Avvocati di famiglia 01_11:Avvocati di famiglia - Osservatorio di ...

Anno IV - n.1 - gennaio-febbraio 2011 - Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 1 - gennaio-febbraio 2011
Avvocatidifamiglia
XXX Congresso Nazionale Forense
2010
L’Osservatorio accreditato tra le
associazioni forensi maggiormente
reppresentative
Mediazione e conciliazione
Assegno di mantenimento e affido condiviso
Beni personali e acquisto di immobili dopo il
matrimonio
Zoom su Milano,Varese e Trani

Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno IV, n. 1 - gennaio-febbraio 2011
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Amministrazione
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Centro studi giuridici sulla persona
Via Nomentana, 257 - 00161 Roma
Tel. 06.44242164
Fax 06.44236900
(segreteria@osservatoriofamiglia.it)
Direttore responsabile
avv. Gianfranco Dosi
(gianfrancodosi@studigiuridici.it)
Comitato esecutivo dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
avv. Gianfranco Dosi (Roma)
avv. Maria Giulia Albiero (Messina)
avv. Germana Bertoli (Torino)
avv. Matilde Giammarco (Chieti)
avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto)
avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli)
Redazione
Direttore responsabile avv. Gianfranco Dosi
Hanno collaborato a questo numero
Marcella Basile, Marcella Caporale, Claudio Cecchella, Maria Stella Ciarletta,
Gianfranco Dosi, Maria Teresa Coratella, Guglielmo Gulotta, Michela Labriola,
Palma Loconte, Marino Maglietta, Chiara Mazzeo, Claudia Romanelli, Gioia Sambuco,
Valerio Sangiovanni, Giovanni Trapella, Nella Vitti
Impaginazione e Stampa
EUROLIT S.r.l.
00133 Roma - Via Bitetto, 39 - Tel. 06.2015137
(eurolit@eurolit.it)

Editoriale
SOMMARIO
Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Sommario
Il XXX Congresso Nazionale Forense accredita
l’Osservatorio tra le associazioni forensi nazionali
maggiormente rappresentative
(Gianfranco Dosi) 2
Zoom
L’Osservatorio a Milano
- Affido condiviso, ascolto del minore e processo
di separazione. Il punto di vista del Presidente
della Sezione Famiglia del tribunale di Milano,
dott.ssa Gloria Servetti 5
(Intervista a cura dell’avv. Marcella Caporale)
- Prassi della Sezione Famiglia 7
L’Osservatorio a Trani
- La giovane sezione di Trani dell’Osservatorio 15
(avv. Maria Teresa Coratella e avv. Palma Loconte)
- Il diritto di famiglia nel tribunale di Trani.
Intervista al Presidente, dott. Filippo Bortone 16
(a cura degli avv. Nella Vitti e Marcella Basile)
L’Osservatorio a Varese
Efficienza, buoni rapporti tra giudici e avvocati
e protocolli di lavoro.
Intervista al Presidente del tribunale
dott. Emilio Curtò 18
(a cura dell’avv. Rita Bottoli)
Primo piano
Consiglio Nazionale Forense: quota due donne! 23
(Claudia Romanelli)
Una sentenza del TAR Calabria contro
le discriminazioni 24
(Maria Stella Ciarletta)
Studi e ricerche
Contrasto alla violenza, ordini di protezione,
lotta alla persecuzione 26
(Guglielmo Gulotta)
Beni personali e acquisto di immobili
dopo il matrimonio 51
(Valerio Sangiovanni)
La costituzione di parte civile del convivente
omosessuale 57
(Giovanni Trapella)
Giurisprudenza civile
Affidamento condiviso e assegno di mantenimento
per i figli 64
Cass. sez. I, 4 novembre 2010, n. 22502
Il punto di vista: Cambiare tutto perché
nulla cambi (Chiara Mazzeo) 65
La Corte di cassazione intrepreta
l’art. 709 ter cp.c. 66
Cass. sez. I, 22 ottobre 2010, n. 21718
Il punto di vista (Michela Labriola) 67
Nonni e mantenimento dei nipoti 70
Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509
Il punto di vista (Maria Teresa Coratella e Palma
Loconte) 71
Giurisprudenza penale
Vizio parziale di mente idoneo ad escludere
il dolo nel reato di violazione degli obblighi
di assistenza familiare 73
Cass. penale, Sez. VI, 23 settembre 2010, n. 34333
Il punto di vista (Gioia Sambuco) 74
Legislazione
I figli sono tutti uguali. Un disegno di legge
del Governo e un provvedimento del Senato
avviano la riforma della filiazione 77
(Gianfranco Dosi)
Prospettive di riforma dell'affidamrnto
condiviso 82
(Marino Maglietta)
In libreria 87
Dossier
Mediazione e conciliazione
La mediazione dopo la riforma con il decreto
legislativo n. 28 del 2010 e la legge n. 183 del 2010
(Claudio Cecchella) 39
Diritto di famiglia, mediazione e conciliazione
delle controversie civili (Gianfranco Dosi) 45
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 1

EDITORIALE
Il Congresso Nazionale Forense accredita l’Osservatorio
tra le associazioni forensi nazionali maggiormente
rappresentative
GIANFRANCO DOSI, AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Il XXX Congresso nazionale
forense svoltosi
Genova dal 25 al
27 novembre 2010 e cioè
l’assemblea generale dell’avvocatura
italiana, ha
approvato la mozione con
la quale la nostra associazione
ha chiesto di essere
riconosciuta tra le associazioni
forensi maggiormente
rappresentative sul territorio nazionale.
Lo Statuto del Congresso quindi, nell’elenco delle
associazioni accreditate, includerà da oggi anche
l’Osservatorio - e l’Unione nazionale delle camere
minorili, anch’essa accreditata a Genova - con la
conseguenza che la nostra associazione da oggi ha
il diritto di partecipare attivamente alle attività dell’Organismo
unitario e delle sue commissioni nonché
ad essere interpellata dal Consiglio Nazionale
Forense insieme a tutte le altre associazioni forensi.
LE UNDICI ASSOCIAZIONI FORENSI
MAGGIORMENTE RAPPRESENTATIVE
SUL PIANO NAZIONALE
- ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI
PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
- AVVOCATI GIUSLAVORISTI ITALIANI
- ASSOCIAZIONE ITALIANA GIOVANI AVVOCATI
- ASSOCIAZIONE NAZIONALE FORENSE
- OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO
DI FAMIGLIA - AVVOCATI DI FAMIGLIA
- SOCIETÀ ITALIANA AVVOCATI
AMMINISTRATIVISTI
- UNIONE CAMERE CIVILI
- UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE
- UNIONE ITALIANA FORENSE
- UNIONE NAZIONALE DELLE CAMERE
DEGLI AVVOCATI TRIBUTARISTI
- UNIONE NAZIONALE DELLE CAMERE MINORILI
Questo riconoscimento è l’effetto non solo della
oggettiva rappresentatività geografica della nostra
associazione sul tutto il territorio nazionale (1600
associati, distribuiti in 70 sedi di tribunale, in quasi
tutte le regioni italiane), ma anche della capacità dimostrata
dal 2003 dalla nostra associazione nelle
sue articolazioni centrali e territoriali di costituire
2 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
per gli avvocati un punto di riferimento nell’ambito
delle tematiche del diritto di famiglia.
Gli oltre 500 eventi formativi che l’Osservatorio ha
promosso in tutta Italia negli ultimi anni, con l’accreditamento
dei consigli dell’Ordine, rappresentano
il risultato di uno sforzo collettivo che ha prodotto
formazione e cultura. Il nostro documento
sulla responsabilità dell’avvocato nel diritto di famiglia
(approvato al Forum di Roma del 2009) ne è la
testimonianza più concreta.
Ora però ci aspettano nuovi doveri e nuove responsabilità.
L’accreditamento moltiplicherà i nostri impegni -
per esempio sul versante della formazione specialistica
- e dobbiamo saper far fronte a queste nuove
responsabilità incrementando la nostra capacità di
aggregazione e di organizzazione. Lo dovremo fare
nello spirito che al Congresso abbiamo promesso
che è quello di lavorare all’interno dell’avvocatura e
non al di sopra di essa.
Il Coordinamento nazionale dell’associazione
(cioè l’organo deliberativo dell’Osservatorio, composto
da tutti i presidenti delle sezioni territoriali)
nella riunione del 22 gennaio 2011 ha fatto alcuni
passi importanti quali quello di istituire la nostra
Scuola centrale di formazione e aggiornamento
per gli avvocati e di avviare i lavori per la stesura
del Codice etico dell’associazione.
Nella prossima riunione del Coordinamento nazionale
del 21 maggio 2011 approveremo la bozza
del testo del codice etico da deliberare poi al Forum
nazionale del 2011 che si svolgerà dal 10 al 13 settembre
2011.
Il codice etico dell’Osservatorio
All’atto del riconoscimento tra le associazioni forensi
maggiormente rappresentative abbiamo assunto
formalmente l’impegno di adottare un codice
etico dell’Osservatorio.
È un adempimento al quale per statuto congressuale
dobbiamo far fronte entro sei mesi dall’avvenuto
riconoscimento.
Che cos’è un codice etico?
La nostra professione ha già un codice deontologico
che contiene le norme di comportamento dell’avvocato
alla cui inosservanza consegue la sanzione
disciplinare. Le norme deontologiche sono norme
giuridiche sanzionatorie di comportamenti, conside-

ati lesivi dell’onore e della probità con cui l’avvocato
deve esercitare la sua professione. Esse si basano certamente
su principi etici; ma tra tutti i principi etici
che possono orientare il comportamento di un avvocato
le norme deontologiche ne ha selezionati alcuni
da sanzionare con provvedimenti disciplinari.
Ciò premesso il codice etico potrebbe essere definito
come quell’insieme di principi di carattere etico
che l’associazione ritiene di porre a base del comportamento
dell’avvocato nel diritto di famiglia la
cui violazione non costituisce necessariamente illecito
disciplinare ma che, ciononostante, l’associazione
chiede ai propri associati di rispettare.
Tra questi principi vi sono innanzitutto quelle linee
guida comportamentali alle quali fa riferimento
il nostro documento 2009 sulle responsabilità dell’avvocato
nel diritto di famiglia che riteniamo di
potere assumere come stile professionale dell’avvocato
nel diritto di famiglia. Una specie di patto associativo
che chiediamo ai nostri associati di impegnarsi
a rispettare nell’esercizio della professione in
questo settore sensibile che è, certamente, il diritto
di famiglia.
Accanto a questa funzione per così dire di orientamento
degli associati, vi è una seconda funzione
fondamentale del codice etico su cui è necessario
soffermarsi.
Si tratta di una funzione di definizione degli obiettivi
associativi e di regolamentazione interna della
vita associativa.
Il codice etico, in questa prospettiva, è anche lo
strumento con cui l’Osservatorio autoregolamenta
la stessa organizzazione a attività associativa sulla
EDITORIALE
base di quei valori, chiedendone il rispetto ai propri
associati. La sanzione, in caso di violazione di queste
linee comportamentali, è certamente solo morale,
e non può generare responsabilità giuridica né
degli associati né dell’associazione.
L’efficacia del codice etico, in questa seconda accezione,
va ricercata su un piano diverso, legato alla
reputazione e alla competitività dell’associazione. Una
sorta di “marchio di qualità”, capace di influenzare
in primo luogo la disponibilità degli avvocati verso
l’adesione all’Osservatorio e in una prospettiva più
ampia la disponibilità degli utenti ad utilizzare i servizi
professionali dell’avvocato associato all’Osservatorio,
posto che nessuna norma esclude che l’avvocato
possa indicare l’associazione nella quale è
impegnato o ha acquisito la sua specializzazione.
In questa direzione il codice etico richiama, sia
pure discostandosene un po’, i modelli di codici etici
sviluppatisi in Italia in seguito all’introduzione della
disciplina della “responsabilità amministrativa delle
imprese” approvata dal legislatore italiano con il
D.Lgs. n. 231/2001 che ha previsto un nuovo modello
di responsabilità delle persone giuridiche, delle società
e delle associazioni prive di personalità giuridica
(come è, appunto, l’Osservatorio), in base al
quale l’ente è chiamato a rispondere per i comportamenti
illeciti commessi da propri dirigenti e dipendenti
a vantaggio o nell’interesse dell’ente. La
persona giuridica risponde non dell’illecito commesso
dalle persone fisiche (il che violerebbe il principio
della responsabilità penale personale), ma di
un autonomo illecito amministrativo, consistente
nel difetto “di organizzazione” che ha reso possibile
la consumazione dell’illecito. La responsabilità del-
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EDITORIALE
l’ente sorge in relazione ai reati commessi sia dagli
organi dirigenti, in virtù del rapporto organico, sia
dagli associati, tutte volte in cui essi agiscano nell’ambito
delle competenze e della sfera di controllo
all’ente stesso, e purché il reato sia stato commesso
a vantaggio o nell’interesse dell’ente stesso. La sussistenza
del nesso oggettivo comporta la corresponsabilità
dell’ente, in via presuntiva, a meno che
l’ente non riesca a provare di aver adottato modelli
organizzativi idonei a prevenire la commissione dei
reati. Le associazioni di categoria, nel delineare le linee
guida per la redazione dei modelli organizzativi
delle imprese, hanno invitato le imprese a impiantare
il proprio sistema di controlli preventivi sulla
base di codici etici. Quasi tutte le più importanti im-
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prese hanno oggi un codice etico, non di mera apparenza,
proprio nella prospettiva di imporre regole
e modelli di organizzazione interna capaci di prevenire
e disincentivare la commissione di illeciti a
vantaggio dell’ente.
Questo modello di codice etico è ragionevolmente
diverso da quello che l’Osservatorio è chiamato ad
adottare, in quanto non è facilmente ipotizzabile che
all’interno dell’Osservatorio - che non ha finalità lucrative
- possano essere commessi illeciti a vantaggio
dell’Osservatorio stesso. Tuttavia lo spirito del codice
etico dovrà essere anche quello di allineare l’organizzazione
interna all’esigenza del rispetto di norme
comportamentali idonee a prevenire la responsabilità
dell’Osservatorio come associazione.
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA -
AVVOCATI DI FAMIGLIA
SCUOLA CENTRALE DI FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO
PER GLI AVVOCATI
L’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia ha istituito la propria Scuola centrale di formazione
e di aggiornamento per gli avvocati per la realizzazione delle iniziative di formazione tese a favorire
l’acquisizione di competenze specialistiche e di responsabilità professionali nel settore del diritto di famiglia.
La Scuola centrale dell’Osservatorio è l’organismo che promuove all’interno dell’Osservatorio corsi
di formazione per avvocati di famiglia a livello centrale e a livello territoriale.
A decorrere dal 2011 la “scuola centrale” attiverà i primi corsi di formazione a livello territoriale, richiedendo
sulla base della regolamentazione attuale l’attribuzione di crediti formativi al CNF e agli
Ordine della sezione territoriale ospitante.
I Corsi sono tesi a facilitare l’apprendimento e l’aggiornamento e si svolgono con apposite sessioni
specialistiche, psico-sociali e di psicologia giuridica, medico/legali e con moduli che prevedono l’approfondimento
del tema (le norme, le teorie) anche de iure condendo, appositi percorsi di giurisprudenza
con la valutazione delle sentenze significative, esercitazioni (discussione di casi, soluzione di
problemi), riflessione sugli aspetti deontologici sui temi dell’incontro.
L’organizzazione anche scientifica dei Corsi di formazione è attribuita alla Scuola centrale il cui comitato
di gestione è composto da nove soci dell’Osservatorio eletti ogni due anni dal Coordinamento
nazionale nell’ultima riunione dell’anno solare.
Il Presidente della scuola è il Presidente dell’Osservatorio.
Il Vice Presidente della scuola è eletto dal Coordinamento all’atto dell’elezione dei nove componenti
del comitato di gestione.
La Scuola centrale ha una propria sede e proprie strutture tecniche nonché una propria segreteria,
autonomia contabile e organizzativa, un bilancio separato dal bilancio associativo.
Il Comitato di gestione della Scuola centrale relaziona periodicamente al Coordinamento che ne
approva l’azione e che può dare indicazioni vincolanti sulla gestione anche economica dei corsi.
Il Comitato di gestione della Scuola centrale ha la responsabilità organizzativa e di scelta dei tutor
e dei docenti del corso.
I tutor (in numero minimo di due per corso) sono scelti previa indicazione delle sezioni territoriali
tra gli avvocati della sezione, dovendo essere sempre presenti a tutti gli incontri del corso.
I docenti del corso sono avvocati, professori universitari, magistrati, altri professionisti scelti tra
tutti coloro che ne faranno richiesta o che si dichiareranno disponibili tenendo prioritariamente presenti
la disponibilità dei componenti dell’Osservatorio e del Coordinamento.
Il Comitato di gestione della scuola tiene e aggiorna l’elenco dei docenti disponibili alla partecipazione
ai Corsi di formazione.

Osservatorio a Milano
Affidamento condiviso,
ascolto del minore e
processo di separazione.
Il punto di vista del
Presidente della sezione
famiglia del Tribunale,
dott.ssa Gloria Servetti
(Intervista a cura dell’avv. MARCELLA CAPORALE)
Sig. Presidente, alla luce della Sua esperienza, quale
opinione ha maturato sull’affido condiviso?
A quattro anni di distanza dall’entrata in vigore
della legge n. 54/2006 è senz’altro possibile fare un
primo consuntivo e rilevare che l’utenza, e con essa
la giurisprudenza, ha ampiamente fatto proprio
l’istituto dell’affidamento condiviso, adottato nel 95%
dei casi di separazione consensuale e in percentuale
persino maggiore nei procedimenti di divorzio su
domanda congiunta.
Credo di poter aggiungere che anche nelle situazioni
conflittuali, quanto a dire nelle procedure contenziose,
in mancanza di elementi documentali o
comunque evidenti di segno contrario si opta in misura
nettamente prevalente per un affidamento
condiviso, quantomeno nella fase presidenziale per
sua natura interlocutoria.
Nella successiva fase istruttoria gli accertamenti
disposti d’ufficio o su istanza delle parti possono
condurre all’acquisizione di elementi che suggeriscono
un cambiamento di rotta ed un intervento
modificativo, intervento che - in via del tutto approssimativa
- in un 50% dei casi porta ad un affidamento
esclusivo ed in un altro 50% all’affidamento
ai Servizi sociali.
Possiamo quindi dire che la scelta prevalente sia
ormai orientata verso l’affidamento condiviso ma
che, in assenza dei relativi presupposti, spesso
ZOOM
emergono motivi tanto gravi che comportano l’intervento
di quell’elemento di terzietà, di equilibrio e
di garanzia che può realizzarsi solo attraverso la
presenza dei Servizi.
Si tratta di un trend in progressiva crescita, tanto
che è significativo l’aumento negli ultimi anni degli
affidi all’Ente territoriale.
L’inadeguatezza genitoriale, sotto il profilo della
cura, dell’educazione, dell’attitudine a predisporre
condizioni di vita tutelanti, è un tipo d’incapacità
percentualmente abbastanza diffusa e penso alle
coppie molto giovani, a quelle giunte all’essere genitori
senza una buona consapevolezza del peso e
dell’entità dei compiti connessi, alle coppie miste o,
per meglio dire, alle coppie internazionali che, fra le
altre cose, devono affrontare il difficile percorso di
omologazione di differenti modi di essere.
In quest’ultime possiamo rinvenire radici culturali
non compatibili con una vera condivisione di
cura e gestione della genitorialità: infatti, se da un
canto viene spesso riconosciuto alla madre il diritto/dovere
di cura e di assistenza del minore soprattutto
piccolo, dall’altro abbiamo padri che talora
non si impegnano, che non vedono i figli, che non
pagano gli assegni di mantenimento, che costituiscono,
con velocità sorprendente, nuovi nuclei,
quasi dimenticando la precedente esperienza familiare
e originando seri problemi per la conservazione
di un minimo di relazione proficua tra il minore ed
un genitore assorbito dalle sue nuove esperienze di
vita.
Può dirci se si verifica anche la situazione contraria di
esclusione dei padri da parte delle madri e se si tratta
di un fenomeno rilevante?
Questa “esclusione” della figura paterna è un fenomeno
obiettivo che esiste, se pur in misura non
così allarmante come lo si vorrebbe dipingere, ma
che ha radici che nulla hanno a che vedere con
l’operato degli uffici giudiziari, tutt’altro.
Infatti, nei casi cui si fa riferimento, l’Ufficio giudiziario
può registrare talvolta delle forti opposizioni
materne, ma è ben lungi dall’accettarle e mette in
campo tutti i rimedi possibili, con risultati che variano
da situazione a situazione e certo non possono
prescindere dalla struttura di personalità delle
parti/genitori.
Devo dire che le due idoneità genitoriali vengono
sempre esaminate e valutate nello stesso modo,
senza alcuna aprioristica chiusura, tanto che non è
affatto raro che vengano anche redarguite fortemente
le madri che sono oppositive, che strumentalizzano
la situazione, talvolta convinte, e forse anche
in buona fede per la loro esperienza matrimoniale
negativa, che non ci siano risorse in quella figura
maschile che vivono come contrapposta e,
quindi, preferiscono cercare di eliminare, senza però
tenere conto che la privazione o la sostituzione della
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 5

ZOOM
figura paterna rappresentano qualcosa che non va
mai fatto e non può essere tollerato.
Per quello che posso dire in merito alla posizione
della Sezione, quando si riscontrano delle difficoltà
nei rapporti il primo passo che viene fatto è quello
di incaricare i Servizi di fare un’indagine psico-sociale
e, se in quella prima sede emerge qualche elemento
non chiaro, sono chiamati in causa i servizi
specialistici dell’A.S.L al fine di andare più a fondo e
cercare di capire dove stia il nodo critico relazionale,
così da poter approntare degli interventi di supporto,
sia alla genitorialità sia a livello di sostegno
psicoterapeutico per i minori.
Il ricorso ai Servizi in alcuni casi si rivela positivo,
in altri si registra una compromissione tale da imporre
di bloccare l’intervento, in quanto il disagio e
il danno che si rischierebbe di provocare al minore
sono assolutamente inaccettabili e superiori a qualsiasi
modesta, ipotetica e lontana evoluzione del
rapporto con il genitore che, per così dire, è uscito
dalla vita del figlio.
Secondo Lei, l’affido condiviso ha contribuito a contenere
la litigiosità tra i coniugi-genitori?
Alla prova dei fatti non si può purtroppo dire che
l’affidamento condiviso limiti la litigiosità, e ciò perché
la litigiosità nasce e si sviluppa nella relazione
quotidiana, nel non trovarsi d’accordo sulla gestione
di specifici profili come genitori, nella verifica di non
essere in grado di agire con sintonia nell’esercizio
di un ruolo che per sua natura è comune e paritario.
Un effetto positivo che deve essere riconosciuto
all’istituto dell’affidamento condiviso è quello di
spingere i genitori a considerarsi per legge su questo
piano di parità e, quindi, non è azzardato affermare
che questa tipologia di affidamento svolge una
funzione di promozione sociale sul piano della
stessa cultura della genitorialità.
Forse è presto per avere delle conferme socialmente
apprezzabili, si può presumere che gli effetti
di questo nuovo approccio culturale si vedranno tra
qualche anno.
A livello giurisprudenziale, si noti, la conflittualità
tra gli adulti sicuramente non è di per sé di ostacolo
all’affidamento condiviso. Se i genitori litigano anche
per molte questioni, il tribunale ritiene che l’affidamento
condiviso possa servire a dare loro un segnale
utile: la coppia può non funzionare ma come
genitori sono sullo stesso piano e di ciò debbono necessariamente
prendere atto.
L’ostacolo ad una soddisfacente gestione dell’affido
condiviso è, in realtà, rappresentato da problematiche
molto più profonde, presenti quando, come
si diceva prima, esiste per esempio un reale nodo
critico nei rapporti tra il soggetto minore e la figura
paterna, od anche quella materna dal momento che
ci sono anche casi - e forse questi sono in aumento
- di difficoltà relazionali con la madre.
6 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Mi tornano alla mente due vicende: in una, la madre
aveva fatto delle scelte affettive orientate verso
la costituzione di una nuova relazione forte, intensa
e duratura, così da lasciare poco spazio alla considerazione
delle difficoltà del figlio a seguirla in questo
percorso di vita; in un’altra, erano le scelte professionali
che avevano portato la madre ad essere
molto assente da casa per ragioni di lavoro, viaggi e
trasferte. A quel punto i figli, sentiti dal giudice e già
quasi maggiorenni, fermo restando il legame affettivo
ed il riconoscimento delle doti materne, hanno
preferito rimanere collocati presso il padre che era
maggiormente in grado di garantire loro una continuità
di vita nel quotidiano, opzione che ha comportato
inevitabilmente l’assegnazione della casa
coniugale al padre e il trasferimento della parte più
accesa del contenzioso sul fronte economico.
In queste situazioni, i figli - tenendo presente che
sono le figlie, specie adolescenti, a presentare maggiore
criticità nel rapporto con la figura genitoriale
femminile - faticano evidentemente ad accettare le
scelte materne, poiché la madre è, anche nell’immaginario
collettivo che ha radici profonde, ancora
prevalentemente colei che dispensa affetto, carezze,
presenza in casa, assistenza ed è chiamata, più dell’elemento
maschile, a sacrificare i propri progetti
di vita in funzione dei bisogni della prole.
Ed è allora che nasce un atteggiamento rivendicativo,
destinato a tradursi a sua volta in un allontanamento
della figura materna dal vissuto di questi
minori.
La legge sull’affido condiviso ha l’ambizione di responsabilizzare
i genitori in un concreto “progetto educativo”;
secondo Lei, gli accordi finora omologati hanno
recepito tale obiettivo o ritiene auspicabile, a tal fine,
una mediazione familiare obbligatoria?
Non so se possa essere seguita quest’ultima
strada, se non altro perché alla Mediazione si accede
solo se si è consenzienti e un’effettiva disponibilità
stride con una generalizzata imposizione per legge.
Posso però ricordare, e mi pare abbastanza significativo,
che l’Università Cattolica, precisamente
l’Istituto di psicologia clinica, ha fatto un lavoro
molto approfondito e di respiro nazionale sugli effetti
della Mediazione.
I risultati sono stati presentati a novembre 2009 e,
a grandi linee, possiamo fare una sorta di graduatoria
che vede al primo posto la Mediazione Familiare
espletata prima dell’inizio del giudizio, addirittura
prima dell’accesso allo studio dell’avvocato. In questo
caso si è ottenuto un buon risultato, con alta percentuale
di successo quanto all’impostazione della
relazione in termini non conflittuali.
In seconda posizione troviamo la Mediazione su
suggerimento e per iniziativa dei legali, quindi in
una fase ancora non giudiziale, ovvero antecedente
al deposito di un ricorso in tribunale: dati di riscon-

tro abbastanza positivi, ma inferiori alla prima ipotesi
di accesso spontaneo e molto precoce.
Al terzo ed ultimo posto in graduatoria, con la percentuale
di successo più bassa, troviamo la Mediazione
effettuata su invio da parte del giudice, ovvero
a procedimento separativo già instaurato.
Questo dato ha destato un po’ meraviglia in coloro
che avevano effettuato il sondaggio e le verifiche,
dal momento che si credeva, in linea con
quanto si pensava anche al tempo degli studi preparatori
alla legge dell’affido condiviso, che un invio
da parte del giudice fosse particolarmente impegnativo
e sentito dalle parti, tale da garantire il
loro massimo coinvolgimento.
Ma così non è stato alla resa dei conti e credo che
il tutto possa spiegarsi con la tempistica dell’intervento,
così che quando questo è molto precoce viene
ad agire su un terreno ancora vergine, dove le contrapposizioni
non si sono radicate, c’è la percezione
del malessere, la coscienza del fatto che si arriverà
alla separazione perché la convivenza è divenuta intollerabile,
c’è magari anche la consapevolezza delle
responsabilità in capo all’uno o all’altro, ma c’è an-
che la volontà di superare questo possibile conflitto e
di prevenirlo con un intervento molto sollecito.
Quando invece si arriva davanti al giudice le posizioni
sono senza dubbio più radicalizzate, c’è stato
il passaggio dall’avvocato, c’è stata la spiegazione di
quello che si può ottenere in sede giudiziale e di
quello che, invece, non sarà conseguibile per ragioni
di diritto e di merito, con la conseguenza che ciascuno
dei due coniugi ha già un quadro di aspettative
e di pretese; questo evidentemente blocca l’intima
disponibilità alla ripresa di un colloquio, anche
in una sede tecnica specialistica.
Inoltre, per quanto riguarda gli avvocati, l’invio destinato
al successo può provenire solo da un legale
specializzato che, come tale, conosca bene che cosa
deve intendersi per Mediazione Familiare, come opera
il mediatore, quale è la metodologia adottata, quale risultato
ci si può attendere: solo un avvocato formato
su queste esperienze e conoscenze è in grado di fare
una prima diretta valutazione di opportunità e, cioè,
di mediabilità effettiva di quella coppia, mentre se il
difensore non ha allenamento, sensibilità, preparazione
e confidenza con questa tecnica, non farà mai
Prassi della Sezione Famiglia del tribunale di Milano sul mantenimento dei figli
ZOOM
È stata affrontata la questione relativa al crescente numero di procedimenti ex art. 148 c.c. iscritti a
ruolo negli ultimi mesi ed alle problematiche inerenti la competenza funzionale del Tribunale ordinario
e del Tribunale per i minorenni spesso ragione di perplessità e disorientamento da parte degli utenti
e tali da avere portato a plurime pronunce di diniego della competenza.
In sintesi, si è giunti ad assumere le seguenti determinazioni:
a) procedimento ex artt. 148 e 261 c.c. introdotto con atto di citazione: qualora la parte convenuta avanzi
in via riconvenzionale una domanda relativa al regime di affidamento della prole, si procederà ad una
sollecita rimessione della causa a p.c., e la pronuncia sarà di incompetenza del Tribunale ordinario
adito, con individuazione della competenza del T.M., ravvisandosi un’ipotesi di contestualità tra le
domande connesse idonea a far insorgere la competenza esclusiva del giudice minorile, in linea con
le ordinanze della Cassazione dell’aprile 2007 e successive;
b) procedimento ex art. 148 2° comma c.c., introdotto quindi con ricorso: se la parte resistente dovesse
proporre domanda riconvenzionale in tema di affidamento, si procederà alla decisione con decreto
(ovviamente nella sussistenza dei presupposti di legge) sulla domanda economica e si dichiarerà
l’inammissibilità della riconvenzionale (estranea alla possibilità di utilizzo del procedimento “speciale”
di cui al citato art. 148 2° comma c.c.), con una soluzione del tutto assorbente rispetto alle questioni
di competenza funzionale;
c) procedimento introdotto con ricorso ex art. 148 2° comma c.c., concluso con decreto: nell’eventuale
successivo giudizio di opposizione, laddove sia avanzata anche una domanda relativa all’affidamento,
si deciderà (con rito ordinario) sull’opposizione al decreto per le sole questioni economiche
e si dichiarerà l’inammissibilità della domanda di affidamento;
d) procedimento introdotto con citazione: nel caso di riconvenzionale sull’affidamento, ove fosse raggiunto
dalle parti un accordo sull’intero oggetto della controversia, si procederà a redigere un verbale
di conciliazione, con contestuale rituale rinuncia delle parti agli atti del giudizio, relativa accettazione
e pronuncia di estinzione del processo, a spese compensate;
e) procedimento introdotto con ricorso, sempre ex art. 148 c.c. 2° comma c.c., anche in questa ipotesi,
in presenza di una riconvenzionale avente ad oggetto l’affidamento e di un accordo raggiunto dalle
parti, si farà luogo alla predisposizione di un verbale di conciliazione, con rinuncia agli atti e declaratoria
di estinzione come al punto c).
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 7

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un invio in quel momento e preferirà nell’immediato
redigere un ricorso e avanzare tutte le domande in diritto,
dando in buona sostanza impulso all’espressione
del conflitto, processuale ma ancor prima personale.
Cosa può dirci in merito all’“ascolto del minore” nei
procedimenti di separazione e divorzio? Esiste un protocollo
definito ed adottato dalla sezione?
A Milano, da anni, la Sezione applica un Protocollo
predisposto dall’Osservatorio Giustizia e dalle Camere
Minorili, quindi da un gruppo di lavoro misto,
a seguito dell’entrata in vigore della legge sull’affidamento
condiviso.
Possiamo tentare di vederlo insieme, almeno a
grandi linee.
Nella sua premessa il Protocollo riconosce al giudice
la possibilità di non procedere all’audizione “diretta”
quando si rende conto, attraverso elementi
processuali già acquisiti, che potrebbe essere dannosa
per l’equilibrio di un minore disorientato tra le
posizioni contrastanti dei due genitori oppure nel
caso di un minore già ascoltato dai Servizi sociali e
Osservatorio per la giustizia civile di Milano
Protocollo sull’interpretazione e applicazione legge 8 febbraio 2006, n. 54 in tema di ascolto del minore 1
Articolo 155 sexies
Il giudice dispone l’audizione del minore che abbia compiuto i dodici anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento”
considerato
- che la norma in esame ha di fatto elevato a regola l’audizione del minore nei procedimenti di separazione;
- che in virtù dell’art. 4, comma 2 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, detta previsione dovrebbe trovare applicazione
anche nei procedimenti di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché nei
procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati;
- che, peraltro, affinché l’audizione nel processo costituisca per il minore un’effettiva opportunità di esprimere propri
bisogni e desideri, è necessario che si proceda all’ascolto con modalità adeguate e rispettose della sua sensibilità,
nel rispetto del principio della minima offensività;
- che, specie nel caso di procedimenti con alta conflittualità fra le parti, occorre prestare la massima cautela onde
evitare che l’audizione del minore diventi occasione di pericolose strumentalizzazioni e suggestioni ad opera dei
genitori e di terzi;
- che, pertanto, al fine di garantire una corretta applicazione del disposto ex art.155 sexies si auspica che vengano
fissati alcuni criteri interpretativi di base;
- che si auspica che detti criteri ed indicazioni vengano rispettate per l’ascolto del minore in tutte le procedure civili
che lo riguardano.
Art. 1 - Limiti dell’ascolto
L’ascolto del minore dovrà essere disposto unicamente nei procedimenti contenziosi (separazione, divorzio, interruzione
conflittuale di convivenza more uxorio); nel caso di procedimenti consensuali, l’ascolto potrà essere disposto
soltanto laddove particolari circostanze del caso lo rendano opportuno.
In ogni caso, l’ascolto del minore potrà essere disposto solo nei casi in cui debbano essere presi provvedimenti che
riguardino l’affidamento, le modalità di visita e tutte le decisioni relative ai figli, eccettuate le ipotesi in cui la vertenza
riguardi esclusivamente gli aspetti economici.
L’ascolto del minore potrà non essere disposto quando, per le particolari circostanze del caso, il giudice ritenga
motivatamente che non sia rispondente all’interesse del minore.
Qualora debba essere disposta l’audizione del minore inferiore di anni dodici, il Giudice potrà, in ogni
momento avvalersi della competenza di un esperto, nominato ausiliario ex art. 68 c.p.c, ovvero di una
CTU, per la valutazione della “capacità di discernimento”, o della difficoltà o del pregiudizio che
l’espletamento dell’ascolto potrebbe arrecare al minore.
Art. 2 - Tempi dell’ascolto giudiziario
L’ascolto del minore dovrà essere disposto al fine di prevenire eventuali inasprimenti del conflitto ed, in ogni caso,
ad udienza fissa, da stabilirsi di preferenza fuori dell’orario scolastico, in ambiente adeguato e a porte chiuse.
Ciascuna Autorità giudiziaria (o le Cancellerie e gli Uffici amministrativi competenti) dovrà dunque dare disposizioni
affinché a queste udienze venga assicurata particolare priorità ed attenzione, sia in termini di rispetto dei
tempi, sia con riferimento al luogo ove l’audizione verrà effettuata che dovrà garantire la massima riservatezza e
tranquillità al minore.
Art.3 - Ascolto diretto e “competenze integrate”
È auspicabile che l’ascolto, con riferimento anche all’età del minore, venga effettuato dal Giudice titolare della procedura
unitamente al giudice onorario ove previsto, ovvero, in mancanza, con la nomina di un ausiliario ex art. 68
c. p.c. esperto in scienze psicologiche o pedagogiche. 2
Art.4 - Luogo dell’audizione e verbalizzazione
È auspicabile che l’audizione si svolga presso l’Ufficio Giudiziario competente in una apposita stanza idonea ad ac-
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che, quindi, ha già avuto la possibilità di far sentire
la sua voce, oppure in quello di un minore particolarmente
sofferente e provato nel suo percorso evolutivo:
in casi come questi l’approccio alla struttura
giudiziaria, sempre per sua natura estranea all’esperienza
di un soggetto minore, può essere valutato
come negativo, così che è preferibile fare ricorso
ad altri strumenti di ascolto, comunque sempre
“indiretti”.
Quando invece viene sentito dal giudice, c’è un’intesa
in forza della quale gli avvocati sono pratica-
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mente tenuti ad esprimere il proprio consenso a
non presenziare e le parti, cioè i genitori, devono
fare altrettanto, tutto ciò per garantire al minore un
approccio naturale, riservato e protetto.
Per analoghe ragioni, visto che non possiamo contare
sulla presenza del PM (soluzione che a mio avviso
sarebbe ottimale) per carenze d’organico e per
esigenze organizzative degli uffici, abbiamo però convenuto
di assicurare la garanzia rappresentata dalla
presenza di un cancelliere; ciò rappresenta una tutela
per tutti e, voglio dire, anche per il giudice, al quale
cogliere un minore. L’incontro sarà verbalizzato anche in forma sommaria ed il minore avrà diritto di leggere e sottoscrivere
il verbale.
Art.5 - Presenza della parti e dei difensori
L’audizione si svolgerà unicamente alla presenza del minore, del Giudice titolare della procedura, dell’eventuale ausiliario
e, in caso di nomina, del difensore del minore o del curatore del minore.
Al fine di evitare condizionamenti, non pare opportuna la presenza delle parti e dei difensori. Le parti ed i loro difensori
presteranno quindi consenso ad allontanarsi dall’aula per non assistere all’incombente.
In ogni caso, prima dell’audizione, i legali delle parti potranno sottoporre al giudice i temi e gli argomenti sui quali
ritengono opportuno sentire il minore.
Se il minore richiederà espressamente la presenza di un genitore o di entrambi o di una persona esterna al nucleo,
in ossequio al diritto ad un’assistenza affettiva e psicologica, questa richiesta, anche in considerazione dell’età del
minore, dovrà comunque essere valutata dal giudice.
Qualora venga disposta l’audizione di più fratelli, essi saranno ascoltati separatamente, salvo l’opportunità di ascoltarli
insieme.
Art. 6 - Informazione
Prima dell’audizione il minore dovrà essere adeguatamente informato dal Giudice del suo diritto ad essere ascoltato
nel processo, dei motivi del suo coinvolgimento nello stesso, nonché dei possibili esiti del procedimento, precisando
che tali esiti non necessariamente saranno conformi a quanto sarà da lui eventualmente espresso o richiesto.
3
Prima dell’audizione del minore il Giudice fornirà ai genitori ed agli avvocati le indicazioni su come comunicare al
minore tempi e modalità dell’ascolto.
Art. 7 - Doveri di astensione dell’avvocato ed informazioni alle parti
In ogni caso, l’avvocato dei genitori del minore che deve essere ascoltato non dovrà avere contatti con il medesimo.
L’avvocato dovrà inoltre invitare i suoi assistiti ad un atteggiamento responsabile nei confronti del minore evitando
ogni forma di suggestione e di induzione della volontà, invitandoli espressamente ad astenersi dal rammostrare
al minore qualsiasi atto processuale.
Art. 8 - Ascolto del minore in CTU
È auspicabile che qualora si proceda ad un ascolto del minore in sede di CTU anche detto incombente avvenga, così
come per l’ascolto avanti al Giudice, senza la presenza delle parti e dei difensori e potrà essere richiesto che l’incombente
venga videoregistrato, ovvero, ove possibile, anche in considerazione della particolare complessità del
caso, venga realizzato con modalità di audizione in forma protetta Prima dell’audizione i consulenti di parte potranno
sottoporre al CTU i temi e gli argomenti sui quali ritengono opportuno sentire il minore.
Note
1 Protocollo elaborato sulla base di una bozza provvisoria redatta dal gruppo di studio “sull’ascolto del minore” delle
associazioni Camera Minorile ed AIAF, con l'ausilio di esperti in scienze psicologiche e pedagogiche dal febbraio
al giugno 2006, successivamente aggiornata, discussa e approvata nelle riunioni dell’Osservatorio sulla Giustizia
Civile di Milano con la partecipazione di magistrati dell’Ufficio del Giudice Tutelare, della Sezione Famiglia del
Tribunale e Corte di Appello, magistrati del Tribunale per i Minorenni e Avvocati del libero foro.
2 In sede di riunione dell’Osservatorio si sta ancora discutendo sull’opportunità, e fattibilità, di un ascolto indiretto
delegato all’ASL o all’Ordine degli psicologi con apposite convenzioni.
3 Si veda art. 3 Convenzione europea sui diritti dei minori, 25 gennaio 1996, Convenzione di Strasburgo: Diritto di
essere informato e di esprimere la propria opinione nei procedimenti. Nei procedimenti che lo riguardano dinanzi
a un’autorità giudiziaria, al minore che è considerato dal diritto interno come avente una capacità di discernimento
vengono riconosciuti i seguenti diritti, di cui egli stesso può chiedere di beneficiare:
a) ricevere ogni informazione pertinente;
b) essere consultato ed esprimere la propria opinione;
c) essere informato delle eventuali conseguenze che tale opinione comporterebbe nella pratica e delle eventuali
conseguenze di qualunque decisione.
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non potrà mai essere un domani mossa la censura di
avere riferito e verbalizzato contenuti non pertinenti.
La verbalizzazione è sommaria, per meglio realizzare
la tutela della privacy del minore, il quale deve
sentirsi libero di esprimersi anche con le sue parole
e di eventualmente manifestare non gradimento
per una delle figure genitoriali, spiegandone le ragioni
con la massima libertà e spontaneità; in questi
casi la verbalizzazione cura che non ci siano
espressioni che un domani possano essere motivo
di ritorsione o di contestazione da parte dei genitori
nei confronti del minore. Questa è una garanzia che
riteniamo fondamentale proprio per dare tranquillità
a tutti i protagonisti del processo, e in particolare
al minore che fra questi è senza dubbio il più debole;
il verbale viene riletto al minore e viene anche sottoposto
alla sua sottoscrizione, a seconda della sua
disponibilità e della sua età.
Devo dire che normalmente firmano molto volentieri
e senza alcuna esitazione, probabilmente perché
si sentono gratificati dal sottoscrivere davanti al giudice
il proprio pensiero e responsabilizzati rispetto al
contenuto del colloquio: chi dovrà decidere delle sue
sorti ha voluto ascoltarlo, quindi la sua voce è stata ritenuta
importante e non resterà trascurata.
Mi risulta che questo Protocollo venga applicato
anche a Monza e in altri tribunali del distretto milanese.
La situazione è ben diversa, invece, in altre aree
territoriali, come è emerso proprio lo scorso venerdì
2 luglio, nell’ambito di un incontro organizzato a
Roma presso il CSM tra presidenti dei Tribunali per
i Minorenni, presidenti di Tribunale e presidenti
delle sezioni specializzate: alcuni Uffici non lo ap-
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plicano, altri addirittura non lo conoscono, altri ancora
ne hanno adottati di diversi, altri non sembrano
avere avvertito questa esigenza che, in verità,
si riflette sul piano organizzativo oltre che su quello
giurisprudenziale.
A questo incontro ha partecipato, in qualità di
presidente di un’associazione di avvocati, un legale
che ha espresso la propria convinzione che l’audizione
del minore, essendo un’attività in senso lato
di valenza istruttoria, presupponga la presenza dei
difensori delle parti, i quali si devono sì impegnare
a rimanere inattivi e silenti ma hanno, comunque,
diritto di assistere.
Francamente non riesco a seguire questa linea e
a condividere simili istanze difensive, prima di
tutto perché, a prescindere da una serie di altre
considerazioni sulla delicatezza dell’incombente e
sull’esigenza di tutelare il minore, già alla stregua
dell’impianto normativo processuale ritengo che
l’audizione/ascolto diretto non sia un atto istruttorio,
ma un atto del giudice istruttore o del presidente
volto all’acquisizione di informazioni che
non possono, e mai potranno, rivestire una funzione
probatoria in senso tecnico.
Mi sembra, pertanto, che la presenza obbligatoria
degli avvocati si scontri con tutta una serie di
aspetti, quali la tutela del soggetto minore, che rivestono
un carattere nettamente prevalente.
È stata, poi, avvertita la necessità di procedere a
una sorta di unificazione o omologazione dei vari
Protocolli già esistenti, così che nell’incontro del 2
luglio si è indicato tra i compiti del CSM entrante, al
fine di promuovere questi indispensabili confronti
interdistrettuali, quello di proseguire nelle verifiche

e poi auspicabilmente giungere a una maggiore uniformità
di prassi e procedure.
Lei è favorevole alla predeterminazione di linee guida,
parametri e/o tabelle ispirate dalla tipicità del territorio
ed improntate a criteri di equità, al fine di contenere le
pretese di alcuni coniugi?
Il tema delle tabelle “preconfezionate” è estremamente
difficile da affrontare, perché le situazioni
sono troppo diverse e fra loro disomogenee e, inoltre,
non si può nascondere che il problema può in
ipotesi trovare una soluzione mediamente soddisfacente
solo di fronte a due genitori che siano entrambi
lavoratori dipendenti.
Ben diverso è, infatti, il caso del professionista, per
il quale i redditi fiscalmente dichiarati, a torto o a
ragione, si considerano spesso dotati di scarsa attendibilità
o quello dell’imprenditore, ad esempio
con un emolumento di presidente del consiglio di
amministrazione di una società con quota di maggioranza
riferibile alla sua stessa persona, al nuovo
coniuge, al genitore o alla sua famiglia di origine; in
questi casi è d’immediata percezione il fatto che
STATISTICHE PER MATERIA
STATISTICHE PER MATERIA
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l’emolumento, fiscalmente corretto e conforme alle
risultanze contabili societarie, non rispecchia esattamente
la totalità delle utilità che direttamente o
indirettamente la persona può trarre dalla sua posizione
lavorativa.
Sono, poi, presenti in Italia consistenti aree di lavoro
artigianale che, talvolta persino sottratte all’operatività
degli studi di settore, sfuggono ancora
di più ad ogni possibile controllo da parte del giudice
(pensiamo, per esempio, al venditore ambulante
dei mercati rionali, all’artigiano elettricista od
idraulico che opera a chiamata solo nell’interesse
dei privati ecc.)
Si tratta di una fascia di lavoratori rispetto alla
quale non c’è una trasparenza tale da consentire di
assumere il reddito prodotto come parametro di riferimento
nel necessario raffronto con il reddito dell’altro
genitore quando, derivante da un rapporto lavorativo
subordinato pubblico o privato, quest’ultimo
si presenta invece incontestabile: pensare di
predisporre delle tabelle che contemplino anche
questi casi è, almeno a mio personale avviso, impossibile
e affatto aderente alla nostra realtà sociale.
ANNO 2009 ESAURITI
pendenti sopravv. totale con altra totale pendenti
inizio sentenza modalità fine
VARIE 165 249 414 94 177 271 143
SEP. CONSENS. 1.085 3.485 4.543 0 3.464 3.464 1.079
SEP. GIUDIZIALI 1.851 1.381 3.232 324 739 1.063 2.169
DIV. CONGIUNTI 1.307 2.104 3.411 2.075 43 2.118 1.293
DIV. CONTENZ.SI 1.199 953 2.152 790 42 832 1.320
MODIFICHE 242 185 427 0 222 222 205
ADOZIONI 84 46 130 68 1 69 61
Totale 5.906 8.403 14.309 3.351 4.688 8.039 6.270
Al termine dell'anno 2009 si è provveduto alla verifica reale della pendenza mediante conta materiale dei fascicoli presenti in Cancelleria. A seguito
della quale sono state apportate modifiche alla pendenza iniziale dell'anno 2010.
1° SEMESTRE ESAURITI
2010 pendenti sopravv. totale con altra totale pendenti
inizio sentenza modalità fine
VARIE 175 95 270 57 87 144 126
SEP. CONSENS. 1.305 1.804 3.109 0 2.284 2.284 825
SEP. GIUDIZIALI 1.973 652 2.625 210 433 643 1.982
DIV. CONGIUNTI 1.175 1.487 2.662 1.573 40 1.613 1.049
DIV. CONTENZ.SI 1.281 504 1.785 492 26 518 1.267
MODIFICHE 205 261 466 0 122 122 344
ADOZIONI 61 5 66 33 1 34 32
Totale 6.175 4.808 10.983 2.365 2.993 5.358 5.625
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 11

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Io rimango dell’idea che in questi casi la soluzione
sia da rinvenirsi solo nella specializzazione e nell’esperienza
quotidiana tanto dell’avvocato quanto
del giudice, dal momento che una buona capacità di
lettura dei dati fiscali e di tutto quello che vi ruota
intorno (come ad es. la tipologia degli oneri deducibili,
il rapporto tra ricavi e reddito di impresa, i dati
di comune esperienza ecc.) già rappresenta un buon
punto di partenza.
Solo così potremo avere dei provvedimenti ragionevolmente
aderenti alla realtà del caso concreto,
senza necessità alcuna di fare ricorso a tabelle generali
che, magari, non si attagliano affatto alla situazione
e alla vicenda che ci si accinge ad esaminare.
Sono convinta che l’avvocato specializzato, e che
conosca a fondo il foro all’interno del quale abitualmente
esercita, sia perfettamente in grado di
fare una più che ragionevole previsione sulla quantificazione
degli assegni di mantenimento e possa
di conseguenza proporre al suo assistito, con buon
grado di verosimiglianza, la prospettiva anche relativamente
alla decisione che verrà dal giudice adottata.
Qual’è l’orientamento e la prassi della Sezione Famiglia
del Tribunale di Milano sulle indagini di polizia tributaria
nell’ambito dei giudizi di separazione e di divorzio?
In particolare il giudice entra nello specifico delle
indagini?
Quando sono arrivata in questa Sezione, ormai
due anni fa, devo dire che ho trovato una situazione
del rapporto con la Guardia di Finanza peggiore rispetto
a quella che avevo lasciato dieci anni prima.
Ho registrato subito una grossa sfiducia, perché
spesso la Polizia Tributaria non aveva fornito pronta
risposta o, se anche lo aveva fatto, il risultato era
stato deludente perché insufficiente rispetto alle
esigenze che avevano spinto alla richiesta, vago e
privo della necessaria analisi valutativa della congerie
di documenti rimessi indistintamente alla cognizione
del giudice.
Molti colleghi, ormai desolati, mi dicevano che in
quelle condizioni molto meglio sarebbe stato dare
immediato ingresso ad una Ctu contabile, ma in verità
i due strumenti non sono affatto equipollenti,
anche perché una Ctu contabile comporta oneri
molto elevati e può, pertanto, trovare giustificazione
solo dove siano in gioco interessi economici altrettanto
consistenti.
Così, giusto per fare un banale esempio, espletare
una Ctu per accertare i redditi di un venditore ambulante
o di un artigiano all’inizio della sua attività
non trova una reale giustificazione, così come sarebbe
destinato a creare non pochi problemi un accertamento
di questo genere in presenza di parti
ammesse al beneficio del patrocinio a carico dell’Erario.
12 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Nella mia ottica, l’intervento della Guardia di Finanza
dovrebbe invece integrare un elemento più
duttile, più celere e forse più ampio, anche perché
investe l’accertamento del “tenore di vita”; io stessa
ho disposto un certo numero di indagini, non molte
in verità, ma ho cercato di ricorrervi non in prima
battuta bensì dopo avere già acquisito degli elementi
documentali che mi evidenziavano delle discrasie
proprio con il tenore di vita, con gli impegni
economici assunti, con le acquisizioni patrimoniali
fatte, ecc.
Questo mi ha consentito di emettere delle ordinanze
molto dettagliate, sottolineando tutto quello
che già in me giudice istruttore aveva destato perplessità
e indicando quello che avrebbe dovuto essere
ancora accertato per poter delineare un quadro
definitivo. Ho anche utilizzato un altro accorgimento,
ovvero quello di imporre al Nucleo richiesto
di comunicare i nominativi degli ufficiali e degli
agenti delegati in concreto per quella specifica indagine,
in modo da consentire a me di avere un contatto
diretto e a loro di avere un referente che non
fosse genericamente il Tribunale, ma un certo giudice
che all’occorrenza poteva essere chiamato al
telefono e messo in grado di indirizzare l’indagine
secondo le esigenze del caso o la comunicazione dei
primi elementi acquisiti.
Posso dire che questo metodo di lavoro ha funzionato
abbastanza.
Ad esempio, in un caso gli agenti della Guardia di
Finanza mi hanno confermato che avrebbero continuato,
anche se il loro incarico nell’ambito del giudizio
era stato espletato e concluso, perché avevano
individuato dei profili di illiceità ulteriori, tali da
consentire loro di richiedere ed effettuare una verifica
fiscale vera e propria, ovvero quella attività di
lotta al fenomeno dell’evasione che a loro funzionalmente
compete.
In altri casi l’indagine non è andata avanti perché,
dopo averla disposta, le parti hanno trovato un accordo,
senza dubbio un accordo funzionale anche
ad evitare l’approfondimento di carattere fiscale.
Poiché, nella specie, il Tribunale ha valutato tale accordo
congruo in rapporto alla situazione processuale,
ha ritenuto pienamente raggiunto lo scopo,
che non è quello di perseguire reati o violazioni finanziarie
bensì, come ovvio, quello di attingere elementi
di conoscenza per decidere in termini adeguati.
Posso comunque riferire che le richieste di indagine
da parte della Guardia di Finanza non sono numerose,
in quanto è comune convinzione che sia
necessario limitarle ai casi in cui le stesse sono realmente
indispensabili.
Occorre uno screening attento, così da delegare le
indagini solo quando sia necessario e quando emergano
profili particolarmente controversi, tali da lasciar
presumere che Guardia di Finanza e, poi, Agen-

zia delle Entrate ravvisino ipotesi di evasione utili ai
fini di un successivo avviso di accertamento; infatti,
se le priorità della Polizia Tributaria si compenetrano
in modo utile con quelle del giudice civile, il
lavoro di tutti sarà doppiamente funzionale e la
stessa autorità delegata mostrerà maggiore propensione
a investire le proprie risorse, in tema di tempo
e personale.
Sig. Presidente, Lei è favorevole all’istituzione del Tribunale
per la Famiglia?
Dipende da come verrebbe organizzato, con quali
risorse e con quali competenze territoriali, ma è in
ogni caso certo che ancora oggi ci sono commistioni
consistenti tra il tribunale ordinario e il tribunale
per i minorenni, come nel caso delle domande avanzate
ex art 148 c.c. e quelle più in generale relative
a provvedimenti economici.
Il tribunale per i minorenni è competente, infatti,
per l’affidamento dei figli naturali e i provvedimenti
economici che debbano essere decisi contestualmente,
e ciò dopo le ordinanze della Suprema Corte
sta avvenendo nelle varie sedi, con modalità parzialmente
diverse e con una consistente delega ai
componenti onorari. Ad oggi il tribunale per i minorenni
emette un decreto sull’affidamento, le frequentazioni
e l’assegno, reso in camera di consiglio
secondo l’art. 38 delle disposizioni di attuazione, ma
quando una parte vuole modificare, per circostanze
sopravvenute, la precedente statuizione con solo riguardo
all’entità assegno, e quindi invoca un provvedimento
esclusivamente economico, si pone il
problema di individuare quale giudice sia competente.
Alcuni legali hanno ipotizzato di depositare
presso il Tribunale ordinario di Milano ricorsi ex art.
ZOOM
710 c.p.c. per la modifica delle condizioni inerenti a
coppie non coniugate, ma il Tribunale ha sconsigliato
tale soluzione spiegando che tale procedura
può essere adottata solo in caso di provvedimento
che derivi da un regime di separazione dei coniugi,
cioè non da provvedimento del Tribunale per i minorenni.
Quindi, in sintesi, se deve essere modificato
solo l’aspetto economico di una pregressa più
complessiva regolamentazione, la soluzione è solo
quella di riconoscere la competenza residua del Tribunale
ordinario attraverso l’instaurazione di un
giudizio ordinario, da introdursi con atto di citazione,
diretto a rivedere l’ammontare dell’assegno.
Oppure, una soluzione che io vedrei più aderente
al sistema e in sintonia con l’interesse delle parti,
sarebbe quella di provocare “la questione”, dichiarando
il Tribunale ordinario la propria incompetenza
funzionale in sede di modifica camerale ed individuando
quella del Tribunale per i Minorenni perché,
se il provvedimento è stato emesso da un organo
giudiziario diverso, mi sembra logico che anche la
sola parziale modifica debba essere trattata e decisa
dalla medesima autorità giudiziaria; inoltre, non si
potrebbe certo escludere una riconvenzionale in
tema di affidamento, il che renderebbe ancora una
volta sussistente la competenza funzionale del giudice
minorile.
Mi risulta che in questi termini si sia abbastanza
di recente espresso il Tribunale per i Minorenni di
Brescia, riconoscendo la propria competenza funzionale
a delibare una domanda di modifica delle
condizioni economiche contenute in un precedente
decreto emesso da quello stesso Ufficio.
L’altro problema è rappresentato dall’art.156, sesto
comma. c.c.
Questa è una questione forse nuova, della quale
vi metto a parte: questa disposizione normativa è
applicabile al regime di separazione, è applicabile a
tutela dei figli naturali e dei loro diritti economici, è
dunque applicabile anche dal tribunale per i minorenni
perché oggi è il medesimo competente a decidere
anche sull’assegno di mantenimento, ove la
domanda sia proposta contestualmente a quella di
affidamento. Quando però il tribunale per i minorenni
non abbia provveduto ai sensi dell’art. 156,
perché l’inadempimento non poteva esserci in
quanto non c’era ancora il provvedimento rispetto
al quale potevano realizzarsi adempimento o inadempimento,
la diffusa tentazione è quella di presentare
il relativo ricorso in via autonoma, riconoscendo
quindi la competenza del tribunale ordinario
in camera di consiglio: io nutro qualche dubbio
sulla ragionevolezza di una simile soluzione, in
quanto se è vero che si tratta di un provvedimento
che incide (solo) su diritti economici, è però altrettanto
vero che lo stesso è teso a dare attuazione ad
un provvedimento di merito reso da un’altra autorità
giudiziaria.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 13

ZOOM
Perché, allora, vedere ancora il coinvolgimento del
tribunale ordinario, estraneo per competenza all’emanazione
della statuizione di condanna posta a
base dell’inadempimento?
Mi sembra, in linea di principio, alquanto assurdo
darvi attuazione attraverso l’instaurazione di un
nuovo giudizio innanzi a un tribunale che non è
quello che ha reso il provvedimento di merito che si
vuole vedere rispettato.
È favorevole a un accordo tra le parti che preveda un
regime sanzionatorio nell’ipotesi di violazione del diritto
di visita?
A tal proposito faccio riferimento ad un provvedimento
dei primi mesi del 2009, in cui il Tribunale ha
ratificato, in sede di modifica, un accordo dei coniugi
che prevedeva una monetizzazione della violazione
dell’obbligo del diritto/dovere di tenere con
sé i figli, una sorta di liquidazione preventiva del
danno che si sarebbe verificato a seguito dell’inadempimento.
Non era un provvedimento emesso dal Tribunale
per sua iniziativa, ma si trattava di un articolato accordo
raggiunto molto faticosamente dalle parti con
i loro legali poiché quei coniugi avevano in essere
un contenzioso diffuso su molteplici tribunali, con
contenuti sia civilistici che penalistici. Hanno scelto
questa strada effettivamente innovativa e, in realtà,
l’unico intervento dei giudici è stato quello di non
ravvisare nell’accordo profili di contrarietà a norme
imperative o a disposizioni di ordine pubblico, per
l’effetto riconoscendo efficacia a questo accordo negoziale
che, peraltro, trova un riferimento normativo
nell’art. 709 ter c.c.; l’unica differenza è che la
disposizione di legge presuppone l’intervento del
giudice ed un riscontro della già avvenuta violazione,
mentre qui le stesse parti, nell’esercizio della
loro autonomia negoziale, hanno anche concordato
il tipo di violazione in base alla loro esperienza, cioè
qualcosa che si era verificato più volte nella loro vita
di genitori, e hanno dato un predeterminato contenuto
patrimoniale alla sanzione corrispondente.
Qualche perplessità residua, tuttavia, con riguardo
all’eventualità di una futura contestazione sull’effettivo
verificarsi della violazione ma, in linea generale
e di principio, non mi pare che vi siano ragioni
ostative a questa predeterminazione del regime
sanzionatorio, espressione di una autonomia negoziale
che anche nell’ambito del diritto di famiglia è
venuta a sempre più affermarsi.
Il Tribunale ha, invece, liquidato il danno in almeno
un paio di occasioni.
Il primo riguardava un padre che non teneva con
sé il figlio secondo gli accordi, e la gravità era provata
dalla certificazione medica e dalla relazione dei
Servizi che attestavano la grave sofferenza del minore
di fronte a queste false promesse del padre, il
quale infatti ometteva in modo non giustificato di
14 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
andare a prendere il figlio che, ansioso e pieno di
speranza, ogni volta lo aspettava; vi era la prova
della sofferenza perché dovevano intervenire i Servizi
per lenirne gli effetti, e quindi sussisteva la
prova del danno prodotto dall’indebito comportamento
paterno.
Nell’altro caso si trattava di un figlio, maggiorenne
ma portatore di grave handicap e, quindi, in una situazione
rientrante nelle disposizioni normative
proprie della tutela dei figli minori. Anche qui il padre
non lo teneva con sé nei periodi previsti e questo
comportava per la madre, principale collocataria,
esborsi superiori al previsto, in quanto lavorando
non riusciva a coprire agevolmente anche
tutto il periodo che sarebbe stato di spettanza del
padre e il ragazzo non poteva assolutamente stare
da solo, attesa la sua totale mancanza di autonomia.
In questo caso abbiamo utilizzato un criterio di liquidazione
partendo dall’assegno mensile dovuto
dal padre, calcolando il contributo materno e, per
dirla in breve, tentando di operare una quantificazione
sostanzialmente aritmetica e, quindi, non
troppo opinabile perché condotta sulla base dei
maggiori oneri ricadenti sulla collocataria; in questa
fattispecie è stato relativamente agevole giungere
alla liquidazione del danno patrimoniale da riconoscersi
alla madre, mentre un danno morale per
il figlio sarebbe stato difficilmente quantificabile
perché la sua capacità obiettiva di relazionarsi con
l’esterno era oltremodo ridotta.
Cosa pensa del progetto che attribuisce ai notai la
competenza nelle separazioni consensuali senza figli?
Se dovesse essere introdotta una soluzione di questo
tipo, il primo pensiero che mi viene in mente è
che il carico di lavoro dei tribunali verrebbe ad alleggerirsi,
senza alcun reale pregiudizio per i diritti delle
parti; preciso che, da quanto mi sembra di aver compreso,
non ci sarebbe neppure una successiva omologa
da parte del tribunale e tutto si risolverebbe attraverso
una certificazione notarile, così che mi pare
consequenziale ritenere che ogni valutazione di non
contrarietà degli accordi sottoscritti all’ordine pubblico
sarebbe demandata allo stesso notaio.
Sono scelte legislative rispetto alle quali credo di
non avere titolo per pronunciarmi, pur sapendo che
a una soluzione di questo tipo gli avvocati sono contrari
rivendicando la loro maggiore specializzazione
e, così, contrapponendosi fortemente all’altra categoria
professionale.
Ovviamente, da parte mia registro solo il dato positivo
rappresentato da una realistica deflazione dei
carichi di lavoro, con la proporzionale possibilità per
i tribunali di dedicare maggiore attenzione e maggiori
energie alle vicende conflittuali e a quelle che
vedono a rischio la posizione dei figli minori.
Milano, 9 luglio 2010

La sezione di Trani
dell’Osservatorio nazionale
sul diritto di famiglia:
una sezione giovane
(avv. MARIA TERESA CORATELLA
e avv. PALMA LOCONTE)
La sezione di Trani dell’Osservatorio Nazionale sul
Diritto di Famiglia è una sezione di recente costituzione.
Nasce infatti nel dicembre 2007 per iniziativa di
un gruppo di giovani avvocati interessati al diritto
di famiglia e alla sua notevole evoluzione negli ultimi
anni; di tanto è prova il fatto che il CNF, nel regolamento
per il riconoscimento del titolo di avvocato
specialista recentemente approvato, ne fa un
settore di specializzazione nella prospettiva della riforma
della professione forense.
Il primo evento formativo è stato organizzato
dalla sezione di Trani nell’aprile del 2009.
L’attenzione è stata rivolta agli aspetti psicologici
che subentrano in una separazione coniugale e, in
particolare, all’esame della sindrome da alienazione
ZOOM
parentale, patologia che colpisce molti minori vittime
di separazioni conflittuali.
La PAS (Parental Alienation Syndrome) è stata oggetto
di recente studio e definizione nell’ambito
della letteratura psicologica italiana.
Il primo ad occuparsene e a introdurla è stato lo
psichiatra statunitense Richard A. Gardner nel 1985;
mentre nei nostri Tribunali ve n’è traccia, per la
prima volta, in una ordinanza del Tribunale per i Minorenni
di Milano (cfr. ordinanza del 19/6/1998).
La PAS, secondo Gardner, è prodotta da una “programmazione”
dei figli da parte di un genitore patologico
(c.d. genitore alienante), una specie di lavaggio
del cervello che induce i figli a perdere il contatto
con la realtà degli affetti, e a manifestare astio
e disprezzo ingiustificato e continuo verso l’altro genitore
(c.d. genitore alienato).
Nel corso dell’evento formativo sono stati altresì
esaminati gli aspetti deontologici relativi all’incarico
professionale assunto dall’avvocato nelle separazioni
ad alto tasso di conflittualità.
In questi casi, dinanzi all’assistito che pone in essere
comportamenti patologicamente rilevanti con
il figlio, che determinino la PAS verso l’altro genitore,
e che non desista da simili condotte, è auspicabile
che il difensore rinunci al mandato.
Si è così giunti alla conclusione che anche gli avvocati,
preferibilmente con il supporto di esperti,
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 15

ZOOM
prestino attenzione ai profili psicologici che interessano
una separazione tra coniugi e che, con violenza
e negativamente, si riverberano sui figli.
Nel secondo evento formativo, tenutosi a novembre
2010, è stato fatto un excursus sul processo civile
nel diritto di famiglia: dai procedimenti camerali tipici
della materia, ai procedimenti de potestate, al diritto
del minore alla famiglia (soffermandosi sulla
Legge n. 184/1983), agli ordini di protezione contro
gli abusi familiari, sino a giungere ai procedimenti di
separazione personale dei coniugi, nel corso dei
quali possono inserirsi interinalmente anche i cautelari.
All’esito degli interventi e del dibattito è stata confermata
la consapevolezza, stante la varietà dei procedimenti
e degli oggetti, di indirizzare le riforme
della professione forense nel senso di una compiuta
ed effettiva specializzazione.
Attualmente la sezione dell’Osservatorio di Trani,
con il prezioso sostegno della sezione di Bari, sta
promuovendo la redazione di un protocollo sul processo
di famiglia, che riguardi tutti gli aspetti processuali
della materia, al fine di rendere più snello,
certo ed equo il processo, con particolare attenzione
alla regolamentazione della c.d. audizione del minore.
A tal fine, la sezione intende promuovere un incontro
con i magistrati del Tribunale di Trani, anche
sulla scorta delle esperienze già collaudate da altri
fori d’Italia.
L’auspicio della sezione di Trani dell’Osservatorio
è quello di consolidarsi sul territorio, attraverso una
maggiore partecipazione dei colleghi ed una più fattiva
collaborazione con il Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Trani e le associazioni forensi presenti
nel circondario, al fine di promuovere, anche a scopo
formativo, l’approfondimento delle tematiche attinenti
al diritto di famiglia, dei minori e delle persone.
Il diritto di famiglia
nel tribunale di Trani.
Intervista al Presidente,
dott. Filippo Bortone
(a cura degli avv. NELLA VITTI
e MARCELLA BASILE)
La ringraziamo Sig.Presidente per la disponibilità
e l’attenzione da Lei costantemente rivolta ad una
materia delicata quale il diritto di famiglia e Le chiediamo
di volerci illustrare lo stato di giustizia del Tribunale
di Trani in materia di famiglia.
16 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Quali modifiche sono intervenute nella realtà del Tribunale
di Trani a seguito della applicazione della legge
54/2006? Si continua ad applicare l’affido condiviso?
In quali casi viene escluso?
Sono aumentati i ricorsi per separazioni congiunte
e vi è anche un certo equilibrio nella determinazione
dell’affidamento condiviso; in pratica
sono superati gran parte dei conflitti nel diritto di
visita e quindi la possibilità di dare ai minori una
vita serena.
Si continua ad applicare l’affido condiviso senz’altro.
Insisto molto perché si applichi sempre l’affido
condiviso. L’affido esclusivo viene disposto in
casi rari quando uno dei genitori lavora fuori Italia,
o in caso di un marittimo che sta per lunghi periodi
fuori, raramente per indegnità. Cerco di conservare
l’affido condiviso anche in caso di detenzione del
padre, ma con strumenti e meccanismi che tutelino
i minori da traumi, difficoltà e disagi. Sin’ora non ho
avuto riscontro negativo da questo tipo di intervento
e di applicazione.
Quali sono i tempi di attesa innanzi il Tribunale di
Trani per la comparizione alla prima udienza presidenziale?
Di preciso non sono in grado di fornirlo, ma circa
un paio di mesi, salvo nel periodo feriale. Ho disposto
udienze fino al 23 luglio 2010 per ridurre i tempi
di attesa delle coppie.
Sul tema dell’ascolto del minore, qual è la prassi del Tribunale
di Trani? In quali casi ritiene che sia necessario?
Più che la prassi del Tribunale, il mio orientamento
è quello di evitare al massimo di sentire i minori
sia per l’alta conflittualità tra i coniugi all’udienza
Presidenziale, sia, di conseguenza, per la
poca attendibilità del minore e sia per evitare che il
minore si senta arbitro di gestire il conflitto fra i genitori
secondo la sua convenienza, indipendentemente
dalla legittimità della sua richiesta. A volte
ho fatto l’ascolto del minore, spesso avendo conferma
di questa mia posizione. L’ho ritenuto utile in
caso di situazioni particolarmente difficili, povere,
degenerate socialmente, in cui vive la mamma, per
cercare di capire di più cosa accade, coinvolgendo
anche i Servizi Sociali per impegnarli nella cura e
nell’osservazione di tali fenomeni.
Ritiene opportuno disporre, in fase presidenziale, accertamenti
da parte dei Servizi sociali o servizi di CTU,
al fine di emettere i provvedimenti più opportuni nell’interesse
della prole?
Si, a volte l’ho fatto, raramente, perché cerco di
evitare che nella dinamica familiare o che comunque
riguarda il minore, si inseriscano altre fonti di
giudizio, perché l’inchiesta sociale comporta la nomina
di CTU, con valutazioni soggettive, quali quelle
dei CTU, che si sovrappongono al libero convinci-

mento del Presidente che ha un rapporto diretto e si
può fare un’idea direttamente.
Cosa pensa della facoltà di visita dei nonni?
Sono favorevole (sono un Nonno!). Spesso nelle separazioni
si traumatizzano i figli ed i nonni, per questo
cerco di inserire nei provvedimenti disposizioni
per mantenere rapporti con la famiglia d’origine, non
solo con i nonni ma anche con zii, cugini, ecc, che
spesso rappresentano la continuità e la stabilità psicologica
del minore. Belle cose, ma poco concrete.
A quali criteri si attiene nella liquidazione degli assegni?
Ritiene possibile l’utilizzo di criteri di calcolo automatico
per l’assegno, che conferirebbe preventiva certezza
in capo alle parti?
Sono contrario a stabilire criteri preventivamente
ed astrattamente. Spesso mi trovo in difficoltà perché
le separazioni producono disoccupazione più
della crisi. Improvvisamente accade che con le separazioni
tutti diventano disoccupati, stanno dai genitori
e non si possono mantenere, perciò non si può
predeterminare l’assegno. C’è una valutazione generale
che è stata fatta tra tutti i Giudici della sezione
civile: un minimo di €.170,00 per il mantenimento
della moglie e dei figli; per i figli non si può
moltiplicare per il numero degli stessi, ma si fa una
valutazione globale e poi occorre verificare caso per
caso, perché spesso da queste situazioni nascono
decreti ingiuntivi, sequestri e quant’altro.
Qual è la Sua opinione circa l’assegno in favore dei
figli maggiorenni, anche per quelli che, pur non conviventi
con alcuno dei genitori, non siano autonomi economicamente?
E chi ne è legittimato al riconoscimento?
I figli maggiorenni hanno titolo autonomo per proporre
la richiesta di mantenimento nei confronti dei
genitori; tuttavia spesso rientrano nella richiesta di
mantenimento perché sono figli ancora studenti, anche
se maggiorenni, conviventi con la mamma, economicamente
non autosufficienti; in qualche caso,
motivando, o con disponibilità dei padri, ho disposto
la corresponsione di un mantenimento diretto in favore
dei figli maggiorenni, anche se non conviventi
perché studenti in altra città o perché lavorano fuori
con una retribuzione minima; oppure non dispongo
sulla corresponsione di quest’assegno, ad esempio
quando il figlio maggiorenne sta fuori sede per studio
e il padre mi dice che lo corrisponde direttamente e
la mamma conferma tale circostanza.
In ogni caso in genere dispongo l’assegno di mantenimento
anche se il figlio vive fuori per l’Università
e poi ritorna a casa durante le feste, perché il
punto di riferimento è sempre la casa coniugale. In
alcuni casi quando c’è poca adesione, non provvedo
e non dispongo e dico che lo facciano i figli direttamente,
in quanto legittimati direttamente, anche
chiedendo alla mamma, perché non si può sovraccaricare
il padre, anche se il figlio è maggiorenne.
È favorevole all’istituzione del Tribunale per la famiglia?
Le novità mi preoccupano sempre; dipende da
come lo dispongono, sarebbe comunque una sezione
specializzata del Tribunale.
Secondo Lei quali requisiti dovrebbe possedere l’avvocato
di famiglia dal punto di vista deontologico e formativo?
Una conferma della condotta degli Avvocati del
Foro di Trani fanno mediazione di fatto, ne hanno la
maturità, a prescindere dal titolo specifico, tentano
un riavvicinamento dei coniugi. Spesso la loro presa
di posizione può sembrare dura, ma sovente è dura
perché tale è la posizione del loro assistito. Non ho
sospetti che sia l’Avvocato ad indurre il cliente.
Qual è la Sua opinione sulla applicabilità dell’art.709
ter cpc agli illeciti endofamiliari? Qual è la sua applicazione
nell’ambito del Tribunale di Trani?
Dov’ero al Tribunale di Chieti sono stato molto rigoroso.
Qui non ho occasione di fare istruttoria, ma
solo udienze presidenziali. A Chieti, ove ero Giudice
Istruttore, ho applicato delle sanzioni, anche progressivamente,
perché sono condotte contro l’interesse
del minore ed è un atteggiamento abusivo di uno dei
due genitori verso il minore (per esempio la mamma
che ha portato il minore dal neuropsichiatria per attestare
un disagio). Non so nel Tribunale di Trani, in
fase istruttoria, quale sia la sua applicazione, perché
non seguo lo sviluppo dell’iter procedimentale.
Trani, 31 maggio 2010
ZOOM
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 17

ZOOM
Il tribunale di Varese.
Efficienza, buon rapporto
giudici-avvocati, protocolli
di lavoro.
Intervista al Presidente
del Tribunale di Varese
dott. Emilio Curtò
(a cura dell’avv. RITA BOTTOLI)
Vincendo la solita ritrosia lombarda e quasi svizzera
della nostra zona ad esibirci volevo che si potesse dare
l’immagine della realtà di Varese ed in special modo del
Tribunale di Varese che un po’ si distingue da un’omologazione
nazionale. Personalmente quando ho contatti
con Tribunali di altri mandamenti, ho l’impressione che
il nostro sia da considerare un’oasi in quanto a volte i
piccoli Tribunali sembrano un po’ praticare una giustizia
locale. Al contrario il Tribunale di Varese dà una
buona immagine di efficienza, di sensibilità nell’attuazione
rapida e puntuale della giurisprudenza più aggiornata.
Si ha così allora l’impressione di essere in un
piccolo Tribunale ma non in un Tribunale provinciale. È
indubbio che il Suo intervento insieme ai Presidenti che
L’hanno preceduta, sia stato fondamentale ci dica il Suo
punto di vista.
Penso di potere confermare grosso modo quello
che Lei mi sta dicendo. Non conosco da vicino altri
Tribunali ma ho frequentato diversi corsi al C.S.M.,
veri e propri laboratori di autoformazione, che mi
hanno consentito di confrontarmi con altre realtà.
Erano incontri a cui partecipavano Presidenti, Giudici
e anche Avvocati con competenze specifiche in
separazioni e divorzi. Si è trattato di corsi multisessionali,
io ero coordinatore di un gruppo a cui era
stato affidato l’approfondimento di questioni in materia
processuale. Ho potuto conoscere perciò le dinamiche
seguite nei vari Tribunali che erano rappresentati
in quei corsi e Le posso confermare che
noi abbiamo una situazione probabilmente favorevole,
non voglio dire idilliaca, ma certamente una
situazione di relativa tranquillità, di non accesa conflittualità
tra i coniugi. Ma questo dipende anche da
Voi avvocati, il clima che c’é a Varese, di dialogo, di
confronto, di non esasperata conflittualità dipende
anche dagli avvocati che consentono di vivere il processo
in un clima di rispetto, che favorisce l’esame
e la soluzione delle varie questioni anche grazie alla
conoscenza diffusa, in giudici e avvocati, della evoluzione
della giurisprudenza e degli approfondimenti
dottrinari in materia di diritto della famiglia.
Il buon clima è certamente merito di voi avvocati
18 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
che non portate in aula un alto livello emotivo, magari
sposando troppo la tesi del cliente.
Certamente aiuta il non dover attendere tempi biblici
per vederci fissate le udienze presidenziali. Lei ci può
dare un’indicazione di massima su quale sia la prassi
in merito?
L’abbreviazione dei tempi di attesa nella fissazione
delle udienze presidenziali fa parte del progetto
organizzativo del nostro Tribunale; l’obiettivo
che ci siamo posti è quello di contenere sempre la
prima udienza entro il termine di novanta giorni fissato
dalla legge. Attualmente siamo abbondantemente
al di sotto, soprattutto in quei casi in cui si
innescano, in particolare nel ricorso di separazione,
istanze di misure di protezione; in questi casi seguiamo
la giurisprudenza dell’attrazione del ricorso
di misura di protezione al giudizio di separazione,
anche per evitare, per motivi organizzativi, di fissare
una doppia udienza, magari davanti a giudici diversi,
tanto più che la misura di protezione è destinata
a valere limitatamente nel tempo fino a
quando non vengono emessi i provvedimenti previsti
dall’art. 708 CPC o dall’art. 4 della legge sul divorzio,
per cui conviene anticipare l’udienza di audizione
dei coniugi magari fissandola contestualmente
a quella di convalida dell’ordine di protezione
emesso ‘inaudita altera parte’. Il termine minimo
da osservare è quello del rispetto del contraddittorio,
la legge non prevede un termine particolare,
per prassi del nostro Tribunale il resistente
deve depositare cinque giorni prima dell’udienza la
memoria difensiva, che non essendo una comparsa
di costituzione non è legata come in passato a un
termine a comparire. Tutto questo consente la fissazione
in tempi rapidissimi, il tempo per la notifica
del ricorso e quello necessario all’altro coniuge
per rivolgersi all’avvocato e preparare la sua difesa.
La sua passione e la Sua competenza in campo informatico
quanto ha influito nella razionalizzazione del
funzionamento delle attività del Tribunale? Ad esempio
a volte capita che sia complicato avere notizie informate
dai polisweb di altri Tribunali, invece il Tribunale di Varese
sembra funzionare come un orologio svizzero con
tempestività ed efficienza. Ci illustri quali sono stati gli
interventi in tal senso?
Noi abbiamo puntato molto sull’informatica per
cercare di sopperire alla mancanza di risorse, soprattutto
di personale, e tentare di mantenere un livello
accettabile di efficienza. Ovviamente in questo
progetto organizzativo che fa leva sull’informatica,
sin da subito, quando ho assunto le funzioni di
Presidente del Tribunale di Varese, ho coinvolto l’Avvocatura;
insieme abbiamo pensato a un progetto di
massima per l’informatizzazione dell’Ufficio a cominciare
dall’utilizzo di polisweb che vede l’avvocato
come protagonista principale. Senza la fattiva

partecipazione dell’avvocato polisweb non avrebbe
senso e non potremmo sfruttare pienamente questa
grossa opportunità. Naturalmente a monte è necessario
che la Cancelleria faccia la sua parte; noi
però abbiamo un’ottima Cancelleria Civile e l’anagrafica
degli avvocati risulta correttamente inserita,
anche lo scarico delle udienze è fatto con precisione
e puntualità e le iscrizioni sono aggiornate pressoché
in tempo reale.
Su altro versante poi abbiamo sviluppato un applicativo
locale per gestire i divorzi congiunti che
crea in automatico tutta la modulistica di supporto,
a cominciare dalla comunicazione all’Ufficiale di
Stato Civile del deposito del ricorso, per continuare
con la formazione del decreto di fissazione dell’udienza
e del verbale di udienza fino alla stessa
sentenza.
Quindi è stata realizzata una vera e propria automazione
della procedura del divorzio consensuale.
Il divorzio “consensuale” è tutto automatizzato al
punto che è gestito da una sola persona. So che altri
Tribunali si sono organizzati con stampati coinvolgendo
gli avvocati nella stesura della sentenza, che è
praticamente un modulo riempito alla fine dell’udienza.
Noi offriamo la stessa celerità, se non di più,
e comunque con un prodotto meglio presentabile.
Il risultato? Grazie all’automazione possono essere
trattati in una sola udienza un numero elevato
ZOOM
di ricorsi, invece di diluirli in più udienze con dispersione
di energie sia della Cancelleria sia dei Magistrati
del Collegio sia degli stessi Avvocati.
Attualmente con una sola udienza al mese riusciamo
a definire trenta e anche quaranta procedimenti,
realizzando l’obbiettivo di contenere i tempi
per tutti gli affari che riguardano la materia della famiglia.
Le separazioni consensuali le fissiamo al massimo
entro sessanta giorni, anche se dopo scontiamo a
volte i tempi del passaggio delle carte in Procura; lo
stesso vale per i divorzi congiunti. Se ci accorgiamo
che il numero delle cause in entrata aumenta fissiamo
udienze straordinarie. L’abbiamo fatto pure
in periodo di sospensione feriale anche perché la separazione
consensuale non crea problemi di tipo
processuale.
Fino ad oggi siamo riusciti a mantenerci nei tempi
programmati nonostante siano aumentati i ricorsi
di separazione e divorzio.
Mi sembra di capire che tutti questi risultati siano
frutto di un lavoro molto attento di organizzazione e
programmazione, ma anche gli indirizzi giurisprudenziali,
le linee direttive di prassi e di merito vengono in
qualche modo organizzate previste e concordate tra il
Presidente e la Sezione Famiglia?
In base alla vigente normativa anche regolamentare,
mi riferisco in particolare alle circolari del
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 19

ZOOM
C.S.M. sulle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari,
il Presidente del Tribunale o il Presidente di
Sezione - secondo le dimensioni dell’Ufficio - è tenuto
a indire ogni bimestre una riunione per lo
scambio di informazioni sulla giurisprudenza e in
particolare sugli orientamenti seguiti dal singolo Tribunale.
E questo noi lo facciamo normalmente. Non
solo quindi facciamo delle riunioni in cui discutiamo
di aspetti organizzativi ma le facciamo anche
per discutere di questioni giurisprudenziali. L’esempio
più vicino nel tempo è la recente decisione che
il Tribunale di Varese ha adottato dopo la nota sentenza
delle Sezioni Unite a proposito della procedibilità
dell’opposizione a decreto ingiuntivo in relazione
alla dimidiazione dei termini di costituzione
dell’opponente per il caso di costituzione oltre i cinque
giorni ed entro i dieci dalla notificazione dell’opposizione.
Anche questa decisione, sebbene emessa da un
giudice singolo, è stata il frutto di un confronto tra
tutti i giudici civili del Tribunale. Naturalmente ogni
Giudice è libero di decidere le cause in piena autonomia,
però a monte c’é sempre un confronto collegiale
che ha come finalità di omogeneizzare tendenzialmente
le decisioni per dare una immagine
di affidabilità del Tribunale, perché se venissero
emesse sentenze diverse a seconda del Giudice si
darebbe l’idea della casualità della decisione e
quindi di inefficienza dell’Ufficio. Naturalmente il
percorso del confronto viene seguito anche nella
materia di diritto di famiglia.
Per tornare ai tempi di definizione degli affari, è
proprio discutendo nelle riunioni di cui ho detto che,
essendo la materia del diritto della famiglia una di
quelle sensibili, ci siamo indotti a fissare nel progetto
organizzativo dei tempi precisi e celeri anche
per la fase post presidenziale, ponendoci l’obiettivo
di arrivare a sentenza in un tempo complessivo non
superiore a due anni, che corrisponde a quello della
ragionevole durata del processo secondo la giurisprudenza
di Strasburgo e anche secondo la legislazione
italiana (la cd. legge Pinto). Ovviamente questo
ha comportato l’adozione di criteri di priorità
nella trattazione delle cause non potendo definire
tutto negli stessi tempi perché le sopravvenienze
purtroppo superano la capacità di smaltimento dell’Ufficio,
e tra i primi posti delle cause prioritarie ci
sono separazioni e divorzi.
Ma per tornare alla sua domanda, noi ci siamo
confrontati e ci confrontiamo su tutte le questioni
ricorrenti di maggiore rilievo, come la quantificazione
dell’assegno di mantenimento, l’assegnazione
della casa coniugale, l’affidamento dei figli, insomma
su tutti gli aspetti problematici che emergono
già in fase presidenziale e che poi vengono riversati
alla fase contenziosa e quindi devono essere
oggetto di delibazione da parte del Giudice Istruttore
e poi del Collegio.
20 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Recentemente, nell’ambito degli incontri di aggiornamento
a Varese si è svolto un interessante confronto sull’audizione
del minore. Questo spinoso problema come
è stato visto dal Tribunale di Varese e come è stata accolta
la nota sentenza della Cassazione? Un comitato
scientifico formato da Giudici di questo Tribunale ha
elaborato un protocollo che è stato comunicato agli avvocati:
è da li che si desume tutto l’atteggiamento del
Tribunale?
Partirei dalla considerazione che quel protocollo
su cui si è svolto l’incontro a cui Lei fa riferimento
era solo una proposta anche se in parte già operativa.
In effetti voleva essere una base di discussione
poiché l’intenzione del Tribunale che ha sollecitato
quel confronto allargato non era di divulgare posizioni
e visioni già assunte ma di aprire un dialogo
per cercare insieme delle linee guida condivise, tant’é
che da subito avevamo recepito alcune delle considerazioni
che ci erano pervenute sia dall’Osservatorio
del Diritto di Famiglia che Lei rappresenta e
dall’AIAF allorché avevamo rimesso all’Ordine degli
Avvocati la prima versione del protocollo.
Devo dire che già in partenza ci eravamo orientati
nel senso di deformalizzare quanto più possibile
l’ascolto del minore.
Ma per rispondere alla sua domanda, il Tribunale
si è subito adeguato alla sentenza della Cassazione
perché si tratta di una decisione assolutamente condivisibile
anche alla luce dei principi del diritto comunitario.
Mi ricordo che negli incontri di studio romani
a cui ho fatto cenno prima, i gruppi erano formati
con la partecipazione anche di Giudici minorili,
che sono, come dire, i più attrezzati e agguerriti sul
piano culturale sulla questione ascolto minore. Ora,
come Lei sicuramente ricorderà, sin dalla Convenzione
di New York e poi con la Convenzione di Strasburgo,
entrambe ratificate in Italia, l’ascolto del minore
è stato classificato come un vero e proprio diritto,
e ricordo anche che la Legge italiana sull’adozione
in qualche modo si era già adeguata a tale
principio internazionale.
Con la nota, recente sentenza della Cassazione le
problematiche sull’ascolto del minore vengono però
messe meglio a fuoco.
L’ascolto del minore è funzionale all’adozione di
provvedimenti anche provvisori, perché siano i più
mirati possibile, dimensionati al meglio sulle sue
esigenze e sulla tutela del suo interesse. È necessario
perciò ascoltare il minore ma, come ho detto al
nostro Convegno, a me è capitato di rado di ascoltare
direttamente il minore perché la tendenza condivisa
anche dal Foro varesino è di farlo indirettamente,
acquisendo la relazione dei sevizi sociali oppure
disponendo accertamenti specialistici con una
consulenza tecnica, e di differire se del caso l’audizione
diretta del minore, assistita o protetta, davanti
al giudice istruttore. Dobbiamo anche ricordare che
le questioni in materia di diritto di famiglia non si li-

mitano ai procedimenti di separazione o di divorzio,
ci sono anche i procedimenti camerali di revisione
delle condizioni della separazione o del divorzio nei
quali qualche volta è emersa la necessità dell’ascolto
del minore; per non dire poi del campo penale
dove questa eventualità capita sicuramente nei
processi per reati a sfondo sessuale.
A questo proposito bisogna aggiungere che, così
come è emerso dal Convegno del 1° ottobre, per
l’ascolto sono necessarie strutture adeguate: non
solo un luogo neutro dedicato specificamente all’audizione
ma anche strumenti appositi, come ad
esempio la parete a specchio e strumenti per la video
registrazione.
Anche in questo campo penso di potere dire che
siamo all’avanguardia e che tutto sommato siamo
molto fortunati. Infatti il Tribunale raccogliendo le
sollecitazioni emerse nel Convegno ha già individuato
un locale da adibire all’audizione del minore
e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ha anticipato
che è disponibile ad accollarsi il costo di un apparecchio
di video registrazione.
Aggiungo che, nel frattempo, la Provincia di Varese,
attraverso un vostro Collega Assessore, si è offerta di
finanziare l’acquisto delle apparecchiature necessarie
per la video registrazione, per cui quanto prima
dovremmo potere disporre di quanto necessario per
tale importante incombente, vincendo così anche le
critiche di chi avanza riserve, forse anche a ragione,
sulla utilità di un ascolto non documentato o difficilmente
documentabile con la semplice verbalizzazione
che non può dare esattamente conto ad esempio
della mimica e dell’atteggiamento fisico del minore,
spesso più importanti delle stesse parole.
Potrebbe essere che si decida legislativamente per
un’attribuzione di competenza al Tribunale Ordinario
anche delle vertenze che riguardano le coppie non coniugate
e delle quali per ora continua ad essere competente
il Tribunale per i Minori a seguito della famosa ordinanza
della Cassazione. Come valuta il Tribunale di
Varese questa probabilità?
Sono assolutamente favorevole a un intervento legislativo
in tale direzione. La sostenibilità giuridica
di un’interpretazione a favore della concentrazione
verso il Tribunale Ordinario di tutte le questioni relativi
ai figli di coppie di fatto purtroppo alla luce
della legislazione attuale non è supportata da argomenti
validi, tant’é che quando il Tribunale per i Minori
di Milano declinò la competenza a trattare tali
questioni, con una decisione che poi fu travolta dall’intervento
della Cassazione, il Tribunale di Varese
ha continuato a seguire l’orientamento opposto. Anche
di recente la Cassazione (ord. N. 22001 del 5-27
ottobre 2010) ha ribadito che sulla distribuzione della
competenza tra Tribunale ordinario e Tribunale per i
Minorenni nessuna incidenza ha avuto la legge sull’affido
condiviso (legge n. 54/2006), per cui le que-
ZOOM
stioni di mantenimento di figli di coppie non sposate,
se sono collegate a problemi di affidamento, devono
essere trattate dal Tribunale per i minori.
Ma un principio di armonia e coerenza normativa
suggerisce ed anzi impone, per non disorientare
l’utenza, la concentrazione presso un unico Giudice
di tutte le questioni di famiglia, a prescindere se si
tratta di coppie regolari o di fatto; secondo me è
un’esigenza assolutamente da condividere e che andrebbe
concretizzata magari con la istituzione del
Tribunale della famiglia; insomma ormai non possiamo
più fare a meno di un giudice specializzato.
Quindi Lei sarebbe favorevole che il progetto del Tribunale
della Famiglia si concretizzi.
Assolutamente sì... assolutamente.
Potrebbe essere che i piccoli Tribunali abbiano qualche
difficoltà a realizzare tale progetto.
Certo un intervento che sia solo settoriale rischia
di creare più problemi di quanti ne intenda risolvere.
Però se il legislatore riuscisse a mettere mano
alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie, in quel
contesto si potrebbe certamente prevedere un Tribunale
della Famiglia che non debba scontare altrimenti
la inadeguatezza degli organici dei piccoli Tribunali.
In altre parole, sono convinto, e l’ho sempre
sostenuto, che i Tribunali dovrebbero essere solo
provinciali, con la sede principale nel capoluogo
della Provincia e con distaccamenti di una o più sezioni
sul restante territorio in modo da assicurare la
prossimità della giustizia al cittadino. Questa convinzione
naturalmente non dipende dal fatto che io
presieda un Tribunale che ha sede a Varese, in un
capoluogo di Provincia.
Lei pensi che molte competenze giudiziarie sono
legate al capoluogo della Provincia, pensi ad esempio
in materia penale al Tribunale del Riesame sulle
misure reali oppure al Tribunale delle misure di prevenzione
contro la criminalità, pensi alle controversie
in materia di registro delle imprese o ad altri affari
giudiziari, territrorialmente collegati a provvedimenti
della Camera di Commercio che ha sede
provinciale oppure alle cause previdenziali che riguardano
l’INPS che ha sede provinciale.
Sarebbe utile allora dare un maggiore ordine.
Certo, sarebbe più utile dare un maggiore ordine e
non solo perché consentirebbe di recuperare risorse,
così come è stato fatto con l’istituzione del Giudice
unico di primo grado, con la mobilità del personale
magistratuale e anche amministrativo (ovviamente
supportata da incentivi perché se da Varese devo andare
a Busto mi devono essere rimborsate quantomeno
le spese di viaggio) ma soprattutto perché
consentirebbe di realizzare quella specializzazione
del giudice a cui ho accennato prima parlando del
Tribunale della Famiglia.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 21

ZOOM
Visto che si parla di specializzazione Lei dalla Sua
esperienza e dall’altra parte della barricata vedrebbe
come una cosa positiva anche la specializzazione da
parte degli avvocati? Sa che si è molto discusso se un
avvocato possa o meno fregiarsi del titolo di specialista.
Lei cosa ne pensa?
Io sono favorevole a tutti quegli interventi che possono
migliorare il servizio giustizia e migliorare la risposta
all’utenza. Ci sono certi settori, e la famiglia è
uno di questi, in cui non basta essere dei giuristi, dei
cultori del diritto, bisogna avere qualche cosa in più,
come sensibilità e conoscenze extra giuridiche, psicologiche
tanto per dirne una. È un “mestiere”,
quello del “familiarista”, speciale sia se visto dalla
parte del Giudice sia dalla parte dell’Avvocato, un
“mestiere” che richiede un approccio particolare.
Certo poi ci dobbiamo scontrare con i numeri che
sono i nostri padroni perché condizionano gli assetti
organizzativi dell’Ufficio giudiziario e finiscono per
condizionare anche le scelte dell’Avvocatura, perché
tutti non possono fare tutto.
Quindi a livello di principio sono assolutamente
favorevole alla specializzazione anche dell’avvocato.
È chiaro che forse in piccole realtà come quella di
Varese difficilmente un avvocato può trarre un reddito
adeguato soltanto dalle cause di famiglia o trattando
solo cause di un certo tipo; immagino di no,
immagino che abbia bisogno anche di occuparsi di
altro.
Penso, però, che tendenzialmente ci debba essere
anche per l’Avvocatura dei piccoli Fori quantomeno
una semi specializzazione, come ad esempio fa già
il Tribunale di Varese per la sua organizzazione interna:
le cause di famiglia sono trattate soltanto
dalla prima sezione, le cause di lavoro o quelle fallimentari
le tratta solo la seconda sezione civile.
Quindi il futuro è almeno nella semi specializzazione,
che più che una utilità è una necessità, soprattutto
se si istituisse il Tribunale provinciale e
quindi il Tribunale della Famiglia a cui accennavo
prima; ma già oggi la semi specializzazione del giudice
è inevitabile e questo comporta a cascata automaticamente
l’obbligo, e più che l’obbligo l’interesse,
dell’avvocato a semi specializzarsi.
Quando Lei ha fatto riferimento ai numeri che sono
nostri padroni si riferiva anche all’eccesso del numero di
avvocati?
Mi riferivo veramente ai carichi lavorativi ma accetto
pure la provocazione. Certo il numero di avvocati
non agevola la professione, è diventato persino
difficile per così dire “riconoscersi” e conoscervi tra
voi stessi. lo sono a Varese da quarant’anni. Negli
anni settanta c’erano trecento avvocati e undici Giudici.
Oggi voi siete quasi mille e noi del Tribunale oltre
venti. Ma quella del numero non sarebbe la preoccupazione
primaria se si riuscisse a realizzare la
specializzazione dell’avvocato come ho detto prima.
22 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Guardi il problema degli esuberi nelle professioni
è un problema antico che non riguarda solo gli avvocati.
Abbiamo avuto per un periodo troppi medici che
magari erano costretti ad accettare compiti non dico
di paramedici... non voglio mancare di riguardo a
nessuno, ma quasi.
È accaduto con i professori, reclutati in massa
quando il ritmo della natalità lo ha consentito;
quella dei “mestieri” favoriti o non regolati nel numero
è stata ed é una questione accettata o favorita
perché assolve a una funzione di ammortizzatore
sociale; ma a parte questo, certamente in Italia
manca una progettualità complessiva che invece sarebbe
necessaria sin dall’accesso all’Università per
formare il numero necessario, e non di più, di professionisti
nei diversi campi.
Con i troppi laureati, invece, nei diversi settori, e
per restare al nostro, in giurisprudenza, il problema
si sposta in avanti, si sposta al momento dell’accesso
alla professione. E questo - è ormai diventato
indifferibile - deve essere regolato in modo moderno,
non improvvisato o approssimativo, in modo
più rispondente alle esigenze della collettività.
Ma questo riguarda il futuro. Il problema del numero
degli avvocati è invece un problema già oggi e
incombe in modo pesante sulla complessiva organizzazione
dell’avvocatura e forse andare nella direzione
della specializzazione non lo risolve molto,
anche se è necessario.
Probabilmente può essere anche vero quando si
dice che la selezione, la differenza la fa il campo,
però non sempre è così perché è un’utopia pensare
che il cliente scelga l’avvocato bravo in modo consapevole,
spesso si affida all’esperienza di altri ma
altrettanto spesso nella scelta prevalgono criteri
che non sono squisitamente professionali, spesso
è l’immagine, la comunicazione che fa la differenza.
Almeno potere esibire un titolo specialistico, conseguito
con merito, per l’avvocato ma soprattutto
per il cittadino sarebbe una garanzia, una garanzia
doverosa.
Per tornare ai numeri che a me interessano di più,
quelli del nostro lavoro, Le fornisco i dati rilevati dall’attività
del Tribunale di Varese nell’anno giudiziario
2009/2010 dai quali emerge subito come a fronte
di un incremento di iscrizioni vi sia stato un incremento
anche di affari definiti e così una sensibile riduzione
dell’arretrato.
Mi sembrano dati interessanti che confermano
come una buona programmazione e un gruppo di
lavoro affiatato e motivato possano condurre ad una
maggiore efficienza complessiva, consentendo di
dare una risposta tempestiva alle richieste di giustizia
che sempre di più arrivano dai cittadini.
Varese 18 ottobre 2010

PRIMO PIANO
Consiglio Nazionale
forense: quota due donne!
di CLAUDIA ROMANELLI
AVVOCATO DEL FORO DI BARI
Il Consiglio Nazionale Forense conta 26 consiglieri
ed era rimasto l’unico organismo di categoria ad essere
composto solo da uomini. Ha avuto nella propria
storia, dal 1926 ad oggi, solo due donne l’Avv.
Miranda Gentile nel 1984 e l’Avv. Carla Guidi dal
1994 al 2001, che attualmente ricopre il ruolo di coordinatrice
della Commissione pari opportunità istituita
presso il CNF.
E comunque, ad eccezione di queste due illustri e
capacissime donne, nel corso di venti consiliature,
nessuno dei 165 ordini territoriali era stato in grado
di individuare una avvocata idonea a ricoprire l’incarico
di consigliere nazionale forense.
Che strano… eppure gli ordini territoriali sono ormai
ben consapevoli della crescente femminilizzazione
della categoria sino al 30% - 40% sull’intero territorio
nazionale, così come rilevato prima dai comitati
pari opportunità che si sono via via costituiti dal
1998 in poi, presso gli ordini e in seguito dalla stessa
commissione pari opportunità che nel 2003, il C.N.F.,
tutto al maschile, si sentì in dovere di istituire.
Vero è che i colleghi consiglieri nazionali forensi
hanno sempre addebitato le responsabilità delle
scelta e delle cooptazioni dei consiglieri nazionali,
ai componenti degli ordini territoriali poiché sono
questi ultimi che individuano, quindi cooptano, per
poi nominare il loro rappresentante al CNF.
E si sa che dette nomine sono stabilite e prestabilite
in forza di patti, scambi e regole tutte interne, per i
quali le scelte ricadono comunque solo su avvocati
uomini, ignorando inevitabilmente una delle finalità
istituzionali del C.N.F., quella della rappresentanza
della categoria, che viene automaticamente
esclusa se si lasciano fuori le avvocatesse.
E infatti, nonostante ci sia una presenza femminile
che di media si aggira sul 40 %, il Consiglio Nazionale
Forense ha sempre rappresentato solo una
metà dell’intera categoria, laddove alle donne pur
presenti, è stato di fatto precluso l’ingresso.
Già nel 2007 l’Unione Giovani Avvocati Italiani denunciò
che all’esito di una indagine condotta tra
tutti gli organismi di categoria professionale europei,
ma anche fuori dalla UE, l’Italia era l’unico stato
che manteneva il primato per assenza di donne
nella propria compagine e dichiarava che una donna
avvocata fosse presente persino nel consiglio forense
della Turchia.
La commissione Pari opportunità del C.N.F., i cpo territoriali
e le mozioni sulla parità
Nel 2003 il Consiglio Nazionale forense, consapevole
della propria anomalia, ha quindi voluto-dovuto
porvi rimedio. Ha istituito la Commissione di studi
per le pari Opportunità, chiaramente composta
esclusivamente da donne seppure coordinata da un
componente del Consiglio che ovviamente è sempre
stato uomo.
Tra le sue componenti sino al 2008 c’era l’avvocatessa
Susanna Pisano del foro di Cagliari, classe
1953 avvocato del 1978, che si è sempre distinta per
il suo spirito combattivo sicuramente dovuto alla
sua formazione sindacale (ANF), per la sua coerenza,
associando la fermezza dei principi e delle
regole alle elevate doti diplomatiche e soprattutto
con una vasta competenza in materia di pari opportunità
che le deriva altresì dalla sua approfondita
conoscenza della normativa internazionale e
comunitaria.
Mi preme ricordare, che la collega Pisano, nel 2006
delegata al congresso forense, tenutosi a Milano, dinanzi
ad oltre 1500 delegati presentò la mozione redatta
dalla commissione p.o. in cui si chiedeva che
tutti gli organismi forensi, istituzionali ed associativi
si impegnassero a garantire la rappresentanza femminile
valorizzando le differenze di genere e che
nella riforma del nuovo ordinamento forense fossero
previsti dei meccanismi che consentissero il
riequilibrio della presenza di entrambi i sessi negli
organismi istituzionali.
È inutile dire che la mozione, non solo non fu approvata,
ma fu accolta da una platea, ahimè, prevalentemente,
ma non solo, maschile che si mostrò
sorda, inconsapevole e villana.
Ma poi il tempo e la tenacia hanno giocato in favore
dell’impegno sempre profuso dalla Commissione
Pari opportunità del C.N.F.e dai CPO territoriali,
sostenuti anche da una rete che ha lavorato per
sensibilizzare l’intera categoria, uomini e donne, rispetto
alla indispensabile presenza femminile nelle
istituzioni forensi.
Ed è così che, nel 2008 con una maggioranza risicata,
i delegati al congresso forense tenutosi a Bologna
approvarono la mozione con l’impegno politico
dettato in tema di pari opportunità e di rappresentanza
femminile che si cita testualmente: sia promossa
e favorita a tutti i livelli la rappresentanza femminile
negli organi istituzionali e associativi.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 23

PRIMO PIANO
In quel periodo anche il cpo di Bari aveva chiesto al
Consiglio territoriale ed al C.N.F. di regolamentare le
elezioni con liste che devono presentate almeno un
terzo di candidate donne a pena di inammissibilità.
Ma, purtroppo, alcuna modifica è stata ad oggi apportata,
così come la legge di riforma dell’ordinamento
forense, che da anni è in attesa di essere approvata,
non ha previsto interventi in tal senso.
Nonostante tutto alla fine sono arrivate due donne!
Dal 27 ottobre 2010, data dell’insediamento della
nuova compagine del C.N.F. tra i ventisei componenti
ci sono finalmente anche due donne: la collega
Carla Broccardo classe 1967, avvocato dal 1997
nel distretto di Bolzano e la collega Susanna Pisano.
L’ingresso di due donne al C.N.F. ci fa ben sperare
anche perché si accompagna ad una crescita numerica
anche delle donne Presidenti dei consigli degli
ordini che sono raddoppiate diventando 13 su 165.
24 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Questi ultimi dati inevitabilmente dovrebbero incidere,
non solo sulla mentalità di una avvocatura ancora
arretrata ed autoreferenziale ma sulla possibilità
di allargare la cerchia delle candidate che potranno
essere nominate dagli ordini territoriali per
andare a comporre il consiglio nazionale forense, almeno
fino a quando non vi saranno regolamenti o
norme, anche di natura transitorie, che garantiscano
la presenza paritaria dei sessi negli organismi forensi.
Il compito delle colleghe non sarà facile anche
perché il percorso utile a raggiungere la consapevolezza
sulle problematiche delle donne avvocato non
si è ancora completato. Vi è ancora tanto scetticismo
e soprattutto poca disponibilità degli uomini a cedere
il passo alle donne così come alle nuove leve…
ma questo è un male comune a tutti i livelli.
A fronte di una crescente femminilizzazione dell’avvocatura
riconducibile all’ingresso delle donne
nel mondo del lavoro, la domanda alla quale biso-
Una sentenza del TAR Calabria contro le discriminazioni
Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria
(Sezione Seconda)
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 322 del 2009, proposto da: E.C., rappresentato e difeso dall’avv. R.I.,
contro
Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpa) - Calabria, rappresentato e difeso dall’avv. M.M.
Regione Calabria, rappresentata e difesa dall’avv. G.F.,
e con l’intervento di
Consigliera Regionale di Parità, rappresentato e difeso dall’avv. C.S.,
Fatto e diritto
1. Con ricorso regolarmente notificato e depositato la ricorrente espone che, con bando del 13 ottobre
2006, l’Arpacal ha indetto un concorso pubblico, per titoli e esami, per la copertura a tempo indeterminato
di due posti di dirigente biologo.
La ricorrente ha partecipato al predetto concorso. Risultando idonea alla prova pratica con il punteggio
22/30, è stata convocata, con nota del 22 ottobre 2008, per sostenere la prova orale, il 13 novembre
2008.
Con lettera raccomandata del 29 ottobre, la ricorrente, essendo in stato di gravidanza, con parto programmato
per il giorno 19 novembre, ha chiesto, allegando certificato medico, il differimento della prova.
La commissione, con provvedimento del 7 novembre, ha comunicato che l’art. 34 del regolamento dell’ente
prevede che il concorrente che non si presenti alla prova orale nel giorno stabilito viene escluso; è possibile
il differimento per gravi e comprovati motivi soltanto quando la prova è programmata in più giorni.
Nondimeno, la stessa commissione ha comunicato che sarebbe stata disposta a fare sostenere la
prova in altra sede il giorno 13 novembre, successivamente all’espletamento delle procedure concorsuali
da parte degli altri candidati.
Con telegramma dell’11 novembre la ricorrente ha accettato la proposta. A tale comunicazione non è
seguita risposta, anche perché con successiva comunicazione del giorno 13, sempre la ricorrente ha
fatto presente la sua impossibilità a sostenere la prova di esame, nei termini stabiliti, avendo partorito
il giorno precedente.
Alla luce dei fatti sinteticamente indicati, si assume la illegittimità degli atti impugnati per violazione
degli artt. 2, 3, 37 e 51 della Costituzione, nonché per violazione dell’art. 27 del d.lgs. n. 198 del 2006. In
particolare, si assume che i provvedimenti posti in essere dall’amministrazione avrebbero violato il diritto
costituzionale delle donne ad avere un trattamento non discriminatario, nonché il diritto alla tutela
della maternità.

gnerà dare risposta ed individuare delle soluzioni e
dei rimedi sarà la seguente: come mai ad una crescita
vertiginosa del numero delle donne non corrisponde una
crescita professionale come affermazione nell’avvocatura
che lavora che guadagna come i colleghi uomini e che
siede negli organi istituzionali e associativi forensi?
Da anni la Commissione del C.N.F. ed i cpo territoriali
hanno individuato molte delle cause, attraverso
ricerche e monitoraggi sulle donne avvocato
e sui loro problemi: l’ultimo nel 2009, di grande impatto,
è stato il rapporto CENSIS.
È ora di dare una risposta e di individuare le possibili
soluzioni concrete.
Alcune sono anche state reperite ma, ad oggi, poche
sono state attuate.
Non sarà facile porle in atto rimuovendo gli ostacoli
che la stessa professione frappone alle donne
che hanno difficoltà di conciliazione tra responsabilità
familiari e lavorative, o spingere le colleghe
PRIMO PIANO
verso una formazione in materie dove le donne
hanno difficoltà a specializzarsi, per restare campo
privilegiato ed esclusivo degli uomini.
Tali problemi sono sicuramente noti alle nostre neoconsigliere
che si prodigheranno perché d’ora in poi vi
sia una visione anche femminile e quindi un impatto
di genere rispetto a tutte le materie di competenza del
C.N.F. o comunque su ogni possibile intervento che
l’istituzione come tale sia chiamata a fare.
E inoltre con il loro impegno dimostreranno certamente
come la rinuncia alle donne avvocato negli
organismi istituzionali equivalga al sottoutilizzo
della potenziale risorsa di intelligenza e competenza
che comporta, per l’avvocatura, in termini di
costi, un danno elevatissimo ed una rinuncia che
non può e non deve più permettersi.
Alle Consigliere Pisano e Boccardo, non posso
quindi che augurare buon lavoro ed il mio personale
in bocca a lupo…!
Si assume, inoltre, la illegittimità degli atti impugnati per eccesso di potere derivante da travisamento,
erroneità, manifesta illogicità ed omessa valutazione di elementi decisivi.
2. Si è costituita in giudizio l’Arpacal, eccependo la inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione
del regolamento e del bando di gara, e sostenendo nel merito la infondatezza del ricorso.
3. Ha proposto intervento adesivo ad adiuvandum la consigliera regionale di parità.
4. Con ordinanza del 22 febbraio 2010 è stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti
degli altri soggetti indicati in graduatoria aventi interesse al mantenimento della situazione esistente.
(omissis)
5.3. Nel merito il ricorso è fondato.
Gli artt. 3 e 51 della Costituzione impongono che sia garantita all’uno e all’altro sesso un pari trattamento
nell’accesso agli uffici pubblici.
L’amministrazione deve assicurare il principio di uguaglianza ponendo in essere tutti i comportamenti
necessari per garantire di fatto tale principio. È evidente che la situazione di gravidanza impone
alla p.a. di adottare tutte quelle misure che tutelino la donna e la maternità e garantiscano la partecipazione
al concorso in condizioni di effettiva parità con gli altri candidati.
L’art. 1 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo
6 della L. 28 novembre 2005, n. 246) prevede che «la parità di trattamento e di opportunità tra
donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della
retribuzione». L’art. 27 dello stesso decreto stabilisce che «è vietata qualsiasi discriminazione per quanto
riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri
di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di
assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale».
Alla luce di tali principi e regole di rango costituzionale e legislativo deve conseguentemente ritenersi
illegittimo il regolamento dell’ente, nella parte in cui non consente che in situazioni, quale quella in
esame, l’amministrazione sia obbligata a consentire lo svolgimento della prova orale.
L’applicazione concreta di tali enunciazioni imponeva, nella specie, pertanto, alla commissione di
non applicare la disposizione regolamentare illegittima e consentire alla ricorrente di svolgere la prova
orale successivamente al parto e nel rispetto delle condizioni di salute della madre e del bambino.
5.4. In accoglimento del ricorso gli atti impugnati devono essere annullati.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, sezione seconda, definitivamente
pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati.
10 giugno 2010
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 25

STUDI E RICERCHE
Contrasto alla violenza,
ordini di protezione, lotta
alla persecuzione.
di GUGLIELMO GULOTTA *
ORDINARIO DI PSICOLOGIA GIURIDICA A TORINO,
AVVOCATO DEL FORO DI TORINO, PSICOLOGO
Il panorama legislativo di protezione della vittima
si è notevolmente arricchito di varie forme di interventi
che possono limitare violenze nei confronti di
persone familiari ed extrafamiliari. Nella tabella 1
sono riportati i differenti tipi di misure adottabili. Essi
costituiscono i principali strumenti di protezione che
il legislatore ha introdotto con il decreto sicurezza del
2009 e con la legge contro le violenze famigliari del
2001, nonché gli altri istituti che possono costituire
una forma di protezione delle vittime di violenze.
Con il d.l. 23 febbraio 2009 n. 11, poi convertito con
modifiche dalla L. 23 aprile 2009 n. 38, recante “Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”
è stato introdotto l’art. 612 bis c.p. relativo agli
atti persecutori chiamati comunemente stalking.
Il verbo to stalk (“dare la caccia a/fare la posta”) di matrice
anglosassone, indica un comportamento in cui
lo stalker mette in atto un atteggiamento assillante
ed invasivo per la vita della sua “preda” attraverso
l’utilizzo di appostamenti, di telefonate continue e
molto spesso mute, di invio di e-mail e di sms, in
modo persecutorio e reiterato nel tempo, incutendo
nella vittima uno stato di soggezione e provocando
nella stessa un considerevole disagio fisico o psichico
oltre ad un ragionevole senso di timore. Anche in assenza
di minacce esplicite, violenze o armi, la vittima
di stalking esperisce infatti un livello notevole di
paura, in cui entra probabilmente in gioco un fattore
quantitativo: l’elevata frequenza dei comportamenti
persecutori può creare nella vittima uno stato continuo
di stress o disagio. I pedinamenti e le molestie,
che possono durare anche per molto tempo, possono
far sorgere problemi di ordine sociale o psicologico
nella vittima, la quale vive come “sotto
assedio”(Lloyd-Goldstein, 1998); le vittime di stalking,
infatti, soffrono spesso di gravi effetti psicologici (ansia,
depressione, sintomi di trauma), sotto forma di
26 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
reazioni intense ma attese di fronte ad un comportamento
abnorme e continuamente intrusivo (Meloy,
1998). La vita di chi subisce l’esperienza dello stalking
si modifica (life disruptions): alcune vittime possono
cambiare o lasciare il loro lavoro, abbandonare amici
e famiglia, cambiare il proprio aspetto, ricorrere a
consulenze psicologiche, o sentirsi costantemente
preoccupate circa la propria sicurezza personale
(Aramini, 2002). Il reato di stalking è caratterizzato da
un’estrema varietà di comportamenti che rimandano
a diverse tipologie (tabella 2), identificate da Canter e
Ionnau (2004): questi Autori hanno svolto una dettagliata
analisi empirica su un campione di 50 casi di
stalking che comprendevano, tra le vittime, ex partner,
estranei o personaggi celebri. Sono state individuate
due principali dimensioni, utili per comprendere tale
variabilità: da un lato, le differenze nella distanza interpersonale
o nella familiarità della relazione tra lo
stalker e la sua vittima, dall’altro la natura del contatto
che lo stalker tenta di imporre alla sua vittima
(Canter & Youngs, 2009).
L’introduzione dello stalking in Italia è nata in seguito
alla comparazione e all’influenza subita dai
paesi di common e civil law nei quali la condotta tipica
dello stalking trovava già da tempo attuazione
autonoma e collocazione sistematica. È bene precisare
che, fino a quando non vi era la fattispecie autonoma
degli atti persecutori, le diverse condotte tenute
dal molestatore integravano un reato qualora
rientrassero in fattispecie quali la violenza privata,
la molestia alle persone, la minaccia, le lesioni personali
e altri reati della stessa natura.
Il suddetto decreto legislativo introduce quindi:
- l’art. 612 bis c.p. (Atti persecutori);
- l’art. 8 D.L. 11/2009 (Ammonimento);
- l’art. 282- ter c.p.p. (Divieto di avvicinamento ai luoghi
frequentati dalla persona offesa) e
- l’art. 282- quater (Obblighi di comunicazione).
In base all’articolo 612 bis c.p. è punito con la reclusione
dai sei mesi ai quattro anni chiunque, con
condotte reiterate, minacci (intrusione nella sfera altrui
che può avvenire in qualunque modo) o molesti (alterare
in modo fastidioso o inopportuno l’equilibrio psichico di una
persona) taluno in modo da cagionare un perdurante
(richiesta una serialità del comportamento) e grave stato
di ansia o di paura tale da ingenerare, come visto precedentemente,
un fondato timore per la sua o l’altrui
incolumità ovvero da costringere lo stesso ad alterare
le proprie abitudini di vita (richiesta come danno-conseguenza
del comportamento dello stalker la prova di una
situazione di disequilibrio psicologico che assume carattere
patologico e quindi obiettivo).
Il delitto è punito a querela della persona offesa,
da presentarsi entro sei mesi. Tuttavia è stato previsto
all’art. 8 del d.l. 11/2009 l’ammonimento, misura
di prevenzione anch’essa di natura anglosassone

Tabella 1. I principali ordini di protezione
Condizioni di applicazione - Reat
Prima del procedimento
Atti persecutori ex art. 612 bis c.p. (c.d. stalking)
(introdotto dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito,
con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009, n. 38 c.d. decreto
sicurezza)
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito
con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque,
con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno
in modo da cagionare un perdurante e grave
stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato
timore per l’incolumità propria o di un prossimo
congiunto o di persona al medesimo legata da relazione
affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare
le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge
legalmente separato o divorziato o da persona che sia
stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso
a danno di un minore, di una donna in stato di
gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo
3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con
armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine
per la proposizione della querela è di sei mesi.
Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei
confronti di un minore o di una persona con disabilità
di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104,
nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per
il quale si deve procedere d’ufficio.
Durante il procedimento
Delitti per cui la legge prevede la pena dell’ergastolo o
della reclusione superiore nel massimo a tre anni
(art. 280 comma 1 c.p.p.)
Delitti previsti dagli articoli 570 (violazione degli obblighi
di assistenza famigliare), 571 (abuso dei mezzi
di correzione e di disciplina) 600 bis (prostituzione minorile),
600 ter (pornografia minorile), 600 quater (detenzione
di materiale pedo-pornografico), 609 bis (violenza
sessuale), 609-ter (violenza sessuale aggravata),
609 quater (atti sessuali con minorenne), 609 quinquies
(corruzione di minorenne) e 609 octies (violenza
sessuale di gruppo) c.p. commessi in danno dei prossimi
congiunti o del convivente
(art. 282 bis comma 6 c.p.p.)
Ordine di protezione
Misure atipiche
Ammonimento del questore
(art. 8. D.L. 23 febbraio 2009 n. 11)
STUDI E RICERCHE
1. Fino a quando non è proposta querela per il reato di
cui all’articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall’articolo
7, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità
di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore
di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.
La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore.
2. Il questore, assunte se necessario informazioni dagli
organi investigativi e sentite le persone informate
dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce
oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto
il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta
conforme alla legge e redigendo processo verbale.
Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente
l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore
valuta l’eventuale adozione di provvedimenti in
materia di armi e munizioni.
3. La pena per il delitto di cui all’articolo 612-bis del codice
penale è aumentata se il fatto è commesso da soggetto
già ammonito ai sensi del presente articolo.
4. Si procede d’ufficio per il delitto previsto dall’articolo
612-bis del codice penale quando il fatto è commesso
da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo.
Misure cautelari personali
Allontanamento dalla casa famigliare
(art. 282 bis c.p.p. introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n.
154, contro la violenza nelle relazioni familiari)
Con il provvedimento dell’allontanamento il giudice
prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la
casa famigliare, ovvero di non farvi rientro, e di non
accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede.
L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate
modalità di visita.
Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità
della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti,
può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi
a luoghi determinati abitualmente frequentati
dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro,
il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi
congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria
per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice
prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì
ingiungere il pagamento periodico di un assegno
a favore delle persone conviventi che, per effetto
della misura cautelare disposta, rimangano prive di
mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno
tenendo conto delle circostanze e dei redditi
dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del
versamento. Può ordinare, se necessario, che l’assegno
sia versato direttamente al beneficiario da parte del
datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione
a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia
di titolo esecutivo.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 27

STUDI E RICERCHE
Tabella 1. I principali ordini di protezione
Delitti per cui la legge prevede l’ergastolo o della reclusione
superiore nel massimo a tre anni
(art. 280 comma 1 c.p.p.)
Delitti per cui la legge prevede l’ergastolo o della reclusione
superiore nel massimo a tre anni
(art. 280 comma 1 c.p.p.)
Delitti per cui la legge prevede l’ergastolo o della reclusione
superiore nel massimo a quattro anni
(art. 280 comma 2 c.p.p.)
Durante il procedimento
Delitti per cui la legge prevede l’ergastolo o della reclusione
superiore nel massimo a tre anni
(art. 287 comma 1 c.p.p.)
Delitto di cui all’art. 571 c.p. (violazione degli obblighi di
assistenza famigliare) in danno dei prossimi congiunti
(art. 288 comma 2 c.p.p.).
All’esito del procedimento
Condanna all’ergastolo
(art. 32 c.p.)
Delitti di cui agli artt. 609-bis (violenza sessuale), 609ter
(violenza sessuale aggravata), 609-quater (atti sessuali
con minorenne), 609-quinquies (corruzione di
minorenne) e 609-octies (violenza sessuale di gruppo)
del codice penale quando la qualità di genitore è elemento
costitutivo o circostanza aggravante del reato
(art. 609 nonies comma 1 n. 1) c.p.)
Delitto di cui all’art. 564 c.p. (incesto), delitti di cui agli
artt. 566-568 (supposizione o soppressione di stato,
alterazione di stato, occultamento di stato di un fanciullo
legittimo o naturale riconosciuto)
(artt. 564, 569 c.p.)
28 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa
(art. 282-ter c.p.p. introdotto dal D.L. 23 febbraio 2009, n.
11, convertito, con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009,
n. 38 c.d. decreto sicurezza)
1. Con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento
il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi
a luoghi determinati abitualmente frequentati
dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata
distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
2. Qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice
può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a
luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi
congiunti della persona offesa o da persone con
questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva
ovvero di mantenere una determinata distanza
da tali luoghi o da tali persone.
3. Il giudice può, inoltre, vietare all’imputato di comunicare,
attraverso qualsiasi mezzo, con le persone di
cui ai commi 1 e 2.
4. Quando la frequentazione dei luoghi di cui ai commi
1 e 2 sia necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze
abitative, il giudice prescrive le relative modalità
e può imporre limitazioni.
Obbligo di presentazione alla P.G.
(Art. 281 c.p.p.)
Divieto e obbligo di dimora
(art. 283 c.p.p.)
Arresti domiciliari
(art. 284 c.p.p.)
Custodia cautelare in carcere
(art. 285 c.p.p.)
Misure interdittive
Sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale
(art. 288 c.p.p.)
Con il provvedimento che dispone la sospensione dall’esercizio
della potestà dei genitori [c.c. 316], il giudice
priva temporaneamente l’imputato, in tutto o in
parte, dei poteri a essa inerenti.
Pene accessorie
Decadenza della potestà parentale
(Art. 34 comma 1 c.p.)
La decadenza dalla potestà dei genitori importa anche
la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui
beni del figlio in forza della potestà di cui al titolo IX
del libro I del codice civile.
(art. 34 comma 3 c.p.).

Tabella 1. I principali ordini di protezione
Delitti commessi con l’abuso della potestà dei genitori
(art. 34 comma 2 c.p.)
Delitti di cui gli artt. 609 bis (violenza sessuale), 609 ter
(violenza sessuale aggravata), 609 quater (atti sessuali
con minorenne), 609 quinquies (corruzione di minorenne)
e 609 octies (violenza sessuale di gruppo) c.p.
(art. 609 nonies comma 1 n. 2) c.p.)
Delitti di cui gli artt. 609 bis (violenza sessuale), 609 ter
(violenza sessuale aggravata), 609 quater (atti sessuali
con minorenne), 609 quinquies (corruzione di minorenne)
e 609 octies (violenza sessuale di gruppo) c.p.
(art. 609 nonies comma 1 n. 3) c.p.)
Delitti di cui gli artt. 609 bis (violenza sessuale), 609 ter
(violenza sessuale aggravata), 609 quater (atti sessuali
con minorenne), 609 quinquies (corruzione di minorenne)
e 609 octies (violenza sessuale di gruppo) c.p.
(art. 609 nonies comma 2 c.p.)
(c.d. order of protection) con il quale si prevede che,
fino a che non sia proposta la querela, la persona offesa
possa esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza.
Con il decreto sicurezza, attraverso tale
strumento, il legislatore ha previsto una forma di tutela
anticipata all’instaurazione del procedimento
penale. La persona offesa del reato di stalking può
infatti scegliere di non presentare immediatamente
querela, ma di chiedere al questore di ammonire lo
stalker. Si tratta quindi di una misura di prevenzione
adottata dal questore, che ha limitati poteri di indagine,
e con cui si ammonisce il futuro stalker di interrompere
qualsiasi interferenza creata sinora
nella vita della vittima. Se il soggetto ammonito
compirà altri atti persecutori, nei suoi confronti si
procederà d’ufficio (come nei casi di reato a danno
di minorenni e persone con disabilità).
Sempre il decreto legge ha inserito anche all’art.
282 -ter c.p.p. una misura cautelare coercitiva che
prevede il divieto di avvicinamento o l’obbligo di
mantenere una certa distanza dai luoghi abitualmente
frequentati dalla vittima e, in casi di particolare
esigenze di tutela, anche da quelli frequentati
da persone a lei vicine. A ciò può aggiungersi, inoltre,
il divieto di comunicare, con qualsiasi mezzo,
con i congiunti della persona offesa o con le persone
legate ad essa da relazione affettiva.
Mentre il provvedimento del 2001 mirava, come
testimoniato dall’introduzione della misura caute-
STUDI E RICERCHE
Sospensione dell’esercizio della potestà genitoriale per
un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta
(art. 34 comma 2 c.p.)
La sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori
importa anche l’incapacità di esercitare, durante la sospensione,
qualsiasi diritto che al genitore spetti sui
beni del figlio in base alle norme del titolo IX del libro
I del codice civile; durata: il doppio della pena inflitta
con la sentenza
(art. 34 comma 4).
Interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente
alla tutela ed alla curatela
(art. 609 nonies c.p.)
Perdita del diritto agli alimenti e l’esclusione della
successione della persona offesa
(art. 609 nonies c.p.)
Interdizione perpetua da qualunque incarico nelle
scuole di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio
o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche
o private frequentate prevalentemente da minori
(art. 609 nonies c.p.)
lare dell’allontanamento dalla casa famigliare posta
a tutela della vittima che spartisce il tetto con il suo
carnefice, a tutelare dalla violenza intra-familiare,
con il nuovo intervento si è estesa analoga tutela
anche ai casi in cui non vi sia, o non vi sia più, una
relazione fra la persona offesa e l’imputato. Infatti,
la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati
dalla persona offesa introdotta dal decreto
sicurezza, avente contenuto analogo all’ordine previsto
dal comma 2 dell’art. 282 bis per i casi di allontanamento
dalla casa famigliare, è applicabile a
qualsiasi soggetto indipendentemente dalla convivenza
con la vittima. Il reato di stalking risulta aggravato
quando sia commesso a seguito di una precedente
unione matrimoniale, o anche solo di una
semplice relazione affettiva, risultando così puniti
più gravemente gli atti persecutori commessi da chi
abbia precedentemente condiviso una relazione con
la vittima, indipendentemente dalla natura coniugale
o semplicemente affettiva dell’unione, rispetto
a quelli commessi dall’estraneo. Infatti, la pena è
aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente
separato o divorziato o da persona che sia
stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
La condivisione di una relazione diventa
quindi elemento idoneo a giustificare l’aumento di
pena, secondo una prospettiva ormai completamente
ribaltata rispetto a quella entro cui si inseriva
fino al 1981 il c.d. delitto d’onore, previsto dal-
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 29

STUDI E RICERCHE
Tabella 2. Differenti comportamenti messi in atto dallo stalker e corrispondenti tipologie di stalking
(tratto da Canter & Ioannou, 2004)
Varietà di comportamenti che caratterizzano lo stalking
Richiesta di dettagli personali: lo stalker chiede, per
mezzo di lettere, telefonate, e-mail o di persona informazioni
su dettagli personali riferiti alla vittima (es.
che cosa le piace indossare, dove vive o lavora…)
Indagini sulla vittima: lo stalker fa delle ricerche sulla
sua vittima, ad es. contattando e facendo domande alle
persone a lei legate, cercando informazioni su di lei,
sorvegliandola.
Conoscenze sulla vittima: lo stalker rivela alla vittima
di essere a conoscenza di informazioni su di lei, ad es.
riguardo alla sua famiglia, al suo luogo di lavoro, alle
sue attività o al colore dei vestiti che indossa in un determinato
momento.
Sorveglianza della vittima: la vittima può essere consapevole
o meno di essere oggetto di sorveglianza da
parte dello stalker, che può fotografarla/filmarla di nascosto
o utilizzare cimici elettroniche.
Infrazione degli ordini restrittivi: lo stalker infrange le
ingiunzioni da parte della legge che gli impediscono di
contattare la sua vittima.
Ricerca di contatto dopo l’intervento dell’autorità: lo
stalker continua ad entrare in contatto con la vittima
anche dopo l’intervento, ad es., delle Forze dell’Ordine.
Invio di lettere: lo stalker invia materiale scritto alla sua
vittima (lettere, cartoline, e-mail).
Telefonate: lo stalker effettua telefonate (in cui parla o
resta in silenzio) o lascia messaggi sulla segreteria telefonica
della vittima.
Invio di regali: i doni dello stalker (es. fiori, cioccolatini,
fotografie, vestiti) possono essere recapitati alla vittima,
per posta, a casa o al lavoro, o lasciati vicino a casa sua
o alla sua macchina, in modo che lei possa trovarli.
Comunicazioni a contenuto sessuale: nelle comunicazioni
provenienti dallo stalker si osserva spesso un
contenuto osceno (ad es. lettere con riferimenti sessuali,
telefonate con respiri affannosi…)
Inviti: lo stalker esprime alla sua vittima il desiderio di
incontrarla, di avere con lei una relazione intima e può
invitarla a contattarlo.
Furto di proprietà personali: lo stalker si appropria di
oggetti di proprietà della vittima dalla sua casa, dal suo
giardino, dalla sua auto o dal suo posto di lavoro (ad es.
biancheria intima, fotografie personali…)
Distruzione di proprietà personali: lo stalker distrugge
o cerca di distruggere oggetti appartenenti alla vittima
o a lei associati.
Accesso alla casa della vittima: lo stalker riesce ad intrufolarsi
in casa della vittima in modo illegale o con
l’inganno (es. convincere i bambini a lasciare entrare
un amico della mamma)
30 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Stili comportamentali dello stalker
Stile dell’Intimità: azioni che rappresentano un tentativo
distorto di ridurre la distanza interpersonale tra lo
stalker e la sua vittima e di entrare in una sorta di relazione
con lei.
La vittima è considerata come una persona: lo stalker
riconosce di avere a che fare con un individuo reale e
mostra interesse nell’ottenere informazioni specifiche.
Egli mette in atto dei tentativi per ottenere ciò che
vuole; essi, benché inadeguati e intrusivi, rappresentano
per lui una modalità legittima di relazionarsi agli
altri e, in particolare, un modo per ottenere una relazione,
senza alcun rimorso per la violazione della privacy
della vittima.
Stile della Sessualità: comportamenti che hanno alla
base una sessualità esplicita o implicita o riflettono un
potenziale contatto sessuale. Anche il furto o le azioni
distruttive ne fanno parte, se sono focalizzati sul possesso
personale della vittima.
La vittima è considerata come un mezzo: lo stalker usa
semplicemente la vittima per esprimere il proprio desiderio
di possesso o la propria rabbia; intende imporre
i propri sentimenti e desideri sessuali sulla vittima. Le
reazioni di rifiuto della vittima possono provocare
azioni drammatiche o attacchi verso oggetti che hanno
una rilevanza personale per lei.
Diffamazione: lo stalker diffonde in pubblico messaggi
offensivi, falsi o diffamatori sulla vittima.

l’abrogato art. 587 c.p., in cui il rapporto coniugale
con la vittima poteva assurgere ad elemento attenuante
della responsabilità del reo che avesse agito
per tutelare l’onore proprio o della famiglia.
Sul piano procedurale si osserva inoltre l’ampliamento
della sfera di applicabilità dell’istituto dell’incidente
probatorio, con l’inserimento dell’art.
392, n. 1 bis c.p.p.; con tale norma, al fine di evitare
alle vittime di stalking di dover rivivere in dibattimento
le passate e dolorose vicende che hanno una
forte implicazione psicologica, si consente di assumere
la loro testimonianza già nella fase delle indagini
preliminari nelle forme dell’incidente probatorio.
Relativamente alle “Misure contro la violenza
nelle relazioni familiari”, la legge n. 154/01 ha introdotto,
con l’art. 282 bis c.p.p., un rimedio coercitivo
volto ad arginare il fenomeno della violenza domestica.
L’art. 282 bis c.p.p. introduce infatti la misura
cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare,
consistente nella prescrizione rivolta all’accusato di
lasciare la casa familiare ovvero di non farvi rientro,
nel caso in cui l’indagato si trovi in luogo (anche di
detenzione) diverso dal domicilio domestico e nella
prescrizione di non accedervi senza l’autorizzazione
del giudice che procede (che, se concessa, può prevedere
modalità di visita).
STUDI E RICERCHE
Tabella 2. Differenti comportamenti messi in atto dallo stalker e corrispondenti tipologie di stalking
(tratto da Canter & Ioannou, 2004)
Minacce: contenuti minacciosi o offensivi si possono
osservare nelle comunicazioni provenienti dallo stalker.
Le minacce possono essere dirette (es. minacce di
morte rivolte direttamente alla vittima) o indirette (es.
far trovare davanti a casa animali morti).
Confronto diretto: lo stalker minaccia direttamente la
sua vittima di usare violenza fisica contro di lei.
Contatto con altri: lo stalker contatta una persona legata
alla vittima, al fine di ottenere informazioni su di lei, di
farle pervenire un messaggio o di minacciarla e insultarla.
Minacce ad altri: lo stalker minaccia di ferire o uccidere
persone legate alla vittima, ad es. familiari o amici.
Insulti contro la famiglia: lo stalker formula minacce, fa
osservazioni offensive o perseguita persone collegate
con la sua vittima (es. familiari, partner, ma anche colleghi
o vicini di casa).
Violenza sulla vittima: lo stalker manifesta violenza fisica
sulla sua vittima (es. percosse), che può sfociare
persino nell’omicidio.
Minaccia di suicidio: lo stalker può minacciare di suicidarsi
se la vittima non soddisferà le sue richieste.
Appostamenti: lo stalker passa ripetutamente in macchina
nei pressi dell’abitazione della vittima o del suo
luogo di lavoro.
Stile dell’Aggressione: comportamenti che rimandano
al preteso controllo dello stalker sulla vittima: da un
lato un controllo indiretto, mediante l’osservazione
della vittima e il contatto con la sua famiglia o i suoi
amici, dall’altro forme più aggressive e distruttive, in
cui cerca di imporre un controllo diretto ed infliggere
violenza fisica o psicologica.
La vittima è considerata come un oggetto: lo stalker
vede la sua vittima come una sua proprietà; se egli non
può possederla, nessun altro potrà farlo. Vi è una totale
mancanza di empatia, la vittima è spogliata di ogni
sua dimensione umana. L’approccio crudele e socialmente
inadeguato di questo tipo di stalker mostra
come essi ritengano di poter forzare una relazione
semplicemente esercitando il controllo sulle condizioni
esterne, ad es. minacciando altre persone legate
alla vittima.
Si tratta di una misura sottoposta ai presupposti
generali di applicabilità delle misure cautelari contenute
nell’art. 274 c.p.p. ed ai limiti di pena previsti
dall’art. 280 c.p.p.. È prevista però un’eccezione, avuto
riguardo non alla misura della pena, bensì al titolo di
reato per cui si procede. Infatti, la misura può essere
concessa anche in deroga ai limiti di pena, qualora si
proceda per una tipologia di reati intra-familiari, tassativamente
indicati, commessi in danno dei prossimi
congiunti o del convivente che sono:
- la violazione degli obblighi di assistenza familiare
(ex art. 570 c.p.),
- l’abuso di mezzi di correzione (ex art. 571 c.p.),
- la prostituzione minorile (in particolare nell’ipotesi
di cui al comma 2 dell’art. 600-bis c.p.), la
pornografia minorile (nell’ipotesi di cui al
comma 4 dell’art. 600-ter c.p.),
- la detenzione di materiale pornografico (ex art.
600-quater c.p.), la violenza sessuale (nell’ipotesi
di cui al comma 3 dell’art. 609-bis),
- gli atti sessuali con minorenne (nell’ipotesi attenuata
di cui al comma 3 dell’art. 609-quater c.p.),
- la corruzione di minorenne (ex art. 609-quinquies
c.p.),
- la violenza sessuale di gruppo (nell’ipotesi attenuata
in virtù del richiamo dell’art. 609-bis,
comma 3 c.p.).
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 31

STUDI E RICERCHE
Accanto alla misura principale, il legislatore ha
previsto una prescrizione accessoria per il caso in
cui esistano esigenze di tutela dell’incolumità della
persona offesa o dei suoi prossimi congiunti: in particolare,
l’obbligo di non avvicinarsi a luoghi determinati
abitualmente frequentati dalla persona offesa
(segnatamente il luogo di lavoro, il domicilio
della famiglia di origine o dei prossimi congiunti), a
meno che la frequentazione sia necessaria per motivi
di lavoro, nel qual caso il giudice dispone le relative
modalità o limitazioni.
Innovativa è sicuramente la previsione di misure
provvisorie a contenuto patrimoniale, introdotta nel
comma 3 dell’art. 282-bis c.p.p. Il giudice può ingiungere
(l’ordine ha efficacia di titolo esecutivo),
contestualmente o successivamente alla misura
dell’allontanamento, il pagamento periodico di un
assegno a favore delle persone conviventi, qualora
quest’ultime, per effetto della misura cautelare coercitiva,
rimangano prive di mezzi. Non è infatti infrequente
che le persone accusate di abusi familiari
rappresentino al contempo la sola fonte di reddito
della famiglia. Viene così riconosciuto, per la prima
volta, un contributo economico al convivente anche
in mancanza di figli, non previsto in alcuna ipotesi
nella legislazione precedente in materia di famiglia.
Il giudice stabilisce le modalità ed i termini del pagamento,
ordinando, se necessario, che l’assegno sia
versato al beneficiario da parte del datore di lavoro
dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui
spettante.
La sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori
di cui all’art. 288 c.p.p. è una misura cautelare
interdittiva.
Vi è la possibilità di commisurare il quantum dell’interdizione
in funzione delle esigenze cautelari,
giacché al giudice è consentito di sospendere in
tutto o in parte l’esercizio dei poteri che concorrono
a formare la potestà genitoriale. La temporanea perdita
può, quindi, riguardare specifici segmenti di potere,
un singolo potere e non altri, oppure l’applicazione
della misura ad un figlio e non ad altri.
Per la determinazione del contenuto della misura
prevista dall’art. 288 c.p.p., bisogna avere riguardo al
complesso dei poteri e delle facoltà inerenti alla potestà
dei genitori, disciplinati dagli artt. 315 e ss. c.c..
La misura appare utile quando, ad esempio, si
vuole evitare che l’imputato possa porre in essere
un’attività direttamente o indirettamente pericolosa
per l’inquinamento del materiale probatorio: la sospensione
della potestà dei genitori può contribuire,
infatti, a sottrarre chi vi è soggetto a possibili intimidazioni
(di natura psicologica od economica), che
gli impedirebbero di deporre liberamente in un processo
a carico del genitore.
Sotto il profilo civilistico, se la violenza si riversa
contro i figli ed è causa di pregiudizio per i medesimi,
il giudice potrà emettere dei provvedimenti li-
32 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
mitativi o ablativi della potestà familiare; se invece
la violenza si riversa nei confronti del coniuge, il coniuge
potrà iniziare le procedure per la separazione
o per il divorzio. A questi rimedi si è aggiunta anche
la misura degli ordini di protezione introdotta dalla
legge n. 154/2001.
Nei casi di violenza intra-familiare rilevanti sono
i provvedimenti limitativi o ablativi della potestà e i
provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare
(sia da parte del minore che dei genitori). A tal
proposito, significativi sono i cambiamenti introdotti
dalla legge n. 149 del 2001 riguardo al testo degli
artt. 330 e 333 c.c.
I rimedi di natura civilistica a tutela dei minori,
principalmente rientrano negli artt. 330 e 333 c.c..
La legge 18 marzo 2001 n. 149, benché volta principalmente
a modificare la disciplina dell’adozione
e dell’affidamento dei minori, ha introdotto anche
alcune modifiche al titolo VIII del libro I del codice
civile.
Si è dato al giudice il potere di emettere un ordine
di allontanamento del genitore violento dalla casa
familiare, permettendo in questo modo che gli altri
appartenenti al nucleo familiare possano, con il
semplice allontanamento di colui che ha posto in
essere i fatti pregiudizievoli, mantenere unita la famiglia
nel luogo dove essa ha i propri interessi, le
proprie relazioni e gli affetti indispensabili per mantenere
un contatto positivo con la realtà.
Il diritto penale prevede infine delle pene accessorie,
che conseguono alla condanna e che possono
incidere suoi rapporti famigliari, tra queste certamente
la decadenza dalla potestà parentale prevista
dagli artt. 34 c.p e 32 comma 2 c.p.
La decadenza della potestà dei genitori consegue,
in primo luogo, in caso di condanna all’ergastolo ex
art. 32 comma 2 c.p.
In tema di reati familiari, alcuni dei casi indicati
dalla legge che prevedono esplicitamente la pena
accessoria della perdita della potestà genitoriale
sono previsti dall’art. 609 nonies c.p., in tema di violenza
sessuale, per cui la condanna per alcuno dei
delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater,
609 quinquies e 609-octies c.p. comporta la perdita
della potestà del genitore quando la qualità di genitore
è elemento costitutivo del reato.
Il contenuto della pena accessoria in oggetto riproduce
il modello delineato dall’art. 34 c.p., che
prevede appunto la decadenza della potestà dei genitori
(oltre alla sospensione dell’esercizio della
stessa), ossia la perdita dei poteri che la legge riconosce
ai genitori nei confronti del figlio.
Il terzo comma dell’art. 34 c.p., che prevede la privazione
di ogni diritto spettante al genitore sul figlio,
si riferisce al diritto di amministrare i beni del
minore (ex art. 320 c.c.) ed all’usufrutto legale sui
medesimi beni (ex art. 324 c.c.).

La sospensione dalla potestà genitoriale ex art. 32
comma 3 c.p. ed ex art. 34 comma 2 e 4 c.p. non consegue
automaticamente: il giudice è libero di determinare
che alla condanna della reclusione per un
tempo pari o superiore ai cinque anni non consegua
la sospensione della potestà genitoriale.
La sospensione consegue anche nell’ipotesi di delitti
commessi con abuso di autorità parentale (ex
34 comma 2 c.p.) e può essere inflitta per un periodo
di tempo pari al doppio della pena inflitta. Quindi
questa pena accessoria potrebbe essere applicata,
per esempio, nel caso di condanna per reati di maltrattamenti
su minori ex art. 572 c.p.
Secondo l’art. 34 comma 4 c.p., la sospensione dall’esercizio
della potestà dei genitori importa anche
l’incapacità di esercitare, durante la sospensione,
qualsiasi diritto che al genitore spetti sui beni del figlio
in base alle norme del titolo IX del libro I del codice
civile.
Il fenomeno dello Stalking dal punto di vista della
psicologia evoluzionistica
L’interesse per il fenomeno dello stalking era presente
ancor prima che la persecuzione interpersonale
di carattere passionale/sessuale prendesse
questo nome. In un caso di omicidio avvenuto nel
1999 e raccontato da M.C. Zanconi nel libro “Processi
penali e processi psicologici”, ci si è ad esempio trovati
di fronte ad un uomo che perseguitava la donna che
lo aveva lasciato fino ad ucciderla, perché ella si sottraeva
alla sua volontà di riappacificazione. La vittima,
con la quale l’uomo aveva una relazione sentimentale
da circa tre anni, fu uccisa con numerose
coltellate al cuore, ai polmoni e all’aorta. Il padre
della vittima, fin da subito, mostrò di ritenere che
l’assassino della figlia fosse l’ex fidanzato, il quale
non aveva accettato l’interruzione della relazione
amorosa e che da tempo era più volte ricorso a minacce
di morte contro la ragazza e i suoi familiari.
Dopo un iniziale corteggiamento discreto, l’uomo in
un secondo momento aveva iniziato ad assumere
atteggiamenti possessivi ed esclusivi, impedendo
alla donna di avere una qualsiasi vita di relazione; la
scelta di interrompere un rapporto diventato ormai
insostenibile era sembrata alla ragazza inevitabile.
L’uomo, però, non l’aveva accettata e aveva iniziato
perseguitare lei e i suoi familiari, con telefonate e
appostamenti, fino a minacce di morte per indurla
a tornare con lui; minacce che, alla fine, si sono concretizzate.
All’epoca della trattazione di questo caso,
nonostante il comportamento dell’uomo non sia
stato qualificato come stalking, vi era consapevolezza,
nel difensore della vittima, che questo potesse
rientrare all’interno della categoria. L’assassino
era uno stalker perché agiva per mero spirito di
possesso, travalicando la mera gelosia e con una tale
determinazione e violenza espressa in un atteggiamento
drammaticamente punitivo nei confronti
STUDI E RICERCHE
della donna, tanto che anche la sentenza di condanna
ha riconosciuto l’essere andato oltre il delitto
passionale, con una ferocia definita “bestiale”.
In un altro caso, risalente al 1995, il perseguitante
era una donna, che fu però uccisa dall’uomo. Si trattava
di due insegnanti elementari, entrambi sposati,
che avevano iniziato una relazione amorosa extraconiugale;
la donna non si rassegnava di fronte al
fatto che lui volesse allontanarsi, vista l’insistenza
di lei alla continuazione del legame e le minacce anche
di fronte agli scolari, ai bidelli etc. In particolare,
dopo sei anni, l’uomo intendeva troncare la relazione
tanto da avere richiesto un trasferimento e un
periodo di aspettativa, ma la donna non ne voleva
sapere e non smetteva di “tormentarlo”: lo seguiva
continuamente in automobile ovunque andasse, anche
fino alla sua abitazione, faceva telefonate mute
ad ogni ora del giorno e della notte e lo apostrofava
con parole ingiuriose anche all’interno dell’ambiente
scolastico, alla presenza degli alunni. Lui,
esasperato, la uccise al parco di Monza con quattro
colpi di pistola.
È infine proprio di questi giorni la notizia, apparsa
sul Corriere della Sera, che una ragazza di 24 anni è
stata accoltellata in strada, a pochi passi da casa,
colpita con alcuni fendenti al collo. L’aggressore, secondo
quanto riferito dalla stessa vittima, sarebbe
l’ex fidanzato, il quale non si rassegnava alla fine
della loro relazione.
Un avvocato che voglia correttamente operare in
questo campo, per compiere un’operazione di contrasto
e, in ipotesi, anche di difesa dello stalker, deve
anche comprendere il fenomeno. Vista la gravità degli
avvenimenti connessi a queste persecuzioni, è
necessario trovare delle teorie esplicative per comprendere
perché/come detto fenomeno si produca,
anche per ridurne l’accadimento. Esso si innesta per
lo più in rapporti interpersonali preesistenti (ma ci
sono anche gli stalker di persone famose, in cui la
relazione interpersonale non preesiste, - es. dicembre
2000: Dante Soiu, un pizzaiolo di Columbus
(Ohio), che per un anno aveva perseguitato l’attrice
Gwyneth Paltrow inviandole lettere a sfondo sessuale,
e-mail, giocattoli, riviste e libri porno viene riconosciuto
colpevole del reato di stalking e condannato
a una pena da 6 mesi a 3 anni di carcere da
scontare in ospedale psichiatrico; giugno 2009: Andrea
Spinelli 36enne romano che avrebbe per anni
molestato la showgirl Michelle Hunziker è condannato
a 9 mesi e a un risarcimento pari a 10mila euro
per danni morali. L’imputato ha dovuto rispondere
di accuse gravi come l’invio alla presentatrice presso
la redazione di “Striscia la Notizia” nel 2005, di una
mail di minacce e all’indirizzo della presentatrice
svizzera di una busta contenente una lametta e
delle frasi offensive e minatorie) e ha normalmente
tre finalità:
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 33

STUDI E RICERCHE
1. Impedire che la relazione preesistente venga interrotta;
2. Riottenere che la relazione preesistente ormai interrotta
venga ripristinata;
3. Ottenere la disponibilità dell’altro/a al rapporto sentimentale/sessuale.
La psicologia evoluzionistica propone un modello
esplicativo dell’aggressività umana che sia integrativo,
offrendo gli strumenti per comprendere come
e perché certi fattori ambientali influenzino e siano
a loro volta influenzati dagli aspetti psicologici alla
base del comportamento umano. Anche il comportamento
aggressivo sarebbe quindi evocato da particolari
problemi adattivi presenti in determinati
contesti evolutivi, secondo la logica costi-benefici,
rappresentandone la soluzione. Cerchiamo di vedere
in che modo: come sostenuto da Dawkins
(1977), la logica sottesa all’evoluzione è quella dei
geni, che hanno come unico interesse quello di riprodurre
quante più copie possibili di se stessi e che
quindi progettano organismi che hanno come scopo
primario l’aumento del successo riproduttivo. I nostri
circuiti cerebrali sarebbero stati progettati per
produrre risposte comportamentali appropriate alle
circostanze ambientali. Tuttavia, il nostro è un cervello
plasmato dalla selezione naturale per essere
adatto a sopravvivere in epoca preistorica. Un mutamento
genetico spontaneo, per affermarsi nella
specie, ha bisogno di molte generazioni di individui
che, grazie a questo mutamento, acquisiscano un
tratto anatomico o comportamentale che li avvantaggi
nella riproduzione all’interno di un determinato
ambiente. Negli ultimi diecimila anni, cioè
dalla scoperta e dalla diffusione dell’agricoltura,
dobbiamo ritenere che non siano stati possibili
adattamenti evolutivi, sia per il breve tempo intercorso,
sia per i continui mutamenti ambientali prodotti
culturalmente.
La differenza tra strategie maschili e femminili è
legata ad una specifica asimmetria, che si spiega
con la teoria dell’investimento parentale (Trivers,
1972): un uomo può avere moltissimi figli poiché è
fertile per quasi tutta la vita ed il costo per la riproduzione
è per lui minimo; una donna, al contrario,
ha a disposizione un numero limitato di ovuli nel
corso di un limitato periodo di fertilità, ed è inoltre
impegnata in un periodo di gestazione di nove mesi
a cui segue il periodo dell’allattamento. Per massimizzare
il successo riproduttivo, l’uomo cercherà la
quantità e sarà più competitivo sessualmente (più
donne fecondate = più figli che perpetueranno i suoi
geni), mentre la donna preferirà la qualità e sarà
quindi più selettiva nella scelta del partner (che garantisca
le risorse necessarie all’allevamento di un
numero limitato di figli).
Geni che predispongano gli uomini ad un atteggiamento
di proprietà (Wilson & Daly, 1992) nei con-
34 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
fronti della donna e che, pertanto, tendono a mettere
in atto tutte le misure possibili per impedire alla
loro partner di essere fecondate da altri uomini, si
saranno affermati facilmente nella specie. Questi
stessi geni devono essere responsabili delle violente
emozioni a cui gli uomini vanno incontro quando
percepiscono possibili minacce alla fedeltà della
loro partner.
Il termine stalking già rimanda al nostro passato
ancestrale. Esso deriva infatti dal linguaggio tecnico
della caccia (stalker è il cacciatore in agguato della
preda) e letteralmente è traducibile con “fare la posta”,
“inseguire”, “cacciare”, “seguire le tracce della
preda”; individua un insieme di comportamenti ripetuti
ed intrusivi di sorveglianza e controllo nei
confronti di una vittima designata, che risulta infastidita
e/o preoccupata da tali attenzioni non gradite.
Si tratta di un fenomeno tipicamente relazionale
caratterizzato, come abbiamo visto, da:
a) Una serie di comportamenti diretti ripetutamente
verso uno specifico individuo, per un periodo
continuativo di alcune settimane;
b) Tali atteggiamenti devono risultare intrusivi e
sgraditi per la vittima;
c) Devono provocare in quest’ultima una sensazione
di ansia, disagio e paura e una forte limitazione
della libertà personale.
Le tre finalità dello stalking precedentemente
esposte rimandano ad altrettante ipotesi esplicative
del comportamento aggressivo e, in particolare, dell’aggressività
predatoria (Buss & Duntley, 2006):
1. Dissuadere il proprio partner dall’essere infedele:
alla base delle manifestazioni violente verso il
partner, vi sarebbe un’estrema gelosia. Per
quanto aberrante, certi uomini maltrattano,
molestano o perfino uccidono le loro mogli per
impedire loro di interrompere la relazione ed
intraprenderne una nuova con un altro uomo,
inducendole a credere che non troveranno mai
un partner più desiderabile di quello che hanno
attualmente.
2. Recuperare una relazione con un partner precedente:
l’aggressione può essere parte di una strategia
designata a riconquistare un partner che ha interrotto
una relazione sentimentale. Apparentemente,
l’uso dell’aggressività per attrarre
nuovamente un partner può sembrare contro
intuitiva. Tuttavia, in questo contesto, essa può
funzionare come rinforzo negativo: l’aggressione
costituisce il rinforzatore negativo che
viene meno quando la relazione si è ristabilita.
L’oggetto dell’aggressività - il partner desiderato
- è incoraggiato ad intraprendere una relazione
con l’aggressore al fine evitare di continuare ad
essere sua vittima. Infatti, una delle funzioni
dello stalking è appunto quella di recuperare un

partner che ci ha lasciato (Duntley e Buss, 2006).
Quando la partner di un uomo ha abbandonato
al relazione, il comportamento di stalking contro
di lei le infligge costi notevoli per ogni suo tentativo
di relazionarsi con altri uomini, e contemporaneamente
dissuade altri uomini da cercare
il contatto con lei.
3. Ottenere partner sessuali altrimenti inaccessibili:
l’aggressione sessuale spazia dal toccare il
corpo di una donna senza il suo permesso, all’usare
minacce, fino al forzarla fisicamente ad
avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.
Il comportamento aggressivo consente
all’uomo di ottenere un contatto sessuale che
altrimenti gli sarebbe precluso.
La violenza in famiglia
Un’ulteriore spia di quanto finora esposto possiamo
averla se consideriamo il fenomeno della violenza
in famiglia, a proposito del quale già abbiamo
osservato le tutele previste dal legislatore. In essa,
come vedremo, gli autori sono per lo più maschi che
si dimostrano aggressivi verso le femmine, per motivi
prevalentemente passionali. La famiglia è il
primo luogo di socializzazione; in essa si coltivano
gli affetti e l’amore è il sentimento dominante: come
mai diviene allora anche teatro di violenze?
Un primo punto è che le persone, fatta eccezione
per i coniugi che si presume si siano sposati volontariamente,
non scelgono la famiglia nella quale vivono:
i figli ci sono nati ed i suoceri vi entrano spesso loro
malgrado. Così, possono crearsi situazioni familiari
in cui un individuo convive con i suoi parenti non
per scelta autonoma ma perché vi si ritrova e in presenza
di condizioni che gli impediscono di abbandonare
eventualmente il nucleo familiare, quali, ad
esempio, la mancanza di mezzi di sussistenza autonomi,
la minore età o la salute precaria.
Un secondo punto riguarda il conflitto generazionale:
nell’ambito di una stessa famiglia convivono
più generazioni e ciò può facilitare scontri dovuti a
modi diversi di vedere e di affrontare la vita. Questa
osservazione sembra trovare particolare riscontro
per quanto riguarda il rapporto tra genitori e figli: i
maltrattamenti diretti sia agli uni che agli altri ed
atti estremi quali i parricidi sembrano spesso nascere
da divergenze di opinioni o da tentativi di
ostacolare i progetti di vita del congiunto.
Un’ulteriore fonte di conflitto è la presenza in famiglia
di persone di sesso diverso, cosa che richiede una
definizione reciproca e consensuale dei ruoli maschili
e femminili. Non a caso i maltrattamenti alle
donne hanno spesso origine nella visione distorta
che il marito ha della propria compagna: quest’ultima,
in quanto donna, è talvolta definita come soggetto
senza diritti né poteri ed è obbligata ad obbedire
e a soddisfare il suo “padrone”; ciò in un’epoca
di forte emancipazione femminile è spesso all’ori-
STUDI E RICERCHE
gine di conflitti familiari. Per quanto concerne le violenze
di coppia reciproche, sembra che il problema non
sia legato tanto alla definizione dei ruoli, quanto alla
“lotta” per il controllo di una particolare situazione.
Un altro fattore facilitante la violenza familiare è
la vicinanza fisica. I congiunti, infatti, vivono in spazi
ristretti e questo può determinare un comportamento
di difesa del proprio territorio. Esistono vari
studi che dimostrano che gli uomini, così come gli
animali, tendono a definire un loro territorio personale:
l’uso non autorizzato da parte di altri dei propri
spazi e delle proprie risorse può essere vissuto
come un’intrusione e quindi scatenare un comportamento
di difesa territoriale. Quest’ultima si può
manifestare con un attacco verbale o attraverso
comportamenti “bloccanti” fino a sfociare in aperte
aggressioni fisiche. L’importanza della gestione degli
spazi è stata evidenziata dalla prossemica, una disciplina
che studia i diversi significati legati alla distanza
interpersonale, la quale ha evidenziato che
esistono, in ordine decrescente di contatto fisico,
una distanza sociale, una amicale ed una distanza intima
(Gulotta, 1984).
Le statistiche
A 6 mesi dal provvedimento che introduce anche in
Italia il reato di stalking (23 febbraio 2009), si contano
520 arresti e 2950 persone denunciate (www.polizia
distato.it, 10.11.2009).
Secondo i dati raccolti dal Servizio analisi criminale
della Direzione centrale della polizia criminale,
le vittime del fenomeno sono per l’80,03% donne,
contro il 19,97% di uomini (figura 1a). Una ricerca
condotta negli Stati Uniti, circa una decina di anni
fa, dal NVAW (National Violence Against Women), su un
campione formato da 8.000 uomini e 8.000 donne,
ha accertato che l’80% delle vittime erano giovani
donne, di età media intorno ai 28 anni. Tra le vittime
si osserva la netta prevalenza di donne tra i 18 ed i
24 anni. Tuttavia, laddove lo stalker risulta essere un
ex partner il target di età delle vittime diviene sta-
Figura 1. Sesso della vittima (a) e dell’autore (b) di stalking
in Italia (elaborazione dati tratti da www.poliziadistato.it e
da Osservatorio Nazionale Stalking).
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 35

STUDI E RICERCHE
tisticamente significativo tra i 35 ed 44 anni, se non
altro perché in questo range sono più frequenti separazioni
e divorzi. In Italia, dalla ricerca condotta
dall’ONS (Osservatorio Nazionale Stalking) è emerso
un dato sostanzialmente coincidente con la ricerca
statunitense: circa l’80% delle vittime sono donne,
e, per converso, la maggior parte degli stalkers sono
uomini (il 70% è la percentuale italiana, rispetto
all’87% americano, figura 1b).
Figura 2. Vittime degli omicidi in famiglia nel 2008 in Italia
(elaborazione dati Eures-Ansa, rapporto 2009).
Normalmente il persecutore è un maschio di età
compresa tra i 18 e i 50 anni (il 55% un’età compresa
tra i 18 e i 25 anni). In Italia le vittime di stalking sono
prevalentemente donne con un’età compresa più
frequentemente tra i 18 ed i 24 anni (20%), tra i 35 ed
i 44 (6,8%) o dai 55 anni in poi (1,2%) (dal sito
www.stalking.it). Un’indagine australiana ha osservato,
tramite un sondaggio rivolto a 6300 donne, che
è più probabile che la molestia sia commessa da un
uomo; risulta inoltre che il 2,6% delle vittime sposate
o legate stabilmente riferisce non solo che il reo risulta
essere il coniuge o l’ex-partner, ma anche di
aver subito violenza da questi. La violenza fisica,
spesso di natura sessuale, è quindi un tratto distintivo
della vita della vittima (dal sito www.stalking.it).
Nella maggior parte dei casi, la vittima conosce lo
stalker, mentre solo una minoranza risulta essere
stata perseguitata da uno sconosciuto, e ciò è significativo
dell’origine o causa del “comportamento deviato”:
l’intento e l’atto persecutorio nascono, per lo
più, da un legame affettivo/sentimentale finito male,
spesso interrotto per volontà della vittima e non accettato.
I soggetti pienamente capaci, così come
quelli riconosciuti infermi di mente, hanno la tendenza
a rivolgere l’aggressività preferibilmente contro
le persone conosciute.
Come si può vedere dalle statistiche citate, vengono
comunemente rispettati i ruoli tradizionali: il
persecutore è il maschio che seduce e che trattiene
la femmina ed il tutto avviene durante i periodi in
cui entrambi (persecutore e perseguitato) sono sessualmente
fertili. In accordo con l’ipotesi secondo la
36 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
quale l’obiettivo ancestrale dell’aggressività predatoria
del maschio è quello di massimizzare il successo
riproduttivo, si comprende come mai le aggressioni
avvengano, più frequentemente, verso
donne in età fertile. Le donne tendono infatti ad essere
vittime di questi episodi di maltrattamento o
molestia soprattutto durante il periodo fecondo,
quando, sempre secondo una logica evoluzionistica,
c’è il rischio che un’eventuale loro infedeltà porti
alla generazione di prole con un patrimonio genetico
diverso da quello del partner, il quale correrebbe
così il rischio di impegnare risorse nell’allevamento
di figli non suoi, perpetuando un patrimonio genetico
diverso dal proprio.
Il fenomeno dello stalking si produce solo in quella
realtà in cui alle donne è consentito di abbandonare
l’uomo, sia pure a costi socio-emotivi alti e ovviamente
difficilmente si può manifestare laddove il
controllo dell’uomo sulla donna (massimo del marito
sulla moglie) non consente alcuna alternativa: si
consideri, in proposito, che il fenomeno dello stalking
non esiste nel mondo musulmano, dove non
avrebbe ragion d’essere per le sue finalità di ripristino
di una relazione che, in quel contesto, non può
essere interrotta dalla donna. Si è di fronte, in ogni
caso, ad una manifestazione di possesso da parte
dell’uomo: nelle epoche successive all’avvento dell’agricoltura,
le acquisizioni evoluzionistiche sono
spesso diventate elementi di barbarie piuttosto che
di sopravvivenza; in particolare, il senso di proprietà
che l’uomo ha sviluppato nei confronti della donna
ha rappresentato per millenni fonte di soprusi e violenze
ingiustificabili, che si perpetuano ancor oggi,
spesso mascherati da credenze religiose o residui
culturali.
Come nel caso dello stalking, anche l’analisi delle
statistiche relative alla violenza in famiglia dà credito
all’ipotesi esplicativa offerta dalla psicologia
evoluzionistica. Facendo riferimento al rapporto Eures-Ansa,
verranno citati, ove disponibili, i dati aggiornati
al 2008; tuttavia, essendo il rapporto 2009
ancora in fase di elaborazione nel momento in cui si
scrive, si farà riferimento anche al rapporto Eures-
Ansa 2007, relativo all’anno 2006.
Focalizzandosi nello specifico sul fenomeno della
violenza familiare, si può osservare come sia proprio
la famiglia l’ambito principale in cui maturano
gli omicidi: osservando le diverse variabili relative
all’incidenza dell’omicidio familiare sul totale degli
omicidi, nel 2008 il 32,9% degli omicidi con autore
noto, tra quelli censiti, è riferibile all’ambito familiare.
Tuttavia si rileva, negli anni, una tendenza progressivamente
decrescente degli omicidi familiari in
Italia, con 226 vittime nel 2000 e 171 nel 2008, benché
il fenomeno sia comunque molto frequente, con
un omicidio che ogni due giorni avviene in questo
contesto.

Analizzando il profilo della vittima, si può osservare
come la prima e forse più importante tra le variabili
che definiscono la specificità dell’omicidio familiare
sia la prospettiva di genere: come nel caso dello stalking,
le vittime tra le donne sono sempre più numerose
di quelle tra gli uomini, i quali invece rappresentano
la quasi totalità degli autori. Come si può
vedere in figura 2, infatti, sono soprattutto donne le
vittime degli omicidi in Italia (75% dei casi contro il
25% uomini), mentre la fascia di età più colpita è
quella compresa tra i 25 e i 54 anni (50,3% dei casi),
cui seguono le vittime anziane (22,8% gli over 64) e
i minori (8,2%) (tabella 2). Si osservi come le fasce di
età più colpite siano, anche in questo caso, quelle in
età fertile.
Tabella 2. Età delle vittime degli omicidi nel 2008 in Italia
(dati Eures-Ansa, rapporto 2009, in elaborazione)
Età in anni %
64 22,8
Relativamente al profilo dell’autore, possiamo osservare
che l’autore degli omicidi in famiglia è in 8
casi su 10 un uomo (i dati relativi al 2008 indicano
un’incidenza pari all’83%), di età prevalentemente
compresa tra i 25 e i 44 anni. La violenza omicida
espressa dalla componente maschile investe un
gran numero di figure: coniugi, ex coniugi o partner
(che sono le vittime predominanti), genitori, figli,
fratelli/sorelle, ma anche rivali amorosi o familiari
di diverso grado.
Nell’analizzare il movente dell’omicidio, prevale tra
i moventi censiti (tabella 3) quello passionale o del
possesso (26,3% delle vittime), seguito dai conflitti
relazionali del quotidiano (23,4%), da motivi economici
(11,7%), da raptus difficilmente spiegabili dai
comportamenti precedenti l’evento omicidiario
(11,7%), dai disturbi mentali del responsabile (8,8%)
e dalle situazioni di disagio o grave malattia della
vittima (6,4%).
Il movente passionale è conseguente, nella maggior
parte dei casi, alla decisione della donna di abbandonare
il partner e, in numero più limitato, alla
gelosia patologica dell’autore.
In generale, gli omicidi passionali hanno una
lunga maturazione: la carica aggressiva dell’autore
si autoalimenta in una difficile quotidianità, fino a
sfociare nell’azione omicida che, spesso, si verifica
in presenza o in conseguenza di avvenimenti che
assumono una valenza simbolica di rinforzo e diventano
fattori scatenanti (ad es. la sentenza di separazione
o divorzio, l’affidamento dei figli stabilito
dal Giudice o l’instaurarsi di nuove relazioni della
partner).
STUDI E RICERCHE
Tabella 3. Movente degli omicidi in famiglia nel 2008 in
Italia (dati Eures-Ansa, rapporto 2009)
Movente %
Passionale 26,3
Conflitti quotidiani 23,4
Interesse/Denaro 11,7
Raptus 11,7
Disturbi psichici o mentali dell’autore 8,8
Disagio o grave malattia della vittima 6,4
Altro 11,7
Focalizzandoci sull’aspetto relazionale, risulta
particolarmente interessante la variabile della convivenza
tra la vittima e l’autore. Facendo riferimento
ai dati relativi al 2006, nella tabella 4 si può osservare
come il rapporto di convivenza caratterizzi soprattutto
gli eventi che colpiscono le vittime anziane
(78,9 %) o minori (88,9%), mentre per le fasce
giovani, in cui si concentrano gli omicidi passionali,
il rapporto di convivenza non risulta essere un fattore
di rischio (nel 2006, il 69,2% delle vittime dai 18
ai 24 anni e il 55,6% delle vittime dai 25 ai 34 anni
non conviveva con l’omicida). Ciò può essere spiegato
dal fatto che questi omicidi, spesso, sono proprio
conseguenza della fine di una relazione.
Tabella 4. Vittime di omicidio in famiglia in base all’età
della vittima e alla convivenza con l’autore nel 2006 in Italia
(dati Eures-Ansa, rapporto 2007)
Valori percentuali
Età Convivente Non Info non
in anni convivente disponibile
64 78,9 21,1
Se si considerano nello specifico gli omicidi tra
conviventi, si può osservare (figura 3) come la maggior
parte delle donne uccise in famiglia risulti convivente
con l’autore, al contrario degli uomini.
Figura 3. Vittime di omicidio in famiglia in base al sesso
della vittima e alla convivenza con l’autore nel 2006 in Italia
(elaborazione dati Eures-Ansa, rapporto 2007)
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 37

STUDI E RICERCHE
Figura 4. Vittime di omicidio in famiglia in base alla relazione
con l’autore principale nel 2006 in Italia (elaborazione
dati Eures-Ansa, rapporto 2007)
Come si evince dalla figura 4, è nel rapporto “orizzontale”
che si conta la percentuale più elevata di
vittime di omicidio (35,9 % delle vittime tra i coniugi
o conviventi, 13,3 % tra gli ex). Nei diversi rapporti di
coppia, la vittima è, anche in questo caso, prevalentemente
di sesso femminile. Si osserva una prevalenza
di vittime maschili solo negli omicidi commessi
tra parenti al di fuori del rapporto di coppia
(figli, fratelli o altri parenti) e, ovviamente, nel caso
di rivali, in cui il maschio uccide un altro maschio
che insidia la sua partner (figura 5).
Figura 5. Relazione vittima/autore in base al sesso delle
vittime nel 2006 in Italia (elaborazione dati Eures-Ansa,
rapporto 2007)
Come già sottolineato, la dimensione di coppia
rappresenta, tra gli omicidi in famiglia, il contesto
in cui si concentra la maggioranza dei casi. In Italia,
dal 2000 al 2006, gli omicidi di coppia hanno superato
costantemente le 100 unità (con la sola eccezione
del 2005, quando sono stati 80).
Nel 2006, al momento dell’omicidio, autore e vittima
erano prevalentemente coniugati e conviventi
(57,3%). Se consideriamo che l’11% degli omicidi di
coppia è avvenuto tra conviventi non coniugati, risulta
che la convivenza caratterizza, complessivamente,
il 69% degli eventi. Il 25,2% degli omicidi è
invece avvenuto dopo la fine della relazione di coppia
(figura 6).
38 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Figura 6. Omicidi di coppia in base alla relazione al momento
dell’omicidio nel 2006 in Italia (elaborazione dati
Eures-Ansa, rapporto 2007)
Negli omicidi di coppia, le donne costituiscono le
vittime quasi esclusive (91,4%, a fronte dell’8,7% di
uomini). Nel complesso degli omicidi familiari, le
donne rappresentano il 68,7 % (dati riferiti al 2006).
Il sesso prevalente della vittima è sempre quello
femminile.
Un ultimo dato interessante riguarda gli omicidi
di coppie separate: in 15 casi su 16 per i quali si dispone
di un’informazione credibile (pari al 93,8% del
fenomeno noto), il soggetto attivo nella decisione
della separazione intervenuta è la vittima dell’omicidio;
solo in un caso è stato l’autore dell’omicidio a
volere la separazione (figura 7). Nella quasi totalità
dei casi è quindi il partner che non accetta la fine
della relazione a manifestare aggressività verso l’altro,
opponendosi alla sua decisione, fino ad arrivare
all’omicidio. Come abbiamo visto precedentemente,
tali dinamiche possono rappresentare l’esito di una
estrema volontà di possesso e possono trovare una
spiegazione nella psicologia evoluzionistica.
Figura 7. Omicidi di coppia separata: il soggetto “attivo”
nella separazione nel 2006 in Italia (elaborazione dati Eures-Ansa,
rapporto 2007)
La spiegazione evoluzionistica del comportamento
umano non pretende in alcun modo di fornirne
una giustificazione. Anche se l’aggressione
può essere ricondotta a meccanismi evolutivi, non si
sostiene certo che essa non possa essere prevenuta
o che si debba semplicemente accettare il suo veri-
Segue a pag. 51

Mediazione e Conciliazione
LA MEDIAZIONE DOPO LA RIFORMA
CON IL DECRETO LEGISLATIVO N. 28
DEL 2010 E LA LEGGE N. 183 DEL 2010
di CLAUDIO CECCHELLA
PROFESSORE DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE A PISA,
AVVOCATO DEL FORO DI PISA
1. L’origine privatistica dei tentativi obbligatori
Sul piano legislativo una disciplina della conciliazione
è espressione della più recente evoluzione
normativa, alla fine del secolo scorso e all’inizio del
presente, dovuta al rilievo nell’ordinamento dello
Stato offerto ad alcune esperienze, espressione dei
corpi intermedi della società civile, associazioni e
società, i cui statuti ed atti costitutivi contenevano
una clausola di obbligo degli associati o soci ad
esperire, prima di avviare la domanda di tutela dei
diritti in sede giurisdizionale, un tentativo di conciliazione
svolto in seno all’organo dell’associazione o
società.
Il fenomeno era noto soprattutto nell’ambito associazionistico
sviluppatosi attraverso il movimento
sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro, che offriva
istanze conciliative e arbitrali alla risoluzione
della controversia, prima che essa attingesse alla
giurisdizione (molto più conciliative che arbitrali,
nel segno della scarsa evoluzione e maturità del movimento
sindacale in Italia, a dispetto delle forme di
giustizia privata più evolute manifestate nella realtà
anglosassone e nordamericana).
Si trattava, evidentemente, di un modo attraverso
il quale il corpo intermedio tentava di trattenere a sé
la lite, evitando che attingesse agli organi di giustizia
dello Stato.
L’esperienza di tentativo obbligatorio di conciliazione
nell’ambito associazionistico è emerso non
solo nel diritto del lavoro, ma anche nel diritto agrario
e nel diritto delle locazioni.
Il legislatore ha fatto emergere un’esperienza di
conciliazione come condizione dell’azione, nel
1978, in relazione alle controversie locatizie sull’equo
canone, nel 1982 nelle controversie agrarie e
nel 1998 nelle controversie di lavoro. In questo
modo il tentativo obbligato riconciliazione non è
stato altro che il recepimento delle esperienze privatistiche
di autonomia privata dell’associazionismo
sindacale.
DOSSIER
2. La conciliazione giudiziale secondo la più recente
normativa
L’ordinamento in precedenza conosceva solo
l’esperienza di una conciliazione facoltativa ma all’interno
della giurisdizione, attraverso una normativa
che oggi è tutta contenuta nell’art. 185 c.p.c. per
il rito ordinario.
Nel rito del lavoro invero, a partire dal 1973 la conciliazione
giudiziale non è più facoltativa, essendo
imposto un previo tentativo, all’udienza di discussione
ex art. 420 c.p.c.
Invero anche nel rito ordinario, a seguito della riforma
dovuta dalla legge n. 353 del 1990 il tentativo
di conciliazione in limine litis era diventato obbligatorio,
secondo il modello del rito lavoro. A seguito
della novella del 2005, con la legge numero 80, il tentativo
si è tuttavia trasformato in facoltativo (essendo
prevalsa con la complicità del giudice una
prassi contraria), su istanza delle parti oppure su
iniziativa discrezionale del giudice. Questo nella formulazione
dovuta alla recente novella, l’articolo 185
c.p.c. sancisce altresì il diritto della parte di farsi
rappresentare da un procuratore speciale, da delegare
con atto pubblico o scrittura privata, eventualmente
anche autenticata dal difensore tecnico. La
norma non offre rilievo nel giudizio agli atti, alle dichiarazioni
e informazioni acquisite in sede di tentativo,
salvo che il rappresentante della parte, senza
giustificato motivo, non conosca i termini della controversia
in vista del tentativo, poiché in tal caso da
tale comportamento il giudice può desumere argomenti
di prova (che come è noto non consentono di
fondare la decisione, ma di dirigere il libero apprezzamento
nella prova libera).
Vi è stato tuttavia un recente intervento, pure in
relazione al tentativo di conciliazione nelle controversie
di lavoro. A seguito della recente legge n. 183
del 2010 è stato novellato l’articolo 420 c.p.c., il quale
ha conservato il carattere obbligatorio del tentativo;
ma contro una secolare tradizione, il giudice può
dare - secondo la nuova formulazione - rilevanza nel
giudizio all’ingiustificato rifiuto della parte di aderire
alla proposta mediativa che lo stesso giudice formula:
si tratta di una scelta molto inopportuna per il
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 39

DOSSIER
concreto svolgersi positivo del tentativo, come sarà
possibile evidenziare nella trattazione che segue.
Viene, poi, consacrato un ruolo mediativo del giudice
che non è solo inopportuno, ma che rischia di
fare oscillare pericolosamente il giudicante sull’orlo
della ricusazione. Sin tanto che il giudice tenta la
conciliazione, mantenendo una posizione neutrale,
nulla quaestio; ma quando il giudice viene spinto a
suggerire la soluzione conciliativa è difficile pensare
che non esprima un parere o peggio ancora non anticipi
una pronuncia (art. 50, n. 4, c.p.c.). Il giudice
deve svolgere il delicato compito di giudicare, la mediazione
deve essere affidata ad organismi estranei
alla giurisdizione, altrimenti viene snaturata la posizione
di terzietà ed imparzialità del giudicante che
ha il rango di principi della Costituzione.
Differentemente del rito ordinario, ove il tentativo
è facoltativo, permane nel rito del lavoro l’obbligatorietà,
che la giurisprudenza ha sanzionato di nullità
in caso di mancato esperimento, con un orientamento
molto severo, poi non confermato in sede
di rito ordinario, nel breve periodo della obbligatorietà
(dl 1995 al 2005).
3. La conciliazione stragiudiziale ovvero la mediazione
obbligatoria su fonte convenzionale
Accanto ad un’esperienza di conciliazione giudiziale,
di cui si sono delineati i tratti nella più recente
produzione normativa, come abbiamo già veduto, il
legislatore ha tenuto presente un’esperienza conciliativa
obbligatoria nell’espressione dell’autonomia
privata.
40 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Vi è da dire, tuttavia, che sin tanto la obbligatorietà
sul piano convenzionale non fosse stata recepita
dal legislatore, le clausole che imponevano sul
piano privatistico l’obbligo erano nulle perché dstinate
ad incidere su di una funzione pubblica come
la giurisdizione, la quale può essere limitata solo da
negozi giuridici tipici, come l’accordo sulla competenza
o sulla giurisdizione nei casi consentiti, la
convenzione d’arbitrato, per fare degli esempi.
Il legislatore nel recepire le clausole contrattuali,
non ha fatto altro che tipizzarle e quindi legittimarle.
L’articolo 5, 5° comma, del d. lgs n. 28 in esame attribuisce
per la prima volta ai patti che impongono
un tentativo di conciliazione contenuti in un contratto
o nell’atto costitutivo o nello statuto di un ente
lo stesso effetto di un tentativo obbligatorio ex lege.
In questo modo il recepimento della evoluzione
della conciliazione, come manifestazione della autonomia
privata, raggiunge l’apice.
4. La conciliazione stragiudiziale nel diritto del lavoro
A fronte della tradizione secolare di una conciliazione
obbligatoria nel diritto del lavoro, con la legge n.
183 del 2010 il legislatore ammette nelle controversie
ex art. 409 c.p.c. un tentativo di conciliazione solo facoltativo
nel nuovo testo novellato dell’art. 410 c.p.c. (è
da pensare che l’eventuale obbligatorietà sancita da
clausola di fonte collettiva possa comunque rientrare
nell’art. 5, 5° comma, poc’anzi commentato).
Deroga all’inaspettata liberalizzazione la controversia
sulla qualificazione del rapporto di lavoro in

sede di certificazione intersindacale, dove è previsto
un tentativo obbligatorio davanti all’apposita
commissione, nel contesto del quale la stessa
norma (art. 80 del d. lgs n. 276 del 2003) offre rilievo
al comportamento complessivo della parte solo agli
effetti della regolamentazione delle spese e dei
danni per l’attività processuale, artt. 91, 92 e 96 c.p.c.
Al contrario (il legislatore non smette mai di sorprendere
l’interprete) il comportamento della parte
di mancata accettazione della proposta mediativa ha
rilievo ai fini del giudizio, il che vuol dire che - contro
la disciplina adottata nella mediazione di diritto
comune con il d. lgs. n. 28 v infra par. 10, ove il riflesso
è soltanto sulle spese - incide, ma non è dato capire
in che termini, sul merito della controversia (art. 411,
2° comma, c.p.c.). Di fronte alla lacuna, l’interprete
ormai abituato ad acrobazie nell’applicazione della
norma processuale, è da pensare che il rilievo sia soltanto
quello di un argomento di prova, non certo di
una prova vera e propria. Il danno provocato alla libertà
di espressione delle parti nel tentativo è tanto
ed è minato alla radice il successo della conciliazione
che rende del tutto inutile la previsione legislativa
contenuta nell’art. 410 c.p.c.
Ancora difformemente dalla soluzione di diritto
comune, con una scelta questa volta migliore, l’exequatur
del verbale di perfezionamento della conciliazione
(con il doppio passaggio presso la Direzione
provinciale del lavoro, art, 411, 3° comma c.p.c., in
caso di conciliazione sindacale), affidato al tribunale
in qualità di giudice del lavoro (e non del suo presidente)
si conserva sul binario di una valutazione di
regolarità formale senza oltrepassare il confine di un
rito contenzioso avente ad oggetto il rispetto della
norma imperativa (continuando a valere nelle controversie
di lavoro la stabilità dell’ultimo comma dell’art.
2113 c.c., in caso di violazione della norma imperativa
di legge o di contratto o accordo collettivo).
Altra novità degna di rilievo, pure essa non rinvenibile
nella disciplina comune, è la possibilità di offrire
alla commissione di conciliazione intersindacale
un mandato per una risoluzione arbitrale della
controversia, art. 412, 1° comma, c.p.c., che conduce
però al diverso argomento, non meno rilevante agli
effetti del calmieramento del contenzioso giurisdizionale,
dell’arbitrato.
5. La nuova ipotesi di una conciliazione giudiziale
affidata ad un’istanza stragiudiziale
Ma la riforma ha un altro pregio (che la successiva
legge sulle controversie di lavoro non coglie), quella
di ammettere un’iniziativa del giudice, che deve manifestarsi
prima della udienza di precisazione delle
conclusioni o di discussione (perchè da quel momento
in poi il giudice deve assumere il suo ruolo
di dispensatore di un giudizio, in cui una parte vince
e una parte perde), volta ad affidare le parti ad
un’istanza di mediazione stragiudiziale.
DOSSIER
Il profilo, per chi ha esperienza pratica di controversie,
non può non essere ritenuta assai opportuna,
ogni qual volta si avverte che le parti sono vicine ad
una conciliazione della controversia, opportuna perché
affida il tentativo ad uno svolgimento esterno
alla giurisdizione, nel quale non può né deve essere
coinvolto il giudice, il cui compito è di giudicare e non
di mediare (disastrosa nella diversa formulazione già
colta per le controversie di lavoro, cfr par. 2).
Naturalmente il tentativo del giudice deve incontrare
la volontà delle parti e l’effetto è ancora quello
di un tentativo obbligatorio di mediazione, di cui si
dirà tra breve (par. 6).
6. Il tentativo obbligatorio ex lege, in particolari materie,
il suo effetto e la sua costituzionalità
L’art. 5, 1° comma, del d. lgs. n. 28 individua alcune
materie (con una soluzione in alcuni casi incomprensibile,
per cui se ne lascia la lettura ad una diretta
percezione della norma) nelle quali l’azione
deve essere preceduta da un tentativo obbligatorio,
presso un organismo abilitato secondo le previsioni
della legge e del regolamento attuativo.
La violazione della disposizione deve essere rilevata
dalla parte che ne ha interesse e dal giudice entro
la udienza di trattazione (quando invece è fondata
su di un contratto, il rilievo è comprensibilmente
solo della parte nel primo atto difensivo, 5°
comma).
Il rilievo non conduce ad una sentenza processuale
di inammissibilità dell’azione che chiude il processo
in rito, né ad una sospensione del processo come
condizione di procedibilità della domanda, crea (a valere
anche per le altre ipotesi della conciliazione ex
contractu o stimolata dal giudice, parr. 3 e 4) semplicemente
un rinvio della udienza per un lasso di
tempo sufficiente a consentire l’esperimento del tentativo:
quattro mesi ex art. 6 del d. lgs. n. 28 del 2010.
Si tratta di una soluzione pregevole, sul piano
della opportunità e sul piano della costituzionalità.
Della opportunità, poiché esclude l’onere della riassunzione
a carico della parte, con tutte le problematiche
imposte dal rispetto di termini perentori che
possono in caso di inosservanza integrare una fattispecie
estintiva del processo, con grave perdita degli
effetti sostanziali e processuale della domanda.
Della costituzionalità, poiché l’azione giurisdizionale
può essere condizionata ma non esautorata dei
suoi effetti e prima di tutto degli effetti della domanda,
a cui conduce l’ipotesi della inammissibilità
diversamente da quello della improcedibilità,
che quegli effetti fa salvi. Quindi è in linea con la garanzia
costituzionale dell’azione un tentativo obbligatorio
la cui violazione non conduce ad una definizione
in rito del processo, ma solo una pausa in
esso (la improcedibilità), che conserva gli effetti
della domanda originaria (contrariamente all’esperienza
giurisprudenziale delle controversie agrarie).
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 41

DOSSIER
7. Le controversie nel diritto della famiglia
Sorprendentemente, salvo il fugace cenno ai patti
di famiglia, il legislatore dimentica la materia più bisognevole
di un intevento mediativo, per i costi sociali
e personali della controversia familiare, che trascina
con sé assai spesso gli interessi del minore.
L’occasione era ghiotta per una codificazione, magari
con norma ad hoc.
Si è forse voluto tenere fuori la materia dalla competenza
degli organismi di conciliazione, poco preparati
professionalmente a ricevere il contenzioso
familiare. Certamente il diritto di famiglia necessita
di una previsione non più procastinabile.
Il tutto resta relegato alla lacunosa disciplina dell’art
155-sexies, 2° comma, c.c., che abilita il giudice,
prima di pronunciare i provvedimenti di affidamento,
ma solo sul consenso delle parti, ad avviare
un intervento mediativo da parte di esperto (magari
come è prassi in sede di consulenza). La norma lascia
incerta la serietà del centro di mediazione ove
il giudice potrà rivolgersi (a differenza dei criteri selettivi
di individuazione degli organismi dispensatori
di mediazione nel diritto comune) e già per questo
necessita di una disciplina integrativa, che auspicabilmente
dovrà ripensare le soluzioni generali
per l’intera materia.
8. Le esenzioni
La stessa ragione costituzionale, che fa divieto di
una definizione in rito del processo in difetto di
esperimento del tentativo, ne esclude il rilievo in relazione
ad una domanda cautelare, che non tollera
ritardi rispetto alla sua funzione di prevenire un
danno grave ed irreparabile al diritto.
Per la identica funzione latu sensu cautelare,
ugualmente non tollera ritardi la trascrizione della
domanda. Art. 5, 3° comma cit.
L’esenzione è tuttavia ampliata dal legislatore, per
il caso dei procedimenti a cognizione sommaria:
monitori (di ingiunzione e convalida di licenza e di
sfratto), possessori, camerali. Ma anche procedimenti
a cognizione piena: l’opposizione a decreto
ingiuntivo sino ai provvedimenti anticipatori ex artt.
648 e 649 c.p.c.; i procedimenti di cognizione incidentali
nel processo esecutivo; i procedimenti civili
esercitati in sede penale.
La ratio si fa apprezzare, per i procedimenti sommari,
il cui carattere anticipatorio è incompatibile
con le pause imposte dal tentativo (a valere anche
per quelli pronunciati in sede di opposizione a decreto
ingiuntivo).
Quanto agli altri casi a cognizione piena, è la particolare
sede - quella esecutiva o quella penale - che
rende meno opportuno il tentativo.
9. I riflessi sugli obblighi del difensore tecnico
Il legislatore ha ritenuto opportuno far gravare sui
difensori tecnici gli obblighi di informativa alle parti,
42 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
senza neppure concedere agli avvocati un ruolo istituzionale
nel tentativo, pur nel rilievo delle opzioni
esercitate in esso dalle parti, seppure solo ai fini
delle spese in sede giurisdizionale.
La violazione degli obblighi di informativa, da formalizzare
con modalità tassative (in forma scritta
con atto da allegare all’atto introduttivo, art. 4, 3°
comma, d. lgs n. 28), ha conseguenze sulla validità
del mandato, rendendolo annullabile, quindi invalidabile
su istanza di parte.
La disciplina è assai criticabile per vari aspetti.
Perché rovescia sul difensore tecnico le conseguenze
della disinformazione, minando i suoi diritti
nascenti dalla prestazione di lavoro intellettuale,
con il privare di effetti il mandato che ne costituisce
il titolo.
Perché non lascia intendere le conseguenze sugli
atti processuali compiuti: l’invalidazione ne provoca
la caducazione e la non riferibilità alla parte? Con
tutte le conseguenze in termini di nullità o addirittura
inesistenza degli atti, colpendo a morte il valore
della certezza degli atti del processo.
In difetto di prova dell’informativa, l’obbligo si trasferisce
nel giudice in udienza.
10. La processualizzazione del tentativo
Avere affidato la lite sui diritti ad un procedimento,
seppure destinato ad una soluzione conciliata,
rende inevitabile la necessità che in esso penetrino
le garanzie del giusto processo.
Il principio della domanda, poiché l’istanza deve
contenere tutti gli elementi di una sua identificazione,
in difetto il tentativo non potrà dirsi esperito
sull’oggetto della domanda (art. 4, 2° comma d. lgs.
n. 28) e produce tutti gli effetti della domanda sulla
prescrizione e sulla decadenza, art. 5, 6° comma, con
un effetto sospensivo della decadenza, ma per una
sola volta.
Il principio di terzietà e imparzialità del mediatore
(art. 14), a cui si devono informare i regolamenti
degli organismi di conciliazione, art. 3, 2° comma, d.
lgs. cit., e di cui è corollario il dovere di riservatezza
(art. 9 d. lgs. cit.).
Il principio del contraddittorio, rendendosi necessario
che il destinatario del tentativo sia reso edotto
della istanza e dei suoi contenuti in forme idonee
allo scopo (art 8, 1° comma, d. lgs, cit.).
Al contrario il legislatore sembra dimenticare il
principio dell’organo precostituito per legge, fissando
la competenza sulla base dell’iniziativa della parte
che si è mossa per prima, art. 4, 1° comma d. lgs. cit.
11. Gli effetti della conciliazione fallita
La concreta possibilità di giungere ad un esito positivo
del tentativo è abbandonato alla libertà delle
parti di esprimere le proprie pretese e soprattutto la
disponibilità a concederle, seppure in parte, alla corrispondente
concessione dell’altra, nella logica della

transazione; libertà che impone di rendere immuni
le dichiarazioni, gli atti e le informazioni acquisite in
sede di tentativo, nella futura sede giurisdizionale.
Contrariamente le parti sarebbero restìe a concedersi
con libertà e senza pregiudizi alle tecniche di
conciliazione offerte dal mediatore.
Per questa ragione, e correttamente (in contrasto
con la successiva scelta del legislatore delle controversie
di lavoro, cfr. par. 2 e 4) l’art. 10 sancisce l’irrilevanza
di dichiarazione e informazioni acquisite
nella successiva sede giurisdizionale.
Naturalmente l’ingiustificato ostruzionismo a
partecipare al tentativo è sanzionato come comportmento
valutabile ex art 116, 2° comma, c.p.c., opportunamente
richiamato dall’art. 8 del d. lgs. cit.
La norma protegge intensamente l’immunità
della parte, col divieto di prova testimoniale, sinanche
del deferimento del giuramento decisorio sul
fatto verificatosi in occasione del tentativo e con il
segreto che può essere invocato dal mediatore (e
non soltanto innanzi all’autorità giurisdizionale).
L’immunità può essere solo rimossa dalla parte
che ne ha interesse (art. 10, 1° comma, cit.).
Anche la mancata adesione alla proposta mediativa
non può avere rilievo sul merito della successiva
controversia giurisdizionale, salva la regolamentazione
sulle spese.
Quest’ultimo aspetto rende necessario un approfondimento.
L’art. 13 del d. lgs. cit., sancisce una graduazione,
tra un obbligo e un potere discrezionale del giudice.
Obbligo, se il giudizio finale coincide con la proposta
mediativa, di escludere il vincitore dal recu-
DOSSIER
pero delle spese di giudizio e di conciliazione e di
condannarlo a pagare le spese dell’altro, sino all’applicazione
anche di una sanzione economica ulteriore
a favore dello Stato. Tuttavia il richiamo all’art.
92 c.p.c. e alla opzione in esso codificata sulla
compensazione delle spese, lascia spazio per una
scelta che consente l’esercizio di un potere discrezionale
anche nell’ipotesi. Il giudice potrà comunque
fare uso anche degli effetti condannatori imposti
dalla responsabilità processuale aggravata ex art.
96 c.p.c. (particolarmente 3° comma); qui il legislatore
aggiunge un profilo sul quale non avremo certamente
dubitato.
Il potere di regolamentazione delle spese è invece
discrezionale se il giudizio finale si discosta dalla
proposta mediativa, poiché in tal caso il giudice può
escludere il recupero delle spese sostenute nella
fase di conciliazione, ma solo per gravi ed eccezionali
ragioni.
Resta da intendere come possa inserirsi l’art. 91,
1° comma, c.p.c., nel testo dovuto alla legge n. 69 del
2009, che la riforma introdotta con il d. lgs n. 28
ignora.
L’applicazione della norma codicistica è evidentemente
presclusa nel caso della coincidenza tra
contenuti del giudizio finale e proposta mediativa,
poiché in tal caso è applicabile l’art. 13, 1° comma e
al massimo l’art. 92 c.p.c.
È invece un alternativa praticabile dal giudice, rispetto
al 2° comma dell’art, 13 cit., quando non vi è
perfetta coincidenza tra giudizio e mediazione, consentendo
al giudice di esonerare la regolamentazione
delle spese dal principio di soccombenza, cui
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 43

DOSSIER
si sostituisce quello del rifiuto ingiustificato ad aderire
alla proposta mediativa; anche in tal caso è comunque
fatto salva la misura della compensazione
parziale o totale dell’art. 92 c.p.c.
In tutti i casi, secondo l’evoluzione legislativa che
ha caratterizzato l’art. 92 c.p.c., il giudice deve motivare
in modo espresso ed esplicito le sue determinazioni
sulle spese, consentendo un sindacato anche
del giudice di legittimità.
Ponendosi la regola sulle spese in relazione alla
proposta mediativa e alla giustificatezza o meno delle
ragioni che hanno spinto la parte a non aderirvi, questo
tema deve essere ulteriormente approfondita.
Il tentativo invero non conduce sempre ad una
proposta mediativa, potendo questa discendere da
un’iniziativa discrezionale del mediatore, dovuta
solo se le parti lo richiedono (art. 11, 1° comma, cit.).
Nel caso di proposta mediativa effettivamente praticata
si innesta un vero e proprio procedimento che
avvia la manifestazione di un’espressione esplicita
delle volontà delle parti in reazione alla proposta,
preceduta da opportuno ammonimento del mediatore
alle parti sulle conseguenze di un ingiustificato
rifiuto di aderire.
Gli arbitri sono affidatari di una maggiore discrezionalità
anche nelle misure sulle spese, perché non
assoggettati alle disposizioni sin qui commentate
(art. 13, 4° comma).
12. Gli effetti della conciliazione perfezionata
Se alla proposta mediativa aderiscono le parti o
se comunque queste si conciliano, il mediatore
forma verbale degli accordi e autentica le sottoscri-
44 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
zioni (con una funzione che non pare consentire
una pubblica fede sino a querela di falso: ne è riprova
la necessità della autentica da parte di un
pubblico ufficiale, nel caso che il verbale contenga
patti che rendono necessaria la trascrizione).
Gli accordi possono essere rafforzati con misure
coercitive, sul modello di quelle introdotte con la
legge n. 69 del 2009, dall’art. 614 - bis c.p.c.
Il verbale è titolo per l’esecuzione, sia espropriativa
che in forma specifica (art. 12), nonché per
l’iscrizione di ipoteca, ma tale efficacia discende
dall’exequatur concesso dal presidente del tribunale.
Su questo exequatur si addensano ulteriori nubi
nelle scelte legislative.
Non si tratta - dopo una tradizione secolare per
conciliazione e arbitrato - di un controllo di sola regolarità
formale (provenienza dell’atto e autenticità
delle sottoscrizioni), ma di un controllo sostanziale
di legalità, essendo richiesto al presidente un sindacato
sul rispetto delle norme imperative e di ordine
pubblico. Tutto ciò trascina su un piano di incertezza
l’esecutività, conducendola ad una sostanza
contenziosa che non ha ragione di essere,
ove si pone seriamente il problema della difesa tecnica
della parte e della garanzia del controllo di legittimità
innanzi alla Suprema Corte.
Peraltro in materie, come quella laburistica e affini
(ex art. 2113 c.c., ultimo comma), la conciliazione
era ed è destinata a resistere anche alla violazione
della norma imperativa, resistenza che non è riconosciuta
dalla recente riforma, non resta che prenderne
atto in termini di nuove e futuri contenziosi,
anche a seguito di una conciliazione perfezionata.

Mediazione e Conciliazione
DIRITTO DI FAMIGLIA E MEDIAZIONE
FINALIZZATA ALLA CONCILIAZIONE
DELLE CONTROVERSIE CIVILI
di GIANFRANCO DOSI
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Il nuovo sistema della mediazione finalizzata alla
conciliazione stragiudiziale delle controversie civili,
annunciato dall’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n.
69 e attuato con il decreto legislativo 4 marzo 2010,
n. 28 1 , ha scelto decisamente la strada del cambiamento
radicale.
La riforma ha introdotto un sistema completamente
alternativo che fa leva in generale sul principio
secondo cui “chiunque può accedere alla mediazione
per la conciliazione di una controversia civile e commerciale
vertente su diritti disponibili” (art. 2 decreto legislativo
28/2010) e, in particolare, sull’obbligo nella
maggior parte delle controversie civili e commerciali
- tassativamente indicate nell’art. 5 del decreto - di
promuovere il procedimento di mediazione finalizzato
alla eventuale conciliazione, prima di intraprendere
la strada giudiziaria.
In questa sede mi interessa riflettere sul se e in
che modo il diritto di famiglia possa essere toccato
e interessato dalla riforma.
Per far questo è opportuno esaminare la portata
del richiamo ai “diritti disponibili” che viene fatto nell’art.
2 del decreto legislativo. Correlati a questa disposizione
sono anche l’art. 12 del decreto legislativo
che condiziona l’omologazione dell’accordo
conciliativo alla circostanza che il suo contenuto
non sia contrario all’ordine pubblico o a norme imperative
e l’art. 14 che, conseguentemente, occupandosi
degli obblighi del mediatore, prevede che egli
debba formulare le proposte di conciliazione nel rispetto
del limite dell’ordine pubblico e delle norme imperative.
a) I diritti indisponibli
La riflessione può partire quindi dall’art. art. 2 del
decreto legislativo 28/2010 nella parte in cui dispone
che possono essere oggetto di mediazione tutte le
controversie civili e commerciali su diritti disponibili.
In verità il nostro ordinamento giuridico non conosce
più la differenziazione tra diritto civile e diritto
commerciale - quanto meno dall’abrogazione
DOSSIER
del codice di commercio del 1882 avvenuta nel 1942
- e quindi si deve ritenere che l’espressione abbia un
significato generico come escludente il diritto penale,
quello tributario e quello amministrativo collegato
all’esercizio di poteri pubblici. Così si è andata
orientando la interpretazione più ragionevole
del decreto 2 .
Pertinente è, invece, l’altra indicazione proveniente
dall’art. 2 del decreto di riforma e cioè quella,
appunto, riferita al fatto che alla mediazione può
farsi ricorso solo se la controversia verte su diritti disponibili.
È utilizzata la stessa terminologia dell’art. 806 del
codice di procedura (“le parti possono far decidere da
arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano
per oggetto diritti indisponibili“) e quindi la natura disponibile
del diritto è presupposto sia per l’accesso
alla mediazione che per l’accesso all’arbitrato, sia
pure - per quest’ultimo - con le limitazioni che lo
stesso articolo 806 prevede per le controversie di lavoro
ove l’arbitrato sia previsto dalla legge o dalla
contrattazione collettiva.
Si tratta quindi di verificare quale sia l’area delle
controversie esclusa dalla mediazione (e dall’arbitrato),
cioè quale sia l’area della indisponibilità dei
diritti.
Una prima scrematura può essere proposta rifacendosi
al testo dell’art. 806 c.p.c. precedente alla riforma
del 2006. Allora la norma escludeva dalla possibilità
del ricorso all’arbitrato quattro categorie di
controversie: 1) quelle previste nell’art. 409, cioè le
controversie di lavoro; 2) le controversie in materia
di previdenza e assistenza obbligatoria, anche derivanti
da contratti e accordi collettivi; 3) le controversie
relative alle questioni di stato e alla separazione
personale tra coniugi; 4) infine “le altre che non
possono formare oggetto di transazione”.
Come è noto la transazione può concernere solo
diritti indisponibili (art. 1966 c.c.) e quindi conciliazione
e transazione - pur essendo certamente istituti
non necessariamente sovrapponibili - trovano
nell’indisponibilità dei diritti un comune punto di
incontro. Ed è interessante notare come queste convergenze
finiscono per essere anche indicative di
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una medesima potenzialità che è quella di promuovere
una negoziazione anche diretta alla conciliazione
di rapporti ulteriori rispetto a quelli oggetto
della pretesa. L’art. 1965 c.c. infatti dopo aver dato la
definizione del contratto di transazione prevede che
“con le reciproche concessioni si possono creare,
modificare o estinguere anche rapporti diversi da
quello che ha formato oggetto della pretesa o della
contestazione”.
Anche l’equità è coinvolta dal tema della disponibilità
dei diritti. L’art. 114 c.p.c. precisa infatti che “il
giudice… decide il merito della causa secondo equità
quando esso riguarda diritti disponibili delle parti e queste
gliene fanno concorde richiesta”.
L’indisponibilità coincide con la legittimità a trasferire
ad altri un diritto. I diritti indisponibili sono
quelli inalienabili e intrasmissibili, irrinunciabili e
impignorabili e non usucapibili. Quelli in sostanza
di cui il titolare non può disporre e che quindi non
può trasferire 3 .
Non sempre è facile comprendere quali siano i
criteri che consentano di distinguere la natura disponibile
da quella indisponibile del rapporto oggetto
di una controversia. Basta guardare ai dibattiti
in sede civilistica che hanno accompagnato la riflessione
per esempio sulla transazione 4 , sull’equità 5
e, come si diceva all’inizio, sull’arbitrato 6 .
Ed ora questo dibattito si ripropone per la mediazione
e la conciliazione 7 .
Il tema è stato oggetto di recente di un approfondimento
giuridico interessante legato ad una pronuncia
del Tribunale di Varese il quale in un giudizio
di disconoscimento di paternità ha ritenuto che il
principio di non contestazione, così come disciplinato
dall’art. 115, comma 1, c.p.c. dopo la riforma intervenuta
con la legge 69/2009, non trova applicazione
laddove la controversia abbia ad oggetto diritti
indisponibili della persona. 8 La decisione ha indotto
- anche tra i familiaristi - una riflessione sul
tema proprio della latitudine del concetto di indisponibilità
dei diritti.
Si è ben sintetizzato in proposito 9 che la dottrina
ha individuato tre distinte nozioni di diritto indisponibile:
a) le ipotesi in cui il vincolo di indisponibilità
mira a tutelare direttamente un determinato
interesse di natura non patrimoniale (diritti della
personalità, come il diritto all’immagine. alla riservatezza);
b) ipotesi in cui il vincolo di indisponibilità
tutela in via immediata un interesse individuale ma
in via riflessa un interesse generale (per esempio i
casi in cui si può azionare la revocatoria, o in cui si
può chiedere un sequestro conservativo o l’inefficacia
delle alienazioni del bene pignorato; qui siamo
nel campo della tutela garantita in via generale dall’art.
2740 c.c. che individua proprio i limiti di disponibilità
sui propri beni del debitore; c) ipotesi in
cui il legislatore ha previsto l’indisponibilità a tutela
di interessi che trascendono quello dei singoli, come
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i limiti al diritto di proprietà (per esempio l’intrasferibilità
del diritto di uso e abitazione).
Conseguenza di questa prima valutazione è che
non potranno essere mai oggetto di un procedimento
di mediazione le controversie collegate alla
violazione di un diritto personalissimo o alla violazione
della disciplina sulla tassatività delle limitazioni
della responsabilità patrimoniale del debitore
(si pensi all’azione revocatoria) ovvero, ancora, alla
violazione dei limiti di trasferibilità del diritto di
proprietà.
A ben vedere l’individuazione che i civilisti operano
dell’area della indisponibilità dei diritti è molto
rigorosa e quasi eccezionale. Si può dire, quindi, che
non si tratti di un’area particolarmente ampia, considerato
che nel campo dei rapporti civili vale in genere
proprio il principio opposto della libertà di autodeterminazione,
di cui è espressione più sintomatica
l’art. 1322 c.c.
Per quanto concerne le controversie in materia di
nullità dei contratti seppure la giurisprudenza le ritiene
vertenti su diritti disponibili 10 occorre riconoscere
che - come meglio si dirà più oltre - quanto
meno le cause di nullità del contratto per illiceità o
per contrarietà alle norme di legge costituiscono situazioni
di contrasto dell’atto privato con norme
imperative e quindi indisponibili. Pertanto si deve
ritenere che le controversie concernenti tali categorie
di nullità del contratto non possano essere oggetto
di mediazione finalizzata alla conciliazione,
anche in considerazione del fatto che non è opportuno
attribuire alle parti il potere di ottenere con un
atto di disposizione un effetto vietato dalla legge.
Possono essere oggetto di mediazione le controversie
relative all’impugnazione di atti o delibere societarie
che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi
al rapporto sociale nonché le controversie promosse
da amministratori, liquidatori o sindaci, ovvero
nei loro confronti (così argomentando dall’art.
34 decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5). Tutto ciò
nella prospettiva di una ormai generalizzata arbitrabilità
di tali controversie 11 e perciò anche di una
loro mediabilità.
b) Le controversie familiari
Il diritto di famiglia costituisce certamente l’area
più affollata di controversie su diritti indisponibili
escluse dalla mediazione.
Hanno natura indisponibile i diritti per i quali è
previsto il potere di azione del pubblico ministero
sintomatico dell’esistenza di diritti che la legge non
lascia alla sola libertà dell’autonomia privata. Così le
controversie in materia di scomparsa, assenza e
morte presunta (articoli 48, 50, 58, 62, 67 c.c.). Analogamente
per le controversie nelle quali la legge
prevede l’intervento del pubblico ministero come le
cause matrimoniali comprese quelle di separazione
(art. 70, comma 1, n. 2 c.p.c.), quelle riguardanti lo

stato e la capacità delle persone (art. 70, comma 1, n.
3 c.p.c.) come le cause di nullità del matrimonio e di
divorzio. Così anche in tutte le altre controversie in
cui l’intervento del pubblico ministero è posto a tutela
dei figli (modifiche della separazione, mantenimento
di minori, adozione, affidamento familiare,
procedure minorili in materia di abuso della potestà).
In tutti questi settori la riforma del 2010 ha
escluso la possibilità del procedimento di mediazione
finalizzato alla conciliazione.
Si può discutere se questa limitazione costituisca
un limite opportuno o meno, ma è certo che la riforma
indichi molto chiaramente questo limite. Procedure
di mediazione “familiare” sono certamente
ammissibili anche in questi settori, ma - qui è il
punto - non la mediazione alla quale fa riferimento
il decreto legislativo 28 del 2010.
Tuttavia il diritto di famiglia è permeato anche da
una vasta area di negozialità e di disponibilità dei
diritti.
In primo luogo è lo stesso legislatore ad includere
espressamente nell’area delle controversie di diritto
di famiglia su diritti disponibili - ed assoggettandole
addirittura all’obbligo del previo tentativo di mediazione
(art. 5, primo comma, decreto legislativo
28/2010) - le controversie concernenti i patti di famiglia
di cui si occupa il capo V-bis del titolo IV del
codice civile - dedicato alla divisione - del libro II
sulle successioni (articoli 768-bis - 768-octies) aggiunto
dalla legge 14 febbraio 2006, n. 55. D’altro lato
lo stesso articolo 768-octies già prevedeva che “le
controversie derivanti dalle disposizioni di cui al
presente capo sono devolute preliminarmente ad
uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art.
38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
Sempre l’art. 5 del decreto legislativo 28/2001 include
tra le controversie soggette all’obbligo del pre-
DOSSIER
vio ricorso alle mediazione tutte le controversie in
materia di divisione (tra le quali, appunto, quelle sui
patti di famiglia) e quelle in materia di successioni
ereditarie. Si tratta quindi di un’aerea molto affollata
di procedure che possono essere ricondotte in
senso ampio se non al diritto di famiglia, certamente
alla tutela dei diritti nella famiglia.
La dottrina e la giurisprudenza in genere includono
nell’area della disponibilità dei diritti le controversie
relative a diritti patrimoniali coniugali, anche
se questa inclusione non è sempre univoca.
Il diritto di famiglia disciplina i rapporti personali
e patrimoniali familiari, infatti, non solo attraverso
norme imperative tese alla tutela di superiori interessi
di tipo pubblicistico (tutela dei diritti fondamentali,
tutela dei minori, tutela della libertà personale)
ma anche attraverso norme dispositive che
lasciano possibilità di esplicazione all’autonoma
privata 12 . L’ambito dell’autonomia privata è quasi
inesistente nell’area dei rapporti personali tra coniugi
ma è piuttosto significativa nell’area dei rapporti
patrimoniali, soprattutto in seguito all’affermazione
costituzionale del principio di uguaglianza
tra coniugi.
L’autonomia privata - e quindi l’espansione dei
principi di disponibilità dei diritti - è stata riconosciuta
in primo luogo nell’ambito delle norme relative
ai regimi patrimoniali 13 nei limiti, s’intende, che
la legge stessa dichiara non superabili (art. 160 c.c.
che esclude la derogabilità ai diritti e ai doveri - sostanzialmente
richiamati dall’art. 143 c.c. - previsti
dalla legge per effetto del matrimonio) cosicché le
controversie relative all’applicazione della normativa
sui regimi patrimoniali potrebbero in buona parte essere
ricondotte a quelle per le quali la mediazione è
possibile. Ove tuttavia la controversia specifica coinvolga
norme imperative - quali quelle che definiscono
le linee fondamentali dello specifico regime
patrimoniale - la mediazione resta esclusa in virtù
del principio generale. Occorrerà pertanto verificare
in concreto se la controversia patrimoniale attenga a
diritti disponibili o indisponibili.
La dottrina nel suo complesso riconosce anche
che l’autonomia privata possa esplicarsi in una negozialità
coniugale molto ampia in sede di separazione
e di divorzio 14 . La giurisprudenza è più cauta
ammettendo la validità delle modifiche patrimoniali
non omologate 15 nonché dei patti a latere della
separazione o antecedenti purché non lesivi dei diritti
al mantenimento 16 ma escludendo sistematicamente
la rilevanza dell’autonomia privata nel settore
degli accordi preventivi di divorzio 17 .
È quindi evidente che per una controversia concernente
una delle aree in cui è riconosciuta l’autonomia
negoziale dei coniugi dovrebbe essere ipotizzabile
il ricorso alla mediazione.
Si tratta di casi in cui oggetto della controversia
sono diritti di tipo secondario (per esempio patri-
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DOSSIER
moniali) disponibili, sia pure collegati a settori caratterizzati
dalla presenza di ampie aree di indisponibilità.
Per esempio se due coniugi si accordano, al
di fuori del controllo del tribunale, per una modifica
dell’assegno di mantenimento coniugale la eventuale
controversia tra essi nascenti potrebbe certamente
essere oggetto di una domanda di mediazione
dal momento che quella controversia appartiene
alla sfera della loro autonomia privata 18 . Analogamente
si potrebbe dire per le controversie nascenti
dalla violazione di accordi di natura patrimoniale
tra coniugi in sede divorzile 19 o di accordi afferenti
la casa coniugale 20 .
Si tratterebbe quindi di introdurre dei distinguo
nell’intero settore per selezionare le controversie su
diritti indisponibili da quelle su diritti disponibili.
Il convincimento diffusosi nei primi commentatori
della riforma che tutto il settore del diritto di famiglia
sia stato escluso dalla possibilità di accesso
alla mediazione civile, non è quindi affatto giustificato
21 .
c) La non contrarietà alle norme imperative e all’ordine
pubblico
L’ultimo aspetto da esaminare concerne il problema
della identificazione dell’ambito di estensione
del concetto di “norma imperativa” e di “ordine
pubblico” atteso che lo sconfinamento oltre i limiti
di queste categorie giuridiche comporterebbe la non
omologazione dell’accordo.
Si tratta di effettuare, in sostanza, una ulteriore
verifica della plausibilità delle conclusioni raggiunte
circa la disponibilità dei diritti nell’ambito delle controversie
patrimoniali coniugali di cui si è detto nel
paragrafo precedente ma anche di una verifica più
generale circa il problema della estensione del concetto
di diritto disponibile che costituisce l’area di
fattibilità della mediazione.
L’art. 12 del decreto legislativo 28/2010, infatti,
condiziona l’omologazione dell’accordo alla circostanza
che il suo contenuto non sia contrario all’ordine
pubblico o a norme imperative. Proprio per
questo motivo l’art. 14, occupandosi degli obblighi
del mediatore, prevede che egli debba formulare le
proposte di conciliazione nel rispetto del limite dell’ordine
pubblico e delle norme imperative.
Ecco quindi che questo limite costituisce un vero e
proprio sbarramento ad ogni decisione conciliativa.
Poiché la mediazione - così come tradizionalmente
l’attività di conciliazione - segue soprattutto criteri di
equità, di buon senso e di ragionevolezza, è importante
che il decreto delegato abbia costruito l’attività
di mediazione come vincolata al rispetto delle norme
imperative e di ordine pubblico, sia quando la conciliazione
avvenga spontaneamente sia quando sia
l’effetto di una proposta del mediatore.
Ebbene già determinare un caso di contrarietà all’ordine
pubblico è difficile seguendo i binari delle
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norme giuridiche. A maggior ragione lo sarà allorché
la decisione utilizza criteri di equità e di ragionevolezza.
In che cosa consiste quindi la contrarietà alle
norme imperative a all’ordine pubblico? Si ripropongono
qui argomentazioni analoghe a quelle cui
si è fatto riferimento sopra trattando il tema dei diritti
indisponibili previsto come limite generale all’attività
di mediazione.Tradizionalmente l’ordine
pubblico viene inteso come l’insieme delle norme
fondamentali dell’ordinamento giuridico, spesso
non facilmente individuabili nei codici e nelle leggi
scritte, riguardanti principi di tipo per lo più etico la
cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile
per l’esistenza stessa dell’ordinamento e costituita
dai principi generali e fondamentali, come
quelli concernenti la personalità e la libertà dei cittadini,
l’ordinamento del matrimonio e della famiglia,
la capacità delle persone. Si tratta, per tornare
al tema dei diritti indisponibili, di norme inderogabili
di cui è pur tuttavia prevista una evoluzione e
un continuo adattamento alle esigenze giuridiche
che ispirano l’ordinamento giuridico dello Stato. Il
codice civile fa riferimento all’ordine pubblico in più
occasioni senza definirlo e senza attribuire a questa
espressione significati costanti 22 .
L’espressione viene utilizzata talvolta per qualificare
un certo tipo di norme come norme di ordine
pubblico (art. 1229 2 co.), altre volte è correlata al
buon costume (artt. 31 disp. prel.; 23 ult. co.), altre
volte è affiancata al buon costume e alle norme imperative
(artt. 25 1 co., 634, 1343, 1354 c.c.).
Questa tecnica legislativa approssimativa sembra
proprio il riflesso normativo della difficoltà di definire
i confini giuridici di queste espressioni.
D’altro lato come ogni clausola generale l’ordine
pubblico è effettivamente un concetto elastico e storicamente
variabile a seconda dell’esperienza giuridico-organizzativa
a cui partecipa. La stessa giurisprudenza,
molto scarsa, fa difficoltà a tradurre in
una definizione universale e costante il ruolo svolto
dall’ordine pubblico come limite dell’autonomia negoziale.
La stessa difficoltà incontra la definizione dell’espressione
“norme imperative”.
Le norme specifiche in cui questa espressione è
utilizzata e che hanno costituito anche il campo di
indagine della giurisprudenza sono innanzitutto
quelle di cui all’art. 1322 e all’art. 1418 del codice civile
dedicati alla autonomia contrattuale e ai suoi
limiti. L’art. 1322 consente alle parti di determinare
liberamente il contenuto del contratto “nei limiti
imposti dalla legge” mentre l’art. 1418 prevede la
nullità generale del contatto che sia contrario “a
norme imperative” salvo che la legge disponga diversamente;
da cui si desume che anche il concetto
di “contrarietà a norme imperative” ha le sue eccezioni
23 . D’altro lato poi l’art. 1418 prevede che il con-

tratto è anche nullo in altri casi, per esempio
quando anche ne sia illecita la causa che a sua volta
è tale allorché “è contraria a norme imperative, all’ordine
pubblico o al buon costume” (art. 1343 c.c.)
o quando ne sia illecito il motivo comune (art. 1345
c.c.) o ancora quando sia sottoposto ad una condizione
“contraria a norme imperative” (art. 1354 c..c.).
Inoltre sempre l’art. 1418 prescrive la nullità “negli
altri casi stabiliti dalla legge”.
Il codice sembra prevedere pertanto due categorie
generali di nullità. La prima per “illiceità” e “contrarietà
a norme imperative” - espressioni che appaiono
abbinate nei primi due commi dell’art. 1418
c.c. sullo steso livello di gravità - e la seconda (art.
1418 terzo comma c.c.) per altri motivi indicati nella
legge.
La previsione di due differenti contesti di nullità del
contratto (da un lato per illiceità del contratto o per
contrasto con norme imperative e dall’altro per contrasto
con altre norme non imperative, ma ugualmente
producenti la nullità) consente di definire la
contrarietà alle norme imperative (cui va equiparata
la illiceità del contratto nei casi indicati nel secondo
comma dell’art. 1418) come una categoria diversa e
non sovrapponibile a quella della nullità, con la conseguenza
che non tutti i casi di nullità del contratto -
ma solo quelli di illiceità e contrarietà a norme imperative
- determinano una condizione di non omologazione
dell’accordo conciliativo.
L’equiparazione tra contrarietà a norme imperative
ed “illiceità del contratto” (cui fa riferimento in
generale l’art. 1346 c.c.) è condivisa in giurisprudenza
24 dove si ritiene che l’illiceità comporta la
contrarietà a norme imperative. Si tratta perciò di
categorie giuridiche sostanzialmente analoghe.
Per intenderci, un accordo conciliativo potrebbe
astrattamente essere omologato anche se contenesse
una condizione meramente potestativa (che
produce la nullità ex art. 1355 c.c. richiamato dal
terzo comma dell’art. 1418 c.c. ma non una nullità
per contrasto con norme imperative) anche se una
condizione di tal genere vanificherebbe l’esecuzione
dell’accordo.
Diversa ancora è la categoria dell’annullabilità Un
accordo conciliativo è certamente omologabile ancorché
possa per qualsiasi motivo considerarsi annullabile.
Si pensi all’accordo che preveda la possi-
Note
DOSSIER
bilità per il mandatario di acquistare il bene che era
stato incaricato di vendere. L’accordo in questione
sarebbe annullabile ex art. 1471 n. 4 c.c. ma è certamente
omologabile non essendo contrario a norme
imperative.
La giurisprudenza ha ritenuto che norme imperative
siano quelle poste a tutela dei principi etici fondamentali
dell’ordinamento 25 ovvero dell’interesse
pubblico 26 e cioè quando si è in presenza di norme
che disciplinano “quanto il legislatore ritiene fondamentale,
categorico ed irrinunciabile, tanto da essere
sottratto completamente all’autonomia privata,
da valere erga omnes e da dover essere applicato anche
d’ufficio per ragioni che trascendono l’interesse
del singolo” 27 . In queste situazioni sono comprese,
naturalmente, tutte le norme di carattere penale 28 ,
ovvero tutti gli accordi tesi a frodare la legge cioè a
raggiungere una comune finalità contraria alla
legge 29 . Che anche l’accordo in frode alla legge non
sia omologabile lo si ricava dalla norma generale
(art. 1344 c.c.) che considera illecita la causa del contratto
tesa ad eludere una norma imperativa.
Ugualmente il motivo illecito comune - come si è
detto - è causa di non omologazione dell’accordo.
Allorché le parti si determinano alla conclusione di
un accordo conciliativo “esclusivamente per un motivo
illecito comune ad entrambe” (art. 1345 c.c.) si
verifica la stessa situazione di illiceità determinata
dalla contrarietà alle norme imperative. Anche la
giurisprudenza considera ragionevolmente il motivo
illecito comune come una finalità contraria alle
norme imperative e di ordine pubblico 30 . Naturalmente
deve trattarsi di un intento negoziale illecito
di entrambe le parti dal momento che l’illiceità del
motivo di una delle parti non determina la nullità
dell’accordo al quale l’altra parte, pur a conoscenza
del motivo illecito che ha guidato l’altro contraente,
si è determinata per un proprio autonomo motivo 31 .
La nozione di buon costume non è stata richiamata
nella normativa sulla mediazione. Il che naturalmente
non significa che il buon costume non costituisca
un limite di omologabilità degli accordi, essendo
la relativa nozione sostanzialmente e storicamente
sovrapponibile a quella di ordine pubblico
32 . Trattandosi di un concetto ancora meno preciso
degli altri il legislatore ha preferito evidentemente
non utilizzare questa espressione.
1
DOSI, La mediazione e l’arbitrato irrituale nelle riforme del 2010, in Contratto e impresa, 2011, 1, 226 ss
2
CSTAGNOLA, DELFINI, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, Padova, 2010, 22.
3
RESCIGNO, voce Personalità (diritti della), in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXII, Roma, 1990, 1 ss.
4
DEL PRATO, Transazione (diritto privato), in Enciclopedia del diritto, XLIV, Milano, 1999, 786 ss.
5
GRASSO, Art. 114. Pronuncia secondo equità a richiesta di parte, in Commentario del codice di procedura
civile, diretto da Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1276 ss.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 49

DOSSIER
6
PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 33 ss.
7
DOSI, Dalla conciliazione giudiziale alla mediazione stragiudiziale, in Giustizia civile, 2011, 2, 1 ss
8 Tribunale di Varese, 27 novembre 2009, in Famiglie e diritto, 2010, 2, 572 ss
9
CARRATTA, Principio di non contestazione e limiti di applicazione nei processi su diritti indisponibili,
in Famiglia e diritto, 2010, 6, 572.
10 Cass. sez. III, 19 dicembre 2000,n. 15941 in cui si afferma esplicitamente che “Il ricorso all’arbitrato
non è escluso, in linea di principio, per le questioni attinenti alla nullità dei contratti, vertendosi in
materia di diritti disponibili”.
11
BENEDETTELLI, CONSOLO, RADICATI DI BROZOLO, Commentario breve al diritto dell’arbitrato, Padova, 2010, 37.
12
PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Trattato di diritto di famiglia direttpo
da Zatti, vol. III, Milano, 2002, 3.
13
OBERTO, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1990, Tomo I, p. 136 ss
14
COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento
del matrimonio, in Foro It., 1995, V, 105 ss; DORIA, Autonomia privata e causa familiare. Gli accordi traslativi
tra i coniugi in occasione della separazione personale e nel divorzio, Milano, 1996. PRATO, L’autonomia
nei rapporti familiari, Milano, 1999; OBERTO, I contratti della crisi coniugale, vol. I e vol. II, Milano,
1999.
15 Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290 dove si precisa che le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente
all’omologazione trovando fondamento nell’art. 1322 c.c. devono ritenersi valide ed
efficaci anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c.; In senso analogo
Cass. sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829; Cass. sez. I, 22 aprile 1982, n. 2481.
16 Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290 dove si precisa che le pattuizioni convenute dai coniugi antecedentemente
o contemporaneamente al decreto di omologazione e non trasfuse nell’accordo omologato
sono operanti soltanto se si collocano rispetto a quest’ultimo in posizione di non interferenza
o in posozione di conclamata e incontestabile maggiore rispondenza all’interesse tutelato attraverso
il controllo di cui all’art. 158 c.c. ; In senso analogo Cass. sez. I, 28 luglio 1997, n. 7029; Cass. sez. I, 24
febbraio 1993, n. 2270.
17 Per tutte Cass. sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064
18 Cass. sez. I, 22 gennaio 1994, n. 657; Cass. sez. I, 12 maggio 1994, n. 4647; Cass. sez. I, 24 febbraio 1993,
n. 2270; Cass. sez. I,. 27 giugno 1992, n. 7470.
19
COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione e divorzio e di annullamento
del matrimonio, in Foro It. 1995, V, 105 ss.
20
OBERTO, L’assegnazione consensuale della casa familiare nella crisi coniugale, in Famiglia e diritto, 1998,
461 ss.
21
DITTRICH, Il procedimento di mediazione nel decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010, in Riv. dir. proc.
civ. 2010, 579.
22 L’ordine pubblico è richiamato negli artt. 31 disposizioni sulla legge in generale, 5, 23 ult. co., 25 1 co.,
634, 1229 2 co., 1343, 1354 1 co., 2031 2 co., 2332 c.c..
23 La giurisprudenza ha ritenuto che una eccezione sia costituita dal fatto che l’ordinamento assicura
l’effettività della norma imperativa con altri rimedi (Cass. sez. III, 5 aprile 2003, n. 5372 in un caso in
cui la nullità è stata esclusa essendosi verificata la decadenza da benefici fiscali e creditizi e Cass. se.
III, 24 maggio 2003, n. 8236 in un caso in cui la nullità è stata esclusa essendo stato esercitato il riscatto
da parte dell’avente diritto alla prelazione).
24 Cass. sez. I, 4 gennaio 1995, n. 118
25 Cass. sez. unite, 11 gennaio 1973, n. 63,
26 Cass. se. I, 7 marzo 2001, n. 3272; Cass. sez. II, 13 maggio 1977, n. 1901. L’interesse pubblico è stato anche
visto nella violazione di norme poste a tutela del consumatore in Cass. sez. II, 18 luglio 2003, n.
11256.
27 Così espressamente Cass. sez. I, 4 gennaio 1995, n. 118.
28 Cass. sez. I, 25 settembre 2003, n. 14234.
29 Cass. sez. II, 18 febbraio 1983, n. 1244; Cass. sez. II, 29 gennaio 1983, n. 826.
30 Cass. sez. unite, 25 ottobre 1993, n. 10603.
31 Cass. sez. III, 24 luglio 1971, n. 2453.
32 Panza, Ordine pubblico (teoria generale), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1989, 5; Ferri, Ordine pubblico (diritto
privato), in Enc. dir. XXX, Milano, 1980, 1038.
50 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011

Segue da pag. 38
ficarsi. L’obiettivo della psicologia evoluzionistica,
come quello di ogni scienza, è di contribuire alla
comprensione del fenomeno d’interesse. Indagare
l’aggressività dell’uomo nei confronti della donna
secondo questa prospettiva non giustifica né promuove
questi atti.
Bibliografia:
- Aramini, M. (2002). Lo stalking: aspetti psicologici e fenomenologici.
In G. Gulotta, S. Pezzati (a cura di). Sessualità
diritto e processo. Milano, Giuffrè, pp. 495-539.
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Milano, Giuffrè.
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the generation of culture. New York, Oxford University
Press, pp. 289-322.
- Zanconi, M. C. (2009). Un’ossessione amorosa che conduce
alla morte: dalla parte della vittima. In M.C. Zanconi
e coll. Processi penali processi psicologici. Studi sull’attività
forense di Guglielmo Gulotta. Milano, Giuffrè.
Sitografia:
www.poliziadistato.it
www.stalking.it
* Sono molto grato a Giulia A. Capra per l’aiuto prestatomi
nell’organizzare il materiale consultato.
Beni personali
e acquisto di immobili
dopo il matrimonio
di VALERIO SANGIOVANNI
STUDI E RICERCHE
L’art. 179, comma 2, c.c. costituisce una delle disposizioni
di più controversa interpretazione dell’intero
diritto di famiglia. In questo articolo si relaziona
sulle diverse posizioni assunte al riguardo da giurisprudenza
e dottrina, cercando di proporre soluzioni
interpretative ragionevoli, le più vicine possibili alla
lettera nonché alla ratio della disposizione.
1. Comunione legale e beni personali
La legge prevede che “l’acquisto di beni immobili,
o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato
dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai
sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma,
quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto
se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge” (art.
179, comma 2, c.c.). Questa disposizione, che non
brilla certo per chiarezza, ha dato adito a diverse interpretazioni
giurisprudenziali e dottrinali. In questo
articolo si analizza tale norma, collocandola nel
suo corretto contesto sistematico, e si cerca di interpretarla
nel modo più possibile conforme alla lettera
e al senso della regola.
Bisogna premettere che, nel nostro ordinamento,
il regime di comunione legale è strutturato su di un
doppio binario 1 . Da un lato la legge identifica espressamente
i beni che rientrano nella comunione: “costituiscono
oggetto della comunione: a) gli acquisti
compiuti dai due coniugi insieme o separatamente
durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi
ai beni personali; b) i frutti dei beni propri di ciascuno
dei coniugi, percepiti e non consumati allo
scioglimento della comunione; c) i proventi dell’attività
separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento
della comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e
costituite dopo il matrimonio” (art. 177 c.c.). Dall’altro
lato il legislatore identifica, sempre in modo
esplicito, quali beni sono esclusi dalla comunione
(art. 179 c.c.).
La distinzione operata dalla legge fra i beni in comunione
e i beni personali è alquanto rigida. Tanto
è vero che l’unico modo per evitare che un acquisto
ricada nel regime di comunione legale è quello di
modificare previamente il regime patrimoniale sussistente
fra i coniugi. La Corte di cassazione ha difatti
stabilito che i coniugi in regime di comunione
legale, al fine di effettuare l’acquisto anche di un
solo bene in regime di separazione (tale essendo
l’eventuale acquisizione in comunione ordinaria,
che esige un regime di separazione), sono tenuti a
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 51

STUDI E RICERCHE
previamente stipulare una convenzione matrimoniale
2 derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi
dell’art. 162 c.c., sottoponendola alla specifica pubblicità
per essa prevista, non essendo al riguardo viceversa
sufficiente una più o meno esplicita indicazione
contenuta nell’atto di acquisto, posto che questo
non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni
matrimoniali, le quali solo conferiscono
certezza in ordine al tipo di regime patrimoniale cui
sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi 3 . Analoga
la soluzione cui era giunta la medesima Corte
di cassazione un anno prima: nella pendenza del regime
di comunione legale, il coniuge non può rinunciare
alla comproprietà di singoli beni acquistati
durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie
elencate nell’art. 179, comma 1, c.c.), salvo
che sia previamente o contestualmente mutato,
nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il
regime patrimoniale della famiglia 4 .
L’art. 179, comma 2, c.c. elenca i beni personali.
Segnatamente, non costituiscono oggetto della comunione
e sono beni personali del coniuge: “a) i
beni di cui prima del matrimonio, il coniuge era proprietario
o rispetto ai quali era titolare di un altro
diritto reale di godimento; b) i beni acquisiti successivamente
al matrimonio per effetto di donazione o
successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento
non è specificato che essi sono attribuiti
alla comunione; c) i beni di uso strettamente personale
di ciascun coniuge ed i loro accessori; d) i beni
che servono all’esercizio della professione del coniuge,
tranne quelli destinati alla conduzione di
un’azienda facente parte della comunione; e) i beni
ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la
pensione attinente alla perdita parziale o totale
della capacità lavorativa; f) i beni acquisiti con il
prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati
o col loro scambio, purché ciò sia espressamente
dichiarato all’atto dell’acquisto” (art. 179,
comma 1, c.c.).
Nulla vieta alle parti di ampliare l’oggetto della
comunione legale, facendovi rientrare alcuni dei
beni personali. Tuttavia, per espresso divieto di legge
(art. 210, comma 2, c.c.), i beni di cui all’art. 179,
comma 1, lett. c, d ed e, c.c. non possono essere compresi
nella comunione convenzionale.
2. Le singole categorie di beni personali (art. 179,
comma 1, c.c.)
Volendo ora passare brevemente in rassegna i
beni considerati “personali” dalla legge, si tratta anzitutto
dei beni di cui prima del matrimonio il coniuge
era proprietario (art. 179, comma 1, lett. a, c.c.).
Secondo la ratio del legislatore, nella comunione devono
rientrare solo i beni che sono il risultato dello
sforzo comune di ambedue i coniugi durante il matrimonio.
Ciò non avviene per i beni di cui uno dei
coniugi era proprietario prima del matrimonio.
52 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
La seconda categoria di beni esclusi dalla comunione
è quella dei beni acquisiti successivamente al
matrimonio per effetto di donazione o successione
(art. 179, comma 1, lett. b, c.c). Rispetto alla previsione
della lett. a, qui si tratta di beni acquisiti dopo
il matrimonio (e non prima di esso). I due meccanismi
al quale il legislatore si riferisce sono la donazione
e la successione. Per quanto riguarda la donazione,
si vuole far prevalere l’elemento personale:
chi effettua la donazione vuole “arricchire” il soggetto
nei cui confronti la compie e non ambedue i
coniugi. Un discorso analogo vale per l’acquisto per
causa di successione: anche in questo caso la disposizione
viene effettuata a beneficio di uno specifico
coniuge, e non di entrambi. Il legislatore tuttavia,
opportunamente, prevede la possibilità che
l’atto di liberalità o il testamento specifichino che i
beni sono attribuiti alla comunione. Anche nel caso
di donazione e successione (come nel caso di cui
alla lett. a), l’altro coniuge non contribuisce in alcun
modo all’acquisto e - anche per tale ragione - il legislatore
esclude il regime di comunione legale.
La terza categoria di beni aventi natura personale
sono quelli di uso strettamente personale di ciascun
coniuge e i loro accessori (art. 179, comma 1, lett. c,
c.c.). In questo caso è la natura stessa del bene che
sconsiglia di farli ricadere in comunione. A ciò si aggiunga
che l’assegnazione alla comunione di tali
beni significherebbe limitare in modo eccessivo il
diritto del coniuge interessato ad autodeterminarsi
e a esprimere la propria personalità. Il caso tipico
dei beni strettamente personali è quello dei capi di
abbigliamento. Al riguardo non sussiste alcun dubbio,
non potendo tali beni essere utilizzati dall’altro
coniuge. Vi sono però dei beni che potrebbero teoricamente
essere utilizzati da ambedue i coniugi, ma
- di fatto - vengono utilizzati da uno solo di essi. Secondo
un’interpretazione anche tali beni sarebbero
di uso strettamente personale e non potrebbero ricadere
nella comunione. La giurisprudenza tende ad
accedere a questa tesi e considera di uso strettamente
personale anche i beni che potrebbero,
astrattamente, essere utilizzati da ambedue i coniugi,
ma - di fatto - vengono utilizzati da uno solo
di essi.
Il quarto gruppo di beni personali sono quelli che
servono all’esercizio della professione del coniuge
(art. 179, comma 1, lett. d, c.c.). La ratio di questa disposizione
risiede nel favore del legislatore per la
possibilità dei coniugi di esercitare in piena libertà
l’attività lavorativa. Dal punto di vista del soggetto
interessato, l’esercizio di una professione costituisce
mezzo importante per l’estrinsecazione della
sua personalità. Sotto un profilo “macro-economico”,
il lavoro crea ricchezza e la ricaduta in comunione
dei beni destinati alla professione potrebbe
rivelarsi contraria (non solo all’interesse del
coniuge, ma anche) allo sviluppo dell’intera econo-

mia. Si pensi al fatto che, laddove i beni funzionali
alla professione cadessero in comunione, si porrebbero
significati problemi nella gestione degli stessi
che potrebbero rendere più difficile, se non addirittura
- in casi estremi - arrivare a impedire, lo svolgimento
della professione. Per tacere poi delle conseguenze
negative che si verificherebbero in caso di
scioglimento della comunione.
A livello interpretativo sussiste incertezza sul significato
dell’espressione “professione” utilizzata
dal legislatore nella disposizione in esame. A me
pare che tale termine debba essere inteso quale “attività
lavorativa” in senso lato, vuoi sotto forma di
lavoro autonomo vuoi sotto forma di lavoro dipendente.
Un’interpretazione maggiormente letterale,
nel senso che sarebbero interessati dalla disposizione
solo coloro che esercitano una professione
(appunto, i “professionisti” in senso stretto), produrrebbe
l’effetto di escludere la stragrande maggioranza
dei lavoratori; e probabilmente questo non
era il risultato perseguito dal legislatore. Bisogna
tuttavia riflettere che la disposizione si occupa dei
beni che servono alla professione e, nel caso di lavoratori
dipendenti, tali beni non esistono: nel caso
di lavoro dipendente difatti i beni vengono messi a
disposizione dal datore di lavoro. Anche il prevalere
dell’interpretazione più letterale non dovrebbe
dunque avere conseguenze pratiche di grande rilievo
5 .
La quinta categoria di beni personali è costituita
da quelli “ottenuti a titolo di risarcimento del danno
nonché la pensione attinente alla perdita parziale o
totale della capacità lavorativa” (art. 179, comma 1,
lett. e, c.c.). I beni ottenuti a titolo di risarcimento del
danno vanno a ristorare direttamente il coniuge che
ha subito il nocumento; non si tratta di frutti dell’attività
svolta dai coniugi durante il matrimonio.
Nell’ipotesi poi della pensione attinente alla perdita
della capacità lavorativa, la legge è preoccupata rispetto
al rischio che l’interessato - mettendo in comunione
la pensione con l’altro coniuge - si trovi in
una situazione di eccessiva debolezza economica,
alla quale non può sopperire lavorando, essendo -
appunto - incapace a farlo.
3. I beni personali “per surrogazione” (art. 179,
comma 1, lett. f, c.c.)
Merita un esame separato la sesta e ultima categoria
di beni qualificati come personali dalla legge.
Si tratta dei “beni acquisiti con il prezzo del trasferimento
dei beni personali sopraelencati o col loro
scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato
all’atto dell’acquisto” (art. 179, comma 1, lett. f, c.c.).
A questa fattispecie ci si riferisce usualmente indicandoli
come beni personali “per surrogazione”, nel
senso che al bene personale originario se ne sostituisce
(= “surroga”) un altro che mantiene la medesima
natura personale.
STUDI E RICERCHE
La ratio di questa disposizione è di consentire che
i beni personali possano essere liberamente trasferiti
e sostituiti con altri, in un’occasione unica (al
bene Alfa si sostituisce il bene Beta) oppure anche
più volte di seguito (al bene Alfa si sostituisce il bene
Beta e poi, a seguito di un ulteriore operazione di
trasferimento, il bene Gamma). La norma serve, da
un lato, a garantire la libertà di autodeterminazione
economica del coniuge titolare unico di certi beni.
Del resto è quasi superfluo ricordare che il proprietario
ha diritto di disporre delle cose in modo pieno
ed esclusivo (art. 832 c.c.). La disposizione sottende
peraltro un’esigenza di tutela non solo del singolo
coniuge, ma anche del buon funzionamento dell’economia
nel suo complesso. Il coniuge che teme
che i proventi della vendita di beni personali ricadano
in comunione potrebbe essere indotto a non
vendere tali beni, determinando un fenomeno di
cristallizzazione delle risorse, nocivo al sistema economico.
Dunque, da un punto di vista macro-economico,
al fine di incentivare la circolazione dei
beni, si deve assicurare che il soggetto titolare di un
bene continui a rimanere tale anche se lo sostituisce
con un altro.
Si rifletta sul fatto che i beni personali elencati
nell’art. 179, comma 1, lett. da a ad e, c.c. vengono
acquisiti dal coniuge in un dato momento. Si pensi
al caso di un immobile di cui uno dei coniugi era
proprietario prima del matrimonio (lett. a). Se, successivamente
al matrimonio, tale bene viene venduto,
il prezzo ottenuto è di spettanza e nella libera
disponibilità del coniuge interessato. Tuttavia gli acquisti
che il coniuge dovesse fare con il ricavato
della vendita, ricadrebbero - secondo la regola generale
(art. 177, comma 1, lett. a, prima parte, c.c.) -
nella comunione. Per evitare questo risultato (che
appare ingiusto in quanto pregiudica la posizione di
uno dei coniugi), il legislatore fissa un’eccezione,
stabilendo che gli acquisti fatti con il prezzo del trasferimento
non ricadono in comunione. A ben vedere,
tecnicamente non si tratta nemmeno di un incremento
patrimoniale, ma di una nuova composizione
del patrimonio personale di un coniuge (il
quale potrebbe, ad esempio, vendere l’abitazione di
proprietà personale sita nella città Alfa per comprarne
un’altra nella città Beta in cui si è trasferito) 6 .
Il meccanismo previsto dall’art. 179, comma 1,
lett. f, c.c. si compone di due passaggi: dapprima un
certo bene viene venduto (le legge dice, letteralmente,
“trasferito”), poi - con il ricavato - viene acquistato
un altro bene.
Brevemente qualche parola sul primo passaggio.
La vendita del bene personale, trattandosi appunto
di un bene personale del coniuge, può essere liberamente
effettuata dal medesimo. Inoltre il ricavato
(in danaro) della vendita è di esclusiva pertinenza
del coniuge interessato. In questo senso si è
espressa la Corte di cassazione, secondo la quale - in
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 53

STUDI E RICERCHE
tema di comunione legale fra coniugi - il danaro ottenuto
a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene
personale rimane nella esclusiva disponibilità del
coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo
accantonato sotto forma di deposito bancario
sul proprio conto corrente, dal momento che non
è configurabile come un acquisto nel senso indicato
dall’art. 177, comma 1, lett. a, c.c., cioè come un’operazione
finalizzata a determinare un mutamento effettivo
nell’assetto patrimoniale del depositante 7 .
Pertanto il coniuge, conclude la Cassazione, può utilizzare
le somme accantonate sul di lui conto corrente,
provenienti dall’alienazione di un bene personale,
ai fini della surrogazione reale di cui all’art.
179, comma 1, lett. f, c.c.
Il secondo passaggio è la “surrogazione” in senso
stretto: con il ricavato della vendita il coniuge compra
un nuovo bene, che “surroga” il bene personale
originario (si noti che fra la vendita del primo bene
e l’acquisto del secondo può intercorrere anche un
lungo lasso di tempo). La legge contiene una specificazione,
stabilendo che nell’atto di acquisto debba
essere espressamente dichiarato che il bene è comprato
con il ricavato della vendita di beni personali.
Dal momento che, secondo la regola generale dell’art.
177, comma 1, lett. a, c.c., gli acquisti effettuati
durante il matrimonio ricadono automaticamente
in comunione, il legislatore esige che l’origine personale
dei fondi sia dichiarata espressamente all’atto
di acquisto, per escludere tale effetto.
In merito alla forma della dichiarazione resa dall’acquirente,
la legge non prescrive requisiti particolari.
Teoricamente la dichiarazione potrebbe pertanto
essere resa anche in forma orale. Per ragioni
probatorie è però ovviamente preferibile che la dichiarazione
venga resa in forma scritta 8 .
In merito al contenuto di tale dichiarazione la
legge esige che essa sia “espressa”. Ne consegue un
preciso onere di indicare nell’atto l’origine personale
dei beni. Non dovrebbe invece essere necessario
indicare esattamente quali sono i beni personali
che sono stati venduti per procurarsi i mezzi con cui
viene ora comprato il nuovo bene, anche se - per evitare
successive difficoltà probatorie - è certamente
preferibile tale indicazione.
La dichiarazione relativa alla “personalità” dell’acquisto
deve essere qualificata come dichiarazione
di scienza. Il coniuge rende noto, nell’atto di
acquisto, che il danaro usato per l’acquisto è di origine
personale. Il problema, come ogni dichiarazione
di scienza, è che essa può sì corrispondere alla
realtà, ma può anche risultare falsa. Nel caso in cui
la dichiarazione corrisponda al vero, non si pone alcun
particolare problema interpretativo: l’acquisto
è valido, è stato effettuato con risorse personali e -
nella sostanza - si è solo verificata una surrogazione
del primo bene personale con un secondo bene personale.
I problemi sorgono quando la dichiarazione
54 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
non corrisponde al vero. In questa ipotesi l’acquisto
non può considerarsi personale in quanto il coniuge
che afferma il falso (dichiarando di comprare il bene
usando beni personali) utilizza in realtà beni facenti
parte della comunione e gli acquisti fatti dai coniugi
in regime di comunione ricadono in comunione.
Vi è da chiedersi cosa succeda se l’acquisto viene
effettuato senza la dichiarazione richiesta dalla
legge. Secondo l’opinione prevalente, l’assenza di
tale dichiarazione fa sì che il bene non venga acquistato
a titolo personale (e ricada invece in comunione)
9 . La conseguenza di questa tesi sarebbe che,
per il mero fatto di avere omesso una dichiarazione
relativa alla provenienza personale dei beni, tali
beni cadrebbero in comunione, con corrispondente
automatico depauperamento di uno dei coniugi a
beneficio dell’altro. Si noti che la dichiarazione potrebbe
essere omessa anche solo per dimenticanza,
distrazione o ignoranza del coniuge, determinando
effetti estremamente negativi per il suo patrimonio
personale. A chi scrive pare più equilibrata la soluzione
per cui, in caso di mancata dichiarazione all’atto
di acquisto, è vero che il bene ricade in comunione,
ma è sempre possibile provare il contrario. Se
l’acquisto è stato fatto senza tale dichiarazione, si
presume che il bene ricada in comunione; rimane
però sempre ferma la possibilità, per il coniuge interessato,
di dimostrare il contrario. A tal fine il coniuge
dovrà provare la provenienza personale delle
risorse utilizzate per l’acquisto.
È pertanto nella sostanza condivisibile il ragionamento
svolto dalla Corte di cassazione in una recente
sentenza 10 . Da un lato la Cassazione ha affermato
che, in tema di regime della comunione legale
dei coniugi, la dichiarazione di cui è onerato il coniuge
acquirente, prevista dall’art. 179, comma 1,
lett. f, c.c., al fine di conseguire l’esclusione dalla comunione
dei beni acquistati con il trasferimento di
beni strettamente personali, avendo natura ricognitiva
della sussistenza dei presupposti per l’acquisto
personale, è necessaria solo quando la natura dell’acquisto
sia obiettivamente incerta, per non essere
accertato che la provvista necessaria costituisca
reinvestimento del prezzo di beni personali. Nella
fattispecie, relativa al deposito di titoli in custodia e
amministrazione che uno dei coniugi riteneva di
sua proprietà esclusiva perché acquistati con danaro
ricavato dalla vendita di beni personali, in assenza
della dichiarazione di cui all’art. 179, comma
1, lett. f, c.c. la Corte di cassazione ha ritenuto che la
cointestazione dei titoli anche all’altro coniuge e la
sua partecipazione all’atto di cointestazione costituissero
indici inequivoci della volontà di mettere
in comune l’acquisto, con conseguente appartenenza
dei titoli alla comunione. La Cassazione non
si sofferma però su di un ulteriore aspetto, cui è invece
opportuno fare riferimento: il caso in cui i beni
vengono acquistati non solo in assenza della di-

chiarazione di cui all’art. 179, comma 1, lett. f, c.c.
ma anche in assenza di indici inequivoci della volontà
di mettere in comune l’acquisto. In questa ipotesi
mi pare debba operare solo una presunzione di
ricaduta in comunione, con la possibilità per il coniuge
interessato di dimostrare il contrario (ossia la
provenienza personale del danaro con cui è stato effettuato
l’acquisto).
4. L’art. 179, comma 2, c.c.
Abbiamo appena visto quali beni vengono considerati
dal legislatore come personali e non ricadenti
nella comunione. Abbiamo anche visto che l’art. 179,
comma 1, lett. f, c.c. esige una dichiarazione del coniuge
e che sussiste incertezza in merito agli esatti
effetti conseguenti all’assenza di essa. Vedremo ora
come anche l’art. 179, comma 2, c.c. esiga una dichiarazione
del coniuge, riproponendo problemi simili
a quelli comma 1.
Anzitutto è bene procedere a una limitazione dell’ambito
di applicazione dell’art. 179, comma 2, c.c.
in relazione all’oggetto dell’acquisto. La norma si riferisce
difatti solo ai beni immobili e ai mobili registrati.
Agli altri beni non si applica la disposizione
in commento. Sotto il profilo della ratio, è evidente
che il legislatore - nell’art. 179, comma 2, c.c. - detta
una disciplina particolare per i beni che risultano
avere un valore particolarmente elevato. Nella
prassi, le controversie tendono a riguardare soprattutto
gli immobili.
L’art. 179, comma 2, c.c., al fine di escludere la ricaduta
in comunione, esige che “tale esclusione risulti
dall’atto di acquisto se di esso sia parte anche
l’altro coniuge”.
Iniziando a esaminare questa frase, si deve rilevare
che per l’acquisto di immobili è necessario
l’atto pubblico oppure la scrittura privata ai sensi
dell’art. 1350 c.c. Nel contratto scritto è dunque necessario
inserire la specificazione che il bene è
escluso dalla comunione.
Ma il passaggio della legge che solleva i maggiori
problemi interpretativi è quello secondo cui l’acquisto
è escluso dalla comunione “se di esso [cioè dell’atto
di acquisto] sia stato parte anche l’altro coniuge”.
Va subito premesso che il coniuge non è parte in
senso tecnico dell’atto; il secondo coniuge non è difatti
l’acquirente dell’immobile, ma solo una persona
che “presenzia” a un atto compiuto fra altri
soggetti (l’altro coniuge come acquirente e un terzo
come venditore).
Che il coniuge non acquirente non sia “parte” dell’atto
risulta anche esaminando le disposizioni che
regolano la materia. Ai sensi dell’art. 177, comma 1,
lett. a, c.c. gli acquisti possono essere compiuti dai
coniugi “insieme” o “separatamente”, ad esclusione
di quelli relativi ai beni personali. Secondo l’art. 180,
comma 2, c.c. “il compimento degli atti eccedenti
STUDI E RICERCHE
l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei
contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti
personali di godimento e la rappresentanza in
giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente
ad entrambi i coniugi”. Non esiste una definizione
legislativa di quelli che sono gli atti di ordinaria
e di straordinaria amministrazione. Sul punto
è peraltro intervenuta la giurisprudenza stabilendo
che l’acquisto di un immobile configura un atto eccedente
l’ordinaria amministrazione 11 . L’acquisto di
un immobile deve pertanto essere posto in essere
congiuntamente da ambedue i coniugi che versino
in regime di comunione legale. Tanto è vero che la
legge si premura di specificare che “gli atti compiuti
da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro
coniuge e da questo non convalidati sono annullabili
se riguardano beni immobili o beni mobili
elencati nell’articolo 2683” (art. 184, comma 1, c.c.).
Tanto premesso, e tornando all’analisi del nostro
problema, se l’acquisto deve essere posto in essere
congiuntamente da entrambi i coniugi, non si capisce
il senso di una disposizione come l’art. 179,
comma 2, c.c. che pare indicare come facoltativa
(“se” partecipa anche l’altro coniuge) la partecipazione
del secondo coniuge.
In realtà si deve riflettere sul fatto che l’art. 180
c.c. disciplina l’amministrazione dei beni della sola
comunione, non l’amministrazione dei beni personali
del coniuge. Nel caso di beni personali, la disposizione
decisiva è l’art. 185 c.c. (“all’amministrazione
dei beni che non rientrano nella comunione o
nel fondo patrimoniale si applicano le disposizioni
dei commi secondo, terzo e quarto dell’articolo
217”). A dire il vero l’art. 185 c.c. non richiama l’art.
217, comma 1, c.c. (“ciascun coniuge ha il godimento
e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo”).
Tuttavia mi pare che, stante la natura di bene
personale, non possa valere una regola diversa. In
altre parole: del bene che risulta personale in
quanto rientrante nella lista dell’art. 179, comma 1,
c.c. il coniuge proprietario può disporre in piena autonomia.
Data la titolarità esclusiva in capo a uno
dei coniugi, tale coniuge può vendere l’immobile
senza che all’atto intervenga l’altro coniuge. Anzi,
l’altro coniuge non può nemmeno partecipare all’atto
di vendita, in quanto si tratta di un immobile
rispetto al quale non può vantare alcuno diritto.
Dunque: parte del contratto è esclusivamente il
coniuge acquirente; l’altro coniuge ha solo una funzione
di partecipazione all’atto (e di “attestazione”).
Va inoltre premesso che la partecipazione all’atto
dell’altro coniuge non significa necessariamente rilasciare
una dichiarazione. Può darsi che il coniuge
si limiti a essere presente “silente” all’atto: in questo
caso nell’atto si dà conto della sua presenza e
del fatto che non solleva contestazioni relativamente
alla intestazione all’altro coniuge del bene.
Secondo l’opinione preferibile, la partecipazione
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 55

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del coniuge all’acquisto non è necessaria al fine di
escludere il regime di comunione in capo al bene. La
funzione della disposizione è solo probatoria, nel
senso che - se il coniuge non ha partecipato all’atto -
il bene si presume caduto in comunione. In questo
caso spetta al coniuge che intendeva effettuare un
acquisto personale dimostrare la natura personale
dell’acquisto. Secondo questa interpretazione, la disposizione
in commento si giustifica con il fatto che
la partecipazione del coniuge all’acquisto - partecipazione
peraltro eventuale - può ingenerare confusione
in ordine all’appartenenza “alla persona” piuttosto
che “alla comunione” del bene acquistato. Proprio
il fatto che intervengano ambedue i coniugi potrebbe
portare a pensare che il bene debba ricadere in
comunione. Per evitare questo risultato, occorre che
il coniuge che avrebbe interesse alla caduta del bene
in comunione attesti che - in realtà - l’acquisto avviene
a titolo personale dell’altro coniuge.
Non convince invece la diversa opinione, secondo
cui la partecipazione del coniuge all’atto di acquisto
sarebbe necessaria. Secondo questa prospettazione,
se il coniuge non partecipa all’atto di acquisto
il bene ricadrebbe automaticamente - e irreversibilmente
- in comunione. Questa tesi non convince
in quanto essa confligge con il sistema di comunione
legale previsto nel nostro ordinamento. Il
legislatore distingue chiaramente fra beni che rientrano
nella comunione (art. 177 c.c.) e beni che non
vi rientrano (art. 179 c.c.). Dei beni che non rientrano
in comunione il coniuge titolare può disporre, da
solo, nel modo che ritiene più opportuno. E anche
del ricavato di tali beni può disporre come preferisce.
La tesi che vede un’automatica e definitiva caduta
in comunione del bene nel caso all’atto non
partecipi l’altro coniuge configura un’enorme limitazione
della libertà del coniuge proprietario unico
del bene, il quale si vedrebbe privato della titolarità
del bene per il solo fatto che all’atto di acquisto non
ha partecipato l’altro coniuge.
Complessivamente pare condivisibile l’orientamento
giurisprudenziale in materia. Sull’art. 179,
comma 2, c.c. è intervenuta recentemente la Corte
di cassazione 12 . La sentenza si è occupata di quali
siano gli effetti dell’intervento all’atto del coniuge il
quale abbia confermato la natura personale del bene
acquistato dall’altro coniuge. Secondo la Cassazione
la mancata contestazione ovvero la esplicita conferma
da parte del coniuge non acquirente di quella
dell’acquirente in ordine alla natura personale del
bene costituisce un atto cui il legislatore legge attribuisce
la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi
l’effetto di una presunzione iuris et de
iure di esclusione della contitolarità dell’acquisto. Il
vincolo derivante da tale presunzione non è assoluto,
potendo essere rimosso per errore di fatto o per
violenza 13 . La medesima Corte di cassazione, nel
2004, ha deciso che la partecipazione all’atto del co-
56 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
niuge non acquirente ha natura ricognitiva del ricorso
dei presupposti oggettivi che giustificano
l’esclusione della comunione e, dunque, la personalità
dell’acquisto 14 . La sentenza del 2004 si colloca
sulla stessa linea di un precedente della Corte di cassazione
del 2003, secondo il quale, in regime di comunione
legale, la partecipazione alla stipula del
contratto di acquisto di un bene immobile o di un
mobile registrato del coniuge formalmente non acquirente
e l’eventuale dichiarazione di assenso, da
parte sua, all’intestazione personale del bene all’altro
coniuge non hanno efficacia negoziale o dispositiva,
sotto forma di rinuncia, del diritto alla comunione
sul bene acquisendo né sono elementi di per
sé sufficienti a escludere l’acquisto dalla comunione,
ma hanno carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione,
resa dall’altro coniuge, circa la natura
personale del bene, se e in quanto questa oggettivamente
sussista 15 . Da ciò consegue che, ove tale natura
personale dei beni manchi, la caduta in comunione
legale non è preclusa da detta partecipazione
e dichiarazione, tanto più che, nella pendenza di tale
regime, il coniuge non può rinunciare alla comproprietà
di singoli beni acquistati durante il matrimonio,
salvo che sia previamente o contestualmente
mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso,
il regime patrimoniale della famiglia.
Note
1 In materia di comunione legale cfr. i recenti
contributi di F. Farolfi, Litisconsorzio necessario
nell’azione revocatoria su beni acquistati in regime
di comunione legale tra coniugi, in Fam. dir., 2009,
1105 ss.; M. Paladini, La comunione legale come
“proprietà solidale”: le conseguenze sistematiche e
applicative, in Fam. dir., 2008, 685 ss.
2 In tema di convenzione matrimoniale v., fra
i tanti, M. Dogliotti, Le convenzioni matrimoniali,
in Giur. mer., 1991, 187 ss.
3 Cass., 24 febbraio 2004, n. 3647.
4 Cass., 27 febbraio 2003, n. 2954, in Giur. it.,
2004, 281 ss., con nota di P. Cerolini; in Giust.
civ., 2003, I, 2107 ss., con nota di M. Finocchiaro.
5 Un’altra questione interpretativa dubbia è
se i beni che servono alla professione siano
quelli effettivamente usati oppure quelli che
possono essere utilizzati per la medesima. Vi
possono cioè essere dei beni teoricamente usabili
per la professione (si pensi a uno studio)
che, però, non vengono utilizzati a tal fine. Secondo
l’opinione prevalente, decisiva è l’effettiva
utilizzazione del bene per la professione.
6 C. Rimini, Commento all’art. 179, in Commentario
breve al diritto della famiglia (a cura di A.
Zaccaria), Padova, 2008, 479.
7 Cass., 20 gennaio 2006, n. 1197.

8 Per un approfondimento delle questioni
probatorie cfr. M. Sesta, Titolarità e prova della
proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia,
2001, 871 ss.
9 In questo senso si è espressa, ad esempio,
Cass., 25 ottobre 1996, n. 9307, in Giust. civ.,
1997, I, 2887 ss., con nota di F. Picardi. Secondo
questa sentenza l’art. 179, comma 2, c.c. impone
tassativamente, quando un coniuge intenda
procedere all’acquisto di un bene immobile
(o mobile registrato) come bene personale
e all’acquisto partecipi l’altro coniuge,
l’inserimento nell’atto di acquisto di una dichiarazione
bilaterale di esclusione dalla comunione,
se si vuole evitare l’inserimento in
essa fin dall’origine.
10 Cass., 25 settembre 2008, n. 24061.
11 Cass., 23 luglio 2008, n. 20296, in Fam. dir.,
2009, 351 ss., con nota di F. Farolfi, ha stabilito
che l’alienazione di un bene immobile in comunione
legale fra i coniugi non può considerarsi
atto di ordinaria amministrazione, rimesso
all’iniziativa di uno solo dei contitolari,
tenuto conto della sua attitudine a incidere
profondamente sulla composizione del patrimonio
comune. La serietà e l’irreversibilità
delle conseguenze di una tale scelta, in coerenza
con il principio della pari dignità fra i coniugi
e del favore verso la conservazione dei
beni comuni, cui è improntato il disposto di cui
all’art. 177 c.c., comportano che la stessa non
possa che essere rimessa alla comune volontà
dei coniugi, con la conseguenza che l’atto dispositivo
compiuto da uno solo degli stessi, in
violazione dell’art. 180, comma 2, c.c., e non
convalidato dall’altro, è impugnabile da quest’ultimo
entro il termine di cui all’art. 184,
comma 2, c.c.
12 Cass., 6 marzo 2008, n. 6120, in Dir. fam.
pers., 2009, 33 ss.
13 Già Cass., 19 febbraio 2000, n. 1917, in Giust.
civ., 2000, I, 1365 ss., con nota di M. Finocchiaro,
aveva deciso che la dichiarazione dell’altro coniuge
di conferma della sussistenza dei presupposti
oggettivi indicati nell’art. 179, comma
1, lett. c, d o f, c.c. oppure il mero comportamento
di non contestazione determina una
presunzione iuris et de iure di esclusione della
contitolarità dell’acquisto che può essere rimossa
solo per errore di fatto o violenza.
14 Cass., 24 settembre 2004, n. 19250, in Giur.
it., 2006, 275 ss., con nota di S. Sorrentino; in
Giur. it., 2006, 494 ss., con nota di A. Buldini.
15 Cass., 27 febbraio 2003, n. 2954, in Giur. it.,
2004, 281 ss., con nota di P. Cerolini; in Giust.
civ., 2003, I, 2107 ss., con nota di M. Finocchiaro.
La costituzione di parte
civile del convivente
omosessuale
di FRANCESCO TRAPELLA
STUDI E RICERCHE
DOTTORANDO IN DIRITTO PUBBLICO INDIRIZZO PENALISTICO
UNIVERSITÀ DI ROMA TORVERGATA
1. Il tema
Con ordinanza del 19 luglio 2007 il giudice dell’udienza
preliminare di Roma ammetteva quale
parte civile in un processo per omicidio doloso il
convivente, partner omosessuale, della vittima. Il
giudice riconosceva all’istante un danno diretto,
consequenziale alla morte del compagno. A siffatta
decisione si perveniva attraverso la prova di un rapporto
solido tra i due soggetti, documentato da disposizioni
testamentarie, rapporti patrimoniali comuni,
scritti privati e testimonianze di conoscenti 1 .
Nel novembre 2009 la nona sezione penale del Tribunale
di Milano assumeva una decisione del medesimo
tenore; in seguito a essa si costituiva parte civile
un uomo il cui compagno aveva perso la vita in un incidente
stradale. Il giudice così statuiva sull’assunto
che in capo al convivente dovesse riconoscersi un interesse
inerente la vittima, giustificante la risarcibilità
del danno non patrimoniale cagionato dal reato 2 .
La questione che si poneva era se dalla peculiare situazione
di convivenza - in Italia, sul piano generale,
sprovvista di un’organica disciplina giuridica 3 - discende
la risarcibilità del danno derivato dal reato subìto
da taluno dei conviventi: una risposta affermativa
indica il riconoscimento di interessi meritevoli di tutela
derivanti dal rapporto omosessuale tra i partners.
L’interrogativo si inserisce in una più ampia riflessione
sul perimetro delle posizioni protette nell’ambito
del risarcimento per danno non patrimoniale
derivante da rapporti di convivenza; ci si domanda,
cioè, quale legame è paragonabile a quello
discendente dal matrimonio o dalla parentela, attesa
l’impossibilità di estendere la nozione di famiglia
a ogni forma di aggregazione domestica. La Consulta
ha recentemente affrontato la questione 4 con
speciale riferimento alla legittimità del divieto di
matrimonio omosessuale, vista l’assenza di disposizioni
legislative che espressamente richiedono la
differenza di genere per contrarre matrimonio.
L’argomento è complesso e presenta senz’altro
numerosi profili di indagine.
Tenuto conto di tali premesse, si valuterà se il vincolo
tra due persone del medesimo sesso, conviventi
e legate da una relazione sentimentale sia a tal
punto forte - e, dunque, rilevante per l’ordinamento
- da giustificare l’esercizio dell’azione civile per le
restituzioni e per il risarcimento del danno all’interno
del processo penale.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 57

STUDI E RICERCHE
2. La risarcibilità del danno da interruzione della
convivenza
Secondo un orientamento giurisprudenziale abbastanza
risalente 5 , nel caso di morte di una persona,
il soggetto che con essa convive, ricevendone
vantaggi, è tenuto, nel chiamare in causa il responsabile,
a dimostrare il proprio diritto a ottenere quei
benefici. Detto diritto - affermò la Suprema Corte 6 -
‹‹non può discendere che da legge o da patto››, con ciò
impedendosi al convivente more uxorio la domanda
per il risarcimento dei danni cagionati dalla morte
della persona con cui coabitava.
Un orientamento un po’ più recente 7 ha affermato
che la convivenza di fatto costituisce una libertà costituzionalmente
protetta e, come tale, tutelabile
erga omnes. Qualora il rapporto venga meno per effetto
dell’azione omicidiale di un terzo, quindi, la
domanda risarcitoria del convivente sopravvissuto
sarebbe perfettamente ammissibile. Naturalmente
- specifica la Suprema Corte 8 - il legame che astringeva
la vittima e chi pone la domanda deve aver
posseduto natura a tal punto stabile da indurre a ritenere
ragionevolmente che, ove non avesse avuto
luogo l’omicidio, la convivenza sarebbe proseguita
nel tempo.
Assume, così, valore non il rapporto interno tra i
coabitanti, bensì il loro legame in relazione ai terzi,
non ammettendosi in esso interferenze dall’esterno;
la rottura della convivenza per effetto di reato rileva,
poi, in quanto produce un danno patrimoniale qualificabile
nel venire meno degli incrementi economici
che il convivente di fatto era indotto ad attendersi.
L’instaurazione del rapporto è esercizio di una libertà
costituzionalmente protetta: i conviventi si
determinano liberamente a non assumere gli obblighi
che l’ordinamento pone ai coniugi. Nessun vincolo
di natura personale o patrimoniale discende ex
lege sui conviventi 9 che, al più, eseguiranno attribuzioni
patrimoniali a favore l’uno dell’altro per un dovere
morale o sociale 10 . È una cosiddetta obbligazione
naturale, che determina unicamente, quale conseguenza
sul piano giuridico, il divieto di soluti retentio
ai sensi dell’articolo 2034, c.c..
La cessazione del rapporto per fatto del terzo giustifica
una domanda risarcitoria da parte del convivente
solo nel caso in cui le libere prestazioni offertegli
dal compagno fossero tali da indurlo nell’aspettativa
di una loro corresponsione periodica:
deve, quindi, dimostrarsi la stabilità del rapporto e la
somiglianza, anche per il requisito della costanza,
al coniugio 11 .
Il parametro costituzionale che permette di considerare
la convivenza di fatto come libertà degna
di tutela è l’articolo 2 12 , che salvaguardia i diritti dell’individuo,
sia come singolo, sia nelle formazioni
sociali dove si svolge la sua personalità.
Attraverso il richiamo a quella norma la Consulta
specifica la rilevanza del legame fattuale e sottoli-
58 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
nea la necessità che la legge disponga per esso propri
e adeguati strumenti di tutela. È pacifico che
nella prassi giurisprudenziale ‹‹il richiamo all’articolo
2 [serve] come argomentazione aggiuntiva per giustificare
un assai più normale (e ideologicamente meno impegnativo)
bilanciamento degli interessi›› 13 , fornendo,
così, una copertura costituzionale a quelle situazioni
giuridiche attive prive di esplicito riferimento
in Costituzione. L’articolo 2 è norma a “fattispecie
aperta” 14 , riconoscendo quei diritti che esprimono
l’evoluzione della coscienza sociale 15 . La convivenza
necessita, dunque, di meccanismi atti a salvaguardarne
la sopravvivenza e, ove ciò non sia possibile a
causa di fattori che la abbiano estinta irreversibilmente
contro la volontà degli interessati, di congegni
che riparino 16 la rottura del rapporto.
Il riferimento all’articolo 2 permette, quindi, ai
conviventi di tutelare le posizioni giuridiche di vantaggio
da essi ricoperte nell’ambito del rapporto di
fatto, legittimandoli ad agire in sede processuale per
il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, generati
dalla rottura del legame. Ciò è, altresì, confermato
dalla recente giurisprudenza di merito 17 che individua
quale requisito necessario e sufficiente per il riconoscimento
di profili di responsabilità extrapatrimoniale
la lesione di un interesse costituzionalmente
protetto 18 , ‹‹atteso che il riconoscimento nella Costituzione
dei diritti inviolabili inerenti alla persona non
aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente,
ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso
determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione
del danno non patrimoniale›› 19 .
Quanto ai presupposti del danno non patrimoniale
20 , indice fondamentale è ancora una volta la
stabilità del rapporto, desumibile - in modo non diverso
da come affermato dal Tribunale di Roma nel
2007 - da una moltitudine di fattori, quali scritti privati,
testimonianze, rapporti patrimoniali comuni o
tracce di attività quotidiane condivise. Peraltro, se il
danno morale subìto dal congiunto della vittima è
presumibile ove sia esistito un legame affettivo di
particolare intensità 21 , e questo sia provato, stessa
regola di giudizio deve applicarsi alla convivenza. E
questo, proprio per la tutela offerta al rapporto di
fatto dall’articolo 2 Cost.
3. La progressiva affermazione di nuove aggregazioni
L’articolo 2 Cost. riconosce quei diritti che, pur
non esplicitamente costituzionalizzati, nascono dall’evoluzione
della società 22 , essendo la loro tutela avvertita
nella popolazione come necessaria.
La scelta di instaurare una convivenza, senza,
così, soggiacere agli obblighi del matrimonio, è sempre
più frequente nella società italiana. Lo dimostrano
i dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) 23 circa il numero di unioni contratte nel
Paese negli ultimi anni 24 .

Un primo dato importante è la diminuzione dei
matrimoni, da circa 420.000 del 1972 a 246.613 del
2008 (una riduzione di quasi il 40% in trentacinque
anni), cui si contrappone il costante aumento dei divorzi:
con riguardo al quinquennio 2004-2008 si
passa da 17.242 a 20.012 (un incremento del 14%).
Un trend simile, per le separazioni, che nel giro di un
anno, dal 2006 al 2007, subivano una variazione di
segno positivo dell’1,2% 25 .
Al 31 dicembre 2009 - sempre secondo le statistiche
ISTAT - il numero di convivenze era di 28.419,
con ciò intendendosi, ai sensi dell’art. 5, d.p.r. 30
maggio 1989, n. 223 (TU Anagrafe) ‹‹un insieme di persone
normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura,
di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale
nello stesso comune››. Alla stessa data, il numero
di famiglie - ossia di ‹‹persone legate da vincoli di matrimonio,
parentela, affinità, adozione, tutela o vincoli affettivi,
coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso
comune›› (art. 4, TU Anagrafe) - era di 24.905.042.
Si badi, però, che la definizione anagrafica di “famiglia”
contempla tanto quella costituzionale, fondata
sul matrimonio, quanto la coabitazione fondata
su un semplice vincolo affettivo 26 , così come la
nozione anagrafica di “convivenza” prescinde da legami
sentimentali.
Altra statistica interessante riguarda il numero
delle nascite naturali: alla fine del 2007 i figli naturali
rappresentavano il 18,6% del totale, rispetto al
12,3% del 2002. Nel quinquennio in esame, le nascite
all’interno del matrimonio scendono dall’87,7%
all’81,4% 27 . Guardando allo stato civile della madre,
nel 2008, 443.047 sono state le nascite da genitrice
coniugata contro le 101.948 da nubile, le 999 da vedova
e le 6.202 da madre divorziata. Nello stesso
anno, 428.750 erano i nati da padre coniugato, 88.788
da celibe, 454 da vedovo e 5.078 da divorziato 28 .
Gli indicatori demografici richiamati dimostrano
la tendenza, nella popolazione italiana, al progressivo
abbandono della concezione tradizionale di famiglia
fondata sul matrimonio; si affermano nuove
unioni sociali e con esse l’esigenza di ottenerne tutela
giuridica.
4. La rilevanza sociale della convivenza omosessuale
Le statistiche dimostrano che l’evoluzione sociale
attribuisce rilievo al fenomeno dei rapporti di fatto 29 .
La giurisprudenza, cogliendo questa inclinazione,
parla di libertà costituzionalmente protetta, con riferimento
all’articolo 2. Di qui, la risarcibilità del danno
cagionato da rottura della convivenza. A essa finora si
è sempre data la definizione di legame stabile che
vincola due soggetti eterosessuali, non sposati, in una
struttura analoga a quella matrimoniale 30 .
Le due ordinanze menzionate in apertura, facevano
riferimento, invece, alla convivenza omosessuale,
verso la quale - si scriveva qualche anno fa -
STUDI E RICERCHE
‹‹si avverte una certa tendenza a non condannarl[a] come
contrari[a] al buon costume››, pur essendo ‹‹la nostra società
[…] lontana dal reputarl[a] suscettibil[e] di una
qualche rilevanza paragonabile a quella delle convivenze››
eterosessuali 31 . In effetti, se alcuni Paesi europei già
da vent’anni hanno legalizzato le unioni di persone
dello stesso sesso 32 , l’Italia non è pervenuta a una
disciplina legislativa sul punto, essendosi, peraltro,
assai recentemente ribadita l’impossibilità di dar
luogo a matrimoni omosessuali 33 .
Quanto detto allora, peraltro, oggi non sembra più
completamente vero.
Al censimento del 2001 molte persone, conviventi
e vincolate da relazioni affettive con altre dello
stesso sesso, si dichiararono “persone conviventi non
sposate”; l’ISTAT, ritenendo questo tipo di dichiarazione
non congrua, decideva di modificare le risposte,
considerando questi soggetti come “conviventi
senza legami di parentela” ed equiparando in tal modo
le unioni affettive omosessuali a rapporti di tipo diverso,
quali la coabitazione tra studenti universitari
o quella tra un anziano e la sua badante. A seguito
di questo episodio, l’appello lanciato da alcune associazioni
affinché il modulo per il censimento del
2011 contempli l’ipotesi delle convivenze omosessuali.
All’appello aderivano quasi cinquemila persone
e, nell’aprile 2010, l’ISTAT prometteva l’accoglimento
di tale istanza.
Un simile movimento - appoggiato da decine di
migliaia di persone - e una tale richiesta - accolta, a
quel che oggi sembra, dall’Istituto nazionale di statistica
- sottolineano che la convivenza tra persone
del medesimo sesso è ormai una realtà notevole nel
Paese, non solo tollerata, ma condivisa da un numero
di soggetti sufficientemente elevato perché se
ne tenga conto nel censimento 2011.
Accanto a ciò, è opportuno riferire di alcuni orientamenti
giurisprudenziali che hanno dato alla famiglia
una definizione più lata di quella, tradizionale,
di società naturale fondata sul matrimonio 34 .
In un caso di maltrattamenti in famiglia, di fronte
al rilievo dell’imputato che l’elemento oggettivo
della fattispecie non sussisteva, essendosi i fatti
compiuti nell’àmbito di una convivenza more uxorio,
la Suprema Corte affermava recentemente che ‹‹il
richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla famiglia
deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le
quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano
sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile
periodo di tempo›› 35 .
Quattro ordinanze di altrettanti giudici di merito 36 ,
poi, investivano la Consulta del giudizio di legittimità
costituzionale delle disposizioni del codice civile
che, interpretate sistematicamente, ‹‹non consentono
che le persone di orientamento omosessuale possano
contrarre matrimonio con persone dello stesso
sesso›› 37 , con ciò impedendo loro la formazione di
una famiglia - nel senso tradizionale del termine -
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 59

STUDI E RICERCHE
senza che - si legge in tutte e quattro le ordinanze -
vi sia un interesse pubblico a giustificare tale limitazione.
La Consulta pronuncerà un provvedimento
di rigetto 38 . Il fatto che, però, fossero state formulate
è indicativo di un interesse sociale, prima che giuridico,
alla posizione dei conviventi omosessuali.
5. Su una nozione “allargata” di famiglia
Si è affermato che i legami costitutivi del vincolo
familiare sono quelli tra i sessi e le generazioni, sussistendo,
così, famiglia solo in presenza di almeno
uno di essi 39 . Attualmente la sociologia si è aperta
al riconoscimento di nuove forme familiari, dettate
dai connotati tipici della società contemporanea; alcuni
orientamenti comprendono tra esse anche la
famiglia individuale, la convivenza monosesso o le
coppie di fatto 40 .
All’evoluzione del pensiero sociologico non corrisponde
quella del giuridico. Qualche orientamento
giurisprudenziale - come si è visto - appare incline a
estendere il novero dei legami familiari, così da riconoscerne
i diritti discendenti anche a soggetti uniti
da relazioni extramatrimoniali; il legislatore, tuttavia,
rimane ancorato al paradigma familiare delineato
dall’articolo 29 della Costituzione, conferendo al vincolo
matrimoniale un regime di tutele di livello superiore
rispetto alle altre formazioni sociali.
È un tema, questo, già affrontato dai giudici della
Consulta 41 , per i quali la discrasia normativa tra la
disciplina del matrimonio e quella dei restanti
gruppi sociali non viola il principio di uguaglianza:
i caratteri di stabilità e certezza scaturenti dalla promessa
nuziale rendono il legame tra gli sposi socialmente
rilevante, al punto che si giustifica un regime
di salvaguardie più stringente rispetto a quello
di cui all’articolo 2.
Le due nozioni di famiglia - quella sociologica e
quella giuridica - attualmente così distanti tra loro,
creano un empasse. L’interrogativo è se assecondare
l’evoluzione dei costumi sociali, con il rischio di estendere
all’inverosimile la nozione di gruppo familiare e
di porre sullo stesso piano, dal punto di vista del riconoscimento
dei diritti, legami di natura profondamente
diversa, ovvero se adottare una soluzione di segno
opposto, con ciò mantenendo, se non aggravando,
il divario tra esigenze sociali e risposta giuridica.
La soluzione sta nel mezzo.
Il fenomeno della convivenza richiama la famiglia
di fatto, realtà non regolata normativamente - se non
in casi sporadici - in quanto ‹‹ciò avrebbe comportato un
secondo statuto della famiglia, incoerente con la scelta di libertà
posta in essere dalle parti›› 42 . Occorre rovesciare tale
assunto. La convivenza è una libertà, e come tale necessita
di riconoscimento e regolamentazione. Il legislatore
ha talora (sia pur di rado) provveduto a essa,
per esempio, estendendo al convivente la disciplina
di favore per la visita ai detenuti che già l’Ordinamento
Penitenziario prevedeva per il coniuge 43 . Sem-
60 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
pre a titolo di esempio, la giurisprudenza costituzionale
ha applicato al convivente la disciplina della successione
nel rapporto di locazione instaurato dal coniuge
defunto 44 . La dottrina, ancora, si interroga da
tempo sull’eventualità di un regolamento contrattuale
della convivenza; questione, peraltro, dibattuta
anche nel mondo politico, pur senza esiti concreti 45 .
Da più parti, insomma, si avverte l’esigenza di
dare una regola ai rapporti di fatto. Le realtà, d’altra
parte, sono variegate: non è pensabile assicurare la
titolarità di diritti e facoltà dalla sola constatazione
della convivenza; se così fosse, deriverebbero aspettative
simili a quelle riconosciute ai coniugi, per
esempio, a due studenti universitari coabitanti, alla
badante rispetto all’anziano accudito o, per assurdo,
a due compagni di cella o di ospedale.
Sarà compito del legislatore definire una categoria
generale di convivenza da cui derivino diritti, facoltà
e aspettative, nel rispetto della volontà dei partners:
se la convivenza è la libertà di non soggiacere agli
obblighi matrimoniali, il legislatore, nell’individuare
le specifiche situazioni giuridiche scaturenti dal rapporto
di fatto, dovrà seguire questo schema: ‹‹dalla
convivenza derivano sui partners tali reciproche
aspettative, fatta salva ogni volontà contraria e ogni
diverso accordo tra gli interessati››.
Il rapporto, perché sia giuridicamente rilevante,
dovrà essere stabile 46 . La valutazione di stabilità 47
sarà, poi, rimessa al giudice, che statuirà sulla base
di dati temporali (la durata del rapporto), del contatto
diretto con le parti in gioco e, quindi, dell’immediata
conoscenza della loro vicenda personale 48 .
Uno schema siffatto eviterebbe di radicalizzare il
conflitto, soprattutto ideologico, tra chi auspica una
tutela integrale del rapporto di fatto e chi aspira al
riconoscimento giuridico della sola famiglia legittima.
Non si creerebbe, infatti, un regime di tutele
parallelo a quello matrimoniale 49 , in spregio all’art.
29 Cost., ma offrirebbe alla convivenza il riconoscimento
legislativo derivante dall’art. 2 Cost.
A questo punto a nulla varrebbe eccepire l’eventuale
identità di sesso dei conviventi, posto che non

di matrimonio si tratterebbe, ma di un rapporto di
fatto regolato dal legislatore, avallato da un provvedimento
giurisdizionale e conforme alla volontà degli
interessati.
6. La legittimazione del convivente omosessuale
L’idea di una regolamentazione contrattuale o
giudiziale delle convivenze (e, ancor di più, di quelle
omosessuali) è senz’altro suggestiva. Si tratta, però,
di un traguardo ancora lontano. Un primo passo
nella direzione di un riconoscimento del rapporto di
fatto, però, è stato compiuto, riconducendo la convivenza
al paradigma dell’art. 2 Cost.
Ciò assume rilevanza certa in tema di legittimazione
a costituirsi parte civile.
Secondo l’art. 74 c.p.p. il titolo dei legittimati all’azione
civile è un ipotetico danno risarcibile, cioè a
dire, un diritto leso 50 . Non è parte civile chiunque abbia
subito un qualsiasi danno dal reato: la risarcibilità
della violazione è correlata alla lesione di un diritto
soggettivo attinente al bene giuridico tutelato
dalla norma penale 51 . Il titolare di quella posizione
giuridica si costituisce iure proprio, ben potendo vantare
una propria e autonoma pretesa risarcitoria davanti
al giudice 52 .
La giurisprudenza, poi, ha affermato il diritto al risarcimento
anche in capo al titolare di un cd. diritto
affievolito o di un interesse legittimo, escludendosi
chi abbia un mero interesse all’ordinata osservanza
delle leggi poiché esso si trasferisce sull’intera collettività
senza possibilità di una tutela individuale 53 .
Quale che sia la situazione soggettiva vantata dal
danneggiato la lesione arrecata deve essere conseguenza
diretta e immediata del reato.
All’intervento della parte civile nel giudizio si applica
l’art. 100 c.p.c.: l’interesse vantato deve essere
concreto - cioè consistente in un’utilità pratica che il
ricorrente ottiene con il provvedimento giudiziale 54
- e attuale, dotato, quindi, di una consistenza giuridicamente
oggettiva 55 .
Quanto al contenuto del danno da reato risarcibile,
esso è costituito sia dalla componente patrimoniale
(del danno emergente e del lucro cessante),
sia da quella non patrimoniale che, per la persona
fisica, consiste nella sofferenza fisica o morale 56 .
Poste queste minimali premesse, non è aprioristicamente
da escludere la pretesa, in sede penale, del
convivente omosessuale per interruzione del rapporto
di fatto a seguito di reato.
Circa il contenuto della pretesa, la cessazione, irreversibile
e non voluta, della convivenza per fatto
del terzo vìola una libertà costituzionale, con ciò
realizzandosi un profilo di responsabilità civile in
capo all’autore della lesione 57 .
Le statistiche - si è visto - dimostrano che la convivenza
monosesso assume una sempre maggiore
rilevanza nella società; la scelta di instaurare un
rapporto siffatto è a pieno titolo qualificabile in ter-
STUDI E RICERCHE
mini di libertà del singolo ed è sempre riconducibile
all’art. 2 Cost.: l’individuo elegge il nucleo creato con
il proprio partner - non importa quale ne sia il sesso
o l’orientamento sessuale 58 - quale luogo in cui formare
la propria persona.
Indipendentemente dall’identità del sesso dei
conviventi il rapporto deve essere stabile: sul punto
la giurisprudenza è unanime. La stabilità è il requisito
necessario affinché si generino delle aspettative,
di carattere economico e non, in capo ai conviventi
circa la prosecuzione del rapporto, dal cui venire
meno deriva un danno risarcibile.
7. Conclusioni
Allo stato attuale solo un timido segnale proviene
dalla giurisprudenza - seppur di merito - al riconoscimento
della posizione processuale di colui che
subisce un danno dal reato occorso al proprio convivente
omosessuale.
In generale, il panorama normativo italiano fatica
a dare voce alle esigenze della vittima nel processo
penale, tradendo, così, le indicazioni dell’Unione Europea
59 . Con riguardo alla presente indagine, la speranza
di un’inversione di rotta fa, sia pure timidamente,
capolino con l’ordinanza romana del 2007 e
con quella milanese del 2009.
Il riconoscimento processuale del rapporto monosesso
comporta il riferimento a questioni di carattere
sociale. Il timore di una parte dell’opinione
pubblica è che un’eccessiva elasticità nel dare rilievo
a unioni sociali di forma diversa da quella familiare
causi l’allontanamento dal paradigma delineato
dall’art. 29 Cost.
Certo, i giudici della Consulta perseverano nell’affermare
che l’unione fondata sul matrimonio merita
una tutela di livello superiore alle altre formazioni sociali.
Il legislatore non ha definito un regime normativo
delle convivenze - né eterosessuali, né omosessuali
-, causa la netta divisione dell’opinione pubblica
sul punto. La giurisprudenza, di legittimità e costituzionale,
si limita a ricondurre il diritto a convivere all’art.
2 Cost., faticando, tuttavia, ancora a porre sullo
stesso piano i rapporti monosesso rispetto agli altri.
L’identità e le scelte sessuali dei partners non possono
incidere sul diritto di convivere che, pertanto,
deve essere riconosciuto indipendentemente da esse.
A prescindere dall’evoluzione del concetto sociologico
di famiglia e della considerazione empirica per
cui non sempre è più stabile il rapporto tra due coniugi
che quello tra due conviventi, anche dello
stesso sesso, le ordinanze di cui si è trattato rispettavano
la ratio del dettato costituzionale. La persona è
il primo valore da preservare, e a essa si riconosce
ogni libertà funzionale alla sua crescita 60 . La scelta di
chi decide di convivere con altro individuo del medesimo
sesso rientra nella libertà di stabilire in quale
contesto sviluppare la propria persona, e come tale
necessita del più ampio riconoscimento possibile.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 61

STUDI E RICERCHE
Note
1 GUP Roma, Ord. 19 luglio 2007.
2 Trib. Milano, IX sez. pen. Ord. 19 novembre
2009.
3 Come già rilevato da M. SESTA, La disciplina
giuridica della convivenza di fatto tra libertà, solidarietà
e public policy, in Diritti nelle famiglie di fatto:
attualità e futuro. Atti del convegno tenutosi a Bari
il 09.06.2003, Bari, 2004, 23-39.
4 In Cort.cost. 14 aprile 2010, n. 138 in www.giurcost.org
(ultima consultazione: 3 giugno 2010).
5 Vedi, ex plurimis, Cass. Sez. I, 7.7.1992, n.9708,
Giacometti in Giur.it., 1993, II, 659.
6 Ibidem
7 Cass. Sez. I, 4 febbraio 1994, n. 3790, De Felice in
Riv.it.dir.proc.pen. 1996, 371.
8 Ibidem
9 Cass.civ. Sez. III, 29 aprile 2005, n. 8976, Olivieri
in Dir. e giust. 2005, 27 18 con nota di ROSSETTI
10 A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto
privato, XVII ed. Giuffrè, Milano 2004, 390
11 Cfr. sia Cass. Sez. I, 4 febbraio, 1994, n. 3790, De
Felice, cit., sia Cass.civ. Sez. III, 29 aprile 2005, n.
8976, Olivieri, cit.
12 Cfr. R. ROSSI, Famiglia e persone, aggiornamento
vol. II, Utet Giuridica, Torino 2008, 169. In
giurisprudenza, Cort.Cost. Sent. 27 marzo 2009,
n. 86 in Foro it. 2010, I, 796, che richiama
Cort.Cost. Ord. 20 aprile 2004, n. 121 in Fam. e dir.
2004, 329
13 Così, R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale,
VI edizione, Giappichelli, Torino 2006, 483
14 P. CENDON, Il risarcimento del danno non patrimoniale.
Parte speciale, UTET, Torino 2009, 2355
15 Sul punto, P. PERLINGIERI, Commento alla Costituzione
italiana, ESI, Napoli 2001, 8
16 Sugli strumenti in riparazione del danno, amplius,
C. SALVI, Voce Risarcimento del danno, in
Enc.diritto, Giuffré, 2001, Milano, 1084, ss.
17 Cfr. Cass.civ. sez. III, 31 maggio 2003, nn. 8827
e 8828 in Danno e resp. 2003, 816 con nota di BU-
SNELLI, Chiaroscuri d’estate. La Corte di Cassazione e
il danno alla persona. Orientamento ripreso anche
dalla Consulta in Cort.cost. Sent. 11 luglio 2003, n.
223 in Foro it. 2003, I, 2201 con nota di NAVAR-
RETTA, La Corte costituzionale e il danno alla persona
in fieri.
18 Sul punto, R. ROSSI, Famiglia e persone, cit. 170
e anche, per un’analisi approfondita, C. SALVI, La
responsabilità civile in Trattato di diritto privato a
cura di G. IUDICA e P. ZATTI, Giuffrè, Milano 2005,
64
19 Cass.civ. sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, cit.
62 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
20 Cfr. C. SALVI, La responsabilità civile, cit. 70.
21 Cass.civ. Sez. III, 19 novembre 2009, n. 24435
in www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com (consultato
il 5 giugno 2010).
22 In tema anche P. CARETTI, I diritti fondamentali.
Libertà e diritti sociali, Giappichelli, Torino 2005,
136.
23 E disponibili sul sito dell’Istituto: www.istat.it
(consultato il 7 giugno 2010).
24 Il riferimento è alla statistica pubblicata l’8
aprile 2010.
25 Le statistiche su separazione e divorzi attualmente
disponibili si fermano al 2007.
26 Sul punto, Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 1994, n.
770, ripresa da TAR Veneto, 27 agosto 2007, n.
2786, entrambe su www.giustamm.it (consultato
il 7 giugno 2010)
27 Fonte ISTAT
28 Fonte ISTAT
29 Con ciò venendo meno rispetto all’ideale napoleonico
per cui les concubins se passent de la loi,
la loi se désintéresse d’eux. Cfr. C. M. BIANCA, Diritto
civile, vol. 2 - La famiglia, le successioni, III edizione,
Giuffré, Milano 2001, 25
30 Con l’eccezione della nozione anagrafica di
convivenza ai sensi degli artt. 4 e 5 del TU Anagrafe
31 C. M. BIANCA, Diritto civile, cit. 27
32 Il primo Paese al mondo fu la Danimarca con
la legge 7 giugno 1989, n. 372
33 Cfr. Cort.cost. 14 aprile 2010, n. 138, cit.
34 Cfr. P. RESCIGNO, Persona e comunità, Il Mulino,
Bologna 1966, 52.
35 Così, in Cass. Sez. II, 22 ottobre 2009, n. 40727,
T.L. in Dir. e giust. 2009 con nota di CIARLA
36 Si fa riferimento all’Ordinanza 3 aprile 2009
del Tribunale di Venezia, sez. III civile, all’Ordinanza
29 luglio 2009 della Corte d’Appello di
Trento; all’Ordinanza 13 novembre 2009 della
Corte d’Appello di Firenze; all’Ordinanza dell’11
dicembre 2009 del Tribunale di Ferrara.
37 Trib. Venezia, sez. III civile, Ordinanza 3 aprile
2009, in www.amicuscuriae.it (ultima consultazione:
15 giugno 2010)
38 Ancora una volta Cort. Cost. Sent. 14 aprile
2010, n. 138, cit.
39 Così, G. ROSSI, Temi emergenti di sociologia della
famiglia: la rilevanza teorico-empirica della prospettiva
relazionale, Vita e pensiero, Milano 2003, 196.
40 Per utili approfondimenti, P. BOCCIA, Sociologia.
Teoria, storia, metodi e campi di esperienza sociale, II
edizione, M&P edizioni, Bologna 2008, 109
41 Cort. Cost. Sent. 27 marzo 2009. n. 86, cit.

42 S. CICCARELLO, Parentela e affinità in AAVV,
Trattato di diritto privato a cura di M. BESSONE, vol.
IV, Il diritto di famiglia, Tomo I, Giappichelli, Torino,
2006, 9.
43 Art. 35, d.p.r. 29 aprile 1976, n. 431.
44 Cort.Cost. Sent. 7 aprile 1988, n. 404 in
Dir.fam.pers. 1990, 766 con nota di M. DOGLIOTTI,
La Corte Costituzionale attribuisce (ma solo a metà)
rilevanza giuridica alla famiglia di fatto.
45 Sul problema dei PACS o dei DICO, C. MAZZÙ,
La famiglia degli affetti in AAVV, Diritto privato. Studi
in onore di Antonio Palazzo, vol. 2, Persona, famiglia e
successioni, a cura di S. MAZZARESE e A. SASSI,
UTET, Milano 2009, 547.
46 Come affermato a più riprese dalla giurisprudenza:
ex plurimis, Cass.civ. Sez. Un. 1 luglio
2002, n. 9556, in Giust.civ. 2003,1, 2195.
47 Riprendendo quanto in questa sede già citato,
è stabile quel rapporto che si pone alla base della
‹‹famiglia degli affetti›› (così, C. MAZZÙ, cit.), con ciò
escludendosi tutto ciò che assume il carattere
dell’occasionalità e comprendendosi quanto deriva
da uno specifico progetto di condivisione del
quotidiano.
48 De iure condendo si suggerisce uno schema simile
a quello predisposto in materia di misure di
protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.
In quel contesto, il giudice, disponendo
l’amministrazione di sostegno, l’interdizione o
l’inabilitazione, incide sui diritti del singolo, talora
conferendo ad altra persona (amministratore,
tutore o curatore) la potestà di compiere atti
in sua vece. La giurisdizione volontaria penetra,
così, in profondità nella sfera giuridica di colui
che abbisogna di ‹‹adeguata protezione›› (art. 414
c.c.), con ciò assicurandogliela in ossequio al principio
del riconoscimento e della garanzia dei diritti
del singolo (art. 2 Cost.).
In un’ottica di regolamentazione normativa dei
rapporti di fatto, in forza del medesimo precetto
costituzionale, il giudice, valutata la sussistenza
dei presupposti di legge, definirebbe un nuovo assetto
di diritti e aspettative dei conviventi - penetrando
nella loro sfera giuridica in modo non
meno significativo di quanto è attualmente in
fatto di protezione dei soggetti limitati nella capacità
di agire -, nella necessità di riconoscere e
garantire loro la libertà di unirsi in una formazione
sociale diversa dal matrimonio.
49 Che continuerebbe a rappresentare la massima
garanzia di stabilità sociale, derivando dall’inderogabilità
degli obblighi matrimoniali la preferenza
che il Costituente accordava alla famiglia
legittima con l’art. 29 Cost. (sul punto, Cort. Cost.
sent. 27 marzo 2009, n. 86, cit.).
STUDI E RICERCHE
50 Per un utile inquadramento dell’istituto all’indomani
dell’entrata in vigore del codice, F.
CORDERO, Art. 74 in Codice di procedura penale commentato,
UTET, Torino 1990.
51 Così, Cass. Sez. V, 16 maggio 1980, n. 9411, in
Giust.pen. 1981, III, 500.
52 Sulla legittimazione ad agire civilmente nel
processo penale iure proprio come ‹‹diritto del soggetto
al quale il reato ha recato danno nel senso che è
venuto a sorgere direttamente nei suoi confronti››,
Cass. Sez. IV, 19 aprile 2005, n. 38809 in Resp. e risarcimento
2006, 2, 84.
53 Cass. Sez. Fer. 12 agosto 2003, n. 37812, massima
sub art. 74 in Codice di procedura penale annotato
con la giurisprudenza a cura di G. LATTANZI,
Milano Giuffré, 2007.
54 Cass. civ. Sez. III, 24 settembre 2002, n. 13906,
in Mass.giur.it. 2002.
55 Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2002, n. 12548 in
Mass.giur.it. 2002.
56 Cass. Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435 in Guida
dir. 2006, 10, 73.
57 Secondo orientamento ormai uniforme della
giurisprudenza di legittimità (v. supra, §2).
58 Come pure in Trib. Milano, 15 dicembre 2009,
in Resp.civ. e prev. 4/2010 con nota di E. FALLETTI.
È l’art. 3 Cost. a imporre di ritenere che il concetto
di more uxorio vale tanto per la convivenza omosessuale
quanto per quella eterosessuale. E con
ciò, tutto quel che ne deriva in termini di diritti,
facoltà e aspettative.
59 Si pensi, a titolo di mero esempio, a provvedimenti,
anche piuttosto risalenti nel tempo,
quali: a) la Comunicazione della Commissione
del 28 maggio 1999 al Consiglio, al Parlamento europeo
e al Comitato economico e sociale Le vittime
della criminalità nell’Unione europea - Riflessione sulle
norme e misure da prendere; b) la Decisione quadro
del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione
della vittima del procedimento penale
(pubblicata in GUCE, L 82 del 22.03.2001); c) la Relazione
della Commissione sulla base dell’articolo
18 della decisione quadro del Consiglio del 15
marzo 2001 relativa alla posizione della vittima
del procedimento penale.
Atti, questi, che esemplificano l’impegno dell’Unione
- profuso già da diversi anni - a dettare
misure volte alla tutela degli interessi dell’offeso
nel processo penale. Per utili approfondimenti, si
consulti il sito http://europa.eu/legislation_summaries
(ultima consultazione: 24 giugno 2010).
60 Si tratta del cd. principio personalistico. Sul
punto, tra i tanti, P. CARETTI, I diritti fondamentali,
cit. 136, ss.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 63

GIURISPRUDENZA CIVILE
Affido condiviso e assegno
di mantenimento per i figli
Anche in regime di affido condiviso è pienamente
legittimo il mantenimento indiretto dei figli
attraverso un assegno
Cass. sez I, 4 novembre 2010, n. 22502
Presidente Maria Gabriella Luccioli,
Relatore Francesco Felicetti
Svolgimento del processo
La sig.ra F. M., con ricorso ex art. 148 cod. civ. in
data 19 settembre 2001 al Presidente del tribunale
di Genova chiedeva la determinazione di un assegno
di mantenimento per la figlia naturale A., nata
il omissis, da porsi a carico del padre naturale dott. R.
G., domandandone la quantificazione in lire
5.000.000 mensili, oltre le spese straordinarie, stante
la facoltosa situazione economica del dott. G..
Il dott. R. G. si costituiva contestando le deduzioni
della sig.ra M. circa la sua situazione economica e
deducendo che anch’essa doveva concorrere al
mantenimento della figlia, essendo titolare di mezzi
adeguati.
Il Presidente, con decreto in data 15 dicembre
2001, poneva a carico del G. un assegno mensile di
mantenimento per la figlia di lire 2.000.000, oltre a
metà delle spese mediche e di asilo.
La sig.ra M. proponeva opposizione avverso tale
decreto, mentre il dott. G. chiedeva di provvedere direttamente
al mantenimento della figlia.
Il tribunale di Genova determinava in euro
1.800,00 il contributo, oltre alle spese mediche straordinarie
e universitarie future.
La sentenza veniva appellata dalla sig.ra M. e Il
dott. G. domandava il rigetto del gravame e proponeva
appello incidentale chiedendo di provvedere
direttamente al mantenimento della minore.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza depositata
il 20 novembre 2008, notificata il giorno 8 gennaio
2009, confermava la misura dell’assegno,
Il dott. G., con ricorso a questa Corte notificato il
5 marzo 2009 alla sig.ra M. e al Procuratore generale
presso la Corte d’appello di Genova, ha proposto ricorso
formulando quattro motivi.
64 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Motivi della decisione
(omissis)
Con il secondo motivo si denunciano la violazione
degli artt. 147, 148 e 155 cod. civ., 4 della legge n. 54
del 2006 e la nullità della sentenza per omessa pronuncia
su una domanda. Si deduce al riguardo che la
Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciare sulla
domanda di mantenimento diretto della minore da
parte del ricorrente, con la previsione a suo carico di
un eventuale assegno perequativo in favore della
madre, formulata in relazione all’affidamento congiunto
della minore (con collocazione prevalente
presso la madre) avvenuto con decreto in data omissis,
così violandosi l’art. 155 cod. civ., nel testo introdotto
dalla legge n. 54 del 2006, che trova applicabilità
alla fattispecie in forza dell’art. 4 di detta legge.
Si deduce in proposito che, in base a tale legge, il
mantenimento diretto, richiesto già prima della sua
entrata in vigore dal ricorrente in primo grado, è la
forma normale di mantenimento ora prevista, cosicché
la Corte d’appello avrebbe errato nel disporre il
mantenimento indiretto a carico del padre, senza tenere
conto del mutato quadro normativo.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di statuire che,
nella determinazione del contributo previsto dall’art.
277 cod. civ., in tema di mantenimento dei figli
nati fuori dal matrimonio, la regola dell’affidamento
condiviso a entrambi i genitori ai sensi dell’art.
155 cod. civ. - applicabile anche ad essi in forza
del rinvio operato dall’art. 4 della legge n. 54 del 2006
- non implica deroga al principio secondo il quale
ciascun genitore deve provvedere alla soddisfazione
dei bisogni dei figli in misura proporzionale al suo
reddito. In applicazione di essa, pertanto, il giudice
deve disporre, ove necessario, la corresponsione di
un assegno periodico che, in caso di collocamento
prevalente presso un genitore, va posto a carico del
genitore non collocatario, prevedendone lo stesso
art. 155 la determinazione in relazione ai tempi di
permanenza del figlio presso ciascun genitore (Cass.
4 novembre 2009, n. 23411; 6 novembre 2009, n.
23630). Essendo riconosciuto dallo stesso ricorrente
che nel caso in esame l’affidamento congiunto avvenne
con il collocamento della bambina presso la
madre e la sua prevalente permanenza presso di
essa - senza che nulla sia allegato in ordine a consistenti
periodi di permanenza continuativa della minore
presso di sé che potessero influire sulla misura
dell’assegno - deve ritenersi che la Corte, in applicazione
del principio sopra indicato, implicitamente
disattendendo la richiesta avanzata dall’odierno ricorrente,
ha fissato l’assegno in questione in aderenza
con quanto stabilito dall’art. 155 cod. civ.
(omissis)
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso.

Cambiare tutto perché
nulla cambi
IL PUNTO DI VISTA
di CHIARA MAZZEO
AVVOCATO DEL FORO DI PISTOIA
“Cambiare tutto perché nulla cambi” è la considerazione
di memoria gattopardiana che si impone
leggendo l’ultima pronunzia della Cassazione che di
nuovo ignora la portata innovativa della L.54/2006 e
ripropone le modalità tipiche dell’affidamento
esclusivo dietro la maschera dei nuovi concetti di
“assegno perequativo”, “collocazione prevalente
presso un genitore”, “tempi di permanenza presso
l’altro genitore” che celano in realtà i vecchi concetti
rispettivamente di assegno di mantenimento, affidamento
esclusivo ad un genitore e diritto di visita
riconosciuto all’altro.
Con la sentenza esaminata (22502 del 2010) la Suprema
Corte ribadisce il principio della pari tutela
accordata ai figli naturali rispetto a quelli legittimi
in tema di affido condiviso e mantenimento degli
stessi così come previsto espressamente dalla
L.54/2006 e conferma l’orientamento già espresso in
precedenza (Cass. 23411/2009), secondo il quale il
mantenimento indiretto non viola l’art.155 c.c. che,
al IV comma, introduce espressamente la regola del
mantenimento diretto dei figli laddove recita:”Salvo
accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti,
ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei
figli in misura proporzionale al proprio reddito; il
giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione
di un assegno periodico al fine di realizzare il principio
di proporzionalità”, secondo i noti criteri elencati.
Che il mantenimento indiretto rappresenti l’eccezione
secondo il legislatore non paiono esserci
dubbi in considerazione della collocazione residuale
del capoverso che lo disciplina e perché altrimenti
non si comprenderebbe il senso della locuzione “ove
necessario”. Del resto la stessa Suprema Corte condivide
tale interpretazione dell’art.155 c.c. quando
nella sentenza citata 23411 del 2009 afferma che con
tale norma “si introduce il principio generale per
cui ciascun genitore provvede al mantenimento dei
figli in misura proporzionale al proprio reddito”.
Ciò nonostante la stessa Suprema Corte nella citata
sentenza si affretta a ignorare la regola e a concentrarsi
sull’eccezione, affermando che “È da ritenere
peraltro che la corresponsione di assegno si riveli
quanto meno opportuna, se non necessaria,
quando, come nella specie, l’affidamento condiviso
preveda un collocamento prevalente presso uno dei
genitori”.
Secondo tale orientamento, fedelmente richiamato
dalla sentenza in esame, il mantenimento in-
GIURISPRUDENZA CIVILE
diretto deve prevedersi ogniqualvolta il minore sia
collocato prevalentemente presso uno dei genitori.
Ebbene, poiché uno dei correttivi introdotti dalla
giurisprudenza alla legge sull’affido condiviso è
stato proprio quello di individuare il genitore “collocatario”,
introducendo un concetto - la c.d. “collocazione
prevalente” - non previsto dalla legge, è tramite
questa sorta di correttivo che la Suprema Corte
assegna al mantenimento indiretto il ruolo di regola,
in spregio al’interpretazione autentica dell’art. 155
IV comma c.c..
Del resto la giurisprudenza prevalente è ricca di
correttivi alla legge 54/2006 nello sforzo, quello sì
condiviso, di forzare il dato interpretativo e riportare
la normativa nell’alveo dell’affidamento esclusivo.
Alla base di tale atteggiamento si pone un sentimento
diffuso di diffidenza nei confronti del principio
della bigenitorialità. Invero negare diritto di cittadinanza
al mantenimento diretto implica la convinzione
che il genitore “non collocatario” non contribuirà
affatto al mantenimento diretto del minore
se viene meno l’obbligo a suo carico di versare all’altro
genitore il periodico assegno perequativo. Secondo
questa cultura maggioritaria, il mantenimento
diretto sarebbe inoltre foriero di lites immortales
tra gli ex coniugi e in particolare penalizzerebbe
oltre misura il genitore “collocatario” costringendolo
ad una costante attività di questua nei
confronti dell’altro.
Sono rischi che in effetti non devono essere sottovalutati.
È innegabile al contempo che anche l’attuale sistema:
1. alimenta l’odioso pregiudizio secondo il quale il
contributo forfettario sarebbe solo nominalmente
destinato ai bisogni del figlio, rappresentando il realtà
una”rendita di posizione” per il genitore, nel
99% dei casi la madre, convivente;
2. non garantisce il diritto del minore ad essere
mantenuto, sol se si pensi al massiccio ricorso alle
procedure esecutive previste ex lege per il recupero
forzoso del contributo al mantenimento non versato
o per le spese straordinarie non rimborsate pro quota
e a tutti i procedimenti penali che scaturiscono dalle
querele ex art.570 cp.
In tutti quei casi, sempre più diffusi, in cui non
esiste un genitore menefreghista e un genitore attento
alle esigenze del figlio, ma sono entrambi partecipi
alla vita del figlio e entrambi desiderano prendersene
cura direttamente, il meccanismo del mantenimento
diretto non è poi così eversivo perché
consente al genitore, di solito il padre, che a seguito
della separazione perde la quotidianità con il proprio
figlio, di mantenere il controllo sulla sua vita
nel momento in cui è chiamato a provvedere direttamente
alle sue esigenze, un controllo diretto
senza il filtro necessario della madre.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 65

GIURISPRUDENZA CIVILE
In questi casi potrebbe essere mantenuto un assegno
perequativo mensile a titolo di contributo alle
spese “vive” (bollette, generi alimentari) in presenza
di una disparità reddituale tra i coniugi ovvero
quando i tempi di permanenza del minore siano
prevalenti presso uno dei genitori, sul quale grava
maggiormente il peso economico del suo mantenimento
ordinario.
In questi casi il genitore privato della quotidianità
con il figlio si assumerebbe l’obbligo di sostenere
per intero una serie di spese “fisse” (ad esempio
tutto ciò che concerne l’istruzione - bollettini,
rette, materiale didattico, gite, vacanze studio - ovvero
l’abbigliamento, ovvero le spese sportive, ecc.)
secondo quelli che vengono definiti “capitoli separati
di spesa”.
Ad oggi, grazie in primis al buon senso dei genitori
e all’intervento di colleghi “illuminati” è stato possibile
applicare il mantenimento diretto in talune
separazioni consensuali.
Chissà che con la diffusione della cultura della bigenitorialità
anche nelle aule di giustizia il mantenimento
diretto trovi il dovuto riconoscimento.
La Corte di cassazione
interpreta l’art. 709-ter c.p.c.
Cass. sez. I, 22 ottobre 2010. n. 21718
(omissis)
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 155 quater c.c., e art. 709 ter
c.p.c., proposto davanti al Tribunale di Benevento,
P.A. lamentava che la moglie separata R.A., collocataria
del figlio minore N., affidato ad entrambi i genitori,
aveva unilateralmente trasferito la propria residenza
e quella del figlio nel Comune di (omissis),
contro l’interesse del minore stesso. Chiedeva sanzionarsi
la moglie ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., e
modificarsi il regime di affidamento, con domicilio
del minore presso di sé.
Costituitasi, la R. chiedeva rigettarsi le domande
del coniuge, precisando che lo spostamento della residenza
era necessitato, essendo la casa di abitazione
precedente troppo ristretta per il proprio nucleo
familiare; in via riconvenzionale, chiedeva ammonirsi
il marito, e condannarsi lo stesso al risarcimento
di danno a favore del minore, per comportamento
pregiudizievole.
Il Tribunale rigettava le richieste di entrambe le
parti e ammoniva i genitori a limitare la loro conflittualità,
nell’interesse del figlio.
Proponeva reclamo il P., ribadendo la richiesta di
modifica delle modalità di affidamento del figlio e
di ammonimento della moglie. Si costituiva la R.,
che chiedeva dichiararsi l’esercizio disgiunto della
66 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
potestà, nell’ambito dell’ordinaria amministrazione,
nonché disporsi l’iscrizione del minore presso la
scuola del luogo di propria residenza.
La Corte d’Appello di Napoli, con decreto 17-
10/12-12-2008, confermava l’affido condiviso, ma disponeva
il collocamento del minore presso il padre;
ammoniva ex art. 709 ter c.p.c., la R. ad attenersi,
nelle modalità di gestione dell’affidamento, al rispetto
delle esigenze del minore; revocava l’ammonimento
al padre.
Ricorre per cassazione la R., sulla base di cinque
motivi.
Motivi della decisione
Per una migliore intelligenza delle questioni prospettate,
pare opportuno premettere una pur breve
disamina del disposto dell’art. 709 ter c.p.c..
Come è noto, tale articolo è stato introdotto dalla
L. n. 54 del 2006, che pure ha disciplinato l’affidamento
condiviso, e l’intento del legislatore appare
palesemente quello di fornire uno strumento per la
soluzione di conflitti tra genitori, riguardo ai figli,
che, a seguito della nuova normativa, potrebbero
presentarsi più frequentemente.
La competenza è attribuita al giudice del procedimento
in corso (separazione, divorzio, annullamento
del matrimonio, affidamento di figli di genitori
non uniti in matrimonio) ovvero, una volta
che esso sia concluso, al giudice che conoscerebbe
i procedimenti ex art. 710 c.p.c., (modifica delle
condizioni di separazione). È da ritenere che il rito
sia quello camerale, ai sensi dell’art. 737 c.p.c. e
segg..
L’oggetto della procedura attiene alle controversie
insorte in ordine all’esercizio della potestà genitoriale
o delle modalità di affidamento: da un lato,
dunque, conflitto tra i genitori sulle questioni di
maggiore interesse, ai sensi dell’art. 155 c.c., comma
3, (la scelta della scuola, un intervento medico sul
minore, ecc.), ma pure - è da ritenersi - di “ordinaria
amministrazione”, espressione evidentemente
usata in modo atecnico dal legislatore, non riferendosi
ai soli rapporti patrimoniali (il modo in cui il
minore si veste, gli spettacoli cui può assistere,
ecc...), dall’altro, controversie sulla “interpretazione”
dei provvedimenti del giudice, che potrebbero condurre
(non ad una modifica, ma) ad una più precisa
determinazione e specificazione.
Tali provvedimenti, esaurita la fase del reclamo,
non appaiono ricorribili per cassazione, pur coinvolgendo
diritti fondamentali dell’individuo (dovere
- diritto dei genitori di mantenere, educare, istruire
i figli, e correlativi diritti del figlio stesso), non assumendo
contenuto decisorio, ma attenendo piuttosto
al controllo esterno sulla potestà; né essi hanno
carattere di definitività, potendo essere sempre riproposte
le questioni con successivo ricorso (al riguardo,
tra le altre, Cass. n.1611 del 2009).

Ma l’art. 709 ter c.p.c., prevede ulteriori possibilità
di intervento del giudice. Egli “in caso di gravi inadempienze
o di atti che comunque arrechino pregiudizio
al minore” od ostacolino il corretto esercizio
delle modalità di affidamento, può modificare i
provvedimenti in vigore: effetto evidentemente analogo
a quello perseguito con la procedura di cui all’art.
710 c.p.c., (e, sotto il profilo sostanziale, va pure
ricordato l’art. 155 ter c.c.). A ben venere, tale intervento
va riguardato come una specificazione volta
alla modifica delle condizioni di separazione, divorzio,
o di affidamento dei figli nati fuori del matrimonio,
ove sopravvengano mutamenti di circostanze,
alla base dei provvedimenti già assunti.
Il mutamento si concretizza proprio nel comportamento
dei genitori, gravemente inadempiente,
pregiudizievole al minore o impeditivo dell’esercizio
delle modalità di affidamento.
Ancora, il Giudice può ammonire il genitore inadempiente
o condannarlo al pagamento di una sanzione
amministrativa, nonché disporre il risarcimento
dei danni nei confronti del minore o dell’altro
genitore.
La ricorribilità o meno di tali provvedimenti, a seguito
del reclamo, resta ovviamente influenzata
dalla natura delle misure adottate.
È appena il caso di osservare che l’indicazione
contenuta nell’art. 709 ter c.p.c., u.c., “i provvedimenti
assunti (...) sono impugnabili nei modi ordinari”,
va considerata come mero richiamo ai mezzi
“ordinari” di impugnazione per quella specifica tipologia
di provvedimenti, dipendente dalla loro natura,
contenuto e finalità.
Venendo all’analisi del ricorso, per ragioni sistematiche,
si esamineranno dapprima i motivi primo,
secondo, terzo e sesto.
(omissis)
Rimangono da esaminare i motivi quarto e
quinto: la R. lamenta violazione degli artt. 115, 116 e
709 ter c.p.c., là dove il giudice a quo ha comminato
nuovamente nei suoi confronti la sanzione dell’ammonimento
ad attenersi alle modalità di gestione
dell’affidamento del minore, nel rispetto delle esigenze
di questo, ed ha revocato la relativa ammonizione
al P., inflitta dal primo giudice.
Tali provvedimenti non sono suscettibili di impugnazione
in questa sede, in quanto meramente sanzionatori
e privi del carattere della decisorietà, e i
relativi motivi vanno dichiarati inammissibili.
Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.
La natura della controversia richiede la compensazione
delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; dichiara
compensate le spese di giudizio tra le parti.
IL PUNTO DI VISTA
di MICHELE LABRIOLA
AVVOCATO DEL FORO DI BARI
GIURISPRUDENZA CIVILE
Nel caso di specie la Corte di Appello di Napoli, a
parziale riforma di quanto stabilito dal Tribunale di
Benevento - che si era limitato ad ammonire i genitori
affinché attenuassero la conflittualità nell’interesse
del figlio -, con decreto 17-10/12-12-2008, confermava
l’affido condiviso, ma disponeva il collocamento
del minore presso il padre; ammoniva ex art.
709 ter c.p.c. la madre ad attenersi, nelle modalità
di gestione dell’affidamento, al rispetto delle esigenze
del minore.
Ricorreva successivamente la madre in Cassazione
con cinque motivi di impugnazione.
La Corte riteneva i primi motivi, relativi alla modalità
di affidamento inammissibili e superati dalla
emissione di un provvedimento in sede di divorzio
che aveva confermato la modalità di affidamento disposta
dalla Corte d’Appello di Napoli e, conseguentemente,
quello relativo all’ammonimento insuscettibile
di impugnazione.
Nel merito vi era stata la unilaterale decisione del
genitore collocatario, di mutare la residenza del figlio
minore comportando ciò anche il cambio di istituto
scolastico.
La sentenza rappresenta una decisione, inedita, lì
dove risponde ad un interessante quesito processuale
- ammissibilità o meno del ricorso per cassazione
dell’art. 709 ter c.p.c. -, poi dichiara l’impossibilità
logico-giuridica di coesistenza di due diversi
regimi di affidamento - provvedimenti provvisori di
divorzio e pendenza di un reclamo in Corte di Cassazione
- ed infine risolve il problema di natura
squisitamente sostanziale con riferimento alle controversie
sull’inadempienza dell’esercizio della potestà,
in ipotesi di cambio di residenza del figlio in
assenza di consenso del genitore non “collocatario”.
È indubbio che la introduzione dell’art. 709 ter
c.p.c. ha risolto una questione che, prima della L.
54/2006, non trovava una vera sua propria collocazione
normativa, sia in ordine alla competenza del
giudice a decidere in caso di inadempienza genitoriale,
sia più specificamente in ordine alla soluzione
degli aspetti di diritto sostanziale: quali le controversie
insorte tra i genitori sull’esercizio della potestà
ed sulle modalità di affidamento.
I procedimenti ex art. 710 c.p.c. a cui rinvia l’art.
709 ter c.p.c.1 comma, seconda parte, sono procedimenti
in camera di consiglio di attribuzione collegiale.
Appare ormai pacifico che il giudice competente
all’adozione dei provvedimenti opportuni
sulle controversie relative all’esercizio della potestà
e sulle modalità dell’affidamento dei figli minori,
anche nel corso del procedimento, sia il tribunale in
composizione collegiale e non il giudice istruttore.
Quindi la stessa Corte conferma che “È da ritenere
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 67

GIURISPRUDENZA CIVILE
che il rito sia quello camerale, ai sensi dell’art. 737
c.p.c. e segg.”
La questione non è di poco momento ove si pensi
che se fosse previsto per l’art.709 ter c.p.c. - qualora
fosse introdotto nel corso del giudizio di separazione
o divorzio - lo stesso strumento processuale
previsto per le impugnazioni delle ordinanze istruttorie
o quello previsto per le impugnazioni dei provvedimenti
di modifica delle condizioni di cui all’art.
709 ultimo comma - legittimando il G.I. quale giudice
della controversia -, alle parti non resterebbe -
nel primo caso - che sottoporre la questione al collegio
ai sensi dell’art. 178 1° comma c.p.c. al momento
della precisazione delle conclusioni, - nel secondo
caso - che rinunciare alla reclamabilità, così
come previsto dalla giurisprudenza costante, optando
per il solo strumento della revoca da parte
dello stesso G.I.. Nella previsione dell’art. 709 ter, invece,
il collegio si pronuncerà immediatamente ed il
provvedimento sarà impugnabile con “i modi ordinari”.
Anche se non appare di particolare rilievo, a parere
di chi scrive, tuttavia una certa incongruenza la
norma in esame la contiene, lì dove prevede che
sarà competente territorialmente il giudice già adito
per il procedimento in corso - qualora il ricorso sia
depositato nel corso del giudizio di separazione o
divorzio - e quello di residenza del minore qualora
il giudizio sia introdotto dopo il passaggio in giudicato
del provvedimento di separazione e divorzio.
Il potere di controllo, vigilanza o modifica, nel
primo caso, sarebbe demandato ad un giudice territorialmente
diverso dalla residenza del minore, ove
lo stesso risiedesse altrove.
Fatta tale breve premessa, alla luce delle considerazioni
svolte dall’estensore della sentenza commentata,
si passa ad analizzare la questione sottoposta
all’esame della Suprema Corte: l’art. 709 ter
c.p.c. è ricorribile in Cassazione?
La predetta sentenza premette che: “L’oggetto della
procedura attiene alle controversie insorte in ordine all’esercizio
della potestà genitoriale od alle modalità di affidamento:
da un lato, dunque, conflitto tra i genitori sulle
questioni di maggiore interesse, ai sensi dell’art. 155
c.c.comma 3, (la scelta della scuola, un intervento medico
sul minore, ecc.) ma pure - è da ritenersi - di “ordinaria
amministrazione”, espressione evidentemente usata in
modo atecnico dal legislatore, non riferendosi ai soli rapporti
patrimoniali (il modo in cui il minore si veste, gli
spettacoli cui può assistere, ecc…), dall’altro, controversie
sulla “interpretazione” dei provvedimenti del giudice,
che potrebbero condurre (non ad una modifica, ma) ad
una più precisa determinazione e specificazione”.
La sentenza 21718/2010, a tal proposito, opera,
inoltre, dei distinguo, in primo luogo equipara il caso
di modifica del provvedimento in vigore con effetto
analogo a quello “perseguito con la procedura di cui
all’art. 710 c.p.c. (e sotto il profilo sostanziale va pure
68 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
ricordato l’art.155 ter c.c.)” e solo in ipotesi di mutamenti
delle circostanze - che si possono comunque concretizzare
con il mero comportamento pregiudizievole del
genitore -, in secondo luogo prevede l’ipotesi in cui
l’intervento del giudice si limiti, non a modificare,
bensì ad “interpretare il provvedimento in vigore,
con una più precisa determinazione e specificazione.
Inoltre il giudice può ammonire il genitore
inadempiente o condannarlo al risarcimento del
danno. La Corte, dopo aver operato tali distinzioni
conclude che “la ricorribilità o meno di tali provvedimenti,
a seguito del reclamo, resta ovviamente influenzata
dalla natura delle misure adottate”.
Comunque la Suprema Corte sottolinea la assoluta
non ricorribilità in cassazione nella seconda
ipotesi, quella in cui il giudice abbia “interpretato” il
provvedimento in vigore - senza modificarlo -, in
funzione quasi di controllo sull’operato dei genitori,
e ne abbia meglio specificato la modalità dell’affidamento.
In tal caso il provvedimento incide su diritti fondamentali
dell’individuo ma non assume carattere
decisorio, perché ha la funzione di risolvere il pregiudizio
quasi in itinere nella vita del minore, ed è
suscettibile di revisione rebus sic stantibus, in qualsiasi
momento.
La cassazione continua nel ritenere che “l’indicazione
contenuta nell’art. 709 ter u.c. c.p.c. : i provvedimenti
assunti (….) sono impugnabili nei modi ordinari,
va considerata come mero richiamo ai mezzi
“ordinari” di impugnazione per quella specifica tipologia
di provvedimenti, dipendente dalla loro natura,
contenuto e finalità”.
La Corte cita, quale precedente (Cass.civ.sez.I, 22
gennaio 2009, n.1611), una decisione in ipotesi affatto
diversa a parere di chi scrive: si trattava, infatti,
di affermare la non definitività e decisorietà di un
provvedimento autorizzattivo del G.T. ex art. 320
cod.civ. relativo alla accettazione di un’eredità del
minore in un caso di rappresentazione.
La stessa Corte di Cassazione, invero, con sentenza
I sez.civ, 18 agosto 2006, n.18187, all’indomani
della riforma c.d. sull’”affidamento condiviso” ha
stabilito che “in tema di ricorribilità per cassazione,
ex art. 111 Cost., dei provvedimenti resi in sede di
modifica delle condizioni di separazione (o di divorzio),
riguardanti l’affidamento e i rapporti con il genitore
non affidatario (oltre che il mantenimento dei
figli) ex art. 155 c.c., e pronunciati in sede di reclamo,
l’applicazione delle forme camerali, pur non rendendo
più proponibile il ricorso ordinario ex art. 360
c.p.c. (precluso dall’art. 737,co.3, c.p.c.), non incide
sulla natura contenziosa del procedimento (che si
svolge nel contraddittorio delle parti e si conclude
con un decreto che ha natura sostanziale di sentenza);
ne consegue che detti provvedimenti, riguardanti
i rapporti con i figli ed emanati ai sensi di
detto 155 c.c., hanno natura decisoria e definitiva,

senza che tali aspetti, da riferire alla situazione esistente
al momento della decisione, vengano meno
per essere suscettibili di revisione in ogni tempo”.
Con la predette pronuncia la S.C. conferma l’ultimo
orientamento della giurisprudenza di legittimità favorevole
all’ammissibilità del ricorso straordinario
per Cassazione - in ipotesi di art. 710 c.p.c. -, rilevando
che non trova alcuna giustificazione la più
datata affermazione giurisprudenziale che distingue
tra provvedimenti di separazione riguardanti i
coniugi e provvedimenti riguardanti i figli.
Pertanto, ed a prescindere dalla circostanza che
nel caso di specie il giudice del divorzio, successivamente,
aveva confermato il collocamento del minore
presso il padre, facendo venir meno l’interesse
della madre ad agire in sede di legittimità, siamo di
fronte, in linea teorica, ad una assenza di coordinamento
normativo per i seguenti motivi.
La procedura ex art. 709 ter c.p.c. introdotta in
corso di causa, terminerà con un provvedimento
che potrà essere oggetto di impugnazione in secondo
grado, tuttavia, così come sostenuto dalla
sentenza in commento, non potrà essere ricorribile
in sede di legittimità, per assenza di definitività e
decisorietà del provvedimento reclamato. Il provvedimento
richiesto, sempre in corso di causa, ex art.
709 ultimo comma - per la modifica sia patrimoniale
sia personale delle condizioni in vigore - non sarà
impugnabile, in quanto avente natura anticipatoria
degli effetti del provvedimento definitivo. La procedura
attivata ex art. 710 c.p.c., per la modifica delle
condizioni per mutamento delle circostanze, qua-
GIURISPRUDENZA CIVILE
lora il giudizio si sia già concluso, ammette la possibilità
di impugnazione in Corte d’Appello e, si ritiene,
dalla lettura della sentenza 18187/2006, anche
la ricorribilità ex art. 111 Cost.
Attesa la labilità del confine tra i tre istituti processuali
su descritti, potrebbe sorgere una notevole
incertezza sulla tipologia del ricorso da introdurre,
per gli effetti sulla garanzia processuale legata all’impugnazione,
che finisce per essere demandata
alla “natura” del provvedimento finale (mera interpretazione,
vigilanza ovvero modifica) più che al
tipo di domanda, con la conseguenza che non sarà
a monte possibile prevedere la ricorribilità o meno
del provvedimento nel momento dell’introduzione
del ricorso stesso.
Sembra quindi essere lasciato all’interprete, di
volta in volta il dover individuare, come ci dice la
sentenza 21718/2010, “la specifica tipologia di provvedimenti,
dipendente dalla loro natura, contenuto
e finalità”. Pertanto, a parere di chi scrive, la soluzione
potrebbe essere quella che la ricorribilità per
cassazione dell’art. 709 ter c.p.c. sarà esperibile solo
qualora si sia in presenza di provvedimenti modificativi
delle originarie statuizioni anche se volti a risolvere
il contrasto sull’attuazione dei provvedimenti
stessi (attesa la analogia con l’art. 710 c.p.c.)
o che comunque abbiano natura patrimoniale.
In breve qualche cenno sull’ammonimento, da
parte di alcuni autori si è evidenziata la accessorietà
della domanda sanzionatoria rispetto a quella principale:
controllo del corretto svolgimento dell’esercizio
della potestà e/o eventuale modifica dei provvedimenti
in vigore e, “congiuntamente”, ammonimento
e condanna al risarcimento del danno.
L’ammonire, diversamente dal risarcimento del
danno - di cui ai punti 2), 3), II comma dell’art. 709
ter c.p.c. - che ha natura di sanzione risarcitoria, ma
non è qualificabile in termini di condanna punitiva
sganciata dal concetto di responsabilità di cui all’art.
2043 cod.civ., ha invece la diversa funzione di indurre
l’adempimento del genitore da ammonireTribunale
di Varese, ordinanza del 7 maggio 2010),
quindi si può ritenere cha l’ammonimento abbia
come unico scopo la deterrenza al comportamento
lesivo e non vere e proprie finalità sanzionatorie.
Quindi in linea con il principio della non ricorribilità
del provvedimento ex art. 709 ter c.p.c., anche
sotto tale profilo la Corte di Cassazione, nella sentenza
in commento, esclude la impugnabilità del reclamo,
in quanto anche l’ammonimento ha natura
giuridica del tutto subordinata alla domanda principale
e pertanto, nel caso di specie, priva del carattere
della decisoriatà e definitività.
Sul mutamento delle circostanze per il comportamento
pregiudizievole del genitore quale elemento
fondante la modifica del provvedimento in vigore,
la Corte non motiva oltre, tuttavia in tale riconoscimento
emerge l’assunto in base al quale, qualora un
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 69

GIURISPRUDENZA CIVILE
genitore sia collocatario di un minore, deve necessariamente
avere delle limitazioni nell’esercizio
della potestà, tale limite è rappresentato dal diritto
di esercizio dell’altro genitore, quindi dalla bigenitorialità,
pertanto il trasferimento senza il consenso
del minore presso altra residenza, può legittimare, ai
sensi dell’art. 709 ter c.p.c. quella modifica, ai fini di
controllo e vigilanza, sull’affidamento, rappresentata
dal cambio di collocamento, qualora sia opportuno
introdurre altresì una domanda sanzioantoria.
In assenza di tale richiesta sarà, per i motivi su indicati,
opportuno ricorrere ai sensi dell’art. 710 c.p.c.
che offre maggiori garanzie in termini di impugnabilità.
Nonni e mantenimento
dei nipoti
L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i
mezzi necessari per adempiere al loro dovere di
mantenimento ha natura sussidiaria e trova
applicazione se ed in quanto l’altro genitore non è in
grado di provvedervi.
Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010,
n. 20509
Presidente Gabriella Luccioli,
Relatore Maria Rosaria Cultrera
(omissis)
Motivi della decisione
La ricorrente deduce erronea interpretazione delle
risultanze istruttorie, violazione dei principi processuali
di cui all’art. 148 c.c. e 433 c.c. e dei principi
disciplinanti la decorrenza del diritto al mantenimento.
Ascrive alla Corte territoriale errore di diritto,
sostenendo che l’organo giudicante avrebbe
dovuto condurre la sua valutazione sui presupposti
della domanda, tenendo conto della situazione all’epoca
dell’introduzione del giudizio. In fatto, a
quell’epoca ella non era autosufficiente. Il suocero
era invece un ricco possidente ed il padre del bambino
non adempiva al suo obbligo di mantenerlo.
Il resistente deduce infondatezza del motivo.
(omissis)
Nel merito il ricorso è privo di fondamento.
La decisione impugnata ha respinto la domanda,
sia essa tesa ad ottenere il concorso dei nonni nel
mantenimento del minore ai sensi dell’art. 148 c.c.
sia alla stregua del più riduttivo obbligo di prestare
i soli alimenti ai sensi dell’art. 433 c.c. Nel primo
aspetto, ha ritenuto necessario esaminare la condizione
patrimoniale della madre all’attualità, dunque
all’epoca della decisione. E in fatto, ha riscontrato
che ella è risultata in grado di mantenere il figlio, sia
70 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
perché munita di laurea è in condizione di cercare
adeguata occupazione, sia perché è risultata proprietaria
di due porzioni immobiliari - 1/16 di una
villa ove dimora col figlio, ed 1/16 di altra villa in -,
nonché proprietaria esclusiva di altra villa a rustico
valutata in Euro 42.481,00. Il padre, principale obbligato,
inoltre ha ereditato la quota di un quarto di un
consistente immobile abitativo e sei locali commerciali.
Nel suo ulteriore profilo, l’indagine sulla domanda
è stata ritenuta implicitamente assorbita.
Tale conclusione, quale che sia il paradigma normativo
cui si riconduca la motivazione, appare scevra
da errore di diritto.
L’art. 147 c.c. impone ai genitori l’obbligo di mantenere
i propri figli. Tale obbligo grava su di essi in
senso primario ed integrale, il che comporta che se
l’uno dei due non voglia o non possa adempiere, l’altro
deve farvi fronte con tutte le sue risorse patrimoniali
e reddituali e deve sfruttare la sua capacità
di lavoro, salva comunque la possibilità di agire contro
l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale
alle sue condizioni economiche. Solo in
via sussidiaria, dunque succedanea, si concretizza
l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i
mezzi necessari per adempiere al loro dovere nei
confronti dei figli previsto dall’art. 148 c.c. che comunque
trova ingresso non già perché uno dei due
genitori sia rimasto inadempiente al proprio obbligo,
ma se ed in quanto l’altro genitore non abbia
mezzi per provvedervi (Cass. n. 3402/1995 che s’intende
ribadire).

Laddove avesse inquadrato la fattispecie nel paradigma
dell’art. 148 c.c. ammettendo altresì l’ammissibilità
dell’azione in via ordinaria anziché in via
monitoria secondo il rito ivi prescritto, la decisione
impugnata comunque risulterebbe ineccepibile sul
piano giuridico ed insindacabile nel merito. La Corte
di merito ha verificato se i genitori del minore, ex
lege obbligati al suo mantenimento, fossero in condizione
di provvedervi. E rilevato, su questa corretta
premessa, che potessero entrambi assolvere al loro
obbligo, e comunque che l’attrice inspiegabilmente
non aveva assunto iniziative nei confronti del padre
del minore, omettendo di pretendere che assolvesse
al suo obbligo primario di provvedere al mantenimento
del figlio, ha escluso che ella potesse chiamare
al concorso i nonni paterni, essendo in grado
di assolvere ella stessa, in prima persona, al suo personale
dovere nei confronti del figlio. Non vi erano
perciò i presupposti per l’azione esperita.
La conclusione, argomentata con motivazione
esaustiva e puntuale, è immune da errore.
Neppure si presta a critica, ove la motivazione si
riferisse al diritto agli alimenti previsto dall’art. 433
c.c. siccome tale diritto è legato alla prova dello stato
di bisogno e dell’impossibilità da parte dell’alimentando
di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento
mediante l’esplicazione di attività lavorativa.
Se questi è in grado di trovare un’occupazione
confacente alle proprie attitudini ed alle proprie
condizioni sociali, nulla può pretendere dai soggetti
indicati nell’art. 433 c.c. Nell’ordine prescritto
sarebbero seguiti gli ascendenti prossimi, ma anche
in questo caso, secondo il disposto dell’art. 433 c.c.
comma 1, n. 3, in via succedanea, e sostitutiva solo
se i genitori non fossero stati in condizione di adempiere
al loro personale e diretto obbligo, circostanza
esclusa con valutazione di merito, adeguatamente
motivata e perciò insindacabile.
Le considerazioni che precedono comportano il rigetto
del ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente
al pagamento delle spese del presente giudizio.
IL PUNTO DI VISTA
di MARIA TERESA CORATELLA e PALMA LOCONTE
AVVOCATI DEL FORO DI TRANI
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione
torna ad occuparsi dell’obbligo di mantenimento
e/o degli alimenti dei nonni verso i nipoti. Si
tratta di un tema sul quale la giurisprudenza di legittimità
ha sempre avuto un orientamento univoco
e costante.
Nel caso di specie, la moglie, a fronte dell’inadempimento
del coniuge al mantenimento verso il
figlio, con citazione promossa verso i nonni paterni,
GIURISPRUDENZA CIVILE
chiede che gli stessi provvedano ex art. 148 c.c. al
mantenimento del nipote, ovvero alla corresponsione
di un assegno alimentare ai sensi dell’art. 433
c.c.
Concesso in primo grado l’assegno alimentare a
carico del nonno, la Corte d’Appello ha riformato la
sentenza, revocandolo.
La Cassazione, confermando la sentenza d’Appello,
muove dal presupposto che il dovere dei
nonni di concorrere al mantenimento e/o agli alimenti,
rispettivamente ai sensi degli artt. 148 c.c. e
433 c.c., sussiste solo qualora i redditi e i patrimoni
di entrambi i genitori non siano sufficienti a far
fronte alle esigenze primarie dei figli minori.
Invero, l’art. 148 c.c. dispone che “… Quando i genitori
non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti legittimi
o naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire
ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano
adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.”; mentre
l’art. 433 c.c. prevede che “All’obbligo di prestare gli alimenti
sono tenuti, nell’ordine: … 3) i genitori e, in loro
mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli
adottanti.”
L’art. 148 c.c. detta il criterio di ripartizione degli
oneri di mantenimento della prole nei rapporti interni
tra i coniugi, ponendo il relativo obbligo, in primis,
a carico di questi ultimi; solo in caso di insufficienza
dei mezzi dei genitori, il citato articolo
chiama ad intervenire, in ordine di prossimità, gli
ascendenti legittimi o naturali dei genitori stessi,
ponendo a carico dei nonni un’obbligazione di carattere
sussidiario che ha come presupposto l’inidoneità
dei genitori a provvedere al mantenimento
dei figli, non già il mero inadempimento di uno dei
due coniugi.
La peculiarità dell’istituto consta nella possibilità
di attivare una speciale tutela monitoria a favore di
chiunque vi abbia interesse, vale a dire del coniuge
ovvero degli ascendenti adempienti, o, ancora, dei
figli maggiorenni che, pur convivendo con la famiglia,
contribuiscano ex art. 315 c.c. al mantenimento
della stessa; infine, di coloro che, pur non obbligati
al mantenimento, sono tenuti a prestare gli alimenti
ex art. 433 c.c., nonché degli istituti di assistenza
presso cui la prole sia ricoverata.
Legittimato passivo è colui che, coniuge o ascendente,
sia inadempiente agli obblighi di mantenimento,
istruzione ed educazione dei figli.
La ratio legis è quella di ottenere che una quota
dei redditi dell’inadempiente venga versata dall’obbligato
(o dal terzo debitore del coniuge inadempiente)
direttamente all’altro genitore o a chi, comunque,
si occupa dei figli; tanto al fine di evitare
l’intromissione degli ascendenti nell’esercizio della
potestà loro spettante. I figli, pertanto, non dispongono
di alcuna azione verso i nonni, salvo che agiscano
facendo valere il diverso diritto agli alimenti
ex art. 433, n. 3 c.c.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 71

GIURISPRUDENZA CIVILE
Si osserva che sia l’obbligo di mantenimento ex
art. 148 c.c., sia quello alimentare ex art. 433 c.c. è
costruito sul concetto di famiglia estesa, comprendente
anche gli ascendenti, nel primo caso; discendenti
e ascendenti di qualunque grado, alcuni affini
in linea retta di primo grado, fratelli e sorelle, nel secondo
caso.
I presupposti, invece, dell’obbligo alimentare ai
sensi dell’art. 433 c.c. sono l’esistenza di un legame
soggettivo fra avente diritto ed obbligato e, sotto il
profilo oggettivo, l’esistenza di uno stato di bisogno
dell’alimentando, la conseguente incapacità dello
stesso di provvedere al proprio mantenimento, nonché
la capacità reddituale dell’obbligato.
In questo senso l’obbligo alimentare è sicuramente
funzionale alla tutela del diritto alla vita, in
particolare a una vita dignitosa.
L’ordinamento appresta quindi gli strumenti affinché
l’indigente possa ottenere i mezzi necessari
alla sussistenza da parte di soggetti che si trovino
con lui in una particolare relazione personale e che
abbiano la possibilità economica di soddisfare i suoi
bisogni.
Ne deriva il carattere strettamente personale dell’obbligazione
alimentare, dal momento che legittimato
attivo è solo colui che si trovi in stato di bisogno
o il suo rappresentante legale.
Stante il carattere sussidiario delle obbligazioni di
mantenimento e/o alimentare facenti capo agli
ascendenti, ne deriva che, per un verso, non ci si
possa rivolgere ex art. 148 c.c. agli ascendenti per il
solo fatto che uno dei due genitori non contribuisca
al mantenimento dei figli (come nel caso di specie)
quando l’altro sia in grado, comunque, di soddisfare
le loro esigenze; per altro verso, che l’obbligazione
alimentare sorge in ragione dell’effettivo stato di bisogno
e della impossibilità dell’alimentando di
provvedere in tutto o in parte al sostentamento.
A supporto di tali argomentazioni, la Cass. Civ.,
Sez. I, 23/03/1995, n. 3402 ha statuito che: “Lo speciale
provvedimento per decreto disciplinato dal comma 2 dell’art.
148 c.c. è utilizzabile al fine di ottenere la condanna
degli ascendenti dei genitori, privi di mezzi economici, a
fornire a questi ultimi i mezzi necessari ad adempiere i
loro doveri nei confronti dei figli, sia legittimi che naturali.”
Nello stesso senso si sono espressi alcuni Tribunali
di merito, quali il Tribunale di Milano che con
sentenza del 30/06/2000 ha sancito: “…Nel caso in cui
il genitore direttamente obbligato non abbia i mezzi sufficienti
per adempiere, gli ascendenti saranno chiamati a
contribuire solo se anche l’altro genitore non sia in grado
di provvedervi integralmente, con conseguente applicabilità,
anche nei confronti degli avi, del procedimento monitorio
di cui all’art. 148 comma 2 c.c.” e il Tribunale di
Roma Sez. XIII, che con sentenza del 16/01/2004 ha
previsto: “L’obbligo degli ascendenti di pari grado di concorrere
al mantenimento dei figli dei propri discendenti
72 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
non subentra nel caso in cui uno solo dei genitori versi in
uno stato di impossibilità, ma nel caso in cui i mezzi economici
dell’altro genitore, sul quale grava l’obbligo di
provvedere al mantenimento dei figli per intero, non siano
sufficienti.”
Ancora il Tribunale di Vicenza con sentenza del
04/09/2009 ha ribadito che “l’obbligazione degli ascendenti
di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano
provvedere al mantenimento dei figli è subordinata
a quella primaria dei genitori. … anche nel senso che agli
ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico
per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il
proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore
è, nonostante ciò in grado di mantenerli e, perciò
stesso, ha il dovere primario di farlo”.
La comune ratio decidendi delle pronunce riportate
si fonda sull’assimilabilità del dovere degli ascendenti
di fornire ai genitori i mezzi per mantenere la
prole all’obbligo di corrispondere gli alimenti di cui
agli artt. 433 ss. c.c. Ne deriva che il contributo a carico
degli ascendenti, dev’essere misurato in proporzione
del bisogno di chi lo domanda e delle condizioni
economiche di chi deve somministrarli e
non deve in ogni caso superare quanto necessario
per la vita del beneficiario, avuto però riguardo alla
sua posizione sociale.
Si rileva tuttavia una sentenza del Tribunale di
Genova del 28/10/2009 in cui è stato statuito che il
riferimento legislativo di cui all’art. 148 c.c. di non
avere i genitori mezzi sufficienti al mantenimento,
non vada inteso “in maniera assoluta, perchè l’insufficienza
dei mezzi ammette anche un’integrazione parziale
e non la sostituzione di una categoria all’altra.
Detta obbligazione non dipende dall’oggettiva insufficienza
dei redditi effettivi dei genitori, ma dalla loro capacità
di provvedere al mantenimento della minore;
come è stato rilevato dalla giurisprudenza di merito
(Trib. Napoli 15.02.1977) non vale ad esonerare gli
ascendenti da tale obbligo il comportamento dei genitori
che di fatto non provvedano in maniera adeguata al
mantenimento dei figli, essendo appunto la norma in
concreto finalizzata a garantire l’adeguato mantenimento
della prole”..
In buona sostanza secondo l’orientamento del Tribunale
di Genova, l’obbligo sussidiario degli ascendenti
non può essere escluso quando la contribuzione
offerta dai genitori è palesemente insufficiente
a garantire le esigenze di mantenimento del
minore e sempre che la somma da destinare al
mantenimento dei discendenti non ecceda le primarie
necessità di vita degli ascendenti.
Invero, appare condivisibile quest’ultima interpretazione
della norma perché sembra rispettare
maggiormente la ratio legis degli artt.148 c.c. e 433
c.c. volta a garantire la tutela dei minori al mantenimento,
istruzione ed educazione e/o agli alimenti,
presupposti necessari del diritto costituzionale ad
una vita dignitosa.

Vizio parziale di mente
idoneo ad escludere il dolo
nel reato di violazione
degli obblighi di assistenza
familiare
Cass. penale, Sez. VI, 23 settembre
2010, n. 34333
Fatto e diritto
1 - Il Tribunale di Lecco, con sentenza 1/3/2006, dichiarava
I. D. colpevole del delitto di cui all’art. 570
c.p. - per essersi sottratto agli obblighi di assistenza
inerenti alla potestà di genitore e per avere fatto
mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori M. e
M. (dal 1997 al 30/9/2003) - e lo condannava, in concorso
delle circostanze attenuanti generiche, alla
pena di mesi due di reclusione ed € 200,00 di multa.
2 - A seguito di gravame dell’imputato, la Corte
d’Appello di Milano, con sentenza 10/1012007, riformando
parzialmente quella di primo grado, concedeva
all’imputato la diminuente di cui all’art. 89 c.p.
e riduceva la pena inflitta a un mese e giorni dieci di
reclusione.
Il Giudice distrettuale, dopo avere dato atto che la
materialità dei fatti era pacifica, si faceva carico di
analizzare, sulla base della perizia psichiatrica
espletata sul D., gli aspetti patologici della personalità
di costui e i conseguenti riverberi sulla condotta
incriminata. Evidenziava, in particolare, che l’imputato
era affetto, all’epoca dei fatti, da un “disturbo
paranoide della personalità manifestato attraverso
comportamenti di diffidenza e sospetto nei confronti
degli altri”, il che determinava una visione
inadeguata della realtà e una incidenza negativa
sulla capacità intellettiva, definita dal perito “con
continuità alterata”, pur permanendo una capacità
di volere. Riteneva, pertanto, che tale quadro patologico
legittimasse il riconoscimento della diminuente
del vizio parziale di mente.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
proprio difensore, l’imputato, lamentando la mancanza
di motivazione sull’elemento soggettivo del
reato, che doveva essere escluso, perché, a causa del
GIURISPRUDENZA PENALE
riscontrato disturbo della personalità, erano difettate
in lui la rappresentazione e la volizione del fatto
illecito addebitatogli.
4 - lI ricorso è fondato.
In linea generale, deve ritenersi che la diminuente
del vizio parziale di mente è compatibile con la sussistenza
del dolo, non essendovi contrasto logico tra
l’ammettere la seminfermità mentale e il ritenere
provati la coscienza e volontà del fatto, ancorché diminuite.
II rapporto tra l’imputabilità e il reato è di assoluta
indipendenza, nel senso cioè che il reato è configurabile
a prescindere dalla capacità d’intendere e
di volere del suo autore, dal che consegue coerentemente
la piena autonomia tra le nozioni di imputabilità
e di colpevolezza. Il vizio parziale di mente integra
una circostanza attenuante del reato, riconducibile a
quel genus di circostanze qualificate dal codice penale
come “inerenti alla persona del colpevole”.
Proprio tale autonomia tra le due nozioni, tuttavia,
impone l’indagine in ordine alla sussistenza o
meno, nel comportamento tenuto dall’agente, dell’elemento
soggettivo del reato, indagine che implica
la verifica in concreto dell’eventuale incidenza
che lo stato patologico può avere avuto sulla condotta
considerata, per stabilire se questa si riveli alterata
in modo sostanziale nella sua connotazione
psicologica.
La sentenza impugnata, pur analizzando in maniera
diffusa i problemi psichiatrici da cui era afflitto
il D. e i riflessi negativi sulle sue scelte comportamentali,
omette di trarre da ciò le logiche conclusioni
in tema di rappresentazione e volizione del
fatto tipico addebitato al predetto.
Si legge, infatti, nella sentenza in verifica che l’imputato
a causa del disturbo paranoide, aveva sviluppato
la preoccupazione ossessiva che i figli “potessero
essere abbandonati a se stessi anche dalla
madre e avviarsi su una brutta strada frequentando
compagnie inadeguate”; ciò aveva innestato in lui
l’esigenza di tenere sotto costante controllo, sia pure
a distanza i figli, per rassicurarsi della infondatezza
dei suoi timori, agendo secondo modalità del tutto
irrazionali; la conflittualità interiore dell’agente, che,
per un verso, aveva mostrato preoccupazione per la
sorte dei figli e, per altro verso, si era sottratto al dovere
di contribuire al loro mantenimento, nella convinzione
“di agire utilmente e correttamente”, era
chiaro sintomo della decisiva incidenza del disturbo
psichiatrico sulla capacità intellettiva, che, all’epoca
dei fatti, era “con continuità alterata”, condizione
questa che “gli impediva di capire che senza il suo
aiuto ai figli, di cui pur si preoccupava, venivano a
mancare i mezzi di sussistenza”.
Tale motivato convincimento espresso dalla Corte
di merito, sulla base anche delle condivise conclusioni
rassegnate nella perizia psichiatrica espletata,
non può che portare alla esclusione dell’elemento
soggettivo del reato.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 73

GIURISPRUDENZA PENALE
È vero che questo è punito a titolo di dolo generico,
essendo sufficienti la mera coscienza e volontà
di sottrarsi agli obblighi di assistenza inerenti la propria
qualità senza giusta causa, ma è anche vero che
non può darsi ingresso a presunzioni o a formule
ispirate assertivamente al canone del dolus in re
ipsa, che non hanno fondamento nell’ordinamento
positivo. La coscienza e volontà attengono comunque
all’azione, considerata nel momento della sua
attuazione, ed esprimono il “coefficiente di umanità”,
che consente di considerare la condotta, in
tutte le sue componenti (oggettiva e soggettiva)
come propria del soggetto. Il grave perturbamento
psichico di cui era portatore l’imputato all’epoca dei
fatti si è inevitabilmente riverberato, per quello che
emerge dalla stessa sentenza impugnata, sulla normalità
del processo rappresentativo e volitivo del
medesimo imputato.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata
senza rinvio perché il fatto non costituisce
reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché
il fatto non costituisce reato.
Depositata in Cancelleria il 23.09.2010
IL PUNTO DI VISTA
di GIOIA SAMBUCO
AVVOCATO DEL FORO DI RIETI
La recente sentenza della Sesta Sezione penale
della Suprema Corte, depositata in data 23 settembre
2010, affronta il delicato e complesso argomento
della imputabilità, condizione essenziale, soggettiva,
per la punibilità e la sua influenza sulla coscienza e
volontà (dolo) dell’azione delittuosa.
La sintetica ricostruzione dei fatti è d’obbligo per
comprendere quali siano, in specifico, le problematiche
di fondo sottese alla peculiare vicenda.
Nella sentenza della Corte di appello di Milano,
che condannava l’imputato ad un mese e giorni
dieci di reclusione per il reato di violazione degli obblighi
di assistenza familiare pur riconoscendogli la
diminuente di cui all’art. 89 c.p., il giudice a quo
aveva analizzato precipuamente i problemi psichiatrici
di cui soffriva l’imputato, peraltro riscontrati
anche nella disposta perizia psichiatrica per l’accertamento
della esistenza di aspetti patologici
della sua personalità e si era anche soffermato in
ordine ai riflessi negativi che la suddetta patologia
aveva determinato sulle sue scelte di vita, omettendo
però di trarre le logiche conclusioni in tema di
rappresentazione e volizione del fatto tipico addebitato
all’imputato.
Presentava pertanto ricorso in cassazione il difensore
dell’imputato dolendosi del vizio della man-
74 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
canza di motivazione proprio in ordine all’elemento
soggettivo del reato che, a suo avviso, doveva essere
escluso proprio in ragione del disturbo della personalità
riscontrato nella perizia psichiatrica che, nello
specifico, aveva delineato un “disturbo paranoide della
personalità manifestato attraverso comportamenti di diffidenza
e sospetto nei confronti degli altri” e che aveva
determinato in capo all’imputato una “visione inadeguata
della realtà” ed inciso negativamente sulla capacità
intellettiva, “con continuità alterata”.
Il nodo problematico essenzialmente sottoposto
al vaglio di legittimità pertanto concerneva la verifica
della eventuale incidenza che lo stato patologico
riscontrato nell’imputato poteva avere avuto
sulla condotta p.p. sub art. 570 c.p. per stabilire se
questa si fosse rivelata alterata in modo sostanziale
nella sua connotazione psicologica.
Una breve premessa sistematica. Per il minore di
anni quattordici vige una presunzione assoluta,
espressa dall’art. 97 c.p., di non imputabilità al quale
tuttavia, ove ritenuto socialmente pericoloso, può
soltanto essere applicata, ai sensi dell’art. 224 c.p.p.,
una misura di sicurezza.
Per ciò che concerne invece l’imputato infradiciottenne,
l’articolo 98 c.p. demanda al giudice la valutazione
della imputabilità del minore di età compresa
tra i quattordici ed i diciotto anni, attraverso
accertamenti psico-caratteriali che si svolgono nelle
forme e nelle modalità previste dall’art. 9 d.p.r. 22-9-
1988 n. 448, con l’ausilio di esperti anche dei Servizi
minorili e dei suoi genitori.

Nel rito minorile precisamente l’art. 9 del d.p.r. n.
448 del 1988 accorda sia all’organo requirente, sia a
quello giudicante, la possibilità di effettuare accertamenti
sulla personalità del minorenne, addirittura
anche al di fuori delle forme della perizia, assumendo
informazioni da persone che abbiano avuto
rapporti con il minorenne, ovvero sentire il rapporto
di esperti senza alcuna formalità.
Diversamente, nell’ambito dell’attuale ed ordinario
processo penale, vige il divieto di ammettere perizie
finalizzate a stabilire il carattere e la personalità
dell’imputato e in generale, le sue qualità psichiche.
L’imputato adulto è imputabile senza la necessità
che si proceda ad un apposito vaglio della sua imputabilità,
tanto che taluni, in dottrina, ritengono
sussistere al riguardo una sorta di presunzione iuris
tantum.
L’imputabilità è disciplinata, per l’imputato
adulto, dall’art. 85 c.p. che sancisce come nessuno
può essere punito per un fatto preveduto dalla legge
come reato se, al momento in cui lo ha commesso,
non era imputabile. Inoltre il medesimo disposto
normativo precisa come sia imputabile chi ha la capacità
di intendere e volere.
L’esistenza di una eventuale infermità mentale
non è, di per sé, sufficiente ad escludere il giudizio
di imputabilità in capo al reo, giacché l’attuale sistema
esige altresì la verifica della compromissione
della sua capacità di intendere e di volere.
La patologia deve intaccare in modo pressoché assoluto
la capacità rappresentativa e volitiva del soggetto
agente al momento del fatto criminoso. Soltanto
se all’esito di tale analisi appare alterata la capacità
rappresentava e volitiva, il soggetto non è imputabile.
Inoltre, deve necessariamente anche essere accertato
l’esistenza del nesso eziologico tra il disturbo,
la patologia rilevata e l’azione delittuosa posta
in essere dal reo.
In giurisprudenza, per lungo tempo, si è protratto
un vero e proprio contrasto insorto proprio
relativamente alla definizione del concetto di «infermità
mentale» rilevante ai fini del riconoscimento
del vizio totale o parziale di mente ex artt.
88 e 89 c.p.
Secondo un primo indirizzo cosiddetto nosografico,
l’anomalia idonea ad influire sulla capacità di
intendere e di volere consisteva nella malattia mentale
in senso stretto, ovvero quella medico-legale,
come tale classificata in apposite categorie nosografiche,
dipendente da uno stato patologico serio
che comportava una degenerazione della sfera intellettiva
o volitiva dell’agente (per tutte: cfr. Cass.,
Sez. I, 25.3.2004, Egger, Ced Cass., rv. 227926), venendo
così categoricamente esclusa la rilevanza di
patologie definite vere e proprie “abnormità psichiche”,
quali le nevrosi e le psicopatie.
GIURISPRUDENZA PENALE
Un altro orientamento giurisprudenziale, invece,
faceva proprio il c.d. «criterio della intensità del disturbo
psichico», reputando in grado di incidere sui
processi volitivi e intellettivi anche quelle «anomalie
psichiche che, seppure non classificabili secondo precisi
schemi nosografici, perché sprovviste di una sicura base
organica, siano tali per la loro intensità, da escludere totalmente
o scemare grandemente la capacità di intendere
e di volere del colpevole» (per tutte: cfr. Cass., Sez. VI,
1.4.2004, Martelli, Ced Cass., rv. 229136).
Le Sezioni unite, con sentenza non più recentissima,
hanno composto il conflitto interpretativo e,
avallando il secondo orientamento sopra ricordato,
hanno precisato come ai fini del riconoscimento del
vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto
di infermità anche i gravi disturbi della personalità,
come quelli da nevrosi o psicopatie, a condizione
che il giudice ne accerti la consistenza, l’intensità,
la rilevanza e la gravità, tali da incidere concretamente
sulla capacità di intendere e di volere,
compromettendola del tutto o grandemente scemandola
(Cass., Sez. Un., 25.1.2005, Raso, in Foro it.,
2005, II, 425).
Oggi, numerose sono le sentenze che, aderendo a
tale impostazione, ribadiscono come, ai fini del riconoscimento
della sussistenza del vizio totale o
parziale di mente, acquistano rilievo solo quelle
turbe della personalità di tale consistenza e gravità
da determinare in concreto una situazione psichica
incolpevolmente incontrollabile da parte del soggetto
che, di conseguenza, non può gestire le proprie
azioni e non ne percepisce il disvalore (in argomento:
Cass., Sez. II, 02.12.2008, n. 2774, in Ced Cass.,
rv. 242710).
Anche i «disturbi della personalità», pertanto, pur
non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle
malattie mentali scientificamente catalogate come
tali, possono rientrare nel concetto di «infermità»,
purché però queste ultime siano di consistenza, intensità
e gravità tali da incidere concretamente sulla
capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola
grandemente, sempre a condizione che sussista
un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa,
per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto
causalmente determinato dal disturbo mentale.
Diversamente, nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità,
è di regola riconosciuto alle altre anomalie caratteriali
o alterazioni e disarmonie della personalità
qualora queste non presentino i caratteri sopra
indicati. Analogo discorso vige per ciò che concerne
gli stati emotivi e passionali, a meno che questi ultimi
non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro
più ampio di «infermità» (per tutte: Cass. pen.,
Sez. V, 09.02.2006, in Giust. pen., 2007, II, 271).
La questione della sussistenza o meno della imputabilità
deve essere però tenuta distinta da quella
del dolo. In altre parole: se le condizioni patologiche
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GIURISPRUDENZA PENALE
dell’agente incidono sulla sua imputabilità, non è
detto che automaticamente queste incidano anche
sulla coscienza e volontà del fatto.
La piena autonomia concettuale tra la diminuente
del vizio parziale di mente, attenuante del reato, riconducibile
al genus delle circostanze qualificate dal
codice penale come inerenti alla persona del colpevole
ed il dolo, muove dai diversi piani su cui agisce
l’una e l’altro: il vizio di mente attiene alla sfera psichica
del soggetto al momento della formazione
della volontà; l’intensità del dolo, invece, riguarda il
momento nel quale la volontà si manifesta e persegue
l’obiettivo prefisso.
L’elemento psicologico del reato, il dolo, non è incompatibile
con il vizio parziale di mente proprio in
virtù dell’espressa previsione normativa di cui all’art.
89 c.p. che sancisce come “chi, nel momento in
cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato
di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la
capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso;
ma la pena è diminuita”.
Dal tenuto letterale del disposto normativo si
evince in modo inequivocabile come la diminuente
del vizio parziale di mente sia piuttosto compatibile
con la sussistenza del dolo, non essendovi contrasto
logico tra l’ammettere la seminfermità mentale
e il ritenere provati la coscienza e la volontà del
fatto, ancorché diminuite (Cass., Sez. fer., 15.9.2009,
Alesci, n. 46817, Ced Cass., rv. 245426).
Tuttavia, il principio di autonomia concettuale, logico
- giuridica dell’imputabilità da un lato e del
dolo dall’altro, pur ribadito nella sentenza oggetto
di odierna disamina, non ha impedito al giudice di
legittimità, di precisare come, in taluni casi, come
evidentemente in quello sottoposto al suo scrutinio,
gli effetti delle condizioni patologiche dell’agente
possano riverberarsi tanto sul giudizio di imputabilità
tanto su quello della sussistenza della coscienza
e volontà del fatto.
Nel caso di specie, il disturbo della personalità di
cui era risultato essere affetto l’imputato in misura
consistente sia per intensità, sia per gravità, tale da
incidere sulla sua capacità di intendere e volere, è
infatti stato preso in considerazione dai giudici di
legittimità sebbene non rientrante nella catalogazione
delle malattie mentali, in quanto dagli atti e
dalle risultanze processuali si evinceva come tale disturbo
si fosse tradotto in un vero e proprio status
patologico ritenuto idoneo ad escludere o scemare
grandemente il dolo nel reato di violazione degli obblighi
di assistenza famigliare.
Già nel 2005, i giudici di legittimità avevano precisato
come, in un caso analogo a quello oggetto di
odierna disamina, anche uno stato emotivo e passionale
dovuto allo stress conseguente alla crisi del rapporto
coniugale, fosse idoneo ad integrale la seminfermità
a condizione però che questo determinasse
una compromissione della capacità di volere e fosse
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possibile associarlo ad uno status patologico anche se
di natura transeunte (Cass., Sez. I, 22.11.2005, Volontè,
Ced Cass., rv. 233278).
Ma l’indubbia pregevolezza della sentenza
odierna consiste proprio nel fatto che viene spazzato
via, essendo dagli ermellini dichiarato espressamente,
ogni dubbio sul possibile meccanismo di
automatismo in ordine alla valutazione della sussistenza
del dolo in capo al seminfermo.
Questo tipo di valutazione, infatti, secondo gli ermellini,
non può sic et simpliciter, indiscriminatamente
per tutte le fattispecie, avere una risposta positiva
sulla base della acritica motivazione tale per
cui nello status di imputabilità diminuita residuerebbe
sempre e comunque la capacità di intendere e
di volere (principio quest’ultimo, peraltro affermato
recentemente, in Cass., Sez. VI, 9.2.2010, n. 8598).
Inevitabilmente il giudizio affermativo o meno,
sulla sussistenza del dolo richiesto per la punibilità,
sia esso generico, sia specifico, in capo al seminfermo,
deve discendere da un’attenta disamina degli
effetti della patologia accertata di cui risulta essere
affetto l’imputato, perché questa ben potrebbe
riverberare i suoi effetti anche sull’elemento rappresentativo
e volitivo dell’imputato medesimo.
D’altra parte, nell’attuale ordinamento processual-penalistico,
non possono trovare ingresso presunzioni
né formule ispirate assertivamente al canone
del dolus in re ipsa.
La conseguenza dell’applicazione di tale canone
sarebbe aberrante: un soggetto verrebbe chiamato a
rispondere, a titolo di dolo, per aver voluto un determinato
fatto, prescindendo dal soffermarsi sul significato
che egli attribuiva a siffatta condotta.
Come opportunamente espresso invece nella
parte motiva della sentenza de qua, la coscienza e la
volontà attengono all’azione considerata nel momento
della sua attuazione ed esprimono quel “coefficiente
di umanità” che consente di valutare la condotta,
in tutte le sue componenti, oggettiva e soggettiva,
come propria del soggetto.
Il giudice di merito pertanto dovrà opportunamente
valutare, con rigore, gli eventuali ma possibili
effetti di determinate patologie anche sull’elemento
psicologico doloso.
Compito quest’ultimo sicuramente arduo ma è la
medesima difficoltà che, d’altra parte, si riscontra
ogni qual volta si debba accertare la forma e l’intensità
del dolo, dato che dei processi psichici altrui
non è possibile avere cognizione diretta. Ma non potrebbe
essere altrimenti nell’ambito di un sistema
penale “moderno” che non può reputare appagante,
sotto il profilo della giustizia, il solo apprezzamento
della volontà materiale di un fatto per ritenere sussistente
il dolo a prescindere dall’eventuale accertamento
della esistenza di una patologia che potrebbe
aver inficiato la volontà dell’evento tipico del
reato.

LEGISLAZIONE
La riforma della filiazione
I figli sono tutti uguali. Un disegno di legge
del Governo e un provvedimento del Senato
avviano la riforma della filiazione
di GIANFRANCO DOSI
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
I figli sono tutti uguali. È questo il senso della riforma
che il Governo ha voluto avviare approvando
il 28 ottobre scorso un disegno di legge che quando
diventerà legge porterà alla revisione completa della
disciplina giuridica della filiazione con la scomparsa
anche di ogni riferimento alla provenienza “legittima”
o “naturale” della nascita. Il disegno di legge
che ora approderà in Parlamento per l’approvazione,
ridefinisce il titolo IX del primo libro del codice civile
“Dei diritti e dei doveri dei figli e delle relazioni tra
genitori e figli” (e si spera che i decreti delegati sostituiscano,
come molti chiedono da tempo, il termine
“potestà” con quello di “responsabilità”) e afferma
il principio che “tutti i figli hanno lo stesso stato
giuridico” (art. 315 bis c.c.) e che ogni figlio (naturalmente
minore di età) “ha diritto di essere mantenuto,
educato, istruito e assistito moralmente dai genitori... e, se
capace di discernimento, di essere ascoltato in tutte le questioni
e le procedure che lo riguardano” (art, 315 c.c.), importante
riaffermazione di un principio che fa già
parte del diritto vivente, quanto meno dalla ratifica
avvenuta in Italia nel 1991 della Convenzione di
New York del 1989 sui diritti dei minori.
Il disegno di legge del Governo ha, però, come si
diceva, ambizioni più vaste. Entro dodici mesi la legislazione
delegata dovrà rivedere “tutte le disposizioni
vigenti in materia di filiazione per eliminare ogni residua
discriminazione tra i figli nati nel matrimonio ed i
figli nati fuori del matrimonio” mantenendo come
punto di riferimento, naturalmente, i diritti che attualmente
sono garantiti alla filiazione nel matrimonio.
Il riconoscimento di un figlio nato fuori dal
matrimonio produrrà perciò effetti anche nei confronti
dei parenti del genitore che lo effettua (e non
solo nei confronti del genitore che lo riconosce); e
scomparirà così una delle più vistose aberrazioni
della attuale disciplina della filiazione naturale. Il
disegno di legge prevede anche l’introduzione di un
termine - salvo che per il figlio - per l’impugnazione
del riconoscimento, analogamente a quanto prevede
l’attuale disciplina del disconoscimento della
filiazione legittima con l’obiettivo ragionevole di
non lasciare lo status della filiazione esposto per
sempre al rischio di una impugnazione.
Si dispone (ma già lo prevede in sostanza oggi
l’art. 261 c.c.) l’”unificazione delle disposizioni che disciplinano
i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli
nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio” ma non
si precisa se questa unificazione debba essere anche
processuale con l’attribuzione delle competenze
ad un unico giudice, come da tempo tutte le persone
di buon senso reclamano a gran voce.
L’unificazione delle competenze davanti al tribunale
ordinario per i figli nati nel matrimonio e per
quelli nati fuori dal matrimonio è, invece, finalmente
l’indicazione precisa che dà il testo di riforma
approvato dal Senato in prima lettura il 6 ottobre
scorso in materia di equiparazione del regime giuridico
tra figli legittimi e figli naturali. E non è fuori
luogo - a tale ultimo proposito - rilevare che per un
obiettivo di così grande significato sono stati sufficienti
solo alcuni aggiustamenti nel codice civile,
come da tempo molti sollecitavano. Dispiace che i
senatori del partito democratico, sotto la pressione
della magistratura minorile (alla quale la riforma toglie
la competenza sui figli naturali che passa ai tribunali
ordinari) abbiano votato contro le modifiche
del codice, con la debole giustificazione che, piuttosto
che una mini riforma, sarebbe necessaria una riforma
generale della giustizia nel settore del diritto
di famiglia. Una riforma generale è certamente necessaria,
ma l’attesa di un riordino complessivo non
giustifica certo il mantenimento di disuguaglianze a
tutti evidentissime. La incomprensibile disparità di
trattamento tra figli naturali e figli legittimi, che ancora
i nostri codici prevedono, non era più tollerabile.
Quindi bene ha fatto il Senato ad approvare la
riforma e bene farà la Camera ad accelerare i tempi
per l’approvazione definitiva della legge.
La riforma attribuisce quindi al tribunale ordinario
(con una semplice modifica dell’art. 38 delle disposizioni
di attuazione del codice civile) la competenza
su tutta la materia della filiazione, ad eccezione
dei procedimenti di contrasto agli abusi della
potestà e dei procedimenti di adozione che rimangono
di competenza del tribunale per i minorenni.
Quando anche l’aula di Montecitorio approverà la
riforma, nessuno dovrà più sobbarcarsi viaggi lunghissimi
fino al lontano tribunale per i minorenni
della propria regione per ottenere un provvedimento
che potrà essere richiesto al tribunale ordinario
della propria città.
Sembra inverosimile che ancora oggi, per un contenzioso
del tutto analogo a quello che i giudici ordinari
affrontano ogni giorno quando decidono sul-
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LEGISLAZIONE
l’affidamento e sul mantenimento dei figli legittimi
in sede di separazione o divorzio, debbano esistere
giudici e procedimenti differenziati per chi nasce
nella famiglia legittima e per chi nasce al di fuori del
matrimonio. Una differenza di competenze che è diventata
nel tempo anche il simbolo di una disuguaglianza
che era ora di abolire.
Il tribunale per i minorenni continuerà ad occuparsi
in sede civile soltanto degli di abusi della potestà
e di adozione, in attesa che la riforma dell’ordinamento
individui le caratteristiche che dovrà avere
il nuovo giudice della famiglia. Si discutono da
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tempo diverse prospettive di riforma dell’ordinamento.
Quella più plausibile è senz’altro l’attribuzione
di una competenza generalizzata nel settore
del diritto delle persone e della famiglia ai tribunali
ordinari, che dovranno costituire proprie sezioni specializzate
(come già oggi esistono nelle città in cui il
numero dei giudici lo consente). Altre soluzioni -
quale quella di un tribunale unico nelle forme concentrate
dell’attuale tribunale per i minorenni (in sostanza
uno per regione) - appaiono del tutto inattuabili
se non altro perché in contrasto con elementari
esigenze di prossimità della giustizia ai cittadini.
Disegno di legge del Governo approvato il 28 ottobre 2010
Modifiche alla disciplina in materia di filiazione
Art. 1 (Diritti e doveri dei figli)
1. La intitolazione del titolo nono del libro primo del codice civile è sostituita dalla seguente: “Dei diritti
e doveri dei figli e delle relazioni tra genitori e figli”.
2. L’articolo 315 del codice civile è sostituito dal seguente: «315. Diritti e doveri dei figli.
Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto
delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Il figlio ha altresì diritto di crescere in famiglia, di mantenere rapporti significativi con i parenti e, se
capace di discernimento, di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito
al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
3. Dopo l’articolo 315 del codice civile è inserito il seguente: «315 bis. Stato giuridico della filiazione.
Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico.
Le disposizioni in tema di filiazione si applicano a tutti i figli senza distinzioni, salvo che si tratti di
disposizioni specificamente riferite ai figli nati nel matrimonio o fuori del matrimonio».
Art. 2 (Delega al Governo per la revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione)
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione per eliminare
ogni residua discriminazione tra i figli nati nel matrimonio ed i figli nati fuori del matrimonio
o da matrimonio putativo, nel rispetto di quanto previsto nell’articolo 30 della Costituzione, osservando,
oltre che i principi di cui all’articolo 1, i seguenti principi e criteri direttivi generali:
a) unificazione dei capi primo e secondo del titolo settimo del libro primo del Codice civile in un capo
unico intitolato “Dello stato di figlio”, apportando tutte le modifiche conseguenti e in particolare:
- sostituzione della intitolazione della sezione prima del capo primo (“Dello stato di figlio legittimo”)
con la intitolazione “Della presunzione di paternità”;
- sostituzione della intitolazione della sezione seconda del capo primo (“Delle prove della filiazione
legittima”) con la intitolazione “Delle prove della filiazione”; sostituzione della intitolazione
della sezione terza del capo primo (Dell’azione di disconoscimento e delle azioni di contestazione
e reclamo della legittimità”) con la intitolazione “Dell’azione di disconoscimento e
delle azioni di contestazione e reclamo dello stato di figlio”;
- conversione del paragrafo primo del capo secondo (“Del riconoscimento dei figli naturali”) nella
sezione quarta intitolata “Del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio”; conversione
del paragrafo secondo del capo secondo (“Della dichiarazione giudiziale della paternità e maternità
naturale”) nella sezione quinta intitolata “Della dichiarazione giudiziale della paternità
e maternità”;
- abrogazione della sezione seconda del capo secondo del titolo settimo del codice civile e delle
altre disposizioni che fanno riferimento alla legittimazione;
b) sostituzione, nei codici e nelle altre leggi vigenti, delle espressioni “figli legittimi” e “figli naturali”
con le espressioni “figli nati nel matrimonio” e “figli nati fuori del matrimonio” e delle espressioni

LEGISLAZIONE
“filiazione legittima” e “filiazione naturale” con le espressioni “filiazione nel matrimonio” e “filiazione
fuori del matrimonio”, nei casi in cui la distinzione assume rilevanza; eliminazione di
ogni distinzione non necessaria;
c) ridefinizione della disciplina del possesso di stato, della prova della filiazione e degli effetti anche
verso i figli nati fuori del matrimonio;
d) estensione della presunzione di paternità del marito rispetto ai figli comunque nati o concepiti
durante il matrimonio e ridefinizione della disciplina del disconoscimento di paternità, con riferimento
in particolare all’articolo 235 primo comma, numeri 1, 2, e 3 del codice civile, nel rispetto
dei principi di ordine costituzionale;
e) modificazione della disciplina del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, con la previsione
che: 1) il riconoscimento produca effetti anche nei confronti dei parenti del genitore che
lo effettua; 2) sia necessario l’assenso del figlio che ha compiuto i quattordici anni; 3) il riconoscimento
dei figli nati da persone tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito
o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, sia consentito
solo previa autorizzazione del giudice, avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità
di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio, e che la disciplina della dichiarazione giudiziale di
paternità e di maternità e quella del riconoscimento siano anche in tali casi adeguate ai principi
di ordine costituzionale; 4) la disciplina attinente all’inserimento del figlio riconosciuto nella famiglia
dell’uno o dell’altro genitore sia adeguata alla disciplina in materia di affidamento condiviso,
prevedendo il consenso dell’altro coniuge e l’ascolto degli altri figli conviventi; 5) il principio
dell’inammissibilità del riconoscimento di cui all’articolo 253 del codice civile sia esteso a
tutte le ipotesi in cui il riconoscimento medesimo è in contrasto con lo stato di figlio riconosciuto
o dichiarato da un’altra persona;
f) modificazione della disciplina dell’impugnazione del riconoscimento, con la previsione di imprescrittibilità
dell’azione solo per il figlio e con l’introduzione di un termine per l’esercizio dell’azione
per gli altri legittimati;
g) unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli
nati nel matrimonio e fuori del matrimonio;
h) specificazione del contenuto dei diritti, poteri e doveri dei genitori con la valorizzazione del principio
di assunzione di responsabilità nei confronti dei figli;
i) conferma della previsione dell’ascolto del minore che abbia adeguata capacità di discernimento
nelle procedure previste dalla presente legge;
l) adeguamento della disciplina delle successioni e delle donazioni al principio di equiparazione
tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio;
m) adattamento e riordino dei criteri di collegamento di cui agli articoli 33, 34, 35 e 39 della legge 31
maggio 1995, n. 218, recante “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”, anche
con l’individuazione di eventuali norme di applicazione necessaria in attuazione dei principi
della presente legge e di quelli affermati nella giurisprudenza civile e costituzionale;
2. Il decreto o i decreti legislativi di cui al comma 1 provvederanno altresì ad effettuare il necessario coordinamento
con le disposizioni ivi contenute delle norme di attuazione del codice civile e delle altre
norme vigenti, in modo da assicurare il rispetto dei principi di cui al comma 1.
3. Il decreto o i decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati su proposta del Ministro delle politiche
per la famiglia, del Ministro della giustizia e del Ministro dei diritti e delle pari opportunità. Sugli
schemi approvati dal Consiglio dei Ministri esprimono il loro parere le Commissioni parlamentari
competenti entro sessanta giorni dalla comunicazione. Decorsi i termini previsti, i decreti sono emanati
anche in mancanza dei pareri. Qualora il termine per l’espressione dei pareri parlamentari di cui
al presente comma scada nei trenta giorni che precedono la scadenza dei termini previsti ai commi
1 e 3 o successivamente, questi ultimi sono prorogati di sei mesi.
4. Entro un anno dall’entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 1 il Governo può adottare
decreti correttivi, nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi fissati dalla presente legge.
Art. 3 (Modifiche al regolamento dello stato civile)
1. Con regolamento adottato a norma dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro
sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo di cui all’articolo 2, sono apportate le necessarie
e conseguenti modifiche al Regolamento dello stato civile adottato con decreto del Presidente
della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396.
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LEGISLAZIONE
Vediamo i punti principali della riforma approvata
dal Senato.
Tralasciando l’abrogazione del feudale potere dei
padri di decidere da soli in caso di urgenza (articolo
316, comma 4, del codice civile) che meritava di essere
cancellato da decenni, il punto centrale della
riforma sta nella modifica dell’articolo 317-bis del
codice civile che viene adeguato alla normativa sulla
bigenitorialità con l’indicazione che la potestà sul
figlio naturale è esercitata di comune accordo da entrambi
i genitori allorché siano conviventi, salvo il
potere di ciascuno di rivolgersi al tribunale per la soluzione
di eventuali contrasti. In caso, invece, di genitori
che non convivono è richiamata la disciplina
applicabile in caso di separazione. Una soluzione
quindi molto lineare e del tutto ragionevole.
L’altro aspetto saliente della riforma sta - come
già detto - nella attribuzione al tribunale ordinario
della competenza per i procedimenti di affidamento
e di mantenimento anche dei figli naturali. Con ciò
- e adeguandosi in fondo all’articolo 4 della legge
sull’affidamento condiviso che aveva già espressamente
equiparato tutti i figli - si supera la giurisprudenza
che aveva mantenuto due giudici diversi
per le procedure di affidamento (tribunale per i minorenni)
e di mantenimento (tribunale ordinario) lasciando
al tribunale per i minorenni la competenza
in caso di contestualità delle due domande (Cassazione
8362/2007; Corte costituzionale, ordinanza n.
185/2008).
TESTO VIGENTE
Art. 316. Esercizio della potestà dei genitori
Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all'età
maggiore o alla emancipazione.
La potestà è esercitata di comune accordo da entrambi
i genitori.
In caso di contrasto su questioni di particolare importanza
ciascuno dei genitori può ricorrere senza
formalità al giudice indicando i provvedimenti che
ritiene più idonei.
Se sussiste un incombente pericolo di grave pregiudizio
per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti
urgenti ed indifferibili.
Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore
degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni
che ritiene più utili nell'interesse del figlio e dell'unità
familiare. Se il contrasto permane il giudice
attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori
che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare
l'interesse del figlio.
80 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
TESTO APPROVATO DAL SENATO IL 6 OTTOBRE 2010
La procedura davanti al tribunale ordinario - fatte
salve le azioni di status contenziose - è quella camerale,
analoga al procedimento usualmente utilizzato
per la modifica delle condizioni di separazione
(per questo, anche se superfluamente, viene
richiamato l’articolo 710 del codice di procedura civile)
mentre a tutti i decreti che definiscono queste
e le altre procedure del tribunale ordinario indicate
nell’articolo 38, viene attribuita finalmente efficacia
immediata esecutiva. La riforma prevede che il tribunale
ordinario mantenga la competenza anche
quando sia promosso davanti al tribunale per i minorenni
un procedimento per asserite condotte abusive
nei confronti del figlio (limitatamente alle condotte
cui fa riferimento l’articolo 333 del codice civile),
risolvendo in tal modo un problema che ha
sempre creato confusioni nella prassi.
Passano al tribunale ordinario - con il nuovo testo
dell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione - anche
i procedimenti relativi allo status dei figli naturali
e cioè l’opposizione di un genitore al riconoscimento
tardivo da parte dell’altro genitore (articolo 250 del
codice civile) e la dichiarazione giudiziale di paternità
(articolo 269 del codice civile), oltre che le procedure
per l’attribuzione del cognome (articolo 262 del
codice civile) ed altre competenze minori. In altre parole,
come sopra detto, al tribunale per i minorenni
rimangono in sostanza solo le competenze in materia
di provvedimenti di limitazione e di decadenza
della potestà e tutto il settore dell’adozione.
TESTO RIFORMATO
Art. 316. Esercizio della potestà dei genitori
Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all'età
maggiore o alla emancipazione.
La potestà è esercitata di comune accordo da entrambi
i genitori.
In caso di contrasto su questioni di particolare importanza
ciascuno dei genitori può ricorrere senza
formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene
più idonei.
abrogato
Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli
anni quattordici, suggerisce le determinazioni che
ritiene più utili nell'interesse del figlio e dell'unità familiare.
Se il contrasto permane il giudice attribuisce
il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo
caso, ritiene il più idoneo a curare l'interesse del
figlio.

Art. 317-bis. Esercizio della potestà
Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale
spetta la potestà su di lui.
Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori,
l'esercizio della potestà spetta congiuntamente ad
entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le
disposizioni dell'articolo 316. Se i genitori non convivono
l'esercizio della potestà spetta al genitore col
quale il figlio convive ovvero, se non convive con alcuno
di essi, al primo che ha fatto il riconoscimento.
Il giudice, nell'esclusivo interesse del figlio, può disporre
diversamente; può anche escludere dall'esercizio
della potestà entrambi i genitori, provvedendo
alla nomina di un tutore.
Il genitore che non esercita la potestà ha il potere di
vigilare sull'istruzione, sull'educazione e sulle condizioni
di vita del figlio minore.
Art. 38. Disposizioni di attuazione del codice civile
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i
provvedimenti contemplati dagli artt. 84, 90, 171,
194, comma secondo, 250, 252, 262, 264, 316, 317 bis,
330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché
nel caso di minori dall'art. 269, primo comma, codice
civile.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti
per i quali non e espressamente stabilita la competenza
di una diversa autorità giudiziaria.
In ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio
sentito il pubblico ministero.
Quando il provvedimento è emesso dal tribunale
per i minorenni il reclamo si propone davanti alla
sezione di corte di appello per i minorenni.
Art. 276. Legittimazione passiva
La domanda per la dichiarazione di paternità o di
maternità naturale deve essere proposta nei confronti
del presunto genitore o, in mancanza di lui,
nei confronti dei suoi eredi.
Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse.
LEGISLAZIONE
Art. 317-bis. Esercizio della potestà
Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale
spetta la potestà su di lui.
Se il riconoscimento e` fatto da entrambi i genitori,
l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad
entrambi. Si applicano le disposizioni dell’articolo
316. Se i genitori non convivono, si applicano, in
quanto compatibili, gli articoli 155, 155-bis, 155-ter,
155-quater, 155-quinquies, 155-sexies e 156, commi
quarto, quinto, sesto e settimo.
Art. 38. Disposizioni di attuazione del codice civile
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i
provvedimenti contemplati dagli artt. 84, 90, 330, 332,
333, 334, 335 e 371, ultimo comma.. Per i procedimenti
di cui all’articolo 333 resta esclusa l’ipotesi in cui sia
in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o
divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316. In tale
ipotesi e per tutta la durata del processo, la competenza,
anche per i provvedimenti contemplati dalle
norme richiamate, spetta al giudice ordinario.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti
per i quali non e espressamente stabilita la competenza
di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti
in materia di affidamento e di mantenimento
dei minori si applica, in quanto compatibile,
l’articolo 710 del codice di procedura civile. Fermo restando
quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale
competente provvede in ogni caso in camera di
consiglio sentito il pubblico ministero e i provvedimenti
emessi sono immediatamente esecutivi, salvo
che il giudice disponga diversamente.
Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per
i minorenni il reclamo si propone davanti alla sezione
di corte di appello per i minorenni.
Art. 276. Legittimazione passiva
La domanda per la dichiarazione di paternità o di
maternità naturale deve essere proposta nei confronti
del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei
confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda
deve essere proposta nei confronti di un curatore
nominato dal giudice davanti al quale il giudizio
deve essere promosso.
Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 81

LEGISLAZIONE
La riforma, infine, ha colto l’occasione per risolvere
anche un altro problema che la giurisprudenza
non ha potuto risolvere, che riguarda i casi in cui la
domanda di accertamento giudiziale della paternità
naturale deve essere azionata nei confronti degli
eredi del presunto padre naturale deceduto. Ove
non vi siano eredi diretti del presunto genitore deceduto,
la giurisprudenza ha escluso la possibilità
di richiedere la nomina di un curatore speciale per
l’esercizio dell’azione (Cassazione, Sezioni unite,
21287/2005; Corte costituzionale da ultimo 278/2009)
frustrando così il diritto alla genitorialità. La riforma,
prendendo spunto dagli inviti della Corte costituzionale,
indica ora espressamente che in mancanza
di eredi l’azione per l’accertamento della paternità
naturale deve essere promossa nei confronti di un
curatore speciale.
Prospettive di riforma
dell’affidamento condiviso
Domicilio presso entrambi i genitori, tempi di cura
paritetici e altri interventi necessari
di MARINO MAGLIETTA
PRESIDENTE DI CRESCERE INSIEME
Sul ddl 957, che ritocca la legge 54/2006 sull’affidamento
condiviso, all’esame del Senato, circolano
vari pareri, come quello dell’UNCM, che rendono necessarie
alcune precisazioni da parte di chi ne ha fin
qui curato la scrittura.
La prima osservazione è che vengono mescolate e
confuse vere novità con il semplice richiamo alle già
attuali prescrizioni.
In proposito, è indubbiamente vero che una larga
parte della giurisprudenza non è coerente con la riforma
del 2006 e si esprime come se la scelta del modello
dovesse ancora compiersi e al giudice fosse lasciata
facoltà di optare secondo il proprio personale
giudizio, che prevalentemente coincide con le regole
dell’affidamento esclusivo. Pertanto, quanti, come
l’UNCM, sono fermi alla giurisprudenza è naturale
che elenchino tra le “novità legislative”, e critichino,
passaggi che si limitano a rendere ineludibili norme
attuali, come la forma diretta del mantenimento dei
figli ed una frequentazione dei genitori “equilibrata
e continuativa”, solo ribadita dal doppio domicilio.
Del primo concetto - rammentato che il diritto del
minore a ricevere “cura”, e non soldi (la parola “mantenimento”
sparisce dal primo comma, assorbita
nella cura), da entrambi i genitori, entrambi affidatari,
rende necessaria la forma diretta del mantenimento
per realizzare il diritto stesso - non si può, in
questa sede, argomentare la validità e si è costretti a
rimandare ai commi 1 e 4 dell’art. 155, ovvero ad una
82 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
quantità di autori (Arceri, Costanzo, Zaccaria…), a un
esteso Dossier (Fam. Min. (6) 2009, pp. II-VIII) o alla
stessa Cassazione (23411/2009). Sul secondo occorre
insistere. Citare come novità “l’abolizione del collocamento
del figlio presso un genitore, in quanto il figlio
avrà domicilio presso entrambi i genitori, e il tempo
della sua presenza presso ciascun genitore sarà “paritetico”
“è singolare, ove si rammenti anche solo quanto
lamentato a suo tempo dalla Camera Minorile di Milano,
altamente rappresentativa, nel comunicato del
26/1/06: “…poiché la legge approvata non prevede che
debba essere specificata la residenza abituale del minore…”.
Dunque, ci si era accorti che la legge 54 attribuisce
ai figli solo una residenza anagrafica e non
ammette genitori “collocatari”. Inoltre, il ddl 957 afferma
la pariteticità (oltretutto sottolineandone la necessaria
praticabilità) nell’assunzione dei compiti di
cura - ossia nei doveri - e non nei tempi, poiché stabilisce
il diritto del minore “di ricevere cura, educazione
e istruzione da entrambi pariteticamente, salvi
i casi di impossibilità materiale”. Il senso è lo stesso
del doppio domicilio, luogo degli interessi e degli affetti.
Ossia, in sostanza, si tratta solo di pari responsabilità:
differenza radicale.
Mostrato, dunque, che sul punto non ci sono innovazioni
, ma solo il tentativo di mettere fine all’inosservanza
di prescrizioni di legge, entriamo
pure nel merito della questione. Nessuno ignora i
disagi legati alla frequentazione di due genitori e di
due case: ma di questo si è discusso per 12 anni
prima dell’introduzione della riforma e la conclusione,
sentiti gli esperti, è stata che ciò era comunque
meno grave - per i figli - della inevitabile perdita
del contributo educativo e affettivo di un genitore
legata al rapporto privilegiato con l’altro, a prescindere
dal nome dell’istituto. E poi, il genitore
“non collocatario” non può essere soppresso. Anche
nel modello esclusivo la sua casa è frequentata, e
con lo stesso numero di scambi, anche se per un
tempo inferiore. Allora, dove si può (o si vuole) arrivare
con la pertinace negazione delle “due case”? A
far sentire il figlio a casa sua solo dal collocatario,
ossia a farlo stare a disagio dall’altro, in punta di sedia
come un ospite. Dunque, è in nome di questo tipo
di “interesse” e contro la volontà del Parlamento
espressione della sovranità popolare, che si continua
ad adottare prevalentemente il modello dell’affidamento
esclusivo in tutti i suoi contenuti concreti,
limitandosi a cambiare il nome di affidatario
in quello di collocatario, a dispetto di una legge che
deliberatamente e sistematicamente ha cancellato
ogni distinzione. Questo deve essere chiaro. Certo,
si può essere convinti in buona fede che il sistema
migliore fosse quello precedente, il monarchico. Ma
per tornare a ciò, per cambiare una legge, ne occorre
una nuova: questo i giuristi dovrebbero saperlo. La
scorciatoia di far finta che nulla sia cambiato non è
ammessa, in uno stato di diritto.

Proseguendo l’analisi del comunicato UNCM, non
può tacersi un misterioso silenzio su uno dei punti
maggiormente innovativi del ddl 957: la previsione
di un passaggio preliminare obbligatorio presso un
centro di mediazione familiare a scopo solo informativo,
con piena libertà di non andare oltre. Non è
per nulla un punto secondario, in effetti, e occorre
cercare di capire le ragioni della imprevedibile omissione.
Certamente non ci si è sentiti di bollare frettolosamente
questa norma come “mediazione obbligatoria”,
tanto la realtà sarebbe stata distante
dalla descrizione, per chiunque avesse preso in
mano il disegno di legge. Allora, probabilmente, non
potendo dirne male - anche perché è in forte crescita
il numero di avvocati che guarda con simpatia
alla mediazione, tanto da averne fatto una scelta
professionale aggiuntiva, investendoci non poco denaro
- e non volendo dirne bene, si è preferito tacere.
Tornando a considerare ciò che il comunicato
dice, ci sono varie altre attribuzioni di contenuti al
disegno di legge, in cui l’interpretazione non è coerente
con il testo. Ne può essere un esempio l’idea
che il ddl 957 si proponga “la determinazione di un
assegno perequativo posto a carico di un genitore o
di entrambi, da versare su un conto corrente co-
LEGISLAZIONE
mune intestato al figlio, anche se minore”. Si è attribuito
il carattere di prescrizione, sia pure residuale,
a una modalità che semplicemente si ipotizza
possa essere in vigore tra i genitori al momento in
cui il figlio diventa maggiorenne e che viene considerata
solo per dire che degli assegni per il figlio -
ove disposti, non importa in quale forma - questi diventa
titolare quando raggiunge la maggiore età.
Quanto al resto, non è certo facile fornire la prova
negativa di fatti futuri, per giunta metagiuridici,
come quando si profetizzano le infauste conseguenze
del mantenimento diretto - al quale si è sopra
accennato facendo notare che è già legge dello
Stato - prevedendo “ulteriori ripercussioni sulla serenità
dei minori e sul loro corretto sviluppo formativo”
nonché “ulteriori motivi di contrasto tra i genitori
a detrimento dei reali bisogni dei minori.”
Quanto alla possibilità data agli ascendenti di fare
istanza affinché sia concretamente disposta una
frequentazione con i nipoti, la censura secondo cui
in tal modo questi ultimi diverrebbero oggetto di diritti,
anziché soggetto, sorvola sul fatto che la modifica
aggiunge la possibilità di istanza da parte degli
ascendenti al confermato diritto del minore, come
pure che, lungi dal cancellarlo, vuole solo dare ad
esso la possibilità di goderne, atteso che un minorenne
non ha la capacità di agire.
Poche parole per il timido riconoscimento dell’esistenza
di manipolazioni dei figli, che procurano
ad essi danni talmente gravi da essere difficilmente
valutabili. Un riconoscimento, infatti, talmente poco
convinto da cercare immediato rifugio nel noto artificio
dialettico che, essendo l’intervento non sufficientemente
approfondito, meglio non intervenire.
Un posto di rilievo, invece, merita la critica all’intervento
sulla assegnazione della casa familiare.
Ben nota è la pronuncia della Corte Costituzionale
(308/2008), a cui essa si richiama. Non si è stati, tuttavia,
attenti ad altre circostanze. Anzitutto la formulazione
proposta modifica sul punto la legge 54,
per cui non ci può essere trasposizione automatica.
Inoltre, in materia così delicata, che incide profondamente
nella vita di soggetti fragili, non appare né
corretto né opportuno appigliarsi ad aspetti formali,
ma si dovrebbe guardare alla sostanza. E’ quello che
fa il ddl 957. Partendo, infatti, dalla obbligatoria ipotesi
di un affidamento che abbia rispettato i diritti
dei figli ad una frequentazione equilibrata delle abitazioni
dei due genitori, non si vede come possa parlarsi
di “sottrazione della casa al minore”, quale che
sia il genitore assegnatario: in ogni caso ci starà
metà tempo. Su questo, invece, ruota tutto l’argomentare
dell’estensore della 308, che evidentemente
ancora pensava all’affidamento esclusivo.
Inoltre, se è giusto ritenere che nell’interesse del minore
si deve impedire a chi esce dalla casa familiare
di asportarne perfino il più inutile soprammobile -
altrimenti il figlio ne soffre - come si può sostenere
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 83

LEGISLAZIONE
la tesi di una verifica solo a posteriori dell’eventuale
disturbo arrecato dall’ingresso, armi e bagagli, di un
nuovo soggetto, che rivoluzionerà necessariamente
spazi e abitudini? Viceversa, è illuminante la prima
applicazione delle teorie della Consulta (Cass.
9995/2008) ove si concludeva trionfalmente che un
certo signore che aveva fatto della casa familiare la
sede delle sue attività imprenditoriali, poteva tranquillamente
restarci, sol perché si poteva escludere
che “la presenza del convivente della madre fosse
nociva o diseducativa per il bambino”. E’ o no ragionevole
chiedersi se le Camere Minorili hanno davvero
a cuore l’interesse del minore o non piuttosto
quello degli adulti? Non è solo la posizione di chi
scrive. In una ben argomentata pronuncia della Suprema
Corte (26574/07 ), che precede la Consulta, si
legge: “con il formarsi di un nuovo nucleo familiare,
…la previsione legislativa della cessazione dell’assegnazione
è mera conseguenza dell’avere l’abitazione
perduto la sua funzione, per essere venuto
meno… quell’habitat che si intendeva conservare,
finché possibile, ai figli”. A ciò nessuno finora ha
dato risposta.
84 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Ultimo tema è l’appello dell’UNCM a favore di un
Tribunale unico dei minori e della famiglia, implicitamente
avversando l’istituzione di sezioni specializzate
presso i tribunali ordinari. Fermo restando
che tutti riconoscono l’esigenza di un giudice specializzato
e della unificazione delle competenze, la
scelta del ddl 957 è ispirata a un criterio chiarissimo:
le esigenze e i desideri dell’utenza, e non le preferenze
delle varie categorie di operatori, che comprensibilmente
possono essere guidati da considerazioni
opportunistiche. E l’utenza è unanimemente
a favore delle sezioni specializzate. Le ragioni sono
due. La prima proviene dai numeri, che inducono
costi altissimi e scomodità di ogni genere. I tribunali
ordinari sono 165, quelli per i minorenni 29. Né i previsti
accorpamenti risolvono il problema. Ad es,, in
Toscana Arezzo andrebbe con Siena e Grosseto. Distanze
enormi, mondi diversi. La seconda è la profonda
diffidenza verso un “tribunale speciale” che
nasca sulle ceneri di una istituzione che, a ragione
o a torto, non ha destato simpatie in chi l’ha dovuta
frequentare. È un dato di fatto. È sembrato giusto tenerne
conto.
Riportiamo il testo del disegno di legge n. 957 (già pubblicato e commentato su “Avvocati di famiglia”,
5, 2010)
Disegno di legge
Art. 1.
1. All’articolo 155 del codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, dopo le parole: «di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi» sono inserite
le seguenti: «pariteticamente, salvi i casi di impossibilità materiale,»;
b) il secondo comma è sostituito dal seguente:
«Per realizzare la finalità di cui al primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale
dei coniugi dispone che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori, salvo quanto stabilito
all’articolo 155-bis. L’età dei figli, la distanza tra le abitazioni dei genitori e il tenore dei loro
rapporti non rilevano ai fini del rispetto del diritto dei minori all’affidamento condiviso, ma solo
sulle relative modalità di attuazione. Determina i tempi e le modalità della loro presenza presso
ciascun genitore, stabilendone il domicilio presso entrambi, salvi accordi diversi dei genitori, e tenendo
conto della capacità di ciascun genitore di rispettare la figura e il ruolo dell’altro. Fissa altresì
la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione
e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi
intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole con esclusivo
riferimento all’interesse morale e materiale di essa.»;
c) dopo il secondo comma è inserito il seguente:
«Agli ascendenti è data facoltà di chiedere al giudice che sia riconosciuta e disciplinata la propria
possibilità di contatto con i minori.»;
d) al terzo comma, dopo le parole: «da entrambi i genitori» sono inserite le seguenti: «salvo quanto
disposto all’articolo 155-bis»;
e) il quarto comma è sostituito dai seguenti:
«Salvo accordi diversi delle parti, ciascuno dei genitori provvede in forma diretta e per capitoli di
spesa al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche. Le modalità
sono concordate direttamente dai genitori o, in caso di disaccordo, sono stabilite dal giudice.
Il costo dei figli è valutato tenendo conto:

LEGISLAZIONE
1) delle attuali esigenze del figlio;
2) delle attuali risorse economiche complessive dei genitori.
Quale contributo diretto il giudice valuta anche la valenza economica dei compiti domestici e
di cura assunti da ciascun genitore.
Ove necessario al fine di realizzare il suddetto principio di proporzionalità, il giudice può stabilire
la corresponsione di un assegno perequativo periodico. L’assegno è automaticamente
adeguato agli indici ISTAT, in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
Qualora un genitore venga meno, comprovatamente, al dovere di provvedere alle necessità del
figlio nella forma diretta per la parte di sua spettanza, il giudice stabilisce, a domanda, che
provveda mediante assegno da versare all’altro genitore.»;
f) il quinto comma è abrogato.
Art. 2.
1. All’articolo 155-bis del codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il primo comma è sostituito dal seguente:
«Il giudice può escludere un genitore dall’affidamento, con provvedimento motivato, qualora ritenga
che da quel genitore, se affidatario, possa venire pregiudizio al minore. In ogni caso il giudice
può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità,
in un istituto di educazione.»;
b) dopo il secondo comma sono aggiunti i seguenti:
«Il genitore cui sono affidati i figli ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi; egli deve attenersi
alle condizioni determinate dal giudice. Le decisioni di maggiore interesse per i figli sono
adottate congiuntamente da entrambi i coniugi. Il cambiamento di residenza dei figli costituisce
decisione di maggiore interesse e deve essere concordato. In caso di disaccordo la decisione è rimessa
al giudice. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro
istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni
pregiudizievoli al loro interesse.
Le norme sul mantenimento dei figli di cui al quinto comma dell’articolo 155 si applicano a prescindere
dal tipo di affidamento; parimenti, la posizione fiscale dei genitori è la stessa»;
c) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Esclusione di un genitore dall’affidamento e disciplina dell’affidamento
esclusivo».
Art. 3.
1. All’articolo 155-quater del codice civile, al primo comma, le parole: «Il diritto al godimento della casa
familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa
familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio» sono sostituite dalle seguenti: «Nel
caso in cui l’assegnatario della casa familiare non vi abiti o cessi di abitarvi stabilmente o contragga
nuovo matrimonio o conviva more uxorio, la sua assegnazione in godimento, a tutela dell’interesse dei
figli a conservare intatto il luogo di crescita, perde efficacia e il giudice dispone, a domanda, secondo
i criteri ordinari».
Art. 4.
1. All’articolo 155-quinquies del codice civile il primo comma è sostituito dai seguenti:
«Dell’assegno perequativo eventualmente stabilito per il mantenimento del figlio, o degli assegni che
entrambi i genitori siano obbligati a versare in un conto corrente comune a favore del figlio, è titolare
quest’ultimo quando diventa maggiorenne; il figlio maggiorenne è altresì tenuto a collaborare con
i genitori e a contribuire alle spese familiari, finché convivente. Ove il genitore obbligato si renda inadempiente,
in caso di inerzia del figlio è legittimato ad agire anche l’altro genitore, come persona
che ne subisce un danno.
Nel caso in cui un figlio sia già maggiorenne al momento della separazione personale dei genitori, ma
non ancora autosufficiente economicamente, può essere chiesta l’applicazione del quinto comma
dell’articolo 155 del codice civile da uno qualsiasi dei genitori o dal figlio».
Art. 5.
1. All’Articolo 155-sexies del codice sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e prende in considerazione la sua opi-
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 85

LEGISLAZIONE
nione, tenendo conto dell’età e del grado di maturità. Il giudice può disporre che il minore sia
sentito con audizione protetta, in locali a ciò idonei, anche fuori dell’ufficio giudiziario, e che la
medesima, oltre che verbalizzata, sia registrata con mezzi audiovisivi»;
b) il secondo comma è abrogato.
Art. 6.
1. All’articolo 317-bis del codice civile, il secondo comma è sostituito dal seguente:
«Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta congiuntamente a
entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni dell’articolo 316. Se i genitori non convivono
l’esercizio della potestà è regolato secondo quanto disposto dagli articoli da 155 a 155-sexies».
Art. 7.
1. All’articolo 178 del codice di procedura civile, dopo il primo comma è inserito il seguente:
«L’ordinanza del giudice istruttore in materia di separazione e affidamento dei figli è impugnabile
dalle parti con reclamo al collegio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci
giorni, decorrente dalla pronuncia dell’ordinanza se avvenuta in udienza, o altrimenti decorrente
dalla comunicazione dell’ordinanza medesima».
Art. 8.
1. Dopo l’articolo 709-bis del codice di procedura civile è inserito il seguente:
«Art. 709-bis.1. - (Mediazione Familiare). - In tutti i casi di disaccordo nella fase di elaborazione del progetto
condiviso le parti hanno l’obbligo, prima di adire il giudice e salvi i casi di assoluta urgenza o
di grave ed imminente pregiudizio per i minori, di acquisire informazioni sulle potenzialità di un
eventuale percorso di mediazione familiare, rivolgendosi a un centro pubblico o privato, i cui operatori
abbiano formazione specifica ed appartengano ad albi nazionali specifici pubblici o privati registrati
nell’apposito elenco del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
Ove l’intervento, che può essere interrotto in qualsiasi momento, si concluda positivamente, le parti presentano
al presidente del tribunale il testo dell’accordo raggiunto. Gli aspetti economici della separazione
possono far parte del documento finale, anche se concordati al di fuori del centro di cui al primo
comma. In caso di insuccesso le parti possono rivolgersi al giudice, ai sensi dell’articolo 709-ter.
In ogni caso la parte ricorrente deve allegare al ricorso la certificazione del passaggio presso il centro
di cui al primo comma o concorde dichiarazione circa l’avvenuto passaggio.
In caso di contrasti insorti successivamente, in ogni stato e grado del giudizio o anche dopo la sua
conclusione, il giudice segnala alle parti l’opportunità di rivolgersi ad un centro di mediazione familiare,
di cui al primo comma. Se la segnalazione trova il consenso delle parti, il giudice rinvia la causa
ad altra data in attesa dell’espletamento dell’attività di mediazione».
Art. 9.
1. All’articolo 709-ter del codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, l’alinea è sostituito dal seguente: «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti
e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino
pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, il giudice
emette prioritariamente provvedimenti di ripristino, restituzione o compensazione. In particolare, nel
caso in cui uno dei genitori, anche se affidatario esclusivo, trasferisca la prole senza il consenso scritto
dell’altro genitore in luogo tale da interferire con le regole dell’affidamento, il giudice dispone il rientro
immediato dei figli e il risarcimento di ogni conseguente danno, valutando tale comportamento
ai fini del’affidamento e delle sue modalità di attuazione. Il giudice, inoltre, può modificare i provvedimenti
in vigore e può, anche congiuntamente:» e il numero 1) è abrogato;
b) dopo il secondo comma è inserito il seguente:
«Il comprovato condizionamento della volontà del minore, in particolare se mirato al rifiuto dell’altro
genitore attivando la sindrome di alienazione genitoriale, costituisce inadempienza grave,
che può comportare l’esclusione dall’affidamento».
Art. 10.
1. All’articolo 4 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «La competenza
è attribuita in ogni caso al tribunale ordinario».
86 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011

In libreria
a cura dell’avv. GIANFRANCO DOSI
Giacomo Oberto
LA COMUNIONE LEGALE
TRA CONIUGI
2 Volumi
Milano, Giuffrè, 2010
La premessa dell’Autore
Nel generale impazzimento del
mondo, nell’imbarbarimento delle
relazioni tra giuristi (teorici o pratici
che siano), nel momento in cui
il “ tiro al giudice”, pare diventato
il passatempo preferito di istituzioni,
politici, giornalisti, pubblicisti,
cittadini scontenti delle decisioni
rese, perdigiorno di vario genere,
avvocati, accademici, e financo
di colleghi e colleghe, l’essere
riuscito a portare a compimento,
in un tempo relativamente
contenuto, l’opera che qui presento
al pubblico costitu isce per
me un piccolo miracolo, nonché
motivo di grande soddisfa zione.
Non compete certo a me esprimere
giudizi sul risultato delle immani
fatiche del lavoro di ricerca e
di riflessione trasfuso nel presente
scritto. Come tutte le opere umane
esso contiene sicuramente inesat -
tezze, manchevolezze, contraddizioni,
esagerazioni, di cui mi scuso
sin d’ora con il paziente lettore.
Allo stesso modo chiedo venia a
tutti gli Autori il cui pensiero non
dovesse risultare riportato in
modo corretto o sufficiente, ovvero
fosse stato addirittura
omesso. Il numero degli studiosi
che si sono cimentati con la materia
della comunione legale, con
singoli aspetti di essa, o con questioni
collegate alla medesima, è
letteralmente sterminato. L’istituto
ha del resto (faticosamente)
rag giunto anche da noi quella che
con felice espressione transalpina
è stata definita la « maturità giurisprudenziale
»: pertanto, quanto
mai consi stente è ormai anche
l’apporto dei giudici, sia di merito
che di legittimità.
L’assoluta completezza, specie in
questa materia, non è umana -
mente raggiungibile, né rientrava
negli obiettivi che mi ero prefissati.
Malgrado ciò, ritengo di poter
offrire al lettore un panorama sufficien
temente esaustivo su quello
che è oggi il regime patrimoniale
legale delle famiglie italiane.
Come dicevo, non sta a me giudicare.
Mi sia solo consentito aggiungere
un motivo d’orgoglio
personale, che non ha (direttamente)
a che vedere con la qualità
dell’opera. Parlando, una volta
tanto, non da studioso di diritto,
ma da appassionato bibliofilo e
collezionista di testi giuridici, non
posso esimermi dall’esprimere la
soddisfazione derivante dal poter
dire che pressoché tutte le opere
citate in questo volume ed in particolare
quelle più antiche - sono
tratte dalla mia personale biblioteca.
Il che, tenuto conto degli assurdi
ed astronomici prezzi che
certi volumi hanno raggiunto, in
Italia come all’ estero, non è cosa
da poco.
E di già che siamo in tema di libri
antichi, mi auguro che il lettore
non valuti in maniera troppo severa
l‘enfasi che ho messo nello
studio delle radici storiche delle
varie questioni, concernenti la comunione
coniugale.
Questo è un Leitmotiv su cui torno
più volte nel contesto del lavoro.
L’idea del Montesquieu, secondo
cui le leggi servono a chiarire la
storia, così’ come la storia serve a
chiarire le leggi, mi pare contenga
una verità incontestabile. E a questa
frase non posso fare a meno
di pensare, allorché vengono
spacciate oggi come « nuove»
questioni che i Parlamenti francesi,
o maestri del droit coutumier,
discutevano e risolvevano secoli
IN LIBRERIA
or sono, sovente negli stessi identici
termini che caratterizzano i
dibattiti contemporanei. Altrettanto
incontestabil mente mi
sembra applicabile al libro ciò che
Ortega y Gasset riferiva all’uomo:
il fatto, cioè, di non essere giammai
il primo del suo genere, ma di
cominciare «subito a esistere su
un certo livello di passato accumulato
». E, nel caso di un libro
sulla comunione legale tra coniugi,
il «livello di passato» accumulato
in almeno otto secoli di
storia dell’istituto è veramente
impressionante.
Un’ altra « stella polare» che ho voluto
costantemente seguire nel
lungo e periglioso viaggio attraverso
l’aggrovigliato intrico della
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 87

IN LIBRERIA
comu nione legale è rappresentata
dall’analisi di diritto comparato:
sia per via dell’innegabile « parentela»
che il nostro istituto possiede
rispetto ad analoghi istituti di svariati
altri ordinamenti (in primis,
naturalmente, con la communauté
légale francese), sia per le inevitabili
istanze di rapprochement con i
sistemi stranieri che l’evoluzione
comunitaria del diritto di famiglia
oggidì impone. Come recentemente
rilevato da un’ Autrice francese,
la circolazione delle persone,
oggi più che mai intensa, porta a
far si che non sia più concepibile
por mano al diritto nazionale dei
regimi matrimoniali senza una
préalable riflessione di diritto comparato.
Il caso Radmacher V.. Granatino
(risolto nel 2009 dalla Court
of Appeal britannica: di esso si
dirà nel contesto del Cap. Il, che ha
deciso una questione di diritto interno
afferente alla validità degli
ante-nuptial contracts alla luce di
considerazioni tratte dal raf fronto
con i sistemi giusfamiliari francese
e tedesco, appare al riguardo
quanto mai eloquente.
Sempre in tema di metodo seguito
nella trattazione, voglio qui
precisare che, per esigenze di
chiarezza, ho sovente preferito -
anziché procedere a discutibili
riassunti delle opinioni altrui - lasciare
spazio alla voce degli Autori
e delle sentenze citati, riportando
sovente in nota, tra virgolette,
i passaggi più significativi,
proprio perché non fosse lasciato
adito al minimo dubbio.
Le citazioni sono state riportate
nella maniera più fedele al testo
da cui sono state tratte e ciò vale
anche per gli studiosi più antichi. Il
che vuol dire, naturalmente, che (a
parte le abbreviature delle cinquecen
tine, non riproducibili con i tipi
moderni e comunque assolutamente
« criptiche» per chi non abbia
un minimo d’esperienza di
consulta zione di simili opere) la
grafia segue pari pari l’originale,
con tutte le difformità del caso, rispetto
a come siamo abituati a vedere
espresse determinate parole.
Ne consegue che, tanto per fare
88 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
qualche esempio, per quanto riguarda
il latino, il dittongo «ae»
può talora risultare espresso semplicemente
con la vocale « e », la
congiunzione «et » viene per lo più
resa con il segno oggi (da noi) impiegato
solo nelle ragioni sociali
(

cui sopra, approfittando dell’ampia
libertà che la struttura del
trattato consente rispetto a quella
del commentario. Anche operando
in tal modo, il contenuto di
svariati capitoli mi è apparso cosi
abbondante (e talora, intrinsecamente
eterogeneo), da suggerire il
frequente ricorso ad una sottoripartizione
in distinte sezioni (che
peraltro lasciano inal terata, all’interno
di ogni capitolo, la successione
e la numerazione di paragrafi
e note, che riprende a decorrere
dall’inizio di ogni nuovo
capitolo, e non di ogni sezione).
Ho ritenuto poi di dover concentrare
in un’ultima e distinta parte
(composta, a sua volta, di quattro
capitoli) le principali interferenze
della comunione legale rispetto
ad altri istituti, nonché ad alcuni
principi generali (autonomia privata,
pubblicità, processo, questioni
legate ad azienda, impresa
e società).
TI mio ringraziamento più sentito
va al Prof. Piero Schlesinger, per la
fiducia dimostrata nell’affidarmi
questo arduo compito, che ho cercato
di portare a compimento in
quello che - nei limiti delle mie
modeste, solitarie ed isolate forze
- era il migliore dei modi possibili.
Giacomo Oberto
Salvatore Patti
LE PROVE. PARTE GENERALE
Giuffrè editore, 2010
La migliore presentazione di questo
ottimo volume di Salvatore
Patti - che esce nel Trattato di diritto
privato a cura di Giovanni Iudica
e Paolo Zatti - ci sembra la riflessione
che egli stesso propone
sulla scarsa attenzione della dottrina
italiana per il principio del libero
convincimento. Si tratta di
uno dei temi centrali del processo.
Con la consueta chiarezza Patti ci
aiuta a superare le ambiguità interpretative,
e il rischio di arbitrio
giudiziario, che possono derivare
dall’equivoca sovrapposizione tra
libero convincimento e libera interpretazione
delle prove.
Il principio del libero convincimento
del giudice, in connessione
con la valutazione delle
prove, rappresenta certamente
uno dei temi centrali del processo
e nel contempo uno dei cardini
dell’ordinamento giuridico. Tuttavia,
per riprendere una considerazione
che non ha perduto attualità,
“ancora assai incerto e
nebuloso è il significato da attribuire
al libero convincimento del
giudice nelle aree in cui esso può
esplicarsi, così come rimangono
vaghe le implicazioni che dal
principio discendono in ordine
alla concezione della verità giudiziale,
ai poteri probatori del giudice,
e alle tecniche di assunzione
delle prove del processo civile”
[M.Taruffo, libero convincimento del
giudice (diritto processuale civile), in
Enc. giur.Treccani, Roma, 1990, 1].
In effetti, nella pur ricca letteratura
civilistica dedicata all’attività
del giudice mancano quasi del
tutto contributi specifici sul principio
del libero convincimento, ed
anche in saggi di grande rilievo,
ove il problema è trattato, spesso
non si va oltre affermazioni generiche.
In definitiva, anche per il
processo civile può valere quanto
affermato nelle pagine introduttive
di una vasta indagine dedicata
al processo penale: “A forza
di vantare con dogmatica sicurezza
il principio del libero con-
IN LIBRERIA
vincimento come fondamento
imprescindibile del sistema, da
troppo tempo se ne trascura l’approfondimento
critico, con la conseguenza
di una grande varietà di
significati e soprattutto di un’immagine
equivoca della libertà del
giudice” [M.Nobili, Il principio del libero
convincimento del giudice, Milano,
1974, 3].
Soprattutto alla dottrina più recente
deve comunque essere riconosciuto
il merito di una serrata
critica della giurisprudenza, che
molto spesso trascura di riflettere
sul fondamento e sulla funzione
del principio in questione rischiando
di trasformare il libero
convincimento in arbitrio, o almeno
di eludere l’obbligo della
motivazione in fatto, sottraendo la
valutazione delle prove ad ogni
forma di razionalizzazione e di
controllo. Basti ricordare che secondo
la dottrina meno recente e
la giurisprudenza una sola presunzione
può fondare il convincimento
del giudice, come è noto,
insindacabile in Cassazione. In numerose
occasioni la giurisprudenza
ha affermato perfino che il
convincimento può basarsi su una
sola presunzione, “grave e precisa”,
pur quando sono state acquisite
al processo prove contrarie,
o comunque quando l’esistenza
dei fatti non può accertarsi in altro
modo.
Esattamente si richiede perché in
ipotesi del genere il giudice debba
fondare l’accertamento su una
base così discutibile invece di decidere
applicando la regola sull’onere
della prova, e si segnala la
finzione che si nasconde dietro
l’argomento della “certezza morale”,
che dovrebbe servire a colmare
lo scarto tra l’effettiva conoscenza
dei fatti e la certezza assoluta
[M.Taruffo, Prove atipiche e convincimento
del giudice, in Riv.dir.proc.,
1973,399 ss.].
Viceversa, il giudice è in ogni caso
“libero” di ritenere le prove acquisite
non sufficienti per la formazione
del convincimento e quindi
decidere in base alla regola sull’onere
della prova.
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 89

IN LIBRERIA
In definitiva, prescindendo per
ora da altri aspetti della problematica,
sono evidenti i pericoli
che possono derivare dal principio
del libero convincimento così
inteso - si parla di mito del convincimento
- nonché le connessioni
esistenti tra il suddetto principio
e l’onere della prova.
L’art.116 c.p.c. costituisce il fondamento
della libera valutazione
delle prove e del libero convincimento
del giudice; principi che subiscono
eccezione nel caso delle
prove legali, mancando allora la
possibilità’ di una “libera valutazione”
da parte del giudice. In altri
termini ricorre il libero convincimento
soltanto quando l’iter logico
del giudice non incontra lo sbarramento
della prova legale, che appiattisce
l’attività del giudice rendendola
simile a quella del burocrate,
tenuto - ad esempio - semplicemente
a constatare la produzione
di una serie di documenti al
fine di poter prendere una certa
decisione prevista dalla legge per
il caso specifico. Trattandosi peraltro
di regole legali, l’attività del
giudice non sfugge in questo caso
al controllo di legittimità della
Corte di cassazione.
Nell’ordinaria assenza dello sbarramento
di prove legali si ravvisa
il significato c.d. negativo del
principio del libero convincimento,
restando invece da approfondire
il significato c.d. positivo,
che quel principio dovrebbe manifestare,
laddove esso opera, con
indicazioni concrete circa la conduzione
del giudizio in fatto; problema
che si ritiene risolvibile -
non in base a norme giuridiche,
bensì soltanto - per etero integrazione,
cioè per il tramite di criteri
logici e conoscitivi idonei ad assicurare
la razionalità di quel giudizio
[M.Taruffo. Libero convincimento,
cit., 2].
Abbandonando per ora il terreno
delle prove legali, non ci sembra
possibile condividere l’equiparazione
terminologica e concettuale,
riscontrabile nella dottrina
italiana e in quella straniera, tra
libera valutazione delle prove e li-
90 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
bero convincimento del giudice. A
nostro avviso, infatti, la valutazione
delle prove richiede un’attività,
un modo di procedere, che
necessariamente precede il formarsi
- soprattutto il momento
conclusivo - del convincimento.
Quest’ultimo indica pertanto il risultato
di un’attività e ovviamente
può essere libero - ma addirittura,
potrebbe dirsi, può esistere
- soltanto se è libera l’attività
che ne costituisce il presupposto.
Non appare quindi errato riferire
l’aggettivo “libero” alla valutazione
delle prove, al convincimento
o ad entrambi. Errato è, viceversa,
equiparare e confondere
due fasi distinte - seppure necessariamente
collegate - dell’attività
del giudice.
Antonio Didone (a cura di)
IL PROCESSO CIVILE
COMPETITIVO
Utet, Torino, 2010
Esce nella collana Modelli e tecniche
dei processi civili diretta da Giovanni
Arieta e Francesco De Santis
una voluminosa rassegna sul
processo civile competitivo con moltissimi
contributi di attualità
sulla giustizia civile.
Questi i titoli dei contributi:
- Le priorità nella giustizia civile
dal 2001 al 2010 (Antonio Didone)
- Composizione del giudice. Comunicazioni
e notificazioni.
Spese e responsabilità aggravata.
Eccezione di estinzione
(Michele Nardelli)
- Gli interventi sulla competenza
e sulla giurisdizione (Mauro Di
Marzio)
- Decisione delle questioni di giurisdizione
e translatio iudicii (Maria
Pia Gasperini)
- Ricusazione (Rosaria Giordano)
- Procura alle liti (Rosaria Giordano)
- Il nuovo contraddittorio (Roberto
Masoni)
- Abbreviazione dei termini processuali
(Rosaria Giordano)
- Modifiche in tema di introduzione
e trattazione della causa
(Mauro Di Marzio)
- Le norme in materia di consulenza
tecnica (Paolo Porreca)
- La rimessione in termini (Francesco
De Santis)
- La testimonianza scritta (Roberto
Masoni)
- Pronuncia della sentenza e pubblicità
(Roberto Masoni)
- Il nuovo processo di separazione
e divorzio (Costanzo M. Cea)
- L’azione di classe (Irene Ambrosini
e Marta D’Auria)
- Il procedimento di adozione di
minori (Massimo Dogliotti)
- Il giudizio competitivo di appello
(Roberto Martino)
- Il filtro al ricorso per cassazione
nella legge 69 del 2009 come
completamento di una riforma
(Paolo Vittoria)
- Le riforme del giudizio di legittimità
(Antonio Didone)
- Modifiche in materia di procedimenti
speciali (Claudia Pedrelli)
- Procedimento sommario di cognizione
(Rosaria Giordano)
- Le ordinanze anticipatorie (Costanzo
M. Cea)
- Le ordinanze anticipatorie di
condanna e la nuova trattazione
della causa (Andrea Didone)
- Le riforme del processo esecutivo
(efficienza nella liquidazione
forzata e garanzie del procedimento
(Francesco De Santis)
- Il nuovo art. 614-bis c.p.c.: un
mezzo di coercizione indiretta

degli obblighi di fare infungibile
o non fare (Antonio Lombardi )
- La mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie
civili e commerciali (decreto legislativo
4 marzo 2010, n. 28)
(Piero Sandulli )
- La riduzione e semplificazione
dei riti (Paolo Porreca)
- L’ordinamento giudiziario (Paola
Filippi)
- Il processo civile telematico
(Alessandra Villecco)
Remo Danovi
PROCESSO AL BUIO. LEZIONI
DI ETICA IN VENTI FILM
Rizzoli
Il cinema americano ci ha abituati
a pensare che la giustizia la
fanno gli avvocati. Arringhe che
commuovono le giurie, virtuosismi
oratori, gestualità, presenza
scenica: tecniche grazie alle quali
i principi del foro riescono sempre
a scagionare gli innocenti e a
sbattere in galera i colpevoli.
La realtà, inutile dirlo, è diversa. A
spiegarcelo, attraverso aneddoti
personali e fatti di cronaca, è
Remo Danovi, avvocato - già presidente
del Consiglio nazionale
forense - da sempre interessato a
ricostruire il profilo storico e culturale
degli uomini di legge e, in
particolare, della sua categoria.
In Processo al buio ha scelto di farlo
rileggendo piccoli e grandi classici
del legal thriller, genere che al
cinema ha visto il successo di pellicole
come il verdetto e presunto
innocente, film che diventano
pretesti per riflettere non solo
sulle improbabili ricostruzioni cinematografiche,
ma sui problemi
e le storture della giustizia di ogni
giorno: il tutto attraverso la lente
di un’etica intesa come il diritto
degli altri.
Capolavori immortali come Rashomon
e La parola ai giurati o campioni
di incassi come Erin Blockovich
e Il socio non solo hanno arricchito
l’immaginario di generazioni
di spettatori, ma hanno contribuito
a dar forma alla nostra
percezione della legge, del ruolo
degli avvocati e dell’etica che li
guida. Ecco perché ripensare a
questi film non è un semplice
esercizio di cultura cinematografica,
ma piuttosto è un modo per
capire cosa resta del nostro senso
della legalità e della nostra capacità
di distinguere fra giusto e
sbagliato.
Gaetano Eboli
P.Q.M. - GIUSTIZIA È FATTA
Grauseditore Napoli, 2010
Lo spaccato sul mondo della giustizia
e sul pianeta carcere proposto
dall’autore, dott. Gaetano
Eboli, magistrato da più di vent’anni,
specializzato nel campo
dell’esecuzione penale, apre una
finestra su un mondo ai più dimenticato,
che inquieta per le sue
caratteristiche di drammaticità e
di abbandono morale.
Le tre consonanti “P.Q.M.”, che
formano la prima parte del titolo
del romanzo in esame, sono
l’acronimo dell’espressione “Per
Questi Motivi”, che viene posta al
termine delle motivazioni della
sentenza penale e in base ad esse
il Giudicante emette il provvedimento
ritenuto legittimo.
Va subito detto, intanto, che
l’acronimo di cui sopra corrisponde
anche alle iniziali del
IN LIBRERIA
nome Patricia Queroso Morales, la
protagonista del romanzo, adottato
non con riferimento ad uno
specifico fatto di cronaca, ma
frutto dell’inventiva dell’autore.
Patricia è una giovane venezuelana
che con la prospettiva di un
futuro di lavoro e di sposa segue
in Italia, e precisamente a Napoli,
un uomo conosciuto nel suo
Paese d’origine.
In questa città, invece, la ragazza
si confronterà con una realtà diversa
da quella promessa, e subirà
soprusi e violenze di ogni genere,
finendo poi in carcere per
un reato commesso per colpa del
suo promesso sposo che si trasforma
nel suo persecutore.
Nell’Istituto di pena Patricia, disperata
e senza prospettive, dopo
ripetuti colloqui con il giudice
Agaleo, magistrato di sorveglianza,
si confida con lui, accettando
di fidarsi di quella giustizia
di cui tanto il magistrato le aveva
parlato, e decide di fornirgli tutti
gli elementi utili affinché il suo
persecutore possa essere condannato
per i tanti crimini commessi.
Tra i due si stabilisce un particolare
rapporto, diverso da quello
che solitamente si determina tra
magistrato e un detenuto, tratteggiato
attentamente dall’autore, il
quale tende ad evidenziare gli
aspetti umani legati alla condizione
di ogni condannato.
L’ambiente del penitenziario
femminile, il protagonismo di
gennaio-febbraio 2011 | Avvocati di famiglia | 91

IN LIBRERIA
qualche magistrato ed i limiti e le
contraddizioni del sistema processuale,
rappresentano la cornice
entro la quale si snoda la vicenda
narrativa.
Il romanzo si conclude in modo
assolutamente originale, stimolando
nel lettore una profonda riflessione
critica su ciascuna delle
tematiche affrontate.
Stefano Ferracuti
Marco Lagazzi
PSICHIATRIA FORENSE
APPLICATA
Edi. Ermes, Milano, 2010
L’opera risponde all’esigenza di
sistematizzazione scientifica del
lavoro del consulente tecnico in
ambito giudiziario e spazia dagli
ambiti più strettamente penalistici
della perizia psichiatrica, alla
tutela civilistica dell’incapace,
allo svolgimento ed ai problemi
della perizia in ordine all’affidamento
dei minori.
92 | Avvocati di famiglia | gennaio-febbraio 2011
Molti, ampi e preziosi i richiami ai
casi d’esperienza diretta degli autori,
rendono a tuttotondo il faticoso
ma affasciante lavoro dello
psichiatra forense.
Un volume utile a comprendere la
pratica clinico-forense, anche a
beneficio degli avvocati che ope-
rano nell’ambito del diritto di famiglia.
Indice:
11. perizia psichiatrica e psicologica
12. perizia in tema di imputabilità
13. perzia in tema di imputabilità
sociale
14. compatibilità con la detenzione
15. capacità processuale
16. circonvenzione di incapace
17. violenza sessuale e inferiorità
psichica
18. vittima di reato e trauma psichico
19. tutela civilistica del sofferente
psichico
10. identità psicosessuale
11. affidamento del minore
presso il Tribunale Ordinario
12. affidamento del minore presso
il Tribunale per i Minorenni
13. capacità testimoniale e abuso
in danno del minore
14. responsabilità professionale
in psichiatria e psicologia forensi

MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
Avvocati di famiglia
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Le sezioni territoriali
dell’Osservatorio
nazionale sul diritto
di famiglia
Ancona
Arezzo
Ascoli Piceno
Asti
Avellino
Avezzano
Barcellona Pozzo di Gotto
Bari
Benevento
Bolzano
Brescia
Cagliari
Campobasso
Caserta
Cassino
Catania
Chiavari
Chieti
Civitavecchia
Crotone
Cuneo
Firenze
Foggia
Frosinone
Genova
Isernia
Grosseto
La Spezia
Larino Termoli
Latina
Livorno
Lodi
Lucca
Macerata
Massa
Messina
Milano
Napoli
Nola
Nuoro
Oristano
Palermo
Parma
Perugia
Pesaro
Pescara
Pisa
Pistoia
Prato
Reggio Calabria
Reggio Emilia
Rieti
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Roma Sud
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