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UNIVERSI DELLA VIOLENZA<br />

A cura di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali<br />

© <strong>Fondazione</strong> <strong>Giangiacomo</strong> <strong>Feltrinelli</strong> - 2012<br />

ISBN 978-88-6835-000-0


Presentazione<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali<br />

Fin dalla comparsa delle forme più elementari di cultura l’uomo<br />

ha provato, sia a livello individuale sia collettivo, a rimuovere ogni forma<br />

di comprensione dell’aggressività distruttiva, relegandola a una<br />

dimensione estranea da sé. L’azione atroce e cruenta, infatti, svela ciò che<br />

dovrebbe rimanere sempre nascosto: il dominio violento dell’uomo su<br />

altri uomini. È anche per questa ragione di fondo che il tema della<br />

violenza, da sempre oggetto dell’attenzione di studiosi provenienti dalle<br />

più svariate discipline, rimane ancora oggi un vero e proprio enigma<br />

conoscitivo.<br />

In campo criminologico – ma non solo – gli approcci teorici e i<br />

metodi impiegati al fine di avvicinare e sondare il fenomeno della<br />

violenza sono stati – e continuano a essere – indubbiamente i più vari, ma<br />

è possibile affermare che spesso si è registrato un profondo limite<br />

osservativo. Infatti, tradizionalmente, l’inquadramento dell’agire violento<br />

si è ridotto a modelli esplicativi che individuano nella “malattia mentale”<br />

o, altre volte, nell’“ambiente sociale” la causa del gesto deviante.<br />

Purtroppo, però, questo genere di spiegazioni non aiuta ad avanzare nella<br />

comprensione delle dinamiche che animano tali condotte, di fronte alle<br />

quali ci ritraiamo, spesso incapaci di pronunciare parole capaci di<br />

conferire senso a ciò che appare come del tutto insensato e inspiegabile.<br />

È a partire da queste riflessioni e interrogativi che chi scrive ha<br />

ritenuto utile proporre ad alcuni noti e apprezzati studiosi – quali<br />

Alessandro Dal Lago, Gabrio Forti, Eligio Resta, Alfredo Verde –<br />

l’occasione di confrontarsi con noi sul tema della violenza, incontrandolo<br />

5


attraverso la lettura del nostro volume Cosmologie violente. Percorsi di<br />

vite criminali. Ciascuno, a partire dall’ambito del proprio universo<br />

disciplinare e conoscitivo – da qui il titolo di questo e-<strong>book</strong>, Universi<br />

della violenza –, ha contribuito a costruire un percorso cognitivo capace<br />

di sondare e illuminare quegli aspetti del fenomeno violento che fino a<br />

oggi sono rimasti ancora poco esplorati. Consapevoli che strumenti<br />

metodologici capaci di navigare in questa immensità sono certamente<br />

ancora molto da costruire, e che nessuna prospettiva teorica potrà mai<br />

porre la parola definitiva, riteniamo che un incontro come quello che<br />

abbiamo realizzato presso la <strong>Fondazione</strong> <strong>Feltrinelli</strong> il 15 aprile 2010<br />

possa fornire utili mappe concettuali per accostare un tema ineludibile<br />

come quello della violenza.<br />

Vorremmo, pertanto, ringraziare di cuore Inge e Carlo <strong>Feltrinelli</strong> per<br />

aver reso possibile e aver sostenuto la realizzazione di questo incontro<br />

seminariale e dell’e-<strong>book</strong> che ne contiene gli atti.<br />

Un ringraziamento speciale a Chiara Daniele, per la disponibilità e<br />

la serietà con cui ha pensato e organizzato insieme a noi questa iniziativa.<br />

Grazie infine a Luisa Cortese, che ha curato la raccolta e la<br />

pubblicazione di questi scritti.<br />

6<br />

Milano, giugno 2012


1. Una premessa<br />

Verso le “cosmologie violente”<br />

Per una guida alla lettura degli atti violenti<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali<br />

Il tema della violenza, da sempre oggetto dell’attenzione di<br />

studiosi provenienti dalle più svariate discipline, rimane – anche nel<br />

campo delle scienze sociali – avvolto da un’aura di<br />

“incomprensibilità” che ostacola il riconoscimento e la comprensione<br />

delle dimensioni di senso alle quali accede l’attore sociale quando<br />

prepara, interpreta, decide e, infine, esegue un atto atroce.<br />

Ciò non stupisce. Difatti, è proprio quando il crimine si fa più<br />

efferato e la violenza più eclatante che la questione del “senso” che<br />

l’agire violento può avere per gli individui – siano essi attori, vittime o<br />

semplici spettatori – si fa particolarmente ardua, tale da richiedere il<br />

massimo impegno interpretativo.<br />

Per provare a rispondere a questa sfida, riteniamo utile introdurre<br />

alcuni aspetti dell’approccio teorico elaborato dal criminologo<br />

statunitense Lonnie Athens e da noi stessi in Cosmologie violente.<br />

Percorsi di vite criminali, 1<br />

da intendersi come bussole per orientarsi<br />

nelle dinamiche degli atti atroci più efferati.<br />

1<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina<br />

Editore, Milano 2009.<br />

7


2. Oltre la psicopatologia e il determinismo sociale<br />

La finalità di questa proposta teorica – che si colloca nel solco di<br />

quella tradizione filosofica nota con il nome di “interazionismo<br />

simbolico” 2<br />

– è quella di provare a c omprendere, appunto, quei<br />

processi che animano le “esperienze sociali violente”, al di là di una<br />

rigida distinzione fra normalità e psicopatologia, e tra individuo e<br />

società.<br />

Già verso la metà del secolo scorso Tamotsu Shibutani, uno dei<br />

più autorevoli interpreti della tradizione interazionista, svolgeva le<br />

seguenti riflessioni sul rapporto tra crimine efferato e malattia<br />

mentale: “[…] c’è un considerevole disaccordo tra gli psichiatri in<br />

riferimento a ciò che dovrebbe designare l’etichetta ‘psicopatico’. Ad<br />

ogni modo il termine viene usato sempre più per riferirsi a criminali<br />

depravati a cui sembra mancare una ‘coscienza’. Essi sarebbero in<br />

grado di commettere crimini brutali dai quali la maggior parte degli<br />

3<br />

altri criminali si asterrebbero”. In effetti, nonostante siano stati<br />

compiuti molti passi avanti nella conoscenza del rapporto tra<br />

comportamento violento “normale” e comportamento violento<br />

“psicopatico”, ancora oggi la sovrapposizione e la con-fusione di<br />

questi due fenomeni e delle relative categorie comporta – troppo<br />

spesso – una disinvolta “riduzione” della complessità dell’agire<br />

violento alla sola sfera psicopatologica. L’intero studio di Athens – e<br />

il nostro – cerca, invece, di comprendere l’attore violento<br />

incontrandolo a latere delle dimensioni psicopatologiche, evitando<br />

anche di cadere in quell’altrettanto imprudente semplificazione che<br />

vede l’essere umano, la sua “coscienza” e le sue azioni come il<br />

prodotto deterministico dell’ambiente in cui vive – e, nello specifico,<br />

l’atto violento quale prodotto necessario di un mondo sociale violento.<br />

Amartya Sen, in Identità e violenza, usa l’efficace espressione<br />

4<br />

“miniaturizzazione dell’essere umano” per indicare quell’operazione<br />

di “riduzione” dell’uomo a un “microcosmo”, mero specchio del<br />

2 L’interazionismo simbolico nasce, come è noto, sull’onda lunga delle lezioni tenute negli anni venti<br />

del secolo scorso da George Herbert Mead presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di<br />

Chicago, e affonda le proprie radici addirittura nei primi anni di quel secolo.<br />

3<br />

Tamotsu Shibutani, Society and Personality. An Interactionist Approach to Social Psychology,<br />

Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1961, p. 317.<br />

4<br />

Amartya Sen, Identity and Violence, Norton & Co., New York-London 2006; tr. it. Identità e<br />

violenza, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 188.<br />

8


mondo sociale in cui vive. Anche in riferimento al rapporto tra<br />

individuo e ambiente “esterno” sono incisive le parole di Shibutani:<br />

“[…] normalmente pensiamo all’ambiente come qualcosa che si trova<br />

‘là fuori’ e c he viene in urto con noi […] ma ciò che noi<br />

sperimentiamo non è una ‘copia carbone’ di ciò che effettivamente<br />

costituisce l’ambiente circostante. Quest’ultimo è qualcosa che viene<br />

costruito nella successione di interscambi che costituisce il processo<br />

della vita. […]. Gli uomini non sono creature passive alla mercé degli<br />

stimoli esterni; in gran parte essi creano il mondo nel quale vivono e<br />

agiscono”. 5<br />

Sono queste alcune delle coordinate significative da cui prendere<br />

le mosse per muoversi all’interno della prospettiva teorica di Lonnie<br />

Athens, e nel senso delle “cosmologie violente”.<br />

3. La prospettiva criminologica di Lonnie Athens<br />

Athens è u n criminologo statunitense che insegna attualmente<br />

alla Seton Hall University, nel New Jersey. Le sue opere principali<br />

sono The Creation of Dangerous Violent Criminals del 1989 e Violent<br />

Criminal Acts and Actors Revisited del 1997. Altrettanto importanti<br />

per la comprensione degli aspetti più innovativi del suo pensiero sono<br />

alcuni articoli che hanno scandito il suo percorso di ricerca, e che<br />

mettono a fuoco i passaggi-chiave del suo paradigma esplicativo, tra i<br />

quali il fondamentale scritto The Self as a Soliloquy, apparso nel 1994,<br />

al quale faremo riferimento nel corso di questo contributo.<br />

Come già accennato, Athens fornisce, senza contrapporsi<br />

frontalmente, una spiegazione alternativa alla tradizionale prospettiva<br />

che spiega il “comportamento criminale violento” prevalentemente<br />

assegnandolo all’universo della “malattia mentale”. Nella “logica<br />

comune”, ma anche in molte “logiche scientifiche”, infatti, non si<br />

ritiene possibile che una persona cosiddetta “normale” possa<br />

commettere certi tipi di azioni che per gravità e m ancanza di<br />

provocazione appaiono assolutamente “irrazionali”, “insensate”,<br />

“gratuite”, incomprensibili.<br />

5 Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 65.<br />

9


Athens, invece, a no stro avviso, riesce a rintracciare e a<br />

descrivere con successo quei percorsi psico-sociali che conducono un<br />

individuo a realizzare atti violenti, quali omicidi, lesioni gravi o<br />

violenze sessuali, 6 mostrando come tali percorsi non siano “segnati”<br />

da una natura “irrazionale” e “incontrollabile” – che si suppone spesso<br />

alla base dei cosiddetti “raptus” –, bensì costruiti e collocati dentro<br />

itinerari interpretativi che è possibile ricostruire a p artire dalla<br />

prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di “senso” in<br />

una certa misura “intelligibili” e “avvicinabili”. In tal modo, l’agire<br />

dei “criminali violenti” viene approcciato e riconosciuto come dotato<br />

di senso alla luce di un metodo – quello interazionista – che,<br />

smarcandosi da una spiegazione lineare di causa-effetto, consente di<br />

approfondire la conoscenza di mondi da sempre poco comprensibili e<br />

comunicabili. Athens si avvale, infatti, di un modello cosiddetto<br />

“processuale”, in base al quale i fenomeni sono intesi quali esiti di<br />

processi di sviluppo le cui fasi iniziali non determinano<br />

automaticamente le ultime: 7<br />

l’evento finale – nel nostro caso l’azione<br />

violenta – rappresenta sempre il risultato mai scontato di un lungo e<br />

difficoltoso processo interpretativo e s imbolico sviluppato, e solo<br />

eventualmente portato a conclusione, dal suo attore. Ogni passaggio a<br />

fasi ulteriori e a snodi successivi della vicenda è, in quest’ottica,<br />

sempre svolto attivamente dalle scelte interpretative dell’attore, il<br />

quale non si limita mai a “reagire” a uno stimolo esterno senza<br />

opporre alcuna resistenza, ma, al contrario, interpone (e in alcuni casi<br />

oppone) quella particolare resistenza “riflessiva” costituita dal Self,<br />

inteso quale filtro simbolico della realtà.<br />

Seguendo queste direzioni teoriche, prima di rispondere<br />

all’interrogativo relativo al “perché” un individuo, in un momento<br />

preciso della sua vita, decida, “inaspettatamente” e<br />

“sorprendentemente”, di attaccarne fisicamente un altro, bisognerebbe<br />

considerare che ogni atto ha una storia e che occorrerebbe sapere<br />

6<br />

La definizione di “comportamento sostanzialmente violento” che Athens formula per “ritagliare” il<br />

proprio “oggetto” di ricerca comprende quelle situazioni nelle quali “(1) la vittima è stata aggredita<br />

fisicamente in modo grave, ossia ferita non in modo accidentale o per caso con un colpo d’arma da<br />

fuoco, con una pugnalata, con una bastonata o con percosse, così da richiedere l’intervento di un<br />

medico; (2) violentata in modo grave con atti di penetrazione, sodomia, fellatio o cunnilingus, sotto la<br />

minaccia di ulteriori danni fisici gravi, o s ubendone altri più o meno gravi”. Cfr. Lonnie Athens,<br />

Violent Criminal Acts and Actors Revisited, University of Illinois, Urbana 1997, p. 31.<br />

7<br />

Lonnie Athens, Blumer’s Method of Naturalistic Inquiry. A Critical Examination, in “Studies in<br />

Symbolic Interaction”, 5, 1984, p. 244.<br />

10


qualcosa di questa storia e di quella del suo autore prima di poterne<br />

comprendere il “senso”. Ed è proprio attraverso interviste qualitative<br />

semi-strutturate a detenuti condannati per i crimini più efferati,<br />

domandando loro “cosa pensavano” e “cosa provavano” nel momento<br />

in cui commettevano un omicidio o una violenza sessuale, che Athens<br />

– e noi – abbiamo potuto catturare progressivamente i significati degli<br />

atti violenti, giungendo a mettere in luce la fondamentale “ambiguità”<br />

che attraversa il “nostro” mondo e quello degli “altri”. Da un lato,<br />

infatti, il ruolo “attivo” e “riflessivo” dell’individuo nella costruzione<br />

dell’azione violenta è lo stesso che presiede e gui da qualsiasi altra<br />

nostra azione (anche quelle non-violente). Per altro verso, si registra<br />

un drammatico scarto fra “noi” e “loro” nel fatto che gli attori violenti<br />

scelgono un’azione violenta come mezzo di risoluzione di un conflitto<br />

in atto. Il riconoscimento di quest’ambiguità di significato fra mondi<br />

simili – ma non eguali – contribuisce a non esaurire il “problema della<br />

criminalità violenta” con la questione della “malattia mentale”, e<br />

motiva a guardare con occhi nuovi la profondità qualitativa del<br />

“perché violento” di molte azioni umane.<br />

Familiarizzare con le catene di ragionamenti che qualificano il<br />

lavoro degli interazionisti simbolici aiuta a sovvertire moltissime<br />

assunzioni date per scontate e a riorganizzare concettualmente<br />

questioni cruciali. Parlando, per esempio, di “volontà”, di “obiettivi”,<br />

di “motivi”, questi ultimi sono quasi sempre considerati, in termini di<br />

senso comune, come le “cause” della condotta. Gli interazionisti<br />

spiegano questi processi in modo affatto differente: “un obiettivo<br />

visualizzato aiuta a coordinare i movimenti, e rende possibile almeno<br />

in parte controllare in modo consapevole il proprio agire. In tali<br />

circostanze, il comportamento volontario è sperimentato come<br />

animato da un’intenzione; è pe rcepito come orientato, poiché si<br />

muove verso un obiettivo sostenuto da un progetto”. 8<br />

8 Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 77.<br />

Il lemma<br />

“motivi” va qui sostituito con quello, più complesso, di “intenzioni”,<br />

che sono “immagini di un atto portato a compimento con successo”.<br />

Detto altrimenti, i “motivi” non vanno confusi, come avviene nel<br />

senso comune, con gli “impulsi”, con la “spinta” che sta dietro ai fatti,<br />

con i “disagi” che mettono in movimento l’organismo, ma vanno<br />

riferiti agli “obiettivi consapevolmente dichiarati che forniscono<br />

11


direzione, unità e organizzazione a una successione di movimenti.<br />

[…] I motivi non sono presenti all’inizio di un atto, bensì emergono<br />

solo dopo che si è verificata qualche interferenza”. 9<br />

Si diventa, allora,<br />

consapevoli di sé, delle proprie “intenzioni” e dei “motivi” alla base di<br />

quel gesto, se vi è da operare uno sforzo, un’opposizione, una lotta.<br />

In un orizzonte culturale diverso da quello interazionista, Eugène<br />

Minkowski giunge paradossalmente ad affermare che l’uomo che<br />

compie un m ovimento “volontario” non sta dando in realtà alcuna<br />

prova di volontà, la quale interviene solo laddove si incontrano sulla<br />

propria strada ostacoli e r esistenze, quando “iniziamo a dirci” che<br />

un’impresa non è possibile, quando “diventa udibile il richiamo a uno<br />

sforzo supplementare”: è allora che parliamo di uno sforzo di volontà,<br />

cioè la facoltà di prolungare il nostro cammino, andare al di là<br />

dell’ostacolo che si erge di fronte a noi e che tende momentaneamente<br />

ad arrestarci. La volontà “si situa nella vita, formandone la trama e<br />

10<br />

condizionandone il costante cammino in avanti”. Su questo aspetto<br />

concorda totalmente anche Alexander Lowen, padre della<br />

bioenergetica, laddove ricorda che “ogni atto di volontà è<br />

l’affermazione di una decisione. Per esempio l’affermazione ‘voglio<br />

farlo’ potrebbe anche essere resa con ‘io sono deciso a farlo’.<br />

Entrambe le affermazioni implicano un ostacolo contro cui la volontà<br />

è attiva. Dove non c’è nessun ostacolo a un impulso, la volontà non è<br />

necessaria. Non ho bisogno della mia volontà per fare qualcosa che<br />

desidero fare. […]. Il fare ciò che accade naturalmente, non richiede<br />

nessuno sforzo conscio né atto di volontà”. 11<br />

4. Lo sguardo dello scienziato sociale: l’ottica interazionista<br />

Il metodo di ricerca adottato da Athens in campo sociale affonda<br />

le sue premesse epistemologiche nel pensiero di Herbert Blumer – lo<br />

studioso che maggiormente ha s viluppato gli aspetti metodologici<br />

dell’interazionismo simbolico. In breve, per entrambi gli studiosi, esso<br />

9 Ivi, pp. 77-90.<br />

10 Eugène Minkowski, Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Aubier-Montaigne, Paris<br />

1936; tr. it. Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, Einaudi, Torino 2005, pp. 19-22.<br />

11 Alexander Lowen, Volontà di vivere e voglia di morire, Supplemento di “Anima e corpo”, rivista di<br />

psicologia somatica, Istituto di psicologia somatorelazionale, Milano 2004, pp. 4-5.<br />

12


consiste nell’affermazione che il metodo delle scienze sociali non può<br />

essere importato acriticamente dal mondo tecnico-scientifico, ma<br />

debba trovare una forma autonoma e adeguata a quello specifico<br />

(s)oggetto di studio che è l’essere umano. 12<br />

Innanzitutto, occorre soffermarsi sul peculiare rapporto di identità<br />

e di reciproco scambio che lega lo scienziato-osservatore al<br />

(s)oggetto-osservato. Per l’interazionismo simbolico l’uomo abita un<br />

mondo di “oggetti sociali”, nei confronti dei quali agisce sulla scorta<br />

dei significati che ha attribuito loro nel corso dell’interazione sociale,<br />

e in ragione delle sue esperienze passate.<br />

Da questa affermazione<br />

discendono due passaggi chiave, che è ne cessario tener presente per<br />

comprendere le potenzialità euristiche della teoria del criminologo<br />

statunitense.<br />

A questo mondo “significativo”, “dotato di senso”, partecipano<br />

sia il (s)oggetto studiato – nel nostro caso il “criminale violento” –, sia<br />

il ricercatore, il quale, per indagare adeguatamente il fenomeno sotto<br />

osservazione, dovrà adottare la prospettiva assunta dal soggetto<br />

“oggetto di studio”, che diventa così un (s)oggetto-attore, ossia un<br />

individuo che prima di essere osservato ha, a s ua volta, osservato.<br />

Questo atteggiamento dello scienziato risulta necessario per non<br />

ricadere in quella che gli interazionisti definiscono la “peggiore forma<br />

di soggettivismo”, ossia la sostituzione dei significati “così come<br />

interpretati dall’individuo osservato” con i significati “così come<br />

interpretati dallo scienziato sociale”. 13<br />

Si tratta, pertanto, di assumere<br />

il punto di vista di chi ha agito violentemente per salvare l’eccedenza<br />

di significato delle sue esperienze interiori, osservate nella loro<br />

dimensione “cosmologica” – quell’ampio e stratificato orizzonte<br />

all’interno del quale viene costruita ogni nostra azione, anche quelle<br />

più atroci. L’osservatore, comunque, nel suo impegno esplorativo<br />

dell’universo che intende indagare, compie sempre queste incursioni –<br />

anche quando non ne tiene conto – a partire dal suo cosmo simbolico<br />

di appartenenza: ed è solo in questa certa misura che egli può<br />

avvicinare e osservare l’altro.<br />

Per compiere queste operazioni si farà ricorso, come vedremo, a<br />

“concetti sensibilizzanti” che consentono di osservare un fenomeno<br />

12 Cfr. Herbert Blumer, Symbolic Interactions, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969; tr. it. La<br />

metodologia dell’interazionismo simbolico, Armando, Roma 2006.<br />

13 Cfr. Lonnie Athens, Blumer’s Method of Naturalistic Inquiry, cit., pp. 241-257.<br />

13


attraverso lenti inedite e di coglierne “elementi” “inaspettati” e<br />

“imprevisti”.<br />

5. Dentro alcuni “concetti sensibilizzanti”: tra “soliloquio”,<br />

“comunità-fantasma” e “interpretazioni delle situazioni”<br />

I “concetti sensibilizzanti” cui accenneremo in questo breve<br />

contributo sono da intendere – seguendo la tradizione interazionista –<br />

come occhi tenuti continuamente e intenzionalmente “spalancati” sul<br />

mondo, come strumenti che dirigono lo sguardo aprendo prospettive<br />

ed evitando di definire una volta per sempre il proprio oggetto di<br />

osservazione, salvando la complessità e l’eccedenza che caratterizza<br />

ogni esperienza sociale (nel nostro caso la violenza esercitata<br />

dall’uomo sull’uomo).<br />

Alcuni dei concetti che Athens trae dalla matrice interazionista<br />

sono quelli di Self, di “riflessività”, 14 di “immagine di sé”, di<br />

“interpretazione della situazione”, di “assunzione dell’atteggiamento<br />

altrui” e di “interazione sociale”, che avviene in forza di ripetuti<br />

processi di role-taking. 15 Non è possibile approfondire nemmeno<br />

rapsodicamente il loro contenuto. Ci limitiamo a ricordare che<br />

secondo questa tradizione di pensiero l’individuo entra in relazione<br />

con il mondo sociale attraverso un’incessante “conversazione<br />

interiore”/“soliloquio” che consiste in un flusso costante tra due<br />

“sponde”: l’I e il Me – laddove l’I costituisce l’“impulso ad agire”,<br />

mentre il Me rappresenta quell’insieme generalissimo delle aspettative<br />

della società che l’individuo ha fatto proprie internalizzandole<br />

mediante ripetute “assunzioni di atteggiamenti altrui”. 16<br />

Così come l’I<br />

14 Per “riflessività” Mead intende la capacità del Self di essere soggetto e oggetto insieme, di osservare<br />

e osservarsi e, cosa più importante, di instaurare un dialogo fra sé e sé, durante il quale il soggetto si<br />

confronta con più punti di vista. Ed è proprio questo processo mediante il quale si “prende nota” delle<br />

variabili della situazione in cui ci si trova immersi che consente un agire “consapevole”, ossia un agire<br />

che è l ’esito di una “comunicazione interiore”. E comunicare o “conversare” con se stessi non<br />

significa solo selezionare le informazioni, ma renderle disponibili alla coscienza a partire da differenti<br />

punti di vista.<br />

15 Il role-taking è per gli interazionisti simbolici il mezzo per rendere possibile l’“assunzione di un<br />

atteggiamento altrui”, mediante generalizzazioni che consentono di anticipare le risposte degli “altri” e<br />

di modulare su di esse i nostri atti, in vista dell’obiettivo desiderato.<br />

16 Cfr. George H. Mead, Mind, Self, and Society. From the Standpoint of a Social Behaviorist,<br />

The University of Chicago Press, Chicago 1934; tr. it. Mente, sé e società. Dal punto di vista di<br />

uno psicologo comportamentista, Giunti, Firenze 1966.<br />

14


non predetermina l’esito dell’azione finale, anche il Me, ossia il polo<br />

“istituzionale” e di “(auto)controllo sociale” del Self, non determina<br />

l’agire dell’individuo senza “vie di scampo”.<br />

Il Self, in tal senso, non s i riduce né a uno solo di questi<br />

momenti, né a u na mera interazione tra le due componenti: esso<br />

consiste, piuttosto, in quel peculiare processo di comunicazione<br />

durante il quale la persona si rivolge a se stessa e si dà delle risposte 17<br />

nelle forme della “conversazione interiore”/“soliloquio”. 18<br />

Athens, al<br />

riguardo, scandisce tredici principi che guidano il soliloquio. Ne<br />

illustreremo solo alcuni.<br />

Innanzitutto (primo principio) “le persone conversano con se<br />

stesse come se stessero parlando con qualcun altro, con la differenza<br />

che parlano ellitticamente”.<br />

19<br />

Ciò significa che quando parliamo con<br />

noi stessi lo facciamo in modo molto più rapido e abbreviato,<br />

mediante “ellissi” appunto, rispetto a q uando parliamo con gli altri.<br />

Per questa ragione molto spesso risulta difficile tradurre in parole i<br />

nostri stessi pensieri.<br />

Inoltre (quarto principio) il soliloquio trasforma le quotidiane<br />

sensazioni corporee – indefinite, diffuse, amorfe, originate da f onti<br />

interne o es terne – in emozioni che noi poi identifichiamo nei<br />

sentimenti dell’orgoglio o d ella vergogna, della felicità o d ella<br />

tristezza, dell’amore o dell’odio, della tranquillità o della rabbia.<br />

Il terzo principio afferma che quando qualcuno si rivolge a noi<br />

dobbiamo simultaneamente raccontarci ciò che ci sta dicendo.<br />

“Assumere la prospettiva dell’altro” ed e ssere attivamente e<br />

“riflessivamente” coinvolti nella comunicazione con gli altri significa<br />

esattamente questo.<br />

21<br />

Il soliloquio consente così all’individuo di rendere e r endersi<br />

comprensibili le esperienze interiori e quelle sociali che vive, di<br />

17<br />

Cfr. Herbert Blumer, La metodologia dell’interazionismo simbolico, cit., p. 55.<br />

18<br />

Il concetto di soliloquio, anche se p resentato sotto altri nomi, è g ià presente negli auctores di<br />

riferimento di Athens, e cioè in Mead e Blumer. Mead, infatti, parla del Self come di una<br />

conversazione fra I e Me. Blumer, invece, parla del cosiddetto processo di self-indication, mediante il<br />

quale una persona, indicando a se st essa una variabile di una situazione, la immette nel processo<br />

interpretativo. Ciò che sta alla base di queste spiegazioni è quello che Mead chiama il principio di<br />

“riflessività” del Self, ossia la capacità che il Self ha di essere soggetto e oggetto insieme, di osservare<br />

e osservarsi, e cosa più importante di instaurare un dialogo fra sé e sé, durante il quale il soggetto si<br />

confronta con più punti di vista.<br />

19<br />

Lonnie Athens, The Self as a Soliloquy, in “The Sociological Quarterly”, 35, 3, 1994, p. 524.<br />

20<br />

Ivi, p. 525.<br />

21<br />

Ivi, pp. 524-525.<br />

15<br />

20


carattere cognitivo e insieme emozionale, donando un ordine e<br />

un’organizzazione a un insieme di per sé indiscriminato e “amorfo” di<br />

impressioni.<br />

Infine (decimo principio), è ciò che Athens definisce come<br />

“comunità-fantasma” a rivestire il ruolo di “interlocutore principale”<br />

dei nostri soliloqui: essa non è al tro che il distillato delle nostre<br />

esperienze passate “significative” così come da noi vissute,<br />

interpretate e rivisitate nel presente nel corso di un processo dialogico<br />

e dialogante con i nostri “altri significativi”. Possiamo immaginarla<br />

come un “parlamento interiore” costituito da tante opinioni quanti<br />

sono gli “altri significativi” che abbiamo internalizzato nel corso della<br />

nostra vita e che offrono suggerimenti o dettano ordini per le nostre<br />

azioni future.<br />

L’attributo “fantasma” è dovuto al fatto che questa comunità di<br />

opinioni esiste “solo” e “sempre” nella forma delle rappresentazioni<br />

mentali che il soggetto se ne fa; al tempo stesso, però, tale comunità è<br />

ben lontana dall’essere “fantasma” nelle nostre vite reali, in quanto<br />

attraverso il soliloquio agisce realmente nei mondi sociali e nel le<br />

azioni che gli individui decidono di intraprendere. Considerato poi che<br />

il passato di ognuno di noi è sempre qualcosa di “unico”, anche chi<br />

vive all’interno dei confini della stessa “comunità fisica” potrà<br />

formare “comunità-fantasma” differenti, non riducendosi mai al mero<br />

prodotto del proprio ambiente sociale. 22<br />

Analizzando i “flussi di coscienza” ricavati dalle interviste<br />

realizzate sulla scorta di questi “concetti sensibilizzanti”, Athens<br />

identifica quattro tipi di “interpretazione della situazione” che<br />

rappresentano ulteriori “concetti sensibilizzanti” e (di)mostrano come<br />

le persone violente, prima di commettere atti criminali violenti,<br />

costruiscano attivamente e riflessivamente le rispettive linee di<br />

azione.<br />

23<br />

Il processo interpretativo si scompone in due fasi: “definizione”<br />

e “giudizio”. Durante la prima fase l’attore violento, assumendo<br />

l’atteggiamento della vittima, indica a se stesso il significato dei gesti<br />

che quest’ultima pone in essere. Nella seconda fase egli “assume<br />

22<br />

Lonnie Athens, Radical Interactionism. Going Beyond Mead, in “Journal for the Theory of Social<br />

Behaviour”, 37, 2, 2007, p. 139<br />

23<br />

Lonnie Athens, Violent Criminal Acts and Actors Revisited, cit., p. 32.<br />

16


l’atteggiamento” della propria “comunità-fantasma” e decide che<br />

dovrà agire violentemente.<br />

Le “interpretazioni della situazione” messe a fuoco da Athens sono<br />

di quattro tipi: l’interpretazione “fisicamente difensiva”,<br />

l’interpretazione “frustrativa”, l’interpretazione “malefica” e<br />

l’interpretazione “frustrativo-malefica”. 24<br />

Il momento che caratterizza<br />

ciascun tipo di interpretazione è rappresentato dalla “definizione della<br />

situazione” mentre la seconda fase, quella del giudizio favorevole<br />

all’azione violenta, opera come elemento unificante rispetto alla<br />

varietà interpretativa. Ciascuna interpretazione coinvolge dimensioni<br />

sociali fondamentali quali l’interazione “faccia a f accia”,<br />

l’“assunzione di atteggiamento altrui”, la “conversazione con se<br />

stessi”, l’“immagine che si ha di sé” e qu ella che ci si costruisce<br />

dell’altro, i pensieri e le emozioni emergenti.<br />

6. Un esito mai scontato<br />

Nel 1989 Athens pubblica The Creation of Dangerous Violent<br />

Criminals, lavoro che si propone di rintracciare l’origine delle<br />

“comunità-fantasma” violente, di quegli interlocutori interiori che<br />

sostengono l’utilizzo della violenza per la risoluzione dei conflitti e<br />

che distinguono i “criminali violenti” da tutte le altre persone. In altri<br />

termini, l’interrogativo che si pone è il seguente: da dove proviene una<br />

“comunità-fantasma” che riserva al suo interno un posto privilegiato<br />

per una risposta violenta al mondo?<br />

La spiegazione di Athens a que sti ordini di domande, ben<br />

lontana da o gni pretesa “eziologia”, si dirige verso un paradigma<br />

“processuale” che individua nel percorso di “violentizzazione” quel<br />

cammino che conduce una persona inizialmente non violenta a<br />

diventare un “pericoloso criminale”. Le sue fasi possono essere<br />

immaginate come una serie di stanze ognuna delle quali ha due porte,<br />

una di entrata e l’altra di uscita. Per arrivare all’ultima bisogna passare<br />

attraverso ciascuna delle precedenti, ma vi è anche la possibilità che<br />

24<br />

Per le specifiche formulazioni delle “interpretazioni della situazione” vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo<br />

Natali, Cosmologie violente, cit.<br />

17


non vi si giunga mai. 25<br />

Il finale, ancora una volta, è aperto e<br />

problematico: il presupposto di questo approccio a “finale aperto”,<br />

infatti, è sempre la capacità, che ogni essere umano possiede, di<br />

“improvvisare” e di “stupirci” in qualsiasi momento.<br />

7. Verso nuovi concetti sensibilizzanti: le “cosmologie violente”<br />

Ma in che modo gli uomini e le donne parlano a se stessi, che cosa<br />

si raccontano, quando decidono di comportarsi così come si<br />

comportano, manifestando per esempio atti violenti?<br />

E chi filtra gli ordini e tiene i comandi dentro quella cabina di regia<br />

che dirige un agire distruttivo?<br />

La prospettiva avanzata da Athens contiene innumerevoli appigli<br />

per convincersi che l’elaborazione interiore di questi atti è r esa<br />

consapevole da q uel processo simbolico con cui l’attore indica a se<br />

stesso (self-indication) e valuta, per quanto brevemente e in maniera<br />

sempre “fallibile”, “se e come certi elementi – credenze, idee, desideri<br />

o stati di cose – abbiano a che fare con lui” e cosa pensare, dire e fare<br />

in un determinato contesto”. 26 È questo dialogo interiore – che non ha<br />

una natura psicologica ma relazionale 27<br />

– a conferire senso ai propri<br />

atti.<br />

Quest’“attività riflessiva” che precede e affianca l’“interpretazione<br />

della situazione”, la definizione dell’“immagine di sé”, fornisce<br />

consigli invitando a prendere posizione, ad agire o a d astenersi dal<br />

farlo. Essa non discorre riferendosi solo all’immediatezza di un<br />

28<br />

contesto, ma rimanda a qualcosa di più radicato, a quell’ininterrotto<br />

25<br />

Lonnie Athens, The Creation of Dangerous Violent Criminals, University of Illinois, Urbana 1992,<br />

p. 21.<br />

26<br />

Margaret S. Archer, Structure, Agency and the Internal Conversation, Cambridge University Press,<br />

Cambridge 2003; tr. it. La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale, Erickson, Gardolo<br />

2006, p. 86.<br />

27<br />

“La ‘conversazione interiore’ si può definire alla stregua di una ‘proprietà personale emergente’, più<br />

che di una ‘facoltà’ psicologica degli individui, che rimanderebbe a una loro disposizione intrinseca.<br />

In altri termini, la conversazione interiore è una proprietà relazionale e le relazioni in questione sono<br />

quelle che si danno tra la mente e il mondo.” Cfr. Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit.,<br />

p. 178.<br />

28<br />

Condotte altamente distruttive possono però essere realizzate quando le persone si trovano a vivere<br />

“collettivamente” (cioè a dire insieme ad altri individui) drastici, radicali e globali “cambiamenti<br />

drammatici di sé”, all’interno di una situazione totale. Valgano quali esempi l’esperimento carcerario<br />

di Stanford ideato e guidato da Philip Zimbardo e le recenti e drammatiche vicende di Abu Ghraib.<br />

18


senso di sé che opera all’interno di circuiti neurali ripetutamente<br />

utilizzati per aver assunto gli “atteggiamenti altrui” nel corso del<br />

tempo, e distillato i “ragionamenti morali”, le “massime morali” e le<br />

indicazioni per intraprendere azioni.<br />

Inoltre, nemmeno gli stati d’animo e le emozioni che anticipano e<br />

affiancano atti violenti brutali mutano, nella loro essenza, rispetto a<br />

quelli che sperimentiamo nel corso delle nostre “normali” vite<br />

quotidiane. La ridefinizione del paesaggio interiore che fa da sfondo<br />

allo scatenarsi delle dinamiche aggressive è data, piuttosto, dalle<br />

accelerazioni che i dialoghi interiori/i soliloqui degli attori violenti<br />

ricevono quando costoro interpretano drammaticamente la situazione<br />

in cui sono gettati, “ascoltando” e “rispondendo” alle proprie<br />

esperienze interiori che stanno per precipitare nel presente 29<br />

di quel<br />

gesto.<br />

Tenendo conto di questa complessità, se nel corso della vita il<br />

Self – quel “prisma”, quel centro di convergenza, rifrazione e<br />

orientamento alimentato dalla “comunità-fantasma” attraverso il quale<br />

leggiamo riflessivamente (ma mai in modo del tutto “trasparente”) noi<br />

stessi e il mondo esterno – non è fatto “slittare drammaticamente”<br />

verso una composizione valoriale e s imbolica di segno violento,<br />

l’attore, all’occorrenza, potrà continuare a rivolgersi in modo<br />

sufficientemente consonante frasi del tipo: “Lascia perdere gente<br />

come questa!”. Ma, dopo essersi inoltrato in un percorso di<br />

“violentizzazione”, aver internalizzato “altri-fantasma” brutali e/o<br />

aver interpretato drammaticamente una certa situazione, un individuo<br />

può, rimanendo sempre in ascolto della propria “comunità-fantasma”,<br />

offrirsi frasi del tipo: “Fallo a pezzi senza pietà!”.<br />

Prendiamo così le distanze dall’idea che vi siano “variabili”<br />

sociali e individuali che “condizionano” necessariamente a prendere<br />

“deliberazioni” che trascendono la “riflessività” di un individuo: “Ciò<br />

Cfr. Philip Zimbardo, The Lucifer Effect. Understanding How Good People Turn Evil, Random<br />

House, New York 2007; tr. it. L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano<br />

2008.<br />

29 “Il presente è un atto particolare che riunisce la narrazione e l’azione. E siccome nel presente c’è<br />

narrazione, ciò implica necessariamente fenomeni di memoria.” Cfr. Eugène Minkowski, Le temps<br />

vécu, J. L. L. L. D ’Artrey, Paris 1933; tr. it. Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia,<br />

Einaudi, Torino 2004, p. 32.<br />

19


che muove l’agente/attore sociale è l a sua riflessività interna” 30<br />

rispetto alla situazione che si trova a vivere, e ai sentimenti, alle<br />

visioni, ai progetti che nascono. È la “riflessività” che fa di noi degli<br />

“agenti attivi”, ossia persone che hanno una certa padronanza nel<br />

determinare la propria vita, nell’autovalutarsi e nell’assumere<br />

responsabilità personali.<br />

Seguendo gli insegnamenti dell’interazionismo simbolico e di<br />

tradizioni di pensiero a esso affini, concordiamo con Marco Inghilleri<br />

quando afferma che: “Il mondo, quale è noto a noi, è una realtà<br />

costruita socialmente che ci appare tale attraverso i nostri ‘negoziati’<br />

con le altre persone. Infatti, noi formuliamo gradualmente un’intera<br />

cosmologia, contro lo sfondo della quale i nostri negoziati sociali<br />

31<br />

hanno luogo e in accordo con la quale sono legittimati”.<br />

È anche a partire da questa consapevolezza, e da queste premesse,<br />

che abbiamo messo a p unto – attraverso la conduzione di alcune<br />

32<br />

interviste “narrative” con individui condannati per reati violenti – il<br />

concetto di “cosmologia violenta”. Esso è diventato, per noi, un<br />

“concetto sensibilizzante” finalizzato a restituire senso alle condotte<br />

umane (violente) al di là di ogni rigida e formale distinzione fra<br />

normalità e sofferenza psichica, 33<br />

capace di aiutare a comprendere e a<br />

raccontare le sfere simboliche costruite dagli attori sociali nel corso<br />

delle loro interazioni ed esperienze nei mondi che abitano.<br />

30 Pierpaolo Donati, La conversazione interiore. Un nuovo paradigma (personalizzante) della<br />

socializzazione, introduzione all’edizione italiana di Margaret S. Archer, La conversazione interiore,<br />

cit., p. 16.<br />

31 Il corsivo è nostro. Marco Inghilleri svolge considerazioni assai significative relative al ruolo della<br />

“narrazione” e del “dialogo” nel rapporto di ciascuno con la propria realtà: “Entrare in dialogo con una<br />

persona significa riconoscere e ricostruire il modo in cui essa costruisce il suo mondo e se stessa, come<br />

stanno le cose dal suo punto di vista, che esperienza fa di questo mondo, come lo valuta e lo giudica,<br />

anche attraverso le sue emozioni, come ne costruisce il senso di realtà, come agisce in esso e quali<br />

effetti produce, come questo mondo risponde a ciò che essa fa e quali effetti ciò produce circolarmente<br />

sulla persona stessa”. Cfr. Marco Inghilleri, Il linguaggio come strumento del cambiamento nella<br />

psicoterapia interattivo-cognitiva (2005), in http://psicologiaclinica.splinder.com/post/19799159/illinguaggio-come-strumento-del-cambiamento-nella-psicoterapia-interattivo-cognitiva<br />

32 Le interviste – per un totale di sette – hanno avuto una durata media di quattro ore ciascuna, sono<br />

state tutte condotte presso la Casa di Reclusione di Milano-Opera, e sono state interamente registrate,<br />

sbobinate e f edelmente trascritte. Alcuni passaggi dei racconti raccolti sono contenuti nel volume<br />

Cosmologie violente, cit.<br />

33 Questi concetti poggiano sui percorsi teorici sviluppati da Minkowski nelle sue opere, e in<br />

particolare, nel volume Verso una cosmologia, cit.<br />

20


Non esiste un gesto violento, un’“aggressione fisica”, un “attacco al<br />

corpo” 34<br />

per quanto “folle” e cr uento che non i mplichi una<br />

“cosmologia”. Risalendo la traiettoria di Athens, tendiamo a figurarci<br />

gli “attori violenti” come orientati verso una “ciascunità” organizzata<br />

intorno a una “comunità-fantasma” che dispensa sostegno morale per<br />

risposte violente, e che noi denominiamo “cosmologia violenta”. Per<br />

noi essa riguarda la dimensione “individuale-universalizzante”,<br />

“sensibile-pensante”, “cosciente-riflessiva” e personale mediante la<br />

quale gli uomini si rappresentano il mondo e cercano di farsi strada in<br />

esso, costruendo attivamente il proprio agire.<br />

In tale prospettiva, l’uomo è un “cosmo”, da lui stesso creato, un<br />

cosmo che produce senso, e le “deliberazioni riflessive” sono<br />

35<br />

“attività” di cui l’attore è i n larga parte consapevole e alle quali<br />

partecipano i giudizi, le opinioni, le lodi, gli ammonimenti degli “altri<br />

significativi” internalizzati, i quali suggeriscono/ordinano come<br />

tradurre tutto ciò in atti (violenti). È questa incessante conversazione<br />

con se stessi che fornisce la trama per la costruzione e il continuo<br />

aggiornamento di una “cosmologia” personale, intesa come “insieme<br />

organizzato di prospettive” con cui guardiamo e interpretiamo il<br />

mondo.<br />

Quando dialoghiamo con noi stessi, infatti, proviamo a mettere<br />

ordine, in assetto, in quel pluriverso di voci, di immagini e di<br />

rappresentazioni – alcune depositate e archiviate da tempo – che<br />

chiedono di essere recepite, seguite e, talvolta, rigidamente obbedite.<br />

La “cosmologia” è, allora, anche la costruzione di una trama narrativa<br />

rivolta innanzitutto a noi stessi: l’agire che le fa da contrappunto è<br />

consonante e “preso” dentro le parole che narrano e da nno senso a<br />

questi “incontri”. Come scandisce con grande chiarezza Paolo<br />

Jedlowski, “[s]e possiamo rendere conto della vita nella forma di<br />

storie è […] perché la vita stessa ha in sé una dimensione storica: […]<br />

la vita si dispone nel tempo, e con ciò ci si offre come un materiale<br />

34<br />

Cfr. Francesco Viganò, La tutela penale della libertà individuale. L’offesa mediante violenza,<br />

Giuffrè, Milano 2002.<br />

35<br />

Archer puntualizza: “È una prospettiva ben diversa, quindi, da teorie come quella della scelta<br />

razionale [Rational Choice], che tende a contrapporre i diversi desideri e convincimenti dell’agente,<br />

sino a r icavarne – dati i rapporti di forza tra gli uni e gli altri – l’ordine delle sue preferenze<br />

individuali”. Cfr Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit., pp. 86-87.<br />

21


narrabile”. 36 Queste “narrazioni” non sono solo “resoconti” e<br />

“razionalizzazioni” con cui gli attori sociali spiegano le ragioni delle<br />

proprie azioni, ma anche “pratiche riflessive […] profondamente<br />

incarnate nei corsi di azione degli individui”. 37<br />

8. Cosmologia e dimensioni psicopatologiche<br />

Se il nostro intento è comprendere da d ove vengono i<br />

comportamenti e l e “vite violente” “[…] cercando di coglierne e<br />

distinguerne i diversi movimenti, le diverse qualità dinamiche, per<br />

studiarne poi le particolari affinità e i molteplici legami”, 38<br />

allora sarà<br />

proprio il riconoscimento di tali “dinamiche” e dei “legami” intessuti<br />

nei loro “mondi” di riferimento – che spesso si saldano in relazioni di<br />

“dominio” – ad allontanare la pretesa che i “violenti” siano per lo più<br />

individui “disorganizzati”, i cui atti “efferati” e “distonici”<br />

risulterebbero rivelatori di patologie.<br />

I principali studi sul tema convergono nell’affermare che pur<br />

esistendo una moderata ma significativa associazione tra violenza e<br />

disturbo mentale, essa non è “creata” dalla malattia ma in qualche<br />

modo è una caratteristica temperamentale o di personalità che pre-<br />

esiste alla malattia stessa e, in tale condizione, non è più controllata.<br />

Inoltre, le quote più significative della violenza osservata nelle<br />

persone mentalmente malate non riguardano i pazienti psicotici più di<br />

quanto riguardino quelli portatori di disturbi di personalità, o affetti da<br />

patologia affettiva, od organica cerebrale, e i n tutti questi casi a<br />

incidere pesantemente sul viraggio verso il comportamento violento<br />

sono fattori quali l’età, il genere (maschile), la scolarità, l’abuso di<br />

sostanze, le condizioni sociali.<br />

36<br />

Paolo Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano<br />

2000, pp. 34-35.<br />

37<br />

Barbara Poggio, Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali, Carocci, Roma<br />

2004, p. 24.<br />

38<br />

Eugène Minkowski, Verso una cosmologia, cit., p. 150.<br />

39<br />

Vedi in particolare le conclusioni cui giunge Massimo Biondi: “[…] in molti disturbi schizofrenici e<br />

maniacali il comportamento aggressivo e violento non è ‘creato’ dalla malattia ma in qualche modo è<br />

una caratteristica temperamentale o di personalità che pre-esiste alla malattia e, in tale condizione, non<br />

è più controllato”. Cfr. Massimo Biondi, La dimensione aggressività-violenza (A-V), in AA.VV.,<br />

Psicopatologia e terapia dei comportamenti aggressivi e violenti, a cura di Paolo Pancheri, Scientific<br />

Press, Firenze 2005, p. 118.<br />

22<br />

39


La “psicopatia”, per esempio, è oggi definita come un “ disordine<br />

affettivo” che comporta, per l’appunto, una riduzione della capacità di<br />

empatizzare e, quale ricaduta, un deficit nell’abilità a formare<br />

“ragionamenti morali”. Agli “psicopatici” viene generalmente<br />

attribuita la capacità di commettere crimini brutali senza che essi<br />

comportino “sensi di colpa”.<br />

Ciò che la nostra proposta consente di ipotizzare è che le persone<br />

affette da queste patologie non necessariamente sono incapaci di<br />

compiere attività di role-taking: l’esecuzione di crimini efferati<br />

richiede sempre, in qualche misura, un’abilità nell’anticipare le mosse<br />

della potenziale vittima e interpretarne i gesti. Rispetto ad altri “attori<br />

violenti” costoro osservano le loro vittime con profondo distacco,<br />

talvolta con spiccate capacità introspettive, ma sempre senza<br />

identificarsi emotivamente con esse. Non è dunque in gioco la grave<br />

anestesia emozionale, l’assoluta impossibilità a “sentire” ciò che<br />

“sente” una persona normale: queste caratteristiche connotano<br />

indubbiamente gli “psicopatici”. Ma anche dall’interno del recinto<br />

definito da questo “disturbo psichico” ciascuno di loro può rivolgere a<br />

se stesso, e agli altri, parole “significative” volte a “interpretare le<br />

situazioni”.<br />

9. Cosmologia e “macrocosmi” sociali<br />

Il focus della nostra attenzione ricade, ancora una volta, sulla<br />

“riflessività” e sulla “conversazione interiore”/“soliloquio” che, pur<br />

intramate con stratificati livelli di “opacità”, fanno sì che l’attore si<br />

renda in buona parte consapevole del proprio “mondo interiore”,<br />

capace di esperire il proprio “corpo vivente”, di riconoscere le sue<br />

emozioni e dare forma al proprio agire.<br />

Per respingere dunque ogni seduzione riduzionista relativa al<br />

rapporto violenza e malattia mentale occorre accedere, sempre, alla<br />

“ciascunità” di ogni individuo, il cui filtro irriducibile rimane il<br />

“soliloquio”, quel “movimento riflessivo” che si compone anche<br />

attraverso il role-taking.<br />

Ma, come abbiamo anticipato, occorre evitare anche un altro<br />

pericoloso riduzionismo, quello che porterebbe a considerare ogni<br />

“mondo sociale”, ogni “comunità fisica” come il “macro-cosmo”, il<br />

23


modello che informa direttamente e con trasparenza la “comunitàfantasma”<br />

di chi li abita.<br />

Già Shibutani avvertiva che “Il mondo personale di ogni individuo<br />

è centrato attorno a sé. Nel formulare giudizi e nel prendere decisioni,<br />

nel parlare dello spazio e del tempo, ognuno utilizza se stesso quale<br />

punto centrale di riferimento”. 40<br />

È la “riflessività” a costituire il missing link che opera la<br />

mediazione fra le strutture di “dominio” e il modo in cui, con le nostre<br />

deliberazioni, ci collochiamo rispetto a es se. Lo ricorda<br />

magistralmente Pierpaolo Donati: “Le strutture socioculturali<br />

influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività interna della<br />

persona, la quale deve introdurre i dati del contesto esterno nelle sue<br />

strategie e f are i conti con esse […]. [N]on si tratta di un<br />

condizionamento dall’esterno che causa direttamente l’agire<br />

umano”.<br />

La biografia di ciascuno, infatti,<br />

opera in un “presente vivente” – che include passato, presente e<br />

futuro, ricordi e aspettative –, e definisce come, con quale estensione e<br />

profondità i doveri, le norme, gli status e i ruoli sociali sono<br />

internalizzati dal singolo attore sociale. Ogni individuo è o rientato<br />

unicamente verso il suo “mondo” sociale, e la chiave per risolvere il<br />

problema del rapporto tra agency e struttura si rinviene in tale<br />

relazione “cosmologica”.<br />

41<br />

La “cosmologia” di ogni attore sociale rimane, anche per tali<br />

ragioni, potenzialmente aperta a ogni dialogo e a ogni decisione.<br />

Ovviamente nessuno può autodefinirsi, per via discorsiva, nelle<br />

forme che gli sono più congeniali e la conoscenza di sé che ne deriva è<br />

l’esito di un processo che vive delle negoziazioni riflessive con gli<br />

altri attori sociali, all’interno di contesti situazionali strutturati anche<br />

in chiave di “dominio”. In altre parole, siamo sì artefici di noi stessi e<br />

della nostra storia, ma in un flusso di eventi e di circostanze che ci<br />

trascendono, e che non possiamo scegliere e controllare del tutto. 42<br />

40 Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 216.<br />

41 Pierpaolo Donati, La conversazione interiore, cit., p. 12.<br />

42 Vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit.<br />

24


10. Cosa intendiamo fare?<br />

Ci siamo domandati, all’inizio di queste riflessioni, come avvenga<br />

– e quali tappe percorra – quel “processo dinamico” attraverso il quale<br />

uomini e donne, in un determinato momento della loro vita, decidano,<br />

“inaspettatamente” e “sorprendentemente”, di seguire linee violente<br />

d’azione e aggredire fisicamente altri individui.<br />

Secondo la nostra proposta – come abbiamo provato a spiegare pur<br />

nell’economia di queste pagine – ogni movimento di quell’attività<br />

riflessiva che si esprime e si compenetra nel flusso del<br />

“soliloquio”/“conversazione interiore” di ciascuno media sempre<br />

l’interazione “io-mondo”, 43<br />

È nel margine di questo “punto”, di questo istante – che ha sempre<br />

in sé una durata qualitativa e non solo quantitativa – che si dispiegano<br />

gli spazi di libertà per l’agire, ed è proprio la possibilità che si ha di<br />

“comunicare con se stessi” – ascoltandosi e dandosi risposte – che<br />

permette di (s)fondare l’immediato, sospendersi, immaginare possibili<br />

alternative e direzionare lo “slancio” verso una successione di<br />

immagini e di rappresentazioni simboliche – “sintoniche” con la<br />

propria “cosmologia” – che potranno, a loro volta, fare spazio e dare<br />

luogo a condotte violente.<br />

facendo convergere e concentrando quel<br />

pluriverso che costituisce ogni individuo nel punto attorno al quale<br />

prende forma la risposta all’impellente interrogativo: “Che cosa<br />

intendiamo fare?”. Una risposta che, in certi casi, attiverà linee<br />

d’azione brutalmente distruttive.<br />

La nostra offerta teorica – assieme a quella di Athens – si propone<br />

pertanto come un linguaggio sul senso possibile degli atti violenti, in<br />

grado di aprire “orizzonti di visualizzazione” su un fenomeno che<br />

spesso rimane opaco e “incomprensibile” dal punto di vista di un<br />

osservatore “esterno”. Come ogni linguaggio, una volta messo a punto<br />

e appreso correttamente, potrà servire per leggere, interpretare e<br />

“comprendere” le parole e i mondi da cui provengono tali atti e che<br />

hanno accompagnato i percorsi biografici dei loro autori. La nostra<br />

interpretazione – e quella che ognuno di noi, in quanto lettore,<br />

43 In particolare questa attività riflessiva media sempre, e i n modo selettivo, (a) l’“individuo<br />

biologico”, lo “slancio vitale” e l ’“I”, (b) le “percezioni” e gli “sfondi prospettici”, (c) le<br />

“interpretazioni della situazione”, (d) le “emozioni”, (e) i “desideri”, (f) i “mondi sociali” e ( g) il<br />

“tempo”. Vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit.<br />

25


elaborerà “riflessivamente” – potrà appoggiarsi a questo linguaggio, a<br />

questa “nuova” grammatica, per “dire” dell’agire violento, ricordando<br />

che ciò sarà possibile solo in quella certa misura in cui decideremo di<br />

“avvicinare” e “comprendere” l’“altro violento”, non sempre e<br />

necessariamente “altro” rispetto a “noi”.<br />

Rimandiamo, per il lettore interessato e incuriosito da questi ardui<br />

interrogativi, al citato volume Cosmologie violente. Percorsi di vite<br />

criminali, nel quale proviamo a “spiegare” un “inaspettato”, un<br />

“insensato” – quello che i rrompe nella normalità delle interazioni<br />

sociali con la forza disarmante del delitto atroce – ancora così difficile<br />

da ascoltare, interpretare e comprendere in tutte le sue molteplici<br />

dimensioni di “senso”.<br />

26


Il “dominio” penale come cosmogonia<br />

Critica della violenza e “bisogno interiore del diritto”<br />

Gabrio Forti<br />

1. Narrare gli “attori violenti”<br />

Pochi mesi dopo la pubblicazione in Italia del libro di Adolfo<br />

Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite<br />

criminali, è a pparsa in Germania un’opera altrettanto cospicua, per<br />

dimensioni e contenuti che, sia pure dal punto di vista di un docente di<br />

ricerca sociale e l etteratura, non di un criminologo, affronta a s ua<br />

volta il tema della violenza e specificamente il rapporto tra “fiducia” e<br />

“violenza”. 1<br />

Si tratta di un libro che sviluppa alcune prospettive di cui<br />

mi avvarrò proprio per indirizzare l’attenzione su almeno uno dei fili<br />

che costituiscono la preziosa e illuminante trama tessuta dal lavoro dei<br />

due criminologi italiani<br />

L’autore, Jan Philipp Reemtsma, occupa una posizione molto<br />

particolare nel panorama culturale tedesco, anche per le sue<br />

escursioni, pensate e sofferte, in aree penalistiche e cr iminologiche.<br />

Propriamente sofferte, si può dire, se consideriamo il destino di questo<br />

docente dell’Università di Amburgo, che alcuni anni or sono fu<br />

vittima di un s equestro e trascorse vario tempo in cattività: “in<br />

cantina”, come si intitola letteralmente l’edizione tedesca del libro<br />

(tradotto in Italia da <strong>Feltrinelli</strong>) che racconta quella dolente<br />

2<br />

esperienza.<br />

1 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, Pantheon, Hamburg 2008.<br />

2 Jan Philipp Reemtsma, Im Keller, Rowohlt, Hamburg 1997; tr. it. Chiuso dentro. Dalla cantina di un<br />

sequestro. 33 giorni di lucida angoscia, <strong>Feltrinelli</strong>, Milano 1998.<br />

27


I temi cosiddetti vittimologici sono del resto ricorrenti nei suoi<br />

scritti, che annoverano anche un volume in argomento, composto a<br />

quattro mani con il noto penalista tedesco Winfried Hassemer. 3 Si<br />

tratta di un testo nel quale vengono presentate, con equilibrio ed<br />

efficacia, sia le luci, sia le molte ombre che accompagnano la<br />

“riscoperta” della vittima nelle scelte (ma sarebbe meglio dire: nella<br />

presentazione pubblica delle scelte) politico-criminali: da una parte,<br />

per esempio, il fecondo recupero di nuove prospettive di giustizia<br />

conciliativa-riparativa; dall’altra, però, il rischio sempre incombente<br />

che il richiamarsi ai diritti della vittima promuova una crescente<br />

privatizzazione della tutela penale, faccia da puntello a u na visione<br />

retributiva-vendicativa della pena e, con essa, all’adozione di misure<br />

repressive illusoriamente rassicuranti per collettività assillate dalla<br />

“paura del crimine”. Lungo questa china, le vittime, effettivamente o<br />

potenzialmente esposte alle offese criminali, si vedono colpite da<br />

un’offesa ulteriore e n on meno dolorosa: quella a esse portata dalle<br />

stesse politiche criminali contemporanee, intente soprattutto a farne un<br />

uso simbolico, propizio a esibirne nel modo più plateale possibile la<br />

capacità di “stabilizzazione della psiche sociale”. 4<br />

In Vertrauen und Gewalt, l’ultima<br />

3<br />

Winfried Hassemer e Jan Philipp Reemtsma, Verbrechensopfer. Gesetz und Gerechtigkeit, C.H.<br />

Beck, München 2002.<br />

4<br />

Per una ricapitolazione di alcuni motivi e implicazioni della cosiddetta “riscoperta” della vittima in<br />

criminologia e in politica criminale, rinviamo a Gabrio Forti, L’immane concretezza, Raffaello Cortina<br />

Editore, Milano 2000, pp. 252 e sgg.; Karl-Ludwig Kunz, Kriminologie, Haupt, Bern-Stuttgart-Wien<br />

2008 5 , pp. 306 e sgg.<br />

5<br />

Si veda già, dello stesso autore, Die Gewalt spricht nicht. Drei Reden, Reclam, Stuttgart 2002.<br />

5<br />

e recente opera di Reemtsma<br />

dedicata alla violenza, gli elementi di affinità con il pregevole libro di<br />

cui intendo discutere, Cosmologie violente, non si arrestano certo alla<br />

scelta dell’argomento principale. C’è una comune cifra stilistica,<br />

innanzitutto. Entrambe le opere intercalano alla trattazione<br />

propriamente scientifica o comunque speculativa ampi testi narrativi,<br />

che in Reemtsma sono pressoché esclusivamente letterari, nell’opera<br />

di Ceretti e N atali, prevalentemente cinematografici o t ratti dalle<br />

deposizioni dei soggetti intervistati. Il libro di Reemtsma si chiude con<br />

un cammeo dedicato al personaggio dell’Amleto shakespeariano,<br />

Polonio, e al la sua particolare forma di “stupidità moderna”. In<br />

Cosmologie violente il capitolo propriamente conclusivo dell’opera<br />

28


(prima della Postilla epistemologica) sceglie come sue battute finali il<br />

Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij.<br />

Inutile dire che in entrambi i volumi questa scelta di annodare<br />

narrazione e co ncettualizzazione è tutt’altro che un vezzo<br />

ornamentale, ma si lega finemente all’ispirazione di fondo che, specie<br />

in Cosmologie violente, è di sottrarre una materia come quella del<br />

crimine violento alla massiccia stereotipizzazione cui essa è<br />

assoggettata non solo sul palcoscenico mediatico, ma nella stessa<br />

criminologia. Il risultato è di far ri-scoprire e ri-vedere le singolarità<br />

umane dell’autore violento e dei fatti che abbia perpetrato, solitamente<br />

sacrificate da quella standardizzazione funzionale a un certo “discorso<br />

politico-criminale” che, come detto, possiamo vedere all’opera con<br />

non minore zelo, anche se in veste più subdolamente rispettabile, nei<br />

confronti delle stesse vittime.<br />

La densa rete di fili narrativi che si intreccia alla trama saggistica<br />

sembra dunque recare alla materia scientifica l’apporto che Susan<br />

Sontag riconosce agli scrittori e alle narrazioni: quello di “combattere<br />

i cliché che amplificano la nostra separatezza, la nostra differenza,<br />

perché gli scrittori sono creatori, e non soltanto trasmettitori, di miti”. 6<br />

Come osserva Adriana Cavarero, 7<br />

ogni racconto narra di quel destino<br />

“totalmente impadroneggiabile e unico per ogni essere umano, che<br />

Hannah Arendt chiama daimon”, ed è ciò cui allude Karen Blixen<br />

quando parla della convinzione che “alla fine, c’è probabilmente<br />

qualcosa per ogni individuo a cui egli non può rinunciare [...] la ‘vita’<br />

ne è il prezzo”; “che lo si chiami daimon o destino, oppure<br />

semplicemente qualcosa, si tratta dunque di quel disegno irripetibile<br />

che ogni vita traccia col suo percorso: non un ruolo da interpretarsi e<br />

tantomeno una sostanza nascosta da incarnare, bensì la figura<br />

totalmente apparente – e posteriore agli eventi – di un’esistenza unica<br />

che suggerisce un’unità”.<br />

6 Susan Sontag, At the Same Time, Farrar, Straus, and Giroux, New York 2007; tr. it. Nello stesso<br />

tempo, Mondadori, Milano 2008, pp. 168; 186.<br />

7 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, <strong>Feltrinelli</strong>, Milano 2007, p. 180.<br />

29


2. La rimozione moderna del carattere comunicativo della<br />

violenza e il suo recupero “cosmologico”<br />

Nella sua analisi della fenomenologia della violenza, Reemtsma<br />

distingue una violenza “locativa” o, se vogliamo, “dislocativa”<br />

(lozierende Gewalt), “che non si indirizza al corpo in quanto tale, ma<br />

mira al corpo dell’Altro per determinarne la collocazione spaziale”, 8<br />

una “violenza raptiva” (raptive Gewalt), che mira al possesso del<br />

corpo, per lo più a f ini sessuali; 9 e, infine, quella che viene detta la<br />

“violenza autotelica” (autotelische Gewalt), diretta alla distruzione<br />

dell’integrità del corpo, che costituisce una componente essenziale,<br />

presente in ogni forma di violenza. 10 In Cosmologie violente, è “il<br />

costante rimando alla corporeità a restituire una capacità selettiva al<br />

concetto di violenza, che grazie a esso guadagna una maggiore<br />

definizione”, ponendosi al riparo da sempre possibili<br />

“manomissioni”. 11<br />

C’è uno snodo centrale del libro di Reemtsma da cui vorrei prendere<br />

spunto nella mia riflessione, soprattutto perché esso mi offre la guida<br />

iniziale per lo scorrere di un’analisi che intende riguardare il tema<br />

della violenza soprattutto dal punto di vista del diritto (in specie<br />

penale) e del la politica criminale. Reemtsma muove dall’idea che<br />

nessuna azione umana sia semplicemente strumentale, ma che in essa<br />

entri sempre in gioco un momento comunicativo: “c’è sempre<br />

qualcosa che attira il soggetto al fatto [Tat], non solo al fatto violento,<br />

e ciò che attira non è mai solo un’utilità. Ogni fatto è a nche<br />

un’informazione trasmessa sul soggetto, con la quale si dice chi egli è<br />

e chi vuole essere […]. Ogni azione umana ha un aspetto<br />

12<br />

comunicativo”. Con la sua azione, e dunque anche con la sua azione<br />

violenta, il soggetto chiama in causa un terzo, si rivolge a questo<br />

terzo, reale o immaginario. Qui si manifesta il carattere “sociale” della<br />

violenza, che “può dunque essere compresa come azione sociale, solo<br />

se intesa nell’ambito di una costruzione triadica, poiché essa diviene<br />

8<br />

Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 108.<br />

9<br />

Ivi, p. 113.<br />

10<br />

Ivi, pp. 116 e sgg.<br />

11<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 51.<br />

12<br />

Cfr. Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 107.<br />

30


agire sociale solo come atto di comunicazione”. 13 E “ciò che la<br />

violenza comunica è la sua dimensione autotelica”. 14<br />

Al di là degli avvertibili echi provenienti da una vasta tradizione di<br />

pensiero (si potrebbero evocare, tra i tanti, Talcott Parsons, Niklas<br />

Luhmann, Jürgen Habermas), è interessante il rilievo della diffusa<br />

tendenza, non solo istituzionale, ma anche culturale e scientifica (per<br />

esempio sociologica) alla negazione di un tale carattere comunicativo<br />

della violenza e, quindi, della sua dimensione sociale. Una operazione<br />

“negazionistica” che nella modernità mirerebbe soprattutto a<br />

preservare e consolidare la fiducia sociale. Sarebbe infatti proprio<br />

dalla dimensione sociale della violenza a derivare una messa in<br />

discussione del monopolio statuale della violenza, che costituisce una<br />

delle basi fondamentali in cui si inserisce la fiducia individuale nella e<br />

della modernità, indispensabile a s ua volta per bilanciare la portata<br />

disgregante propria dell’altra caratteristica del moderno, che è la<br />

differenziazione dei ruoli sociali (come avrebbe detto Durkheim: la<br />

divisione del lavoro), e per ricomporre la coesione che tale<br />

differenziazione tende a spezzare.<br />

Questo meccanismo di rimozione o ne utralizzazione del carattere<br />

comunicativo della violenza si manifesterebbe in particolare attraverso<br />

il diritto penale, il cui senso principale è i dentificato da Reemtsma,<br />

appunto, nella “delimitazione della funzione comunicativa della<br />

violenza”: il processo penale moderno costituirebbe allora un<br />

momento essenziale di “esclusione del terzo”, ossia di isolamento<br />

dell’attore violento dal terzo cui sempre la sua azione è almeno in<br />

parte rivolta, con ciò realizzando appunto una deprivazione del<br />

carattere comunicativo del suo atto. 15 Con richiami luhmanniani, 16 si<br />

afferma così che, attraverso il processo, il delitto viene<br />

“depoliticizzato” e il conflitto che esso produce “neutralizzato<br />

politicamente”, impedendosi così che, attraverso “meccanismi di<br />

generalizzazione”, problemi specifici divengano “punti di<br />

cristallizzazione di fronti conflittuali, in grado di separare più larghi<br />

strati della popolazione”. 17<br />

Si afferma allora, per esempio, che i<br />

13<br />

Ivi, p. 467.<br />

14<br />

Ivi, p. 476.<br />

15<br />

Ivi, p. 486.<br />

16<br />

Niklas Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, p. 122; tr. it.<br />

Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Giuffrè, Milano 1995.<br />

17<br />

Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 487.<br />

31


processi di Norimberga avrebbero impedito al genocidio di<br />

configurarsi come “un messaggio”, e i n ciò risiederebbe “la<br />

significatività dell’intervento civilizzatorio” che essi hanno<br />

realizzato 18 (senza peraltro che sia riuscito loro di cancellare la<br />

contraddizione tra i genocidi del Novecento e la promessa moderna di<br />

un futuro senza violenza). 19<br />

Il senso stesso della cosiddetta prevenzione generale positiva per<br />

Reemtsma deriverebbe proprio da questa direzionalità a rimuovere “il<br />

terzo” (e dunque la dimensione comunicativa e s ociale) dall’atto<br />

20<br />

criminale. Si potrebbe aggiungere, con specifico riferimento alle<br />

teorie “espressive” della pena, 21<br />

che lo Stato si assuma, insieme al<br />

monopolio della violenza, il “monopolio espressivo”, togliendo<br />

significatività, attraverso il processo o comunque il rito penale, all’atto<br />

violento individuale, collettivizzando e reindirizzando, per così dire,<br />

una tale espressività nella direzione tendenzialmente unica del<br />

giudizio di riprovazione sociale rivolto nei confronti del fatto<br />

criminale e del suo autore.<br />

In un tale meccanismo di narrazione “ufficiale” della violenza,<br />

non è peraltro difficile vedere in atto – come si dirà più avanti – anche<br />

una rimozione e distrazione dall’orizzonte comunicativo della<br />

violenza originaria, ossia dalla violenza del diritto e, il che è lo stesso,<br />

di quella del Politico. Una violenza cui si vuole sovrapporre la<br />

violenza puramente individuale, avulsa dai mondi sociali e, ancor<br />

prima, dal terzo verso cui si rivolge la sua intrinseca componente<br />

comunicativa.<br />

18 Ivi, p. 488.<br />

19 Come ricorda Reemtsma (ivi, p. 487), non s empre peraltro una tale operazione ha successo nei<br />

processi a carico di criminali politici: ciò avviene quando essi rinunciano al carattere comunicativo e<br />

sociale delle loro azioni, dichiarandosi “innocenti” davanti alle corti internazionali; non così invece<br />

quando tendono a rimarcare tale carattere pronunciando dichiarazioni politiche (o magari, come nella<br />

esperienza, ben nota in Italia, di processi ad autori di delitti politici, negano la legittimazione delle<br />

corti a giudicarli, fino talvolta a rinunciare a ogni difesa legale).<br />

20 Ivi, p. 486.<br />

21 Si rinvia, per ampi richiami e riferimenti bibliografici alle teorie cosiddette espressive, a: Arianna<br />

Visconti, Teorie della pena e shame sanctions: una nuova prospettiva di prevenzione o un caso di<br />

atavismo del diritto penale?, in Studi in onore di M. Romano, Jovene, Napoli 2011, I, pp. 63 e sgg., tra<br />

cui in particolare: Joel Feinberg, The Expressive Function of Punishment, in Antony R. Duff e David<br />

Garland (a cura di), A Reader on Punishment, Oxford University Press, Oxford 1994, pp. 73 e sgg.;<br />

Sanford H. Kadish, Blame and Punishment, Macmillan, New York 1987, p. 51; Henry M. Hart, The<br />

Aims of the Criminal Law, in “Law and Contemporary Problems”, 23, 1958, pp. 404 e sgg.<br />

32


Il processo penale costituisce comunque solo lo sbocco finale di<br />

un’operazione culturale avviata ben prima del suo svolgimento e già<br />

pervasivamente diretta al medesimo scopo di “allontanamento” e<br />

“distrazione”. Tale operazione è agita dall’apparato tradizionale di<br />

inquadramento e gestione in termini patologici della questione<br />

criminale, di cui la criminologia positivista è stata una componente<br />

fondamentale, e che ora trova il suo luogo principale nella<br />

rappresentazione mediatica (tanto informativa quanto finzionale) del<br />

crimine 22<br />

(nel “dominio” penal-mediatico, come si dirà più avanti) e<br />

in molta parte di quella “cultura popolare” che vi trova espressione e<br />

assecondamento.<br />

Nel libro di Ceretti e Natali, del resto, è proprio la mobilitazione<br />

dell’idea di “cosmologia” a configurarsi come “un concetto<br />

sensibilizzante finalizzato a r estituire senso alle condotte umane<br />

(violente) al di là di ogni rigida e formale distinzione fra normalità e<br />

sofferenza psichica. Non esiste un gesto violento, un’aggressione<br />

fisica, un attacco al corpo, per quanto ‘folle’ e cruento, che non<br />

implichi una cosmologia”. Anche la follia omicida atroce sarà spiegata<br />

più che come il frutto di un disturbo cerebrale, di una malattia morale,<br />

della perdita della ragione, di un invasamento divino, come “esserealtrimenti,<br />

come forma autonoma e idiosincratica, ma tutt’altro che<br />

priva di senso che aggredisce la congenita vulnerabilità della<br />

dimensione corporeo-esistenziale della persona sottoposta al potere<br />

23<br />

globale e totalizzante di un gesto di dominio violento”.<br />

Coerente con questo disegno è dunque, nel libro, l’analisi del<br />

rapporto tra violenza e malattia psichica. Vi viene respinta “la pretesa<br />

che i ‘violenti’ siano per lo più ‘disorganizzati’, i cui atti ‘efferati’ e<br />

‘distonici’ risulterebbero rivelatori di patologie” e si ricorda che “i<br />

22 Per un’ampia trattazione di questi temi, rinviamo complessivamente ai saggi raccolti nel volume: La<br />

televisione del crimine, a cura di Gabrio Forti e Marta Bertolino, Vita e Pensiero, Milano 2005. Il tema<br />

ha trovato ampia emersione anche nel recente convegno, a cu ra del Centro Studi “Federico Stella”,<br />

sulla giustizia penale e la politica criminale dell’Università Cattolica di Milano, Narrazioni della<br />

giustizia, giustizia della narrazione, 12 maggio 2011, i cui Atti sono in corso di pubblicazione. Come<br />

osservano Ceretti e Natali (op. cit., p. 369) “se si guarda dunque ai mass media concependoli quali<br />

‘mondi sociali’ che includono o escludono, uniscono o dividono le persone, risulta chiaro che<br />

l’emergere di un sistema di informazioni unico su scala globale, sempre accessibile a tutti, ha avuto<br />

profonde ricadute sui diversi gruppi sociali che fino alla sua comparsa erano stati fondamentalmente<br />

influenzati – in ogni angolo della terra – dalle loro culture di appartenenza a una classe, a un gruppo<br />

etnico e a un’area territoriale”.<br />

23 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 320.<br />

33


principali studi di ricercatori assai autorevoli convergono<br />

nell’affermare che, pur esistendo una moderata ma significativa<br />

associazione tra violenza e disturbo mentale, essa non è ‘creata’ dalla<br />

malattia, ma in qualche modo è un a caratteristica temperamentale o<br />

della personalità che pre-esiste alla malattia stessa e, in tale<br />

condizione, non è più controllabile”. 24 Si tratta del resto di<br />

immunizzarsi da “movimenti espulsivi”, di non “tornare a cadere in<br />

quella trappola che considera chi ha commesso delitti brutali come<br />

inevitabilmente ‘altro’. In costoro parla e ha il sopravvento qualcosa<br />

che esiste anche in noi e che possiamo riconoscere: il male, appunto.<br />

In ‘loro’ agisce ‘[...] quella stessa parte cattiva e malvagia’ che esiste<br />

in ogni persona e che drammaticamente li unisce a noi nello stesso<br />

momento in cui disperatamente li vogliamo allontanare, etichettandoli<br />

come ‘diversi’, ‘malati’, ‘mostruosi’”. 25<br />

È anche all’interno di questa prospettiva che si svolge il filo<br />

narrativo comune ai due testi che sto qui accostando. La narrazione<br />

vuole restituire il discorso comunicativo originario della violenza,<br />

affrancato dalla rimozione penale-mediatica. La storia raccontata dalla<br />

letteratura è una storia singolare, che si deve a qualcuno – lo scrittore<br />

26<br />

– “che presta attenzione al mondo”, “e perciò cerca di capire, di<br />

assimilare la malvagità di cui sono capaci gli esseri umani, senza<br />

24 Ivi, p. 324. Per una attenta analisi dell’opera di Ceretti e Natali alla luce delle categorie penalistiche<br />

del dolo e dell’imputabilità, cfr. Pierpaolo Astorina, Spunti per una lettura interazionistica del dolo e<br />

dell’imputabilità, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, n. 4, 2010, pp. 1849 e sgg.<br />

25 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 379.<br />

26 Susan Sontag, Nello stesso tempo, cit., pp. 168, 186: “La letteratura si potrebbe descrivere come la storia del<br />

modo in cui gli uomini rispondono a ciò che è vivo e a ciò che è destinato a morire, man mano che le culture si<br />

evolvono e i nteragiscono l’una con l’altra. Gli scrittori possono fare qualcosa per combattere i cliché che<br />

amplificano la nostra separatezza, la nostra differenza, perché gli scrittori sono creatori, e non soltanto<br />

trasmettitori, di miti. La letteratura non offre soltanto miti, ma anche contro-miti, così come la vita offre controesperienze<br />

– esperienze che rimettono in gioco ciò che credevamo di pensare, di sentire, o di credere. Uno<br />

scrittore, a m io parere, è qualcuno che presta attenzione al mondo. E perciò cerca di capire, di assimilare la<br />

malvagità di cui sono capaci gli esseri umani, senza essere corrotto – reso cinico, o superficiale – da tale<br />

comprensione. La letteratura può dirci come è fatto il mondo. La letteratura può offrire i modelli e trasmetterci<br />

conoscenze profonde, incarnate nel linguaggio e nella narrazione. La letteratura può allenare e tenere in esercizio<br />

la nostra capacità di piangere per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi. Cosa saremmo se non<br />

potessimo provare simpatia per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi? Cosa saremmo se non<br />

riuscissimo a dimenticare noi stessi, almeno parte del tempo? Cosa saremmo se non fossimo capaci di imparare?<br />

Di perdonare? Di diventare diversi da quelli che siamo? Raccontare una storia vuol dire: è questa la storia<br />

importante. Vuol dire ridurre l’estensione e la simultaneità del tutto a qualcosa di lineare, a un tragitto. Essere un<br />

individuo morale significa prestare, essere obbligato a prestare, un certo tipo d’attenzione. Quando esprimiamo<br />

giudizi morali, non stiamo semplicemente affermando che una cosa è migliore di un’altra. Stiamo affermando, in<br />

modo ancor più fondamentale, che una cosa è più importante di un’altra. Ordiniamo la vertiginosa estensione e<br />

la simultaneità del tutto, a costo di ignorare o voltare le spalle a g ran parte di ciò che accade nel mondo. La<br />

natura dei giudizi morali dipende dalla nostra capacità di prestare attenzione: una capacità inevitabilmente<br />

limitata, i cui limiti si possono, però, forzare”.<br />

34


essere corrotto – reso cinico, o superficiale – da tale comprensione”:<br />

“raccontare una storia vuol dire: è questa la storia importante”.<br />

Richiamare la singolarità, attraverso il racconto, avvicina e non<br />

allontana l’Altro, perché è attraverso la percezione del senso unico di<br />

ogni destino che c i si sottrae alla “categorizzazione”, tanto clinica<br />

quanto giudiziaria, 27 e coglie una comune umanità, data appunto,<br />

paradossalmente, dalla diversità di ognuno, specchio della sua e della<br />

nostra libertà, della sua e della nostra possibilità di infinita<br />

metamorfosi. “Ognuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo, e il<br />

mondo è prezioso perché è pieno di tali centri. Questo è il senso della<br />

parola uomo: ognuno un centro a fianco di innumerevoli altri, i quali<br />

lo sono quanto lui.” 28<br />

Tutto questo diviene allora il presupposto per il recupero, attraverso<br />

un’attenzione alle cosmologie individuali (e, dunque, anche alla<br />

dimensione comunicativa della violenza) di un’antropologia del male,<br />

proprio come nella sua Lettera a un Presidente (indirizzata al<br />

29<br />

presidente della Repubblica Ceca Václav Havel nel 1995), si<br />

sforzava di fare lo scrittore Iosif Brodskij. Nell’invitare il suo illustre<br />

27 Cfr. Adolfo Ceretti, Come pensa il Tribunale per i minorenni, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 33 e<br />

sgg.: “Se si segue il percorso tracciato da queste parole si può andare ben oltre, e pensare al giudice<br />

quale portavoce autorizzato a compiere, tra l’altro, anche un atto di comunicazione particolare: quello<br />

di intervenire in quella complessa operazione che conduce a significare a qualcuno la propria identità.<br />

Il giudice infatti impone sempre un nome (‘condannato’, ‘prosciolto’, ‘immaturo’, ‘maturo’, ‘capace’,<br />

‘incapace’, ‘responsabile’, ‘non responsabile’, ‘imputabile’, ‘non imputabile’, ecc.), che è anche<br />

un’essenza sociale, dichiarandolo innanzi a tutti, e attribuisce così con autorità una qualità ad un<br />

determinato soggetto. Siamo di fronte a un atto di categorizzazione (in greco kategoresthai significava<br />

appunto accusare pubblicamente) che tende a p rodurre ciò che esso designa. Ma spesso l’atto di<br />

comunicazione-categorizzazione va ben oltre questi confini. Con il pretesto di ‘spiegare’ un fatto di<br />

reato si tende difatti a giudicare in modo sempre più ricorrente gli ‘istinti’, i ‘ complessi’, i<br />

‘disadattamenti’, gli ‘effetti dell’ambiente’ riguardanti il reo. Il primo esito di tale operazione è quello<br />

di far sì che alcuni fatti biografici vengano ritagliati e tradotti in giudizi di valore travestiti da<br />

anamnesi psicologiche; il secondo effetto è che il magistrato, oltre che un giudizio sulla colpevolezza<br />

arriva a formulare un apprezzamento di normalità e una prescrizione tecnica per una possibile<br />

normalizzazione”.<br />

28 Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 325 (che cita Elias Canetti, La<br />

coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1976, p. 84): “il senso delle ‘esperienze’ di ciascuno è sempre<br />

personale: È un’adesione alla vita, forma del desiderio e trama di risonanze che ‘significano<br />

qualcosa’ solo per me” (qui la citazione è d a Paolo Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Carocci,<br />

Roma 2008, p. 177 ed entrambe seguono a un brano tratto dal film Pulp Fiction).<br />

29 La lettera, pubblicata sulla “New York Review of Books”, fu scritta in risposta a una conferenza di<br />

Václav Havel apparsa il 27 maggio 1993 sulla medesima rivista ed è ora pubblicata in traduzione in<br />

Iosip Brodskij, On Grief and Reason, Farrar, Straus, and Giroux, New York 1997; tr. it. Profilo di<br />

Clio, Adelphi, Milano 2003.<br />

35


interlocutore a s ottrarsi alla “comoda” 30 identificazione, nel passato<br />

dell’Europa orientale, di un problema di comunismo o altri -ismi (che<br />

sempre suggeriscono “l’estraneità di un f enomeno”), e a vedervi<br />

piuttosto una caduta antropologica, 31<br />

“un problema umano, un<br />

problema della nostra specie, e qui ndi di natura costante”, Brodskij<br />

faceva appello proprio alla sensibilità di scrittore di Havel. Lo<br />

scrittore dovrebbe infatti raccogliere la sollecitazione a non “usare una<br />

terminologia che oscura la realtà del male nell’uomo – una<br />

terminologia, vorrei aggiungere, inventata dal male per nascondere la<br />

sua vera identità”.<br />

La critica di questa “terminologia” coincide ampiamente con la<br />

critica della più generale tendenza del moderno a costruire in termini<br />

razionali la violenza. Una tendenza, come scrive Reemtsma, avallata<br />

30 Ivi, p. 209: “A tutt’oggi, la parola ‘comunismo’ risulta comoda, perché un -ismo suggerisce un fait<br />

accompli. Nelle lingue slave specialmente, un -ismo, come lei sa, suggerisce l’estraneità di un<br />

fenomeno, e quando la parola che contiene l’-ismo denota un sistema politico, il sistema è percepito<br />

come un’imposizione. È vero, il nostro -ismo particolare non è stato concepito sulle rive del Volga o<br />

della Vltava, e il fatto che lì sia fiorito con straordinario vigore non rivela l’eccezionale fertilità del<br />

nostro suolo, perché è fiorito con uguale intensità a differenti latitudini e in zone culturali<br />

estremamente diverse. Il che suggerisce non tanto un’imposizione quanto le origini organiche, per non<br />

dire universali, del nostro -ismo”. [...] “Così come sarebbe davvero scomodo – specificamente per i<br />

cowboy delle democrazie industriali occidentali – riconoscere nella catastrofe che si è verificata sul<br />

territorio degli indiani d’America il primo grido della società di massa: un grido, per così dire, dal<br />

futuro del mondo, e riconoscerla non solo come un -ismo ma come una voragine che si è spalancata<br />

improvvisamente nel cuore umano, a inghiottire onestà, compassione, civiltà, giustizia, e che, una<br />

volta saziata, ha presentato al pur sempre democratico esterno una superficie monotona,<br />

ragionevolmente perfetta”. [...] “I cowboy, però, odiano gli specchi, non fosse altro perché in essi<br />

potrebbero riconoscere gli indiani arretrati più prontamente di quanto farebbero guardandosi intorno.<br />

Per cui preferiscono montare i loro alti cavalli, scrutare gli orizzonti senza indiani, deridere<br />

l’arretratezza degli indiani, e d erivare un enorme conforto morale dall’essere considerati cowboy –<br />

anzitutto dagli indiani stessi”.<br />

31 Ivi, pp. 209 e sgg.: “Perché non cominciamo semplicemente ad ammettere che nel nostro mondo, in<br />

questo secolo, si è verificata una spaventosa caduta antropologica, indipendentemente da chi o da che<br />

cosa l’abbia scatenata? Una caduta tale da coinvolgere masse che agivano per il proprio interesse e<br />

che, mentre lo facevano, riducevano il loro comun denominatore a una moralità infima? E che<br />

l’interesse personale delle masse – la stabilità della vita e i suoi standard, ugualmente ridotti – è stato<br />

ottenuto a sp ese di altre masse, benché numericamente inferiori? Da qui il numero dei morti. È<br />

comodo trattare queste cose come un errore, come un’orrenda aberrazione politica, magari imposta a<br />

esseri umani da un a nonimo altrove. È anche più comodo se quell’altrove porta un ve ro nome<br />

geografico o un nome che suona straniero, le cui lettere oscurano la sua natura assolutamente umana.<br />

È stato comodo costruire flotte e difese contro quell’aberrazione – come è comodo smantellare quelle<br />

difese e quelle flotte ora. È comodo, voglio aggiungere, riferirsi oggi a q uelle cose in modo civile,<br />

Signor Presidente, da un pulpito, anche se non metto in dubbio neppure per un istante la schiettezza<br />

della sua civiltà che, sono convinto, è la sua vera natura. È stato comodo avere a portata di mano un<br />

esempio vivente di come non far funzionare le cose a questo mondo, e dotare tale esempio di un -ismo,<br />

come è comodo dotarlo oggi di know-how e di un ‘post-’. (E si può facilmente immaginare il nostro -<br />

ismo, impreziosito dal suo post-, entrare comodamente, sulle labbra dei cretini, nel porto del futuro)”.<br />

36


anche dagli storici, che in tal modo cercano di preservare la fiducia in<br />

se stessa della modernità, ma allo stesso tempo impediscono di<br />

imparare dalle catastrofi del Novecento e di imparare in particolare<br />

quanto la violenza non sia semplicemente un mezzo sbagliato, ma sia<br />

una forma di comunicazione. 32<br />

3. Il “dominio” penale-mediatico<br />

Dagli “incroci riflessivi” tra le due intense interpretazioni del tema<br />

della violenza qui considerate, vorrei trarre alcuni spunti di analisi del<br />

libro di Ceretti e Natali: certo solo una minuscola frazione di quelli<br />

che potrebbero snodarsi attraverso il ricchissimo, per molti versi<br />

inesauribile, repertorio di studio offerto da quest’opera.<br />

Mi soffermo innanzitutto su un aspetto, che mi pare assai<br />

significativo. Nel momento in cui l’attore violento parla con la<br />

“comunità fantasma”, non sta semplicemente sviluppando un discorso<br />

interiore con le sue figure di riferimento, ma adatta ai mondi sociali<br />

ciò che di violento fa, ha f atto o si accinge a fare. La comunità<br />

fantasma con cui dialoga è a nche un mezzo comunicativo con<br />

l’esterno, con l’ambiente umano di cui si serve l’agente o nel cui<br />

contesto la sua condotta si inserisce.<br />

È chiaro che qui non aggiungo niente a ciò che già si dice nel libro,<br />

quando ci si riferisce al “processo dinamico attraverso il quale uomini<br />

e donne, sotto quell’ampia volta delineata dall’interazione vivente fra<br />

sé e i mondi sociali abitati, si determinano fino a seguire linee violente<br />

d’azione”: un processo che è articolato nei movimenti di una attività<br />

riflessiva “che si inanella e s i compenetra nel flusso continuo del<br />

soliloquio/conversazione interiore”, che media “sempre, e in modo<br />

selettivo, (1) l’‘individuo biologico’, lo ‘slancio vitale’ e l’‘I’, 33<br />

(2) le<br />

‘percezioni’ e gli ‘sfondi prospettici’, (3) le ‘interpretazioni della<br />

situazione’, (4) le ‘emozioni’, (5) i ‘desideri’, (6) i ‘mondi sociali’ e<br />

(7) il ‘tempo’, facendo convergere e co ncentrando questo pluriverso<br />

32<br />

Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 450.<br />

33<br />

Nel lessico dell’interazionismo meadiano, l’“I” “rappresenta l’impulso ad agire dell’organismo, che<br />

non può essere conosciuto in anticipo in quanto si concreta solo nel momento della realizzazione<br />

dell’atto stesso. L’azione dell’‘I’ [...] è qualcosa la cui natura non possiamo definire in anticipo”. Tutta<br />

la nostra individualità proviene dall’I, “che è il serbatoio del nostro ‘senso di libertà e di iniziativa’”<br />

(Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 108)<br />

37


nel punto in cui si attivano alcune condotte (incluse quelle<br />

distruttive)”. 34<br />

In questo contesto, uno dei “movimenti”, dei “fotogrammi”, è<br />

costituito appunto dai “mondi sociali”. L’idea di “causalità<br />

35<br />

processuale” da cui è ispirata la costruzione teorica del libro non può<br />

peraltro che configurare un’attività riflessiva nella quale i soggetti non<br />

solo ascoltano e recepiscono tali mondi sociali, le culture in cui sono<br />

immersi, ma a qu esti mondi si rivolgono, parlano e da essi si<br />

attendono un ascolto. 36 Si ha cura infatti di precisare che “le strutture<br />

socioculturali influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività<br />

interna della persona, la quale deve introdurre i dati del contesto<br />

esterno nelle sue strategie e fare i conti con esse [...] Non si tratta di un<br />

condizionamento dall’esterno che causi direttamente l’agire umano”. 37<br />

Il percorso di lettura qui proposto, spero non troppo arbitrario,<br />

intende raccordare queste considerazioni alla parte iniziale del libro,<br />

nella quale si esprime adesione per le pagine del famoso saggio di<br />

38<br />

Walter Benjamin sulla violenza, ritenute “capaci di cogliere proprio<br />

quella ‘ambiguità demoniaca’ che lega il diritto alla violenza” e di<br />

esprimere una “corrosiva critica del sistema giudiziario”. 39<br />

La<br />

34<br />

Cfr. ivi, pp. 342-343.<br />

35<br />

Cfr. per esempio ivi, pp. 255 e sgg.<br />

36<br />

Ivi, p. 366.<br />

37<br />

Ivi, p. 366, con rif. a Pierpaolo Donati, La conversazione interiore. Un nuovo paradigma<br />

(personalizzante) della socializzazione, in Margaret S. Archer, La conversazione interiore, Erickson,<br />

Gardolo 2006, p. 12. “La riflessività interna è il missing link che opera la mediazione fra le strutture di<br />

dominio e il modo in cui, con le nostre deliberazioni, ci collochiamo rispetto a esse: ‘una volta che<br />

abbiamo stabilito riflessivamente il da farsi, ossia il tipo di attori che intendiamo diventare, dobbiamo<br />

anche farci carico del dato oggettivo rispetto a ci ò che possiamo e ch e non possiamo fare, data la<br />

società in cui ci troviamo’”.<br />

38<br />

Cfr. Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II.1,<br />

Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, pp. 179-203. Citiamo questa battuta, con cui Benjamin introduce<br />

la sua riflessione sulla violenza, nella traduzione italiana: Walter Benjamin, Per la critica della<br />

violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1976, p. 9. Su questo saggio, cfr. da<br />

ultimo Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, pp. 61-68. In argomento,<br />

assai rilevanti sono le riflessioni di Jacques Derrida, Force de loi, Galilée, Paris 1994; tr. it. Forza di<br />

legge, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 86 e sgg., in particolare nel passo (ivi, p. 129), in cui si<br />

dice che per Benjamin “ciò che fa il valore dell’uomo, del suo Dasein e della sua vita, è il contenere la<br />

potenzialità, la possibilità della giustizia, l’avvenire della giustizia, l’avvenire del suo essere giusto, del<br />

suo dover-essere giusto. Ciò che è sacro nella sua vita, non è la vita ma la giustizia della sua vita”.<br />

39<br />

Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 34. Cfr. Walter Benjamin, Per la<br />

critica della violenza, cit., pp. 23 e sgg.: “creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di<br />

immediata manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio<br />

di ogni diritto mitico. Quest’ultimo principio ha un’applicazione estremamente grave di conseguenze<br />

nel diritto pubblico. Nell’ambito del quale la fissazione dei confini, come è attuata dalla ‘pace’ di tutte<br />

le guerre dell’età mitica, è l’archetipo della violenza creatrice di diritto. In essa appare nel modo più<br />

38


iflessione benjaminiana trova infatti il suo “focus tematico” nella<br />

“relazione tra violenza, giustizia e diritto, questi ultimi intesi come gli<br />

ambiti in cui si definiscono quei rapporti morali all’interno dei quali<br />

una causa agente può essere detta violenta”. 40<br />

Particolarmente illuminante in proposito mi pare il passo del libro di<br />

Ceretti e Natali in cui si esprime l’esigenza di “osservare/registrare,<br />

senza rimanerne accecati, la ‘cosmogonia’ di quel percorso che<br />

trasforma la violenza originaria – in-fondata e in-giustificata – in forza<br />

legittima. È quando il singolo ‘rinuncia’ a vendicarsi spontaneamente<br />

e inizia a riconoscere l’autorità del sovrano che la ‘legge’ marca la<br />

perdita di un ‘prima’ spazio/temporale – contrassegnato dall’assenza<br />

dell’ordine della rappresentanza politica – e acquisisce la forza di<br />

regolamentare le relazioni umane – e finanche la morte, per mezzo<br />

della pena capitale. Nel viraggio dalla violenza ‘fondatrice’ a quella<br />

41<br />

‘conservatrice del diritto’, la prima viene sepolta, celata dietro le<br />

quinte dell’apparato giudiziario. La seconda può, a partire da u n<br />

momento preciso, opporsi a vi olenze individuali e/o collettive che<br />

minacciano lo stesso diritto”. 42<br />

Richiamandosi qui, come anche in<br />

chiaro che è il potere (più del guadagno anche più ingente di possesso) che deve essere garantito dalla<br />

violenza creatrice di diritto. Dove si stabiliscono confini, l’avversario non viene semplicemente<br />

distrutto; anzi, anche se il vincitore dispone della massima superiorità, gli vengono riconosciuti certi<br />

diritti. E c ioè, in modo demonicamente ambiguo, pari diritti: è la stessa linea che non deve essere<br />

superata dai due contraenti. Dove appare, nella sua forma più temibile e o riginaria, la stessa mitica<br />

ambiguità delle leggi che non possono essere ‘trasgredite’, e di cui Anatole France dice satiricamente<br />

che vietano del pari ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti” (ivi, pp. 25 e sgg.).<br />

40 Fabrizio Desideri e M assimo Baldi, Benjamin, cit., pp. 61 e sgg. Cfr. anche Axel Honneth, Eine<br />

geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen. Zu Benjamins “Kritik der Gewalt”, in Axel Honneth,<br />

Pathologien der Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007, pp. 112 e sgg.<br />

41 Per Benjamin nel tempo presente la violenza può essere tematizzata solo in due forme strettamente<br />

connesse all’istituzione giuridica, ossia quella della Rechtsseztung (la posizione, la creazione del<br />

diritto), e la Rechtserhaltung (la conservazione del diritto). E la sua idea è che il diritto non sia<br />

separato dalla violenza perché esso dipende dalla minaccia e dalla inflizione della violenza necessarie<br />

sia per la sua istituzionalizzazione, sia per la sua riproduzione. “La funzione della violenza nella<br />

creazione giuridica è […] duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue, ciò che viene<br />

instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure – nell’atto di insediare come<br />

diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè<br />

immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non<br />

già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e n ecessariamente legato ad<br />

essa. Creazione di diritto è creazione di potere, e i n tanto un atto di immediata manifestazione di<br />

violenza”; “la legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice<br />

indebolisce, a l ungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza<br />

creatrice che è rappresentata in essa” (Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 23, 27).<br />

42 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 34. “Questi passaggi rivelano, però,<br />

un’opacità che è ben rappresentata dall’ambiguità del termine Gewalt, che, come avverte Renato<br />

Solmi in una nota della sua curatela del testo di Benjamin, sta a indicare, in tedesco, tanto ‘violenza’<br />

quanto ‘autorità’, ‘potere’: il gesto violento che interrompe lo stato di natura fonda in un preciso<br />

39


precedenza, a Derrida, gli autori concludono che “il diritto tende a<br />

rimuovere la violenza che lo precede”, visto che “essa ricompare<br />

come sintomo nella violenza conservatrice. Tutto ciò mostra che il<br />

concetto di violenza appartiene al diritto e che il diritto è inseparabile<br />

dalla violenza”. 43<br />

La questione su cui vorrei (sia pure solo per accenni) soffermarmi<br />

non riguarda allora solo o tanto la “‘cosmogonia’ di quel percorso che<br />

trasforma la violenza originaria – in-fondata e in-giustificata – in forza<br />

legittima”, quanto il rapporto che potrebbe ricostruirsi tra il risultato di<br />

questa cosmogonia, ossia appunto “la forza divenuta legittima”, e<br />

un’altra cosmogonia: quella da cui deriva la generazione delle<br />

cosmologie violente (o non violente) nel singolo attore. C’è insomma<br />

da interrogarsi sul significato per cui nel tempo presente la violenza<br />

44<br />

può “essere tematizzata solo nella forma del diritto” (e quindi, della<br />

politica del diritto e d ella politica criminale, che è poi il cuore più<br />

espressivo della politica).<br />

Io credo che un primo passaggio per comprendere questa<br />

tematizzazione possa essere compiuto facendo ricorso alla categoria<br />

45<br />

del “dominio”, secondo la lettura athensiana riferita nel libro, e alla<br />

sua applicazione in particolare al diritto, pensato in modo connesso<br />

alla violenza e alla assunzione del suo monopolio.<br />

La prospettiva processuale e circolare dei nessi causali e dei vettori<br />

di forza che possono legare diverse entità orienta gli autori del libro<br />

verso la considerazione secondo cui “esercitare il dominio comporta<br />

[…] l’assunzione cosciente/consapevole del ruolo altrui, e per farlo<br />

occorre avere sviluppato (e utilizzare) il linguaggio”.<br />

istante inaugurale l’‘autorità’, la quale potrà porre validamente la sua norma solo dopo aver trionfato e<br />

dopo avere sospeso, occultato la violenza fondatrice. È questo percorso che fa le leggi: ‘Creazione di<br />

diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza’”.<br />

46<br />

Ne consegue<br />

che il dominio “incorpora nel suo stesso funzionamento la socialità e<br />

l’assunzione di atteggiamenti altrui: questi ultimi operano, dunque,<br />

43 Ivi, p. 34.<br />

44 Cfr. Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen, cit., pp. 124 e sgg.<br />

45 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 166: “Tradizionalmente, i sociologi<br />

parlano di dominio riferendosi a un rapporto sociale di sovraordinazione o superiorità che un soggetto<br />

individuale o collettivo esercita su uno o più soggetti individuali o collettivi, nell’ambito di un sistema<br />

sociale che li comprende, avvalendosi di diverse forme e dosi di ‘potere’, di ‘autorità’: di ‘influenza’ e<br />

altri mezzi atti a condizionare 1’agire, 1’orientamento e la coscienza dei dominati”.<br />

46 Ivi, p. 173: “‘Gli animali [...] e tutte le piante possono [così] praticare solo una forma non conscia di<br />

dominio’, mancando loro quel ‘linguaggio significativo’ che permette di accedere alla sfera<br />

simbolica”.<br />

40


come parte del dominio, piuttosto che indipendentemente da esso.<br />

Forse, allora, è proprio perché gli esseri umani parlano e possono<br />

comunicare parole significative che superano gli animali nella<br />

capacità di dominare, anche con la violenza”. 47<br />

In altri termini, il dominio non potrebbe esercitarsi sui propri oggetti<br />

se questi non contribuissero essi stessi a dare forma, anche narrativa,<br />

ai linguaggi e ai saperi di cui il dominio si serve “per assoggettarli” a<br />

48<br />

sé. “Tutto ciò comporta che coloro che rivestono ruoli subordinati<br />

devono sempre assumere gli atteggiamenti di coloro che occupano<br />

quelli sovraordinati, e viceversa. Durante la costruzione di un atto<br />

sociale complesso, senza una reciproca assunzione di ruoli<br />

sovraordinati e subordinati nessuno, infatti, saprebbe cosa fare, e<br />

quando farlo.” 49<br />

Ci pare dunque, avendo presente la prospettiva benjaminiana del<br />

rapporto diritto-violenza, che questa nozione di dominio possa servire<br />

come chiave di lettura anche del “dominio giuridico” e, in particolare,<br />

del “dominio penale”. Già l’opera di David Garland, con le sue varie<br />

ascendenze culturali e scientifiche, ci ha (specialmente come giuristi,<br />

non sempre debitamente consapevoli di questa prospettiva “allargata”)<br />

resi avvertiti su un’idea – appunto “circolare”, “processuale” – di pena<br />

50<br />

come “istituzione sociale”, inserita “in una rete più ampia di azioni<br />

sociali e di significati culturali”, visto che “ogni istituzione è un luogo<br />

ben individuato in un più vasto terreno sociale, e s i relaziona<br />

costantemente con l’ambiente circostante, influenzandolo ed<br />

essendone costantemente influenzata, e mantenendo così un rapporto<br />

47<br />

Ivi, pp. 173-174<br />

48<br />

Ivi, p. 173: “Athens reputa […] che i rapporti sociali non siano espressione di un ‘ordine delle cose’<br />

strutturato e strutturante che ci precede e ci persuade, ma che si diano sostanzialmente quale esito di<br />

un incessante processo interpretativo e di una continua creazione simbolica a opera degli attori sociali.<br />

Quest’atteggiamento si riversa totalmente nella definizione che egli elabora di domination: ‘La<br />

costruzione di un’azione sociale complessa nel corso della quale alcuni partecipanti […] svolgono<br />

ruoli sovraordinati, altri ruoli subordinati, e ciascuno assume gli atteggiamenti altrui’”.<br />

49<br />

Ivi, p. 174: “In tal senso, le regole di condotta riguardanti i ruoli di dominio e di subordinazione, che<br />

vengono normalmente apprese in famiglia, a scuola e, più tardi, dai ‘capi’, quando si inizia a lavorare,<br />

sono le regole più importanti e incisive nella costituzione delle comunità-fantasma. L’insieme di<br />

queste regole identifica ‘chi’ sono i subordinati e ‘chi’ i sovraordinati, e quando e dove ci si deve<br />

adeguare ai desiderata dei dominanti”.<br />

50<br />

David Garland, Punishment and Modern Society, University of Chicago Press, Chicago 1993; tr. it.<br />

Pena e società moderna, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 326 e sgg., che definisce l’“istituzione<br />

sociale” i “significati stabiliti collettivamente, con i quali una società tratta i bisogni, le relazioni, i<br />

conflitti e i problemi che si presentano quotidianamente e che devono essere gestiti in modo ordinato e<br />

normato per consolidare e differenziare, con criteri ragionevoli, i rapporti interpersonali”.<br />

41


con il ‘mondo esterno’”, sicché “si dovrebbe imparare a inquadrare il<br />

fenomeno tanto nella sua integrità, ossia quale istituzione, quanto nel<br />

suo rapportarsi all’esterno, ossia quale istituzione sociale”. 51<br />

Il giuridico in generale, e il giuridico-penale in particolare, non<br />

si limitano dunque a imporsi a chi vi è soggetto, ma svolgono il ruolo<br />

di formante dell’io, di forza che ricompone il dissolto io moderno e<br />

tardo-moderno, imprimendogli la sua forma in modo che sia questa a<br />

esigere il diritto, a esprimere un bisogno interiore di diritto. E un tale<br />

bisogno, il quale scaturisce dalle dinamiche interazionistiche del<br />

dominio penale, si traduce in un bisogno di riduzione dell’io, in una<br />

spinta alla ricomposizione dell’io dissolto dentro lo schema, per<br />

esempio, della motivabilità all’osservanza, della conformità e della<br />

connessa configurazione dei rapporti sociali in termini di torti e<br />

ragioni, di obblighi e d iritti, di conformità e devianza. Una<br />

configurazione a quel punto pretesa, ambita, come linguaggio e<br />

“atteggiamento” operante quale “parte del dominio”.<br />

Potremmo dire dunque che il “dominio” del diritto (e, quindi,<br />

della penalità), si affermi alimentando il bisogno del diritto, che è un<br />

bisogno di sacrificio del corpo, dunque di violenza, quanto meno<br />

“autotelica”. Ma l’inscindibilità della violenza dal diritto comporta<br />

allora che l’assunzione del linguaggio del diritto si correli a una forma<br />

di legittimazione della violenza e, correlativamente, a un bisogno di<br />

diritto per comunicare la violenza; una comunicazione, a sua volta e<br />

circolarmente, legittimata dal suo rivestirsi di forme giuridiche o<br />

paragiuridiche. Questo mi pare allora debba comportare – e qui<br />

torniamo a B enjamin e all’ineludibilità di una tematizzazione della<br />

violenza nell’epoca moderna – che una critica della violenza debba<br />

passare attraverso una critica del diritto o, meglio ancora, di una<br />

critica del bisogno interiore del diritto che è indotto dalle forme stesse<br />

del diritto.<br />

Proprio il censimento e la critica di un crescente “bisogno<br />

popolare di diritto” si può dire sia emersa recentemente in modo<br />

esemplare (ossia con “la forza dell’esempio” portato grazie<br />

all’immaginazione) 52<br />

nelle parole dello scrittore spagnolo Xavier<br />

Marías, che ha identificato (prendendo spunto dagli psicologismi<br />

51<br />

Ivi, p. 328.<br />

52<br />

Cfr. Alessandro Ferrara, La forza dell’esempio, <strong>Feltrinelli</strong>, Milano 2008, pp. 71 e sgg.<br />

42


presenti in un recente progetto di riforma spagnolo relativo alle<br />

molestie sul lavoro) la tendenza corrente a rivestire di una coltre<br />

legalistica i r apporti e i conflitti sociali (tendenza non a caso<br />

ricondotta alla deleteria importazione in Europa di modelli culturali<br />

statunitensi). 53 E una critica a questa crescente e di ffusa operazione<br />

“gius-riduzionistica” della complessità delle situazioni e delle<br />

relazioni socio-culturali aveva già trovato anni fa una sua magistrale<br />

espressione nella lettera già citata di Iosif Brodskij, e in particolare nel<br />

passo (non a caso contiguo a quello dedicato alla critica degli “ismi”)<br />

in cui lo scrittore russo invitava Václav Havel a governare il suo paese<br />

sottraendosi all’“imitazione dei cow-boy”, perché “i cowboy credono<br />

alla legge, e riducono la democrazia all’uguaglianza del popolo di<br />

fronte alla legge: vale a dire, a una prateria ben pattugliata”. Il<br />

suggerimento avanzato dal premio Nobel russo al suo (insolitamente)<br />

colto interlocutore politico era di prendere le distanze da una visione<br />

legalistica dei rapporti sociali e culturali di impronta americaneggiante<br />

e di badare piuttosto alla “uguaglianza di fronte alla cultura”,<br />

attingendo gli “imperativi morali” dalla sua biblioteca piuttosto che<br />

dai suoi studi giuridici. 54<br />

La fulminante contrapposizione brodskijana tra i due modi di<br />

intendere la (e tendere alla) uguaglianza, del resto, potrebbe essere<br />

53 Javier Marías, Umiliazione, ostilità e dignità offesa. Se il codice penale diventa psicologo, in<br />

“Corriere della Sera”, 28 marzo 2010, p. 32. “Le leggi sembrano spingersi sempre più verso terreni<br />

paludosi e materie al di fuori della loro portata. In parte è per colpa dei cittadini di oggi che, seguendo<br />

come pecore l’esempio degli Stati Uniti, vogliono che ogni cosa sia regolamentata – mentre non tutto<br />

ha motivo di esserlo – e avere la possibilità di fare ricorso ogni volta che sono alle prese con un<br />

conflitto, per quanto minimo possa essere. Di fronte a un qua lsiasi inconveniente o di saccordo le<br />

persone hanno sempre più la tendenza a ricorrere a una immediata denuncia, senza quasi mai cercare<br />

di risolvere le cose da sole, o di dialogare con l’altro sull’oggetto della controversia, per raggiungere<br />

un accordo ragionevole. Verbi come ‘cedere’ o ‘accordare’ stanno cadendo in disuso. Le querele<br />

contro nuovi reati sono continue, e questo non è che un modo per limitare le libertà e penalizzare quasi<br />

tutto, e o vviamente mettere a t acere ogni minima spontaneità della vita. Si rischia una querela in<br />

qualunque momento, per ragioni realmente inimmaginabili. Non è raro ritrovarsi coinvolti in un guaio:<br />

‘Accidenti, sembra che abbia infranto la legge, commesso un crimine o un’infrazione’, si dicono molti,<br />

perplessi, quando si vedono recapitare una denuncia o una citazione inverosimile. Non si sa mai<br />

quando si è oltrepassata la linea rossa. È m olto difficile restare a tutti gli effetti dentro la legalità.<br />

Sicuramente avremo violato tutti la legge, sia voi che io”.<br />

54 Corsivi miei. Il brano immediatamente precedente a quello riportato nel testo mostrava una chiara<br />

allusione ironica all’allora presidente Ronald Reagan: “Perché non ci sono altri antidoti alla volgarità<br />

del cuore umano se non il dubbio e il buongusto, fusi nelle opere della grande letteratura così come<br />

nelle sue. Se il p otenziale negativo dell’uomo si manifesta perfettamente nel delitto, il p otenziale<br />

positivo si manifesta perfettamente nell’arte. Perché, lei potrebbe chiedere, non avanzo un simile<br />

eccentrico suggerimento al presidente del Paese di cui sono un cittadino? Perché non è uno scrittore; e,<br />

come lettore, spesso legge porcherie”.<br />

43


posta in correlazione con le odierne tendenze politico-criminali,<br />

spesso rivelatrici di quello che è stato detto “lo spirito letale” di una<br />

visione puramente legalistica e rivendicativa dei rapporti sociali, della<br />

fiducia riposta “in una falsa sicurezza”. 55<br />

Riprendendo una formulazione di Élémire Zolla, in Marías e<br />

Brodskij si potrebbe leggere una critica del diritto “dotata di senso”,<br />

visto che tale è quella che non si rivolga “al diritto stesso, che esprime<br />

semplicemente la continuità in se stessa d’una vita sociale, bensì al<br />

56<br />

bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo”. Un bisogno che non è<br />

55 Cfr. Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, a cura di Piergiorgio Donatelli, Carocci,<br />

Roma 2006, p. 104, che osserva come nello scrittore Charles Dickens “il senso risvegliato della nostra<br />

umanità” sia presente soprattutto nel senso della propria mortalità. “Per Dickens, ciò ha delle<br />

connessioni profonde con il vivere bene e con la nostra capacità di creare un mondo sociale decente,<br />

connessioni che emergono in molte delle sue storie. In Casa desolata (che riecheggia Amleto)<br />

1’assenza di un senso vivo della propria mortalità è connesso con lo spirito letale del mondo degli<br />

avvocati e co n la fiducia in una falsa sicurezza. In Il nostro comune amico il senso della propria<br />

mortalità si mostra nello spirito in cui coloro che non provano amore per un uomo, uno spregevole<br />

furfante, possono tuttavia adoperarsi per salvare la sua vita e ar rivare alle lacrime nello sforzo. In<br />

Canto di Natale (quarta strofa) c’è questo, detto dell’apparizione di Scrooge morto: ‘Giaceva nella sua<br />

casa vuota senza che né uomo né donna né bimbo potessero dire: «è stato buono con me in questa o in<br />

quella occasione, e in ricordo di una parola gentile io sarò gentile con lui»’”. Sulle origini del<br />

“comportamento stigmatizzante” in particolare nell’“angoscia per la propria debolezza”,<br />

nell’incapacità di fare i conti con le proprie paure e i n genere con l’idea che “la perfezione,<br />

l’invulnerabilità e il controllo sono aspetti basilari del successo in età adulta”, cfr. il recente libro di<br />

Marta Nussbaum, Not for Profit, Princeton University Press, Princeton 2010; tr. it. Non per profitto,<br />

Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 45 e sgg.<br />

56 Élémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, pp. 141 e sgg. “Il Cristo non c ritica il<br />

diritto come forza sociale, ma come impulso psichico e q uale regime magico inferiore ed errato<br />

dell’interiorità. Si eviti di provare il bisogno di sacrificare l’homo sacer, quale era diventata l’adultera<br />

evangelica, pur mantenendo la premessa mistica della monogamia più intransigente. Si c onsideri il<br />

bisogno di rivendicare il debito come un legamento magico da cui sciogliersi per essere pienamente<br />

liberi e g odere della propria gloria. Si accetti semmai la gara di donativi che si accende con un<br />

incontro per emergerne il più ilare donatore, aumentando la propria gloria. Così si perdonino le offese.<br />

Ma sussiste il bisogno di sacrificio, questo modo di comunicare col sacro non è el iminabile. Se si<br />

ricusa il sacrificio dell’homo sacer e i sacrifici del diritto (i risarcimenti, le pene), come comunicare<br />

col divino? Il sacrificio dello stesso Maestro come sostituto e vicario d’ogni vittima e c ondannato<br />

fornisce la risposta: la massima sacralità accetta la pena – l’onore (timé) della croce. Questa<br />

rivelazione tragica della natura intollerabile del sacro, della profondità abissale celata nella richiesta di<br />

giustizia, questa immolazione del più perfetto perché massimamente intollerabile, libera dalla bilancia<br />

delle pene e dei diritti. Il sangue di una tale vittima, voluta dalla sentenza massimamente ingiusta e<br />

massimamente necessaria, è il lavacro psichico e magico per eccellenza e scioglie dalla sudditanza al<br />

diritto. Una pagina di Cécile Bruyère, l’ultima mistica benedettina, illustra questa impresa interiore<br />

che può portare all’autonomia magica: ‘Avrete proprio ben progredito quando avrete dimostrato a voi<br />

stessi, fino all’evidenza, che c’è stata della durezza, dell’ingiustizia, dell’inquietudine [...]. Che<br />

consolazione ve ne può venire? A me non farebbe che del male, impedendomi di trarre dalla prova<br />

tutto ciò che ha di santificante. Ma, voi direte, questi pensieri mi vengono da soli, invadendomi e<br />

soverchiandomi. È vero; ma non credete che ci voglia una certa pulizia in casa propria? Codesti<br />

pensieri provengono d’altronde da una radice segreta che è questa: pur accettando la prova, vi<br />

attaccate a un apprezzamento umano di essa e serbate un fondo d’amarezza che a tratti rigermoglia. Se<br />

44


“dato” una volta per tutte, ma soggetto alla mutevolezza delle<br />

contingenze storico-sociali e che, nella forma normativa di<br />

riconoscimento 57<br />

dell’autonomia individuale, si presta a una<br />

manipolazione “ideologica” tanto più pervasiva, in quanto più subdola<br />

e incontrollabile.<br />

La riflessione sulla violenza di Walter Benjamin sembra poter<br />

trovare in particolare un suo attualizzato richiamo per esempio in<br />

rapporto alla crescente domanda di autodifesa (armata) da parte del<br />

58 59<br />

singolo. Anche in ambito sociologico la constatazione di una<br />

generale debolezza degli apparati statali, specificamente nel contrasto<br />

dei crimini commessi con atti di autotutela (per esempio di quelli che<br />

vi vengono chiamati “omicidi moralistici”), ossia finalizzati<br />

all’esercizio di qualche forma di controllo sociale, ha condotto a<br />

conclusioni che, pur senza richiamare testualmente il saggio<br />

benjaminiano (“uno dei più significativi documenti” del suo pensiero<br />

politico), 60 di questo possono offrire qualche aggiornata lettura. Ci si è<br />

così interrogati sulle ragioni di un r icorso tanto vasto a un<br />

risentimento espresso in forme così violente proprio in una società<br />

come quella americana, nella quale “il diritto è giunto a un tale elevato<br />

livello di sviluppo”. 61 Ciò anche in base alla constatazione di come la<br />

maggior parte degli omicidi moderni, al pari che nelle “società tribali<br />

e tradizionali” (dove spesso l’autotutela in forma violenta non è<br />

vietata, ma prescritta come metodo di controllo sociale), 62<br />

implichi<br />

invece d’essere così divisi soffocaste completamente ciò che non sia fede pura, i pensieri non vi<br />

germoglierebbero così a frotte’. Non si saprebbe indicare un metodo più accurato per condurre a<br />

termine l’operazione magica di liberazione dal bisogno del diritto”.<br />

57 Tra i differenti modelli di riconoscimento, a ciascuno dei quali “sono correlati specifici potenziali di<br />

sviluppo morale e differenti modalità di autorelazione individuale”, v’è quello del diritto: attraverso<br />

l’esperienza del riconoscimento giuridico il soggetto “consegue la possibilità di intendere il proprio<br />

agire come manifestazione, rispettata da tutti gli altri, della propria autonomia” (Axel Honneth, Kampf<br />

um Anerkennung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992; tr. it. Lotta per il riconoscimento, il Saggiatore,<br />

Milano 2002, pp. 114 e sgg.).<br />

58 Per una più ampia riflessione sul significato della crescente “domanda di autodifesa”, anche con<br />

riferimento alla nuova disciplina italiana della legittima difesa, rinviamo a Gabrio Forti, No Duty to<br />

Retreat? Legittima difesa e politiche criminali di “riconoscimento ideologico”, in Studi in onore di<br />

Mario Romano, Jovene Editore, Napoli 2011, pp. 297 e sgg.<br />

59 Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, Academic Press, San Diego 1993. Se ne<br />

legga anche l’istruttiva recensione di Roberta Senechal de la Roche, Beyond the Behavior of Law, in<br />

“Law & Social Inquiry”, vol. 20, n. 3, Summer 1995, pp. 777-785.<br />

60 Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, cit., p. 61.<br />

61 Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 39.<br />

62 Cfr. ivi, p. 28, con vari riferimenti alla letteratura antropologica.<br />

45


“una risposta a una condotta che l’omicida considera deviante”, “una<br />

punizione o un’espressione di disapprovazione”. 63<br />

Se ne è tratta la conclusione che “nelle società moderne lo Stato ha<br />

conseguito solo teoricamente il monopolio dell’uso legittimo della<br />

violenza” e c he in realtà la violenza è in piena espansione<br />

(specialmente nell’America moderna) e per lo più riguarda cittadini<br />

comuni, “che apparentemente considerano la propria condotta un<br />

esercizio perfettamente legittimo del controllo sociale”:<br />

64 “molte<br />

persone ancor oggi ‘prendono la legge nelle proprie mani’ e sembrano<br />

ritenere i propri risentimenti come una faccenda privata, che non<br />

riguarda la polizia o altre autorità e anzi è ostile all’intervento della<br />

legge”. 65<br />

L’attenzione a una prospettiva di causalità circolare e all’idea di un<br />

“dominio penale” suggerisce peraltro anche qui di non accontentarsi,<br />

per la spiegazione di queste dinamiche, del consueto richiamo di una<br />

crescente insofferenza per la regolazione statuale e, in generale, per il<br />

diritto. Tutt’al contrario, proprio nella pretesa dei cittadini comuni di<br />

prendere la giustizia nelle proprie mani, potrebbe ravvisarsi piuttosto<br />

il segno di accresciuto bisogno popolare di diritto, nella forma<br />

addirittura di un’aspirazione del singolo ad appropriarsi del “pensare<br />

66<br />

giuridico” e, in ispecie, punitivo, ciò nel tentativo di rimediare a<br />

63<br />

Ivi, p. 31: “Molte delle condotte qualificate e trattate come crimini nelle società moderne presentano<br />

somiglianze con le modalità di gestione dei conflitti [...] rinvenibili nelle società tradizionali in tutto o<br />

in parte prive di un diritto (nel senso di un controllo sociale pubblico)”. L’affermazione viene<br />

corredata da dati statistici sugli omicidi, dai quali risulta che, per esempio, a Houston nel 1969 oltre la<br />

metà degli omicidi si è verificata durante un alterco e un altro quarto, asseritamente, per autodifesa o a<br />

seguito di una provocazione. Analoghe caratteristiche sono state riscontrate nell’arco di un<br />

quinquennio negli omicidi perpetrati a Filadelfia (cfr. Marvin E. Wolfgang, Patterns in Criminal<br />

Homicide, Wiley, New York 1966, p. 191). In esito a t ale studio si sono propriamente collocati i<br />

crimini violenti “nella stessa famiglia del diritto”, considerato che questi delitti esprimono spesso un<br />

“risentimento (grievance)”. Il che comporterebbe “che in un gr ado significativo noi abbiamo la<br />

possibilità di predire e spiegare il crimine con una teoria sociologica del controllo sociale, e più<br />

specificamente con una teoria dell’autotutela (self-help)” (Donald J. Black, The Social Structure of<br />

Right and Wrong, cit., p. 41).<br />

64 Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 36.<br />

65 Ivi, p. 37.<br />

66 Cfr. Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., pp. 37 e sgg., che sintetizzano la<br />

molteplicità di spiegazioni sociologiche del “moltiplicarsi vertiginoso della domanda di diritto”, da<br />

mettere in relazione “con la moltiplicazione delle opportunità di conflitto dovute alle profonde<br />

trasformazioni sul piano socioeconomico, all’aumento delle comunicazioni, agli scambi sociali, alla<br />

crescita del numero di beni in circolazione che hanno favorito il passaggio da un modello universalista<br />

‘geocentrico’, che impone le medesime regole a tutti i cittadini di una data nazione, a un modello<br />

giuridico ‘egocentrico’, particolarista, dove ogni soggetto vede regolamentate le relazioni giuridiche<br />

che lo riguardano sulla base di un c odice giuridico distinto. Ciascuna professione, ciascun tipo di<br />

46


un’anomia che si presenta come disgregazione delle forme più stabili,<br />

durature e profonde di riconoscimento interpersonale.<br />

Può essere interessante richiamare a questo proposito uno studio di<br />

qualche anno fa 67 nel quale si è i nsistito soprattutto, ai fini della<br />

spiegazione degli alti tassi di omicidio americani, sul clima culturale<br />

orientato a offrire una legittimazione morale all’omicidio, concepito<br />

dalla società come risposta moralmente accettabile anche rispetto a<br />

lievi provocazioni o “alterchi banali”. “È in particolare nella creazione<br />

di un’atmosfera tollerante verso il confronto che la cultura americana<br />

incoraggia inconsapevolmente chi appartiene agli strati inferiori a<br />

varcare la linea e a r icorrere all’omicidio. È proprio qui che l’ethos<br />

dominante desensibilizza la popolazione nei confronti dell’omicidio.”<br />

Nella cultura contemporanea delle classi lavoratrici (peraltro ancora<br />

legata a “sensibilità pre-moderne”), si è identificata “una attrazione<br />

morale e sensuale a fare il male”, a concepire l’omicidio come una<br />

“esecuzione ‘giusta’ (ossia morale)”, dalla quale “il rimorso e il<br />

rammarico sono largamente rimossi”. 68<br />

Nello studio citato, si è av anzata l’ipotesi che l’enorme<br />

differenziale nei tassi di omicidio, in particolare tra gli Stati Uniti e<br />

l’Inghilterra, possa derivare da un diverso grado di socializzazione nei<br />

due paesi a provare rimorso e vergogna per aver causato la morte di<br />

una persona. E che questo dato possa essere desunto dalla frequenza di<br />

“autentiche espressioni di rimorso tra gli autori di omicidio”. Si<br />

afferma così che in America gli autori di omicidi tendono con<br />

maggiore frequenza a descrivere i propri atti “in termini di<br />

soddisfazione e g iustificazione, quasi rappresentassero il successo<br />

principale, non il fallimento fondamentale delle loro esistenze”. Si<br />

rinverrebbe nelle loro parole una “ mistica eroica e maschilista”,<br />

contrapposta al persistente rimorso da cui sarebbero perseguitati anche<br />

a distanza di anni gli omicidi inglesi. Sarebbero dunque le differenze<br />

attività produce ‘suoi’ codici, la ‘sua’ etica, la ‘sua’ deontologia, che funzionano in relativa autonomia<br />

nei confronti delle norme generali. Visualizzando questo pluralismo giuridico lo si può intendere<br />

composto da una molteplicità di recinti giuridici, il che fuor di metafora significa dei veri e propri<br />

schermi protettori per i loro membri, i quali fìniscono però col porre in una posizione molto<br />

vulnerabile, senza scudi protettivi, tutti coloro che non ha nno un’appartenenza corporativa e non<br />

possono beneficiare di norme particolari volte a proteggere i loro interessi”.<br />

67<br />

Cfr. Elliot Leyton, Men of Blood. Murder in Modern England, Penguin, London 1997, passim e<br />

spec. pp. 207 e sgg.<br />

68<br />

Ivi, p. 212, che qui riprende Jack Katz, Seductions of Crime: Moral and Sensual Attractions in<br />

Doing Evil, Basic Books, New York 1988, pp. 44, 19, 22, 31, 39.<br />

47


culturali a “regolare” le modalità di legittimazione dei propri misfatti e<br />

alla cultura inglese sarebbe riuscito infinitamente meglio rispetto a<br />

quella americana di “socializzare le classi inferiori”. Come “prova<br />

finale” di una minore soglia della vergogna tra gli autori di omicidi<br />

americani, Leyton assume la inferiore percentuale di suicidi tra tali<br />

soggetti rispetto agli “omologhi” inglesi. “È quando l’assassino, lungi<br />

dall’esultare per il proprio trionfo, o dall’esprimere dolore (finto o<br />

genuino), prova di sentire un profondo rimorso suicidandosi” che<br />

dimostra di avere interiorizzato pienamente una cultura che ripudia<br />

l’omicidio. 69<br />

70<br />

Ceretti e Natali ricordano del resto le interviste fatte a t renta<br />

ragazzi della Catalina Mountain School, di Tucson, in Arizona,<br />

rivelatrici dell’“attrazione seduttiva esercitata dalle pistole, che per i<br />

giovani assume anche dimensioni morali e politico-economiche”: 71<br />

“pur percepite come strumenti di morte, esse divengono oggetti di<br />

desiderio, attraenti ed erotizzati, per il potere che conferiscono al loro<br />

possessore di controllare e dominare l’ambiente di appartenenza”.<br />

Se gli omicidi in America restano largamente una prerogativa di<br />

uomini appartenenti alle classi socio-economiche inferiori (mentre,<br />

secondo uno studio di qualche anno fa, non se ne registrava più del<br />

72<br />

2,5% nei ceti superiori), la questione di fondo resta però in effetti<br />

come sia possibile che “le classi medio-alte abbiano così<br />

clamorosamente fallito nella capacità di trasmettere segnali di<br />

inibizione della violenza verso gli strati inferiori dell’ordine<br />

sociale”. 73<br />

Innumerevoli sono gli indicatori del deterioramento delle relazioni<br />

sociali e della diffidenza reciproca nella società americana, ma anche<br />

69 Elliot Leyton, Men of Blood, cit., p. 218. A sostegno della propria tesi, Leyton adduce dunque i dati<br />

di una ricerca (Donald James West, Murder Followed By Suicide, Heinemann, London 1965) in base<br />

alla quale in Inghilterra e Galles metà degli autori di omicidio ha tentato il suicidio (e il 33% con<br />

successo), e l’85% delle donne e il 58% degli uomini lo hanno fatto quando hanno commesso un<br />

figlicidio) mentre soltanto il 3 -4% degli assassini americani lo hanno fatto (in Canada il 10% e i n<br />

Danimarca addirittura il 42%).<br />

70 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 366, con riferimento al lavoro dello<br />

statunitense Bernard Harcourt (Language of the Gun, The University of Chicago Press, Chicago-<br />

London 2006, pp. 7-12).<br />

71 Corsivo mio.<br />

72 Cfr. Edward Green e Russell P. Wakefield, Patterns of Middle and Upper Class Homicide, in<br />

“Journal of Criminal Law and Criminology”, 70, 1979, pp. 177-178, citato da Elliot Leyton, Men of<br />

Blood, cit., p. 222.<br />

73 Elliot Leyton, Men of Blod , cit., pp. 219 e sgg.<br />

48


in ogni società nella quale in questi anni si sia importato<br />

disinvoltamente il credo americano del libero mercato<br />

deregolamentato e la cultura dell’irresponsabilità nella gestione delle<br />

imprese. Un’ideologia che rappresenta uno dei principali motori<br />

dell’accresciuto bisogno di diritto da parte dei singoli e, dunque, di<br />

una crescente tendenza alla giuridicizzazione dei rapporti sociali,<br />

connessa alla necessità di compensare la mancanza delle gratificazioni<br />

provenienti “dalle maggiori fonti di identità, significato e status” 74<br />

tradizionalmente sofferta dalle classi lavoratrici (negli ultimi anni<br />

particolarmente bombardate, del resto, dalle “armi di distrazione di<br />

massa” gestite per conservare il consenso a classi dirigenti intente a<br />

smantellare le reti di sicurezza sociale) 75<br />

ma ormai estesasi in misura<br />

crescente alle classi medie.<br />

Si è richiamata in proposito, come sintomo non banale di un più<br />

generalizzato deterioramento delle relazioni sociali, per esempio la<br />

popolarità acquisita da quelle vetture (concepite “per la giungla<br />

urbana”, non per quella “vera”), che sono i cosiddetti Sports Utility<br />

Vehicle (Suv), i cui nomi “evocano le immagini di cacciatori e di<br />

persone che vivono all’aria aperta” o “richiamano l’immagine ancora<br />

più dura di soldati e guerrieri”.<br />

76<br />

74 Eric Dunning, Patrick Murphy e John Williams, The Roots of Football Hooliganism: An Historical<br />

and Sociological Study, Routledge & Kegan Paul, London 1988, pp. 208-221, citato da Elliot Leyton,<br />

Men of Blood, cit., pp. 220 e sgg.<br />

“La popolarità dei Suv nasce non<br />

soltanto dal desiderio di darsi un’aria da duri, ma anche da una<br />

crescente diffidenza verso il prossimo e dalla necessità di proteggersi<br />

dagli altri. Nel saggio Driven to extremes, Josh Lauer si è ch iesto<br />

come mai la durezza militare sia oggi più apprezzata della velocità o<br />

dell’eleganza delle linee, e si è domandato anche quali inferenze sulla<br />

società americana si possano fare dall’ascesa dei Suv. La sua<br />

75 Cfr. Paul Krugman, The Conscience of a Liberal, W.W. Norton & Co., New York 2007; tr. it. La<br />

coscienza di un liberal, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 170 sgg.: “Un movimento che punta a tagliare le<br />

tasse e smantellare lo Stato sociale ha inevitabilmente qualche problema a conquistarsi un consenso di<br />

massa. I tagli delle tasse, specialmente del tipo che vogliono gli ultraconservatori, vanno in larga parte<br />

a beneficio di una ristretta minoranza della popolazione, mentre un a ssottigliamento della rete di<br />

sicurezza sociale colpisce fasce ben più ampie. I finanziamenti e l ’organizzazione possono<br />

compensare, in una certa misura, l’impopolarità intrinseca delle politiche di destra, ma per vincere le<br />

elezioni gli ultra conservatori devono necessariamente, in linea di massima, trovare il modo per<br />

spostare 1’attenzione su altri argomenti. Nel suo celebre libro del 2004, What’s the Matter with<br />

Kansas? (Che cosa c’è che non va in Kansas?) Thomas Frank traccia la desolata immagine di un<br />

elettorato proletario raggirato senza sforzo e ripetutamente con eventi di secondaria importanza”.<br />

76 Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level, Bloomsbury Press, London 2009; tr. it. La<br />

misura dell’anima, <strong>Feltrinelli</strong>, Milano 2009, pp. 69 e sgg.<br />

49


conclusione è che questa tendenza “rispecchia l’atteggiamento degli<br />

americani verso il crimine e la violenza, un’ammirazione per il ruvido<br />

individualismo e l’importanza di isolarsi dal contatto con gli altri, cioè<br />

la diffidenza. […] Come ha osservato un antropologo, ‘guidando un<br />

Suv dall’aspetto corazzato e cercando di intimidire il più possibile i<br />

potenziali assalitori’, gli individui cercano di proteggersi dalle<br />

minacce di una società dura e diffidente.” 77<br />

4. Al di là della cultura della violenza e del “bisogno interiore di<br />

diritto”, lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito”<br />

La tematizzazione della violenza in rapporto al diritto offre dunque<br />

lo spunto per pensare anche giuridicamente la genesi delle<br />

“cosmologie violente” e delle “cosmologie” in genere. L’ipotesi qui<br />

avanzata è che nella modernità e, ancor più, nella tarda modernità, una<br />

società in cui è presente un alto tasso di comportamenti violenti (così<br />

come facilmente desumibili dalle statistiche di criminalità) esprima un<br />

correlativo forte bisogno di diritto (di diritto penale in particolare), e<br />

viceversa. Ciò dunque con una inversione della normale e scontata<br />

relazione lineare tra paura del crimine e domanda di protezione<br />

giuridica da parte dei cittadini, e suggerendo invece, quanto meno in<br />

forma di ipotesi, l’idea che sia proprio l’affidarsi sempre più e sempre<br />

più primariamente a questo tipo di protezione all’origine della paura<br />

del crimine e, in larga misura, della diffusione dello stesso crimine<br />

nelle sue forme violente.<br />

Il “bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo” non appare infatti<br />

una costante indifferenziata nelle diverse società, ma una variabile che<br />

può forse manifestare qualche correlazione con la diffusione e<br />

frequenza della “violenza autotelica” (per riprendere la categoria di<br />

77 Come ancora ricordano Wilkinson e Pickett (ivi, p. 70) “in Canada le vendite di monovolumi<br />

superano di due volte le vendite di Suv, esattamente l’opposto di quanto accade negli Usa ( e<br />

naturalmente in Canada vi sono minori disparità economiche che negli Stati Uniti). L’ascesa dei Suv è<br />

stata accompagnata da altri segnali del crescente disagio e della paura dell’altro che caratterizzano la<br />

società statunitense: la rapida diffusione delle gated communities e il boom delle vendite di sistemi di<br />

sicurezza per la casa. In anni più recenti, a cau sa del brusco aumento del costo della benzina, le<br />

vendite di Suv sono diminuite; ma l’immagine da duro va ancora per la maggiore, per cui le vendite di<br />

‘crossover’ più piccole, dall’aspetto resistente, continuano ad aumentare”.<br />

50


Reemtsma). Un tale “bisogno” si presenta pertanto come una<br />

caratteristica meritevole di autonoma considerazione all’interno della<br />

dinamica descritta nel libro e al cosiddetto “sesto fotogramma”, ossia<br />

quella del rapporto tra mondi sociali e riflessività.<br />

Certamente, come si è osservato, “è la biografia di ciascuno,<br />

operante in un ‘presente vivente’ – che include passato, presente e<br />

futuro, ricordi e aspettative –, a definire come, con quale estensione e<br />

profondità i doveri, le norme, gli status e i ruoli sociali sono<br />

internalizzati dal singolo attore sociale”. 78 E infatti “ogni mondo<br />

sociale, ogni comunità fisica, non è m ai il modello che informa<br />

direttamente e con trasparenza la comunità-fantasma di chi li abita. Ed<br />

essere ‘autentici’, trovare la chiave della propria ‘autenticità’, non<br />

vuol dire seguire pedissequamente 1’orizzonte creato dai modelli<br />

imposti dai tipi individuali predominanti che connotano una<br />

determinata comunità fisica: non si è ‘se stessi’ semplicemente perché<br />

si è abbracciata un’assurda comunità-fantasma prevalente in alcuni<br />

‘mondi sociali’, ma perché si giudicano riflessivamente ‘consistenti’<br />

questi ultimi rispetto alla totalità della propria cosmologia”. 79<br />

Nondimeno ci pare che esista una “forma” giuridica che ogni<br />

società conferisce ai mondi sociali di riferimento, da cui è<br />

particolarmente influenzato il giudizio riflessivo e l e narrazioni che<br />

ognuno individualmente conduce circa la “consistenza” dei mondi<br />

sociali “rispetto alla totalità della propria cosmologia”. È anche su<br />

questa valutazione di consistenza che si esercita il “dominio penale” e,<br />

con esso, il contributo con il quale ognuno dà “forma, anche narrativa,<br />

ai linguaggi e ai saperi di cui il dominio si serve ‘per assoggettarli’ a<br />

80<br />

sé”, ossia l’assunzione, da parte di “coloro che rivestono ruoli<br />

78 Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 366: “Ogni individuo è orientato<br />

unicamente verso il suo mondo sociale, e la chiave per risolvere il problema del rapporto tra agency e<br />

struttura si rinviene in tale relazione cosmologica”.<br />

79 Ivi, p. 367. Cfr. anche p. 333 e nota: “Le narrazioni possono [...] essere considerate come resoconti<br />

in cui gli attori sociali rendono le proprie azioni ‘evidenti, razionali e riferibili’, ma al contempo si<br />

tratta di pratiche riflessive in quanto profondamente incarnate nei corsi di azione degli individui”; “La<br />

narrazione di sé e del proprio mondo è sempre una pratica conoscitiva che consente di fare ordine<br />

nella realtà simbolica in cui siamo immersi, dentro a quella infinita rete di relazioni sociali in cui<br />

siamo gettati e in cui ci muoviamo in modo unico e non del tutto prevedibile”.<br />

80 Ivi, p. 173: “Athens reputa […] che i rapporti sociali non siano espressione di un ‘ordine delle cose’<br />

strutturato e strutturante che ci precede e ci persuade, ma che si diano sostanzialmente quale esito di<br />

un incessante processo interpretativo e di una continua creazione simbolica a opera degli attori sociali.<br />

Quest’atteggiamento si riversa totalmente nella definizione che egli elabora di domination: ‘La<br />

costruzione di un’azione sociale complessa nel corso della quale alcuni partecipanti […] svolgono<br />

51


subordinati” rispetto a tale dominio, degli “atteggiamenti di coloro che<br />

occupano quelli sovraordinati, e viceversa”, visto appunto che, come<br />

già ricordato, “durante la costruzione di un atto sociale complesso,<br />

senza una reciproca assunzione di ruoli sovraordinati e s ubordinati<br />

nessuno, infatti, saprebbe cosa fare, e quando farlo”. 81<br />

Naturale del resto sottolineare di nuovo, in relazione a tali<br />

dinamiche (ben più di quanto avesse la possibilità di farlo alla sua<br />

epoca Walter Benjamin), il ruolo rilevante svolto dai mass media.<br />

Un ruolo ben rimarcato del resto da Ceretti e Natali, dove si ricorda<br />

che “le più importanti trasformazioni sociali, economiche, culturali,<br />

politiche e t ecnologiche avvenute nella seconda metà del XX secolo<br />

contemplano la ‘rivoluzione’ prodotta nelle relazioni sociali e nel le<br />

sensibilità culturali dall’invenzione dei mass media elettronici, e in<br />

particolare dalla televisione”. 83<br />

ruoli sovraordinati, altri ruoli subordinati, e ciascuno assume gli atteggiamenti altrui’”.<br />

81<br />

Ivi, p. 174: “In tal senso, le regole di condotta riguardanti i ruoli di dominio e di subordinazione, che<br />

vengono normalmente apprese in famiglia, a scuola e, più tardi, dai ‘capi’, quando si inizia a lavorare,<br />

sono le regole più importanti e incisive nella costituzione delle comunità-fantasma. L’insieme di<br />

queste regole identifica ‘chi’ sono i subordinati e ‘chi’ i sovraordinati, e quando e dove ci si deve<br />

adeguare ai desiderata dei dominanti”.<br />

82<br />

Ivi compresi, negli ultimi anni e specialmente per la popolazione giovanile, i videogiochi. Sulla<br />

questione relativa agli effetti della fruizione di videogiochi a contenuti violenti, si veda la recente,<br />

discutibile, sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Brown V. Entertainment Merchants Assn.,<br />

No. 08-1448. Argued November 2, 2010, Decided June 27, 2011), pronunciatasi in merito alla<br />

costituzionalità di una legge californiana (Cal. Civ. Code Ann. §§1746.1[a], 1746) che vietava la<br />

vendita o il noleggio di videogiochi violenti ai minori. I giudici americani hanno ritenuto tale legge in<br />

contrasto con il principio costituzionale della libertà di espressione (freedom of speech). Come osserva<br />

invece nella sua dissenting opinion il giudice Breyer (p. 12) “extremely violent games can harm<br />

children by rewarding them for being violently aggressive in play, and thereby often teaching them to<br />

be violently aggressive in life. And video games can cause more harm in this respect than can typically<br />

passive media, such as <strong>book</strong>s or films or television programs”.<br />

83<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 369: “Essendo in grado di proporre gli<br />

‘eventi reali’ (e di fiction) in modo visivo, la televisione offre la possibilità di mostrare ‘come il<br />

mondo appare’ e ‘cosa il mondo sente’ in altri luoghi, in altri spazi geografici e da altre prospettive di<br />

ruolo, ‘rimuovendo’ cioè gli spettatori dalle loro ‘collocazioni fisiche’ e offrendo loro una visione più<br />

ampia rispetto a quella espressa tradizionalmente dai gruppi di riferimento. La televisione – in buona<br />

sostanza – consente ‘una visione da nessun luogo’, proponendo a tutti i suoi fruitori un orizzonte più<br />

vasto di quello usuale, e modificando ciò che Mead definiva altro generalizzato – ossia quel gruppo di<br />

riferimento astratto (inclusi i suoi parametri, i suoi valori, le sue convinzioni) che l’attore ha scolpito<br />

nel corso delle sue interazioni sociali, e del quale assume il ruolo per orientare la propria azione. Con<br />

la comparsa della televisione diviene invece possibile parlare di ‘altri mediatici generalizzati’,<br />

condivisi o almeno condivisibili da centinaia di migliaia di individui, che usufruiscono ora di un nuovo<br />

punto di vista per osservare le loro azioni e le situazioni in cui sono collocati”.<br />

82<br />

Infatti “i media elettronici<br />

contribuiscono a ridefinire alcuni processi di socializzazione e di<br />

violentizzazione. In riferimento alle comunità-fantasma violente,<br />

infatti, le immagini, i mondi, i personaggi reali o quelli immaginari<br />

52


delle fiction violente che occupano la scena televisiva” (e<br />

cinematografica) possono essere internalizzati – riflessivamente –<br />

quali altri-fantasma e iniziare ad animare i nostri soliloqui in<br />

concorrenza con quelli incorporati nelle interazioni sociali “faccia a<br />

faccia”. 84<br />

Rilevante però è appunto la veste “giuridica”, e più precisamente<br />

penale, conferita dai media alla violenza, tale spesso da oscurare le più<br />

complesse realtà conflittuali e s ituazionali in grado di spiegare<br />

l’esercizio della violenza individuale. Come nella scena del film<br />

hollywoodiano Il fuggitivo analizzata da Slavoj Žižek, nella quale la<br />

colluttazione tra i due protagonisti, uno dei quali chiaramente “nel<br />

giusto”, risolve semplicisticamente la questione in gioco, nella forma<br />

appunto di una riaffermazione del diritto nei confronti della manifesta<br />

85<br />

“depravazione psicologica del cattivo” di turno.<br />

Assai istruttiva in tale contesto di riflessione anche la vicenda,<br />

altamente mediatica, dell’uragano Katrina, abbattutosi nell’agosto<br />

2005 sulla costa del Golfo del Messico nel Sud degli Stati Uniti.<br />

86<br />

Come ricordano Wilkinson e Pickett, “all’indomani della bufera,<br />

l’attenzione dei media di tutto il mondo si concentrò, oltre che sui<br />

danni fisici provocati dall’uragano (le case distrutte, le strade allagate,<br />

le autostrade crollate e gli impianti petroliferi fuori uso), anche su<br />

quella che pareva una totale disintegrazione della vita civile nella<br />

città. Nella settimana successiva all’uragano si registrarono numerosi<br />

arresti e sparatorie. I notiziari televisivi mostravano i residenti<br />

84<br />

Ivi, p. 370.<br />

85<br />

Slavoj Žižek, Violence, Picador, New York 2008; tr. it. La violenza invisibile, RCS, Milano 2007,<br />

pp. 205-206. “Seconda lezione: è d ifficile essere realmente violenti, compiere un atto che turbi<br />

violentemente i parametri basilari della vita sociale. Quando Bertolt Brecht vide la maschera<br />

giapponese di uno spirito maligno, scrisse come le sue vene gonfie e il suo orrendo ghigno indicassero<br />

‘quale faticoso sforzo richiede / l’essere malvagio’. Lo stesso vale per la violenza. A questo riguardo,<br />

un qualsiasi film d’azione hollywoodiano è sempre una lezione. Verso la fine de Il fuggitivo di<br />

Andrew Davis, il chirurgo innocente impersonato da Harrison Ford affronta il suo collega (Jeroen<br />

Krabbé) a un convegno medico e lo accusa di aver falsificato dei dati per conto di una grande casa<br />

farmaceutica. A q uesto punto, quando ci si aspetterebbe uno spostamento dell’attenzione sulla ‘Big<br />

Pharma’ – il capitale – in quanto vero colpevole, Krabbé interrompe Ford e lo invita a uscire fuori<br />

dalla sala, dopodiché lo impegna in una violenta colluttazione: i due si picchiano finché non hanno le<br />

facce rosse di sangue. La scena, nella sua palese assurdità, è r ivelatrice, quasi che, per evitare la<br />

confusione ideologica di giocare con l’anticapitalismo, sia necessaria una mossa che renda<br />

immediatamente tangibili le crepe nella narrazione. Il cattivo viene trasformato in un personaggio<br />

perverso, beffardo, patologico, come se la depravazione psicologica (che accompagna<br />

l’impressionante spettacolo della lotta) in qualche modo rimuovesse e soppiantasse l’anonima e<br />

assolutamente non psicologica pulsione del capitale.”<br />

86<br />

Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima, cit., pp. 61 e sgg.<br />

53


disperati che imploravano aiuto e chiedevano alimenti per bambini e<br />

medicine; poi trasmettevano le immagini dei soldati che percorrevano<br />

in barca le strade allagate, non per evacuare gli abitanti, non per<br />

portare loro il necessario per sopravvivere, ma armati di tutto punto<br />

con mitragliatrici, pronti a da re la caccia agli sciacalli. Questa<br />

reazione al caos di New Orleans suscitò numerose critiche e condanne<br />

all’interno degli Stati Uniti. Molti insinuarono che la mancanza di<br />

fiducia tra le forze di polizia e militari, da un lato, e la popolazione<br />

prevalentemente povera e di colore di New Orleans, dall’altro,<br />

rispecchiassero profonde divisioni etniche e di classe. Durante un<br />

concerto di beneficenza per le vittime dell’uragano trasmesso da molte<br />

reti televisive, il m usicista Kanye West esclamò: ‘Odio l’immagine<br />

che i media diffondono di noi. Quando mostrano una famiglia bianca,<br />

dicono che va alla ricerca di cibo; quando fanno vedere una famiglia<br />

di colore, affermano che sta saccheggiando le case!’. Nell’inviare le<br />

truppe nella città, la governatrice della Louisiana Kathleen Bianco<br />

dichiarò: ‘[I soldati] hanno M16 carichi e pronti all’uso. Questi<br />

uomini sanno sparare e uccidere e mi aspetto che lo facciano’”.<br />

Quella qui descritta può considerarsi una modalità sbagliata di<br />

gestione di un conflitto, un fallimento di risposta, reso ancora più<br />

manifesto dall’immagine caricata che si è voluta conferirvi, con una<br />

presentazione impostata secondo le classiche logiche mediatiche, che<br />

tendono a es sere sempre più anche le logiche della politica e<br />

specialmente della politica criminale, con un ben noto influenzamento<br />

e rinforzo reciproci. Logiche che amano, direi concupiscono le<br />

contrapposizioni nette, le dicotomie facili e semplici (e tipicamente<br />

legalistiche) tra coloro che hanno (sempre e tutto il) torto e quanti<br />

hanno (sempre e tutta la) ragione. Si è trattato di una modalità ispirata<br />

a una fondamentale diffidenza nei confronti dell’ambiente in cui si<br />

stava intervenendo (visto che la priorità conclamata risultava quella di<br />

controllare la popolazione) e, a sua volta, 87<br />

tale da generare diffidenza,<br />

87 Sulla “dinamica in base alla quale un c omportamento fiducioso può s uscitare una risposta<br />

affidabile” e, dunque, sulla simmetria per cui “se d a una parte […] la fiducia suscita l’affidabilità,<br />

simmetricamente la diffidenza può favorire l’insorgere di comportamenti opportunistici”, cfr. Vittorio<br />

Pelligra, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, il Mulino, Bologna<br />

2007, pp. 238 e sgg. Si ricorda in particolare il cosiddetto feeling of freedom effect, esemplificato dal<br />

campo delle donazioni volontarie, dove il livello di tali donazioni aumenta sensibilmente “quando le<br />

richieste vengono formulate attraverso frasi che contengono espressioni quali: ‘è una sua libera scelta’,<br />

‘sia lei a d ecidere quanto’, ‘noi contiamo su di lei ma si senta libero’ e al tre simili. La principale<br />

54


come dimostrato anche dalle condanne sul piano internazionale<br />

espresse nei confronti delle azioni compiute a New Orleans, specie a<br />

paragone di altri interventi nei quali la finalità di assistenza umanitaria<br />

era stata messa in primo piano. 88<br />

Un eccessivo “bisogno” interiore di diritto (e particolarmente di<br />

diritto penale) e, dunque, di controllo, sembra un indicatore di segno<br />

opposto rispetto alla condizione di una collettività coesa e basata sulla<br />

fiducia. E infatti quando “la fiducia condiziona il benessere tanto degli<br />

individui quanto della società civile”, “quando la collettività è<br />

permeata da un alto grado di fiducia, prevalgono un senso di<br />

sicurezza, l’assenza di paure e l’idea che l’altro sia qualcuno con cui<br />

89<br />

cooperare piuttosto che competere”. Questo modello di convivenza<br />

(esemplificata, con una certa dose di idealizzazione, dal “caso<br />

Svizzera”) è stato ravvisato in una “cultura politica che incoraggia i<br />

cittadini non soltanto a ‘ sentirsi i padroni del proprio destino’, ma<br />

anche a sviluppare quella speciale combinazione di potenti inibizioni<br />

rispetto alla violenza, accompagnata da un’ostilità verso l’autorità e da<br />

una brama di ordine sociale, che sembra prerogativa della maggior<br />

parte delle democrazie in cui si registrano bassi tassi di omicidio”, 90<br />

ma, potremmo dire, della maggior parte delle società che abbiano<br />

spiegazione di questi risultati collega le risposte alle caratteristiche semantiche delle formule utilizzate<br />

nelle richieste. Le formule che abbiamo visto suscitano nel potenziale donatore un s enso di non<br />

costrizione, di libertà, suggeriscono un forte senso di fiducia nei suoi confronti da parte dei richiedenti<br />

e allo stesso tempo sottolineano l’importanza del contributo individuale per la riuscita dell’attività che<br />

la donazione andrebbe a finanziare”.<br />

88 Cfr. Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima, cit., p. 62, che ricordano quanto<br />

accaduto all’indomani del devastante terremoto che colpì la Cina nel 2008, quando le autorità cinesi<br />

inviarono rapidamente soldati disarmati in missioni di soccorso e assistenza, guadagnandosi il plauso<br />

della comunità internazionale.<br />

89 Ivi, p. 69. “Del resto, la fiducia, o la sua mancanza, determinarono la salvezza o la morte di alcune<br />

persone rimaste intrappolate a New Orleans nel caos che seguì all’uragano Katrina. La fiducia ebbe un<br />

ruolo decisivo per la sopravvivenza anche durante l’ondata di calore che colpì Chicago nel 1995. Il<br />

sociologo Eric Klinenberg, in un libro sull’argomento, ha illustrato come gli afroamericani poveri, che<br />

abitavano in quartieri con bassi livelli di fiducia e alti tassi di criminalità, avessero troppa paura di<br />

aprire le porte e le finestre o di uscire di casa per recarsi nei centri di refrigerazione designati dalle<br />

autorità cittadine. Nessuno andò a co ntrollare che stessero bene, e cen tinaia di anziani e di persone<br />

vulnerabili morirono per il caldo. Nei quartieri ispanici, altrettanto poveri ma caratterizzati da alti<br />

livelli di fiducia e da una vita comunitaria più attiva, il rischio di morte fu molto più basso.”<br />

90 Cfr. Marshall B. Clinard, Cities with Little Crime: The Case of Switzerland, Cambridge University<br />

Press, Cambridge 1978, pp. 1, 37, 110-111, 114, citato da Elliot Leyton, Men of Blood, cit., pp. 230 e<br />

sgg.; 236.<br />

55


preso sul serio, in senso etico e non puramente aritmetico, l’idea di<br />

uguaglianza e di partecipazione paritaria alla vita politica e sociale. 91<br />

Nella cornice concettuale della teoria del riconoscimento, ossia<br />

dell’idea secondo cui “la riproduzione della vita sociale avviene sotto<br />

l’imperativo di un reciproco riconoscimento, poiché i soggetti possono<br />

giungere a una relazione pratica con sé solo se imparano a concepirsi<br />

dalla prospettiva normativa dei loro partner nell’interazione, come i<br />

92<br />

loro interlocutori sociali”, si potrebbe forse, molto<br />

approssimativamente, ipotizzare che il crescente “bisogno di diritto<br />

nell’interiorità dell’uomo” segnali una sorta di dislocazione fra i tre<br />

“modelli di riconoscimento intersoggettivo”: amore, diritto,<br />

solidarietà. 93<br />

Ciò nel senso che la forma del riconoscimento giuridico<br />

sia oggi chiamata a compensare una carenza innanzitutto nel rapporto<br />

di amore, ossia di quel “nucleo di ogni eticità”, di quel “legame<br />

alimentato simbioticamente” che “dà la misura di fiducia in se stessi”<br />

ed “è la base irrinunciabile della partecipazione autonoma alla vita<br />

91 John Dewey, The Ethics of Democracy (1888); tr. it. Etica della democrazia, in Scritti politici, Donzelli, Roma<br />

2003, pp. 18, 20. “La democrazia non differisce dall’aristocrazia nel fine da raggiungere. Il fine non è la mera<br />

affermazione della volontà individuale; non è la mancata considerazione della legge, dell’universale; è l a<br />

completa realizzazione della legge, vale a dire dello spirito unitario della comunità. La democrazia si differenzia<br />

per quanto riguarda i mezzi. Questo universale, questa legge, questa unità di scopi, questo adempimento del<br />

proprio ruolo nell’interesse dell’organismo sociale, non devono essere indotti nell’uomo dall’esterno. Debbono<br />

nascere nell’uomo stesso, per quanto possa essere d’aiuto ciò che di buono e di saggio esiste nella società.<br />

Responsabilità personale, iniziativa individuale, queste sono le caratteristiche della democrazia. Aristocrazia e<br />

democrazia implicano entrambe che la vera condizione della società sia quella di realizzare una finalità etica, ma<br />

l’aristocrazia ritiene che tale finalità venga realizzata, principalmente, attraverso speciali istituzioni e<br />

organizzazioni all’interno della società, mentre la democrazia la considera già operante in ogni personalità dotata<br />

di autonomia. C’è un individualismo democratico che non esiste nell’aristocrazia; ma si tratta di un<br />

individualismo etico e non numerico; un i ndividualismo di libertà, di responsabilità, di iniziativa, per<br />

raggiungere e mettere in pratica un ideale etico, non un individualismo sinonimo di ignoranza della legge. In<br />

breve, la democrazia significa che la personalità è la realtà prima e u ltima. La democrazia ammette che il<br />

significato della personalità possa essere compreso solo quando si presenta in forma oggettiva nella società; la<br />

democrazia riconosce che i principali stimoli e incoraggiamenti per lo sviluppo della personalità vengono dalla<br />

società; ma nessuno può acquisire una personalità, sia pure degradata e debole, quando sono gli altri ad<br />

offrirgliela, per quanto saggi e forti questi siano. La democrazia crede che l’essenza della personalità sia propria<br />

di ciascun individuo e che la scelta di svilupparla o m eno debba provenire da ciascun individuo.”[...]<br />

“L’uguaglianza non è un concetto aritmetico, ma etico. La persona è universale quanto l’umanità; è indifferente<br />

a tutte le distinzioni che dividono gli uomini. Ovunque ci sia un uomo, ci sarà una persona e non ci sono segni<br />

che consentano di distinguere una persona da un’altra, per collocarla al di sopra o al di sotto. Ogni individuo vive<br />

una possibilità infinita e universale: quella di essere re e pastore di anime. L’ideale aristocratico è blasfemo nei<br />

riguardi della persona. La dottrina dei pochi eletti viene applicata non alla vita futura, ma a tutti i rapporti umani.<br />

La venerazione dell’eroe corrisponde al disprezzo per l’uomo. Il vero significato dell’uguaglianza è desumibile<br />

dalla definizione di democrazia data da J.R. Lowell: una società in cui ogni individuo ha una possibilità e sa di<br />

averla e, potremmo aggiungere, una possibilità a cui non si può porre un limite, una possibilità che è davvero<br />

infinita, la possibilità di diventare una persona. L’uguaglianza, in breve, è l’ideale dell’umanità; nella<br />

consapevolezza di questo ideale la democrazia vive e cresce.”<br />

92 Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 114.<br />

93 Se ne veda una prima illustrazione in ivi, pp. 117-157.<br />

56


pubblica”. 94 Dal rapporto di amore il rapporto giuridico “si distingue<br />

sotto pressoché tutti gli aspetti decisivi”, pur avendo una funzione<br />

assai simile. “Come nel caso dell’amore il bambino attraverso<br />

l’esperienza consolidata della dedizione materna acquista la fiducia di<br />

poter manifestare liberamente i propri bisogni, allo stesso modo il<br />

soggetto adulto attraverso l’esperienza del riconoscimento giuridico<br />

consegue la possibilità di intendere il proprio agire come<br />

manifestazione, rispettata da tutti gli altri, della propria autonomia.” 95<br />

È pur vero, come ricordava Joel Feinberg, che “l’avere diritti ci<br />

permette di ‘presentarci come uomini’, di guardare gli altri negli occhi<br />

e di sentire in una forma elementare 1’essere uguale di ciascuno”,<br />

dunque che assieme al riconoscimento negato vanno “perdute le<br />

opportunità del rispetto individuale di sé”, visto che il riconoscimento<br />

giuridico ha “un significato psichico per il rispetto di sé” e<br />

“l’esperienza della discriminazione giuridica produce un sentimento<br />

paralizzante di umiliazione sociale”. 97<br />

Del resto “ciò che rende totalitaria una democrazia è il veder<br />

sfumare, come accade nel Processo di Kafka, i confini tra l’aula del<br />

tribunale e l a camera da letto. La contiguità tra questi due spazi<br />

segnala una divaricazione che si sta aprendo tra la giustizia e la<br />

norma. Lo spazio privato viene invaso da una legge che ha perso il suo<br />

rapporto con la giustizia, giacché prevale la necessità di riportare alla<br />

norma il funzionamento della vita familiare. La giustizia, invece,<br />

richiede ogni volta una decisione che nessuna norma può assicurare.<br />

Deve provare a conciliare la legge, che ha necessariamente una forma<br />

universale, con delle individualità che sono irrimediabilmente<br />

singolari. Si tratta di comparare l’incomparabile. Come Lévinas ci ha<br />

96 e<br />

E tuttavia l’instaurarsi di un<br />

rapporto sempre più stretto e tendenzialmente esclusivo tra<br />

riconoscimento giuridico e rispetto di sé segnala un impoverimento<br />

della “fiducia affettiva nella continuità della comune dedizione”, che<br />

lascia il passo all’esercizio potenziale della violenza, sia pure<br />

“legittima”.<br />

94 Ivi, p. 131.<br />

95 Ivi, p. 144.<br />

96 Cfr. Joel Feinberg, The Nature and Value of Rights, in Rights, Justice and the Bounds of Liberty.<br />

Essays in Social Philosophy, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 143 e sgg., spec. p. 151.<br />

Il passo è ripreso da Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 145 e sgg.<br />

97 Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 146 e sgg.<br />

57


icordato, la giustizia è innanzitutto la relazione con l’Altro, con la sua<br />

irriducibile singolarità”. 98<br />

Si torna dunque alla questione impostata inizialmente e che può<br />

essere a sua volta inquadrata secondo una dinamica di causalità<br />

circolare o processuale. “Nella modernità la fiducia non è concepibile<br />

99<br />

al di fuori del monopolio statale della violenza” (il quale si pone<br />

all’origine del diritto). Una violenza che peraltro, come osserva<br />

Benjamin, ha il potere di conservare il diritto soprattutto nel momento<br />

della minaccia. 100 Il che sembra legarsi alla osservazione di<br />

Reemtsma, già ricordata, circa il senso della pena, e specificamente<br />

della cosiddetta prevenzione generale positiva, di rimuovere “il terzo”<br />

(e dunque la dimensione comunicativa e s ociale) dall’atto<br />

criminale. 101<br />

Si potrebbe dire del resto che la stessa residualità, il<br />

carattere di extrema ratio dell’esercizio effettivo della violenza, valga<br />

a rafforzare il carattere minaccioso “come il destino” proprio del<br />

diritto, che è poi la sua forza regolativa propriamente “extragiuridica”,<br />

sociale e morale.<br />

Ma ciò a c ui assistiamo da qualche tempo (in quella che può<br />

apparirci una fase di estrema acutizzazione delle contraddizioni del<br />

moderno), è fondamentalmente un venire allo scoperto della “violenza<br />

originaria” (dello Stato e del diritto) attraverso non solo la forma di un<br />

crescente esercizio effettivo della violenza “guerresca” da parte dello<br />

98 Giovanni Mierolo, Il totalitarismo delle istituzioni moderne, in Forme contemporanee del<br />

totalitarismo, a cura di Massimo Recalcati, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 250-251.<br />

99 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 96.<br />

100 Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 13 e sgg. “Poiché il p otere che<br />

conserva il diritto è quello che minaccia. E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come la<br />

interpretano teorici liberali sprovveduti. Dell’intimidazione in senso proprio farebbe parte una<br />

precisione, una determinatezza che contraddice all’essenza della minaccia, e che nessuna legge può<br />

raggiungere, poiché sussiste sempre la speranza di sfuggire al suo braccio. Tanto più essa ap pare<br />

minacciosa come il d estino, da cui, infatti, dipende se il d elinquente incorre nei suoi rigori. Il<br />

significato più profondo dell’indeterminazione della minaccia giuridica apparirà solo nella successiva<br />

analisi della sfera del destino, da cui essa deriva. Un prezioso rimando a q uesta sfera si trova nel<br />

campo delle pene. Fra le quali, da quando è stata messa in questione la validità del diritto positivo, la<br />

pena di morte è quella che ha richiamato più di ogni altra la critica. Anche se i suoi argomenti sono<br />

stati, nella maggior parte dei casi, tutt’altro che decisivi, decisivi furono e restano i s uoi motivi. I<br />

critici della pena di morte sentivano, forse senza saperlo spiegare, e, probabilmente, senza nemmeno<br />

volerlo sentire, che la sua contestazione non i mpugna un de terminato grado di pena, non a ssale<br />

determinate leggi, ma il diritto stesso nella sua origine. Poiché se la sua origine è l a violenza, la<br />

violenza coronata dal destino, è logico supporre che nel potere supremo, quello di vita e di morte, dove<br />

esso appare nell’ordinamento giuridico, le origini di questo ordinamento affiorino<br />

rappresentativamente nella realtà attuale, e si rivelino paurosamente.”<br />

101 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 486.<br />

58


Stato e degli Stati (per esempio con le politiche di controllo, i “diritti<br />

penali del nemico”, le “guerre” al terrorismo, ecc.), ma altresì di una<br />

subdola e per vasiva giuridicizzazione dei rapporti e dei conflitti<br />

sociali; e ciò nel tentativo di mantenere o di ripristinare la fiducia<br />

sociale a onta di una crescente diseguaglianza delle persone.<br />

Se però nell’epoca moderna “l’astensione dalla violenza è il<br />

momento decisivo della coesione sociale”, 102<br />

il fatto che il monopolio<br />

statale della violenza agìta (e non più solo prevalentemente<br />

“minacciata”) venga così allo scoperto finendo per assumersi in<br />

misura crescente anche il monopolio della fiducia sociale, con un<br />

allargamento degli spazi del dominio penale, ben oltre, giuridicamente<br />

o anche solo culturalmente, il canone regolativo (che è tale, oltre che<br />

per il diritto penale, per i mondi sociali e per le loro narrazioni) della<br />

extrema ratio, segnalerà un r ischio accresciuto di restituzione alla<br />

violenza di tutta quella forza comunicativa e sociale che la modernità<br />

ha sempre tentato di rimuovere, insieme al “terzo”, reale o<br />

immaginario, cui la violenza si rivolge.<br />

Un conclusivo sviluppo del legame qui impostato tra il rapporto<br />

diritto-violenza e il formarsi delle cosmologie (direttamente o<br />

indirettamente “violente”) non può trascurare la considerazione che<br />

chiude il saggio benjaminiano. Come ricordato recentemente anche da<br />

103<br />

Honneth, nel porsi la questione di quali forme di accordo sociale, di<br />

mediazioni degli interessi, possano prospettarsi nelle quali non<br />

intervenga la violenza del diritto, Benjamin 104<br />

fa riferimento alle virtù<br />

emozionali, che permettono di porsi empaticamente nella prospettiva<br />

dell’altro: “l’accordo non violento,” scrive, “ha luogo ovunque la<br />

cultura dei sentimenti ha messo a di sposizione degli uomini mezzi<br />

puri di intesa. Ai mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur<br />

sempre tutti insieme violenza, è lecito quindi opporre, come puri, i<br />

mezzi non violenti. Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace,<br />

fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora, sono la loro<br />

premessa soggettiva”. Ricorda, questo invito, la “grande opera<br />

cristiana” di cui parla Zolla (“la riscossione del dovuto, la punizione<br />

102<br />

Ivi, p. 99.<br />

103<br />

Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen, cit., pp. 143 e sgg.<br />

104<br />

Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 17.<br />

59


del torto cessino di apparirci una medicina del nostro turbamento”), 105<br />

simile al particolare allenamento dell’arte marziale giapponese detta la<br />

via del respiro armonioso, aikido. 106<br />

Assecondando e sviluppando quella metafora, si potrebbe dire che<br />

una minore dipendenza dalle categorie del diritto e del torto, possa<br />

propiziarsi attraverso una loro progressiva o al meno tendenziale<br />

sostituzione “con la nuda fede nel significato” del nostro e dell’altrui<br />

destino. Per riprendere le parole di Adriana Cavarero – ma è questo<br />

107<br />

anche il senso della chiusa del libro di Reemtsma – la giustizia e il<br />

diritto possono riscattarsi dalla loro “violenza originaria” tenendo<br />

sempre presente che “il mondo […] è pieno di storie, circostanze e<br />

situazioni curiose che aspettano solo di essere raccontate”; “più<br />

precisamente […] il mondo è pieno di storie perché è pieno di vite:<br />

essere ligi alla storia ‘significa essere ligi alla vita’. Non si tratta solo<br />

di una metafora. […] L’unicità dell’esistente non ha infatti alcun<br />

bisogno di una forma che la progetti e la contenga. Radicata nel flusso<br />

impadroneggiabile di una costitutiva esposizione, le è risparmiato<br />

tanto il vezzo di prefigurarsi quanto il vizio di prefigurare la vita degli<br />

altri. La figura, l’unità del disegno, il profilo della cicogna, se proprio<br />

105 Élémire Zolla, Uscite dal mondo, cit., pp. 143 sgg.: “Estirpare in noi la radice del diritto è il<br />

compito: la riscossione del dovuto, la punizione del torto cessino di apparirci una medicina del nostro<br />

turbamento e, se l ’ingiustizia chiama la magica riparazione e ci porta a g iudicare con magiche<br />

mormorazioni, si contempli la croce, somma ingiustizia e magia. Si guardino in faccia i bisogni e<br />

istinti giuridici: sono lacci che avvincono, uncini infilati nella nostra carne. Non è questa una crociata<br />

contro i tribunali. E non è detto che una volta liberati dal bisogno psichico di farlo non si riscuotano i<br />

debiti. Tanto meno si è consigliati di condannare coloro che non possono non giudicare, rivendicare,<br />

disputare del diritto e del torto, anzi li si compassiona e il loro misero spettacolo ci aiuta a preservarci<br />

dal ricadere noi stessi in quella prigione e volgare corte di supplizi”.<br />

106 Ivi, p. 144. “L’alunno dell’aikido picchierà un ceppo con un bastone. Quindi col bastone colpirà un<br />

ceppo immaginario, fino a farlo come se il ceppo ci fosse. Quindi calerà i fendenti con un bastone<br />

immaginario. Imparerà infine a sen tirsi, a proiettarsi sulla punta del bastone, e d el bastone<br />

immaginario. Il suo equilibrio saprà reggersi nel farlo a sostegni immaginari e sempre poggerà sul<br />

baricentro del corpo. L’alunno si sarà utilmente ipnotizzato; come diceva Platone, avrà fatto<br />

l’incantamento alla propria anima. Buona parte delle mosse che si compiono per aiutarsi a eseguire<br />

certi atti possono poggiare sulla fantasia, come quando per levarsi in piedi ci si afferri a un sostegno.<br />

Imparando a sostituire il sostegno con la sua immagine mentale, si può imparare, ulteriormente, quanta<br />

forza nascosta si abbia e da quanti bisogni immaginari ci si lasci incantare. Ebbene, come dei bastoni<br />

di legno, si può fare a meno delle categorie del diritto e del torto, sostituendole con la nuda fede nel<br />

significato del nostro destino ovvero nella provvidenza. Non è da tutti, come non da tutti è trascendere<br />

la comune scherma e l a comune lotta per forme basate sull’arte dell’equilibrio e su l dominio della<br />

fantasia, più puramente magiche. Certamente non è co sa accessibile alla mente che, invece di star<br />

ferma all’assunto, corra a d omandarsi se possa sussistere una società senza diritto (non è questa la<br />

questione) o se debba comportarsi in uno o altro modo per meritare il plauso o un’onorevole<br />

menzione”.<br />

107 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., pp. 538 e sgg.<br />

60


viene, viene solo dopo”. 108 È questo anche il senso del pensiero già<br />

ricordato secondo cui “essere un individuo morale significa prestare,<br />

essere obbligato a prestare, un certo tipo d’attenzione”; 109 il che ha<br />

anche il significato di riscoprire il carattere di sentimento morale<br />

dell’amore, 110<br />

quella forma primordiale di riconoscimento, che<br />

nell’odierna temperie socio-culturale sembra erosa dall’invadenza<br />

delle pretese di riconoscimento giuridico.<br />

Credo che l’importantissimo libro di Ceretti e Natali, tra i suoi molti<br />

meriti, abbia appunto quello di aiutare il giurista in genere, e in<br />

particolare il penalista e il politico-criminale ad aprirsi a un mondo<br />

“pieno di storie […] che aspettano solo di essere raccontate”, ossia ad<br />

accostarsi a quelle “trame di ‘identità’” individuali e sociali tessute<br />

attraverso il confluire della “conversazione interiore verso un punto di<br />

riferimento narrativo attorno al quale si affollano gli altri-fantasmi<br />

111<br />

internalizzati”.<br />

Recentemente Jeremy Rifkin ha sollecitato a una comprensione<br />

della natura empatica dell’uomo e, non a caso, ha indicato come<br />

esempio di questo nuovo approccio in campo giuridico quello del<br />

ripristino della relazione fra chi ha commesso il crimine e le vittime:<br />

112<br />

la giustizia riparativa. Sono gli stessi Ceretti e Natali, del resto, a<br />

riprendere il suggerimento di Niklas Luhmann 113<br />

a che il sistema non<br />

si immunizzi contro il “no”, bensì con l’aiuto del “no”, non si tuteli<br />

dai cambiamenti, ma grazie ai cambiamenti, evitando così “un<br />

irrigidimento entro schemi di comportamento consolidati, ma non più<br />

108<br />

Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cit., pp. 186-187.<br />

109<br />

Susan Sontag, Nello stesso tempo, cit., pp. 168, 186.<br />

110<br />

Cfr. J. David Velleman, Liebe als ein moralisches Gefühl, in Von Person zu Person, a cura di Axel<br />

Honneth e Beate Rössler, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2008, pp. 60 e sgg.<br />

111<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 341.<br />

112<br />

Cfr. il libro recente di Jeremy Rifkin, The Empathic Civilization, Polity Press, Cambridge 2009; tr.<br />

it., La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010, p. 17, che sollecita a una comprensione della<br />

natura empatica dell’uomo e non a caso indica come esempio di un nu ovo approccio empatico in<br />

campo giuridico quello del ripristino della relazione fra chi ha commesso il crimine e le vittime, la<br />

giustizia riparativa.<br />

113<br />

Niklas Luhmann, Soziale Systeme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984; tr. it. Sistemi sociali.<br />

Fondamenti di una teoria generale, il Mulino, Bologna 1990, p. 576. L’osservazione luhmaniana<br />

evoca una nota battuta di Gregory Bateson (Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing, San<br />

Francisco 1972; tr. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000, p. 548): “Viviamo in una<br />

società che sembra preferire i divieti alle esigenze positive e quindi tentiamo di legiferare (ad esempio<br />

con leggi antitrust) contro le variabili usurpatrici; e tentiamo di difendere le ‘libertà civili’<br />

bacchettando legalmente le forze usurpatrici. Tentiamo di proibire certe usurpazioni, ma forse sarebbe<br />

meglio incoraggiare le persone ad avere conoscenza delle loro libertà e f lessibilità e a u sarle più<br />

spesso”.<br />

61


consoni all’ambiente”. Il sistema immunitario protegge<br />

dall’annientamento mediante negazione. 114 Essi auspicano dunque un<br />

atteggiamento non proteso a “espellere il male” ma a “trattarlo,<br />

mettendo a disposizione della società una sufficiente complessità<br />

interna per il trattamento dei conflitti” e attingendo a esperienze già<br />

rintracciabili nell’universo della giustizia: “esperienze che sfuggono<br />

alla logica dell’immunità e che si preoccupano di (ri)attivare canali di<br />

comunicazione e forme di relazioni orientate alla convivenza: le<br />

pratiche riconducibili al movimento della Giustizia Riparativa<br />

introducono, sia pure in forma embrionale, istanze di ‘diritto fraterno’:<br />

un diritto giurato insieme da fratelli, uomini e donne, con un patto in<br />

cui si ‘decide di condividere’ regole minime di convivenza. È [un<br />

diritto] convenzionale, con lo sguardo rivolto al futuro”. 115 Forse come<br />

lo sguardo del padre nell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La<br />

strada, 116 che perfino nel contesto estremo di una pura anomia, ossia<br />

di una forzata rinuncia totale al diritto, sa rendere testimonianza di<br />

come sia possibile, comunque, resistere ed esistere, facendosi, insieme<br />

al figlio, “portatore del fuoco”, ossia “della Legge della convivenza e<br />

del patto sociale”, della “vita come possibile”, della “Legge della<br />

cultura, che è gi à anche la Legge del desiderio”, 117 come avrebbe<br />

potuto scrivere anche Iosif Brodskij. “Ciò che colpisce di questo padre<br />

è il suo prendersi cura, la sua resistenza nel continuare a prendersi<br />

cura di suo figlio. ‘Eccomi’, scrive Levinas, è la forma più diretta che<br />

può assumere la responsabilità come risposta etica all’invocazione<br />

dell’Altro”. 118<br />

E forse, perché questo possa avvenire nei mondi sociali e nelle<br />

cosmogonie individuali, è necessario che anche nell’atteggiamento<br />

verso il diritto, il diritto penale e la politica criminale (di cui è certo<br />

“desolante […] constatare 1’assenza di un progetto politico che<br />

costruisca tali pratiche come ipotesi di un modello di società<br />

auspicabile”, la mancanza di “un vettore di senso in grado di<br />

114<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384.<br />

115<br />

Ibid., che qui citano Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 132.<br />

116<br />

Cormack McCarthy, The Road, Vintage Books, New York 2006; tr. it. La strada, Einaudi, Torino<br />

2007.<br />

117<br />

Riprendiamo qui in più punti l’analisi di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre, Raffaello<br />

Cortina Editore, Milano 2011, pp. 155 e sgg.<br />

118<br />

Ivi, p. 159.<br />

62


proiettarle nel campo culturale e politico”) 119 ci si distenda lungo la<br />

“linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito”, che segna l’“accettare<br />

il debito non pagato, accettare di essere e rimanere debitore<br />

insolvente, accettare che ci sia una perdita” 120 o, quanto meno,<br />

accettare che il mondo non si ripartisca tra chi ha t orto e chi ha<br />

ragione, tra chi rivendica diritti e chi è assoggettato a doveri. Ciò nella<br />

consapevolezza che “la pretesa – tentazione ricorrente nelle più<br />

svariate forme – di estirpare il male, di superare 1’‘ambiguità’ propria<br />

dell’uomo è – dunque – un ‘incalcolabile male’”. 121<br />

119 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384.<br />

120 Questo pensiero di Paul Ricoeur, citato in un’opera recente di Cesare De Michelis (Moderno<br />

Antimoderno, Aragno, Torino 2010), è richiamato da Carlo Ossola nella sua recensione al libro (cfr.<br />

Carlo Ossola, Elogio degli antimoderni, in “Il Sole-24 Ore”, 11 aprile 2010, p. 32). Osserva Ossola<br />

come siano “gli Antimoderni: Pound, Eliot, Borges, Ungaretti, ma anche Beckett, Thomas Bernhard” a<br />

tendersi “verso questo ‘sbilanciamento’ invocato da Ricoeur, visto che ‘il Moderno […] secerne la<br />

Decadenza, la ferrea dimora nella Temporalità (foss’anche tutta da bruciare nell’istante del Gesto)’,<br />

mentre occorre riferirsi agli Antimoderni per trovare vie d’uscita dalla prigionia della ‘datità’”.<br />

121 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384.<br />

63


Il problema delle narrative del reo<br />

Alfredo Verde<br />

E se il reo parla? Come valutare quanto dice? Quale valore attribuire al<br />

suo discorso? Recentemente, nella criminologia statunitense, il problema<br />

di quello che il reo dice, di come considerarlo, di come classificarlo, ha<br />

destato un certo interesse, a tutti i livelli della ricerca criminologica, anche<br />

a quelli più tradizionalisti e macrosociologici. Ne costituisce un esempio<br />

l’interesse di un autore come Agnew, 1 celebre esponente della strain<br />

theory, che conia il concetto di storylines per connettere le variabili<br />

strutturali a quelle situazionali che conducono al delitto: non basta avere<br />

un autore motivato dalle variabili strutturali come quelle legate alle sue<br />

condizioni socioeconomiche, ma è necessario anche verificare come tali<br />

variabili rientrino nella narrativa da lui costruita allo scopo di spiegare<br />

perché è ar rivato al delitto. Significativamente, Agnew impatta<br />

immediatamente con il problema del rapporto fra le storylines e le tecniche<br />

di neutralizzazione: cioè, per dirla con le nostre parole più cliniche, con le<br />

specifiche difese volte alla minimizzazione della responsabilità dell’autore<br />

di reato. 2<br />

Presser ha dedicato un importante lavoro alle narrative criminologiche,<br />

rilevando che le narrazioni degli autori di reato, storicamente poco valutate<br />

dai criminologi per il connesso problema della verità e della menzogna<br />

dell’autore, sono state considerate in criminologia in tre modi: il primo,<br />

legato alla sociologia tradizionale, connesso alla descrizione di fatti<br />

1<br />

Robert Agnew, Storylines as a Neglected Cause of Crime, in “Journal of Research in Crime and<br />

Delinquency”, 43, 119, 2006.<br />

2<br />

Gresham Sykes e Dav id Matza, Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency, in “American<br />

Sociological Review”, 22, 664, 1957.<br />

3<br />

Lois Presser, The Narratives of Offenders, in “Theoretical Criminology”, 13, 177, 2009.<br />

64<br />

3


obiettivi, il secondo, più vicino alle teorie interazionistiche, che postula<br />

che le narrative costituiscano un’interpretazione dei fatti da parte degli<br />

autori, e il terzo, maggiormente legato alle teorie postmoderne, che pone le<br />

narrative come indispensabili non solo e non tanto per l’interpretazione dei<br />

dati della realtà, quanto per la costruzione stessa della realtà da parte degli<br />

autori, realtà che appare inestricabilmente connessa alla sua descrizione da<br />

parte di chi commette il reato.<br />

L’opera di Lonnie Athens, 4 alla quale il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo<br />

Natali è dedicato, si colloca fra la seconda e la terza delle visioni citate,<br />

aderendo all’impostazione dell’interazionismo radicale. Sotto il segno di<br />

Athens, il libro di Ceretti e Natali 5<br />

ha riportato la visione del mondo del<br />

reo, la sua comunità fantasma, la sua cosmologia, per utilizzare il<br />

suggestivo termine del sociologo americano fatto proprio dagli autori, al<br />

centro dell’attenzione del criminologo. Ma comunità fantasma e<br />

cosmologia costituiscono al contempo la visione del mondo del reo che<br />

traspare dalle sue narrative.<br />

Recentemente, nel nostro paese, per effetto di una serie di contributi cui<br />

il sottoscritto non è estraneo, il problema delle narrative del reo è andato<br />

assumendo una rilevanza centrale all’interno della ricerca criminologica.<br />

6<br />

Secondo Francia, Binik e Guidali, addirittura, il reato nella sua brutalità<br />

reale “sarebbe” già naturalmente “come” un testo, da leggere e da<br />

interpretare, così come sarebbero da ricostruire, leggere e interpretare le<br />

spiegazioni che del proprio delinquere fornisce lo stesso reo, 7<br />

cui la<br />

criminologia (clinica) dovrebbe “ridare voce sociale”. A nostro parere,<br />

quest’ipotesi considera solo il caso (tipico dei delitti impulsivi) in cui il<br />

delinquente sia dotato di “poche” parole, o i casi invece in cui socialmente<br />

non abbia abbastanza potere da pretendere che le sue parole vengano<br />

ascoltate (viene in mente la cultura dei Rom, di cui sempre si parla ma che<br />

mai viene lasciata parlare): il reato, dunque, sarebbe “azione” portatrice di<br />

un significato nascosto, vero e pr oprio testo narrativo, che sarebbe<br />

4<br />

Lonnie Athens, The Creation of Dangerous Violent Criminals, Routledge, London-New York 1989; Id.,<br />

Violent Criminal Acts and Actors Revisited, University of Illinois Press, Urbana (Ill.) 1977.<br />

5<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Editore,<br />

Milano 2009.<br />

6<br />

Adolfo Francia, Oriana Binik e Livia Guidali, La narratologia e il pensiero criminologico fra sociologia e<br />

psicoanalisi, in Oronzo Greco e Giovanni Scarafile (a cura di), Sotto il segno di Babele. Prospettive di<br />

comunicazione e dialogo fra saperi, Pensa Multimedia, Lecce 2008.<br />

7<br />

Quelli che il recente contributo dei citati Francia, Binik e Guidali definisce gli account del reo, con<br />

riferimento alla tradizione della sociologia fenomenologica.<br />

65


necessario “ricostruire” (“scrivere”, in senso barthesiano) con l’aiuto<br />

eventuale della parola del reo, allo scopo di illustrare i suoi account, il<br />

modo in cui questo vede il mondo. Siamo molto vicini ad Athens. Subito,<br />

però, e quasi come contraltare, si pone il problema esattamente speculare:<br />

talora infatti il reo ha troppi account, e sulla base di quegli account tende a<br />

fregarci e a mentire consapevolmente: è necessario, quindi, valutare anche<br />

i motivi che portano alla possibilità di resoconti menzogneri, connessi alla<br />

loro possibile utilizzazione strumentale nel contesto giudiziario o in quello<br />

mediatico. Va tenuta presente anche la possibilità che il racconto dei fatti<br />

sia stravolto e piegato alle esigenze dei media, quando il dramma del reato<br />

arriva a vertici di “significazione” collettiva 8 che spesso non hanno a che<br />

fare per nulla con il significato attribuito all’azione da parte di chi l’ha<br />

compiuta. 9<br />

Le narrative (monche) dei delitti impulsivi, quindi, da un lato, e<br />

dall’altro le (troppe) narrative di chi consapevolmente vuole dissimulare, o<br />

quelle distorte dei mass media, rappresentano perciò, da un punto di vista<br />

concreto, clinico verrebbe da dire, i due estremi opposti del problema: un<br />

minus e un plus di mentalizzazione.<br />

10<br />

Come si nota, l’estremo del plus di mentalizzazione pone il problema<br />

della menzogna: questa dipende per la sua concettualizzazione dal livello<br />

interpretativo scelto, fermo restando che le narrative, se costruite in modo<br />

adeguato (e cioè non contraddittorio, nel senso che non debbono sovvertire<br />

i criteri di verosimiglianza) sono autoreferenziali, cioè “sembrano” vere<br />

(qui si apre, in campo giudiziario, il problema della convalida esterna, che<br />

non è altro che il problema della prova in penale).<br />

8<br />

David Matza, Becoming Deviant, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969.<br />

9<br />

Cfr. la nostra analisi di Lo straniero di Camus in Alfredo Verde, L’assassino innocente: delitto, processo e<br />

pena ne Lo straniero di Albert Camus, parte I: Il delitto, in “Marginalità e so cietà”, 17, 107, 1991; Id.,<br />

L’assassino innocente: delitto, processo e pena ne Lo straniero di Albert Camus, parte II: Il processo e la<br />

pena, in “Marginalità e società”, 18, 101, 1991.<br />

10<br />

Romolo Rossi e Al fredo Verde, Quattro fratelli, quattro modi per delinquere. Su alcuni rapporti fra<br />

criminologia e psicoanalisi, in “ Giornale Italiano di Psicopatologia”, 13, 4, 1997.<br />

11<br />

Franco Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Laterza, Bari 1986.<br />

11<br />

In un’ottica<br />

postmoderna, invece, esistono diverse “versioni” costitutive di un fatto, ma<br />

non esiste la sua “verità” al di fuori delle narrazioni degli autori. La<br />

criminologia clinica si colloca da qualche parte in questo continuum, e<br />

investiga la presenza o l’assenza della deliberata volontà di mentire, per<br />

farne un oggetto del suo esame, posto che, come vedremo, anche in<br />

66


assenza di tale volontà il reo può fornire, a nostro avviso, resoconti<br />

confabulati.<br />

Ogni delitto, infatti, materializza un quid di indicibile, di intollerabile:<br />

raccontarlo, a qualsiasi livello, come ben mostrano gli studiosi che<br />

affrontano la narratologia dal vertice psicoanalitico, 12 significa tentare di<br />

dare parole a un grumo primordiale distruttivo, un quid di morte, di<br />

separatezza, di finitudine che ci attraversa, che ci circonda, dal quale siamo<br />

fatti, che i più immaturi (patologici? a questo livello, non è ancora<br />

necessaria una psicopatologia dell’azione delinquente) di noi mettono in<br />

atto, perché privi della possibilità di intessere un discorso che possa<br />

spiegare il loro dolore, ed essere alla base di “azioni” meno lesive della<br />

vita e della proprietà altrui. Certo è che è a questo livello che i l<br />

criminologo clinico dovrebbe indirizzarsi, se il suo scopo vuole essere<br />

quello di “comprendere” la personalità dell’autore, sia che debba attribuire<br />

a tale soggetto parole (e cioè costruire lui stesso una narrativa relativa a un<br />

discorso che all’autore manca, come nel caso dei delitti impulsivi), sia che<br />

debba invece smascherare, smitizzare le sue parole come “false” – e cioè<br />

negatorie di un altro livello narrativo, di un discorso “implicito” proprio<br />

dell’autore, più o m eno al di là della sua coscienza, della sua<br />

consapevolezza e quindi della sua volontà mistificatoria – un discorso,<br />

quindi, al di là della menzogna cosciente, o a ttinente al livello<br />

dell’inconscio, decifrando il quale il criminologo potrà scoprire le<br />

narrative implicite del reo, 13<br />

ovviamente con l’alea, sempre presente in<br />

questi casi, del rispecchiamento di aspetti di sé intollerabili, proiettati<br />

nell’altro.<br />

Questo ci sembra il punto “debole” della teoria di Athens, che permette<br />

sì di cogliere, nelle narrazioni del reo, il multiforme avvicendarsi delle<br />

identificazioni che costituiscono la sua “comunità fantasma”, ma che non<br />

riconosce affatto il ruolo dell’interprete, nel gioco della relazione, nello<br />

“scrivere” la “sua propria” versione della narrazione dell’autore (ogni<br />

leggere è uno scrivere, secondo Barthes;<br />

12<br />

Peter Brooks, Reading for the Plot: Design and Intention in Narrative, Knopf, New York 1984; tr. it.<br />

Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995.<br />

13<br />

Per comodità, potremmo citare il nietzscheano “ha rubato perché voleva sangue”, e n on perché volesse<br />

“cose”: cfr. Alfredo Verde, Editoriale: Il delinquente pallido, il giudice rosso, la società punitiva e i media,<br />

in “Rassegna Italiana di Criminologia”, 14, 2, 2003.<br />

14<br />

Roland Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1970, tr. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973.<br />

14<br />

e lo è ancora di più se<br />

raccontiamo le storie dell’autore nel suo contatto con noi!). In altre parole,<br />

il reo non è “dato”, lì, estraneo, ma è implicato in un campo relazionale<br />

67


con noi. Il riferimento, ovviamente, è alla psicoanalisi, in particolare alle<br />

recenti correnti intersoggettive, e proprio alla psicoanalisi Ceretti e Natali<br />

fanno riferimento. Potremmo dire, quindi, accogliendo le modifiche degli<br />

autori italiani al pensiero di Athens, che l’autore fornisce di sé al<br />

ricercatore una narrativa, che viene dal ricercatore modificata, quando la<br />

scrive, proprio perché la narra e la fa sua; e poi magari ancora<br />

ulteriormente modificata, quando ci teorizza su; e così via, in un processo<br />

continuo di rielaborazione.<br />

Hollway e Jefferson hanno riconosciuto questo problema, partendo<br />

dall’altro corno della questione del delitto, quello delle interviste alle<br />

vittime di reato. 15 Secondo gli autori, anche se, dopo la crisi dovuta alla<br />

natura prevalentemente quantitativa della ricerca, con indagini basate su<br />

questionari che obiettivizzavano e generalizzavano il problema della paura<br />

del crimine, trasformandolo in generica questione relativa alla<br />

“sicurezza”, 16<br />

le inchieste sulla vittimizzazione sono diventate sempre più<br />

qualitative, basate su questionari a r isposta aperta, nondimeno hanno<br />

trascurato un aspetto molto importante: che cosa, e come, veniva chiesto al<br />

soggetto, che si qualifica, per definizione, come soggetto “difeso” (cioè<br />

come soggetto che utilizza i meccanismi di difesa, come evidenziati dalla<br />

clinica e dalla teorizzazione psicoanalitica). Le difese vengono costruite<br />

però, in quest’ottica, non in una situazione unipersonale e intrapsichica,<br />

ma in una situazione interpersonale, la situazione dell’intervista. Emerge,<br />

cioè, il problema della dinamica dell’intervista, con le sue implicazioni<br />

transferali e controtransferali.<br />

Se questo discorso è ragionevole per le vittime, lo potrebbe essere ancor di<br />

più per quanto riguarda il reo: si tratta di soggetti difesi, consapevolmente<br />

o meno, quando non mentitori, e qu esto rende la situazione certamente<br />

ancor più delicata: sembra necessario, quindi, aumentare le cautele, anche<br />

perché dalle interviste con gli autori di reato realizzate nella pratica<br />

possono discendere effetti anche sulla vita degli stessi (cfr. le interviste<br />

effettuate nell’ambito delle perizie psichiatriche).<br />

Una rilettura del contributo di Athens, già letto da Ceretti e Natali, ci porta<br />

quindi ad affermare che è necessario comprendere quale sia la struttura del<br />

discorso del reo, sostenuta dalle sue difese, e alla base dei suoi resoconti<br />

narrativi, dal momento che “il discorso del narratore orienta<br />

15 Wendy Hollway e Tony Jefferson, Doing Qualitative Research Differently: Free Association, Narrative<br />

and the Interview Method, Sage, London 2000.<br />

16 Su questo ampiamente cfr. Roberto Cornelli, Paura e ordine nella modernità, Giuffrè, Milano 2008.<br />

68


inevitabilmente il racconto, talché non esiste racconto senza discorso, e<br />

nemmeno viceversa…”. 17 Il soggetto può mentire consapevolmente, si<br />

diceva, o meno (può raccontare agli altri delle storie, o raccontarsele: da<br />

rilevare quanto questa espressione “dica” a livello di multisignificazione):<br />

la grande scoperta della psicoanalisi è appunto questa, e passa attraverso lo<br />

studio delle narrazioni verbali (e anche non-verbali e preverbali) del<br />

paziente, per fargli “dire” cose che non sa di dire: “il dispositivo della<br />

parola consente all’analista di individuare il discorso della persona in<br />

analisi: la posizione che costui assume nel suo dire, il posto che prende<br />

nella storia che racconta”. 18 Ma la narrazione prodotta dal discorso ha<br />

natura immaginaria: o meglio, è un intreccio fra aspetti reali e aspetti<br />

immaginari, tanto che “un analista di generazione successiva a F reud,<br />

Jacques Lacan, arriverà a teorizzare la funzione della narrazione in<br />

psicoanalisi recuperandone interamente l’aspetto immaginario e<br />

assegnandogli una dignità euristica: la verità ha la struttura della finzione,<br />

dirà”: 19 così la psicoanalisi si pone come “clinica del discorso”, attraverso<br />

la quale emerge un di scorso inconscio, “frutto di un s apere sul quale<br />

nessuno dei protagonisti dell’incontro clinico ha padronanza”. 20 Hollway e<br />

Jefferson affermano che “the idea of a de fended subject shows how<br />

subjects invest in discourses when these offer positions which provide<br />

protections against anxiety and therefore supports to identity”. 21<br />

soggetto, quindi, è i n parte inconsapevole di quanto dice, e co mpito<br />

dell’interlocutore è quello di ristabilire l’“altra” narrazione che emerge<br />

dall’incontro, e ch e deriva dall’applicazione di una serie di regole<br />

trasformativo/interpretative: il problema è squisitamente clinico. E,<br />

clinicamente, il problema della menzogna può essere affrontato<br />

verificando il livello di psicopatia dei soggetti (esistono strumenti volti a<br />

tale scopo), posto che spesso i delinquenti impulsivi non hanno memoria, o<br />

hanno memorie distorte, degli atti commessi; quando si tratta di riportare<br />

alla coscienza gli eventi del delitto, è la possibilità di accedere al ricordo<br />

dell’atto compiuto che spesso appare estremamente tormentoso recuperare,<br />

sia per la natura stessa del delitto commesso, sia per l’emotività presente al<br />

17 Valeria La Via, Psicoanalisi, criminologia e narrativa: per una nuova clinica criminologica, in Adolfo<br />

Francia, Alfredo Verde e Jutta Maria Birkhoff (a cura di), Raccontare delitti. Il ruolo della narrativa nella<br />

formazione del pensiero criminologico, Franco Angeli, Milano 1999, p. 31.<br />

18 Ivi, p. 34.<br />

19 Ivi, p. 35.<br />

20 Ibid.<br />

21 Wendy Holloway e Tony Jefferson, op. cit., p. 23.<br />

69<br />

Il


momento dell’agito: si potrebbe parlare, addirittura, di un possibile aspetto<br />

amnesico, da paragonare all’amnesia traumatica, nonostante il paradosso,<br />

perché la traumatizzazione… può colpire anche chi infligge il trauma. 22<br />

Molti studi hanno trattato il problema dell’amnesia negli autori di reato,<br />

con l’obiettivo (ambizioso!) di sceverare le allegazioni di non ricordare<br />

vere da quelle false, 23 ma anche le scale relative alla simulazione prodotte<br />

dagli psichiatri forensi statunitensi non si sono mostrate risolutive al<br />

proposito. Certo è che molte delle dichiarazioni di non ricordare da parte<br />

degli autori di reati violenti, come afferma nuovamente Moskowitz 24 dopo<br />

un’esauriente meta-analisi, sono sincere: in base all’esame da lui condotto,<br />

questo autore rileva che l’amnesia dissociativa è piuttosto frequente dopo<br />

avere commesso un delitto violento, in particolare dopo un omicidio (va,<br />

nei campioni studiati, dal 20 al 47 per cento dei casi, con una media del 31<br />

per cento sull’insieme dei soggetti delle diverse ricerche); Porter,<br />

Woodworth e Doucette 25<br />

riferiscono addirittura che, in base alla loro metaanalisi,<br />

l’amnesia sarebbe presente, negli autori di omicidio, in percentuali<br />

che vanno dal 10 al 70 per cento dei casi.<br />

Il discorso diviene ancora più complesso quando si passa ad analizzare<br />

non solo e non tanto la amnesic claim, la dichiarazione di non ricordare da<br />

parte dell’autore, ma la natura e i l tipo dei ricordi prodotti, veri,<br />

confabulati o deliberatamente menzogneri. I contributi della ricerca<br />

permettono di differenziare, in primo luogo, gli autori psicopatici dagli<br />

autori impulsivi: un’indagine effettuata da Porter e Woodworth<br />

rilevato che gli psicopatici, che pure commettono un numero di omicidi di<br />

natura strumentale maggiore dei non psicopatici, nelle loro narrazioni degli<br />

atti commessi tendono a presentare anche i propri atti strumentali come<br />

impulsivi e c ome dipendenti dal comportamento della vittima,<br />

evidentemente allo scopo di minimizzare la propria responsabilità; e<br />

inoltre tendono anche a no n raccontare alcune caratteristiche essenziali<br />

22<br />

Andrew Moskowitz, Dissociation and Violence: A Review of the Literature, in “Trauma, Violence, &<br />

Abuse”, 5, 21, 2004.<br />

23<br />

Cfr. A mero titolo di esempio Dominique Bourget e Laurie Whitehurst, Amnesia and Crime, in “ Journal<br />

of the American Academy of Psychiatry and Law”, 35, 469, 2007.<br />

24<br />

Andrew Moskowitz, op. cit.<br />

25<br />

Stephen Porter, Michael Woodworth e Naomi L. Doucette, Memory for Murder: The Qualities and<br />

Credibility of Homicide Narratives by Perpetrators, in Sven A. Christianson (a cura di): Offenders’<br />

Memories of Violent Crimes, John Wiley & Sons, Chichester (England) 2007.<br />

26<br />

Stephen Porter e Michael Woodworth, “I’m Sorry I Did It … but He Started It”: A Comparison of the<br />

Official and Self-reported Homicide Descriptions of Psychopaths and Non-psychopaths, in “Law and Human<br />

Behavior”, 31, 91, 2007.<br />

70<br />

26<br />

ha


dell’atto commesso (per esempio le caratteristiche del luogo del delitto,<br />

l’uso di armi, la presenza in loro di impulsi di natura sessuale,<br />

l’ammontare della violenza inferta, ecc.). In altre parole, gli psicopatici<br />

mentono più dei non psicopatici.<br />

Ma tutti questi studi, ancorché suggestivi, evitano di fare un passo<br />

ulteriore, e cioè di esaminare qualitativamente il contenuto delle narrative<br />

degli autori di reato, che, a nostro parere, può essere utile anche quando sia<br />

menzognero, in quanto anche la menzogna, intesa come prodotto della<br />

fantasia, può illuminare sulle caratteristiche profonde di chi la conia: tutto<br />

ciò, allo scopo di comprendere in generale, e soprattutto non con fini<br />

strettamente giudiziari, che cosa sia passato nella mente del reo, anche dal<br />

punto di vista della possibile iscrizione del fatto-reato nella sua storia. La<br />

ricostruzione dello stato mentale del reo potrebbe permettere di<br />

evidenziare anche la capacità/possibilità di quest’ultimo di elaborare il<br />

trauma del delitto commesso, delitto che molto spesso costituisce l’unico<br />

sbocco di una situazione interpersonale e relazionale senza uscita in cui il<br />

soggetto si è trovato invischiato, appunto quella che dalla scuola lionese è<br />

stata definita la “situazione della delinquenza”. 27<br />

Le diverse versioni di una storia permettono infatti di precisarla, di<br />

sistemarla, di scegliere in via definitiva la strada della falsità (ma, si<br />

diceva, la menzogna può trasmettere un “altro” livello della verità), o per<br />

converso permettono agli aspetti più genuini e soggettivi di emergere, al di<br />

là delle manipolazioni, in un continuum che va, psicopatologicamente, dal<br />

tentativo deliberato di raccontare una storia non vera, alla possibilità di<br />

confabulare, perché non si ricorda, in entrambi i casi parlando di aspetti<br />

importanti di sé.<br />

È opinione di chi scrive che l’atto delittuoso compiuto, oltre a<br />

rappresentare la <strong>scarica</strong> di un contenuto pulsionale aggressivo o predatorio,<br />

costituisca anche l’occasione per risistemare e “riscrivere”<br />

successivamente la propria storia, 28<br />

dal momento che produce in primo<br />

luogo nella collettività la coazione a narrare, in particolare quando si tratti<br />

di azioni aggressive, sia attraverso le pratiche istituzionali (il processo), sia<br />

27<br />

Marcel Colin e Jacques Hochmann, Diagnostic et traitement de l’état dangereux, in Marcel Colin (a cura<br />

di), Études de criminologie clinique, Masson, Paris 1963.<br />

28<br />

Per tutti, pur appartenenti a tradizioni differenti, cfr. da un lato Arnaldo Novelletto, Psichiatria<br />

psicoanalitica dell’adolescenza, Borla, Roma 1986; Arnaldo Novelletto, Daniele Biondo e Gianluigi<br />

Monniello, L’adolescente violento. Riconoscere e prevenire l’evoluzione criminale, Franco Angeli, Milano<br />

2000, e, dall’altro, Gaetano De Leo e Patrizia Patrizi, Psicologia della devianza, Carocci, Roma 2002.<br />

71


attraverso le pratiche informali della criminologia popolare. Ma proprio<br />

per l’effetto sismico che la sua azione ha nei confronti delle reti sociali cui<br />

appartiene, e della più ampia comunità, anche il reo (e talora controvoglia,<br />

per esorcizzare i sentimenti di colpa che emergono dalle sue profondità<br />

interiori, o le allegazioni di colpa da parte dell’esterno) spesso si sente<br />

pressato a narrare la propria versione degli eventi. Così, possiamo leggere<br />

nelle varie confessioni e nelle varie versioni fornite dal soggetto la storia<br />

che si dipana via via dei suoi rapporti affettivi più significativi, sia passati<br />

che presenti. Diventa anche possibile verificare, con un esame attento delle<br />

produzioni narrative del reo, se nelle successive versioni la manipolazione<br />

dei ricordi si faccia più evidente, e le difese si strutturino maggiormente, o<br />

se, al contrario, il parlare più volte, a distanza di tempo, dello stesso evento<br />

permetta di meglio recuperare i ricordi dal deposito della memoria a lungo<br />

termine: diremo allora che la ricostruzione delle narrative del reo può<br />

essere paragonata al lavoro dello storico, che narra del passato, ma<br />

immerso in una situazione attuale, e t enendo inevitabilmente conto<br />

dell’atmosfera del presente. Questa valutazione appare di rilevante<br />

importanza al fine dell’analisi delle dinamiche psicologiche profonde e<br />

delle caratteristiche della personalità del soggetto che ricorda, che non<br />

appaiono legate alla disponibilità della memoria, ma emergono nel<br />

racconto allo stesso modo di come in una roccia sedimentaria sono<br />

presenti inclusioni di altre rocce, poi conglobate nel reperto esaminato, ma<br />

riconoscibili e valutabili nella loro natura.<br />

In una parola, possiamo dire che la memoria può distorcere (anche<br />

volontariamente) gli eventi concreti, ma che spesso le successive versioni<br />

di una storia fanno emergere gli aspetti meno consapevoli e m eno<br />

controllati della personalità, che permettono allo studioso che si immerga<br />

in tale materiale di meglio inquadrare le caratteristiche del soggetto; e, alla<br />

fin fine, raccontare successive versioni di un delitto può anche, in casi<br />

fortunati, costituire un modo per il reo di elaborare quanto ha commesso.<br />

Non crediamo che sia possibile spiegare tutto questo con la teoria di<br />

Athens. In altre parole, ci sembra che Athens non abbia sufficientemente<br />

sviluppato l’idea di una verità “narrata” dal soggetto, e per ciò stesso<br />

inevitabilmente sottoposta a “ distorsioni”: pure, i suoi contributi sul<br />

concetto di “conversione”, in base alla quale la “comunità fantasma” di un<br />

soggetto può modificarsi, avrebbero potuto portarlo su questa strada.<br />

Forse, azzardiamo, è proprio l’appartenenza alla corrente interazionista<br />

dello studioso, diffidente verso qualsiasi spiegazione del tipo “narrativa<br />

72


latente” (e cioè topograficamente inconscia), magari ritenuta troppo simile<br />

alle aborrite narrative funzionaliste, e v erosimilmente più legato a una<br />

sorta di apprezzamento “fenomenologico” degli eventi così come appaiono<br />

a ogni singolo attore sociale, che gli ha impedito di fare il passo cruciale:<br />

nella nostra opinione, la narrazione del soggetto contiene sempre più di<br />

quanto egli dica in modo esplicito. Ma qui è evidente (anche se Ceretti e<br />

Natali sembrano volerlo occultare) l’aspetto innovativo del loro contributo<br />

rispetto a quello di Athens. Gli autori italiani, infatti, non rifuggono dal<br />

confrontarsi con l’inconscio dell’autore di reato, e a esso fanno riferimento<br />

esplicito perlomeno in due occasioni: in un punto del volume sembrano<br />

volere adottare una versione di inconscio ispirata alla psicoanalisi (citano<br />

addirittura uno studioso lacaniano), mentre in altro momento sembrano<br />

aderire a una versione dell’inconscio più vicina a quella, molto meno<br />

interessante, propria dei recenti approcci cognitivisti.<br />

È proprio questo, si diceva, che va considerato l’apporto “innovativo”<br />

degli studiosi milanesi: nei casi narrati si riconosce, sì, l’influenza della<br />

comunità fantasma, ma si evidenzia anche quanto ogni lettura di tipo<br />

fenomenologico, cioè basata sull’empatia, sia insufficiente. Al Verstehen,<br />

proprio di ogni narrativa basata sull’empatia, va infatti aggiunto<br />

l’Erklären, proprio di ogni visione scientifica di un narratore “non<br />

ingenuo” (il suo “orizzonte artificiale”, per dirlo con le belle parole di<br />

Adolfo Ceretti): e al lora la “cosmologia” di ogni reo risulta costituita,<br />

ancora una volta, attraverso un incontro, che permette di giungere<br />

abduttivamente a una narrazione, che contiene sempre qualcosa di più<br />

della semplice narrativa del reo. Altro, ulteriore problema, a questo<br />

connesso, è quello legato “a chi” e “a quale scopo” si narri: narratario e<br />

scopo dipendono infatti dai contesti e dalle pratiche di fondo (discorsive e<br />

non) in cui deve essere sistemato il discorso del narratore (per chi narrano i<br />

narratori giudiziari? Per chi narra il criminologo? Per chi narrano i<br />

narratori della cosiddetta “criminologia mediatica”?). Qui va un a ltro<br />

riconoscimento ad Adolfo Ceretti, e di qui partirebbe un’altra digressione<br />

se non fosse necessario concludere, affermando però fortemente che il<br />

libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali costituisce un fondamentale<br />

contributo alla criminologia clinica, sola capace di portare a u na più<br />

approfondita comprensione degli autori di reato.<br />

73


Appendice


Cosmologie, media e violenza<br />

Alessandro Dal Lago<br />

1. Sono molto lieto di essere stato invitato da Adolfo Ceretti e L orenzo<br />

Natali a questa giornata di studi.<br />

Desidero premettere che mi ritrovo molto sia rispetto ai contenuti<br />

del libro sia rispetto agli interventi che mi hanno preceduto. Ho letto e<br />

ascoltato parole molto familiari, con le quali decisamente simpatizzo.<br />

Ho apprezzato, in particolare, i continui riferimenti, anche quelli<br />

critici – giustamente critici, aggiungerei –, alla tradizione<br />

dell’interazionismo simbolico, e quelli alla dimensione “narratologica”<br />

nelle scienze dell’uomo. Quest’ultima è divenuta oggi, dopo un lungo<br />

cammino, un approccio accettato all’interno delle scienze umane, accolto<br />

trasversalmente, tra l’altro, da tanti saperi. Ricordo che ancora nel 1991,<br />

discorrendo del più e del meno, a New York, con un celebre psicologo<br />

sociale, gli dissi: “Ho letto il suo articolo, molto bello, sulla narrativa<br />

dell’azione sociale… Sono molto interessato a q uesti temi”. Lui rispose,<br />

semplicemente: “Ah sì? ma lei che razza di accademico è? Full Professor,<br />

Associate oppure Assistant?” E io: “Ma… a dire il vero sono Ricercatore,<br />

in Italia. Qui si direbbe Assistant, ma lasciamo perdere…”. Questo,<br />

semplicemente per dire che ancora oggi il mondo accademico funziona<br />

così: se si è Assistant tendenzialmente si è empiristi e quantitativi, se si è<br />

Associate si è più votati al cognitivismo, e quando si diventa “ordinari” si<br />

può essere testualisti…<br />

Detto questo, ribadisco che mi riconosco moltissimo in quello che<br />

ho letto. Ho davvero apprezzato il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali<br />

innanzitutto perché è una miniera di materiale. È certamente costruito in<br />

modo assai complesso, con un’apertura verso le “cosmologie” e le<br />

strutture narrative auto-poietiche. Si percepisce che gli autori sono entrati a<br />

fondo in queste dimensioni. Il libro insegna anche molte cose. Tra l’altro,<br />

77


molti riferimenti bibliografici li ignoravo e, non ho difficoltà a confessarlo,<br />

li utilizzerò.<br />

Ritornerò più avanti, brevemente, sul libro.<br />

2. Io sono stato invitato a p arlare di “media e violenza”, e quindi<br />

immagino che tutti si aspettino alcune riflessioni sulla televisione. Ma io vi<br />

parlerò di un argomento diverso, ovvero de “La violenza come mezzo”.<br />

Da un po’ di anni non mi occupo di questioni criminali, se si fa<br />

eccezione per il libro che gentilmente Adolfo ha citato prima, ovvero<br />

quello pubblicato nel 2003 da <strong>Feltrinelli</strong> e intitolato La città e le ombre.<br />

Crimini, criminali, cittadini. Il volume è il risultato di una ricerca che ho<br />

condotto insieme a un criminale “redento”, che ha poi vinto un dottorato di<br />

ricerca e scritto numerosi saggi. È solo grazie a l ui che sono riuscito a<br />

portare a termine con successo la ricerca. Senza la mediazione di un gatekeeper<br />

non sarei mai stato in grado di intervistare ex mafiosi o rapinatori<br />

di banche.<br />

In questo itinerario ho testato un “metodo” che può essere definito<br />

una “narratologia piatta” – e c’è un motivo per cui lo designo così – che<br />

cerca il più possibile, anche se forse non riesce nel suo intento, di rifuggire<br />

da interpretazioni profonde.<br />

Mi spiego.<br />

Tendenzialmente, la finalità di chi opera nel campo delle scienze<br />

umane – sociologi, psicoanalisti, psicologi, criminologi, ecc. – è quella di<br />

costruire dei meta-testi sui testi – esattamente come ha f atto Giampaolo<br />

Lai quando ha interpretato un testo che, a sua volta, era l’interpretazione di<br />

un testo. Naturalmente, alla base di questo processo troviamo un individuo<br />

che non coincide con il suo testo. Difatti, a mio giudizio il testo, fin<br />

dall’inizio, è una falsificazione di ciò che una persona pensa di poter dire.<br />

Messa in questi termini la questione, come capirete, diventa<br />

immediatamente assai complicata. Tendenzialmente, quello che come<br />

etnografo – che se volete è una via di mezzo tra un antropologo, che non<br />

sono, e un sociologo, che non sono più – cerco di far emergere è una sorta<br />

di “verità nascosta alla luce del sole” all’interno delle relazioni umane.<br />

Nella nostra indagine sul crimine a Genova, dopo aver intervistato<br />

quattrocento persone “etichettate” come criminali, che comprendevano<br />

giocatori d’azzardo, rapinatori di banche, autori di omicidi, ecc. quello che<br />

è emerso è ch e tendenzialmente i crimini li può commettere chiunque,<br />

senza distinzioni, e che chi li commette finisce in carcere.<br />

78


Mi rendo conto che non è una scoperta poi così originale… però è<br />

questa la principale indicazione che emerge dalla ricerca.<br />

Stando così le cose, e nutrendo una simpatia ontologica per i<br />

“ladri”, mi astengo da qualunque considerazione legata alla cura e al<br />

trattamento penitenziario perché, come potrete intuire, è chiaro che nella<br />

visione scientifica dei clinici ha senso che esistano perizie e a nalisi<br />

psicologiche dei delinquenti. Ma se i crimini sono potenzialmente<br />

commessi da chiunque, che cosa facciamo – anche in termini di<br />

definizione sociale – di chi commette azioni violente e r eati gravi senza<br />

essere giudicato incapace di intendere e volere? Consideriamo tutti<br />

colpevoli e, di conseguenza, operiamo una pericolosissima estensione della<br />

terapia all’intera società? Oppure mettiamo in discussione la distinzione<br />

tra responsabilità e irresponsabilità?<br />

E qui arrivo al punto, perché penso che la cosa migliore per onorare<br />

un’occasione come questa sia di non nascondere un piccolo dissenso<br />

rispetto a quanto Ceretti e Natali scrivono rispetto al “male”. Lo dico<br />

apertamente. Occorrerebbe stare qui alcune settimane a discutere sulle<br />

ascendenze teologiche, bibliche, filosofiche e psicoanalitiche, ma il<br />

problema è che, se queste ultime non vengono chiarite, la parola “male”<br />

rischia, come spesso accade, di diventare un “f atticcio” – come lo<br />

definisce Bruno Latour giocando sulla stessa pronuncia, in francese, della<br />

parola “fatto” e “feticcio”, e cioè un concetto che finisce per assumere una<br />

dimensione mitica.<br />

Personalmente, sono molto sensibile a letture di tipo teologico, e<br />

tutto sommato ho molta più simpatia per i Catari che per san Paolo. Ne<br />

discende che il “male” mi interessa, eccome. Ma il problema è il seguente:<br />

questo concetto funziona nelle analisi dei fatti sociali in cui, più o meno, ci<br />

riconosciamo?<br />

È questa la domanda.<br />

Per rispondere – e anticipo che ho qualche dubbio che quanto dirò<br />

“funzioni” – faccio riferimento, appunto, alla questione della “violenza<br />

come mezzo” e a una ricerca empirica che sto svolgendo sui militari, in<br />

particolare su un tipo di killer contemporaneo, che altri non è ch e il<br />

mercenario.<br />

3. Un ragionamento sul mercenario è perfettamente coerente, a mio<br />

giudizio, rispetto ai temi di cui stiamo parlando, perché è uno che uccide, è<br />

79


un omicida, esattamente come lo sono i soldati, anche se i mercenari sono<br />

molto meno numerosi dei soldati – e poi vedremo perché.<br />

Permettetemi di aprire una piccola parentesi: in quel meraviglioso<br />

libro scritto da Georges Dumézil e i ntitolato Ventura e sventura del<br />

guerriero si analizza l’ambiguità del ruolo simbolico del militare e del<br />

guerriero nella cultura indo-europea. In breve, una delle tesi contenute nel<br />

volume è che la società affida al guerriero il compito di uccidere in suo<br />

nome. Ciò produce un bel “clash simbolico”, poiché da un certo punto di<br />

vista il guerriero incarna la funzione cardine dell’attività militare – la<br />

difesa della società –, ma dall’altro è il colpevole delle uccisioni. Di<br />

conseguenza, il militare è al contempo il nostro eroe – ricorderete tutti la<br />

scena del ritorno dei carabinieri da Nassiriya, i carabinieri sui quali l’allora<br />

presidente della Repubblica Ciampi protendeva le mani con un gesto<br />

altamente simbolico – e uno del quale non sappiamo e no n vogliamo<br />

sapere nulla proprio perché… ammazza… e lo fa con modalità che noi<br />

perlopiù ignoriamo, a meno che non si desideri ardentemente di provare a<br />

conoscerle.<br />

Rispetto a qu esta figura ambigua, ambi-valente, qui fugacemente<br />

ripresa, si può leggere in controfigura quella del mercenario. Fino a una<br />

trentina di anni addietro il mercenario era identificato prevalentemente con<br />

l’avventuriero che andava a commettere gesta orribili, in genere nel centro<br />

dell’Africa, pagato per lo più dalle società che estraevano diamanti – e da<br />

qualche parte nel mondo esistono ancora alcuni di questi personaggi.<br />

Il mercenario contemporaneo, invece, è una figura totalmente<br />

diversa.<br />

È un killer, diretto o indiretto, la cui professione, nel corso di questi<br />

anni, ha subito una interessantissima ri-legittimazione.<br />

4. Genova, città nella quale vivo insieme al mio collega Alfredo Verde, è<br />

davvero un luogo interessante per svolgere indagini etnografiche. Nei suoi<br />

carrugi sono riuscito a conoscere molti ex paracadutisti, poliziotti, con i<br />

quali chiacchiero spesso e che mi forniscono numerose informazioni, molti<br />

contatti… È attraverso di loro che ho co nosciuto alcuni di questi<br />

mercenari, di questi contractors, tra cui anche uno di quelli che ha subito<br />

un processo molto celebrato dai media. Il fatto è che nei processi che li<br />

riguardano non si vuole propriamente sostenere l’accusa, così come<br />

avviene per qualsiasi altro processo nei confronti di combattenti civili<br />

80


all’estero: quando c’è di mezzo un contractor le accuse sono fatte<br />

letteralmente cadere.<br />

In estrema sintesi, che cosa fa un contractor? Ufficialmente si<br />

occupa di una quantità industriale di cose, che vanno dal lavoro nelle basi<br />

alla logistica, dal guidare i camion… all’uso delle armi, come avviene,<br />

ovviamente, sia in Iraq che in Afghanistan. Se il rischio che si corre è<br />

quello di subire attacchi armati, è naturale che il mercenario faccia<br />

anch’egli ricorso all’uso delle armi. Per esempio, quando nel 2004 ci fu la<br />

famosa “battaglia dei ponti”, a Nassiriya, con il coinvolgimento di alcuni<br />

nostri soldati, nessuno ha detto, ma tutti sapevano (in primis la<br />

televisione), che i nostri soldati erano protetti da contractors filippini.<br />

5. Uno degli aspetti più affascinanti dell’organizzazione militare<br />

contemporanea è l’organizzazione “a cascata”. Per esempio, i funzionari<br />

americani nel Golfo, o in Iraq o in Afghanistan, sono protetti da<br />

contractors che possono essere prelevati dalle truppe, i quali, a loro volta,<br />

sono protetti da altri soggetti, fino a che si arriva… per citare Bertold<br />

Brecht, ai cani, ai polli e ai mendicanti, cioè ai disgraziati che vendono la<br />

loro vita per poche centinaia di dollari al mese.<br />

I contractors italiani appartengono al “ceto medio” di questa<br />

piramide.<br />

Per fornire dei dati aggiungo che siamo in una fase di espansione<br />

del mercato, al punto che dopo le guerre post-fine del bipolarismo si<br />

calcola che per proteggere i circa 200.000 soldati americani e i circa<br />

90.000 europei che stazionano tra Iraq e Afghanistan siano presenti quasi<br />

300.000 contractors.<br />

Allora, qual è il punto? Perché racconto queste storielle e perché do<br />

questi dati?<br />

Il punto è essenzialmente che si tratta di persone che sono uscite<br />

dall’ombra di un mestiere “ignobile”, cioè considerato vergognoso –<br />

quello del killer – per acquistare, invece, il rango di difensore di alcuni<br />

nostri interessi collettivi.<br />

Fatte queste premesse, concedetemi qualche breve citazione tratta<br />

da una ricerca sulla quale sto lavorando, in cui sono riportati brani “piatti”<br />

di interviste: “piatti” nel senso che non opero alcun tentativo di<br />

interpretazione “profonda”, per un motivo che risulterà abbastanza<br />

evidente. Tanto per iniziare, descrivo rapidamente l’atteggiamento di un<br />

militare, un ex ufficiale dei paracadutisti che ha fatto il contractor e oggi<br />

81


ha abbandonato completamente questa attività. Per la precisione, egli è ora<br />

un mio collaboratore in campo scientifico, e sta per prendere una laurea<br />

specialistica… Questo testo si riferisce al primo episodio di combattimento<br />

diretto in cui sono stati coinvolti ufficialmente alcuni soldati italiani dopo<br />

la seconda guerra mondiale, vale a dire il famoso scontro al check-point<br />

“Pasta”. A un certo punto il mercenario narra quello che vedeva dalla sua<br />

postazione, dall’autoblindo sul quale era appostato: “Ombre che si<br />

muovono e danzano davanti al mirino, trattengo il respiro, premo<br />

lentamente il grilletto e parte la raffica controllata. I ragazzi sparano a<br />

raffica e continuano, non serve a niente, eppure disintegrano qualunque<br />

cosa ci sia all’interno, ma chi c’era dentro? Guardo nella penombra…<br />

nessuno, le ombre, o qualunque cosa fossero, erano andate via. A terra<br />

delle macchie di sangue, tanto sangue. Usciamo e di etro l’edificio<br />

troviamo i miei ragazzi rannicchiati in un angolo con gli sguardi vitrei<br />

dalla paura”.<br />

Quella descritta è un’esperienza qualsiasi che qualunque militare<br />

può aver vissuto. Ciò che emerge da questa intervista è, in buona sostanza,<br />

il carattere assolutamente procedurale dell’attività. Quasi tutti gli<br />

intervistati della mia ricerca sono persone che non avevano mai sparato a<br />

un essere umano, persone che in genere avevano una scarsissima<br />

professionalità, oppure militari anche bravi da un punto di vista strategico<br />

ma che non si erano mai trovati in un conflitto a fuoco. Le mie domande<br />

erano mirate esattamente a ricostruire il momento della verità, cioè quel<br />

momento in cui ti esponi, esponi la tua vita e/o la prendi a qualcun altro.<br />

Va aggiunto, per ben comprendere quanto stiamo dicendo, che nei<br />

conflitti e nei combattimenti contemporanei il nemico non lo si vede mai.<br />

C’è un bellissimo romanzo che si intitola Jarhead, scritto da Anthony<br />

Swofford, alla fine del quale l’autore, un ex marine che aveva combattuto<br />

nella guerra del Golfo, afferma: “Chiedo perdono a tutte le madri irachene<br />

per aver ucciso i loro figli senza averli mai visti”. Non si vedono, dunque, i<br />

nemici nei conflitti contemporanei: in un episodio che abbiamo ricostruito,<br />

avvenuto Iraq, c’è un gruppo di marines su un elicottero che scambia degli<br />

oggetti per delle armi, e procede a un “azzeramento”.<br />

In questi casi l’attore non ha alcuna consapevolezza del genere di<br />

violenza descritta nel libro di Ceretti e Natali, oppure in un altro scritto<br />

bellissimo di Jack Katz, dove sono descritte analiticamente tutte le<br />

interazioni che, confluendo, conducono all’atto conclusivo; qui, al<br />

82


contrario, stiamo parlando di persone che schiacciano un grilletto e<br />

polverizzano decine di persone.<br />

Quasi tutti i resoconti che ho raccolto nel corso di questa ricerca,<br />

che non è ancora terminata – per ora ho iniziato a l avorare su questioni<br />

solo apparentemente poco significative, come per esempio la formazione<br />

professionale, riservandomi di affrontare in un secondo momento l’analisi<br />

in profondità –, sono resoconti che comportano l’assoluta rimozione<br />

dell’aspetto sacrificale e soggettivo della violenza.<br />

L’uso che faccio della parola “rimozione” è lontano dal significato<br />

psicoanalitico. La curvatura che conferisco a questo termine rimanda<br />

all’idea che quello che noi facciamo agli altri spesso è come se non fosse<br />

visto dai nostri occhi: è s emplicemente una stringa in una procedura.<br />

Letteralmente, è una pratica che recupera senso solo all’interno di altre<br />

pratiche.<br />

Per dirla in termini assai semplici, stiamo parlando di quelle attività<br />

di aggressione mortale in cui sembra, a un certo punto, che la morte non<br />

esista… I film contemporanei sulla guerra in Iraq iniziano lentamente a<br />

mostrare che cosa significa trovarsi da quelle parti, soprattutto in relazione<br />

al fatto di combattere un nemico che non c’è, perché come sapete la “War<br />

on Terror” non ha senso, perché il terrorismo non è pr opriamente un<br />

nemico, ma una tattica. Ne consegue, semplicemente, che il nemico<br />

sparisce, così come la violenza e l’atto di uccidere. Rimane solo un’attività<br />

procedurale.<br />

6. È questo, in sintesi, il punto che desideravo toccare e approfondire.<br />

Dato che il tema che mi è s tato assegnato all’interno di questo<br />

seminario è “violenza e media”, alla luce di questi ragionamenti si evince<br />

che, letteralmente, la violenza è un mezzo. In ogni caso, le analisi che<br />

riguardano il modo in cui i media trattano questo tipo di violenza mostrano<br />

una logica assolutamente analoga, vale a dire la produzione di una realtà<br />

de-semantizzata.<br />

Un ulteriore quesito riguarda quei comportamenti in cui la violenza<br />

non è individuale, ma non è neppure una violenza collettiva. Questo<br />

passaggio è decisamente interessante, perché la violenza qui è Gestalt,<br />

ovvero qualcosa che ci sovrasta. È una specie di produzione di contesti di<br />

violenza e di morte, all’interno dei quali noi di fatto siamo gettati, in modo<br />

più o meno tragico, ma senza vedere...<br />

83


E allora, tornando ancora al libro di Adolfo e Lorenzo, ripeto per<br />

l’ennesima volta che ho molto apprezzato la critica che Lonnie Athens fa<br />

al modello interazionista classico, e soprattutto il tentativo da parte dei due<br />

autori di ricostruire un m odello genetico-dinamico di produzione delle<br />

logiche che portano poi a commettere atti violenti. Reputo che tutto quello<br />

che è s tato detto negli interventi che ho avuto la possibilità di seguire<br />

confermi – con integrazioni, variazioni, distinguo e rimandi giustificati da<br />

altri ambiti culturali – la significatività di questo approccio. Condivido<br />

pienamente, inoltre, che in questi ambiti di riferimento l’elemento<br />

giudicante della legge conti relativamente, e intervenga solo come fatto<br />

operativo. Detto altrimenti, c’è e… dobbiamo tenerne conto. Tutto questo,<br />

naturalmente, riguarda la ricostruzione dei percorsi attraverso i quali<br />

l’individuo, in situazioni interattive, cioè in situazioni di scambio di<br />

informazioni interpersonali, produce azioni sociali.<br />

Ma questi modelli interazionisti hanno senso, sono utili quando<br />

parliamo di azioni compiute dai militari contemporanei?<br />

La struttura dei ragionamenti contenuta nella ricerca di Ceretti e<br />

Natali mi servirà moltissimo quando riusciremo a intervistare i militari,<br />

mettendoli nella condizione di andare al di là delle banalità difensive che<br />

raccontano. Ma le scienze umane e le scienze sociali in senso stretto sono<br />

o non sono attrezzate per indagare la dimensione in cui gli individui sono<br />

gettati in moduli di violenza organizzata globale?<br />

Per concludere, sottolineando che la questione che ho sollevato non<br />

è solo un vezzo di un sociologo del tutto anomalo, cito una frase, che<br />

reputo ripugnante: è la dichiarazione di uno dei capi delle società di<br />

contracting più potente, e ch e vi leggo invitando a meditarci sopra:<br />

“Quando noi andiamo in qualche luogo, in qualche paese, avviene o<br />

perché siamo stati ingaggiati dal governo degli Stati Uniti, o perché siamo<br />

stati ingaggiati da qualche altro governo. Non mi vergogno di dire che lo<br />

facciamo per soldi, ma lo facciamo secondo le regole”.<br />

84


Note su Cosmologie violente<br />

Eligio Resta<br />

Si tratta di poche e veloci considerazioni che avrei fatto a voce. Avrei<br />

dovuto, ma soprattutto voluto esserci per discutere di questo straordinario<br />

libro che ritengo indispensabile per chi voglia avvicinarsi a un tema così<br />

delicato e, nonostante le conoscenze diffuse, sfuggente, come quello della<br />

violenza. Adolfo Ceretti non è nuovo a saggi di questo tipo, ma stavolta vi<br />

è qualcosa in più, come una condensazione di cose intorno a cui da anni<br />

andava riflettendo. Per questo lo ringrazio di avermi suggerito ancora una<br />

volta, insieme a Lorenzo Natali, nuove strade e nuove prospettive. Del<br />

resto si sa, ma non è una conclusione cinica, il mistero della violenza sta<br />

tutto nella sua “osservazione”.<br />

1. Chi è competente a parlare della violenza? Chi ne ha studiato anche<br />

marginalmente i percorsi sa che questa domanda appare, prima o p oi,<br />

ineludibile. Non c’è un sapere esclusivo, monopolistico della violenza<br />

eppure ogni sapere è competente a dire la sua su questo fenomeno. Anzi,<br />

da sempre, essa si presenta come un grande “campo” semantico<br />

(Bourdieu) che mette insieme spazi di esperienze e orizzonti di aspettative.<br />

Per-vade forme, attraversa comportamenti, disegna uni-versi sempre<br />

uguali e sempre differenti; a partire dall’epico e dal tragico. Non è un caso<br />

che Simone Weil definiva l’Iliade come il grande poema della violenza e<br />

non è un caso che in Eschilo essa si presentava sotto forma di somiglianza<br />

e differenza rispetto al suo complice e rivale che era la “forza”. Nel<br />

Prometeo incatenato Kratos (forza) e Bia (violenza) tengono in catene<br />

Prometeo e, a E festo che domanda “ragioni”, Kratos accenna qualche<br />

risposta mentre Bia rimane muta continuando nel suo compito (destino?).<br />

Kratos trova giustificazioni, mentre la giustificazione della violenza è<br />

quella di non averne alcuna. Sulla interpretazione seguente ha pesato<br />

troppo il paradigma politologico, fino a ridurne la portata.<br />

85


Dunque una delle domande ricorrenti nei discorsi sulla violenza è,<br />

non a caso, quella epistemologica. In maniera spesso non esplicitata, è<br />

stata questa una delle preoccupazioni, e u no dei problemi, del discorso<br />

scientifico. Per questo si è di ventati esigenti nei confronti del sapere<br />

scientifico: si è progressivamente richiesto di non avvilire la complessità<br />

del campo semantico e di conservare le connessioni, tante, non rigide,<br />

della dimensione della violenza.<br />

Qui tocco uno dei motivi di interesse vero per il libro,<br />

interessantissimo, di Adolfo Ceretti e L orenzo Natali. Il paradigma<br />

criminologico, puntuale, rigoroso, non si esaurisce mai dentro se stesso,<br />

non si auto-perpetua, ma si apre pagina dopo pagina alla “antropologia”<br />

della violenza (da non confondere con la sua riduzione disciplinare). Non<br />

ci sono guardie confinarie delle discipline che tengano, quando i temi sono<br />

veri. Ora, a p arte i f requenti e utilissimi excursus metodologici che<br />

accompagnano puntualmente ogni approccio al tema (soprattutto quello<br />

interazionista con le sue numerose varianti), merito indiscusso del testo è<br />

quello di ridare continuamente spessore alle tante osservazioni, ai tanti<br />

linguaggi con cui è s tata letta la violenza. Persino le narrazioni (story<br />

telling) segnano una continua riapertura del campo che nessun linguaggio<br />

formalizzato riesce inevitabilmente a chiudere.<br />

2. Ogni cosmologia, in quanto tale, è sempre potenzialmente aperta a<br />

qualsiasi dialogo tra bene e male… in presenza di uno scambio<br />

significativo tra perpetratore e vittima. In tal senso “fare il male assume<br />

[…] una dimensione relazionale” (p. 381). La categoria concettuale usata<br />

mi pare rilevante: gli autori parlano di cosmologie, al plurale, lasciando<br />

intravedere il carattere multiforme, plurale degli universi “vissuti” della<br />

violenza; anzi, quanto più si ripresenta una spiegazione causale definente e<br />

definitiva, tanto più il gioco della “genealogia” si allarga (a proposito, la<br />

narrazione cinematografica e quella degli attori anonimi, individuali,<br />

coincide in un gioco dotato di impressionante regolarità). Sarà forse da<br />

prendere sul serio quello che diceva Antonin Artaud sull’impossibilità del<br />

teatro? Dunque, le cosmologie! Termine mediato da Eugène Minkowski,<br />

Lonnie Athens e altri, ma fortemente valorizzato da A dolfo Ceretti e<br />

Lorenzo Natali: del resto uno dei primi saggi di Adolfo, che mi avevano<br />

appassionato, era dedicato all’idea de L’orizzonte artificiale (1992). Le<br />

tante cosmologie sono tutte costruite intorno al modello di un orizzonte di<br />

senso, più o meno vero, più o meno sostitutivo, più o meno immaginario<br />

86


dentro cui l’esperienza violenta si va a collocare (anche se qui la<br />

differenziazione tra vittima e violento va forse accentuata di più).<br />

Ma le cosmologie – è questa una mia domanda, un problema che<br />

voglio porre ad Adolfo – rischiano di depotenziare una sonda<br />

estremamente efficace dell’orizzonte della violenza, peraltro presente in<br />

tutto il li bro: voglio dire che al plurale delle cosmologie, tante, tutte<br />

diverse, corrisponde un singolare, del tutto privo di vizio metafisico.<br />

Questo singolare è la cosmologia della violenza. Tornando ai greci,<br />

kosmos è un universo dentro il quale si realizzano ordine e armonia;<br />

naturalmente! Il suo oppositivo è taxis come ordine imposto. Spesso i<br />

concetti greci lavorano mantenendo giochi oscillatori: accade così per<br />

l’archè che è insieme principio, origine, cominciamento, ma anche, ordine<br />

imposto, comando, governo.<br />

Kosmos indicava esclusivamente equilibrio di un m ondo che<br />

naturalmente si reggeva “abbracciando” (l’Ungreifende di Karl Jaspers)<br />

ogni suo contenuto: ogni altro intervento manipolatorio era taxis. La sua<br />

semantica indicava il luogo che si vive e s i condivide: è a mbiente,<br />

ecologia, luogo e senso comuni. Penso che tale semantica non vada<br />

trascurata, soprattutto a proposito della violenza. Questo significa che la<br />

violenza abita questo cosmo, ne è ricompresa, è presente, insieme alla<br />

forza (sua metamorfosi) e al suo contrario (a proposito, quale è il contrario<br />

della violenza?).<br />

3. Ridare dimensione ecologica alla violenza è passo indispensabile per<br />

evitare misconoscimenti e per prenderla sul serio: non è di altri, non<br />

appartiene ad altri mondi, è nostra. Qui il pensiero antico ancora ci parla.<br />

Aristotele nel definire la giustizia diceva che essa consiste nell’essere in<br />

amicizia con se stessi, indicando così il vero orizzonte ecologico: “se<br />

stessi” può essere l’individuo, ma può essere, appunto, il pianeta, il cosmo.<br />

La violenza non abita gli altri, ma abita il noi.<br />

Qui il passo ulteriore del ri-conoscimento è l a negazione del<br />

misconoscimento, ma è anche la consapevolezza dell’auto-inganno. Nel<br />

senso che bisogna sapere che ingannare la violenza è un gioco serio, che<br />

non bisogna raggirare l’inganno della violenza, che non si può declamare,<br />

ma che bisogna esperire per sé (l’obiezione dello stolto in Hobbes è vana).<br />

La teoria finora ci ha r accontato che non sono molte le vie d’uscita. A<br />

mostrarlo è i l singolare dialogo degli anni trenta del secolo scorso tra<br />

Albert Einstein e Sigmund Freud sulla guerra. Nel gioco delle tante<br />

87


“guerre con altri mezzi”, ci dice la teoria, si scopre una sincera dimensione<br />

virtuosa. Il diritto, i parlamenti, dove – e se – si coltivano meccanismi<br />

dialoganti, possono sancire la neutralizzazione della violenza. Ma bisogna<br />

prenderli sul serio, “non ingannarli”. Ovviamente la pace è un’altra cosa!<br />

Essa non può essere letta come semplice “interruzione della guerra”. E<br />

questo è il problema di ogni “pacifismo” e riguarda le relazioni tra gli<br />

Stati, ma anche le pratiche istituzionali e i rapporti della vita quotidiana: il<br />

globale e il locale. Intanto, in attesa dell’etica, non ci rimane molto altro;<br />

ma non è poca cosa.<br />

Nell’idea di cosmologia sono in gioco perlomeno due processi,<br />

diversi ma convergenti: il primo attiene a soggetti e s tatuto<br />

dell’osservazione, il secondo al gioco dei rimedi (il pharmakon). Per<br />

esempio, la retorica dei “crimini contro l’umanità”! Come se il crimine<br />

contro l’umanità non fosse umano, troppo umano, come se venisse da altri<br />

mondi, come se l’umanità (il suo cosmo), non producesse il crimine e nello<br />

stesso tempo il suo rimedio.<br />

Il cosmo dimidiato (i violenti e i miti) accomuna e lega allo stesso<br />

mondo e questo ci pone di fronte alle nostre responsabilità in maniera più<br />

aperta. Non c’è rimozione che tenga, non c’è skandalon che regga. Del<br />

resto, quando Walter Benjamin definiva la violenza (Tesi di filosofia della<br />

storia), parlava di una relazione che lega un prepotente e un oppresso, che<br />

assumono di volta in volta vesti e aspetti diversi, relazione di fronte alla<br />

quale andava sancito un divieto di stupirsi.<br />

Cosmologia allora è consapevolezza ecologica della presenza della<br />

nostra violenza, con la quale si convive e ch e non giustifica alcuna<br />

meraviglia. Ma è anche ri-conoscimento della possibilità del suo contrario.<br />

Finora la semantica “vincente” ha legato tutto a meccanismi immunitari (il<br />

diritto, la politica), ben noti nella loro doppiezza. Per anni, e continuo a<br />

farlo, ho insistito sulla categoria platonica della legge come pharmakon,<br />

insieme veleno e antidoto che ammala curando e c ura ammalando<br />

(dimensione condivisa dalla violenza e dalla tecnica). Vi è un’altra<br />

semantica, non vincente, esclusa ma non eliminata, che sfugge a ogni<br />

precettività e che, per questo, aggira la paranoia dei ta pharmaka.<br />

Essa è consegnata a modelli “debolmente” forti, paradigmatici senza<br />

averne la prepotenza: sono fondati sulla “scommessa”, sul mettersi in<br />

gioco personalmente, trasformando la paranoia della violenza (la coazione<br />

a vendicarsi), la sua “fissazione” in metanoia, trasformazione dall’interno.<br />

88


A ben vedere è questo il problema che il libro indaga attraverso i<br />

“racconti” e che in maniera esemplare pone come il senso di una ricerca<br />

sulla violenza. Lo fa lavorando su vari versanti, non ultimo quello<br />

dell’etica laica, ma non trascurando di mettere a fuoco il tema del “male”.<br />

Mi ha colpito perché, laicamente, il problema va posto e non<br />

misconosciuto; del resto è stato quello il tema tardo di Norberto Bobbio<br />

nella sua autobiografia e la domanda che si poneva era perché Stalin<br />

muore nel suo letto e Anna Frank muore in un forno crematorio. In attesa<br />

del tribunale della storia, ricordarlo è già un porre il problema.<br />

89


Indice<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali<br />

Presentazione 5<br />

Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali<br />

Verso le “cosmologie violente”. Per una guida alla lettura degli atti<br />

violenti 7<br />

1. Una premessa 7<br />

2. Oltre la psicopatologia e il determinismo sociale 8<br />

3. La prospettiva criminologica di Lonnie Athens 9<br />

4. Lo sguardo dello scienziato sociale: l’ottica interazionista 12<br />

5. Dentro alcuni “concetti sensibilizzanti”: tra “soliloquio”,<br />

“comunità-fantasma” e “interpretazioni delle situazioni” 14<br />

6. Un esito mai scontato 17<br />

7. Verso nuovi concetti sensibilizzanti: le “cosmologie violente” 18<br />

8. Cosmologia e dimensioni psicopatologiche 22<br />

9. Cosmologia e “macrocosmi” sociali 23<br />

10. Cosa intendiamo fare? 25<br />

Gabrio Forti<br />

Il “dominio” penale come cosmogonia. Critica della violenza e<br />

“bisogno interiore del diritto” 27<br />

1. Narrare gli attori violenti 27<br />

2. La rimozione moderna del carattere comunicativo della violenza<br />

e il suo recupero “cosmologico” 30<br />

3. Il “dominio” penale-mediatico 37<br />

4. Al di là della cultura della violenza e del “bisogno interiore di<br />

diritto”, lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito” 50<br />

Alfredo Verde<br />

Il problema delle narrative del reo 64<br />

Appendice 75<br />

Alessandro Dal Lago<br />

Cosmologie, media e violenza 75<br />

Eligio Resta<br />

Note su Cosmologie violente 83

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