende dalla scala a chiocciola un maresciallo.<br />

Chiede spiegazioni, si parlano in tedesco. Quindi chiama l’interprete e gli dice di dirmi di<br />

stare tranquilla, che il bambino lo lasciano con me. Dopo questo fortissimo shock, mi dice

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