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<strong><strong>le</strong>ggi</strong>, <strong>scrivi</strong> e <strong>condividi</strong> <strong>le</strong> <strong>tue</strong> <strong>10</strong> <strong>righe</strong> <strong>dai</strong> <strong>libri</strong><br />
http://www.<strong>10</strong><strong>righe</strong><strong>dai</strong><strong>libri</strong>.it
I edizione: agosto 2012<br />
© 2012 Lit Edizioni Srl<br />
Sede operativa: Via Isonzo, 34 – 00198 Roma<br />
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Angela Camuso<br />
MAI CI FU PIETÀ<br />
LA VERA STORIA DELLA BANDA DELLA MAGLIANA<br />
DAL 1977 FINO AI GIORNI NOSTRI
a Miranda
Al<strong>le</strong> origini del «mito» della «banda della Magliana»<br />
di OTELLO LUPACCHINI<br />
magistrato<br />
Quando mi è stato chiesto di redigere la prefazione a Mai ci fu pietà di Angela<br />
Camuso, mi è tornato in mente che Varvara Petrovna, nei Démoni di<br />
Dostoevskij, straccia senza rimedio l’amitié amoureuse che per vent’anni l’ha<br />
<strong>le</strong>gata a Stepan Trofimovič con un secco: «Voi siete un critico!». Mi son detto,<br />
allora: questo, è l’insulto, perché d’insulto si trattava, a cui rischi d’esporti.<br />
E non nascondo che sono stato sul punto di declinare l’invito. Già a<br />
pel<strong>le</strong>, infatti, provoca un certo qual sospetto di congenita crudeltà sviluppatasi<br />
in mestiere l’idea che qualcuno, per investitura di cattedra, ingaggio editoria<strong>le</strong><br />
o, ancor peggio, per indo<strong>le</strong> e inclinazione, abbia da ridire sull’opera<br />
altrui. È un po’ come quando si scopre che il ce<strong>le</strong>bre tal chirurgo, da bambino,<br />
seviziava lucerto<strong>le</strong> e rospi. Né è consolante, in proposito, la rivendicazione,<br />
tacita o conclamata, di uno spazio autonomo e creativo per l’arte della<br />
critica, unta perfino col crisma di sapienzia<strong>le</strong> da un’autorità come Harold<br />
Bloom. Innanzi tutto, perché Mr Bloom, si sa, è un critico; in ogni caso, poi,<br />
perché a rendere il critico ancor più spregevo<strong>le</strong> e degno d’esser respinto oltre<br />
i confini del consorzio umano è che, a mo’ di parassita, abbisogni di un<br />
«ospite» rubicondo al qua<strong>le</strong> attaccarsi per succhiarne linfe vitali.<br />
Profondamente lacerato da tali pensieri, tuttavia, ho deciso alla fine di<br />
correre il rischio. E, nella speranza d’incappare in <strong>le</strong>ttori dotati di sanissima<br />
indipendenza di giudizio – i quali, sebbene non ricerchino nella prefazione<br />
l’idea quintessenzia<strong>le</strong>, la matrice del testo, neppure, però, la gettino<br />
via come fosse la cartina di una caramella – mi son ripromesso, per un<br />
verso, di evitare di far la figura di chi ti anticipa all’orecchio il film che stai<br />
per vedere mentre in sala hanno già spento <strong>le</strong> luci e il proiettore incomincia<br />
a ronzare, e si azzittisce soltanto allo scorrere dei titoli di testa; e, per<br />
l’altro, di cercare di confezionare un prodotto che possa vivere una sua<br />
gagliarda vita autonoma, sia dotato di luce propria, che si diffonde e illumina,<br />
e non funga da satellite pallidamente illuminato al testo.<br />
Si tratta, mi rendo conto, d’un proponimento ambizioso, ma è anche l’imprescindibi<strong>le</strong><br />
condizione per evitare che la funzione di quest’angoscia di sti-
8 ANGELA CAMUSO<br />
<strong>le</strong> si riduca a quella dei bei vasi dello scaffa<strong>le</strong> più alto nel<strong>le</strong> farmacie, che, per<br />
dirla con don Lisander, «sono vuoti, ma servono a dar lustro alla bottega».<br />
È natura<strong>le</strong> che almeno due paro<strong>le</strong> sull’opera e sul suo oggetto <strong>le</strong> debba<br />
pur spendere.<br />
Dirò allora che Mai ci fu pietà narra fatti e misfatti accaduti a Roma, ma<br />
non soltanto, negli ultimi trent’anni, riconducibili generalmente alla criminalità<br />
organizzata capitolina e non, molti dei quali, ma non tutti, opera della<br />
cosiddetta «banda della Magliana», sodalizio delinquentesco che, nato<br />
durante gli anni Settanta del Novecento, riuscì, a cavaliere del fatidico 1978,<br />
a insediarsi saldamente al centro di ogni traffico crimina<strong>le</strong> della Capita<strong>le</strong> e<br />
a imporre la propria supremazia in ogni settore di attività il<strong>le</strong>gali.<br />
Erano, quelli, gli anni in cui si andava realizzando e consolidando la commistione<br />
di vertice tra gruppi mafiosi, con una base economica sempre più<br />
vasta, e settori della finanza, dell’imprenditoria e dell’amministrazione; il<br />
traffico di droga a fungere da volano e a produrre disponibilità di denaro liquido.<br />
Erano, quelli, gli anni durante i quali, nel Paese, la caccia ai sovversivi<br />
era momento genetico e fine ultimo di ogni inchiesta giudiziaria, accordo<br />
politico o campagna mediatica. Erano, quelli, gli anni in cui c’era, dunque,<br />
tutto il tempo e lo spazio per appropriarsi dell’Italia, mentre gli addetti alla<br />
sicurezza cavalcavano l’ossessione terroristica. Erano, quelli, finalmente, gli<br />
anni, in cui alti gradi dell’Esercito e dei Servizi di sicurezza, variamente connessi<br />
alla Strategia della Tensione, aderivano alla loggia massonica P2.<br />
I promotori del sodalizio, figli della città, del<strong>le</strong> borgate, novità assoluta<br />
nei fragili equi<strong>libri</strong> della malavita della Capita<strong>le</strong>, avevano un progetto: riprendersi<br />
Roma.<br />
Nei quartieri dell’Urbe scorrevano fiumi di eroina, da immettere nel<br />
corpo socia<strong>le</strong> attraverso un ineluttabi<strong>le</strong> travaso di sangue. Erano, quindi,<br />
necessari «amministratori» del territorio, capaci di dispensare morte con<br />
fredda determinazione ed efficienza da contabili, ma anche «manovali»<br />
per azioni inconfessabili. Grazie ai ta<strong>le</strong>nti e all’ambizione dei sodali – i<br />
quali non rifuggivano dal ricercare l’appoggio anche di e<strong>le</strong>menti esterni,<br />
che lavorassero per loro – rapida e inesorabi<strong>le</strong> fu la trasformazione della<br />
banda in un’intrapresa crimina<strong>le</strong> ampia e dagli scopi sociali sommamente<br />
articolati: la gestione del mercato della droga rappresentava per l’organizzazione<br />
l’opportunità d’intessere «relazioni» paritarie con altri sodalizi<br />
criminali di prima grandezza nel panorama naziona<strong>le</strong>. La disponibilità di<br />
una massa ingente di liquidità d’il<strong>le</strong>cita provenienza <strong>le</strong> offriva l’occasione<br />
di acquisire il controllo del mercato dell’usura, ma anche di spregiudicate<br />
scorrerie in settori dell’economia <strong>le</strong>ga<strong>le</strong>, che meglio e più di altri si prestavano<br />
a remunerative operazioni di riciclaggio e reinvestimento dei capitali<br />
d’il<strong>le</strong>cita provenienza. E se il rapporto intessuto da taluni fra i banditi<br />
e i grossi imprenditori del «prestito a strozzo» fu lo strumento me-<br />
MAI CI FU PIETÀ 9<br />
diante il qua<strong>le</strong> attuare il progetto «dal<strong>le</strong> borgate al<strong>le</strong> stel<strong>le</strong>», esso sarebbe<br />
anche stato l’e<strong>le</strong>mento dissolutore della stessa holding crimina<strong>le</strong>.<br />
L’Autrice imbastisce il racconto sulla scorta di e<strong>le</strong>menti di fatto rigorosamente<br />
desunti da sentenze, molte del<strong>le</strong> quali ormai irrevocabili, verbali<br />
d’interrogatori, rapporti e informative di polizia. Resta, dunque, fede<strong>le</strong><br />
agli atti giudiziari e sfugge così al rischio di trasformare i cattivi in eroi degni<br />
d’ammirazione, come capita sempre, quando, per rendere più glamour<br />
il racconto, si cede, invece, alla tentazione di ricostruzioni fantasiose.<br />
Detto questo e riconosciuti, dunque, i suoi meriti all’Autrice, va anche<br />
detto che Mai ci fu pietà s’inserisce nel filone lato sensu <strong>le</strong>tterario che perpetua,<br />
di fatto, il mito della «banda della Magliana». E proprio <strong>le</strong> origini<br />
di questo mito meritano d’essere indagate, attingendo, magari, anche al<br />
pozzo dei ricordi personali.<br />
All’inizio, fu la cosiddetta «operazione Colosseo», o per meglio dire il<br />
«processo pena<strong>le</strong> n. 1164/87A G.I. (n. 8800/86A P.M.), nei confronti di<br />
Abbatino Maurizio + 237». In precedenza, come vedremo, se non proprio<br />
il nulla, certamente <strong>le</strong> tenebre.<br />
Correva l’anno 1993 quando si diede corso alla suddetta «operazione»<br />
e non vi fu, all’epoca, giorna<strong>le</strong> o te<strong>le</strong>giorna<strong>le</strong> che non occupasse buona<br />
parte degli spazi di «nera» con la cronaca dei delitti commessi <strong>dai</strong> bravi<br />
ragazzi della banda. Se ciò avvenne con tanta assiduità è perché sui processi<br />
penali cosiddetti ce<strong>le</strong>bri – e ta<strong>le</strong> si prospettava sarebbe stato quello<br />
in parola – la curiosità del pubblico si getta avidamente. È questa, infatti,<br />
al pari e forse più di tante altre, una forma di divertimento: si evade dalla<br />
propria vita occupandosi di quella degli altri; e l’occupazione non è mai<br />
così intensa come quando la vita degli altri assume l’aspetto del dramma,<br />
verso i cui personaggi, l’atteggiamento del pubblico è il medesimo che<br />
aveva, una volta, la folla verso i gladiatori che combattevano nel circo e ha<br />
oggi, almeno là dove la si pratica ancora, per la corrida dei tori.<br />
Artefice di quel processo, per avventura, fui io, nel ruolo ormai «precarizzato»<br />
di giudice istruttore, <strong>le</strong> cui funzioni il Parlamento «prorogava»,<br />
di semestre in semestre, su iniziativa ad libitum del Guardasigilli.<br />
Omnibus et lippis notum et tonsoribus esse 1 che, assolto ogni dovere verso<br />
<strong>le</strong> funzioni di servizio, specie se gratuite, il prefatore scrive per attirare<br />
l’attenzione su se stesso, nessuno degli smaliziati <strong>le</strong>ttori di questo scritto<br />
me ne vorrà per la digressione ad meam personam alla qua<strong>le</strong> mi accingo.<br />
Taluno pretende per questo, e purtroppo non da oggi, d’inchiodarmi alla<br />
croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana»,<br />
per essere la genesi di questa attribuibi<strong>le</strong> a mie «ipotesi», premurandosi di<br />
aggiungere, «smentite dal<strong>le</strong> verifiche della magistratura giudicante». E vor-<br />
1. Orazio, Satire., I, 7.
<strong>10</strong> ANGELA CAMUSO<br />
rebbe accollarmi persino la costituzione della suddetta banda, nella qua<strong>le</strong>,<br />
motu proprio et inaudita altera parte, avrei arruolato, addirittura con funzioni<br />
apicali, anche un illustre Trapassato, già mondato dalla res iudicata,<br />
che, insegnavano gli intenditori, facit de albo nigrum, originem creat, aequat<br />
quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in verum mutat.<br />
Aristote<strong>le</strong> raccomandava di non «discutere con chiunque» e di non<br />
«esercitarsi col primo venuto», perché «quando si discute con certe persone,<br />
<strong>le</strong> argomentazioni diventano necessariamente scadenti». Quel<strong>le</strong> ve<strong>le</strong>nose<br />
provocazioni dovrebbero, dunque, essere tenute in non ca<strong>le</strong>, sebbene<br />
il fin de non-recevoir possa essere maliziosamente spacciato per ammissione<br />
dell’addebito. Poco ma<strong>le</strong>, se non mi fosse intol<strong>le</strong>rabi<strong>le</strong> lasciarmi infilare<br />
a forza i panni dell’Anselmo da Aosta, rimanendo in si<strong>le</strong>nzio: è per me abominevo<strong>le</strong><br />
la goffaggine del nano che indossa il mantello rubato al gigante.<br />
Sarebbe comodo vedere tutto simultaneamente, ma, stando a san Tommaso<br />
2 , il piano divino riserva questa visione intel<strong>le</strong>ttua<strong>le</strong> sincronica agli angeli<br />
ed al<strong>le</strong> anime accolte «in patria», chiamati intel<strong>le</strong>ctua<strong>le</strong>s proprio perché<br />
colgono lo scibi<strong>le</strong> intuitivamente; certo, se tutto sarà andato bene, anche noi<br />
godremo, speriamo il più tardi possibi<strong>le</strong>, del motus cognitionis angelicae, ma<br />
al momento siamo soltanto rationa<strong>le</strong>s: situati ad un livello inferiore nella<br />
scala metafisica, i nostri contenuti mentali sfilano a fatica, ab aliis in alia euntes<br />
atque redeuntes. Ebbene, anche se mi sarebbe molto piaciuto, per provare<br />
l’esistenza del sodalizio crimina<strong>le</strong> denominato «banda della Magliana»,<br />
non avrei potuto appagarmi dell’argomento ontologico dell’id quo maius cogitari<br />
nequit 3 . È proprio di questo che mi accusa il Taluno de quo agitur. E<br />
allora rivendico il diritto di dirla tutta, ma proprio tutta, una volta per tutte,<br />
sul modo come si sia giunti alla formulazione di quel «teorema».<br />
Mi corre, tuttavia, l’obbligo di alcune preliminari precisazioni terminologiche,<br />
magari inutili per gli smaliziati <strong>le</strong>ttori di questa prefazione, ma comunque<br />
necessarie, ai fini di articolare un discorso vertebrato, dal momento<br />
che il Taluno de quo agitur asserisce che quello che sprezzantemente<br />
chiama «teorema Lupacchini» sarebbe stato «demolito» dalla Suprema<br />
Corte di Cassazione, con l’ormai <strong>le</strong>ggendaria «sentenza del 2000».<br />
«Teorema» è parola che designa una proposizione che, a partire da condizioni<br />
iniziali arbitrariamente stabilite, trae del<strong>le</strong> conclusioni, dandone<br />
una dimostrazione. Il «teorema» è composto, dunque, da una o più ipotesi,<br />
una tesi e una dimostrazione della tesi. Nel «teorema giudiziario pena<strong>le</strong>»,<br />
<strong>le</strong> ipotesi, va<strong>le</strong> a dire <strong>le</strong> condizioni iniziali su cui si vuo<strong>le</strong> ragionare,<br />
puramente arbitrarie e che non abbisognano di dimostrazione, sono <strong>le</strong> fattispecie<br />
incriminatrici; la verifica della tesi implica la ricostruzione del fatto<br />
al fine di poterne predicare il valore, in conformità al<strong>le</strong> ipotesi di par-<br />
2. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 1a.58.3, in corpore.<br />
3. Anselmo da Aosta, Proslogion.<br />
MAI CI FU PIETÀ 11<br />
tenza; l’insieme di implicazioni logiche che possano assicurare che <strong>le</strong> ipotesi<br />
implicano la tesi è la dimostrazione.<br />
L’endiadi «banda della Magliana», dovuta alla penna di qualche brillante<br />
e fantasioso, ancorché anonimo, cronista di «nera» di fine anni Settanta,<br />
esprime con suntuosa semplicità l’essenza di un efferato e articolato sodalizio<br />
crimina<strong>le</strong>, che è poi quello descritto nei capi d’imputazione del citato<br />
processo pena<strong>le</strong> vs. Abbatino Maurizio + 237. Ma non è da quella endiadi,<br />
va<strong>le</strong> a dire dal concetto ch’essa magistralmente esprime, ch’ebbi a<br />
dedurre l’esistenza della banda stessa, che inferii invece dalla conoscenza di<br />
dati concreti, cioè da fatti ricostruiti, per dirla con Enrico Redenti 4 , «secondo<br />
metodi intel<strong>le</strong>ttuali pregiuridici od extragiuridici, come può avvenire<br />
di qualunque persona norma<strong>le</strong>, di fronte a un quesito o ad un dubbio di<br />
ordine storico».<br />
Non sono così malvagio da pretendere che il nostro Taluno affatichi <strong>le</strong><br />
già consunte meningi nello sforzo di discernere tra la deduzione e l’inferenza,<br />
e neppure sono a tal punto sadico da imporgli di confrontarsi con la<br />
sussunzione, che è quel procedimento intel<strong>le</strong>ttua<strong>le</strong> al qua<strong>le</strong> è chiamato il<br />
giudice, allorché, come direbbe Benedetto Croce 5 , «fa rientrare il fatto che<br />
si ha innanzi, storicamente ricostruito, in una norma di <strong>le</strong>gge». Vorrei solo<br />
ricordargli, parafrasando il Pro insipiente di Gaunilone, che non è partendo<br />
dal pensiero che la <strong>le</strong>ggendaria «sentenza del 2000» della Suprema Corte<br />
di Cassazione abbia «demolito» il famigerato «teorema Lupacchini»,<br />
che si può dedurre che quella <strong>le</strong>ggendaria sentenza abbia effettivamente<br />
«demolito» quel famigerato «teorema», non potendosi dedurre l’esistenza<br />
di un oggetto pensato, per il solo fatto che esso esiste nella nostra mente,<br />
o peggio soltanto nei nostri desideri.<br />
Restando, comunque, ancorati ai fatti, colgo l’occasione di questa angoscia<br />
di sti<strong>le</strong>, per ribadire, a scanso di equivoci, che tutte <strong>le</strong> sentenze, sia di<br />
merito sia di <strong>le</strong>gittimità, pronunciate sulla scorta dei dati fattuali condotti<br />
a emersione dall’istruzione forma<strong>le</strong> nel citato processo pena<strong>le</strong> vs. Abbatino<br />
Maurizio + 237, in cui s’iscrive la cosiddetta «operazione Colosseo», costi<strong>tue</strong>nti<br />
ormai anch’esse res iudicata, hanno affermato l’esistenza della<br />
consorteria di malfattori descritta nell’imputazione, finalizzata alla commissione<br />
di un numero indeterminato di reati, fra i quali il traffico internaziona<strong>le</strong><br />
e la commercializzazione su larga scala di sostanze stupefacenti,<br />
gli omicidi, <strong>le</strong> rapine e <strong>le</strong> estorsioni contestate; che tutte, meno una di tali<br />
sentenze, hanno sussunto il fatto storico accertato nella norma di cui all’art.<br />
4. Enrico Redenti, Profili pratici del diritto processua<strong>le</strong> civi<strong>le</strong>, Giuffrè, Milano,<br />
1938, p. 444.<br />
5. Guido Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Cedam,<br />
Padova, 1937, in Critica, 1937.
12 ANGELA CAMUSO<br />
416 bis c.p., qualificando dunque mafiosa l’associazione dedotta in imputazione;<br />
che, dunque, soltanto la <strong>le</strong>ggendaria «sentenza del 2000» della<br />
Cassazione ha sussunto il fatto storico accertato nel<strong>le</strong> norme di cui agli artt.<br />
416 c.p. e 74 d.lgs. n. 309 del 1990, qualificando non mafiosa, ma pur sempre<br />
associazione per delinquere finalizzata, fra l’altro, al traffico e alla commercializzazione<br />
su larga scala degli stupefacenti, nonché alla commissione<br />
di omicidi, estorsioni, rapine e birbanterie varie, la consorteria di malfattori<br />
tristamente nota come «banda della Magliana».<br />
È ben vero, insomma, per dirla con Aulo Gellio, che «Rethori concessum<br />
est, sententiis uti falsis, audacibus, subdolis, captiosis, si veri simi<strong>le</strong>s<br />
modo sint et possint ad movendos animos hominum qualicunque astu irrepere»<br />
6 . È anche vero, però, che nulla vieta di qualificare falsario il retore,<br />
allorché costui, pur d’avere ragione, alteri fraudo<strong>le</strong>ntemente i dati di fatto,<br />
poco importa se pietatis causa.<br />
In ossequio al precetto giusto il qua<strong>le</strong> suum cuique tribuere 7 , a quel Taluno<br />
qualche ragione devo pur riconoscerla. È la sacrosanta verità, infatti,<br />
che fino a quando non riattivai <strong>le</strong> indagini nel più volte citato processo<br />
pena<strong>le</strong> vs. Abbatino Maurizio + 237, il cui punto d’emersione fu l’«operazione<br />
Colosseo», la banda della Magliana non godeva neppure un po’<br />
della considerazione che invece meritava.<br />
Per rendersene conto basterà tornare con la memoria a quei tempi.<br />
Nella prima Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia sullo<br />
stato della criminalità organizzata a Roma e nel Lazio, in corso di approvazione<br />
proprio nei giorni dell’ottobre-novembre 1991, si evidenziava che la<br />
Capita<strong>le</strong> si caratterizzava per «sue specifiche manifestazioni criminali: da una<br />
parte la criminalità nata dal tessuto urbano, maturata cooperando con gruppi<br />
della mafia, della ’ndrangheta e della camorra, mentre dall’altro si [andavano]<br />
formando raggruppamenti criminali di stranieri»; che, pertanto, in Roma<br />
si andava delineando «un milieu di formazioni criminali <strong>le</strong> quali trovavano<br />
tra di loro col<strong>le</strong>gamenti, sia saltuari che duraturi», con il conseguente «pericolo<br />
d’importare forme di criminalità e d’esportarne altre, attraverso lo<br />
scambio d’esperienze tra italiani e stranieri nel<strong>le</strong> grandi aree urbane»; che,<br />
per altro, «sebbene si registr[asse] un’apparente calma, [erano] all’opera<br />
personaggi che già in passato [avevano] dimostrato conoscenze in ambienti<br />
cosiddetti insospettabili». Sotto ta<strong>le</strong> profilo, Roma veniva descritta alla stregua<br />
di «un crocevia tra la criminalità di stampo mafioso, criminalità comune,<br />
attività di grandi faccendieri a livello naziona<strong>le</strong> e frange della Destra ever-<br />
6. «Al retore è consentito il ricorso ad argomentazioni false, audaci, maliziose, ingannevoli,<br />
sofistiche, purché abbiano qualche somiglianza col vero, e riescano in<br />
qualche modo a commuovere l’uditorio», Aulo Gellio, Noctes Atticae, I, 6, 4.<br />
7. «A ciascuno sia dato quanto gli è dovuto».<br />
MAI CI FU PIETÀ 13<br />
siva implicate in vicende malavitose, come dimostravano il rinvio a giudizio<br />
di esponenti della loggia P2, di ufficiali dei Servizi segreti deviati e di estremisti»;<br />
che i guadagni della malavita organizzata, provento del traffico degli<br />
stupefacenti, della gestione del totonero e del<strong>le</strong> macchine del videopoker,<br />
dello sfruttamento della prostituzione e del<strong>le</strong> estorsioni, calcolabili in alcune<br />
migliaia di miliardi (del<strong>le</strong> vecchie lire), avevano consentito agli esponenti del<br />
crimine organizzato di accumulare del<strong>le</strong> fortune, tanto da farli assurgere a<br />
veri e propri operatori economici, in concorrenza talvolta con grossi nomi<br />
della finanza; che, insomma, «divenuta “imprenditrice”, la malavita romana,<br />
con forti col<strong>le</strong>gamenti internazionali (Cartello di Medellin), cerca[va] ora<br />
una collocazione stabi<strong>le</strong> e una supremazia nel tessuto socia<strong>le</strong> e nei rapporti<br />
con gli apparati amministrativi»; che a preoccupare maggiormente del «salto<br />
di qualità» della criminalità organizzata capitolina, «potuto avvenire grazie<br />
ai contatti con mafia,’ndrangheta e camorra», era la «presenza grigia»<br />
avente radici nel mondo economico e finanziario, potendo «il livello di penetrazione<br />
nel mondo economico e la dimensione degli affari trattati evincersi<br />
<strong>dai</strong> contatti con personaggi quali Licio Gelli, deferentemente chiamato<br />
“il grande venerabi<strong>le</strong>”»; nonché dalla trattazione di «appalti di grandi opere<br />
edili da realizzare in Paesi stranieri (Argentina, Tanzania, Congo)», sintomo<br />
inequivocabi<strong>le</strong> dell’esistenza di «un comp<strong>le</strong>sso reticolo di relazioni ad alto livello<br />
anche internaziona<strong>le</strong>».<br />
Nel citato documento parlamentare, si evidenziava, altresì, come gli<br />
omicidi volontari, tra il 1989 e il 1990, fossero raddoppiati, passando da<br />
44 a 86, mentre nel<strong>le</strong> restanti 20 regioni la crescita media era stata del<br />
18,44%; come <strong>le</strong> rapine fossero aumentate del 28% rispetto al 23% della<br />
media naziona<strong>le</strong>, <strong>le</strong> estorsioni del 67% rispetto al 18% della media naziona<strong>le</strong>,<br />
gli attentati con esplosivo del 9%, i furti del 25% rispetto al 22%<br />
della media naziona<strong>le</strong>, gli scippi del 44% , rispetto al 32,5% della media<br />
naziona<strong>le</strong>, i furti in appartamento del 23% rispetto al 20% della media<br />
naziona<strong>le</strong>. E vi si sottolineava, finalmente, come «i fatti, meglio sarebbe<br />
dire i cadaveri che insanguinano la capita<strong>le</strong>, d[essero] ragione a chi sost[eneva]<br />
l’esistenza in Roma di una criminalità organizzata operante secondo<br />
gli sti<strong>le</strong>mi del<strong>le</strong> organizzazioni mafiose».<br />
Nessun dubbio, del resto, che alla fine degli anni Ottanta, fossero note<br />
tanto l’esistenza della banda della Magliana quanto la circostanza che essa<br />
aveva intessuto una fittissima rete di col<strong>le</strong>gamenti, complicità, coperture e<br />
agganci di vario genere, con gli ambienti più svariati, dalla Massoneria a taluni<br />
spezzoni dei Servizi di sicurezza, operanti, molto spesso, ai margini dell’il<strong>le</strong>galità.<br />
Contesto, questo, in cui s’iscrivevano i rapporti operativi con ambienti<br />
eversivi della Destra estrema, che prosperarono anche grazie al<strong>le</strong><br />
complicità e agli aiuti, così economici come logistici, della banda: forniture<br />
di armi, rifugi, documenti d’identità contraffatti e altro.
14 ANGELA CAMUSO<br />
Proprio Paolo A<strong>le</strong>andri, già appartenente alla formazione d’estrema<br />
Destra «Ordine Nuovo» e uomo di fiducia dei professori Aldo Semerari<br />
e Fabio De Felice, nonché tramite fra costoro e il Venerabi<strong>le</strong> Maestro della<br />
loggia massonica P2 , Licio Gelli, imboccata, dopo la strage del 2 agosto<br />
1980 alla Stazione ferroviaria di Bologna, la strada della collaborazione<br />
processua<strong>le</strong>, aveva del resto rivendicato immediatamente la piena consapevo<strong>le</strong>zza<br />
sia della pericolosità del famigerato sodalizio delinquentesco<br />
capitolino, sperimentata addirittura sulla sua pel<strong>le</strong>, sia della rete di connivenze<br />
di cui esso godeva, della qua<strong>le</strong> era sintomatica la sostanzia<strong>le</strong> impunità<br />
dei suoi adepti.<br />
«Quanto alla pericolosità dell’organizzazione», questo è quanto dichiarato<br />
al riguardo dall’ex terrorista, «posso dire, per aver vissuto da protagonista<br />
quegli anni, che la banda della Magliana determinò un cambio di<br />
mentalità nell’ambiente malavitoso romano facendo passare il principio<br />
che si poteva imporre il proprio potere applicando rego<strong>le</strong> semplici e feroci<br />
al fine di intimidire qualunque interlocutore che poteva, addirittura, essere<br />
fisicamente soppresso senza grossi rischi. In tal modo il sodalizio ha<br />
cambiato <strong>le</strong> precedenti rego<strong>le</strong> del gioco diventando esso stesso l’ente che<br />
<strong>le</strong> poneva, a differenza di quanto accadeva prima e cioè che tutto dovesse<br />
essere contrattato».<br />
Una lucida quanto spietata analisi, quella dell’A<strong>le</strong>andri, che trovava<br />
puntua<strong>le</strong> riscontro, innanzi tutto, nell’impiego feroce e determinato, da<br />
parte della banda, di ogni tipo di vio<strong>le</strong>nza ed intimidazione, per quanto<br />
efferata potesse essere. Basti ricordare, in proposito, sia pure in via di rapidissima<br />
sintesi, il sequestro, avvenuto il 7 novembre 1977, e la successiva<br />
uccisione del marchese Massimiliano Grazioli Lante della Rovere; l’omicidio<br />
di Franco Nicolini, detto Franchino er Crimina<strong>le</strong>, commesso il 2<br />
luglio del 1978, e quello di Sergio Carrozzi, eseguito il 28 agosto dello<br />
stesso anno; il tentato omicidio di Giovanni Piarulli, il 16 agosto 1979; l’omicidio<br />
di Am<strong>le</strong>to Fabiani, perpetrato il 15 apri<strong>le</strong> 1980; il tentato duplice<br />
omicidio in danno di Pierluigi Parente e Maria Nico<strong>le</strong>tta Marchesi, il 19<br />
settembre 1980; il tentato omicidio di Enrico Proietti il 27 ottobre 1980 e<br />
quello di Mario Proietti il 12 dicembre dello stesso anno; gli omicidi di<br />
Orazio Benedetti, commesso il 23 gennaio 1981, di Nicolino Selis e di Antonio<br />
Leccese, nella serata del 3 febbraio 1981; l’omicidio di Maurizio<br />
Proietti e il tentato omicidio di Mario Proietti, il 16 marzo 1981; l’omicidio<br />
di Giuseppe Magliolo, perpetrato il 24 novembre 1981; gli omicidi di<br />
Massimo Barbieri, eseguito il 18 gennaio 1982, di Claudio Vannicola, il 23<br />
febbraio successivo, di Fernando Proietti realizzato il 30 giugno 1982 e di<br />
Miche<strong>le</strong> D’Alto, commesso il 30 giugno dello stesso anno; l’omicidio di<br />
Raffaello Danie<strong>le</strong> Caruso, attuato il 22 gennaio 1983, e quelli di Angelo<br />
De Angelis e di Mario Loria, consumati, rispettivamente il <strong>10</strong> febbraio e<br />
il 18 settembre dello stesso anno.<br />
MAI CI FU PIETÀ 15<br />
Nonostante l’abnorme crescita della criminalità; nonostante il cruento riesplodere<br />
della faida interna alla banda della Magliana; nonostante il «preoccupato<br />
allarme» della Commissione parlamentare antimafia, che «richiama[va]<br />
l’attenzione del Parlamento e del Governo su una situazione certamente<br />
pericolosa», gli ambienti polizieschi romani, inspiegabilmente, continuavano<br />
a ispirare una vulgata tesa alla programmatica sottovalutazione della<br />
pericolosità della banda della Magliana e, più in genera<strong>le</strong>, del<strong>le</strong> infiltrazioni<br />
mafiose nel tessuto socia<strong>le</strong> e nei rapporti con gli apparati amministrativi<br />
della Capita<strong>le</strong>. Ancora nell’ottobre del 1991, il Prefetto di Roma Carmelo<br />
Caruso, discutendo in Campidoglio i prob<strong>le</strong>mi <strong>le</strong>gati alla criminalità organizzata<br />
con il sindaco, i capigruppo consiliari, il questore e i comandanti dei<br />
carabinieri e della guardia di finanza, dichiara che «se la mafia è intesa come<br />
una foresta che soffoca <strong>le</strong> città, a Roma ci sono soltanto alcuni alberi».<br />
Quanto ricordava Macbeth, il prefetto Caruso, col suo sprezzante rifiuto<br />
di farsi intimidire dal<strong>le</strong> notizie riferitegli: Till Birnam wood remove<br />
to Dusinane / I cannot Taint with fear. Un orgoglioso gesto di sfida, il suo,<br />
o non, piuttosto, il discorso di un uomo «roso dal terrore»?<br />
Occorre pur dire, comunque, che con due memorabili interventi, il Tribuna<strong>le</strong><br />
della libertà di Roma, il 28 marzo e il primo apri<strong>le</strong> 1987, aveva revocato<br />
gli ordini di cattura, emessi il 12 febbraio precedente, da un pool<br />
di pubblici ministeri, sulla scorta di devastanti chiamate in correità di<br />
Claudio Sicilia, nei confronti di numerosissime persone, accusate di appartenere,<br />
a vario titolo, alla banda.<br />
Le indagini sulla banda, da quel momento, languirono per anni, mentre<br />
il sangue continuava a scorrere per <strong>le</strong> strade romane. Nel frattempo,<br />
infatti, era riesplosa la faida interna all’organizzazione, che, nel corso degli<br />
anni Ottanta, per dirla col poeta, «spinse anzi tempo al morto regno»<br />
<strong>le</strong> anime, «E a’ cani e augei <strong>le</strong> salme [...] abbandonò» di numerosissimi<br />
esponenti della criminalità organizzata capitolina.<br />
Le vicissitudini giudiziarie che tra il 1981 e il 1987 avevano investito<br />
quell’universo, con strascichi variamente durevoli, avevano costretto gli<br />
e<strong>le</strong>menti di maggior spicco a più o meno lunghi periodi di detenzione, nel<br />
corso dei quali – vuoi per <strong>le</strong> esigenze di sostegno ai detenuti e al<strong>le</strong> loro famiglie,<br />
vuoi per <strong>le</strong> oggettive difficoltà di gestione del<strong>le</strong> lucrose attività criminali,<br />
appannaggio della consorteria – <strong>le</strong> rivalità che già serpeggiavano<br />
fra i sodali non soltanto avevano provocato inevitabili frammentazioni del<br />
sodalizio, ma avevano anche reso concreta la possibilità, per e<strong>le</strong>menti di<br />
secondo piano, di affrancarsi con autonome iniziative, sottratte al controllo<br />
degli esponenti di primo piano in vinculis: in conseguenza di tali accadimenti,<br />
proprio nello stesso momento in cui alcuni di costoro erano<br />
tornati in libertà, si erano anche spezzati i delicati equi<strong>libri</strong> in atto e, in rapida<br />
successione, erano rimasti sul terreno, fra il 1989 e il 1990, Edoardo<br />
Toscano, Giovanni Girlando ed Enrico De Pedis.
16 ANGELA CAMUSO<br />
Diffici<strong>le</strong> dire se si fosse trattato di un eclatante caso di frustrazione paralizzante<br />
<strong>le</strong> capacità intel<strong>le</strong>ttive degli organismi statuali preposti alla prevenzione<br />
ed alla repressione del crimine ovvero di un macroscopico caso<br />
di disattenzione se<strong>le</strong>ttiva, ma, certamente, a fronte di quel nuovo divampare<br />
della vio<strong>le</strong>nza fu disarmante l’inadeguatezza dell’opus investigante. E<br />
pure, non sarebbe stato diffici<strong>le</strong> cogliere come non potesse essere stato<br />
soltanto per un accidente che la sanguinosa faida si fosse riaccesa e sviluppata<br />
proprio tra il settembre del 1989 e il marzo del 1990, per poi cessare,<br />
quasi miracolosamente, nel luglio 1990: nel luglio del 1989, era evaso<br />
dall’Ospeda<strong>le</strong> psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, per essere nuovamente<br />
arrestato proprio nel luglio del 1990, Marcello Colafigli, da sempre<br />
considerato, al pari dell’allora latitante Maurizio Abbatino e di Enrico<br />
De Pedis, uno dei punti di riferimento indiscussi della criminalità organizzata<br />
romana e sicuramente, fra quelli, il più feroce e sanguinario.<br />
Era questa la situazione, quando, nel febbraio del 1990, mi ritrovai in<br />
mano i settanta volumi del processo istruito sul<strong>le</strong> dichiarazioni di Claudio<br />
Sicilia. Vi restai immerso quasi due anni. Fatica ingrata: i precedenti pesavano<br />
ma<strong>le</strong>dettamente. Tutto ormai sembrava deciso e altro non ci si<br />
aspettava da me se non che ponessi la pietra tomba<strong>le</strong> su una materia che<br />
gli intenditori consideravano ormai morta.<br />
Una bizzarria, del resto, era considerata la stessa esigenza che avvertivo<br />
di ricostruire puntualmente i fatti e di comprendere lo straordinario fenomeno<br />
criminal-politico-affaristico, del qua<strong>le</strong> la banda della Magliana,<br />
ma specialmente la rete di protezioni efficienti e interessate di cui essa godeva,<br />
costituivano <strong>le</strong> più evidenti manifestazioni.<br />
Prova ne siano <strong>le</strong> «voci correnti nel pubblico» sul mio conto e su quel<br />
processo. Le documenta una conversazione, intercettata, proprio mentre si<br />
stava tanto faticosamente quanto inesorabilmente riavviando la macchina<br />
processua<strong>le</strong>. Al te<strong>le</strong>fono, due eminenti frammassoni: il primo, lo chiameremo<br />
«dottor C», doveva rendere testimonianza, pertanto, si era rivolto al<br />
secondo, che chiameremo «avvocato D», e lo aveva pregato di assumere<br />
informazioni sul conto di chi intendeva interrogarlo, dunque sul mio:<br />
Avvocato D: «Dunque, quello [dove il «quello», per l’appunto, ero io]<br />
è un tipo un po’ strano, mi riferiscono che non è della Procura della Repubblica<br />
bensì è ormai destinato al Tribuna<strong>le</strong> giudicante, però, siccome<br />
c’è ancora qualche vecchio processo superstite che ancora segue il vecchio<br />
rito, quindi con l’ormai soppresso giudice istruttore, dice che probabilmente<br />
lui [dove il «lui» ero sempre io] ha qualche vecchissimo processo<br />
del qua<strong>le</strong> è giudice istruttore».<br />
Dottor C: «Ho capito».<br />
Avvocato D: «Ed è un tipo abbastanza strano».<br />
MAI CI FU PIETÀ 17<br />
Dottor C: «Ho capito, comunque... ».<br />
Avvocato D: «Dovrebbe essere una vecchia cosa ancora».<br />
Dottor C: «... comunque, se mi chiama, io... ».<br />
Avvocato D: «Embè! Lo vedremo di quello che si tratta... ».<br />
Dottor C: «Sì, credo che si tratti della banda della Magliana, è una trancia<br />
[sic!] del processo sulla banda della Magliana».<br />
Avvocato D: «E di che anno era il caso?».<br />
Dottor C: «Di quattordici o quindici anni fa».<br />
Avvocato D: «Ecco, allora può essere, perché ecco, appunto, questo [dove<br />
il «questo» ero ancora una volta io] è un tipo così, un po’ emarginato lì nell’ambiente,<br />
e gli hanno lasciato questi disastrati e vecchi processi imputriditi<br />
dagli anni... ».<br />
Sebbene il titolare del «disastrato e vecchio processo imputridito dagli anni»<br />
fosse «un tipo abbastanza strano» e «un po’ emarginato», Claudio Sicilia,<br />
collaboratore già liquidato, per i suoi precedenti, per la sua posizione<br />
giudiziaria, per la sua personalità e per i suoi presumibili moventi, qua<strong>le</strong><br />
«fonte inattendibi<strong>le</strong>», tornò, tuttavia, prepotentemente alla ribalta e ciò<br />
accadde, purtroppo per lui, contro la sua volontà.<br />
Paolo A<strong>le</strong>andri, esaminato nel pomeriggio del 18 novembre 1991, aveva<br />
chiuso il suo interrogatorio sottolineando come la «banda della Kawasaki»<br />
– nome con cui, in epoche più remote, veniva designata la «banda della Magliana»<br />
– avesse «memoria d’e<strong>le</strong>fante»: deliberata una sentenza di morte, la<br />
eseguiva, in ogni caso, magari anche dopo dieci anni. Con questa lugubre<br />
premonizione, l’ex terrorista neofascista divenuto collaboratore di giustizia,<br />
aveva enunciato una fondamenta<strong>le</strong> regola d’esperienza, che, a quanto pare,<br />
esulava dal repertorio di quel variopinto e patetico sciame di «grandi investigatori»<br />
soi disants che, a Roma, si piccavano ormai di conoscere tutto della<br />
e sulla famigerata banda. Marcello Colafigli, infatti, in occasione dell’arresto<br />
che ne aveva interrotto la latitanza, aveva manifestato il proprio intento<br />
di eliminare fisicamente Claudio Sicilia per <strong>le</strong> sue fluviali rivelazioni e<br />
lo aveva fatto – colmo dell’impudenza! – rispondendo a un interrogatorio<br />
del pubblico ministero. E, tenuti nel debito conto sia il ruolo processua<strong>le</strong><br />
svolto dal collaboratore – <strong>le</strong> cui molteplici chiamate in correità avevano<br />
consentito l’acquisizione d’importanti conoscenze sull’universo sommerso<br />
della criminalità organizzata della Capita<strong>le</strong> – sia il ruolo che, in contingenze<br />
meno avverse, egli avrebbe potuto tornare a giocare, v’era più d’una buona<br />
ragione per escludere che il feroce Colafigli si fosse lasciato andare ad un<br />
innocente pour par<strong>le</strong>r davanti al magistrato. Quantunque fosse esplicito,<br />
nella sua minaccia, un più che plausibi<strong>le</strong> movente per un omicidio annunciato,<br />
Claudio Sicilia era stato, tuttavia, lasciato solo. E, proprio la sera del<br />
18 novembre 1991, due kil<strong>le</strong>r, a bordo di una motocic<strong>le</strong>tta, lo freddarono<br />
con alcuni colpi di pistola, all’interno di un negozio di calzature.
18 ANGELA CAMUSO<br />
Il 20 novembre 1991, «Il Messaggero», sotto il titolo Troppi piccoli reati<br />
impuniti, pubblicava un’intervista al dottor Fernando Masone, all’epoca<br />
Questore di Roma, nella qua<strong>le</strong> si <strong>le</strong>ggeva: «Il prob<strong>le</strong>ma vero di questa città<br />
è quello della piccola criminalità. Qui non abbiamo frequenti esplosioni di<br />
grossa criminalità. Quel che più s’avverte invece è la quotidianità della piccola<br />
criminalità. Sono questi piccoli reati quelli che incidono fortemente<br />
sui cittadini. La gente quando viene colpita nel suo, nella sua casa, nella sua<br />
auto, non pensa e non può pensare che questo sia un piccolo reato. Chi viene<br />
derubato, chi viene malmenato, chi subisce un danno, uno scippo, un<br />
furto in appartamento, riceve un’offesa. Gravissima. Ecco, su queste cose<br />
dobbiamo avere una vera attenzione. Insomma, noi dobbiamo lottare e<br />
combattere per ridurre questo prob<strong>le</strong>ma che a mio avviso è il vero prob<strong>le</strong>ma<br />
di Roma. Del centro, ma soprattutto dei quartieri di periferia, dei quartieri<br />
dormitorio, di Tor Bella Monaca, di Corvia<strong>le</strong>, di Centocel<strong>le</strong> e di tanti<br />
altri ancora. Ecco, se stasera sapessi che siamo riusciti a ridurre il numero<br />
degli scippi anche di una sola unità, sarei davvero felice».<br />
Incalzato dall’intervistatore («Dunque, il prob<strong>le</strong>ma è questo. E la droga?»),<br />
il Questore insisteva: «La droga c’è ed è tanta. E droga significa per<br />
lo più microcriminalità. Il piccolo spaccio, il consumo quotidiano trovano<br />
alimento proprio nel piccolo reato non in quello grande».<br />
Non potendosi sottrarre a una domanda sulla possibilità che vi fossero<br />
<strong>le</strong>gami tra la banda della Magliana, la mafia e la camorra, l’intervistato affermava:<br />
«Io personalmente non ho fatto indagini su questo, ma mi sento<br />
di dire che è sicuro». Salvo naturalmente affermare, subito dopo: «A Roma,<br />
comunque, non ci sono quel<strong>le</strong> manifestazioni tipiche di altre zone d’Italia<br />
come il racket, l’estorsione capillare a negozianti e industriali, il controllo<br />
su tutte <strong>le</strong> attività economiche con percentuali e parcellizzazione del<br />
territorio. Tutto questo qui da noi non c’è». E, quindi, ulteriormente precisare:<br />
a Roma «ci può essere quello che noi abbiamo già detto ripetutamente:<br />
l’investimento di danaro sporco in attività <strong>le</strong>cite. E siccome questo<br />
è stato provato in vari casi già sottoposti all’autorità giudiziaria, che ha deciso<br />
il sequestro dei beni anche recentemente, non vedo perché questi fenomeni<br />
di criminalità organizzata non debbano esserci ancora. E noi lavoriamo<br />
per bloccarli. Anche se tutto va ricondotto entro certi limiti. Roma<br />
non è un territorio di conquista per questa gente. Io ipotizzo tutto al<br />
top per essere pronto all’occorrenza, ma non dobbiamo esagerare».<br />
Tutte queste dichiarazioni del Questore Masone intervenivano all’indomani<br />
dell’omicidio di Claudio Sicilia, a bloccare il qua<strong>le</strong>, la macchina<br />
della prevenzione, ipotizzata al top, ma senza esagerare, purtroppo non<br />
era stata pronta.<br />
Gli autori dell’omicidio di Claudio Sicilia sono ancora ignoti, ma la<br />
sciagurata scelta di collaborazione della vittima, in ogni caso e contro ogni<br />
ragionevo<strong>le</strong> previsione, non restò isolata.<br />
MAI CI FU PIETÀ 19<br />
Maurizio Abbatino, colpito da più provvedimenti restrittivi, dopo un<br />
lungo periodo di latitanza, che si protraeva dal dicembre 1986, venne arrestato,<br />
a Caracas, il 24 gennaio 1992. Gli antichi sodali si attivarono immediatamente,<br />
senza, tuttavia, approdare a risultati utili, per propiziarne<br />
la liberazione e scongiurarne l’estradizione dal Venezuela verso l’Italia: essi<br />
avevano ben fondate ragioni di temere che l’Abbatino, considerato da<br />
sempre personaggio di primo piano dell’organizzazione delinquentesca,<br />
potesse indursi a clamorose quanto pericolose rivelazioni, specie dopo la<br />
barbara uccisione del fratello Roberto, prima torturato e, quindi, finito a<br />
coltellate sul greto del Tevere, alcuni giorni dopo l’agguato nel qua<strong>le</strong> era<br />
caduto Enrico De Pedis.<br />
Non si sbagliavano.<br />
Giunto in Italia, a seguito della sua espulsione dal Venezuela, Maurizio<br />
Abbatino, il qua<strong>le</strong>, già poco dopo il suo arresto, aveva manifestato l’intenzione<br />
di vo<strong>le</strong>r collaborare agli stessi ufficiali della nostra polizia giudiziaria<br />
che l’avevano rintracciato all’estero, fornì preziose informazioni sulla banda,<br />
rivendicando al suo interno un ruolo di vertice; ne tracciò <strong>le</strong> linee di sviluppo,<br />
sia sotto il profilo dei partecipi sia sotto il profilo della sua strutturazione<br />
per progressive aggregazioni e stratificazioni di gruppi delinquenziali,<br />
in precedenza non omogenei, sia, finalmente, sotto il profilo strettamente<br />
operativo, sul terreno del traffico, del controllo e della commercializzazione,<br />
a Roma, dell’eroina e della cocaina, tra la fine degli anni Settanta<br />
e i primi anni Ottanta. La sua collaborazione apparve subito particolarmente<br />
interessante per i cospicui e<strong>le</strong>menti di novità su un impressionante<br />
numero di omicidi, che, proprio a partire dall’ultimo scorcio degli anni Settanta<br />
e sino all’inizio degli anni Novanta, avevano insanguinato la Capita<strong>le</strong>;<br />
su efferati sequestri di persona; su cruente lotte per il «controllo» del mercato<br />
della droga, della gestione del gioco d’azzardo e dell’esercizio dell’usura;<br />
sulla fagocitazione ed il controllo di attività economiche.<br />
Quel<strong>le</strong> rivelazioni, d’altra parte, risultarono di assoluta importanza sotto<br />
un ulteriore punto di vista: mentre a Claudio Sicilia, il qua<strong>le</strong> proveniva da<br />
Napoli e, dunque, non era pienamente consapevo<strong>le</strong> del<strong>le</strong> dinamiche che<br />
avevano attraversato la criminalità romana degli anni Settanta, sfuggivano<br />
spesso la rea<strong>le</strong> portata ed il significato dei fatti che riferiva, Maurizio Abbatino,<br />
cresciuto nell’ambiente della malavita capitolina di quegli anni, era<br />
perfettamente in grado di apprezzare l’unitarietà, pur nella diversità dei<br />
gruppi, fondamenta<strong>le</strong> caratteristica della banda della Magliana, e, dunque,<br />
di trarne <strong>le</strong> conseguenze, in termini di adeguata spiegazione del fenomeno.<br />
Inuti<strong>le</strong> dire che con <strong>le</strong> rivelazioni di Maurizio Abbatino la banda della<br />
Magliana entrava nella mitologia.<br />
Sulla strada della costruzione del mito, è poi arrivato Romanzo Crimina<strong>le</strong><br />
di Giancarlo De Cataldo, libro nel qua<strong>le</strong>, per l’appunto in forma ro-
20 ANGELA CAMUSO<br />
manzata, cioè mediante un artificio narrativo che permette di non attenersi<br />
rigorosamente alla verità storica, si racconta l’epopea della «banda<br />
della Magliana», i <strong>le</strong>gami di questa con l’eversione, i Servizi segreti deviati,<br />
la massoneria, la politica, <strong>le</strong> alte sfere del c<strong>le</strong>ro.<br />
Da un così bel libro, che attinge, con grande intelligenza e gusto raffinato,<br />
agli atti del processo, è stato tratto, però, l’omonimo film di Miche<strong>le</strong><br />
Placido, sorta di specchio deformante che divora l’immagine rif<strong>le</strong>ssa,<br />
quella cioè della feroce associazione di malfattori brutti, sporchi e cattivi,<br />
per restituirne, grazie anche alla bravura e ai pregi estetici degli attori,<br />
quella di una patetica banda di «piacioni»: non eroi negativi, ma soltanto<br />
good fellas, belli, sfortunati, magari, e ma<strong>le</strong>detti. Come se non bastasse, è<br />
spuntata finalmente anche la «serie», propagandata con discutibili trovate<br />
pubblicitarie, tributaria di un incredibi<strong>le</strong> successo di pubblico: su internet,<br />
in particolare su Facebook, proliferano «gruppi» inneggianti a<br />
questo o a quel personaggio oppure sondaggi che si domandano se è più<br />
fico er freddo o er dandi.<br />
Oggi, dovrebbe essere ormai noto lippis et tonsoribus che la liquidazione<br />
giudiziaria e la conseguente estinzione del sodalizio delinquentesco la<br />
cui storia è narrata in Mai ci fu pietà è avvenuta nel periodo a cavaliere del<br />
1993; e che da allora non si dovrebbe, dunque, più parlare di «banda della<br />
Magliana» come se fosse un fenomeno associativo crimina<strong>le</strong> in qualche<br />
modo ancora attua<strong>le</strong>, sia pur con riguardo al<strong>le</strong> gesta dei suoi epigoni, i sopravvissuti,<br />
cioè, al<strong>le</strong> mattanze o all’inesorabi<strong>le</strong> scorrere del tempo, talvolta<br />
ancora in stato di detenzione o tornati in libertà dopo carcerazioni<br />
più o meno lunghe.<br />
Eppure, <strong>le</strong> odierne cronache giornalistiche, considerato il forte appeal<br />
che quell’associazione di malfattori, grazie soprattutto ai film e al<strong>le</strong> fiction,<br />
continua a esercitare sull’immaginario col<strong>le</strong>ttivo, concorrono a farla continuamente<br />
rivivere, sia pure in modo assolutamente virtua<strong>le</strong>, quasi per effetto<br />
del sorti<strong>le</strong>gio d’una fata Morgana mediatica, ogni volta che qualche<br />
evento crimina<strong>le</strong> funesta Roma e il suo hinterland, sol che si sospetti vi<br />
possano essere implicati soggetti che ne abbiano fatto parte, in tempi comunque<br />
ormai remoti, ovvero loro eredi o aventi causa.<br />
MAI CI FU PIETÀ<br />
MAI CI FU PIETÀ 21
22 ANGELA CAMUSO<br />
Le vicende narrate sono realmente accadute: si tratta di fatti accertati <strong>dai</strong> giudici<br />
così come scritto su sentenze irrevocabili. Questo libro è il frutto dello studio di<br />
documenti giudiziari e di colloqui avuti dall’autrice con magistrati, investigatori e<br />
avvocati.<br />
Banditi<br />
MAI CI FU PIETÀ 23<br />
Con il sangue raffermo incrostato sulla fronte, il sequestrato giaceva in<br />
quello scantinato ormai da quattro giorni. Appena arrivato, gli avevano<br />
ordinato di spogliarsi, lasciandogli solo calzini e mutande. Era primavera,<br />
ma nel nascondiglio faceva freddo. Una f<strong>le</strong>bi<strong>le</strong> luce filtrava da una grata e<br />
un sacco a pelo sopra una brandina da campeggio non poteva essere abbastanza.<br />
C’era però il cuscino di stoffa, rossa, morbidissimo, con l’imbottitura<br />
di lana grezza. E l’ottimo cibo, perché era lo stesso destinato ai<br />
carcerieri, dei veri buongustai. Molto spesso, all’ostaggio venivano serviti<br />
dentro contenitori di plastica fi<strong>le</strong>tti al sangue e una volta anche rigatoni<br />
con la pajata: era uno dei piatti preferiti dal capo, il più cattivo, che si divertiva<br />
a mimare con la mano la pistola e a puntarla in mezzo agli occhi<br />
del prigioniero. La mossa aveva ricordato al rapito, con un brivido di orrore,<br />
quella di quando si uccidono <strong>le</strong> bestie dentro il mattatoio. «Caro<br />
papà, carissimi tutti, sono nel<strong>le</strong> mani di un’organizzazione forte e decisa a<br />
tutto. Se vo<strong>le</strong>te salvarmi fate quanto vi sarà richiesto. Per ogni trattativa<br />
detta organizzazione si farà riconoscere con questa sigla AZ 71 di cui solo<br />
voi siete a conoscenza. Spero che farete tutto senza perdere tempo. Tutto<br />
si può rifare fuorché una vita. Si<strong>le</strong>nzio con tutti e non commettete errori,<br />
potrebbero essere fatali», scrisse finalmente ai suoi familiari il malcapitato,<br />
dopo quei primi giorni di inferno 1 . L’uomo finito nel<strong>le</strong> mani di<br />
quei balordi era l’orefice romano Roberto Giansanti, 29 anni, con negozio<br />
in via Livorno. Fu rapito la sera del 16 maggio del 1977 da un gruppo<br />
all’epoca piuttosto inesperto di sequestri di persona, ma voglioso di inserirsi<br />
nel business crimina<strong>le</strong> più redditizio di quei tempi. Era l’ora di cena,<br />
Giansanti aveva appena posteggiato la sua auto nel garage condominia<strong>le</strong><br />
di via Franco Sacchetti, alla Bufalotta, dove abitava. Prima che i banditi<br />
gli saltassero addosso, ebbe il tempo di vedere con la coda dell’occhio tre<br />
uomini calarsi in testa i passamontagna, con lo sguardo implorò un altro<br />
inquilino presente casualmente nel garage, ma questi rimase ad assistere
24 ANGELA CAMUSO<br />
alla scena ammutolito e immobi<strong>le</strong>. Un attimo dopo, i banditi si diedero da<br />
fare con una spranga e i calci del<strong>le</strong> loro pisto<strong>le</strong>.<br />
«Ma chi è?», chiese un rapitore a un complice.<br />
«Ma chi sei?», ripeté un altro al gioielliere. «Sono Giancarlo Rossi»,<br />
provò a mentire Roberto Giansanti, già mezzo tramortito dal<strong>le</strong> botte in testa.<br />
I rapitori gli frugarono nel<strong>le</strong> tasche e trovarono la patente. «È lui, è il<br />
padre», si rassicurarono. Originariamente, infatti, i banditi progettavano<br />
di prendere in ostaggio uno dei figli piccoli del gioielliere, ma poi qualcosa<br />
li costrinse a cambiare idea. «Dovevamo rapire il bambino, ma per la<br />
<strong>le</strong>gge rea<strong>le</strong> che tutela i minorenni abbiamo scelto te», vol<strong>le</strong>ro riferire con<br />
scherno all’orefice, che aveva origini nobili, per terrorizzarlo. Lo caricarono<br />
quindi in una macchina, facendolo sdraiare sul sedi<strong>le</strong> posteriore dell’auto<br />
con la testa appoggiata al<strong>le</strong> ginocchia di un bandito, che non smise<br />
di colpirlo e di insultarlo per tutta la durata del viaggio.<br />
«Fijie ‘e bocchina», gli urlava 2 . Dopo una corsa di un’ora sul Grande<br />
Raccordo Anulare, Roberto Giansanti si ritrovò segregato in quella specie<br />
di cantina. In effetti, ebbe l’impressione che quelli fossero del tutto impreparati<br />
a occuparsi di un adulto: per <strong>le</strong>gargli <strong>le</strong> caviglie, non trovarono<br />
di meglio che la cintura dei suoi stessi pantaloni e malamente lo coprirono<br />
con una tovaglia. Quando ne sentì il bisogno, durante la sua prima notte<br />
da prigioniero, il gioielliere non poté fare a meno di orinare contro il<br />
muro, in un angolo.<br />
«Le informazioni necessarie per sequestrare il gioielliere <strong>le</strong> diede Franco<br />
Giuseppucci», raccontò il pentito Claudio Sicilia nel 1986 3 .<br />
Franco Giuseppucci era un crimina<strong>le</strong> di trent’anni, appartenente alla<br />
vecchia guardia. Faceva il fornaio e per questo era soprannominato Fornaretto,<br />
anche se poi gli affibbiarono il nomignolo di er Negro per via del<br />
colorito scuro. Temuto e stimato, aveva ottimi canali per la ricettazione ed<br />
era molto conosciuto nell’ambiente del<strong>le</strong> corse dei cavalli: agli scommettitori<br />
clandestini prestava a strozzo i soldi accumulati con <strong>le</strong> rapine, riuscendo<br />
così a riciclare il denaro e nello stesso tempo a ottenere ampi guadagni.<br />
Il gioielliere Giansanti, quando fu liberato, riferì ai carabinieri di<br />
aver notato proprio er Negro, qualche giorno prima del rapimento, davanti<br />
al suo negozio di gioielli in via Livorno. Se l’era ricordato perché il<br />
bandito aveva un occhio di vetro, a causa dei postumi di un incidente. Er<br />
Negro, peraltro, era la stessa persona che Giansanti aveva visto, più di una<br />
volta a partire da un mese prima del sequestro, nei pressi di un maneggio<br />
vicino al cantiere dov’era in costruzione la sua villa di famiglia, sull’Aurelia:<br />
Giuseppucci arrivava in quel maneggio sempre a bordo di una Fiat<br />
124 spider, di colore giallo, parcheggiava la macchina con il retro contro<br />
un albero, così da nascondere la targa e si piazzava in piedi per alcuni minuti<br />
davanti al cofano, per coprire anche il numero di targa anteriore.<br />
I Giansanti, d’altra parte, non erano tipi da sfoggiare lussi e ricchezze e<br />
MAI CI FU PIETÀ 25<br />
l’unica pa<strong>le</strong>se dimostrazione di agiatezza era proprio quella grossa villa in<br />
costruzione. Franco Giuseppucci l’aveva adocchiata e si era fatto i suoi<br />
conti: si convinse di poter organizzare un sequestro-lampo, in cambio di<br />
un riscatto colossa<strong>le</strong>.<br />
In realtà, i rapitori intascarono 350 milioni, ovvero una somma di gran<br />
lunga inferiore alla richiesta inizia<strong>le</strong> di 5 miliardi. Per di più, dovettero dividere<br />
i guadagni in molte parti: mentre era prigioniero, il gioielliere ebbe<br />
modo di distinguere almeno sei distinti carcerieri e nell’appartamento<br />
adiacente alla sua prigione avvertì la presenza anche di una o di due donne,<br />
addette alla cucina dei pasti. L’allungarsi inaspettato del<strong>le</strong> trattative e<br />
la salute cagionevo<strong>le</strong> del sequestrato crearono tra i banditi una certa tensione.<br />
Dopo pochi giorni il gioielliere si ammalò di congiuntivite acuta. Fu<br />
necessario l’intervento di un medico amico della banda. «Sei il peggio affare<br />
che ci poteva capitare. Invece di un cristiano ci hanno portato un cadavere<br />
e per di più malato di cuore», disse a Giansanti uno di loro 4 . Alla<br />
fine, dopo altre tre <strong>le</strong>ttere scritte alla famiglia e una serie di te<strong>le</strong>fonate terrorizzanti,<br />
si arrivò a un accordo per la liberazione. Il cinquantaduesimo<br />
giorno di prigionia al gioielliere furono date da mangiare me<strong>le</strong> cotte; quindi<br />
fu rivestito, narcotizzato e caricato su un’auto fino al luogo dello scambio,<br />
una strada isolata sotto un ponte sulla Prenestina. La moglie dell’orefice,<br />
Marina, si ritrovò a giocare a una caccia al tesoro. Arrivò all’appuntamento<br />
seguendo man mano <strong>le</strong> indicazioni contenute in quattro biglietti<br />
lasciati in altrettanti cestini per i rifiuti, disposti in luoghi diversi<br />
della città.<br />
Fu, questo dei messaggi, uno stratagemma utilizzato dallo stesso gruppo<br />
anche per un altro rapimento. Il fatto accadde sempre a Roma di lì a<br />
quattro mesi esatti ed ebbe un epilogo ben peggiore. Il riscatto pagato fu<br />
di due miliardi e l’ostaggio, il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere,<br />
non fece mai ritorno a casa.<br />
Il tragico sequestro del duca Grazioli rappresentò un salto di qualità.<br />
Fu questo il vero trampolino di lancio di quella che sarebbe poi diventata<br />
la famigerata «banda della Magliana». Si stava formando in quel periodo<br />
il suo gruppo originario, derivato dall’unione di alcuni criminali nativi<br />
dell’omonimo quartiere a Sud di Roma, la Magliana appunto, che a partire<br />
dal 1975, su input del Nuovo Piano Regolatore, era diventata «preda<br />
del degrado e della speculazione edilizia» 5 . Alla Magliana <strong>le</strong> ruspe avevano<br />
distrutto il paesaggio, colline verdi furono ricoperte in tempi record da<br />
brutti alveari mal so<strong><strong>le</strong>ggi</strong>ati, lasciando al contempo i nuovi residenti privi<br />
dei servizi pubblici essenziali.<br />
Il capo di questo primo nuc<strong>le</strong>o della gang, Maurizio Abbatino, era nato<br />
a Roma nel 1954 e dunque all’epoca del rapimento aveva 23 anni. Lo<br />
chiamavano Crispino, per la capigliatura folta e riccia. Molti anni dopo, fu
26 ANGELA CAMUSO<br />
proprio lui a fare ai giudici i nomi dei suoi compagni di imprese dell’epoca:<br />
Giovanni Piconi, Emilio Castel<strong>le</strong>tti, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro<br />
e Giorgio Paradisi, garagista, tutti suoi coetanei. Quando il gruppo di Crispino<br />
si unì a Franco Giuseppucci, er Negro, nativo invece di Trastevere,<br />
si costituì quella che si chiamava nel gergo della malavita una «batteria».<br />
La «batteria» presupponeva un patto di solidarietà e l’accordo a steccare<br />
in parti uguali i proventi dei delitti, anche qualora non tutti i sodali partecipassero<br />
all’azione. Er Negro, più anziano degli altri di una decina di<br />
anni, era già famoso nell’ambiente e suo pupillo era un ragazzo noto per<br />
essere irascibi<strong>le</strong> e spietato, Marcello Colafigli detto Marcellone, con la fisionomia<br />
del gigante: Marcellone si unì quasi subito alla «batteria», anche<br />
se poi capitava che sia lui sia Giuseppucci, oltre che a lavorare con il nuovo<br />
gruppo, occasionalmente si aggregassero anche ad altre «batterie», con<br />
<strong>le</strong> quali di solito ci si incontrava nella zona dell’Alberone, sulla via Appia<br />
Nuova. Una di queste «batterie» era la cosiddetta «banda di Val Melaina»,<br />
che a differenza di quella di Maurizio Abbatino detto Crispino, specializzata<br />
in rapine, già controllava il traffico della cocaina tramite un cana<strong>le</strong><br />
aperto dal figlio diseredato di un conte, che aveva contatti con la camorra.<br />
La «banda di Val Melaina», tuttavia, si sfaldò presto, intorno al<br />
1972: i soci si montarono la testa, furono incapaci di gestire i guadagni<br />
stratosferici. Per tali motivi si può dire che a Roma, in quel periodo, non<br />
esisteva alcuna grossa organizzazione di mala autoctona. Piuttosto, imperversava<br />
un potente clan d’oltralpe: la cosiddetta «banda dei Marsigliesi»:<br />
proveniente appunto dalla città portua<strong>le</strong>, era un clan che si era trasferito<br />
in Italia dopo che la polizia francese era riuscita a smantellare in<br />
patria molte raffinerie della droga.<br />
I Marsigliesi, a Roma, oltre che trafficare cocaina, controllavano buona<br />
parte del gioco d’azzardo e in particolare il «Totonero», ovvero <strong>le</strong> scommesse<br />
clandestine sul<strong>le</strong> partite di calcio. Nei night club dell’ormai decadente<br />
via Veneto riciclavano il denaro, anche quello frutto dei sequestri di<br />
persona, e nell’apri<strong>le</strong> del 1975 organizzarono il rapimento di Giovanni<br />
Bulgari, il gioielliere di fama internaziona<strong>le</strong> con atelier in via Condotti, tenuto<br />
prigioniero per un mese e liberato dopo il pagamento di un riscatto<br />
di un miliardo e 300 milioni di lire. Fu il colpaccio dei «francesi», ma anche<br />
l’inizio della loro fine. Solo un anno dopo, il clan fu stroncato dalla<br />
cattura clamorosa di uno dei suoi capi, Albert Bergamelli, che dimorava<br />
in una villa sull’Aurelia. Da quel momento, fino al 1983, l’anno in cui fu<br />
ucciso in carcere, Bergamelli assistette, suo malgrado, all’ascesa di quel<br />
gruppo di malavitosi romani che aveva sempre disprezzato: «Sono dei<br />
borgatari – disse di loro una volta – è gente che agisce senza alcuna razionalità»<br />
6 .<br />
Bergamelli aveva <strong>le</strong> sue ragioni. Fino a quando la sorte di Crispino e degli<br />
altri non incrociò quella dello sventurato Grazioli, i loro sforzi per sca-<br />
MAI CI FU PIETÀ 27<br />
lare l’Olimpo crimina<strong>le</strong> non diedero invero gli effetti sperati. Ad esempio,<br />
finì in sparatoria, con l’arresto in flagranza di uno dei banditi, il progettato<br />
rapimento di un costruttore perugino, Vincenzo Ciriello: imprevedibi<strong>le</strong><br />
fu la reazione dell’ostaggio, che era armato. Addirittura, ci fu anche il<br />
tentativo di recuperare il riscatto frutto del sequestro di un imprenditore<br />
emiliano, liberato in cambio dell’impegno a pagare a posteriori i rapitori.<br />
L’uomo, a suggello del patto, aveva dato ai carcerieri metà di un santino,<br />
che quelli avrebbero dovuto utilizzare per farsi riconoscere. Una volta al<br />
sicuro, però, l’imprenditore pensò bene di far andare al posto suo, per la<br />
consegna del denaro, un poliziotto in borghese, del qua<strong>le</strong> comunque ai<br />
malviventi non sfuggì la presenza.<br />
C’è quasi sempre una talpa dietro ogni rapimento. Nel caso del duca<br />
Massimiliano Grazioli, assassinato dopo il pagamento del riscatto, a tradirlo<br />
fu un amico di suo figlio. Giulio Grazioli, 35 anni, aveva la passione<br />
per la caccia e per i fuoristrada e fu così che due anni prima aveva conosciuto<br />
il suo Giuda, Enrico Mariotti, un coetaneo, tipo stravagante che<br />
amava vestire con abiti militari e frequentava i giovani fascisti dei Parioli.<br />
Mariotti gestiva al centro di Ostia una sala corse ed era un grande esperto<br />
di motori e col<strong>le</strong>zionista di armi. In passato, era stato arrestato per aver<br />
investito una persona su un’auto rubata, ma questo Giulio Grazioli non lo<br />
sapeva. Al figlio del duca, invece, era noto che a fare il buttafuori per Mariotti<br />
era un certo Franco Giuseppucci detto er Negro, di cui l’amico gli<br />
parlava, peraltro, in maniera colorita. La circostanza, tuttavia, non aveva<br />
mai impensierito più di tanto il rampollo dei Grazioli, nonostante i suoi<br />
illustri natali: diventati duchi nel 1851, gli avi del giovane furono i mugnai<br />
di papa Gregorio XVI mentre la famiglia di sua madre, Isabella Perrone,<br />
era stata proprietaria del quotidiano «Il Messaggero». D’altra parte, Mariotti<br />
dimostrava di avere conoscenze in ogni ambiente. Tra i frequentatori<br />
di una sua villa nel Reatino, punto di partenza per gite in motocross, c’era<br />
anche il figlio di un questore.<br />
Giulio veniva invitato spesso in quella casa di campagna da Enrico Mariotti<br />
e anche nella sua residenza di Ostia, dove il gestore della sala corse<br />
viveva con la moglie e due bambine. Allo stesso modo, la talpa conosceva<br />
bene la famiglia del suo nobi<strong>le</strong> amico. In particolare, era informato del fatto<br />
che i Grazioli avevano ottenuto di recente un cospicuo indennizzo: era<br />
stato per l’esproprio di alcuni terreni nei pressi della via Salaria, dove era<br />
stata costruita l’autostrada. Più di una volta, Mariotti aveva anche incontrato<br />
l’anziano duca, sia nel suo palazzo di via del P<strong>le</strong>biscito, dietro piazza<br />
Venezia, sia nella tenuta della Marcigliana, all’altezza di Settebagni. Si<br />
trattava di 534 ettari di terreno coltivati a grano e pascolo alla cui cura<br />
Massimiliano Grazioli aveva dedicato negli ultimi anni tutto se stesso.<br />
Ogni giorno il nobiluomo, che aveva 66 anni, usciva da casa a orario fisso<br />
e si recava alla sua azienda agricola. Quindi ritornava a via del P<strong>le</strong>biscito
28 ANGELA CAMUSO<br />
percorrendo sempre a orari fissi, al volante della sua Bmw grigia, la medesima<br />
strada, che solitamente era poco o nulla trafficata. Per questo, ricevuta<br />
la dritta da Enrico Mariotti, non fu diffici<strong>le</strong> per er Negro, Crispino<br />
e gli altri della sua «batteria» iniziare a pedinare la loro vittima.<br />
L’azione scattò quando era buio. Un’Alfetta strinse la Bmw appena<br />
uscita dalla tenuta, costringendo il duca a fermarsi. Quindi i banditi, in<br />
sette, lo agguantarono. Erano tutti armati di pisto<strong>le</strong> e uno anche di mitra.<br />
Dopo aver tentato senza successo di narcotizzarlo lo caricarono in auto.<br />
Il sequestro avvenne sotto gli occhi del fattore, Luigi, che era al volante<br />
della sua 126. Come di solito, anche quella sera seguiva il suo padrone<br />
a breve distanza. Di lui i criminali non si curarono più di tanto: lo fecero<br />
scendere dall’auto, obbligandolo a buttarsi con la faccia a terra in un fossato.<br />
Quindi tolsero <strong>le</strong> chiavi dal quadro della macchina e <strong>le</strong> gettarono:<br />
«Erano travisati e parlavano in romanesco vero», raccontò il fattore ai carabinieri,<br />
quella stessa sera.<br />
L’organizzazione del sequestro fu comp<strong>le</strong>ssa e vi parteciparono in molti,<br />
tant’è che la prima richiesta di riscatto, arrivata a meno di un’ora dal<br />
rapimento, fu di <strong>10</strong> miliardi. Faceva parte degli accordi tra er Negro e Crispino,<br />
attivarsi soltanto in azioni lucrose. Ci pensò er Negro a reclutare gli<br />
uomini necessari per l’impresa. Ad alcuni banditi riuniti nel gruppo cosiddetto<br />
di Montespaccato, che faceva capo ad Antonio Montegrande, un<br />
ventiduenne di Catania, fu affidato l’esclusivo compito della custodia dell’ostaggio.<br />
Il duca, qualche decina di minuti dopo il blitz alla Marcigliana,<br />
venne preso in consegna da costoro su una piazzola del Grande Raccordo<br />
Anulare. Fu caricato su un furgone dietro una casa abbandonata che<br />
costeggiava l’anello strada<strong>le</strong>. Gli autori materiali del rapimento erano stati<br />
invece Crispino, quelli della sua «batteria» e due amici di Giuseppucci<br />
er Negro, gli stessi che ne avevano curato i preliminari. «Al momento del<br />
sequestro a bordo della Fiat 131 rubata c’eravamo io, Emilio Castel<strong>le</strong>tti,<br />
Franco Giuseppucci e Marcello Colafigli, che aveva procurato il cloroformio…<br />
Sull’Alfetta c’erano Renzo Danesi, Giovanni Piconi e Giorgio Paradisi»,<br />
racconterà agli inquirenti, 15 anni dopo, lo stesso Crispino 7 . I protagonisti<br />
dell’assalto fuori dalla tenuta, in pratica, da quel momento in poi<br />
non si occuparono più direttamente dell’ostaggio, salvo una volta, per un<br />
imprevisto: la prima prigione, una palazzina a tre piani in zona Primaval<strong>le</strong>,<br />
diventò insicura perché troppo frequentata e si dovette spostare il duca<br />
Grazioli in un altro nascondiglio, una casa in costruzione sull’Aurelia,<br />
in località Val<strong>le</strong> dell’Inferno. Da lì, peraltro, il nobiluomo fu nuovamente<br />
trasferito, per finire in una terza e ultima prigione, una casa di campagna<br />
nel Sa<strong>le</strong>rnitano. Ma, Crispino e i suoi, insieme a Franco Giuseppucci, in<br />
quel momento erano al<strong>le</strong> prese con un altro diffici<strong>le</strong> compito: quello di seguire<br />
in prima persona <strong>le</strong> comp<strong>le</strong>sse trattative, anch’esse destinate a pro-<br />
MAI CI FU PIETÀ 29<br />
lungarsi ben oltre ogni ottimistica previsione.<br />
«Non vi era un postino per recapitare i messaggi. I messaggi venivano<br />
recapitati un po’ da tutti dopo aver preso accordi con il te<strong>le</strong>fonista. Poi il<br />
te<strong>le</strong>fonista chiamava la famiglia e diceva dove erano i messaggi, che venivano<br />
lasciati da noi o in un bar, o in un cestino dei rifiuti o in una cabina<br />
te<strong>le</strong>fonica. Talvolta il te<strong>le</strong>fonista dava del<strong>le</strong> indicazioni inesatte, in modo<br />
ta<strong>le</strong> che trovandoci noi sul posto potevamo verificare se e chi, ma soprattutto<br />
in compagnia di chi il destinatario si sarebbe recato a ricevere il messaggio.<br />
Si facevano cioè, del<strong>le</strong> prove», spiegherà ancora Crispino ai magistrati<br />
8 . Il te<strong>le</strong>fonista, esperto truffatore e falsario, si chiamava Franco Catracchi<br />
ma era soprannominato Spazzolino, perché fin da piccolo portava<br />
i capelli a spazzola. Raffinato nei modi e nell’abbigliamento, la sua casa<br />
era arredata con mobili antichi e tappezzata di velluto verde-azzurro. Parlava<br />
in italiano perfetto, con voce squillante e un po’ effemminata: per camuffarla<br />
quando te<strong>le</strong>fonava ai Grazioli, solitamente da cabine fuori Roma,<br />
si metteva una pallina da ping-pong in bocca. «Spazzolino era esperto di<br />
trattative. Sua era stata l’idea di usare un codice, ovvero la parola d’ordine<br />
“Aquila Nera” e sua era stata l’idea di far pubblicare annunci sul giorna<strong>le</strong><br />
dalla famiglia, come anche di fornire circostanze note solo al duca, in<br />
modo ta<strong>le</strong> che i Grazioli fossero sicuri che a te<strong>le</strong>fonare erano i sequestratori<br />
e non sciacalli. Una volta, per inscenare un depistaggio, dal momento<br />
che il sequestrato era già stato spostato nel Napo<strong>le</strong>tano, venne acquistato<br />
da qualcuno di noi un giorna<strong>le</strong> in Toscana, dopodiché io e Renzo<br />
Danesi andammo nel Napo<strong>le</strong>tano, scattammo la foto e rientrammo a Roma<br />
in giornata. La Toscana fu scelta perché in quel periodo in quella regione<br />
operavano nel settore dei sequestri del<strong>le</strong> bande di sardi», dirà ancora<br />
Abbatino 9 . In alcuni casi, i messaggi vennero composti con <strong>le</strong>ttere ritagliate<br />
<strong>dai</strong> titoli di giorna<strong>le</strong>; in altri battuti con una macchina da scrivere<br />
tipo giocattolo, di marca Lilliput, la stessa utilizzata per il sequestro Giansanti,<br />
che fu gettata nel Tevere e mai ritrovata.<br />
Tutto l’evolversi del<strong>le</strong> trattative, naturalmente, venne seguito da vicino<br />
dalla talpa Enrico Mariotti, che recitò la parte dell’amico a perfezione. Il<br />
giorno dopo il rapimento, innanzitutto, si presentò a casa di Giulio Grazioli<br />
con un apparecchio per registrare <strong>le</strong> te<strong>le</strong>fonate dei rapitori. Il figlio<br />
del duca ricompensò la so<strong>le</strong>rzia, lasciandosi andare suo malgrado a pericolose<br />
confidenze. La Procura di Roma, intanto, ordinò il blocco dei beni<br />
dei Grazioli ma il 16 dicembre del ’77, a trentanove giorni dal sequestro,<br />
su «Il Messaggero» apparve un annuncio in codice: «ROLEX ACCIAIO<br />
SMARRITO. Disposti rapida ragionevo<strong>le</strong> soluzione riportando Ro<strong>le</strong>x smarrito<br />
sette novembre a noto indirizzo». Tra-scorsero 24 giorni di angoscioso<br />
si<strong>le</strong>nzio prima che la famiglia del rapito, ormai alla sua quarta implorante<br />
inserzione, potesse ottenere notizie sulla sorte del povero duca. In
30 ANGELA CAMUSO<br />
un cestino vicino a Castel Sant’Angelo furono trovate una <strong>le</strong>ttera del prigioniero<br />
e due foto polaroid, in cui il sequestrato teneva in mano «La Nazione».<br />
Per la consegna del riscatto, fu scelto Giulio Grazioli. E ancora<br />
una volta la talpa giocò il suo ruolo. Fu Enrico Mariotti a informare la<br />
banda del fatto che l’auto del suo nobi<strong>le</strong> amico era sempre seguita <strong>dai</strong> carabinieri,<br />
che era dotata di ricetrasmittente e sul tettuccio aveva una striscia<br />
di vernice fosforescente, per essere avvistata anche al buio. I criminali<br />
aggirarono subito l’ostacolo: rubarono una macchina, una Golf bianca,<br />
con la qua<strong>le</strong> ordinarono al figlio del duca di spostarsi.<br />
Era il 4 marzo del 1978 quando arrivò la te<strong>le</strong>fonata decisiva, che i carabinieri<br />
non poterono intercettare. Il figlio del duca, senza dire nulla agli<br />
inquirenti, aveva fornito ai banditi il numero di un amico. Il te<strong>le</strong>fonista<br />
disse a Giulio Grazioli di andare alla fermata metro Magliana. Lì, in un<br />
cestino dei rifiuti, c’era il biglietto a firma «Leone Rosso»: gli si ordinava<br />
di salire sulla Golf, parcheggiata di fronte alla stazione. Un altro messaggio,<br />
sotto il cruscotto, portava sulla via Cristoforo Colombo e un altro,<br />
stavolta autografato «Giglio Rosso», al km 17 della Roma-Civitavecchia.<br />
Infine, al chilometro 20 della stessa autostrada, nei pressi di un ponte, l’ultimo<br />
biglietto, insieme a una foto: il duca con la barba lunga e una copia<br />
de «Il Tempo» di quel giorno. «Se tutto andrà come noi vogliamo riceverai<br />
a distanza massima di 24 ore la te<strong>le</strong>fonata di papà», prometteva nel<br />
messaggio «Leone Rosso» e Giulio Grazioli, senza riuscire a distinguere<br />
nulla per il buio, sentita solo urlare da sotto il ponte la parola d’ordine,<br />
lanciò nel vuoto il suo borsone pieno di banconote.<br />
«Il gruppo di Montespaccato ci informò del fatto che l’ostaggio aveva<br />
visto in faccia uno dei carcerieri, di tal che ci fu detto che non si poteva<br />
fare a meno di ucciderlo. A questa decisione, la qua<strong>le</strong> non fu nostra, non<br />
ci opponemmo, in quanto l’individuazione dei complici poteva significare<br />
anche la nostra individuazione», racconterà Maurizio Abbatino <strong>10</strong> .<br />
La sentenza di morte fu emessa prima del pagamento del riscatto ma<br />
l’esecuzione avvenne dopo, perché era necessario fornire alla famiglia la<br />
prova che il duca fosse ancora vivo. Massimiliano Grazioli fu finito a colpi<br />
di mitraglietta da un bandito biondo con i capelli a caschetto, Giovanni<br />
De Gennaro soprannominato Faccia d’Angelo. Il cadavere, mai ritrovato,<br />
seppellito in campagna nel Sa<strong>le</strong>rnitano, nei pressi forse dell’acquedotto<br />
di San Severino.<br />
Metà dei due miliardi del riscatto andarono al gruppo di Montespaccato,<br />
che aveva tenuto in custodia l’ostaggio, e l’altra metà a quelli della<br />
Magliana, che avevano organizzato il rapimento. Ciascun gruppo, poi,<br />
aveva detratto dalla propria quota la stecca destinata a Enrico Mariotti e<br />
al te<strong>le</strong>fonista Spazzolino. Esclusi questi ultimi due, in pratica, ciascun bandito<br />
aveva intascato circa 70 milioni di lire, compresa la percentua<strong>le</strong> per-<br />
MAI CI FU PIETÀ 31<br />
duta nella fase successiva del riciclaggio. Quindici milioni, infine, furono<br />
dati a Enrico De Pedis detto Renatino o Renato, che nel periodo del sequestro<br />
si trovava in carcere per rapina. De Pedis, coetaneo di Abbatino,<br />
era molto amico di Giuseppucci er Negro per il qua<strong>le</strong> nutriva una fiducia<br />
incondizionata, tanto da avergli affidato il compito, quando Giuseppucci<br />
era ancora incensurato, di custodire <strong>le</strong> sue armi. Er Negro, all’epoca chiamato<br />
ancora Fornaretto, <strong>le</strong> occultava dentro una roulotte, parcheggiata al<br />
Gianicolo che col tempo divenne il nascondiglio di un vero e proprio arsena<strong>le</strong>,<br />
visto che anche quelli del<strong>le</strong> altre «batterie» iniziarono a consegnargli<br />
in custodia i ferri del mestiere. La storia andò avanti fino a quando<br />
fu scoperta <strong>dai</strong> carabinieri grazie alla «soffiata» di un informatore, anche<br />
se poi Giuseppucci la passò quasi liscia, se la cavò con un solo mese<br />
di prigione: la roulotte, infatti, aveva un vetro rotto e il giudice ritenne<br />
non ci fossero prove che era stato proprio lui a nascondervi <strong>le</strong> armi. Giuseppucci,<br />
poi, scoprì il nome dell’«infame» che lo aveva tradito. E lo fece<br />
ammazzare.<br />
Poco tempo dopo, a Testaccio, un ta<strong>le</strong> soprannominato Paperino, scippatore,<br />
rubò un Maggiolone davanti al cinema «Vittoria», lo aveva adocchiato<br />
perché era parcheggiato con <strong>le</strong> chiavi inserite. Nel bagagliaio trovò<br />
un borsone colmo di pisto<strong>le</strong>, fucili e munizioni. Il Maggiolone era del Negro,<br />
che oltre a quel<strong>le</strong> sequestrate nella roulotte teneva in custodia per Enrico<br />
De Pedis una quantità di altre armi. Ma Paperino non lo sapeva e senza<br />
perder tempo se ne andò a vendere tutta quella santabarbara, per due<br />
milioni, a un bandito suo amico, Emilio Castel<strong>le</strong>tti, del Trullo, già entrato<br />
nel gruppo della Magliana che faceva capo a Crispino. Fu così, per caso,<br />
che nacque l’amicizia tra er Negro e il nuc<strong>le</strong>o originario della futura banda.<br />
Giuseppucci, quello stesso giorno, si presentò dagli amici di Emilio<br />
Castel<strong>le</strong>tti per reclamare il bottino. E quelli, saputo che <strong>le</strong> armi appartenevano<br />
a De Pedis, già rispettato e temuto nell’ambiente, glie<strong>le</strong> ridiedero.<br />
Il progetto di fondare una grande banda organizzata, tutta composta da<br />
romani, fu concepito dentro il carcere. L’idea venne a un ta<strong>le</strong> che si era<br />
fatto un nome per aver trascorso molto tempo dietro <strong>le</strong> sbarre: Nicolino<br />
Selis, nato a Carbonia, in Sardegna, nel 1952 e romano d’adozione. Tra<br />
Ostia e Acilia, sul litora<strong>le</strong>, già a partire <strong>dai</strong> primi anni Settanta, Selis aveva<br />
messo su una «batteria». Capeggiava un gruppetto di giovani rapinatori<br />
che avevano tentato di recente il grande salto, gettandosi nel business<br />
degli stupefacenti. Ma gli affari, nel periodo in cui a Selis venne l’idea di<br />
fondare la «banda della Magliana», andavano ma<strong>le</strong>. Il principa<strong>le</strong> intermediario<br />
con i fornitori di droga, Gianfranco Urbani soprannominato il Pantera,<br />
era detenuto mentre un altro tra i più va<strong>le</strong>nti del gruppo, Edoardo<br />
Toscano detto Operaietto, un ventenne con la stoffa del capo, soltanto da<br />
pochissimo era stato scarcerato. «Nicolino Selis disponeva di una banda
32 ANGELA CAMUSO<br />
“raccogliticcia”. Ecco perché vol<strong>le</strong> unirsi a noi, che eravamo economicamente<br />
più solidi», dirà Abbatino agli inquirenti 11 . Anche lui e i suoi sodali,<br />
in verità, avevano i loro buoni motivi per accettare l’al<strong>le</strong>anza. Nicolino<br />
Selis, infatti, era diventato amico di Raffae<strong>le</strong> Cutolo, il potente boss della<br />
camorra e quel contatto altolocato rappresentava ai loro occhi un’occasione<br />
irrinunciabi<strong>le</strong>: un patto di affari con i napo<strong>le</strong>tani era uti<strong>le</strong>, se non necessario,<br />
per realizzare i sogni di grandezza della neonata banda.<br />
Gli anni erano quelli in cui ’O Professore, come si faceva chiamare Raffae<strong>le</strong><br />
Cutolo, aveva fondato la Nco, cioè la Nuova camorra organizzata. La<br />
Nco si era formata per strappare a Cosa nostra il monopolio sul contrabbando<br />
del<strong>le</strong> sigarette e in quel periodo ’O Professore stava vincendo la sua<br />
guerra. «Nicolino Selis si era innamorato del pensiero di Cutolo, che aveva<br />
organizzato un gruppo che si opponeva a chi veniva da fuori, ovvero i<br />
siciliani che, come si suol dire, la comandavano a Napoli. Cutolo vo<strong>le</strong>va<br />
difendere il suo territorio e Selis vo<strong>le</strong>va fare la stessa cosa a Roma dove allora<br />
imperversavano i marsigliesi, i calabresi e quant’altro», racconterà ai<br />
giudici, venti anni dopo, un altro pentito, Antonio Mancini, detto l’Accattone<br />
12 . Era stato lo stesso Nicolino Selis a parlargli del suo piano, durante<br />
una comune detenzione a Regina Coeli. L’Accattone, che veniva dalla<br />
borgata San Basilio, si chiamava così a mo’ di sfottò bonario: ai suoi<br />
amici aveva confidato di essere rimasto impressionato dall’omonimo film<br />
di Pierpaolo Pasolini, il cui protagonista gli assomigliava, fisicamente e<br />
anche nel carattere. Era, Mancini, uno che aveva «lavorato» con la batteria<br />
di Val Melaina, quella ormai disgregata, e lui e Selis, per quel progetto<br />
di costituzione della banda, ritenevano di poter sfruttare l’uno l’esperienza<br />
e <strong>le</strong> conoscenze dell’altro: Nicolino si era fatto molti amici dietro <strong>le</strong><br />
sbarre mentre invece l’Accattone, prima della ga<strong>le</strong>ra, aveva svolto per tre<br />
anni un’intensa e ininterrotta attività crimina<strong>le</strong>.<br />
Il carcere di Regina Coeli, in quel periodo, era una vera e propria «baraonda»,<br />
per usare la stesse paro<strong>le</strong> dell’Accattone: «Non vi erano cancelli<br />
ed erano, quindi, possibili contatti tra tutti i detenuti, senza particolari<br />
controlli. Questa situazione carceraria, del tutto particolare, consentiva<br />
contatti senza prob<strong>le</strong>mi pure con gli ambienti esterni del carcere, agevolati<br />
talvolta anche dal<strong>le</strong> guardie» 13 . Non a caso, tra i primi «lavori» per<br />
quelli della banda ci fu un omicidio da eseguire proprio a Regina Coeli. I<br />
committenti, calabresi, fecero recapitare a Selis e a un altro paio di detenuti<br />
<strong>le</strong> pisto<strong>le</strong> necessarie: i kil<strong>le</strong>r si introdussero nella cella del predestinato,<br />
che poi si salvò perché trasferito all’improvviso ad altro carcere.<br />
Diversa fu la sorte di un recluso che vo<strong>le</strong>va ammazzare l’Accattone per<br />
via di uno sgarro: quest’ultimo scoprì il complotto in tempo e lo fece assassinare.<br />
Il condannato a morte si chiamava Sisto Nardinocchi ed era rinchiuso<br />
nel carcere di Sulmona ma per l’Accattone, che si trovava a Regina<br />
Coeli, <strong>le</strong> distanze e <strong>le</strong> sbarre non furono un prob<strong>le</strong>ma. Il bandito usò lo<br />
MAI CI FU PIETÀ 33<br />
stratagemma della cosiddetta «fibbia», come in gergo si chiamava un messaggio<br />
in codice destinato all’esterno: su un foglio annotò il nome di Sisto<br />
Nardinocchi più un e<strong>le</strong>nco di 20 persone detenute nel carcere di Sulmona<br />
e a fianco di ciascuna un numero, 300.000. Quindi, durante un colloquio,<br />
passò la lista a sua madre e la incaricò di contattare un amico, il qua<strong>le</strong><br />
inviò a ciascuno dei nomi un vaglia da trecentomila lire, quanto va<strong>le</strong>va<br />
la testa di quel disgraziato. La notizia, qualche tempo dopo, uscì sui giornali:<br />
Sisto Nardinocchi era stato assassinato da ignoti, dentro <strong>le</strong> docce del<br />
penitenziario.<br />
La prima riunione operativa tra Selis, l’Accattone, la batteria di Crispino<br />
e Franco Giuseppucci detto er Negro avvenne a otto mesi dall’assassinio<br />
del duca Grazioli, ovvero nel novembre del 1978. Si dovette aspettare<br />
che tutti i capi, prima detenuti, tornassero liberi. A benedire il sodalizio<br />
Franco Giuseppucci, che aveva presentato Selis agli altri e per questo<br />
fu sempre considerato il padre spiritua<strong>le</strong> dell’al<strong>le</strong>anza. Nel frattempo, la<br />
«banda della Magliana» esisteva già, anche se ancora non era nota la sua<br />
potenza militare. Selis e Mancini avevano raccolto <strong>le</strong> adesioni di Edoardo<br />
Toscano l’Operaietto, Giuseppe Magliolo detto er Kil<strong>le</strong>r, Angelo de Angelis<br />
detto er Catena, Gianni Girlando detto il Roscio e Libero Mancone<br />
nonché la promessa di collaborazione da parte del Pantera Urbani, a cui<br />
Selis propose di fare il capo ma che rifiutò l’offerta, scegliendo piuttosto,<br />
lui che era «uomo più di paro<strong>le</strong> che di pisto<strong>le</strong>», il ruolo di intermediario<br />
tra la banda e altre organizzazioni criminali 14 . Il Pantera, d’altra parte, aveva<br />
già i suoi buoni contatti: i boss della ’ndrangheta Giuseppe Piromalli,<br />
Paolo Di Stefano e Pasqua<strong>le</strong> Condello, interessati ad allargare i propri affari<br />
di droga. A ta<strong>le</strong> scopo, il Pantera li aveva incontrati in un lussuoso ristorante<br />
dell’Eur, «Il Fungo», insieme ad altri due futuri affiliati della Magliana:<br />
Am<strong>le</strong>to Fabiani detto er Voto e Manlio Vita<strong>le</strong> detto Gnappa 15 .<br />
A consentire il passaggio dal<strong>le</strong> paro<strong>le</strong> ai fatti fu un’evasione di gruppo<br />
da Regina Coeli. Selis, Toscano e Magliolo furono tra i protagonisti dell’impresa,<br />
pianificata con i passaparola e i te<strong>le</strong>grammi in codice. Anche a<br />
Mancini l’Accattone, che era stato trasferito nel carcere di Pescara, arrivò<br />
il messaggio convenuto con gli organizzatori della fuga: si annunciava la<br />
visita, «a giorni», di un fantomatico «avvocato Bellignani». Mancini, avendo<br />
compreso che la cosa era imminente, cercò in tutti i modi, invano, di<br />
farsi rispedire a Regina Coeli. Ma dovette aspettare un altro anno, quando<br />
arrivarono <strong>le</strong> licenze e i permessi di lavoro, per poter partecipare attivamente<br />
al<strong>le</strong> imprese della banda. Nell’attesa, comunque, fu sempre tenuto<br />
informato dagli altri e ricevette pure la sua stecca, ovvero la quota di<br />
guadagni che secondo i patti gli spettava. «La differenza tra “batteria” e<br />
“banda” – spiegherà Crispino agli inquirenti – oltre che nel diverso numero<br />
dei partecipi, sta anche nel ventaglio più ampio di interessi crimi-
34 ANGELA CAMUSO<br />
nosi della “banda” rispetto alla “batteria”. La “banda”, peraltro, comporta<br />
l’esistenza di vincoli più stretti tra i partecipi, i quali sono tenuti a<br />
prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dare<br />
esecuzione al<strong>le</strong> stesse. Ad esempio, tutti gli omicidi… vennero di volta in<br />
volta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momento<br />
della loro esecuzione, di volta in volta affidata a chi aveva maggiori capacità<br />
per assicurarne il successo con il minor rischio, sia persona<strong>le</strong> che col<strong>le</strong>ttivo,<br />
soprattutto sotto il profilo preminente di assicurarsi l’impunità.<br />
Questo comportava che tutti si era parimenti compromessi, quindi tutti<br />
parimente motivati ad aiutare chi fosse stato arrestato o incriminato...<br />
Inoltre, una volta costituiti in banda, ci imponemmo l’obbligo di non avere<br />
stretti <strong>le</strong>gami di tipo operativo con gruppi esterni, il che assicurava la<br />
massima impermeabilità della nostra banda, nel senso che nessuno poteva<br />
agevolmente venire a conoscere i particolari del<strong>le</strong> azioni a noi riconducibili»<br />
16 .<br />
Alla fine del ’79, quando Renatino De Pedis fu scarcerato, la banda ormai<br />
era al comp<strong>le</strong>to. De Pedis era nato e cresciuto a Trastevere e aveva iniziato<br />
con gli scippi: quando si unì a quelli della Magliana era un esperto<br />
rapinatore, aveva partecipato pure a qualche sequestro di persona ed era<br />
già un <strong>le</strong>ader, nel suo quartiere e in quello contiguo di Testaccio: lì operava<br />
una «batteria», i cosiddetti «Testaccini», appunto, diventati il gruppo<br />
di riferimento anche per i malavitosi dell’Alberone. Fu il suo amico er Negro<br />
a proporre l’entrata nell’associazione dei Testaccini. I più vicini a Renatino<br />
erano Raffae<strong>le</strong> Pernasetti detto er Pal<strong>le</strong>tta, ufficialmente commerciante<br />
di frattaglie all’ingrosso e un’altra vecchia conoscenza di Franco<br />
Giuseppucci, Danilo Abbruciati, tipo baffuto e corpu<strong>le</strong>nto, ex pugi<strong>le</strong> di<strong>le</strong>ttante<br />
originario della borgata Primaval<strong>le</strong>. Abbruciati, che aveva incassato<br />
la prima denuncia nel ’71 per aver picchiato e sequestrato sua moglie,<br />
era stato un pezzo grosso della mala romana, aveva «lavorato» con i Marsigliesi<br />
e con il clan di Francis Turatello, il bandito che nei primi anni Settanta<br />
spadroneggiava a Milano. Era però finito in prigione nel ’76 per<br />
omicidio e sequestro di persona e ritornato in libertà, tre anni dopo, si era<br />
ritrovato con ben pochi contatti: per questo motivo, all’inizio limitandosi<br />
a fornire «dritte» per qualche colpo, gli convenne avvicinarsi ai Testaccini,<br />
dei quali poi diventò con Renatino uno dei capi.<br />
Nel frattempo, sempre nel corso del ’79, alla banda si era unito Vittorio<br />
Carnova<strong>le</strong> detto il Coniglio e pure Fulvio Lucioli, il Sorcio, che aderì<br />
al progetto mentre era detenuto. Anche il Sorcio ricevette, per alcuni mesi<br />
fino a quando non fu scarcerato, la sua stecca, trecentomila lire a settimana<br />
che a turno i vari componenti della banda consegnavano a sua madre.<br />
Uno degli ultimi ad aggregarsi fu Claudio Sicilia, appena arrivato dal<br />
paesone di Giugliano, vicino Napoli, dove era nato: detto il Vesuviano, la-<br />
MAI CI FU PIETÀ 35<br />
vorava ufficialmente nella ditta di suo padre che commerciava frutta e verdura<br />
all’ingrosso e aveva ottime referenze, in quanto imparentato con i<br />
Maisto di Napoli, clan di camorra già conosciuto a Roma perché trafficava<br />
cocaina.<br />
Sicilia era andato ad abitare alla Garbatella, vicino alla fermata della<br />
metro San Paolo, al civico 122 di via Chiabrera, pochi metri da un bar sulla<br />
stessa strada che era diventato il covo per quelli della Magliana. Al bar<br />
di via Chiabrera la polizia non si vedeva quasi mai, grazie a un paio di<br />
agenti del distretto di polizia di zona, il commissariato «Colombo», che<br />
erano stipendiati dalla banda. Andavano a riscuotere i loro due-tre milioni<br />
mensili proprio lì, a via Chiabrera: «Passavano con una macchina di<br />
servizio, una Ritmo grigia, si appartavano a un angolo… », dirà Abbatino<br />
17 . Sul retro del bar, nella sala dove si giocava a biliardo, si decidevano<br />
omicidi e si scambiavano milioni con chili di droga, si facevano recapitare<br />
armi e si partiva tutti insieme per andare a uccidere. Il barista Ubaldo<br />
non vedeva e non sentiva. Spesso qualcuno chiamava al te<strong>le</strong>fono, chiedendo<br />
di parlare con gli avventori abituali, e Ubaldo passava la cornetta,<br />
senza impicciarsi.<br />
Fu iniziando a frequentare il bar sotto casa che Claudio Sicilia entrò in<br />
contatto con quelli della Magliana. Il primo a stringere amicizia con il Vesuviano<br />
fu Marcello Colafigli detto Marcellone, che abitava su una paral<strong>le</strong>la<br />
di via Chiabrera. Marcellone era rimasto particolarmente impressionato<br />
da quel<strong>le</strong> parente<strong>le</strong> illustri del nuovo amico, ma anche dal suo recente<br />
passato: Claudio Sicilia, a Giugliano, aveva ammazzato un contrabbandiere<br />
nel corso di una faida e gli sembrava dunque una persona da ammirare.<br />
Soprattutto, a parlare bene a Marcellone di Sicilia era stato il «padrino»<br />
Raffae<strong>le</strong> Cutolo, che aveva conosciuto il Vesuviano nel ’67 al carcere<br />
di Poggiorea<strong>le</strong>. Tornato in libertà, Sicilia si era comportato da galantuomo,<br />
inviando ai Cutoliani ancora detenuti cioccolatini e cartoline con<br />
francobolli da spedire e ’O Professore aveva gradito. Per questo, una volta<br />
anche lui fuori dal carcere, lo aveva presentato ai suoi amici romani come<br />
un tipo affidabi<strong>le</strong>, di «buona famiglia» e anzi gli aveva mandato a dire<br />
che vo<strong>le</strong>va rivederlo, per salutarlo 18 . Fu anche combinato un appuntamento<br />
all’ippodromo, anche se poi il boss non si presentò: ’O Professore<br />
era dovuto correre a Napoli per via del sequestro di un ragazzino, una faccenda<br />
delicata, perché era il figlio di un suo amico e vo<strong>le</strong>va occuparsene<br />
di persona.<br />
Dirà Claudio Sicilia: «Marcello Colafigli, che già aveva fatto il compare<br />
di battesimo al figlio di Giuseppucci, prese un amore morboso per la<br />
mia famiglia… Al<strong>le</strong> 2 di notte mi veniva a svegliare a casa. Dormiva nel<br />
<strong>le</strong>tto mio matrimonia<strong>le</strong>. Mia moglie dormiva nella stanzetta a fianco… Divenni<br />
il suo confidente, pranzava a casa mia, usava i miei abiti e inoltre<br />
vol<strong>le</strong> fare il compare di battesimo a mio figlio in una cerimonia offerta da
36 ANGELA CAMUSO<br />
lui che si svolse in un ristorante a Grottaferrata, ‘Il Fico Vecchio’ il cui<br />
proprietario era intimo amico della banda della Magliana. A ta<strong>le</strong> battesimo<br />
Colafigli regalò a mio figlio una catena in oro pesante con un solitario<br />
al centro di una piastra come simbolo di grande rispetto e prestigio» 19 .<br />
Parlava tanto, quel Colafigli. Non conosceva la discrezione. Piuttosto,<br />
non perdeva occasione di vantarsi col compare: del<strong>le</strong> sue imprese personali<br />
e di quel<strong>le</strong> della banda. «Questo atteggiamento – dirà ancora Sicilia –<br />
rientrava in una maniera tipica di agire di quelli della Magliana, che nella<br />
maggioranza facevano uso di cocaina, venivano <strong>dai</strong> furti di auto, dal<strong>le</strong> rapine<br />
di poco conto, dal<strong>le</strong> ricettazioni e simili e si erano trovati in un ruolo<br />
che non era il loro» 20 .<br />
Per questo desideravano affrancarsi da quel passato modesto, di semplici<br />
malavitosi di borgata. «Roma – amavano ripetere – è nel<strong>le</strong> mani nostre»<br />
21 .