I Viaggio del Nautilus pdf - La poesia di Alberto Caramella

Alberto Caramella
I VIAGGI
DEL NAUTILUS
Postfazione di
CARMELO MEZZASALMA
Casa Editrice Le Lettere

In copertina:
Carlo Passigli (1881-1953).
Bragozzi verso riva (primi del Novecento).
Bragozzi verso il largo(primi del Novecento).
Firenze, Collezioni private.
L’autore ringrazia:
- il prof. Giorgio Luti, il prof. Mario Graziano Parri e il
dr. Fiorenzo Giuliani per i consigli;
- la prof. Marta Cipriani per la bella fotografia del nautilus,
dovuta a Saulo Bambi, tratta dal Museo de «La Specola» di
Firenze;
- la dr. Eleonora Massa per l’ampia didascalia che illustra la
riproduzione del nautilus
Copyright © 1997 by Casa Editrice Le lettere - Firenze
ISBN 88 7166 358 6

Se il puro fatto della sopravvivenza lascia pausa o
spazio di riflessione ognuno secerna un filo di prote-
zione per ricreare la condizione felice perduta da
quando con dolore abbandona l’aveo materno, ferito
dal respiro, dalla luce e dalla notizia della propria
morte.
Iniziato con ‹‹Mille scuse per esistere›› (Casa Edi-
trice Le Lettere, Firenze, 1995) il viaggio attraverso un
cinquantennio di poesia prosegue col secondo volume
del ciclo.
A.C.

NON INDAGARE
Non indagare (infausta scienza) il tempo
dato a noi dagli dei, o Biancaluce,
non provocare i fati. Meglio sia
soffrire sorte ignota! Voglia Giove
contarci molti inverni o adesso l’ultimo,
che sulle opposte sponde il mar Tirreno
stanca, godi il calor del vino, e saggia,
lunga speranza falcia in lasso breve.
Mentre parliamo, il tempo fugge astioso:
cogli nel giorno il giorno, d’altri incredula.

PARTE PRIMA
STRARIPANTE AMORE

Si schiude la finestra s’apre il giorno
il tempo della luce qualche suono
ed il profumo che la pioggia esprime
tra gli alberi pesanti, riposati.
Il cielo basso e lungo, coltre tenera
avvolge l’aria fredda limpidissima.
Si schiude tra le palpebre e riprende
il mondo ancora.

“MARIO NEL CUORE”
Sta scritto al cimitero
in stampatello rosso
sulla recinzione,
ed è sicuro
(stampato sul bandone)
lo stampo della
resurrezione.

Stamani uno spiraglio si è slargato.
Un raggio sempre più s’è dilatato.
Ho visto l’universo, nel creato,
che ordina al suo meglio la funzione:
la forma che nel caos si riforma.
Pensa ed agisce per bellezza Iddio.

PLURALE
Ho passato la notte all’addiaccio.
Era triste il mio cuore, di ghiaccio.
Presto alle tapparelle stamattina
-per la curiosità di controllare-
la vista grigia mi rassicurò.
Durava ancora il mondo
per curiosità.

La radio la mattina, le parole.
Nell’alba alabastrina si dispoglia
semplice un tempo di felicità.

DISGELO
Vuol cantare di sé nell’universo
ogni più piccola cosa del mondo
impareggiata minima tessella.
Primadonna. E’ quella
l’universo vero
l’altissimo pensiero.

Gli sparsi panorami si moltiplicano
s’alternano che fingono d’esistere
tralucono al proscenio, si dileguano
meravigliose luci: messinscena
di straripante amore (participio
del verbo straripare).

INTERO
E’ come un battito del polso
che s’accorge di sè con meraviglia
e si ritrova in lucertola al sole
in lucciola che brilla tra le stelle.
Poesia è scrivere col cuore in gola
e con la penna a sfera.
Poesia è come
un battito del polso che s’accorge di se con meraviglia
e si ritrova in lucertola al sole e tra le stelle
in lucciola ritrosa. E’ come scrivere col cuore in gola
e con la penna a sfera.

ONERI
E’ l’ora del giudizio quando devi
trarre le fila della lunga guerra.
Il rumore il sudore s’allontana
cala a rilento la polvere volata
e nitide si fanno le disfatte:
bisogna allinearsi sul terreno
recuperare i morti le ferite
e prepararsi agli ultimi onori
pronti a servire gli ultimi orrori.

L’ESTREMA FORZA
Attraversiamo amici
ancora un’altra
regione della paura.
Quando sei tardo
e vecchia è
ogni speranza
quando il cimento
riporta all’impotenza
ed il terrore avanza
osa e si discosta
l’anima ignara onesta
se osa impavida
levar lo sguardo
e fissare il passo
(che teme mentre tracotante appressa)
come se fosse il rifugio estremo
la sua forza.

Vedo lontano all’orizzonte e giungo
appena all’angolo di questa via.
Spingo la pietra. D’ogni lato spinge.
Non graffia l’unghia. Il ringhio s’arrotonda.
Sguardi silenti s’avvicinano. Si aprono
efferati denti splendenti. La paura
s’agita fuori e dentro
la morte invadente. Fuori la morte
Dentro la paura.

BENE(DETTA)
Le calze in tinta ed il cappello rosso
ad ala passeggiava con sussiego
e pigolava dolce la damina
luminosa, protesa col sorriso
sotto la frangia e l’ala, luce rossa
nera piccolina.

TAVOLO CONTRO FINESTRA
Sbocciano nel vaso
gridando di dolore
gialli e luminosi i fiori
che lasciano nell’acqua
la traccia opaca
dei loro polsi tagliati.
E disperata fuori
corre la campagna
(non so se fugga o se s’incontri al giorno)
disorientata ghirlanda.

LE VITE PARALLELE
Straordinarie vite
alle soglie di dite.
In generosa corsa
di magnanimità.
L’uomo con l’uomo
nei libri della storia
più non compete
l’uomo con sé.
Regna feroce e molle la confortata
disumanità.

INNO AL DOLORE
Se non avessi sofferto l’ardore
non conoscerei la fiamma.

L’INDOMANI
Svegliarsi
da un sonno secolare.
Trovare ignoti accenti,
che rochi suonano
ineducati svelti. Gli occhi brillano.
Lingua nuova gioiosa.
Fieri del giorno stanno accanto ignari.

CONNIVENZA
Il vuoto dado
volta nel caso
vuole si gonfia
s’illude si spreme,
buccia del seme.
Fa conto d’ignorar
che l’io fu dato
perché gettato prestamente il dado
fosse, e fosse tolto
necessariamente
precipitosamente
dal gioco.
Io sono il dado
che è rotolato,
complice, allato.

FOLLIE DOLIE
la vita confonde
e qualche perdita opaca di sperma.
Sentimenti memorie
umidi pensieri
si disperdono
in un arcipelago di pelle
dissennata.
Si diffonde
qualche perdita opaca di speranza.
Dopo anni ho mangiato i mirtilli
edule bosco setoso minuto.
Poi sono andato a mostrarmi la lingua.
La ruba dei mirtilli non si cela.

FARINGE
Lo so che non dimentichi le pieghe
le pieghe rauche della tua faringe
dove cantano note di sirena
colme del giubilo di dolce pena.
Ognuna torna come acuta l’onda
monta e ribatte sulla scarna terra
che se ne sfibra nelle sue caverne.
Per ogni suono alieno hai magro fiato.
Non ne conservi nessuna memoria.

Rimbalza il mare giorno dopo giorno
sui mesti scogli degli stessi lidi.
E d’ogni colpo muta la barriera.

TROVATA
Cantavano gli amanti trovatori
la malattia di terribili amori
che se le belle non ne consentissero
(appena viste da dietro le sbarre)
per certo i cavalieri morte avrebbero.
Fortissimi nei raggi della vita
rapporti poverissimi proibiti
correvano fugaci fulgidissimi
(erano belle e misericordiose)
sicurissimi lampi d’attrazione
chiusi nel mondo dell’immaginazione.

LA PERDITA
(Sgoratura)
Ho perso
una gattina
nera con
i piedini
bianchi ed
una macchia
bianca sotto
il collo se
qualcuno la
vede si prega
telefonare
al numero...Ma
il numero purtroppo si è sgorato.

A PROPOSITO
del rosso sangue con cui (scrivi) vivi
come (con paura) una vittoria o gloria
la vera morte d’altri e non la tua,
la malattia. Bravo. Davvero bravo
voglio tu sia.

IL MERCATO GLOBALE
Homo sapiens
habilis
faber
ludens
oeconomicus
consumens
globalis
Homo consensualis.

IN FORMA DI SOLILOQUIO
Impersoni con tenacia il vuoto.
Mostri che sia l’assenza una struttura
seria la fai pesante: spiega cosa
come può stare il vuoto alla coerenza?
Il vuoto, vedi, è vuoto e dentro è niente.
Perché primeggia politica e vana,
sempre la prima scelta più ruffiana?

EX-SISTERE
Non so perché son stanco ma felice.
Non so perché la sete cresce ancora.
Non so perché io viva ma pur vivo.
Strana irridente carceriera ingiusta.

BAGNASCIUGA
Sembra che la terra,
pura meraviglia,
appena qualche granulo
stemperi nel mare.
Nell’umida risacca
l’onda si allontana.
Vive grato il cenno
della tenerezza.

COMPAGNA DI LIETA GIOVENTU’
(immaginario ritratto)
Ardevano i suoi occhi di bambina
nel volto un po' pestato, vecchio clown.
Guardavano nei luoghi del passato
che aveva condiviso, lei con lui.
Trovavano tra ciprie un po' cadenti
la luce dell’amore, il sacrificio.
Fedeli ad un percorso stabilito
volgevano un po' bassi
verso lui.

SONDA SPAZIALE
(con eleganza)
Perché meravigliarsi
che la forma muoia
se già morta si limita per definire il kaos?
Spazio finito avrà
tempo scaduto necessariamente.
Forma garbata
elegante mito
sei nata piccolina,
luogo fugace
e tenti invano il molteplice infinito.

PREGHIERA
Nella foresta
diffuge il rivo.
Il lume tacito trepida appena:
preghiera linda nella cattedrale.

EUROPA
Quando non hanno nient’altro da fare
s’incontrano gli Eredi a lavorare.
Febbrile vive l’altro mondo e brulica.

Di calabroni a grappoli serrati
piega la rosa al peso e quella accanto
fiorisce invano e cresce solamente
per pubblicare il trionfo dell’altra.

PIETRAPUANA
Tra fumi lievi cala il mattino sul verde
sul mare sugli alti ciliegi, rossi gemelli.
Cauto il silenzio respira.
Temerari marmi rupestri vegliano
che titani scalpelli
a giorno taglieranno
a nudo traendo lastre e leziose figure
immobilmente piene di nostalgia.
Da marmi giunti (inattesa preghiera)
l’occipite troncato il corpo pende
miracolosamente sano. Rosso
appagato d’incerto candore
il sangue pare vergogna che prova
la morte di mostrarsi in luce aperta
sopra l’improvvisata pietra cimiteriale.

SCRIGNO
Porre mano, frugare nella zolla.
Multigemina ricchezza
sorpresa della terra.
(la cucciolata dei funghi porcini,
tra foglie di castagno,
grandi piccini).

SCANDAGLIO VII
Fedele alla sua legge immersa in sé
sta fissa dove trova i suoi perché.
E se talora il caso verso gira
non sei già tu che muti. Attento mira
e pur vedrai che l’altra ancora induce
già che tu vai chiamato, dove vince
la stessa legge, come vuol ventura
che d’altra schiava, schiavo ti farà.
Beato con la frusta impari. Oscura
qual è per tanti la vita dilegua
né trovan questa forza che divora
che genera alla luce con dolore
all’ansia alla balugine al terrore
alla poesia, e che a morte matura.

CHIUSO SPLENDORE
Puro gioiello accolto tra le mura
dov’erano i fossati
ora alberi e giardini e verdi prati,
Lucca ripete canti di palazzi
bianche platee chiusi anfiteatri:
vicoli chiari bellezza discreta
sicura che ripete miti abbracci
tra le mura.

NIENTE GRANATIERI
(ignoto militi)
Nei miei pensieri al padre accanto, ieri.
Una radice operosa. Nessuna
interferenza fuori nella luce.
Pochi discorsi poche carezze lievi.
A palmo a palmo contesa la sorte.
Il secolo dei lumi dell’impegno.
Era lontano quello del consumo,
della rovina male organizzata,
(tra noia e noia agonizza la gioia).

I PARTI DELLA SOLITUDINE
Non ricordo il dolore di nascere
(maremoto eruzione terremoto)
l’efferata invasione del respiro
per vivere la nascita, crudele
taglio che fino all’ultimo andando si sprofonda.
Ieri dell’estremo
(l’io partorito lacerato vecchio)
conservo l’efferata
sanguinosa memoria di dolore.
(l’esplosione negli occhi senza luce).

A FINE GIORNATA
ho disturbato uno stormo di passeri.
Sono fuggiti tra cavoli radi da solchi
ricchi di chissà cosa dimenticata
verso valle levando un frullo d’ali
una mobile griglia punti neri
come se note sparse sul pentagramma avessero
preso la fantasia bizzarra ed improvvisa
di librarsi: e di farsi da sé suono.

LA RADICE DEL GIUGGIOLO
Il tronco sotterrato:
il verde cristallino
le foglie risplendenti
il frutto marroncino
dolce e riflessivo
forte sotto i denti:
tutto disseccato,
promisero sapienti.
La terra morbidissima
felice riscaldato
cinse cautamente
il tronco sotterrato
e sotto ancora sotto
cresceva la radice
nascosta buia serra
pilastro nella terra:
la radice del giuggiolo.

OTTO E MEZZO
(il genio di Fellini)
Figlia sorella madre sposa amante
sei la circonferenza il raggio un radar di
feminità.
Madre sorella figlia sposa amante:
soffitta meritata a tutte quante.

SPELLO
E’ così fitto in questo luogo
il segno dei tempi sovrapposti
che l’un sull’altro distruggono attenti
e vuol ciascuno il proprio segno eterno
che si scoraggia la curiosità
che tutti i sogni
si sbriciolano insieme
come trame fugaci di vecchiezza.
L’ansia di restare si mortifica.
Nemmeno in un tempo infinito,
distingueresti le tracce sovrapposte.
L’orma non nata è già finita. Adagi l’osso
inidentificato
nella fossa comune mescolato.

SI VEDE
(l’errore grossolano meraviglia)
dapprima un ruvido cespo verdastro
che asciutto si mostra. E subito riscoppia
una cascata di fiori negli occhi:
sontuosi violetti cardinali
usciti dal conclave inaspettati:
fuochi artificiali
dianzi alla vista opaca fuggiti e ora
fissi nell’esplosione filiforme
fissi allo sboccio del loro splendore.

GIORGIONE IMMAGINATO
(E, dunque, è tutto).
Corrono in folla maschere liete
le dolorose e tristi si rimescolano.
Ma poi gioia e dolor teneramente
avvinti danzeranno tra la gente.
La morte è neutra. La vita indifferente.
Bisogna vivere come fosse niente.

PALAZZO SFORZA ALMENI
(la visita)
Nel passato percorso
a piano a piano, c’era il palazzo
che la speranza sembrava salire
tutto nel futuro.
Ad ora s’è infittita
la folla d’ombre che l’hanno scalato
da quando ancora l’America non era.
Come tornare viaggio secolare,
partito appena, d’oltremare in visita.
Tutt’era eguale, tutto era mutato.
Argo, riconoscente, ma non c’era.
La tela in una notte sola, intera
resa ai suoi fili recisi.
Nessuna coda batteva,
nessuna fedeltà.

TEMPI DURI
Se un attimo si ferma si sorprende
a fare sempre le stesse cose.
Si guarda il tempo, si candida per noia.
Ma poi rifugge. Nega l’idea.

LAPALISSIANA
La vita evapora fiati sfuggenti
senza patire né vedere niente:
ferita sanguina inguaribilmente:
taglio percorso da brevi suture.
Non c’è rimedio alla chiara prigione.
Non muti, evaso, la breve ragione.

SGUARDI
E’ strano: dal caffè ch’è tanto nero
è sorto chiaro l’azzurro del cielo.

CONSTATAZIONE ED IPOTESI
(cosmogonia ritmica)
Una sostanza plastica vitale
inanimata viva universale
veloce intercambiabile moltiplica
nel moto sempre identico, medesimo,
diacronica molteplice nel tempo
mossa da intenti tutti diseguali
per tanti quanti sono i tentativi
i meccanismi che devono adeguarsi.
Crea la chiave serratura propria:
interazione e contrapposizione.
La soluzione vive e l’organo si fa
tra possibilità necessità.
Ed ogni minimo punto di vista,
originale individualità,
è necessario nell’eternità
simillimo talvolta e sempre solo
trascendente immanente sempre sé.
Moto in potenza moto in atto stasi
l’identità in due diverse fasi.
Si muove l’essere al nulla contrario
spazio esistenza tempo e movimento:
ma qui si ferma la constatazione.
Punto di transito fugace esiste
mera l’ipotesi dell’esistenza:
mediatrice tra l’Essere ed il Non.
Per attimi li svela: che si svela.

Avrai sempre per me un parco avanzo
marsupio affettuoso ed io per te
un porto di carezze dopo il vento
il tempestoso mare il cui vigore
affronti brami spegni, e non la sete.

SUBITO CARO
Quando ogni volta
alla mente s’affaccia
il pensiero leggero o d’una mano
o d’una parola (non sola)
che illumina,
come un’alba timida trionfale
tra la collina e il mare,
o d’un guizzo che traspare
tra pelle e vene
del piede teso
ad indicare
un porto totale
subito scroscia la dialisi calda
doccia di bene
che lava ed accompagna il sangue nelle vene.
Quando appassito il delicato peso
fiorisce invano dalla lunga stele,
giace lontano,
testimone di fredde distanze,
di estraneità:
subito caro,
oggetto di struggente nostalgia.

VERTICALE
La montagna a curve bianca danza
e per dirupi
folle gigante dislegato.
Timpani senza suono
profondi spazi
orchestrano, percuotono
l’onda che per gli occhi
fino alle cime al cielo
all’orizzonte impenna
e cala al mare.
Tenta il respiro immenso i suoi confini e torna
scivoloso appagato in pace.

DIMOSTRAZIONE INUTILE
Ognuno arriva in proprio da lontano.
Mani occhi forme diversi colori.
Ed i nipoti fanno un passo ancora.
La bocca dolce è quella della nonna.
Il naso era del nonno e quelle orecchie
tal quali vedi al bisnonno in cornice.
Un passo ancora crea carne comune:
divino Amore.

DEDICA A UNAMUNO
Figlio ognuno di ciò che concepisce
e crea e delle azioni sue. La stirpe
comincia e già finisce in lui. (l’Hidalgo).

Luce che bussa agli occhi ancora chiusi
emerge viola grigio il panorama.
L’arco del mare l’arco del percorso
un universo intero salderanno
dall’alba al tramonto.

INSISTENZA
Dall’alba che s’inganna sulla luna
che bianca si confonde verso il cielo
al giorno che percuote l’universo
nel fulgido solare mezzogiorno
e scivola già stanco nel meriggio,
fino alla pace della lunga sera,
il moto circolare, luce ed ombra,
scandisce la misura del creato:
tuttuno l’Uno volge su se stesso.
e fugge verso il cielo.

PARTE SECONDA
BIANCALUCE

Ti sveglia stamattina un giorno snello
che bussa lieto e suona il campanello

TARASSACO
(bugie)
Mentre la notte all’alba si rischiara
sorgono all’alba nella bruma gli alberi
teneri globi rotondi offuscati.
Principiano leggere falsità.

GRANSEOLA
Di granseola che bionda mima il mare,
nel vento lieve duna appena nata
le durissime scorze articolate
con la grazia di mimi d’astronave,
antichissimi sottili meccanismi,
oppongono ostinata resistenza
prima che ne esca polpa da brucare
la neve bianca caduta nel mare.

Nuvola schiacciante
si sveglia stanco il sonno dalla sua fatica.
A volte tutti gli occhi sono chiusi
e stride il cielo.
Giacciono verso terra
lucide basse serpentine palpebre.
Nessuno vede
oltre la finestra.

CRIPTOCULTURA CLASSICA
Pensate solo per endecasillabi,
invertiti decomposti fulminati
rovesciati ricomposti compensati.
Tornate ai piedi ai segni elementari
a suoni quasi non articolati. Bisogna
cominciare daccapo, senza dimenticare.

FIORE DURISSIMO
La vita alternativa non vissuta
si volge ancora al fiore del carciofo
che in mille petali duro s’avvolge.
L’ultimo fuoco fatuo
chiama a nascondersi
nella palude.

Il mare piatto sciacqua alla battigia
che l’orizzonte, chiuso a un passo solo
confonde nel grigiore verticale.
Ma l’indomani molle e luminoso
è tornato lontano l’orizzonte
come se chiaro fosse stato un fiato:
respiro chiaro nell’oscurità.

ESQUIMESE
Era il paese delle ombre lunghe,
dove l’orso giocava sui declivi
che pescava in oscure fenditure
argentate guizzanti prede crude
odori sprigionati dagli abissi.
Un caldo di bambagie luminose
nel vitreo riflesso dell’igloo.
Dietro gli occhi un computer gelidissimo
impostava a priori sillogismi.
Nel ventre per suo conto si muovevano
(moti binari scelte di aritmetica)
impulsi di segnali d’attrazione.

Serena la colonna trasparente
trapela colma al guizzo delle squame
e volta e cangia svelta il suo colore
come maestoso l’ulivo di Ulisse
al vento d’Itaca guizzava d’agosto
grigio di verde d’azzurro di mare.

FOCIOMBOLI
Da mille sfogli sottili del monte
scrigno dei marmi del mare ancestrale
un dito di acqua pura si assottiglia
ogni dì che l’agosto il ventre asciuga.
Zitta la fonte tace a notte fonda
come tace e s’asciuga questo pianto.

PROTESTA
Chissà da dove il pensiero raggiunge
col dono greco dell’insufficienza
che con l’inganno sollecita fede
più che non basti, libera, al pensiero:
dato e non dato con la stessa mano.
Questi enormi graziosi elefanti
e muscoli scattanti e piccolissimi
insetti verminosi, o pallidi batteri:
mangiano si tramandano e rifiutano,
proprio come noi: non di più eguali
o più ferocemente concorrenti.

GENESI
Traballò, oscillò, tentennò.
Decise di cadere.
La coscienza i fati ci hanno dato
come fungo malefico esglobato
concupiscenza d’un creatore oscuro.
Questa odiosa luce
che brancolando acceca ma non spiega
unico dono preziosissimo arde
generando una fede dubitosa.

LO SPECCHIO DELLA COSCIENZA
Se la soggettività
si forma
per comune imputazione
di sopravvivenza
(cellule tessuti organi)
perché originale nacque
(l’ossessione della riflessione)
la coscienza di sè
l’implacabile specchio?
Perché non altri, “Io” penso?
Penso che è bello stare
pensando poco
pensando vuoto
pensando niente.
Penso ch’è bello
lasciar andare.

LA CULTURA DELLA PISCINA
Con gli occhi lustri della primavera
si rubavano gli occhi e la parola
in costume da bagno.
Nessuno pensava, ma lo credeva:
e sola correva la gioventù
rosso vessillo di primavera.

Poesia più bella è voglia di poesia.
La leggerà la rivivrà.

SAGRADA FAMILIA
(i viaggi del nautilus)
Il fondo già crostaceo del mare
si colma di crostacei marini,
di fili d’antichissimi molluschi.
Fioriscono coralli rossi e neri
o candidi velati dalla sabbia
di pesci che s’innalzano fugaci.
Sontuose elaborate architetture
ricrescono moltiplicano immagini
di rigide feroci geometrie.
Contorta fragilissima spezzata
fluisce liquidissima paura.
Si sentono le squame che si drizzano.
Si chiudono le chele che si nutrono.
La foto del nautilus evidenzia una struttura geometrica a spirale logaritmica che
ricorre in svariate manifestazioni della natura: le galassie a spirale, la forma delle corna di
alcuni animali e di molte conchiglie, le onde dell'oceano e parecchie altre. Si tratta di una
geometria senza confini: da qualsiasi punto di partenza si può viaggiare su questa linea
all'infinito sia verso l'interno che verso l'esterno. Una particolare forma di spirale
logaritmica è la Spirale Aurea che può essere costruita a partire dal Rettangolo Aureo i cui
lati stanno tra di loro nel Rapporto Aureo: un numero irrazionale le cui prime cifre sono
1,618034...
Il Rapporto Aureo è misteriosamente noto fin dall'antichità ed esercitò un grande
fascino nell'antico Egitto, nell'antica Grecia, presso le civiltà precolombiane e nel
Rinascimento, e su studiosi e uomini di pensiero di ogni epoca: da Platone a Pitagora fino
a Leonardo da Vinci, Keplero e Newton. Le sue proporzioni sono naturalmente piacevolí
all'occhío e furono assunte come canone di perfezione nell'arte e architettura classica.
Possiamo ritrovare questo rapporto nelle proporzioni del corpo umano, nelle armonie
musicali, nelle eliche del DNA, nella distribuzione a doppia spirale dei flosculi delle
margherite e dei semi di girasole, così come nella forma delle carte da gioco e nelle
proporzioni della Piramide di Gízeh e del Partenone.
Nel XIII secolo il matematico pisano Leonardo Fibonacci, uno dei grandi pionieri
intellettuali della storia - fu lui a introdurre in Europa con il suo Liber Abaci (1202) il
sistema di numerazione decimale di derivazione indo-araba, oggi universalmente usato,
indispensabile base di partenza dei futuri sviluppi scientifici -, nel risolvere un banale
problema relativo al tasso di riproduzione di una famiglia di conigli si imbatté nella
sequenza numerica oggi nota come sequenza di Fibonacci e che è stata oggetto di ampio

studio fino ai giorni nostri. Questa sequenza è di semplicissima costruzione: i primi due
numeri sono pari a 1 e ogni numero successivo è la somma dei due precedentí:
1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89,l44,...
Man mano che si procede nella sequenza il rapporto di ciascun numero della serie
col numero che lo segue e con quello che lo precede si avvicina rispettivamente sempre
più a 0,618034... e 1,618034...,. il suo inverso. Le peculiarità di questi numeri, che
ricorrono sorprendentemente in molte manifestazioni naturali, sono riflesse in una lunga
serie di singolari e per qualche verso misteriose relazioni matematiche.
Tra le due guerre mondiali un geniale americano, Ralph Nelson Elliott, durante un
lungo periodo di convalescenza si dedicò allo studio delle serie storiche di prezzi sui vari
mercati finanziari ed elaborò un modello del comportamento dei prezzi che ha la serie di
Fibonacci e il Rapporto Aureo ad essa connesso come naturale base matematica.
L'assunto di Elliott (la sua scoperta) fu che le tendenze di mercato, espressione e risultato
finale di complessi fenomeni economici, sociali e di psicologia di massa, si manifestano, si
dispiegano e si invertono in un apparente caos cui in realtà è sotteso un disegno
strutturale profondo e generalissimo, che riflette una armonia di base insita nella natura
stessa.
La struttura delineata nel modello elliottiano si può riscontrare su tutte le scale di
tempi, dal grafico minuto per minuto a quelli di più lungo termine. Ipotizzando di utilizzare
una lente di ingrandimento ogni onda ingrandita, impulsiva o correttiva, mostra una
sequenza compiuta di onde al suo interno e analogamente su una scala più ampia una
sequenza completa di onde può essere vista come onda componente una sequenza di
ordine superiore: evidente esempio di manifestazione di una struttura frattale.
Sono molti i fenomeni della natura che per la loro complessità e non linearità
(piccole perturbazioni possono produrre grandissimi effetti) trovano la loro interpretazione
scientifica nell'ambito della moderna teoria del caos. Essi spesso manifestano la loro
forma nello spazio secondo le tipiche geometrie frattali: la crescita dei rami dell'albero, il
percorso frastagliato del ghiaccio, la conformazione irregolare delle nubi, la struttura della
rete di neuroni del cervello, la proiezione sul video del computer dell'insieme di
Mandelbrot...

TEMPORALI
La bianca nuvola s’inquina lontana
d’un primo cirro che spinto dal sole
nero conduce ressa tempestosa.
S’aggirano veloci e s’attorcigliano
nel vortice le spire bianche e nere.
Tra brevi lampi di luce smerigliata
radi silenti fulmini frantumano
crepe lucenti nel cielo offuscato:
s’impasta nelle viscere risucchia
sangue mortale liquido assassino.
La turpe fuga l’uscita sicura.
Scampo non offre. Crepe di pazzia.

SPENDIDIOR VITRO
Guizza e balena
mormora o scroscia
il fresco canto
ora più svelto:
ora più alto:
l’onda di vena
lieta della gioia
aperta dalla pena.

BIANCO
Era il paese dei morbidi sogni
planati sul nitore della luce.
Un libro di stupori risplendenti
tra candidi segnali si svolgeva.
Le favole leggere, ripetute:
rilette pigramente sopra il letto.
I casi dell’amore della vita
dei prìncipi, le fate, le fanciulle
l’intrigo delle sorti dei perversi
svanivano in epilogo cortese:
e non restava più, libero sogno,
che forse mezza pagina di bianco.

Gli atti mancati
(non li volevo)
si sono riesumati
si sono
criptorealizzati.

Si ripiega negli occhi l’interesse
balugine lontana tra le ciglia.
Si spiega vellutata una carezza
dispersa nell’opaca indifferenza.
Cala il sipario della negligenza.

NOTTURNI PASSI
(a piede libero II)
Quando la notte pura incantata il braccio ripiega
stelle stringendo alle stelle e il cielo adorna compunta
mitica luna devota, e limpido chiaro risplende
tenero lumine labile, l’occhio s’indugia e s’innalza
tarda silente preghiera, felice pagana deità.

PARTE, PARTICOLA.
Mistero semplice la solitudine.
Si spiega tutta nel particolare.

L’universo particolare angoscia, pone
l’interrogazione
se sia possibile restare:
se, molteplice pasto
ad esser uno
indolente appagato
non nato,
essere si possa
ancora presente.
Risponde molesto
il rumore di fondo confuso disceso
dall’universo.

GOMITOLINO DI LUNA
dolcezza tralucente
nequizia sorridente
ti si piega
tra cellula e cellula
la luce del languore
la tacita richiesta
di protezione e d’amore.
(Serpente pallidissimo affamato
nel cielo nitido geco inchiodato)

ZELO
La mosca al vetro
ronzando batte. E ribatte
zelante sonora.
Talvolta, per fastidio,
aprendo,
liberiamo l’insetto.
Mai nessun dio a noi
rese il servizio.

CORRIDA
(a piede libero III)
Funi dall’alto li legano sopra le cave fumanti.
Come formiche rodono massi a spizzico al monte.
Strappano forti peli dal folto mantello drizzati,
calvo lasciando l’immane bisonte piegato.
Scabro nel blocco di marmo vorrei morire sepolto
come enorme sigillo impresso lavato e deposto.

MADONNA
Tradisce la più dolce delle spose
col padre col figlio
e col marito. E chiaramente s’apre
il tradimento dell’amor finito.

L’INFEDELE
Fulvo cane di gran pelo
si chiama life.
Sull’erba celebra strisciando il dorso
e con l’olfatto placido saputo
poco entusiasta
riconosce si sbaglia
e come pianta bagna.
Poi si distrae, tradisce:
e tenta un morso senza convinzione.

Del tradimento é come della morte.
E’ destino, si sa, ma tuo già mai.

L’astice stamani si è svegliato
con la voglia d’azzurro nel fondo marino
e blu brillante raggomitolato
tra la sabbia e lo scoglio, zaffiro smarrito
cerca invano il cielo grigio chiazzato
bruno accatastato come un lupicante
sperso nel pescato.

AMO IL SILENZIO.
Col mantello slacciato
a falde aperte scende variegato
di suoni minimi:
ali inesistenti
che volano nel sangue e fanno lieve
il peso della pelle.
L’onda comune unisce cose insieme:
torna l’anima lontana.

Bussano invano: non si
scrolla il muro.
Immani massi bagnati
sono a colloquio indifferenti,
lustri severi
al passato, al passato futuro.

LA VERECONDA BELLEZZA DEL MONDO
Non c’è nulla di più bello del mondo
che s’affaccia roseo
confuso della sua bellezza tenera
unica dolce disperata colma
come confusa dalla sua bellezza
esita e s’affaccia
vereconda,
ferocissima donna.
Non c’è nulla di più bello del mondo
roseo nella sua bellezza
dolce confusa disperata colma
come unica donna.

OCCHI MECCANICI
Due acini sbucciati d’uva scura
riguardano dall’alto degli snodi
d’insetti modernissimi
sapienti
indifferenti.
Si velano talvolta d’appetiti
che muovono sollecite tenaglie
edaci nel silenzio,
scricchiolanti
di pasti non po' svogliati tardi,
lenti.
S’incendiano talvolta d’arse luci
che spezzano la stretta degli involucri.
Si pongono indifesi, scarni insetti
al crocevia d’ogni caso di strada
o d’altri passi.

OZIO
Dissolvere la trama
studiosamente intessuta all’ordito
è la tranquilla regola del tempo.
Sornione amico che opera oziando.

TUSCIA
Alla prim’ora quando la realtà
impallidisce e quando si dissocia
l’aria della notte,
nel mondo senza più riferimenti
si levano per cuspidi dorate
all’orizzonte i monti pesciatini.
I monti pisanini tra le dita
dell’alba s’accovacciano rotondi
ricompattate masse di dolcezza
nel panorama piano della Versilia.
Dilagano nel cielo come fonte
di favole narrate dalle fate.

PERCHE’
non riconosci il disperato errore
le pieghe di tentar d’altro canale,
se la legge lo vieta sull’uso
delle frequenze?

CALATE
Se l’alveo tarda appena alla sua strada
l’acqua che sgorga subito devia.
Morta palude, il lampo del pensiero
s’appozza spaia e si sprofonda via.
Discende luminosa la colata
ma vuole subito lo stampo pronto,
o si disperde informe raggrumata,
dove dapprima docile s’adagia,
più tardi assiduamente accarezzata.

QUANDO PENSO
un pensiero registro altrove nato.
Chissà, se sento, da dove sento.
E come è libero
il nostro arbitrio
se come l’acqua
discende a valle?
Eppure io vivo
di libertà
per esser tale
(polvere al vento)
qual esser devo
precisamente.
Come un soldato
disciplinato
che nulla sa:
ma per puntiglio
tiene il suo posto
ad ogni costo:
in libertà:
pura assoluta (la libertà)
necessità
della necessità.

PARSIMONIA CONOSCITIVA
Il nostro mondo è corto
quanto il corso l’intende
della luce se quando
arriva più non parte
(o esatta non riporta la sua fonte
vicinissima lontana).
Non avrai scienza
di ciò che è stato ed è,
eternamente,
se non immaginando, che non è,
con la poesia col libero pensiero: i miti
il mondo degli dei: dove il mondo vero
lampeggia a tratti nel pantarei.
Se dalle nostre mani
nasce l’attimo luminoso vero
sicurissima immagine ridente
dolcissima creatura della mente,
allora forse sei.

SULLA CIMA DELL’ALBERO
il terrore barbaglia
e sciabola a tratti montagne di mare,
frange di buio strappate dal vento.
Non sa non vede il marinaio se possa
trovare la tolda lontana.
All’umido legno alla corda
bruciante si afferra.
La paura monta. Diventa
sgrammaticata vile preghiera.

CORTOCIRCUITO
Sembra che spieghi un pensiero. Vuol dire (ci crede)
che quel che sente lei nessuna sente.
Cortocircuito tra pelle e mente.

CONTNUTO E CONTENENTE
Quando l’idea si consegna precisa
s’illumina d’un lampo il contenente.
Un nuovo territorio ti sorprende.
Più grande scuote
l’onda sonora. Si rassetta la mente.

IMPUTAZIONE
Se colto il frutto vale e non da chi.
Di ciascuno amputata la memoria
sarà gloria
del suo pensiero, della sua parola.

IMMANENZA O TRASCENDENZA
Ho concluso di non – aver nessun pensiero.
Io sono nero un punto
sulla lavagna dove
qualcuno scrive da dentro da fuori
in nero sul nero
senza darsene – nessun pensiero.

PRESUNZIONE ARBOREA
Accogliente.
La mia radice è vasta buona grande
ed anche santa.
(Chissà che nel cosmo
non abbia ragione).

IL TRONO LUDOVISI
Col nudo piffero l’amor profano
si giace e l’altra pietra incisa specchia
dell’amor sacro la velata immagine
che in quella tutta aperta si rimira.
Come se fuse un’unica medaglia
recasse intente le facce di Giano,
opposte a riguardar la stessa forma
che nutre devota e si spoglia e canta.
Nata dal mare all’aer sottile Venere
a sforzo è tratta e d’atro limo seco
fertile serra il laborioso peso.
Perché si compia il giorno e il suo contrario
l’alba il tramonto adduce e segue l’alba
e sempre tutto in tutto si disdice.
Tra muto canto e gelida preghiera
sul trono s’aprono dolore e morte,
mentre la pietra sfalda a poco a poco.
(Alacre s’arrovella il seme ignoto).

ANCORA
Dove l’erba rompe l’asfalto
è nato un fiore solo
indifferente del deserto intorno
e della ruota che lo schiaccerà.
Oscilla lieto
(o forse è l’illusione del colore)
alla brezza che scende
dal bosco vicino.

Azzurri gialli ciclamini
strillano di gioia
strappata al vento
e sfidano le rocce radicati
dirimpetto alla pietra che sovrasta
liberi come dorati pensieri.

ESECUZIONE ALL’ ALBA
La prima luce appena dalle imposte,
reca tristissima certezza nuova
di solitudine di fine imposta
alla speranza resa in fortilizio
che ascende pallida le tristi scale
dell’alba ed offre al cappio, pendolare,
le bianchissime membra destinate
alla scomparsa prima d’esser nate.
Sei morta nel mio cuore alla primalba,
speranza candidissima, stamane:
quando s’è aperto il vuoto della luce,
al tuo candore, peso senza luce.

EFFONDI
siccome effonde un verde pascolo la gioia
d’essere brucato
che suscita la fame e la riplaca
che gode di distruggersi: nell’atto
che ciuffo dopo ciuffo rode e strappa.
Rimane indietro l’animale stanco

CLUB
Nella penombra della grande sala
le stecche una partita il bianco avorio
gli schiocchi acuti e il rapido seguire
dei rumori felpati risonanti
verso i birilli teneri perdenti
brillavano stanghette vuote occhiaie
nel cono delle luci, immobilmente.
Correvano spezzavano d’ovunque
con lignea tristezza palle d’ebano.

Sono stato un postino diligente.
Ho tutto consegnato, com’era di dovere.
Ormai merito il grado superiore.
Se non lessero non ne ho riprensione.

DA CHE DIPENDE
l’intollerabile darsi:
un baleno di pelle
un empito
che spinge alle vette
scalate nel vento
dell’universo reale sottomesso immenso
oppure spenge
nella totale debolezza estrema,
disinteresse del respiro uggioso.
Dal caso di cellule riposte
da scontri lontani
di sostanze ignote o d’ombre
pervadenti vene labili squarciate
da vanità, a rischio d’ogni evento
anche che non o non insieme fossero:
caso dopo caso
biglie impazzite che scelsero
innumerabili la via,
inenarrabilmente.
Fino alla penna
che per miracolo scorre.
Oppure è ferma (e sogno).

GLI AMULETI
Cellule tese gioiose di fare
vibrano cantano. A tante voci
nessuno pensano potrà negare
pietà. Le righe scorrono
e s’accavallano. Se non delude
la vile assenza prezioso forse
il filo aperto si salderà.

IRONIE
Un’insegna
ed un’altra
nella via.
Per la prima
l’agenzia è di viaggi:
oltre in vetrina
le pompe funebri
di prima mattina.

MEMORIA
Appena sa
che qualcuno sta morendo
s’affretta a cancellarlo vile
per cancellare, in quella, la sua morte.

IL PARADISO DELLE URI’
Dovrebbe farsi cosa la credenza
che pone rinnovate in paradiso
le vergini dianzi deflorate
premio al valore di guerrieri eroi.
La casta oscenità il mio rimerita
di una devota che dopo ogni battaglia
fedele torna come appena nata.

MULTA PAUCIS
Le trapelava il canto dalla gola
per la felicità che si aspettava
generosa
di quel più che traboccava
come se niente potesse negare,
o tutto non potesse conservare
al momento vero.

LE APUANE
bianche di neve e di marmo tra cirri
grigi sfumati all’imbrunire vegliano
alla mercé d’ogni sorte.
Le ultime lame di chiaro maestose
rampano in cupe imperiose raggiere.
La strada corre
nitidamente incontro alla sua corsa
sporco bitume che invoglia
ora a svoltare
il volano della sorte.

FANCIULLESCA II°
Sul grande leccio
all’imbrunire
son mille voci
una per foglia.
Nemmeno il vento
si raccapezza
nell’eccitato scambio che saltella
tra penna e penna
compatto brillante
prima del buio.

PARTE TERZA
PASSO DI DONNA

METEMPSICOSI IN SALITA
Quell’andatura lenta del bacino,
il moto stanco tardo a incamminarsi
coinvolgente, stento a risvegliarsi,
come ovale una ruota su se stessa
prima risale e poi discende ad onda...
riconosciuta mai veduta (ombra)
dalle infallibili onde del cuore.

LIBERAZIONE
Dalle braccia magre ancora
una colomba vola
già fuori quadro, oltre la città.
Caro amico che guardi dal futuro
era questa, dicevi, l’incertezza
(ho provato il ritratto, non è come volevo)
che ad ora ci contempla dal futuro?

FRANCESISMO
Struggente si disegna
un arco in cielo.

DESTINI
Inondato d’amore il dolce flauto
quanto bramavo che molle discendeva
grazie dal seno, e come pervolevo
come piegavo ogni forza infantile
a rendermi più grande della minima età!
Ed ora il dono necessariamente
è mio senza più guerra e sono e fui,
bravalbertino.

DESTINI
Quando pensavi che costoro
fossero i pilastri del futuro
e non i ruderi già pronti del passato
soffrivi agli atti ed ai pensieri loro.
Ed oggi guardi
che ripetono ciò che è sempre stato:
il volo indifferente
libero stridente colmo del suo niente.

GENERALE DI SEGGIOLA
Rimescolando le giocate sorti
cerca l’errore e come (in pensione)
scansarlo e vincere
provando il brivido che della gloria
mancò sul campo.
Perché non darsi ancora un’occasione
truccata: conoscendo il gioco
così cambiato in niente?
Si fanno buona compagnia
i generali in pensione.

PSICOLOGIA SBAGLIATA
Così non fui ruffiano
aprendo a forza il cuore con le chiavi
dell’amor facile, comprando a prezzo
vile l’anima fanciulla.
L’amara libertà
dell’amore non piacque.
Né meritai l’amore grato
donato, libero: come
sulla panchina sopra la città
quando piangevo leggendo il vangelo:
umiliata la forza,
umiliato il potere
vinta la legge del mondo
dal caldo pensiero del cuore.

Con tristezza ritiro la mia mano
l’ombra fastidiosa
il tentativo vano
di dar seguito al tempo consumato.
Ma forse un poco d’ombra
tenera struggente
era più calda del sole svelato.

NECESSITA’ DELL’OPERA E DOLORE UMANO
(in copertina)
S’intravedeva dianzi il porto ed ora
l’ormeggio: come dipinte le barche
al lido controluce insieme tornano
recando il sogno misterioso a sera
dell’avventura vissuta, (ventura),
ed il messaggio della prossima pace.
Più presta l’ora, luce ancora fiera,
nell’identico quadro dell’amico:
magnifico il tramonto trasportava
acque e carene meno grigie a largo.
L’opera vidi per intero unita:
ma l’alea il più saggio rifiutò
ad evitare all’uno o all’altro pena.

SELINUNTE
Frammenti distaccati di memoria
vagano divelti dal contesto,
zattere scheggiate, resti di naufragio:
forme fantastiche
che tracciano nuovissimi contorni,
liberi pegni d’archeologia.
Spezzano salse calure nel piano
dove una volta la città ferveva
dove i mercati le folle il porto erano
ed ora il vento spinge tra i cespugli il mare
e ferma il tempo.

NESSUNA ANGOSCIA
La memoria che morbida si adagia
nell’onda lieve della nebbia nuova
non sa le cose fatte, o se pensate.
La luce che trapela è la più candida
fuori dal tempo, fuori dall’azione
e finge un panorama in sospensione.
Non proprio un sogno. Una liberazione
dai codici ristretti dai binari
sui quali sbuffa goffa la realtà.
Non saper più dell’attimo fuggente.
Basta il silenzio. Dalla sua memoria
altri novellerà, che creda rammentare.

I
INDIZI
Il primo gocciolone riarso penetra
che solleva la polvere leggera.
L’odore che si sparge è polveroso
d’umido appena.
Se rada e fitta la caduta insiste
butterata da morbide esplosioni
a garganella beve l’arsa terra.
S’appozza nuova nel profumo greve
e schizza rotta la pioggia di pozzanghera
che l’anima rischiara e che raffresca
il cielo.

II
SECCO
Quando la lunga siccità s’incrina
di soffici esplosioni
l’odore che si sparge è polveroso
d’umido appena.
Se rada e fitta la caduta insiste
schizzano rotte gocce di pozzanghera
ed il profumo è greve
finché nuovissimo fresco sentore
l’aria rischiara.

GOCCE
Desiderata che non sapevo
pioggia di montagna
consistente
a larghi goccioloni radi
come se il mio presagio
liquefatto avesse queste pietre
in un benessere sognato
che riposa ed appaga, tristezza beata.
Questo momento, fermo, m’aspettava
nell’eternità. Ho perso
tutto il mio passato.

RIPETIZIONE NORMATIVA
Si ripete uno stanco destino.
Esci a volte da luoghi abitati
dove a lungo sostava la vita
il lavoro l’amore il dolore.
Luogo già pieno di libri di cose,
le cose care, e di mobili oggetti,
che dovevi passare per riprendere.
Ma non ripassi più.
Come se morta scacciasse la morte
e dovessi lasciarle il suo posto.
Senza pensarci più.

LA LAVA
E’ come se la vita
giacesse sonnacchiosa
testuggine noiosa
scabra resistenza
pelle inaridita.
Ma poi d’un tratto un moto
scintilla generato
da pura volontà.
Vive, granito fuso,
serpeggia sotto canne
emerge levigata
la forza senza età.

GLORIA
Perché pretendi d’esser ricordato?
L’oblio neghi degli anni venturi
ma dimentichi di te quasi ogni cosa.

COLLOQUIO MUTEVOLE
Col pianto riscatta la sua debolezza
così forte onnivora caparbia.
Ha ricevuto in dono dalla sorte
la pubertà
insieme all’onniscienza.
Meglio
una fetta di pane di campagna meglio
con olio pepe sale e un sorso
di vino.
Si fa dare scrosciante
la prima tenerezza.

Tutti i gatti che incontro se lo godono
il primo sole sul colmo dei muri
al sicuro composti per un tacito
universo concorso di morbida placida
stirpe guerriera che sognando rende
attento distratto l’omaggio
guardingo dello sguardo.

IL CUGINO LORENZO
Era dianzi la casa della Paola
ed ora chiamano i nipoti quella
casa di Lorenzo.
Per tutti è ormai passata la vicenda
che faceva con pena quella casa:
colma di bambini.

PARCE FILIO
Quand’hai donato la vita
e tutto ciò che puoi,
per l’amore che hai dato,
per essere trapassato
nei pensieri suoi
a rara stilla
cosa preziosa è resa
che non avesti mai.

ABBORDAGGI
Come pirati che l’hanno condannata
prendono qua e là
contendono al naufragio.
Nessuno pensa di salire in plancia
e di scrutare il mare
fresco pulito dall’assenza nuova.
(Non ho sprecato niente, ho ben guardato
al sacrificio delle mie radici.).

ASSOLUZIONE NOTTURNA
Ogni giorno ho sprecato il mio giorno.
Ho gettato nel vento il mio seme.
La natura ne spreca a miliardi.
Sono il cibo di tanti strozzini.
Ricomincia ogni segno ogn’istante.
Silenziosa la formula si scinde.
Cede ioni risalda elettroni.
Infinite fatiche insensate.
Insensato ronzio degli insetti.
Si ritrova una pagina bianca.
Rimpianto inutile meglio dormire.
Non va sprecato il prodigioso spreco:
essere vivo senza conoscenza
dolce sparire forte riapparire
perfetto stato vivere e non
tempo finito senza dimensione
che al risveglio non esiste più.

SAN GENESIO
Da una formella rustica
scolpito col violino e con la maschera
detto Ginesio in lieta confidenza
protettor degli artisti allegro mescola
le nostre con le sue benevolenze.

IL PAESE APUANO
la storia modesta scrive
tra ortensie giganti
tra semplici pietre
linde consunte e
nuove povere fabbriche.
Ingenuamente,
per vicoli e terrazze
come la gente ospitale
serena
come il martire
da commediante
eletto Genesio.

LA FESTA DEL SANTO PATRONO
San Ginesino
festa grande due giorni in paese:
Messa, pranzo e grande processione.
Dal pergamo tuonava il sacerdote.
Non solo festa, martirio cristiano
sofferto per la fede.
La folla crede
ma il giorno lieto scorre pieno
della voce a contralto delle donne
che appresero ad usar quella soltanto
per tintinnare un segno cristallino
dal chiuso
delle vesti buie.
Passa di casa in casa,
nei vicoli s’arrampica tenace
la gioia pagana.
Ginese musico
teatrante e saltimbanco.

PORTATRICE DI CANTICHE
Nell’attrazione
lucido fondo della creazione
inventa la natura la bellezza.
Quando l’esilio l’attesa
tarda la fiamma
preme il respiro
alla bellezza
(l’unico scongiuro) sperando attendendo
all’illusione.
La vita.
Il moto lieve la pagina bianca
cimenta la bellezza
spaventa elusiva.
Il desiderio
fugace ammicca
che illude al possesso
e subito convince all’impotenza.

CHEOPE
Era un signore grande grosso saggio
della lezione della sua bottega.
“Invecchiando, mi creda, torno scapolo”
(non disse “solo”).
E poi l’erede sempre all’uscio pronto
e la voglia che l’opera continui
che si scongiuri poco tempo ancora
la necessaria scomparsa totale
anche di qualche riga salvagente.
Merita solo che tutto sia raccolto,
che si riordini il monte affastellato
in puro solido quadrato triangolo
con al vertice l’occhio puntiforme:
la teca cristallina la piramide
che sgretolata domina il deserto.

AL DENTE AVULSO
Vecchio compagno addio.
Hai sofferto quand’io soffrivo
hai sorriso con me
hai compartito
laborioso il cibo:
il fiato vano
del mio pensiero.
Dal secchio occhieggia
il segno rosso del nostro destino.

Giacciono in queste righe tempi sovrapposti
come se un duttile metallo avesse
preso in prestito l’acciaio. E poi
il verde ruvido della ginestra
l’asprigno odore
della foglia d’ulivo
quando inverdisce
l’oro mellifluo
del suo sapore.

PER MARE
Strumenti politi
distinti ufficiali
attendono ordini
tremando mi siedo
sorrido tranquillo
sul trono del re.
Trenta mille volte
mille chili sotto
danno mura certe
al trono del re.
I tonfi del mare
sul ferro bagnato
si sentono appena.
Dal ferro sepolto
sussurri lontani
piegata potenza
sommessa preghiera
al trono del re.
Brandeggiano torri.
Trinati cannoni
si levano al cielo
gole profonde
tuonando, tuonando
tra scrosci di fuoco.
Immani tamburi
timpani immensi
percossi da me.
Son pallidi attorno.
Guardano me.
Io debbo restare
sul trono del re.
Lontano lontano
son brevi fiammelle
son certo candele
offerte recate
al trono del re.
Un fischio s’avanza
descrive la curva

segnata dal suono
che m’indica a dito
converge su me.
Cento mille volte
mille d’intorno scoppiano
tutte intorno e sotto
al trono del re:
cancellano bruciando
il cuore tremante
stupito del re.

ARRIVEDERCI
Oh, quanto
avrei voluto esservi accanto,
amici rimandati, nel passato
che un tempo sembrava lontano futuro,
con un saluto vago: a presto...addio.
Quanti così lasciati ignoti. Ed ora,
ognuno vi ricerca la memoria
per tessere il rapporto inesistito.
Che trova solo interminati spazi
di nostalgia
e tracce vuote
di malinconia.
Oh quanto,
quanto io potrei
amarvi ancora...

VEDUTA DI COMPLEANNO
Ma se lo sguardo digradando scorre
mestamente le balze
ardue scoscese,
quando s’innalza dolci piani scruta
lontani: e stagni che s’accampano
tra le righe dei fossi fioriti
alla luce brillano,
le zolle intrise, feconde, coprendo.
La sera sembra che risplenda nitida
più del mattino: sicura placata
prima del buio.
Bisogna aver vissuto per vivere
la gioventù.

TARDI
Scrivo righe pentite ora e non prima.
Fuggono a guadagnare polverose
estati quando i suoni si perdevano
nel rumore del mondo. Ora di perdere
la vana scorza m’ingegno, le paure.
Lasciarsi andare giù per la discesa,
come se al vento volassero i capelli
come se il passo fosse più sicuro.
Prima che il freddo asciughi l’ore gelide
resta la calma estate di San Martino:
la gioventù che tarda ad arrivare.

NAZARIO
quand’ero sfiduciato
timido mortificato
il tuo presentimento
m’ha dato strada
ad altri eventi
rigenerando vita distaccata
rassegnatamente.
Mentre vivo
sento il debito e la tristezza
di un ritegno
che ora si scioglie
come invano si sciolse
la nostra dimestichezza.

ABBEVERATA
a lunghi sorsi in gelida cascata
inestinguibilmente l’acqua pura.
Nuova di fonte rinasce ogni cellula,
come nel mare nacque l’unigenita
prima. S’irrora il bosco che ondeggia
nel grigioverde del fondo del mare.

GIORNO E NOTTE
Pensieri nuovi e antichi
rotta la diga
l’uno all’altro prestano e contendono
prodigio che spaura
l’urgenza del suono
della fecondità,
l’ansia del piano, pacato lago
nell’oscurità.
Un brivido silente a notte corre
a fil di schiena dal tranquillo pelo,
specchio di chiaro d’oscuro mistero.
Imperturbabile occhio semichiuso
che di qualcuno attende la pietà
che la palpebra abbassi e chiuda il cielo.

ESISTERE
Alzo la spada lucente,
non so dove correndo levando
un grido orrendo disperato e fiero.
(L’acqua precipitando
la rapida inghiotte.
S’accalcano sabbie e macigni,
greggi folli rotolano.
Il mare frange
agli opposti orizzonti.
Correnti profonde maestose
risucchiano pesci informi
che luminosi guizzano all’incontro.
Ignoti cortei percorrono i cieli le cime.
Atomi e mondi
vibrano fondono
lampi fugaci
tuoni assordanti.
Cadono parole attonite
scaglie di lebbra, orazione volubile
voci morenti, maledicenti.)
Essere finalmente,
tra esseri fermati immobilmente:
generati dalla meraviglia:
essere Dio.

SENTIRSI
finalmente arrivato.
E’ una fatica tentar di capire
improba che ti fa vecchio.

STANZA DA PRANZO
Fresco è l’appetito.
Un’ansa di sole
che alle tende ondeggia
infiora il verde della valle.
Il monte inala un respiro profondo
e gli occhi spiana, tempo verrà,
che aspettando spiano
l’acciottolio vicino.
Con l’acqua
di vin bruno appena rosata fresca
si è mesciuta la gioia
di lasciarsi vivere.

...E PER TERRA
Il grande guerriero
ha l’elmo il cimiero.
Ha il volto deciso
è debole in cuore.
Guida le squadre
le punta lontano.
Fan fuoco i cannoni
son più di trecento
preparano il passo
sconvolgono il piano.
Le timide ombre
tra taciti sguardi
fedeli servili
si copron smarrite
lodando la forza
di tanto guerriero.
Avanza e balena
s’avvia come un santo
padrone del tuono
votato al piacere.
Fan fuoco i cannoni
sovesciano il piano.
Son polvere e fumo
gli scoppi potenti,
la rabbia il furore
di pavidi scontri.
Poi sale il mattino
fiorisce nel sole
si perde nel vento
possente il rumore.
Il grande guerriero
si guarda d’attorno
son vive le foglie
aperte le zolle
pungente il dolore.
La morte è passata
non c’è più potenza
non c’è più timore.
Si volta a chiamare,
è vuoto è stupito:
son fermi i cannoni
le squadre disperse
il sogno è finito

finito il piacere.
Non resta che un moto
nostalgico in cuore
un pallido sogno
svanito nel sole.
Di sangue s’inzuppa
ferrigna la veste,
rosseggia il dolore.
Ripiega il suo volto,
si spegne il Signore.

SEI E SEI
(o non sei?)
Essere il tramite l’umile tronco:
per fittissimi rami,
per mille frutti e foglie numerose:
come presenta la genealogia.
Esili tronchi alteri sottili
levano foglie fini come fili
nell’aria cercano lieta leggerezza,
suonano il flauto di nuova purezza
con eleganza libera solare
e che dissecchi il tronco miti attendono.

PONEVO RUVIDE
le fondamenta
di piani sovrapposti
di maestoso palazzo
nitido e pulito, di firma dell’Alberti
che nella mia sognavo.
Un dolce olivo è nato un pino, segni
acuti vigorosi ed un cipresso,
un ciuffo di quercioli attorno al ceppo
nuovo tra le pietre
indistinte che fanno da bordura
alla libera terra
ai liberi semi.

Le mie ragioni:
le mie prigioni.

LIBERTA’
(per uso improprio)
Pretermessa controllata postergata:
a una meta, a uno scopo rimandata.
Per essere formato, rifiutata:
per timore la vita s’uccideva.
Ora la libertà agli anni estremi
prendo e l’altra libertà m’attendo.

NON IO
Incontentabile, sorda alla gioia
che leva archi conclusi sereni,
per scambiar sorti infide e cromosomi
oltre il recinto sempre o gli occhi o il cuore
ebbra del gioco e del destino spinge.
Ha la Natura il vizio del gioco.
Ma non l’ho io. Troppi lamenti. Addio.

ORDISCI IL GIOCO
il numero la carta, fili docili.
Demoni folli burlano, disperdono
la libertà la potenza e la gloria.
La sorte che contraria ti trascura
è prona ad altri adesso ignobilmente.
Riprovi allora sempre.

FONDALI
Se nasce dalla spuma il nome è Venere:
molle di lacrime goccia di gioia.
Tra alghe e stelle
ignara custode
a sfida del tempo
di faci stancate
d’incerto pensiero
gioca e rigioca
sempre.

L’ISPIRAZIONE
Si sveglia l’incredibile foglio
rettangolare voglia
di scrivere qualcosa
in caratteri strani:
e si dispera
fino a giorno
fino a quando ragiona, fino a sera
fino a quando,
s’apre e si posa il fiore della notte.

LIBRI
Scrivere è come accendere una miccia. La fiamma
corre. Se spenta nessuna luce nessun fragore.
Nessuno saprà.
La parte antica della biblioteca
scoperta dal curioso navigante
riserba una sorpresa. I libri sono
come scheletri appesi. Qualche costola
ha retto polverosa. Del resto cumuli,
manciate morbide di segatura
segnano il passo tra le vecchie mura.

CULTURA
La massa è critica.
Rischia lo scoppio incontrollato. Ormai.

SONO
pietre per costruire
le parole: e non
orina da spruzzare
maledetto cane.

BRODO DI CULTURA
Scava dove si scrivono e riscrivono
libri dal vero.
Inventa i tuoi messaggi d’oltretomba
traducendo dai codici di cellule
sapientissime vive formule
cultura prenatale, biblioteca
nel sangue del pensiero coltivata.

TEMPERIE
Tutto varia
furiosamente:
la relativa
stabilità della mente la sua
compresenza
è di pura follia.

Esperienza mistica.
I
La fervida fatica slega l’anima
che nel profondo sale alla sorgente.
Al calor bianco penetra il pensiero.
Un numinoso coro d’armoniosi
suoni prende la mano e all’universo
che detta dentro, riconduce insieme.
Sciolta la pelle che la pietra vive
intendi: e il fuoco e l’acqua e suora morte.
Infinite le cose si conoscono
unica vita, sterminata stella.
II
La fervida fatica al calor bianco
se fonde la barriera slega l’anima
che nel profondo sale alla sorgente,
e un coro numinoso di rotanti
sfere di suoni d’armoniosi intenti
prende la mano detta dentro fonde
e riconduce all’universo insieme.

INTERNI ETRUSCHI
Distesa il servo chino sulla schiena
regge la schiava che l’Etrusco appoggia
aperta alle sue spalle e prende in piedi.
Alto il meriggio asciutta la calura
prende la messe i boschi la collina
fiero nel vento, all’universo fuso.
Rito eternante nel frusciar nel buio,
vero ne volle l’abbaglio sotterra
che ad ora brilla, percosso tra i secoli,
dolce terra spiando fuori. Et idem.
(Candidissima nox, materna fulgens).

II
Ridente schiava il servo a schiena china
diletta al fiero Etrusco offre che morbida,
nell’universa terra traboccando,
appoggia sulle spalle e coglie ai piedi.
Dal triclinio di tufo arso contempla,
fuso nell’ora ai boschi alla collina,
l’attimo eterno: che scintilla ad ora
la dolce valle sogguardando, fuori.
(Candidissima nox, materna fulgens).

III
Che si dibatte invano. Tutto
ha da far posto a tutto.
Pianto, bellezza, dolore, amore.
Tutto deve finire.
La poesia per far posto alla poesia.
La bellezza alla bellezza.
Questa mano ad altra mano
che trasparente incalza e l’accompagna.
La memoria alla memoria.
Senza eccezione.
Non si può essere
memorabili a miliardi: le righe
coprirebbero il cosmo di nerume. Tutto
deve esistere.
Si poteva tardare un attimo di più
(fatica inenarrabile di stilo)
salvare qualcosa quando
tutto era poco
e c’era posto per serbare al poi
forse perfino ai figli
(già morti se ne scrivi).

IV
Prova a gridare in una casa solo
e lo scomposto suono torna a te
e sai che si è turbata la quiete
e si è sfogato, invano, il tuo mancare.

CARPE DIEM
Su questa terra luce prodigiosa
nascita cosmico assoluto giorno.
E sia preghiera:
lirica asciutta
molle preghiera dell’umanità.

Diminuisce l’unità di misura
è troppo lungo il giorno
è l’ora, qualche briciola, un istante
e nulla più.

FUTURO
Sarà concreta eretta la parola
nuda come pietra
che della vita
la sostanza minima
i pochi istanti veri
modulerà la massima.

Da quando visitai nei dintorni di Chiusi una tomba etrusca, allora non aperta
che di rado ad uomini soltanto, mi segue un attimo remoto così reale che letto
nella stanza affrescata sembrava appena nato.
Nel pomeriggio or ora fuori lasciato, in salita verso la collina con i boschi che
respiravano nell’umido tombale la dolce calura del meriggio asciutto di
quell’ora, tra le messi vivide di vento sul crinale, il Lucumone prendeva un
attimo regale.
La schiava stava distesa schiena a schiena sullo schiavo chino: e l’Etrusco,
fiero in piedi di tre quarti, quasi di spalle, la prendeva tenendole le gambe
sulle spalle: guardando (forse lei ma) l’ora: l’ora e la terra coniugando nel
possesso: nel mistero. Che nei territori dell’inseminazione illude e
ricomprende l’appropriazione senza confine o fine, che si confonde, potere e
gloria, col piacere della pelle: e con quello dell’anima nell’universo.
Era così vero così eloquente il messaggio universale ricopiato dalla mano
paziente del pittore, che lo stesso identico protagonista sembrava essere
(non esistere): vivere, e lui stesso dipingere.
Non varrebbe la pena di darne cenno se non fosse che l’attimo di tutti, la
folgorazione la compenetrazione il senso divino la luce di un “Io” creante
realizzato in perfusione materna di connubio con Dio (un attimo iddio) si è
perduto nella notte risplendente, ma conoscenza pura, anima, sensazione,
paga -appaga-, spiega -dispiega-, colma -ricolma- e torna opera.
L’Etrusco prese la terra ancora a lui vicina, senza incertezza: il
contemporaneo spia, incerto e diffidente, l’abbaglio forse non più vero: ma
poi il miracolo torna e scintilla ancora: et idem fuit.
La dilatazione universale nel tempo e nello spazio, e nella pienezza interna
dello spazio/tempo di un’anima (dell’anima) immortale trovano la chiave
(“candidissima nox materna fulgens”) che risolve filosoficamente e
psicologicamente il rapporto, concetto puro, di dominio se/altro tal quale si
realizza univoco e perfetto nella notte materna (specularmente sia dal
generato al generante che dal generante al generato): buia: chiarissima:
risplendente: immutabile: eterna: una: dominata: piena. Nella miracolosa
reciprocità speculare di alterità e di fusione dell’io e del non io: la coscienza
(o la sua mancanza) essendo solo un incidente.
Il miracolo vero è, insomma, la forma (bellezza) che media, spiega, unifica,
differenzia ed esistendo e bruciando (mutando) tuttavia “è”: come la luce e il
suo contrario.
La fiamma dilaga negli spazi. Nel secondo dilata la sua concisione in ipotesi
che qualificano il fatto: e annulla ogni percorso cronologico o esistenziale
nello svolgimento (perciò solo apparente).
Nel terzo la forma manca al suo scopo (non “è”) e si frantuma, come un
corredo di cose preziose disavvedutamente dissepolto.
Nel quarto risuona il Grido. Le camere della tomba sono tutte percorse. Non
ci sono altri spazi.

PARTE QUARTA
MECCANICA MINORE

INVITO
Odi prometto e strade rampicanti
(lunghe visioni attimi correnti)
un coro di campane scampananti
a tutta ruota e poi festosi
bimbi felici altalenanti
a la lor fune appesi ebbri del suono
che insegue nei campi le peste leggere d’agosto
precipiti fuggenti. Che mai sia
la corsa (finalmente) a due vincente?

ALBA
Sembra un antro la luce che trapela
verde e rosa
e n’esce piano all’orizzonte il giorno grigio chiaro
mentre il cavo leggero annacqua il suo colore,
che lì rapidamente
cola e si liqua
disfatto velo.

Si trova tutto scritto nelle righe.
E’ stato tutto scritto tra le righe.

“M’HA DETTO BELLA”
Ti scappavano gli occhi
da sotto le ciglia
(inarrestabile il moto si sbriglia)
filanti luci scattate dal nulla
infinito del cosmo che brilla:
montagna d’epa sfatta
con l’esoftalmo osceno un buzzurro guardava.

BELLA
Il tovagliolo bisunto deterge
insensate quantità di cibo.
Le membra sottili ansiose febbrili
chiamano il vento.
Capricciosa e schiava
subito esperta domata regina
ossessionata
disordinata
acqueta e suscita, come respira.
Ma poi, sincera, con ansia bugiarda
di spenta casalinga
torna per discostarsi ancora.
Nel frattempo
un po' distratta s’era
totalmente fusa.

*dedicata a Mario Graziano Parri
Il giorno è grigio e verde, luminoso
e tutto pare un covo caldo là
fuori del vetro, e qui nella mia stanza.
Il cielo morbido setoso appanna
il passo del mattino ed io piegato
ad abbracciare la veduta stanca,
covo con calma il molle catarrino
che pizzica sommesso alla trachea
che sboccia col rimedio naturale.
E il brutto scopre
la sua grazia
e il male. *

MECCANICA MINORE
(per minori)
Al telefono corrono leggeri bacini
piccoli suoni, segnali morse
che toccano lontane conoscenze.

Ruvido peso rotondo, rubai
un ciottolo di marmo nella frana,
dove gòcciole larghe come spruzzi
si schiacciavano in pioggia di montagna,
che gettai
nitido a bianco, pagina non scritta,
verso la foce e poi
al sorriso insistente sbocciò (sbocciai)
mentre una nuvola tonda
morbida luna
lenta perfetta cresceva
sbollava
nell’altissimo azzurro
spargendosi eietta, presto sfrangiata
nel silenzioso vento
dell’altissimo cielo.

MUSA
E’ lontana stamane la poesia.
Un miraggio che stanca troppe voci
si perde risaputo all’orizzonte
alveo di freddo mortale mistero.
S’abbatte la speranza di parlare.
Oh se più tardi in alto risplendente
sciogliesse il sole lapidi di ghiaccio
e l’acqua spumeggiando discendesse
tra sasso e sasso a rinverdite rive...
Ma pare voglia in breve farsi sera
tra bianche pietre precipiti dal monte
nacchere di cocciame rumorose
che s’urtano senz’eco nell’asciutto.
Orgoglioso ti spetta, musa,
il silenzio.
Lo strumento non tuo è del poeta.
Il tuo destino abbaglia
e leva i suoi
suoni tuoi
dedicati grati
a te che puoi vivere
senza scongiuri.

REX (Fellini II)
Dove s’innalzano strane architetture
tralicci luci sabbia confusione
e commuovono sogni
donne memorie
enormi dissennati occhi bambini,
e la tragedia la tristizia il male
l’avidità l’amore l’ironia
si ricompongono nella dissonanza
universale di pietà e amore,
e nella folla
molteplice grandiosa dei tuoi mimi,
poeta giullare
sul lido del mare
canta Federico
ed il pensiero non segue
e diventa bellezza del cuore.

L’INNOCENTE
(anamnesi confidenziale)
Nella corsa del treno arroventato
trasentiva precoce il contadino
la forza a gesti attratta da lontano.
Obbediente col dito al gonnellino,
le calze bianche un poco aperte al moto,
attenta sosteneva il nuovo gioco.
Finché l’obeso occhi negli occhi porse
l’offerta e scese seguitando maga
la rossa luce impavida lontana.
(correva il tempo a passo di parata,
fino alla semplice pace della sera).

ALLA FIN FINE ALTRO NON RESTA
Il fiume che dal rivolo s’ingrossa
tra poche fronde,
sembra al principio
di consumare in pochi sorsi brevi
appagati ma presto
l’alveo s’allarga
d’acque nuove
che il labbro appena sfiora mentre
la potenza cresce e l’impotenza
e precipita il gorgo. Il fiume
travolge senza speranza -perduta
la sorgente- ignota la foce.
Alla fin fine altro non resta che
lasciarsi andare.

VERUM IPSUM FACTUM
Risposta lieve: non sarai mai solo.
Se non avessi udito, piano piano,
c’era leggero il peso della mano.
Si stringono nel nocciolo due semi.
E per un secolo (un giorno intero)
fu tutto vero.

LA SIGNORA DI PISA
pende con i bracciali suoi di zingara
sul prato e ammicca al tenero vicino
reggendo pietre inclinate
scalpellate coniate teatri
equilibrismi inventati
perfezionati imbiancati tornati
dopo secoli d’esercizi in oriente
folli disciplinati ad essere sé
i più bravi - Signora - per te.

NIENTE
Gode di rompere la terra il villico
e non cura che rotto poi l’aratro,
non resterà nelle sue mani niente. La terra
ha cuore vuoto che non colma niente.
Vuole pretende il sovescio del solco.

FEMINITA’
Sei rapido mortale ma pare
che consenta di penetrare il cosmo e dare
la chiave
la fortezza di stanze proibite,
di creante artiere.
Si smarrisce (invece) e soffoca
nel pusillanime giudizio.

TRA
le rughe della terra
non si è persa la vena che più pullula
ora tra quelle dell’età
rotte dal dolore
e dall’impazienza.

PLACEBO
Ti sono molto grato. Hai ricordato
alle mie gambe il passo che svapora
col moto la dolente fissità,
l’idea malata strenua ossessiva
che ogni pertugio affùmica
che spossa con la guerra odiosa,
vizioso circolo
senza libertà.

GATTA
Vuol fare come me.
Sul foglio s’acciambella, vuol scrivere poesia.
Son io che le somiglio, suo gemello.
Quali universi quali ci separano
quali ci uniscono anima minuscola
che tenera ti volgi ad abbracciare
capovolgendo lo sguardo irreale?
Da così poco lasciammo distratti
lontani la medesima misura?
Sospetta
che nulla mai così sia nato.
S’affaccia
sicuro sul creato.
E’ nuovo
appena nato.

Dopo essere inverdito per prudenza
allunga pigro il polpo un amo vivo
dal suo nascondimento trascurato
e cerca al vetro
il battito amichevole del dito.

AUTOSTRADA D’AGOSTO
(se vinto cede il condizionatore)
Nell’ora ardente che l’afa rasciuga
scottano le lamiere e s’apre il vento.
Freschi e distesi gli oleandri in fiore
festeggiano esultanti il solleone.

Con che appetito
il cibo dal suo piatto scompariva
che nel mio marciva.
Un polipo d’angoscia
cresceva nel piloro nero
tra voci allegre deglutito a forza.
Affrancata
liberata
da mezza verità,
gioiosamente vuota, mangiava.
Scheggiava nel dolore il dubbio infranto.

NORD
L’odore del mare, rumore lontano
nell’umido vento salmastro
amaro di fumo di prato
s’incrosta
alla tela pesante al teso respiro:
alto s’impiglia nel chiaro,
sospeso colore della giornata:
nell’aria leggera soffiata
dal mare sui tetti
di case odorose d’amaro umido mare.

GODERSI LA VITA
Il gatto insegna
l’intensità
di un riflessivo.

PICCOLO LIBRO DELL’ETERNITA’
Non è vero non è vero anche se
morirò presto davvero, ora vivo
e soffro e benedico il mio dolore
quest’ansia, questo irrequieto amore:
un cilizio di spine una corona
che insanguina che riga la mia pelle,
insopportabile ultima preghiera
prima, O Signore, di tornare a Te.

SAN GENNARO AIUTAMI
Non s’è sciolto il momento incantato
quando nell’ingranaggio scivola
la minima dentella.
Apro un libro ma torno convertito.
Straordinario, il millenario gusto
com’eco delicata, devo cercare in me.

E’ come quando calano gli uccelli.
L’ultimo frullo ed una corsa breve.
I passi corti presto rallentati
rassettano le piume abbaruffate
per l’atterraggio lieve.
Ma come fa, ad esser così bello
un mondo tanto triste e disperato?

LA VITA...
Fugge dirotto il respiro.
Il palloncino
leso dal gioco infantile, s’affloscia,
maldestro.

STAFFETTA
Pallida l’ultima notte trascolora
tra l’arbusto rado dei pioppi
al piano, più chiaro lontano:
e nella corsa la luce rammento
al prossimo risveglio tra le ciglia.

SI SFOGLIA IL LIBRO
Eravamo poch’anzi al telefono.
Insisteva un segnale d’arrivo.
Per due volte interrotta la voce
a seguire l’ignota chiamata.
E’ così che si snoda la vita.

IN PIANURA
Nuvole erranti sui gorgogli morbidi
di là dai vetri solcati appannati.
Occhi cangianti turbati
s’incendiano d’oro
di verdi di azzurre
luci morenti. Grandi
più grandi esigenti.
L’ansia si sgrana
di fusa candidissima unità.
Fammi entrare
là giù.
Tra mondi che s’avvitano rotanti
esplode la risposta: ci sei già.

Sub illuminata luna ieri piena
ed oggi a tramontana illividita:
di luci discordanti ancora intera
hai già cambiato volto da sol ieri,
quando pareva falso crederti piena.

RICERCA DIFFICILE
Regole semplici molto comprensibili.
Vivrai nel velo fine della pelle,
confine d’infinite operazioni.
Trasmetterai, negletto, il mansionario:
tumorale esplosione inseminata
di letale cancerosa solitudine.
E’
(questo libro in cerca di editore).

COINVOLGIMENTI
Il suo sistema è quello della culla
la tracotante pretesa estrema
l’estremo cocciuto dolore se manca.

SIRTAKI
Il flusso scorre come viene l’onda
che s’indugia sul colmo dei ginocchi
e si ritrae, e fraterna ritorna.
Nell’altra direzione ancora indugia
ma prudente s’avanza e si ristorna.
Alza un ritmo di liquida brama,
e non s’arresta il lungo cavallone.

Come la magra fiamma stenta fuma
e scoppiettando si desta improvvisa
quando la brezza leva
così la terra il cielo i monti
la camminata destano tra pelle
fuochi sopiti dimenticati:
lontani resti di scordata gioia:
ardono
spiccano il volo colmano
rivoli di vita.

INDIRIZZO INCOMPLETO
Se c’era solo il nome il caposala
faceva la chiamata
alla folla dei postini radunata.
La posta spersa rimasta inevasa
per errore o difetto d’indirizzo
ritrovava così il suo destino
come per sorte o intervento divino.
L’appello di servizio è revocato.
Ormai è tutto computerizzato.

GEMELLI
Diciotto venti, quindici diciotto
due coppie di fidanzatini,
lindi da far invidia,
cinguettano con gli occhi
tra di loro, composti
(accoppiati, incrociati)
stirati gemelli

Come perduta
sul margine del bosco
Elisa piange disperata
le mani delicate stringe a pugno, tesa
per spremere dagli occhi
il suo dolore.
La pena ignota immensa
in lacrime grandissime s’annega e non si stempera:
è piccola, esiste
da dieci mesi nata.

GREGGE
Lo scampanio, note d’ocarina, s’allarma quando il cane
sicuro di far colpo s’avvicina.
La corsa rumorosa cala ottempera
e il gregge si confonde con la scorza
dei castagni e con la pietra oscura.
Una caprina ben capezzoluta
ancora chiara e senza corna
s’indugia incerta, oscilla
riottosa e scappa: ma poi si avvia
guidata dal concerto di ocarina,
note chiare d’osanna.

LA CAMPAGNA DI SCAVO
Trascrivo da mattoni cuneiformi
tavolette sepolte nel deserto.
Non era tanto tempo fa.
Non ha coperto la sabbia nemmeno
millenni mille.
Eppure per leggere
ci vogliono talora
ricordi disseppelliti,
l’occhio gemello
che prospettico dà
la dimensione:
e segni incerti allora
e vani giorni portano temuta
scienza d’archeologia.
Ho ritrovato (e tuttavia)
scavati blocchi.
E’ l’ora pesante
di lavarli appena.

IL CONCETTO DEL VALORE
L’oggetto è rosa rotondo di prezzo
vile di denti morbidi, di plastica
speciale (o cosa similare): serve
con moto elastico e giusta pressione
al morso del prurito tra i capelli.
Un valore
a mille a mille il valore venale:
che ha leggi proprie
nell’economia:
e astratto annida, un segno di poesia.
Restano attente grate
anni per anni generosamente
persone cui ben poco hai dato o niente.
Altre che prendono a iosa
restano mute sempre.
Piccola cosa, poco più che rosa:
ti rendo grazie io- a iosa.

SENZA TEMA
Al nocciolo del frutto e del problema
resta la parte più dura più vera
che rompe il nocciolo e coglie nel seme
fecondatore tagliente il pensiero.

DISSERTAZIONE LUNGA E CONCISA
(sulla esistenza del tempo)
La lunga attesa.
Si aspetta sempre.
Qualcosa spinge.
Qualcosa attende.
La goccia cade.
Semina il tempo.
Piove e ripiove.
Ripiove sempre.
Tra goccia e goccia
non cresce il tempo.
Inonda il fango
la terra attende.
Nell’intervallo
non trovi il tempo.
Che stia
rimpiattato
disparte?

PANORAMA
Vorrei che la finestra
avesse un vetro solo:
per bere il mare, la luce
il grigio del cielo
la costa pugnace
e l’arco osceno
del promontorio.
Vorrei portare
tutto con me.

OLTRE
Resta il mistero dietro al panorama
vivido verde azzurro verso il cielo
e la sua brama leva che punteggia
di un karma strano l’opera molliccia
che mai vorrebbe
farla finita.

Tornano tornano giorni splendenti
notti lucenti
né mai scompaiono le vesti olenti
della stagion più bella. Niente
li ferma nella lenta marcia:
non la bestemmia
che al ciel balena
da labbra umane per il dolore,
non la preghiera pia
serena.
Nera
è l’eterna landa del tempo,
che sicura attende
le notti sorelle
l’impavido sole.

SEMBRA POSSIBILE
Il tempo lapida le pietre cingono.
Si abbuia lentamente ogni colore.
Si sviluppa l’assurda geometria.
Assiduamente vogliono concludere.
(Sproporzionatamente tanto zelo).

L’ALTRA GUANCIA.
La violenza è talora tenerezza
bisognosa d’amore trasgressivo.
D’amore trasgressivo va curata.

BALLATETTA
Sempre nel primo sole brilla il candore
d’uno scafo che indugia nella luce
dal primo blu svegliata, illuminata:
e mi domando chi da presto si è levato
per cogliere la barca, il cielo, il mare:
se l’anima serena l’accompagni
o quali sguardi e che pensieri mira,
mentre si pone col vascello e brilla
come pietra lucente nel castone
che non sa d’essere o perché.
Vorrei scoprire quanto sia lontano
quel vicinissimo fratello spirito
che cerca mattutina la bellezza
tra il silenzio del vento e lo sciacquio:
misterioso come il sole che l’illumina
come le stelle nascoste nel cielo:
come l’anima che culla i miei pensieri
curiosa errando tra cielo e terra e mare.
Ma così calma. E paga di ammirare
la bianca barca che luccica sul mare. *
* Dedicata a Giorgio Luti, che donò il titolo.

IL SABATO DEL VILLAGGIO
(globale)
S’intrecciano i motori nell’altissimo
che nel silenzio brillano leggeri
che diffondono tracce trasparenti
naviganti in opposte direzioni.
Le arene palpitanti di Madrid,
i campus della bassa California:
le cacce sul Danubio in Ungheria
tra nebbie principianti ed i safari
dove il Kruger si bagna fumigando
e maculato lampo
fugge la cheetah grande come duna.
Immense latitudini consumano.

TEODICEA
Perché cercar lontano la ragione?
E’ così chiara. Fa. Cose bellissime.

Inavvertita si genera la notte, che spaziosa ascende
e cauta lenta posa.
Senza rimpianto o sforzo cede paga
d’essere destinata
al parto lucido, al contrario amante:
che glorioso il ritorno alto barbaglia
con l’ultimo respiro.

NELLA LUCE
fuoco vivo che piove dalla cima
scaverete abbarbicati inginocchiati
le autostrade:
i ponti i viadotti, le strade ferrate:
scaverete pregando
le terre sotterrate
allontanate.
Pregherete
che tornino a fiorire
di brune zolle pompose lucenti:
carne viva
ferita dal sole.

PAGURO
che più dolce non immagini la chiocciola
così morbida indifesa lumachina
che s’infila dolcemente dentro il guscio
che non trova mai la forza di secernere
che ricerca pigolando in fondo al mare
che s’accuccia nella valva circolare
nella sabbia sotto il muschio per amare
l’acqua morbida e guardare.

LA CHATTE
A garbo suo si lascia accarezzare.

PARTE QUINTA
I VIAGGI DEL NAUTILUS

NEMO
Sul ponte del battello il capitano
attende in uniforme di parata
e calmo con la mano, sull’attenti,
saluta il messaggero che consegna
con breve inchino rispettoso gli ordini
in busta sigillata. Lunga rotta,
lontano con cautela attraversata.
In veste da fatica, appena giorno
il capitano obbedirà. E annota:
“anche se tutto” (sul diario di bordo)
“proprio tutto non capisco” “obbedisco”.

CREPITANTI
Nel parco dolce di Sirmione, al lago
un abito da sposa indossa trafugato
al corridore d’auto anni venti.
E poi l’uscita in allegrezza e riso:
il crepitio stridente ed opalino,
e grande, la bambina ritrovata.
Splende di luce d’improvviso a sera
tra il volo complicato dei gabbiani
avvolta dei suoi veli un’altra sposa.
Nella melanconia del lago sfiora
e silenzioso crepita il mistero. S’allontana
adorna una mercedes sulla ghiaia.

DIFFERENZE
Com’è pesante il pallido passato.
E’ bene che col tempo si dimentichi
si scarichi quel peso sconosciuto
come se fosse un ignoto futuro.
Che nell’ipotesi più nera,
leggero, mancherà.

LA SCOPERTA DEL PIACERE
Ostinata vivevi nel momento
ed io nel successivo la misura
al presente cercavo, il senso vero.
Perfino la parola hai rifiutato.
Di così comodo cos’hai salvato?
Cosa hai perso di fervida bellezza,
volto lo sguardo, scivolata accanto?

TIP TAP
Analfabeti, prigionieri a vita
inventavano danze e nuovi suoni
(il tam-tam dei poveri schiavi)
per scongiurare la paurosa sorte
d’essere soli e condannati a morte.
Io tento accenti e scrivo a riga tesa.

CRONACA D’INSOLITO RUMORE
Chiamava derelitta dal profondo
la voce che nel cavo rimbombava.
Odiosi pipistrelli s’incrociavano
della mente in ogni angolo sonora.
Pensieri che talvolta si sbagliavano
perfetti nei dispersi movimenti
mollicci messaggeri di terrore
che cechi nella carne si frenavano.
L’onda del suono tastava serrava.
De profundis clamabant insolentes.

LA MORTE DEL COMICO
Cessata la condanna per far ridere,
ed ora che farai?

COSE SMARRITE
Veloce lucidissimo l’incanto
trascorre di quest’ora culminante.
La notte acconcia i sogni che ripone
tarlati impolverati domattina.

L’AMICO DEGLI ANNI
Guardava a sera la valle che brillava.
Ancora pochi e non sarebbe andata
poi tanto male, fervido diceva.

IL SOGGETTO E’ IL MARE
I
Pulito l’orizzonte porta il mare
accavallato a nuvole schierate
coni rosati in doppio allineamento
che tagliano purissima nel vento
mutevole la striscia del colore:
immagine di luce custodita
che nega la certezza figurata.
II
Pulito porta il mare l’orizzonte
accavallato a nuvole schierate.
Coni rosati in doppio allineamento
purissima nel vento prigioniera
ritagliano una striscia di colore
che disfa la certezza figurata.

NON LONTANO
Giungono segnali chiari
(com’è giusto, com’è naturale)
ch’io posso andare.
E’ dunque dignitoso ch’io ne vada:
ed esca. Prima di dover uscire.
Non lontano, a portata di voce
se mai dovessero
chiamare.

FRUTTI DI STAGIONE
Quest’anno le gonnelle
allegre leggere
sono a paniere
pieno di mele.

PORTAFRUTTA
I
Rossa rossa una volta piena piena
c’era profumata una melina
che sembrava, masticata
di brucare fresca fresca
una polla colorata.
II
C’era una volta una melina rossa
piena piena
profumata
che sembrava
masticata
di brucare
una polla
colorata.
III
Rossa rossa piena piena masticata
c’era una volta una melina
che sembrava così piena così rossa
profumata di brucare
una polla colorata.
IV
C’era una volta
una rossa melina profumata
piena piena: sembrava masticata
di brucare una polla colorata.

LA CASSA D’EPOCA
Spende la pelle come bianchi spiccioli
come mancia che lascia al cameriere
al guardaroba come contromarca.
Dall’incasso ritrae il suo piacere,
per un valore che non costa niente.
E perciò ride piange come niente
e simula e dissimula
sproporzionatamente.
Metallica cassiera senza squilli
antico monumento del commercio
si apre conta e chiude freddamente
mutevole a mutevoli monete.
Ma poi talvolta l’occhio si spaura
l’accende allora brusca luce cupa
d’inferno veramente.
Si lascia tutta andare (allora) a ruba.

Per le vie luminose,
dei cromosomi
(deliziosa beffa)
si sono uniti due diversi rami.
Ciascuno
lasciando solo
il tronco
con le sue radici.

POTEVA ESSERE
Forse spaventa il cielo,
la profondità del cuore:
l’idea di sopportare
con coraggio il peso
magnifico e tremendo
della felicità della
libertà.

RAGAZZA D’ALPE APUANA
Con i grand’occhi bui
ed una treccia spessa a mezza schiena
porge con gentilezza umana e sua:
lieta genuina statua
d’un mastro sempliciotto e pio
che per antichi pastori scolpiva
tra greggi sazi, ruminanti in posa.
Le vette i venti rotti le colline
concretamente
si fan d’intorno e stanno
al sole al tempo all’acque
quete e solenni
ut immemore verbum.

OBBEDIENZA
Vile bisogno di pianto. Di canto
che ne riscatti il flusso senza stile.
E’ come se struggendo
la forma si fondesse
col metro con l’accento,
in altra forma sua. L’estrema regola
che disfacendo crea.

ACCOGLIENZA
Babbo andate voi
a prendere il vino in cantina?
Il voi suonava tenero contento.
Dei funghi bisogna sapere
i posti non soltanto
ma coll’esperienza
in qual ci fanno
secondo la stagione,
disse.

RIFLESSIONE
Non ho più tempo.
Finirà, per simmetria, il Tempo:
il giudizio è cosa distrutta
senz’appello. Un fatto.
Una prova un cenno
minima follia
moto impercettibile
provando e riprovando
nell’universo.
Ordine simmetrico. Un punto.
Il punto al negativo:
dissimmetrie diverse
confuse per ripetizione infinita, simmetrica:
l’ordine del caos
disordinato.
La logica (antilogica)
dell’incoerenza e della
contraddizione
pone ordinatamente
il contrario e l’incoerenza,
in luogo in vece della soluzione.
Ripete disordinatamente
la sostituzione
per creare. Con pazienza.

RIPROVA
Le tartarughe vanno lente lente:
quelle di mare volano leggere
unite un giorno intero scivolose
per compensare
la dura alienità della natura
l’amara diffidenza degli scudi
nell’immensa liquida stagione:
leggerissimo luogo per sognare
così durevole
una felicità di pietra,
più che bestiale.
Principio d’incoerenza e di contraddizione
di logica profonda come il mare.

LA FAVOLA DELL’ ARAGOSTA
Complicata aragostina
storia lunga storia breve
come un’anima bambina
che si perde tra le chele.
Si lamenta la bambina:
l’aragosta non ha chele,
delusa dalla favola del mare
se non è del tutto vera.

TROPPI INSIEME
Vengono avanti al proscenio e s’alternano
si stringono si sforzano alla rima
come parole ristrette nel verso.
Sono gli antichi i viventi i futuri
gli organi profondi, i dissidenti.
Nell’identica maschera le voci
perturbano tra segni imperturbati.
Ridursi ad unità, com’è possibile?
Allora come posso giudicarti?
Perché d’amaro seme fui colmato
quando l’amaro seme ha germogliato?

VIAGGIO ORGANIZZATO
E’ l’allegria d’esser trasportati
condotti senza peso
veder paesi che scorrono ridenti
e ridere nel gruppo, affratellati:
come dal camion salutano i soldati.
Fosse la vita un passo
di gioia e d’allegria.

ORMAI
L’acqua s’apre lenta
gora oleosa denso arcobaleno
quasi spento.

ALTERNATIVA PROSSIMA REMOTA
(Per conferma)
Celebreremo i buoni sentimenti
o dolente l’intera umanità.
Guarderemo allo specchio con fermezza
o vedremo metà della metà.
Seguiremo convenienza pusillanime,
ipocrita ordinata falsità,
o insieme consapevoli scrutando
cercheremo la fiera verità.

IL RIPOSO DOMESTICO
Vedo due posti a tavola: già pronti.
Perplesso mi domando chi ci sia.
Ma poi ricordo. Oggi è domenica.
Tutto solo mi tengo compagnia.

LATINEGGIANDO
(con allegria)
Otia mea mi concedo da romano
che da tempo ha servito negli astati
nell’attesa paziente remissiva
della lancia più lunga che s’infiltra
in centurie ordinate veterane
se verso schiere invincibili avanzano
compunte. Dolce e decoroso fato
fortunata virtù pro vita mori.

LA SCOPERTA DEL PIANETA
Come chi scruta e calcola nel cielo
il grave peso che deviò la luce
sempre nel punto dato dell’ellisse
ed il pianeta celato scoperse
vorrei sapere anch’io dove mi pose
l’amor che muove il sole e l’altre stelle.

LA LIBERTA’ E’ ANCHE VUOTO. PERDERE
anche l’estremo sogno: poter scrivere,
senza sognare, il più libero dei sogni.

Nessuno vorrebbe (garbuglio dissennato)
rivivere il passato.
Viverlo scelto vorremmo aggredito,
l’aggressore, formato
a nostra immagine e a nostra somiglianza,
che imperterrito seguita.

PATRIMONIO GENETICO
(constatazione e riflessione)
Hai cominciato una battaglia persa.
Non puoi restituirne la metà.
Del resto poi si perde cognizione
d’intere civiltà. Non fosse stato
per monaci operosi in evi oscuri
la civiltà l’altissimo modello
non sarebbe durata al grande volo.

IPOTESI PER IL DOLORE
Nel silenzio smarrito
l’onda non trova
eco né sponda.
In nessun luogo sei.
Non colgo un punto
un connotato che mi riconosca,
che presti il suo confine.
La tua misura sfugge
nell’indeterminato.
Ma la suppongo perché al dolore
serve un’ipotesi
un’energia che ne sia la cagione.

TU, LAPO ED IO
E’ troppo duro il tuo servaggio, Amore:
che finalmente libero il mio cuore
lieto del peso che abbandona al mare
solo riprende il vago navigare
per punti inconsistenti d’orizzonte.
Va, canzone cortese.
Tra slavate bambagie di dolore
l’umida brezza pesa sul sartiame.

Sono partito da un paese strano
dove il saluto si rinnova sempre
e tutti, lontanati, guardano partire.
La voce vi si perde inascoltata
nel rumore di macchine usurate.
(cercavo la stazione di destino).

SCRIVERE
Come quando passavo le ore da solo
sui tappeti cinesi
con quattro palline
e due gusci di noce:
giocando da solo
pauroso;
e disteso da solo pauroso
giocavo per ore.

IL SEGNO DELLA FRATERNITA’
Alla forcella d’un giovane platano
le braccia appese, flesse verso l’alto:
come un abbraccio, com’essere vicini.
Le foglie trasparenti quasi al viso
mostravano le trame delicate. Tremavano.
Lasciati stringere. Non ti farò del male.

GRAZIE
per l’incertezza e per l’indifferenza
per l’umorismo e l’ironia discreta
per la risata sfacciata sguaiata
che danno sale al volgere del giorno
con generosità di pena e gioia.
Come alla scena il colpo della scena
che d’improvviso balena e trascina
lo spettatore quasi addormentato,
disegni forme sbalordite fertili
con un genio tenace sconvolgente
che ne gode ne soffre e pur s’intriga
e ride a volte incerto ad occhi chiusi.
In te zampillerà colmo l’orgoglio
dell’artista nell’attimo che pensa
eternamente fuso: e l’opera contempla.
Allora mi stupisco, fato cortese
che ci sia spazio un attimo soltanto
a che il pennello contempli la tela
prima che passi e si rinnovi l’onda.
La foglia di quell’albero mi vedo
dito di marmo scheggia di pensiero:
e so che è giusto ch’io debba finire,
fato amoroso, generoso fato
perché si svolga pura l’invenzione.

LA RISPETTOSA CORALITA’
Passi svogliati per la discesa.
Più sciolti al piano. Poi la fatica
lieta d’ascendere. Il cuore gonfia
accellerato. Per brevi vie,
subito erte, cresce il respiro.
Oggi fa caldo. Bella giornata.
Cerco di fare un poco di fiato.
Cammina meglio. Buona sgambata.
Siamo simpatici, noi rossini!
Il padre aperto. La madre cauta
guarda prudente verso l’intruso.
Due giovinetti; due toni di rosso.
Quello più vivo, gli occhi chiarissimi,
- (è più del padre) - sorride in delizia.
Messaggi brevi. Senza domande.
Senza pretese. Con discrezione.
Come le navi, quando s’incrociano,
con le sirene. Che posso chiederti?
Non so fermarmi. Non so conoscere.
Ma siamo uguali.
Cogli un segnale. Da solo a solo.
Deve bastarci anche se fossimo
posti per secoli su questa via
ora più alta del campanile.

L’ho sempre combattuto; l’ho scansato.
Nel braccio della madre, tenero soave.
Suadente libero nella fantasia:
sorridente, spietato nella donna.
Macabro pugnale in mano ai potenti
aspro dolore, viscida lusinga:
l’orrendo potere.
Ti spenga per odio
qualcuno qualcosa
che possa che voglia
serpe da serpe
non generare:
e il potere il potere odi e disperda.
L’assurda ribellione dura ancora.
Amore straripante che sul monte
aperte le divine immense braccia
contro il potere redimesti solo
lo scempio delle genti,
l’impossibile folgore l’ardentissimo amore
testimoniasti intero. E subito fu
nuovo potere.

LA CORSIA D’EMERGENZA
Stridenti preghiere prepotenti
disperate s’accalcano a singhiozzo.
Senza fede i fedeli e senza palio
bruciano incensi cupi di follia
che assaltano violenti tre corsie.

FRATELLO MAGGIORE
La bocca tesa a cogliere il respiro
scalava il vuoto
faticosamente, a tratti.
Il cucchiaio dell’acqua
dalla mano fraterna,
per Nostra madre, pareva eresia.
Cercavo lontano dal letto
la salvezza mia (non sua).
Finché l’ultimo sorso goloso
lento dell’aria sospirò nel vuoto.
E vuoto, smisurato, divenne grato il cuore
alla mano fraterna.

Meravigliosa verità del guitto
che nella notte bianco si scompone.

UNA STELLINA
di prima mattina scoccata
da un arco sottile di luna
fermata dal filtro leggero
dei raggi lucenti, cattura
la luce che brilla puntata
pulita nel cielo e non dura.

VENT’ANNI DOPO
Gli arredi poveri ma già datati
tra specchi e legni chiari il bar d’anni cinquanta
tutto di quiete vecchia profumava
che giovanissima feriva la memoria:
ma Raffaella che un tempo beccheggiava
gloriosa, adesso dal rollio pesante
in tralice sogguarda, e riconosce.
”E’ rimasta la voce” dice piano.

Sono ferito da schegge di nebbia:
da sessant’anni sto riscalpellando
la mia nicchia nell’eternità.

L’ARCO DI ULISSE
E’ vero che la vita non dà tregua,
che sforza, finché sforza, l’arco intero.
Ma se al mattino l’estate raffresca
al primo sole il caldo è gloriosissimo.

DISCONOSCIMENTI
(gli antichi dei)
Solo la pelle inutilmente chiude
se dentro si ripetono costanti
gli stessi sentimenti:
giganti ferocissimi
che non si riconoscono non parlano,
confusi si confondono, distruggono
e combattendo cechi s’affratellano.

TRASPARENTE
Due piramidi immagina simmetriche
sulla bilancia poste, arrovesciate.
Convergono nel punto (pari peso)
che descrive la perfetta identità.
A se stessa simmetrica la sfera
che pulsa in costante fissità
descrive moti alterni uniti reversibili.
La sfera il punto la bilancia e il moto.

URLA
Fonde l’orlo incendiato di nuvole d’acciaio
l’ombelico del cielo. Labbra di fuoco piangono
la vanità del sole. Nembi si squarciano.
Dove l’occhio di Dio s’apre e s’infiamma,
scende dal sole una gloria accecante.

NOTE AL BUIO
Riposarsi dal sonno una mezz’ora
nel mezzo della notte mentre piano
ronza il silenzio: riprendere l’onda
che tiene dolcemente il passo, il posto
accolto a destra dopo aver bevuto,
il tempo appena di avvertire il sonno
chiuso e quello futuro presentire...
qualche pensiero nell’attimo sospeso...
nella pace trovata del respiro...
prendendo nota...teneramente vivo...
sul bianco foglio... che concilia a cedere...
mentre cala la palpebra... sul riposo...
sulla penna...
che poso.

IL LAMPO DELLE MUSE
Se fosse la poesia dimenticanza
invecchiamento
ruga scavata con perfidia infinita?

CERIMONIA
(dal molo del Nautilus, verso sera)
Signore mi presento. Riconsegno il vessillo.
Appartenne al battello (dico in breve)
che sono fiero di aver comandato.
E’ tutto consegnato nel diario.
E’ scritto di mia mano. Il nome è Nemo.
Prego: mi stanca stare sull’attenti.
Sia, se si può, la cerimonia breve.

COME MAOMETTO
Tre volte come il gallo ho ricantato
all’alba ferma, sempre inascoltato.
Recando il mio cavallo alla cavezza.
ad oriente mi sono incamminato.
Dietro la duna l’ho trovato chino
che nel mattino s’indugiava pigro:
e nella brezza ho cavalcato a lungo
insieme al giorno, al giorno risvegliato.

POSTFAZIONE
di Carmelo Mezzasalma
L'ESTASI DELLA VITA
Quando ho avuto tra le mani il primo libro poetico di Alberto Caramella Mille
scuse per esistere (Le Lettere, 1995) non ho potuto trattenere un sentimento di
autentica sorpresa: da dove veniva una poesia come questa così ferma e puntuale nel
suo nitore toscano e al tempo stesso così indeterminata nei suoi registri più nascosti
tanto da obbligarti a percorrere le molte pagine del volume, e cioè da una poesia
all'altra, con un senso di sempre più rinnovata avventura? Di fatto, mi sembrava di
scoprire in questa poesia quel brusio della vita, quella musica prima che è il ritmo del
cuore, il respiro, il camminare nella natura e nei piccoli incidenti della vita, i
soprassalti della memoria, il dolore e la gioia di esistere. E tutto questo velato o
rivelato da una morbida e cangiante ironia che l'impasto sintattico ed espressivo
rendeva ancora più semplice ed evidente. La poesia di Alberto Caramella, in altre parole,
non mi svelava, a prima vista, il senso della vita o le idee sulla vita, ma la vita
nella sua semplicità e cioè nel suo massimo di umiltà o in ciò che rende umano
l'uomo. Così, c'era in questa poesia una sorta di gioia originaria, sia pure incerta, sia
pure talvolta rivestita dalla tristezza o dalla malinconia, che tuttavia risvegliava
qualcosa di profondamente umano in ciò che raccontava o testimoniava di quelle
quattro sfingi che Cristina Campo assegnava alla poesia. La memoria, il sogno, il
paesaggio, la tradizione. Mentre leggevo le poesie di Alberto Caramella, dunque,
dicevo a me stesso che senza questa gioia originaria non vi sarebbe che la notte più
assoluta, la tenebra di cui nessun linguaggio è testimone dal momento che anche il
più aspro o disperato tra i filosofi o tra i poeti - ad esempio un Cioran o un Beckett - è
costretto ad attingervi. Altrimenti, si finirebbe non tanto nella morte, quanto piuttosto
in quella nonesistenza in cui l'essere umano soffoca o sperimenta l’irruzione di essere
al mondo in un caos privo di parola. Terrore ultimo e primitivo degli umani che può
essere sconfitto soltanto da quel desiderio di perfezione che vive nel più profondo
della nostra anima. Quando ho concluso la lettura e lo scandaglio di Mille scuse per
esistere ho potuto soltanto concludere: gli «Imperdonabili» proprio di Cristina
Campo hanno ancora dei discepoli, più o meno coscienti, più o meno certi di essere
tali. (…)

Se qualcuno, allora, potrebbe trovare eccessivo o pretestuoso il mio interesse
per la poesia di Alberto Caramella, confronti queste osservazioni fatte fin qui con
quella felice sorpresa di cui parlavo all’inizio di questo studio.
Di quella prima lettura di Mille scuse per esistere, intanto, ricordo una poesia
che non si è mai allontanata dalla mia anima per quel pudore, levigato e fermo, che la
sostiene come uno dei possibili modi di intendere l'esercizio della poesia:
Tento la leggerezza, e la dolcezza / per queste righe confuse nel piombo. // Cerco la
luce il tono / e l'armonia, // la musica del verso la poesia / che trascolora e passa e ti
ferisce / come il bulino il bronzo, eternamente.
Aveva ragione Giorgío Lutí allorché così scriveva a proposito della poesia di
Alberto Caramella: «Il suo costante aggancio alle ragioni della poesia nel lungo
percorso (cinquanta anni, appunto) di un'esistenza che non ha mai abdicato al suo
scopo originario: cercare senza soste il tarlo che la insidia, fino a trasferire ogni
impulso costruttivo (dolore e gioia, paura e speranza) nella sfera del sentimento
poetico». L'esercizio della poesia, dunque, come sfida e bilancio. Di fatto, questa
bella poesia di Alberto Caramella, che così prepotentemente si è guadagnata un posto
nella memoria, esprime efficacemente, in pochi tratti, il tormento e l'estasi di un vero
esercizio della poesia. Soprattutto quel verso che cerca «la luce» nella parola e
quell’avverbio io «eternamente» che fonde mirabilmente i diversi soggetti (la
leggerezza, la dolcezza, l'armonia, la musica, ecc.). Dopo tutto, nessun orgoglio,
nessun mestiere di letterato poeta viene qui avanzato, ma soltanto l'umile lavoro
dell'artigiano ovvero quell'assorbimento nel dettaglio, come diceva Stravinskij, quel
seppellirsi nella maestria artigianale per risorgere, appunto, «nella musica del verso la
poesia». Si tratta di essere anche nella poesia dei lavoratori accaniti che guardano alla
propria poesia non tanto come a una forma di espressione, psicologica e individuale,
quanto piuttosto come ad un oggetto che deve essere continuamente inventato ed
elaborato. In questo senso, non è sfuggito all'acume critico di Gíorgío Luti quella
«qualità polifonica» che è il dato più rilevante dell'esperienza poetica di Alberto
Caramella ovvero la capacità di variare, musicalmente variare, il tema o il registro
espressivo che accende, d'un tratto o anche lungamente, il pathos del poeta. In realtà,
oggi sembra esserci soltanto talento e cioè una vaga disposizione che, sfruttando un
po' di cultura e di informazione, ci presenta dei prodotti poetici che sono soltanto un
puro «canale» per l'ispirazione. Al contrario, per Alberto Caramella il lavoro creativo
sulla poesia può essere eccitante, entusiasmante e divino, ma è anche quotidiano,
monotono, pieno di ansie, vicoli ciechi, errori e insuccessi. Può essere, insomma,
sostenuto da una persona che ha abbandonato i sublimi desideri di Icaro che vuole
dimenticare le tetre ombre del labirinto per vivere unicamente nello splendore del
sole (successo, denaro, popolarità).
Comprendiamo, allora, la fatica di Alberto Caramella intorno alla poesia e allo
stesso tempo la necessità di documentarne la complessità attraverso la ricerca di
moduli espressivi sempre nuovi o sintetici o aperti. Alberto Caramella, in altre parole,
sfida anche il nostro costume letterario del fare poesia: non una plaquette, non una
silloge eterogenea o centrata su qualche tema, ma un volume intero di poesie che può

sgomentare o lasciare perplesso il più agguerrito dei lettori o degli addetti ai lavori.
La creatività poetica, infatti, è soprattutto uno stare al mondo in contatto con l'anima,
poiché l’unica cosa che veramente si fa nell'arte o nella cultura o perfino nell’intimità
della nostra casa o del nostro lavoro è «anima». Coleridge descriveva la creatività
umana come partecipazione al gesto di Dio che crea il mondo e Michelangelo, nel
bellissimo affresco della Cappella Sistina, crea un’immagine indimenticabile nella
mano di Dio che tocca le dita di Adamo: se Dio crea il mondo e la vita, l'uomo crea il
microcosmo, «il mondo umano», come dice splendidamente Niccolò Cusano.
Compiendo ogni giorno il nostro lavoro intorno alla vita, contraendo matrimonio,
mettendo su casa, allevando i nostri bambini, creando una comunità, elaborando una
cultura o una poetica, noi diventiamo veramente creativi. Abbracciando il nostro
destino con generosa attenzione e sollecitudine, viviamo quel tipo di creatività che è
in buona consonanza con l’anima e che può, più o meno, manifestare la genuinità
delle opere dei grandi artisti. Lasciamo alla mondanità, fatua e inconsistente, delle
cronache le carriere degli scrittori e dei poeti che fanno notizia e non creano altro che
una dilatazione del proprio io e dei propri desideri di grandezza. Al contrario,
l'esercizio della poesia deve liberarsi, con fatica e impegno, da questo narcisismo per
concentrarsi sui problemi che il mondo della vita concreta mette a disposizione di
chiunque desideri cimentarsi con esso per dare vita a qualcosa di veramente
essenziale. Alla letteratura, alla poesia, dopo tutto, non chiediamo altro che di
restituirci continuamente la passione per la vita, l'entusiasmo di trasformare il limite
umano in autentica gioia e possibilità, in una parola quell’estasi della vita che è
necessità di vivere il proprio mondo interiore e il proprio quotidiano. (…)
In realtà, scrittori o poeti o uomini comuni, a lungo andare si sono convinti che
la verità non comporti alcun impegno. L normale che le persone lontane dalla cultura
fraintendano la natura e la funzione propria della cultura. Ma è inquietante pensare,
come osservava Denis de Rougemont, che gli uomini colti, piuttosto che sforzarsi
come dovrebbero di combattere attivamente questo errore, ne traggono al contrario
un grande beneficio. Anziché far rispettare la verità, mostrando con l’esempio che a
essa conseguono degli atti, la mortificano sbeffeggiandola bonariamente e
riducendola a una serie di frasi ben costruite, talvolta ingegnose, ma per definizione
inefficaci. Tuttavia, scrivere è quell'atto inquietante nel quale, man mano che le
parole si inscrivono, accade qualcosa che non si sa ancora e che condurrà chissà
dove. La scrittura o l'opera, per così dire, prende il largo. Se troverà dei lettori veri,
allora si può essere certi che essi hanno prestato ascolto a ciò che li ha destati alla
loro parola. Tutto il resto è di troppo, vale a dire ridotto e ristretto. Anche la poesia
segue lo stesso itinerario. Così, leggendo e rileggendo la poesia di Alberto Caramella,
mi rendevo conto che nei suoi momenti più felici questa parola testimoniava che
accadeva veramente qualcosa e che, alzando gli occhi dalla pagina, questa parola
poetica prendeva il largo. Una parola, insomma, che trapassava l'inerzia del
linguaggio, ustione irreparabile di molti racconti e di molti saperi. Era quindi fatale
che, analizzando l'arco di tempo di questo cinquantennio di poesia di Alberto
Caramella (1945-1995), mi venissero in mente le tavole cronologiche della poesia

italiana di questo convulso e scompaginato secondo Novecento. Che cosa faceva o
scriveva Alberto Caramella mentre in questi decenni si affermava quella presenza di
poeti come Bertolucci, Luzi, Caproni, Sereni? Gli anni Quaranta portano al suo
culmine e anche al suo esaurimento l'avanguardia dell'ermetismo fiorentino, che
aveva avuto le sue prime figure non solo in Mario Luzi ma anche nei suoi coetanei
Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari. Ma negli stessi anni esce il Diario di
Algeria di Vittorio Sereni (1947), dove la limpidezza della parola e dello stile ci
richiamano, quasi per contrasto, la tragedia storica del nostro paese. L'esistenza come
deriva, estraneità, che tuttavia trova un equilibrio nel linguaggio. Comincia così
l'avventura della poesia italiana del secondo Novecento che, frantumando la
tradizione e la presenza dei maestri, inizia una fuga in avanti che si perde in
molteplici e complessi rivoli sperimentali che culminano nel silenzio dei nostri anni.
Rimane, in questa diaspora fitta di nomi e di esperienze che non si possono contare
un «piccolo resto» intento all’elaborazione di un linguaggio alto e letteratissimo
(Margherita Guidacci, Vittorio Bodini, Davide Maria Turoldo, Gian Piero Bona,
Maria Luisa Spaziani) che, tuttavia, non esita ad avventurarsi nelle zone poco battute
dell'ironia. Comunque sia, la fuga in avanti della poesia italiana - se così possiamo
chiamare quella stagione letteraria permeata di utopia e di sogni rivoluzionari - aveva
come obiettivo non solo di sfidare la tradizione del Novecento nel suo complesso, ma
l'intera cultura dell’Occidente moderno, segnata, a dire di questi critici-poeti, dal
dominio dello spirito platonico-cristiano e poi borghese e illuministico.
Si è così insistito, in sede letteraria, più sulla «poetica» di questo o di
quell'autore che sulla «poesia», determinando un costume critico ben documentabile
attraverso tutte le antologie novecentesche che hanno fatto l’apparizione fino ad oggi.
Eppure, tutte le poetiche che volevano abilitare la poesia «a liberare e ad amare»
sembrano essersi chiuse, in questo scorcio finale del secondo millennio' non già
nell'approdo auspicato di una terra nuova e fortunata, bensì in un naufragio di cui
fatichiamo ancora a capire la portata e l'incidenza. Non vogliamo entrare in polemica
con nessuno e con nessuna posizione, ma semplicemente richiamare l'attenzione sulla
teoria antica ed omerica per cui il poeta è il semplice discepolo della Musa. Si tratta
di non dimenticare le parole, altamente paradossali, con cui il Femio di Omero
asserisce di essere un poeta: «Da solo imparai l'arte, un dio tutti i canti m'ispirò in
cuore» (0dissea XXII, 347). Così Femio afferma di essere originale nel senso di non
essere il discepolo di altri poeti, e al tempo stesso ammette la sua totale dipendenza
da un maestro quasi soprannaturale. Non è forse questo l'unico tipo di «originalità» e
«creatività» che un vero poeta può rivendicare?
Entriamo, allora, definitivamente in questa nuova raccolta poetica di Alberto
Caramella che è I viaggi del Nautilus. C'è una poesia che collega questa nuova
raccolta a quella precedente (Mille scuse per esistere) ed è una poesia che ha al centro
una vocazione all'infanzia mai dimenticata e mai rinnegata dal nostro poeta. Come
diceva Bernanos, in effetti, una volta usciti dall’infanzia, occorre soffrire molto a
lungo per rientrarvi, così come proprio in fondo alla notte si ritrova un'altra aurora.

La meraviglia, lo stupore, il gioco dell’immaginazione, in altre parole, contro lo
spirito del mondo che produce, nella sua corsa forsennata verso l’avarizia e il potere,
soltanto putrefazione e cancrena. La poesia si intitola, significativamente, Scrivere, e
vale la pena di citarla per intero poiché rappresenta una chiave precisa dell'esperienza
poetica di Alberto Caramella:
Come quando passavo le ore da solo / sui tappeti cinesi / con quattro palline / e due
gusci di noce: / giocando da solo / pauroso; / e disteso da solo pauroso / giocavo per
ore (p. 286).
I talismani della memoria (quattro palline e due gusci di noce) si saldano alla
solitudine dell’infanzia (giocando da solo) e creando uno spazio dell’anima che apre
e chiude la poesia (le ore... per ore). Il dolce slittamento semantico del tappeto cinese
si riverbera allo stesso tempo nel suono dell'aggettivo pauroso che avvolge la poesia
di avventura e di mistero. Infanzia e vecchiaia riguardano il temperamento 0, se si
vuole, l'anima. 11 più ottuso degli osservatori della vita sa perfettamente che un avaro
o un cacciatore di potere è già vecchio a vent'anni. Così, quando lo stupore o lo
spirito d'infanzia si indebolisce nel mondo. è lo spirito della vecchiaia ad affermarsi,
producendo una vita despiritualizzata, meccanizzata, divorata dalle meccaniche come
una bestia malata, invecchiata, banale.
Al contrario, Alberto Caramella non ha perduto il suo spirito d'infanzia, anche
a dispetto della professione che ha esercitato in tutta la vita e dei duri rapporti che
quella professione ha potuto imporgli. Chi lo conosce nella vita di tutti i giorni, deve
dopo tutto ricredersi quando si accosta alle sue poesie: lungo gli anni e le
vicissitudini, Alberto Caramella non ha smarrito la lezione sulla vita imparata mentre
era disteso in un «tappeto cinese» e giocando «con quattro palline e due gusci di
noce». Quel modo dolce e incontenibile con cui il suo cuore di bambino allora si
sentiva soffocato e aperto, gli è rimasto dentro per ogni atto, per ogni parola in cui si
sente vivere. E nulla sembra esistere per lui, quando leggiamo le sue poesie, che
possa distoglierlo dal credere ancora oggi che la terra e gli uomini abbiano bisogno di
essere amati dal suo sguardo di poeta. La vita, insomma, suscitata da uno sguardo
forte e vittorioso nella splendida materia delle parole. Anche qui una bella poesia di
semplici due versi racchiude tutto questo canzoniere delle opere e i giorni che è I
viaggi del Nautilus: «E' strano: dal caffè cb'è tanto nero / è sorto chiaro l'azzurro del
cielo» (p. 50). Le polemiche sulle ideologie dei nostri anni, le definizioni sulla
poetica, hanno lasciato intatto quel brusco e dolcissimo modo di sentirsi vivo di
Alberto Caramella e al tempo stesso di riconoscere la poesia con franchezza lieta o
dolorosa come un fatto, come una cosa inattesa e struggente che ti viene incontro
nelle vicissitudini quotidiane, nei pensieri, nel gioco dell'immaginazione o della
memoria.
Certo, il canzoniere delle opere e i giorni che è I viaggi del Nautilus di Alberto
Caramella non sempre è immediatamente fruibile come poesia da un lettore distratto
o quantomeno abituato alle agili e sia pure raffinate raccolte poetiche che ancora
sopravvivono nella nostra farraginosa contemporaneità. Non si tratta soltanto di
quantità delle poesie pubblicate, quanto piuttosto di percorsi interiori che si

inseguono da una poesia all'altra con una tessitura di fili ora aperti, ora misteriosi, ora
perfino indecifrabili per coloro i quali amano una poesia lineare e compiuta nel breve
spazio di una pagina. In realtà, Alberto Caramella ha un rapporto tutto suo con la
poesia o, per meglio dire, con l’epifania della poesia: le parole che scrive sono
talvolta poche, timide e come sospese al silenzio che lo avvolge intorno. Sembra che
in questi momenti queste parole siano proprio quelle con cui, nella solitudine del
«tappeto cinese», il bambino vuole amare la vita e la sua avventura necessariamente
frammentaria e aperta a viaggi ancora ignoti ma proprio per questa ragione capaci di
riempire di senso l'anima e la sua solitudine. Tutta la prima sezione di I viaggi del
Nautilus (Straripante amore) conserva bellissimi momenti di questo
rivelamento/oscuramento della poesia (poesie a p. 9; 10; 36) che culmina in un
distico di ineguagliabile precisione e bellezza: «Se non avessi sofferto l'ardore / non
conoscerei la fiamma» (p. 17). Si direbbe, in questi casi, che la poesia si comunica al
poeta per abbagli dello sguardo, della mente infiammata, dell’immaginazione che
tesse le sue favole e i suoi sogni (poesia a p. 79). Talvolta, sono proprio i luoghi, con
il loro carico di memoria, ad accendere nella poesia di Alberto Caramella una sorta di
pathos gioioso e al tempo stesso inafferrabile. Ci riferiamo, particolarmente, alle tre
belle poesie dedicate a Lucca, Selinunte, Sirmione: in rapidi tocchi Lucca diventa un
piccolo mistero dell’intimità («vicoli chiari bellezza discreta /sicura che ripete miti
abbracci / tra le mura », p. 3 8), la greca Selinunte un’epifania del tempo perduto ma
che riaffiora dagli umori prepotenti dell'anima («... dove una volta la città ferveva /
dove i mercati le folle il porto erano / ed ora t'l vento spinge trai cespugli il mare/ e
ferma il tempo», p. 134), infine, la Sirmione di Catullo che celebra luce e malinconia
dell'amore («Splende di luce d'improvviso a sera / tra il volo complicato dei gabbiani
/ avvolta dei suoi veli un'altra sposa», p. 252). Questi luoghi sono conchiglie o
metafore costruite dalla verità della poesia che cerca una sosta, dopo un lungo
pellegrinare, nelle radici segrete delle città italiane.
Altre volte, invece, la poesia si afferma nel poeta Alberto Caramella con una
visione ampia e distesa: la lenta e operosa ricerca apre così lo scrigno della
sensazione in immagini ricche e articolate. La voce della vita trionfa. Siamo nelle
prove migliori della seconda sezione che, non a caso, si intitola Biancaluce e di cui
citiamo, a titolo di esempio, Amo il silenzio (p. 92), La vereconda bellezza del mondo
(p. 94), Tuscia (p. 97), Parsimonia conoscitiva (p. 101), Il trono Ludovísi (p. 108),
Esecuzione all'alba (p. 111), Le Apuane (p. 12 1). Proprio in questa sezione, tuttavia,
emerge nitidamente la poetica di Alberto Caramella o, per meglio dire, quella
dialettica nascosta che nutre i desideri, le accensioni, i ricordi, le ansie, le gioie del
poeta. Il particolare guida verso l'universale, ma anche l'universale richiama
l'attenzione sul particolare: «Mistero semplice la solitudine. / Si spiega tutta nel
particolare» (p. 83). P, evidente che il poeta non ci parla soltanto di una condizione
esistenziale come la solitudine, bensì di quel mistero che l'universo coltiva nelle sue
segretissime metamorfosi dove la realtà materiale chiama in causa una realtà
spirituale e viceversa. Mistero e solitudine, dunque. Il poeta accoglie così quel brusio
della vita che è la musica prima dell’anima: è il ritmo del cuore, il respiro, il

camminare, gli alberi, le montagne, perfino gli animali, che sembrano accordarsi con
il mistero dell’universo sempre nuovo e sempre ricco. L il vasto paesaggio del
mondo, anzi sono le cose e le persone, la storia, la fatica della poesia, i libri, i canti e
le canzoni del desiderio, che entrano nella parola di Alberto Caramella, ma con un
pudore profondo che ci inquieta e ci affascina: «L'onda comune unisce cose insieme:
/ torna l'anima lontana» (p. 92). L'estasi della vita è anche l'abisso ogni giorno più
insondabile, ogni giorno più remoto e, dunque, ogni giorno più profondo.
Forse per questa ragione la terza sezione (Passo di donna) contiene le poesie
più drammatiche e dolorose del canzoniere di Alberto Caramella. «lo ero
malinconichissimo e mi posi alla finestra»: è questa la veduta per l'infinito che ci ha
lasciato Giacomo Leopardi. Allo stesso modo le poesie di Alberto Caramella ci
dicono che noi amiamo la vita quanto più sentiamo di dover resistere alle sue
impressioni fuggevoli, per durare invece, consumandola nel tempo e nella musica,
affinché il pudore sia come la spoglia del corpo ove bruciamo tutta la gioia e tutta la
pena per non inaridire e per rispondere a quella voce nascosta che sino all'ultimo ci
desterà dal torpore e dalla banalità. Si veda, a questo proposito, la poesia dal titolo
Psicologia sbagliata, dove la sottile forza di reiterate negazioni suggerisce un pianto
silenzioso e sofferto come di una resa di fronte alla voce del cuore: «umiliata la
forza, / umiliato il potere / vinta la legge del mondo / dal caldo pensiero del cuore»
(p. 13 1). Nient'altro sa dirci il poeta di se stesso se non quel suo modo di aprirsi ad
una sorta di avido amore che lo ha cercato nelle molte e frastagliate vicissitudini della
sua esistenza. La solitudine, il dolore e le disfatte - questa volta sì esistenziali - hanno
fatto sentire al poeta una struggente nostalgia di bene che egli ha sempre portato con
sé. Da qui quel sentirsi Nautilus (navigatore) nel mare della vita e cioè come di un
lungo viaggio da compiere al di là di se stesso per ritrovarsi. Anche qui si potrebbero
citare le poesie di Interni etruschi, così drammatiche e dirette, che culminano in un
grido: «Prova a gridare in una casa solo / e lo scomposto suono torna a te / e sai che
si è turbata la quiete / e si' è sfogato, invano, il tuo mancare» (p. 185).
La poesia, in effetti, ci provoca come lettori, ci mette di fronte al bisogno della
lotta, della ricerca. Ogni poeta vuole essere un buon provocatore. Appunto perché la
poesia è vita, essa può essere subito ricondotta alla dimensione di un problema o di
cruciali interrogativi, quasi a fare da mediatrice e da moderatrice tra i sentimenti
estremi che la sua parola suscita e tra gli ideali che essa conforta. Alberto Caramella
ha una coscienza viva di tutto questo. Aprendo la quarta sezione (Meccanica minore),
ecco un altro distico che ci avverte sull'uso della sua poesia: «Si trova tutto scritto
nelle righe. / E' stato tutto scritto tra le righe» (p. 195). L'uso della poesia, allora,
anzi di tutta la poesia, per coloro che vogliono fermarla al suo valore di «arte» e così
inibirle ogni umana disperazione, poggia ancora sul conforto che se ne vuole ottenere
a tutti i costi e nonostante che i poeti vivano, appunto, per smentire tutto questo.
Questa parte di I viaggi del Nautilus ci parla sottilmente della comunicazione umana
e della comunicazione con la vita stessa in tutte le sue forme animate e inanimate. E il
poeta Alberto Caramella vuole così contagiarci della sua solitudine, perfino della sua

disperazione, per radicarci nelle sue speranze. per dirci, in sostanza, che le nostre
passioni sono un nulla se non sono la voce stessa dei sentimenti che dobbiamo
coltivare e raggiungere dentro di noi e anche contro di noi. C'è, insomma, in queste
poesie, l'anelito a una pienezza della vita morale e della realtà della nostra natura.
Emblematiche, in questo senso, sono le poesie Panorama (p. 237) e Ballatetta (p.
242): nella prima, il poeta, secondo l'invito leopardiano già citato, portato dalla sua
malinconia, si pone alla finestra («... per bere il mare, la luce / il grigio del cielo / la
costa pugnace / e l'arco osceno del promontorio. / Vorrei portare tutto con me»).
Nella seconda, invece, più ampia e distesa, nonché sospesa in un clima lirico tra la
visione e la malinconia, lo slancio dell’anima si concentra nella dinamica del
desiderio che dalla bellezza della vita trae sempre la forza per rigenerarsi
(«misterioso come il sole cbe l'illumina / come le stelle nascoste nel cielo: / come
l'anima che culla i miei pensieri / curiosa errando tra cielo e terra e mare»).
Quando giungiamo alla quinta sezione (i viaggi del Nautilus), anche noi,
fortificati dall’attenzione e dalla scoperta, abbiamo compiuto una lunga navigazione e
siamo in grado ormai di capire che cosa significa per un uomo come Alberto
Caramella dedicare tanto tempo e tante energie all'esercizio della poesia. In altre
parole, ci domandiamo anche noi perché un poeta scrive e soprattutto in che modo si
è deciso a scrivere. D'un tratto' in forza della metafora del capitano Nemo (poesia a p.
251), così cara all’immaginazione infantile, ci ricordiamo immediatamente del
fanciullo disteso sul «tappeto cinese» che gioca «con quattro palline e due gusci di
noce». E poco importa se noi abbiamo citato la poesia all’inizio del nostro studio,
mentre Alberto Caramella la colloca in questa parte del suo viaggio. «Cercavo la
stazione di destino», afferma il poeta in una toccante poesia (p. 285). Anche il lettore
è costretto a compiere questo viaggio all’interno dell'opera per vincere soprattutto il
vizio della distrazione. Noi tutti vogliamo vivere comunque, ma davanti alla poesia ci
accorgiamo che le parole, ad una ad una, o nella loro concatenazione, ci rivelano
sempre quel mondo che presentiamo e in cui dobbiamo riconoscerci per non perdere
nulla della sua grandezza e della sua miseria. In questo viaggio al cospetto
dell'universo e del mondo ci accorgiamo che perdiamo la faccia o le nostre false
sicurezze per acquistare un volto in una scelta decisiva tra il potere o l'amore: «Amore
straripante cbe sul monte / aperte le divine immense braccia / contro il potere
redimesti solo / lo scempio delle genti, / l'impossibile folgore l'ardentissimo amore /
testimoniasti intero. E subito fu nuovo potere» (p. 290). E significativo che Alberto
Caramella giochi, nel titolo dell'opera e in questa ultima sezione, tra la reminiscenza
letteraria di Verne e una conchiglia che porta, appunto, il nome di Nautilus: questa
specie di conchiglia ha un colore fortemente madreperlaceo e all’interno si presenta a
spirale piana con curvature esogastriche a spire saldate. Tutto questo ricorda la
formazione delle galassie nel viaggio dell’infinito. L, ancora una volta, il viaggio dal
particolare all'universale, e dall'universale al particolare. Se la donazione
dell'universo è stupore, al tempo stesso è tristezza: l'uomo è gettato nel mondo come
un bambino abbandonato, votato alla solitudine e alla morte. Ed è questo scarto che
alimenta la sua angoscia. Ma l'uomo è anche stupore liberato o, per meglio dire, nello

stupore o nella meraviglia è in ogni attimo quasi un puro inizio. Certo, tutto ciò che
costituisce questo inondo - e dunque le figure che noi possiamo assegnargli - può
morire in quella notte in cui muore l'uomo. E tuttavia, è quest'atto inaudito della
morte che ricomincia. Ricomincia affinché tutte le cose ricompaiano sull'altra riva. In
che cosa cambiate? In questo: che esse possono divenire nell'uomo, con lui e per lui,
parole di ciò di cui l'uomo dà testimonianza e cioè la vita che è luce del mondo.
Alberto Caramella non fa professione di filosofia nelle sue poesie, ma tutto
questo è il dato più profondo della sua esperienza poetica che andrebbe studiato a
fondo e con uno scandaglio rigoroso e preciso. Ovviamente non possiamo farlo qui.
D'altra parte, comprendiamo le riserve che potrebbero nascere su questo punto e che
principalmente riguardano il linguaggio poetico di Alberto Caramella: come si
spiega, infatti, un contenuto così complesso, articolato, con la lingua poetica del
nostro poeta che predilige (ma non sempre!) le forme chiuse della metrica, il gusto
dell'endecasillabo, gli impasti linguistici addirittura arcaici? Intanto c'è da dire che
l'informe, come il virtuosismo filologico, è proprio il contrario della poesia, così
come è il contrario della vita. Ogni giorno aumenta il nostro disagio per la perdita di
forma che constatiamo nella vita. Come la vita prende una forma dall'universo,
diventa viva nel momento in cui acquista una dimensione e un ordine, così la poesia
esiste nel momento in cui trae la sua forma dall’informe e dal disordine del mondo.
La poesia esiste, cioè ex-siste, quando si separa dalla morte, rinuncia alla confusione,
e accetta, con pietas materna. la caducità dolorosa della vita ma anche il suo slancio
nella metrica più o meno esplicita. La metrica non è romantica o classica o
illuminista, e non è neppure antica o moderna. Non è espediente retorico come non è
elemento naturale: il ritmo, la misura, è edificazione, lingua, espressione di
quell'ordine che regola il ritmo generale del mondo. Per Alberto Caramella la metrica
sembra essere, come già per Umberto Saba, il bisogno di un poetare «umano», il
tessuto cioè di una musicalità popolare e al tempo stesso richiamo alto alla poesia:
«Si sveglia l'incredibile foglio / rettangolare voglia / di scrivere qualcosa / in
caratteri strani: / e si dispera / fino a giorno / fino a quando ragiona, fino a sera /
fino a quando, / s'apre e si posa il fiore della notte» (p. 175). Sarebbe anche questo
un lungo discorso. Accontentiamoci di seguire, invece, per concludere, quella
metafora del mare che attraversa in lungo e in largo I viaggi del Nautilus.
Il mare, come ha scritto lucidamente W. H. Auden, in un bel saggio dal titolo
Gli irati flutti (trad. ít. Fazí Editore, 1995), è la nostra situazione reale mentre il
viaggio è la vera condizione dell'uomo. Il mare è il luogo in cui avvengono gli eventi
decisivi, i tormenti di eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione. Come ben
dimostra tutta una letteratura che va dalla conchiglia di Wordsworth alla Tempesta di
Shakespeare, all’indimenticabile Moby Dick di Melville, all'Apocalisse. Anche per
Alberto Caramella, dopo tutto, il soggetto è il mare (p. 260), che è per l'anima
«immagine di luce custodita / che nega la certezza figurata». E chi naviga nel mare
della vita, come il poeta o l'uomo, è una creatura mortale che vive, con tutta la sua
morte e con tutta la sua vita, proprio nel viaggio e nulla possiede che non abbia già

amato e perduto. «Volea dire, troverai altri in vece mia, ma no: un cuore come il mio
non lo troverai», ha scritto Leopardi. Anche noi, in questo mare della vita da cui, per
citare ancora Wordsworth, può sgorgare al tempo stesso «una profetica armonia» o
«un diluvio», lasciamo che almeno i poeti siano i custodi di questa disperata bontà
per il nostro cuore ancora umano.