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p. Cesare Pesce

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CESARE PESCE


STORIA E VITA MISSIONARIA<br />

Collana diretta da P. Piero Gheddo<br />

Ufficio Storico del Pime - Via F.D. Guerrazzi, 11<br />

00152 Roma - Tel. 06.58.39.151<br />

1 - Piero Gheddo, Missione Brasile. I 50 anni del Pime nella Terra di Santa<br />

Croce (1946-1996), pagg. 384 + 32 fotografiche, € 12,91<br />

2 -Paolo Manna, Virtù apostoliche, pagg. 460, € 15,49<br />

3 -Piero Gheddo, Dai nostri inviati speciali. 125 anni di giornalismo missionario<br />

da Le Missioni Cattoliche a Mondo e Missione (1872-1997), pagg. 124, €<br />

5,68<br />

4 -Piero Gheddo, Missione Amazzonia. I 50 anni del Pime nel Nord Brasile<br />

(1948-1998), pagg. 484 + 32 fotografiche, € 15,49<br />

5 -Giuseppe Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali,<br />

pagg. 334, € 15,49<br />

6 -Piero Gheddo, Missione America. I 50 anni del Pime negli Stati Uniti,<br />

Canada e Messico (1947-1997), pp. 176 + 16 fotografiche, € 9,30<br />

7 -Piero Gheddo, Missione Bissau. I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau (1947-<br />

1997), pag. 464 + 32 fotografiche, € 15,49<br />

8 -Amelio Crotti, Noè Tacconi (1873-1942), il primo Vescovo di Kaifeng (Cina),<br />

pag. 368, € 14,46<br />

9 -Mauro Colombo, Aristide Pirovano (1915-1997), il Vescovo dei due mondi,<br />

pag. 384 + 32 fotografiche, € 12,91<br />

10 - Piero Gheddo, Pime, 150 anni di missione (1850-2000), pagg. 1230, € 25,82<br />

11 - Domenico Colombo (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione,<br />

pagg. 462, € 15,49<br />

12 - Piero Gheddo, Il santo col martello: Felice Tantardini, 70 anni di Birmania,<br />

pagg. 240 + 16 fotografiche, € 10,33<br />

13 - Angelo Montonati, Angelo Ramazzotti Fondatore del PIME (1800-1861),<br />

pagg. 224 + 8 fotografiche, € 10,33<br />

14 - Piero Gheddo, Paolo Manna (1872-1952), Fondatore della Pontificia Unione<br />

Missionaria, pagg. 400 + 4 fotografiche, € 14,46<br />

15 - Pino Cazzaniga, Giappone missione difficile. I 50 anni del Pime nel Paese del<br />

Sol Levante, pagg. 304 + 16 fotografiche, € 13,00<br />

16 - Amelio Crotti, Gaetano Pollio (1911-1991), Arcivescovo di Kaifeng (Cina),<br />

pagg. 186 + 32 fotografiche, € 13,00<br />

17 - Piero Gheddo, Carlo Salerio, Missionario in Oceania e Fondatore delle Suore<br />

della Riparazione (1827-1870), pagg. 288, € 12,00<br />

18 - AA.VV., Le missioni estere di Angelo Ramazzotti. Radici storiche e spirituali,<br />

pagg. 192, € 10,00<br />

19 - Domenico Colombo (a cura), Un pastore secondo il cuore di Dio. Lettere del<br />

Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti (1850-1861), pagg. 592, € 20,00<br />

20 - Piero Gheddo (a cura), Alfredo Cremonesi (1902-1953). Un martire per il<br />

nostro tempo, pagg. 240 + 8 fotografiche, € 12,00<br />

21 - Domenico Colombo (a cura), Un pastore secondo il cuore di Dio. Testimonianze<br />

sul Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, pagg. 416, € 16,00<br />

22 - Piero Gheddo, <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>. Una vita in Bengala (1919-2002), pagg. 208, € 10,00


PIERO GHEDDO<br />

CESARE PESCE<br />

Una vita in Bengala<br />

(1919-2002)<br />

Prefazione di mons. Martino Canessa<br />

Vescovo di Tortona<br />

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA


Copertina e inserto fotografico di Bruno Maggi<br />

Foto a colori di copertina di Giampiero Sandionigi<br />

© 2004 EMI della Coop. SERMIS<br />

Via di Corticella, 181 - 40128 Bologna<br />

Tel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52<br />

e-mail: sermis@emi.it<br />

web: http://www.emi.it<br />

N.A. 2079<br />

ISBN 88-307-1375-9<br />

Finito di stampare nel mese di settembre 2004 dalle Grafiche Universal<br />

per conto della GESP - Città di Castello (PG)


PREFAZIONE<br />

A Padre Piero Gheddo, noto giornalista e scrittore, va tutta la<br />

mia fraterna e affettuosa riconoscenza, poiché lo scorso anno, nel<br />

primo anniversario della morte di Padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, nostro missionario<br />

e Suo confratello, ha accolto con entusiasmo l’invito del<br />

Centro Missionario Diocesano di Tortona a scriverne la biografia.<br />

Personalmente ho incontrato solo poche volte Padre <strong>Pesce</strong>, per<br />

cui ho acquisito una certa conoscenza di lui solo attraverso il suo epistolario.<br />

Le sue 154 lettere conservate nell’archivio del nostro Centro<br />

Missionario, lasciano trasparire una vita offerta per il regno di Dio<br />

e i poveri con dedizione serena, generosa e appassionata, facendo<br />

emergere la figura di un missionario pieno di fede e di buon senso,<br />

dall’anima giovanile.<br />

Il presente libro, uscito dalla mente e dal cuore di Padre<br />

Gheddo, è sicuramente il migliore contributo per veicolare il messaggio<br />

umano e religioso di Padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>.<br />

Leggo nell’introduzione dell’autore: “Questo libro dovrebbe<br />

essere letto soprattutto dai giovani. È un libro di avventure non<br />

romanzesche ma reali che dovrebbe suscitare il desiderio di percorrere<br />

le strade del mondo, avvicinare altri popoli, spendere la vita nel<br />

gettare ponti di comprensione e di aiuto verso i continenti e l’umanità<br />

più lontana”.<br />

Auspico veramente che il ricordo vivo di Padre <strong>Pesce</strong> sospinga<br />

qualcuno a raccogliere il testimone di chi nella vita ha preso sul serio<br />

il Vangelo.<br />

+ MARTINO CANESSA<br />

Vescovo di Tortona<br />

5


CRONOLOGIA<br />

di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> tratta dai suoi testi<br />

1919 - Nasce a Novi Ligure il 26 settembre da<br />

Michelangelo (sacrestano della Collegiata di Novi<br />

Ligure, morto nel 1955) e da Ernestina Montessoro,<br />

morta poco più di un anno dopo la nascita di <strong>Cesare</strong>,<br />

ultimo figlio preceduto dal fratello Natale (nato nel<br />

1906) e dalla sorella Maria (nata nel 1912 e morta nel<br />

2001).<br />

1930 - Entra nel seminario diocesano di Tortona per la<br />

prima ginnasio. Nel 1937, dopo il liceo, entra nel<br />

Pime a Milano per gli studi teologici.<br />

1942 - Ordinato sacerdote il 29 marzo dal card. Schuster,<br />

per un anno è prefetto degli alunni dell’Istituto a<br />

Monza, poi mandato ad aiutare nella parrocchia di<br />

Alzate Brianza (Como), dove si interessa dei perseguitati<br />

politici e degli ebrei, aiutandoli a fuggire in<br />

Svizzera. Ricorda che “nell’ultimo anno di guerra,<br />

sulle colline della Brianza (1945), strano partigiano<br />

senza fede politica, invece di ammazzare le stupide<br />

repubblichine, le facevo scappare a casa loro a fare<br />

la calza, firmato ‘Comitato di Liberazione’” (Strade<br />

della Vita, pag. 12).<br />

1944 - Mons. Lorenzo Maria Balconi, superiore generale<br />

del Pime, dice a padre <strong>Pesce</strong> che è destinato in<br />

Bengala: si prepari a partire appena finita la guerra.<br />

1945 - Dopo la fine della guerra è destinato viceparroco<br />

alla parrocchia di San Rocco a Voghera, provincia<br />

di Pavia ma diocesi di Tortona.<br />

1948 (18 aprile) - Padre <strong>Pesce</strong>, a San Rocco di Voghera, partecipa<br />

attivamente alla campagna elettorale per la D.C.<br />

(vedi Strade della Vita, pag. 11).<br />

1948 (10 ottobre) - Parte da Genova a Napoli e poi a Port Said; a<br />

7


Bombay il 4 novembre: in treno a Nagpur e<br />

Calcutta e poi ancora in treno e in barca a Dinajpur,<br />

dove arriva il 14 novembre (Pakistan orientale).<br />

1949 (1° gennaio) - <strong>Pesce</strong> attraversa il confine fra Pakistan e India e si<br />

ferma a Mal Bazar, dove vive con il parroco padre<br />

Giuseppe Milozzi. Rimane poco più di tre mesi in<br />

India e nell’aprile 1949 viene espulso dal governo<br />

indiano.<br />

1949 - Il vescovo di Dinajpur, mons. Giuseppe Obert,<br />

accoglie padre <strong>Cesare</strong> nella casa episcopale per<br />

imparare l’inglese e il bengalese.<br />

1950 - A giugno padre <strong>Pesce</strong> va a Daulighat (Nariampur),<br />

paese in mezzo alla giungla, per imparare il santul<br />

prima con padre Luigi Martinelli, poi con padre<br />

Ferdinando Sozzi.<br />

1951 - Il vescovo di Dinajpur nomina padre <strong>Pesce</strong> direttore<br />

del collegio e della scuola di Dinajpur (dove vive<br />

con padre Stefano Monfrini) e incomincia la scuola<br />

superiore della missione per suggerimento del<br />

Nunzio. Rimane a Dinajpur fino al dicembre 1951,<br />

quando finiscono le scuole. Poi chiede egli stesso di<br />

andare in una missione fra la gente e il vescovo lo<br />

accontenta.<br />

1952 (1° gennaio) - Raggiunge Ruhea, una missione quasi abbandonata<br />

che deve rilanciare: è l’unico prete. Vengono poi<br />

con lui i padri Luigi Verpelli, Luigi Carrea e Mario<br />

Alvigini, che sarà il suo successore a Ruhea.<br />

1955 - Muore il papà di padre <strong>Cesare</strong> che era sacrestano<br />

della Collegiata di Novi ligure (Alessandria, diocesi<br />

di Tortona).<br />

1956 - Padre <strong>Pesce</strong> accoglie a Ruhea fratel Massimo<br />

Teruzzi, un fratello col carisma di curare i malati:<br />

aveva contratto la lebbra e accoglierlo in missione<br />

era un atto di coraggio. Massimo si dedica alla cura<br />

dei malati, specialmente dei lebbrosi, con grande<br />

carità e spirito di sacrificio.<br />

1957 - Negli ultimi anni della sua permanenza a Ruhea,<br />

padre <strong>Cesare</strong> avvicina i Khotryio, popolazione indù<br />

di bassa casta che promette di farsi cristiana. Poi<br />

muore il figlio piccolo del “thakur” (santone) che<br />

8


guida il movimento e si mormora che questa è la<br />

vendetta degli dei perché i Khotryio abbandonano<br />

la fede indù. La conversione dei Khotryio sfuma in<br />

un attimo: una grande delusione per <strong>Cesare</strong>!<br />

1960 - Primo ritorno in Italia a marzo, ci rimane otto mesi<br />

e mezzo. Riparte il 10 dicembre e arriva in Bengala<br />

il 20 dicembre: pochi mesi in Italia lo avevano fatto<br />

aumentare di 15 chili! Ritorna a Ruhea, ma si accorge<br />

che il giovane padre Alvigini fa molto bene e<br />

chiede al vescovo di lasciare a lui la missione.<br />

1963 - Il 19 luglio muore a Dinajpur, in concetto di santità,<br />

fratel Massimo Teruzzi, compagno di missione<br />

di padre <strong>Pesce</strong>, lebbroso ed eroe della carità.<br />

1963 - Padre <strong>Pesce</strong> va a Thakurgaon a iniziare una nuova<br />

missione.<br />

1965 - All’inizio dell’anno <strong>Cesare</strong> incomincia a costruire la<br />

nuova chiesa di Thakurgaon, ma poco dopo scoppia<br />

un conflitto fra India e Pakistan e il governatore<br />

della provincia ordina a tutti gli stranieri di<br />

abbandonare il paese. Il vescovo di Dinajpur richiama<br />

<strong>Pesce</strong> e, invece di mandarlo in Italia, lo manda<br />

in una missione vicina alla capitale Dacca, lontana<br />

dalla frontiera con l’India.<br />

1965 (15 dicembre) -<strong>Pesce</strong> scrive da Mothbari (Dacca) a mons.<br />

Pirovano. Da tre mesi è in una missione dispersa<br />

nella giungla non lontano dalla capitale, con un<br />

anziano missionario americano che ha problemi di<br />

cuore. È responsabile di una grande scuola e inventa<br />

per gli alunni cristiani un concorso, per stimolarli<br />

a conoscere la Bibbia.<br />

1966 - In estate, cessato ogni pericolo di guerra, ritorna a<br />

Thakurgaon e rilancia la sua iniziativa intitolata<br />

“Bible Contest by Correspondence”, Concorso<br />

biblico per corrispondenza. Con l’aiuto della catechista<br />

suor Vincenza, prepara uno schema di regole<br />

chiare e precise per i partecipanti, con le norme<br />

del concorso, gli esami finali, i premi, ecc. Stampa<br />

centinaia di volantini e li manda a tutte le parrocchie<br />

e organizzazioni diocesane di Dinajpur: riceve<br />

in breve più di mille adesioni e iscrizioni, dalle<br />

9


scuole elementari fino alle superiori e agli adulti.<br />

1968 - Il vescovo di Dinajpur, mons. Giuseppe Obert, dà<br />

le dimissioni. La Nunziatura avvia l’inchiesta fra i<br />

sacerdoti diocesani per comporre una terna di nomi<br />

fra i quali scegliere il nuovo vescovo. Padre <strong>Cesare</strong><br />

<strong>Pesce</strong> risulta il primo della terna fra i diocesani: il<br />

vescovo poi sarà scelto fuori diocesi, il bengalese<br />

mons. Michael Rozario, oggi arcivescovo di Dacca.<br />

1969 - Il superiore generale del Pime, mons. Aristide<br />

Pirovano, richiama temporaneamente <strong>Pesce</strong> in<br />

Italia per dirigere l’associazione “Mani Tese", nata<br />

nel 1963 al Centro missionario del Pime a Milano.<br />

1969 - In maggio padre <strong>Cesare</strong> diventa segretario di Mani<br />

Tese a Milano, ma intanto si iscrive alla Pontificia<br />

Università Lateranense a Roma e ottiene il diploma<br />

di teologia pastorale con specializzazione catechetica,<br />

che gli servirà molto in Bengala. Nell’infuocato<br />

ambiente “sessantottino”, padre <strong>Pesce</strong> non si è più<br />

adattato, specie in “Mani Tese”, che sembrava stesse<br />

sfuggendo di mano agli Istituti missionari: trasformandosi<br />

da associazione fondata dai missionari<br />

per aiutare i progetti di sviluppo delle missioni, in<br />

gruppi politicizzati per “la liberazione dei popoli<br />

poveri”.<br />

1970 (novembre) - <strong>Cesare</strong> arriva a Dinajpur dall’Italia e il vescovo lo<br />

manda a Mariampur, dove vive i tempi drammatici<br />

della lotta per l’indipendenza del Bengala dal<br />

Pakistan, da cui nasce il Bangladesh. A Thakurgaon<br />

è andato padre Mario Alvigini.<br />

1971 - Nel marzo 1971 scoppia la rivolta dei bengalesi<br />

contro l’esercito pakistano. Il 17 aprile, in India, un<br />

governo provvisorio in esilio proclama l’indipendenza<br />

del Bangladesh, riconosciuta dal governo<br />

indiano il 6 dicembre 1971.<br />

1973 - Nel marzo 1973 il vescovo chiama padre <strong>Pesce</strong> a<br />

Dinajpur per metterlo a capo del “Centro catechistico<br />

diocesano". Risiede nella Bishop’s House,<br />

continuando anche a lavorare nella parrocchia di<br />

Mariampur.<br />

1974 (marzo) - <strong>Pesce</strong> finisce il suo impegno a Mariampur e si stabi-<br />

10


lisce a Dinajpur per il Centro catechistico diocesano<br />

1975 - A maggio il vescovo lo manda a sostituire il parroco<br />

di Saidpur, mantenendo ancora l’incarico di<br />

direttore del Centro catechistico diocesano.<br />

1977 - 8 gennaio – Dopo una breve vacanza in Italia alla<br />

fine del 1976, riparte da Roma per il Bangladesh; il<br />

14 gennaio è a Dinajpur (Lettera a mons. Meriggi<br />

del 25 gennaio 1977).<br />

1977 maggio - È nominato parroco di Saidpur, dove già si recava<br />

la domenica per ministero; continua a mantenere la<br />

carica di direttore del Centro catechistico diocesano.<br />

1979 - P. <strong>Pesce</strong> stampa la prima edizione del volumetto<br />

Strade della vita (con la prefazione dell’amico francescano<br />

padre Nazareno Fabbretti), paga le spese<br />

acquistando un certo numero di copie, che affida al<br />

direttore del Centro missionario diocesano di<br />

Tortona, mons. Libero Meriggi, perché le venda<br />

realizzando qualcosa per la sua missione (la seconda<br />

edizione è del 1989).<br />

1979 (inizio luglio) -Lascia la parrocchia di Saidpur e si trasferisce a<br />

Pathorgata, dove rimane fino al 1995.<br />

1981 - Tra maggio e luglio padre <strong>Cesare</strong> ritorna rapidamente<br />

in Italia, per visitare la sorella gravemente<br />

ammalata.<br />

1988 - A Natale 1988, il vescovo di Dinajpur, mons.<br />

Theotonius Gomes, consacra a Pathorgata il primo<br />

prete della parrocchia e anche il primo oraon della<br />

diocesi di Dinajpur: 36 anni, “contadino di nascita<br />

e di carattere, quindi tenace nelle sue idee”: un<br />

uomo di fede che rappresenta una delle massime<br />

soddisfazioni e consolazioni spirituali del ministero<br />

di padre <strong>Pesce</strong> in Bangladesh.<br />

1989 - «Il Popolo» del 16/7/89 scrive che padre <strong>Pesce</strong> “è<br />

rientrato nella sua città... da dove mancava dal<br />

1981”. Ancora su «Il Popolo» del 5 novembre 1989<br />

c’è la notizia che <strong>Pesce</strong> ancora una volta è ripartito<br />

per il Bangladesh. Il 31 ottobre 1989 egli scrive da<br />

Pathorgata a mons. Meriggi: “Eccomi da quattro<br />

11


giorni finalmente alla mia vecchia Pathorgata...”.<br />

1992 - Nel marzo-maggio 1992, la diocesi di Dinajpur e i<br />

missionari del Pime organizzano feste e celebrazioni<br />

in onore di padre <strong>Pesce</strong> per il suo cinquantesimo<br />

di sacerdozio. Prima l’hanno festeggiato i preti<br />

locali ed esteri, con i catechisti; una settimana dopo,<br />

festa alla casa del Pime a Dacca, alla presenza di<br />

tutti i quaranta membri dell’Istituto e del Nunzio<br />

apostolico; infine la solenne e festosa giornata di<br />

augurio a livello della diocesi di Dinajpur, voluta<br />

dal vescovo locale.<br />

1992 - In luglio ritorna in Italia per problemi di ischemia<br />

cardiaca, pochi mesi dopo ritorna in Bangladesh,<br />

nella sua Pathorgata.<br />

1995 - In aprile è ricoverato alla clinica Gulsan di Dhaka<br />

per l’operazione di ernia inguinale. In maggio è<br />

obbligato a tornare in Italia per convalescenza e<br />

riposo.<br />

1995 - Durante la vacanza in Italia, riceve l’offerta di assumere<br />

una parrocchia sull’Appennino Ligure, ma<br />

padre <strong>Cesare</strong> ritorna in Bangladesh, come racconta<br />

lui stesso in una intervista a fratel Massimo<br />

Cattaneo.<br />

1995 (Natale) - Il vescovo mons. Theotonius gli chiede di diventare<br />

parroco di Kalisha, per riportare pace nell’ovile e<br />

nei prossimi quattro anni il lavoro non gli manca.<br />

1998 - In ottobre p. <strong>Pesce</strong> è in Italia: a Novi Ligure riceve<br />

il Premio “La Torre d’Oro” dal Municipio e dal<br />

centro studi “In Novitate”, come cittadino che più<br />

si è distinto nel corso dell’anno. Ritorna subito in<br />

Bangladesh, prima di Natale, perché deve preparare<br />

la festa per l’ordinazione del primo prete della<br />

parrocchia di Kalisha.<br />

2000 - Il 1° gennaio viene inaugurato il santuario mariano<br />

di Rajarampur vicino a Dinajpur e p. <strong>Pesce</strong> ne<br />

diventa il primo rettore.<br />

2002 - In febbraio padre <strong>Cesare</strong> ritorna in Italia e muore il<br />

13 luglio dello stesso anno a Rancio di Lecco, nella<br />

casa di riposo del Pime. È sepolto a Novi Ligure.<br />

12


INTRODUZIONE<br />

Giunto al termine di questa biografia, la rileggo e dico a me<br />

stesso: ma <strong>Cesare</strong> era meglio di come tu lo descrivi! È vero quel<br />

che padre Nazareno Fabretti scrive nella prefazione al suo libro<br />

Strade della Vita (che riporto nell’ultimo capitolo): “I missionari<br />

sono quasi sempre di più e meglio dei libri che li celebrano”. Gli<br />

do pienamente ragione. D’altra parte, quello che Fabretti non<br />

sapeva, e io invece l’ho sperimentato tante volte, è questo: in<br />

genere i missionari scrivono poco, le loro lettere non sono conservate<br />

e quando muoiono, il loro ricordo si perde in fretta in<br />

quelle giovani Chiese, formate appunto da giovani. Infatti dopo<br />

15-20 anni è già cambiata una generazione e quella successiva non<br />

ricorda più; i confratelli, sempre travolti dalle emergenze, sono<br />

anch’essi poco propensi a conservare ricordi e documenti del passato.<br />

* * *<br />

Quindi, scrivere le biografie dei missionari, se non si vuol far<br />

opera di agiografia buonista, è una consolazione (perché ci sono<br />

davvero bei personaggi), ma anche una disperazione. Il caso di<br />

padre Ferdinando Sozzi, missionario in Bangladesh e parroco a<br />

Mariampur di padre <strong>Pesce</strong>, è esemplare. Quando è morto a 75<br />

anni (1977), tutti dicevano che era un santo; qualche anno prima<br />

era stato in vacanza in Italia e l’avevamo intervistato e ascoltato a<br />

lungo: sapeva raccontare così bene le sue avventure di missione,<br />

che noi giovani non ci stancavamo mai di sentirlo; dava a tutti<br />

grandi esempi di preghiera, mortificazione, amore al suo popolo<br />

bengalese.<br />

Quando morì mi sono proposto di scriverne la biografia, ma<br />

dopo alcuni mesi di ricerche e di contatti per farmi mandare sue<br />

13


lettere o testimonianze di chi l’aveva conosciuto in Bengala, ho<br />

dovuto desistere. Il materiale trovato nell’Archivio generale del<br />

Pime a Roma, presso i parenti e fra i confratelli in Bangladesh era<br />

scarsissimo. L’unica vera sintesi della sua vita era il “servizio speciale”<br />

con la sua lunga intervista, pubblicato su «Mondo e Missione»<br />

dopo molte difficoltà (lui non voleva fosse stampato) e poi<br />

ristampato tre volte in estratto 1 , perché era piaciuto moltissimo:<br />

è stato uno dei più bei testi in «Mondo e Missione» (e, prima del<br />

1968, in «Le Missioni Cattoliche») nei miei 35 anni di direttore<br />

della rivista. Non c’era altro materiale da aggiungere per una biografia!<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> scriveva molte lettere, quasi tutte andate disperse,<br />

eccetto quelle conservate dal Centro missionario diocesano di<br />

Tortona. Per fortuna, altrimenti questo volume non avrei potuto<br />

scriverlo. E mi rimprovero perché delle lunghe conversazioni che<br />

ho avuto con <strong>Cesare</strong> quando era tornato in Italia nel 1969-1970<br />

come segretario di “Mani Tese” (anch’io ero in quel movimento<br />

come animatore), non mi è rimasto nulla, non ho scritto nulla.<br />

Era un momento difficile nella sua vita: dopo venti e più anni di<br />

Bengala era stato chiamato dai superiori a dare qualche anno per<br />

un servizio all’animazione missionaria in Italia. Era venuto volentieri,<br />

all’inizio si era impegnato, ma in “Mani Tese” e nel “Sessantotto”<br />

italiano non si trovava affatto (si leggano i motivi al capitolo<br />

III). Ecco perché discuteva con me e con altri missionari, si<br />

confidava, esprimeva i suoi sentimenti e la sua sensibilità di missionario<br />

in modo a volte commovente, perché si sentiva radicalmente<br />

contro-corrente rispetto alla linea dei gruppi giovanili (e<br />

non giovanili) di “Mani Tese” in quegli anni: lui aveva esperienza<br />

molto concreta dei popoli poveri, gli altri erano ammalati di<br />

schematismo ideologico, che <strong>Cesare</strong> non poteva soffrire.<br />

Si discuteva volentieri con lui. Eppure non ho scritto né conservato<br />

nulla di quei mesi. Ma trent’anni fa, chi andava a pensare<br />

che il Centro missionario di Tortona mi avrebbe chiesto di scrivere<br />

la biografia di “Pesciolino”?<br />

1 GHEDDO P., BORDIGNON S., I miei 44 anni di Bengala, “Mondo e Missione”,<br />

ottobre 1974, pp. 501-522.<br />

14


* * *<br />

Credo però che quanto c’è in questo libro è più che sufficiente<br />

per tramandare il ricordo di un missionario di non comune<br />

umanità e anche santità. Oltre alle lettere e alle interviste, che ho<br />

ampiamente usato, padre <strong>Pesce</strong> ha lasciato anche tre volumi (Le<br />

strade della Vita, Bangladesh Jindabad! e Pack up and go) nei quali<br />

ricorda la sua esperienza di immersione nella terra bengalese,<br />

“la sua capacità di dialogo con tutti, il suo farsi amico e fratello<br />

del prossimo superando ogni discriminazione, relativizzando<br />

situazioni in modo a volte scanzonato, con grande cuore e carità,<br />

strappando a noi sorrisi e lacrime, suscitando un’ondata di<br />

immensa simpatia”. Così il grande amico mons. Libero Meriggi,<br />

per lunghi anni direttore del Centro missionario diocesano di<br />

Tortona, nella prefazione del secondo volume citato.<br />

Leggendo questi racconti, mi sono sentito crescere dentro la<br />

commozione per la sua bontà e disponibilità verso tutti. Nulla in<br />

lui di straordinario. Ricorda situazioni comuni ai missionari, interessante<br />

è come le viveva: più da bengalese che da italiano, da<br />

“prete scugnizzo” come lo definiva un amico prete tortonese, da<br />

“uomo nato e maleducato a Novi Ligure”, come scriveva lui stesso.<br />

Insomma, una personalità originale e complessa, a volte fuori<br />

dalle righe, spregiudicato o scanzonato, ma sempre fedele<br />

all’ideale cristiano e missionario a cui ha dato la vita e soprattutto<br />

sereno e pieno di gioia.<br />

Ho pubblicato alcuni di questi testi al termine del presente<br />

volume, altri li lascio alla curiosità di chi vorrebbe saperne di più:<br />

presentano bene l’ambiente e la gente fra cui padre <strong>Pesce</strong> viveva<br />

e lavorava. Egli racconta le sue avventure col tono ottimistico del<br />

vero missionario, che avendo consacrato la vita a Gesù Cristo:<br />

non è mai scoraggiato, prende tutto in senso positivo, trovando i<br />

lati buoni anche nelle situazioni più difficili.<br />

Quando ha già superato la “terza età” ed è sistemato bene<br />

nell’antica missione di Saidpur, il vescovo lo manda a Pathorgata<br />

dove parroco e fedeli non vanno d’accordo, sono nati contrasti e<br />

fastidi per la diocesi (“il vescovo era in un ginepraio”, scrive<br />

<strong>Cesare</strong>). Il parroco dà le dimissioni e <strong>Pesce</strong> deve andare a tenta-<br />

15


e di sistemare le cose. Sa cosa lo aspetta: oltre alle difficoltà fisiche,<br />

gente poco malleabile e rivoltata contro la Chiesa. Entra nel<br />

villaggio cristiano in bicicletta. Tempo di piogge, strade che sono<br />

fiumi di fango in mezzo ai campi di riso. “Ogni cento metri mi<br />

fermavo a togliere il fango tra il parafango e la ruota” scrive, ma<br />

giunge finalmente a destinazione: “Che malinconia! Dalla splendida<br />

chiesetta di Saidpur, forse la più bella chiesa del Bangladesh,<br />

ad uno stanzone fatto di fango e lamiere; poi nella canonica<br />

costruita di fango e pezzi di mattone non intonacati, nemmeno<br />

imbiancati di calce. Oscurità, tetraggine”.<br />

"Così, aggiunge, lasciati i piccoli comforts che può offrire la<br />

città, trovo fango e campi di riso, strade impossibili e capanne di<br />

paglia e bambù”. Però è in foresta dove ci sono “alberi e uccelli<br />

e fiori, fiori... Orrido e bello. Immensamente bello, Dio mi ha scaraventato<br />

qui a cogliere i fiori, non le spine. Lo so già che per<br />

impossessarmi dei fiori dovrò pur lottare con le spine. Forse sarà<br />

necessaria qualche goccia di sangue. Naturale. Ma ne vale la pena:<br />

inebriarmi del profumo di questi fiori, anche se punzecchiato da<br />

qualche spina maligna della jungla”. Conclude: “Non so neppure<br />

io da dove incominciare. Che avverrà? I miei amici musulmani<br />

rispondono in arabo: “Wallaha a’am” (Solo Dio lo sa). Io dico<br />

in italiano: “Qualche santo provvederà”. E va a dormire tranquillo.<br />

Questa l’immagine e la sintesi più significativa di <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>.<br />

Altrove scrive: “Sono sempre stato contento di essere un<br />

seguace di Teilhard de Chardin, definito da Paolo VI ‘un uomo<br />

indispensabile del nostro tempo’. E cerco di autoconvincermi che<br />

ogni avvenimento che mi riguarda è sempre il migliore per me e<br />

per gli altri”.<br />

* * *<br />

Interessante, nella vita di padre <strong>Pesce</strong>, il senso di ammirazione<br />

che ha per indù e musulmani. Certo non si addentra a parlare<br />

dei problemi che oggi crea il mondo islamico per l’Occidente cristiano<br />

(terrorismo, ecc.), ma semplicemente esprime i suoi sentimenti<br />

vivendo per lunghi anni la vita del suo popolo contadino,<br />

che è in grandissima maggioranza islamico. Non è un ingenuo,<br />

16


conosce benissimo i limiti e i vizi dei bengalesi, dell’islam e dell’induismo<br />

(qua e là li ricorda, li descrive), ma è veramente innamorato<br />

del suo popolo, come ogni missionario è o dovrebbe essere.<br />

Innamorato perché? Perché vivendo immerso nelle vicende<br />

quotidiane del Bengala viene a contatto con le persone, vede e<br />

comprende la loro umanità, le loro sofferenze, i loro sentimenti<br />

più profondi. Non può “parlare male di loro”, come dice lui stesso<br />

quando gli viene chiesto, in una vacanza italiana, di descrivere<br />

la miseria e la fame del popolo! Lui si rifiuta e scrive che gli italiani<br />

mangiano troppo e il loro cibo è più pesante e fa meno bene<br />

di quello bengalese…<br />

Un’altra volta, scrive che si è fermato a sentire le storie di<br />

diverse giovani donne (“poveracce”) che si narrano le loro disgrazie,<br />

i loro timori mentre sono in attesa della “zakat”, l’elemosina<br />

che si distribuisce ai poveri al termine del mese di Ramadan.<br />

Quelle donne, accoccolate per terra, “si raccontano storie piene<br />

di dolori: mariti morti in giovane età, mariti senza cuore scappati<br />

chissà dove con altre donne, figli e figlie perduti perché emigrati<br />

nelle città più grandi in cerca di lavoro, padri in prigione.<br />

Un’antologia di racconti buttati giù al vivo, in un dialetto dolce e<br />

ondulato con tutte le sfumature, le espressioni dialettali della<br />

regione, resi più impressionanti dai gesti stanchi delle mani, dagli<br />

sprazzi di luce dei loro occhi neri bellissimi. È meraviglioso, in<br />

mezzo a tutto quel dolore, il fortissimo sentimento religioso di<br />

rassegnazione, di sottomissione alla volontà di Allah, il misericordioso,<br />

il sostenitore degli afflitti”.<br />

Caro padre <strong>Cesare</strong>, ecco la grandezza della tua umanità. Ti<br />

commuovi se incontri una persona sofferente, anche se non l’hai<br />

mai vista prima. Il Bengala è proprio la tua patria, quello bengalese<br />

il tuo popolo. La tua vita era davvero orientata a trasmettere<br />

a quel popolo la convinzione che tutto dipende da Dio, che il<br />

segreto di una vita serena è vivere intensamente questa dipendenza<br />

dall’Onnipotente e Misericordioso Padre di tutti gli uomini.<br />

Uno degli elementi più caratteristici di <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> è la sua<br />

religiosità non pietistica, non trionfalistica. Sa benissimo ed è più<br />

che convinto che i bengalesi e i tribali (oraon, santal, munda,<br />

mahali, ecc.) hanno bisogno di Gesù Cristo: altrimenti non sareb-<br />

17


e andato in Bengala né vi avrebbe lavorato per 54 anni! Ma ha<br />

quasi pudore a dirlo, a proclamarlo. Credo che questo derivi dal<br />

suo grande rispetto per la persona umana e dal privilegiare il dialogo<br />

nell’annunzio di Cristo ai non cristiani. La proposta evangelica<br />

voleva che fosse una vera “proposta” (cioè che lascia libertà<br />

di scelta), senza nessunissimo elemento che sapesse di “imposizione”<br />

o di “sopraffazione”. L’importante, per lui, era essere amico<br />

di tutti e dialogare con tutti, specie con i più lontani, come gli<br />

indù di casta e i musulmani; e naturalmente dimostrare loro, con<br />

la vita, come pensa e agisce un cristiano.<br />

Ci sono in proposito diversi episodi molto significativi, qua e<br />

là nella sua biografia. Credo che questo sia uno dei suoi insegnamenti<br />

più profetici e attuali. La missione ad gentes, infatti, tramontato<br />

il tempo del trionfalismo, vediamo che sta orientandosi<br />

sempre più in questo senso.<br />

* * *<br />

Questo libro dovrebbe essere letto (e fatto leggere) soprattutto<br />

dai giovani. È un libro di avventure non romanzesche ma reali<br />

che dovrebbe suscitare il desiderio di percorrere le strade del<br />

mondo, avvicinare i popoli altri, spendere la vita nel gettare ponti<br />

di comprensione e di aiuto verso i continenti e l’umanità più<br />

lontana. Viviamo nel tempo della globalizzazione e la sfida è l’integrazione<br />

tra i popoli e le culture, il dialogo fra le religioni, la<br />

testimonianza e l’annunzio di Cristo di cui tutti gli uomini e tutte<br />

le culture hanno bisogno. Questi i grandi ideali da trasmettere<br />

ai giovani d’oggi. Non in un modo teorico, astratto, ma appunto<br />

presentando biografie di missionari come questa, capaci di far<br />

sognare e di dare un orientamento altruistico all’esistenza.<br />

Ci chiediamo sempre cosa dobbiamo fare per i popoli altri,<br />

diversi, poveri, in via di sviluppo o sottosviluppati. E si parla quasi<br />

sempre e solo di soldi, soldi, soldi: finanziamenti, debito estero,<br />

commerci, prezzi delle materie prime, trasferimento di tecnologie,<br />

ecc. Tutto giusto e necessario. Ma se non c’è incontro fraterno,<br />

dialogo e scambio fra i popoli, se non ci sono più (o diminuiscono<br />

di numero) giovani capaci di dare la vita (o parte della<br />

18


vita) per gli altri, tutto il resto vale poco, conta poco. L’ha detto<br />

Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita<br />

per i propri amici” (Gv 15, 13).<br />

Non riesco proprio a capire come mai, quando si parla di aiuti<br />

ai popoli poveri anche in giornali e libri e congressi fatti da cattolici,<br />

i missionari non sono mai (o quasi mai) ricordati, almeno<br />

come promotori di sviluppo. Giovanni Paolo II nell’enciclica<br />

“Redemptoris missio” scrive (n. 58): “Lo sviluppo di un popolo<br />

non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali,<br />

né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze,<br />

dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo il<br />

protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa<br />

educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano ma<br />

non conoscono, la grandezza dell’uomo creato ad immagine di<br />

Dio e da Lui amato, l’eguaglianza di tutti gli uomini come figli di<br />

Dio, il dominio sulla natura creata e posta al servizio dell’uomo,<br />

il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti<br />

gli uomini….”.<br />

Il Papa aggiunge: “La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle<br />

popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progresso<br />

ed oggi i missionari più che in passato sono riconosciuti come<br />

promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali<br />

restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con<br />

scarsi mezzi…”.<br />

Ebbene, anche in campo cattolico tutto questo è spesso<br />

dimenticato nel dibattito, oggi attualissimo, sul “che fare?” per<br />

un’autentica solidarietà con i popoli poveri! I missionari testimoniano<br />

con la loro vita (e padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> lo dimostra in questa<br />

biografia) che la chiave dello sviluppo di un popolo è l’educazione,<br />

la formazione, l’introduzione in culture che stentano ad<br />

adeguarsi al mondo moderno di quei princìpi che sono alla base<br />

della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU<br />

(1948) e di tutto il progresso moderno: valore assoluto della persona<br />

umana, eguaglianza di tutti gli uomini, democrazia, giustizia<br />

sociale, superamento di ogni divisione di casta e razzismo, diritti<br />

dell’uomo e della donna, sentimento del perdono e del gratuito,<br />

la dignità di ogni lavoro umano anche materiale, ecc.<br />

19


Valori che, è quasi superfluo ripeterlo, vengono dalla Parola<br />

di Dio, dal Vangelo e dal modello divino-umano di Gesù Cristo<br />

(non si trovano in nessun’altra filosofia, cultura o religione dell’umanità);<br />

e sono alla radice del “progresso”, dello “sviluppo”<br />

dell’uomo e dell’umanità. Anche se è vero che noi, popoli cristiani,<br />

non siamo affatto un esempio concreto di questi valori evangelici!<br />

Ma questo è responsabilità e colpa nostra, non del Vangelo.<br />

Se noi fossimo cristiani migliori, l’abisso fra Nord e Sud del<br />

mondo non esisterebbe o sarebbe in via di rapida soluzione…<br />

Ecco perché la “missione alle genti” della Chiesa, a cui <strong>Cesare</strong><br />

<strong>Pesce</strong> ha consacrato la propria vita, è oggi più che mai attuale;<br />

e perché questa sua biografia si propone come testo da leggere e<br />

dibattere per approfondire la conoscenza dei popoli diversi,<br />

attraverso un modello di approccio evangelico, di cui oggi tutti<br />

noi, ma specialmente i giovani, abbiamo bisogno.<br />

Per concludere, ringrazio la diocesi e il centro missionario<br />

diocesano di Tortona che mi hanno chiesto questa biografia di un<br />

confratello del Pime; il vescovo di Tortona per la cordiale prefazione;<br />

e ringrazio tutti coloro che mi hanno inviato lettere di<br />

<strong>Cesare</strong>, testimonianze su di lui, fotografie e correzioni al testo che<br />

ho mandato a tanti per questo scopo. Auguriamoci che la conoscenza<br />

di questo grande missionario possa fare del bene: anche<br />

nella nostra Chiesa italiana, con duemila anni di cristianesimo alle<br />

spalle, lo spirito missionario è, specialmente, oggi più che mai<br />

indispensabile.<br />

Milano, giugno 2004<br />

20<br />

PIERO GHEDDO


1.<br />

DA NOVI LIGURE AL BENGALA<br />

Tortona è una delle diocesi più estese del Piemonte, che sconfina<br />

in Lombardia e in Liguria; ha una grande tradizione missionaria<br />

e un Centro missionario diocesano fra i più dinamici. Nel<br />

1988, il vescovo di Tortona, mons. Luigi Bongianino scriveva 1 :<br />

Il cuore missionario tortonese ha fatto pervenire il suo sostegno a<br />

innumerevoli terre di missione. E l’apporto più vitale è stata l’opera<br />

dei suoi membri, fattisi missionari e missionarie, al fianco di<br />

sacerdoti diocesani e di laici impegnati. È stato soprattutto nel<br />

periodo postconciliare che l’azione missionaria ha avuto un’impennata,<br />

favorita dalle richieste di Vescovi di missione.<br />

La vocazione da libri e riviste missionari<br />

Il Pime è riconoscente alla diocesi di Tortona, che ha dato sei<br />

padri missionari al nostro Istituto. Tre hanno lavorato in Bangladesh:<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> (1919-2002), Luigi Carrea (1928-1993) e<br />

Mario Alvigini (1930-1991); uno in India e Stati Uniti, Giulio<br />

Cancelli (1920-1985); due sono ancora viventi, Mario Scacheri in<br />

Brasile del sud (1922-) e Pietro Belcredi, prima in Guinea-Bissau<br />

e oggi in Amazzonia brasiliana (1937). Superfluo aggiungere che<br />

dalla diocesi di Tortona la Chiesa missionaria e il Pime si attendono<br />

anche oggi altri missionari e missionarie. La missione alle<br />

1 Nella prefazione al libro Tortona Chiesa missionaria pubblicato nel Natale<br />

1988 in omaggio a mons. Libero Meriggi, “autentico innamorato delle missioni<br />

e dei missionari”, per lunghi anni direttore del Centro missionario diocesano.<br />

21


genti infatti è cambiata molto dopo il Concilio Vaticano II 2 , ma<br />

al Pime (e agli Istituti missionari) continuano a giungere continue<br />

richieste di personale da parte di vescovi locali dei territori di<br />

missione.<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> nasce il 26 settembre 1919 a Novi Ligure (Alessandria),<br />

sull’Appennino ligure-piemontese dove “soffiano i venti<br />

salmastri del Mediterraneo”, come scrive lui stesso in una lettera<br />

dal Bangladesh, quando soffocava nel caldo torrido dell’estate<br />

bengalese, prima delle piogge monsoniche. Suo padre Michelangelo<br />

era sacrestano della Collegiata di Novi Ligure e vi rimase<br />

per quarant’anni fino alla morte nel 1955. La madre, Ernestina<br />

Montessoro, muore un anno dopo la nascita di <strong>Cesare</strong>, ultimo<br />

figlio preceduto dal fratello Natale (1906-1957) e dalla sorella<br />

Maria (1912-2000).<br />

La mamma era religiosissima, ma ha lasciato scarse tracce nella<br />

vita di <strong>Cesare</strong>, che viene educato fino all’età di tre anni dalla<br />

“santa zia” paterna, Carlottina Massa, “donna semplice e grande<br />

che portava nell’animo tutte le virtù della sua gente fraschettana 3 ,<br />

sublimate da una fede eroica”: così la presentava il canonico prof.<br />

Raffaele Massa, in un articolo scritto sul mensile «La Lacrimosa»<br />

nel 1942, per l’ordinazione sacerdotale di padre <strong>Pesce</strong> 4 .<br />

22<br />

Accanto a lei, nel contatto dell’animo suo mite e religioso, nei mistici<br />

silenzi della vecchia Pieve, <strong>Cesare</strong> maturò la vocazione sacerdotale,<br />

che poi si perfezionerà in vocazione missionaria nell’atmosfera di<br />

pietà della Collegiata e nei seminari diocesani.<br />

2 Nel 2003 ho pubblicato il volume La missione continua - Cinquant’anni a<br />

servizio della Chiesa e del terzo mondo (San Paolo 2003, pp. 265) per ricordare<br />

i miei cinquant’anni di sacerdozio missionario: descrivo come ho visto cambiare<br />

la missione e perchè i missionari sono sempre e ancor più necessari, anche se<br />

impegnati in ambienti e lavori spesso diversi da quelli del passato.<br />

3 Anche il nipote, futuro padre <strong>Cesare</strong>, era “figlio della terra novese, più<br />

propriamente, figlio della laboriosa, fedele e religiosa Fraschetta, la Vandea di<br />

Novi”.<br />

4 Testimonianza ripubblicata nell’opuscolo Premio Torre d’Oro 1998 - Novi<br />

Ligure a padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere<br />

(1948-1998), pp. 3-4.


Un altro testimone della fanciullezza di padre <strong>Pesce</strong>, prof.<br />

mons. Franco Remotti, direttore dell’Istituto magistrale “Pietrine”,<br />

così scriveva nel 1942:<br />

Don <strong>Cesare</strong>, ti conobbi nella tua precoce orfananza e ti seguii nel<br />

tuo passaggio nelle scuole elementari. Eri un fanciullo pio, ordinato,<br />

studioso, un po’ solitario e sognante. Sembrava che sfiorassi<br />

quelle aule, che sorvolassi quegli anni, tanto ti era facile l’apprendere.<br />

Entrato in ginnasio nel seminario di Stazzano, divenisti più sereno<br />

e la tua intelligenza vivace, specie nel liceo a Tortona, si affermò<br />

nelle varie discipline, ma più particolarmente nelle composizioni italiane<br />

ricche di vera poesia”.<br />

Ecco due caratteristiche che molti ricordano di padre <strong>Cesare</strong>:<br />

un uomo poetico e “sognante”. Anche per questo, oltre che per<br />

la fede e l’amore a Cristo naturalmente, è rimasto fedele alla vocazione<br />

missionaria vivendo 52 anni in Bangladesh: non è facile,<br />

nemmeno oggi, essere missionari nel mondo dei poveri, se non si<br />

sa prendere la vita con poesia e purezza di cuore.<br />

Anche il canonico G. Balduzzi, della Collegiata, ha conosciuto<br />

da giovane padre <strong>Cesare</strong> e l’ha mandato in seminario nel 1930,<br />

quando aveva undici anni. Così lo ricordava nel 1942:<br />

Al termine del liceo il suo spirito è ancora irrequieto. Mentre legge<br />

libri e riviste missionarie, e ascolta i missionari reduci quando parlano<br />

della loro vita meravigliosa passata in terre lontane, si appassiona<br />

per la sorte della moltitudine di infedeli, dei reietti della società. Il<br />

suo cuore si infiamma, l’orizzonte par si dilati ai suoi sguardi: è quella<br />

la sua vita. All’insaputa di tutti si mette in relazione col Superiore<br />

generale delle Missioni Estere, l’arcivescovo Lorenzo M. Balconi;<br />

chiede, insiste, vince ogni difficoltà, è ammesso nel Pime di Milano.<br />

Interessante notare che in <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> la vocazione missionaria<br />

nasce leggendo riviste e libri missionari, e ascoltando i missionari<br />

reduci quando raccontano “la loro vita meravigliosa passata<br />

in terre lontane”. Questa l’esperienza comune di tutti noi, a<br />

cui il buon Dio ha concesso il grande dono della chiamata alle<br />

“missioni estere”. Difficile capire perché oggi non pochi libri e<br />

23


iviste missionari, e a volte gli stessi reduci dalle missioni, invece<br />

di raccontare la loro “vita meravigliosa in terre lontane” trasfigurata<br />

dalla fede e dalla poesia, hanno preso orientamenti politicizzati<br />

e secondo le mode ideologiche correnti, che non scaldano il<br />

cuore e non suscitano passione per l’annunzio di Cristo a quei<br />

popoli infelici, che ancora non lo conoscono.<br />

“Tutta la mia vita per Gesù”<br />

Poco conosciamo della giovinezza di padre <strong>Cesare</strong>, come studente<br />

e seminarista. Un testimone privilegiato di quegli anni è don<br />

Benedetto Padrini, sacerdote diocesano di Tortona nato a Novi<br />

Ligure nel 1920 e ordinato nel settembre 1942, oggi parroco a<br />

Borghetto Barbera (AL). Nell’ottobre 2003, intervistato da Riccarda<br />

Carrer del Centro missionario diocesano di Tortona, ha detto:<br />

24<br />

Ho conosciuto da ragazzo <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, eravamo dello stesso paese.<br />

<strong>Cesare</strong> aveva un anno più di me ma il canonico Balduzzi, della<br />

Collegiata, ci ha mandati assieme a Stazzano, nel seminario minore<br />

di Tortona, e abbiamo fatto la vestizione da seminaristi il 4 ottobre<br />

1930, davanti all’altare della Madonna Lacrimosa nella Collegiata di<br />

Novi Ligure. Siamo rimasti assieme cinque anni nel seminario minore.<br />

La disciplina era dura, ma avevamo possibilità di fare passeggiate<br />

tra i boschi vicini al seminario, si giocava e si stava allegri. <strong>Cesare</strong><br />

aveva una bella voce e faceva parte del coro. Cantava volentieri,<br />

lo chiamavamo “Pesciolino”, aveva un carattere allegro. Dopo il<br />

ginnasio siamo passati al liceo nel seminario maggiore a Tortona. A<br />

quell’epoca eravamo tutti balilla e ci sentivamo orgogliosi della<br />

nostra patria, inneggiavamo ai caduti della guerra d’Africa: i racconti<br />

delle vittorie in Africa ci entusiasmavano.<br />

In seminario avevamo il circolo missionario e io ne ero il presidente,<br />

con una piccola bibliotechina missionaria, di cui curavo e distribuivo<br />

i libri. <strong>Cesare</strong> lesse vari libri missionari tra i quali “I miei quarant’anni<br />

di missione” del card. Guglielmo Massaia e rimase colpito<br />

dai suoi racconti; ma parlava pure della “tigre del Bengala” perché<br />

aveva letto racconti di missionari del Pime che lavoravano in<br />

India. Un giorno <strong>Cesare</strong> disse a noi compagni che voleva diventare


missionario ed entrare nel Pime di Milano. I seminaristi non ci credevano<br />

e, mentre eravamo a passeggio, uno gli dice: “Se davvero<br />

vuoi fare il missionario, mangia un maggiolino vivo e intero”. Detto<br />

fatto, ricordo bene che <strong>Cesare</strong> mise in bocca un maggiolino, lo<br />

masticò e lo mandò giù nello stomaco. Noi compagni siamo rimasti<br />

ammirati della sua determinazione, non si fermava nemmeno davanti<br />

a una prova così difficile per un adolescente!<br />

Nel 1937, dopo il liceo <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> entra nel Pime per la teologia<br />

e don Padrini commenta: “La prima impressione che ebbe<br />

cambiando di seminario, fu di trovarsi in un mondo libero” e lo<br />

comunicava ai compagni rimasti a Tortona. “Una cosa che non<br />

accettava, aggiunge don Padrini, era il bigottismo. Però aveva un<br />

sentimento religioso profondo”. Nel Pime compie un “anno di<br />

formazione” (sostitutivo del “noviziato” per i religiosi), prima di<br />

entrare in teologia. La differenza fra il seminario diocesano e i<br />

seminari del Pime l’abbiamo sperimentata in molti. Io vengo dal<br />

seminario minore di Moncrivello (archidiocesi di Vercelli), di cui<br />

ho un grande ricordo: ottimi superiori, un padre spirituale morto<br />

in concetto di santità (don Secondo Tagliabue, poi vescovo di<br />

Anglona e Tursi, oggi Tursi-Lagonegro, in Basilicata), forte educazione<br />

alla pietà e ai sacrifici richiesti a chi sceglie la via della<br />

consacrazione totale a Dio, ma anche un certo “perbenismo” e<br />

formalismo che da ragazzo, a ripensarci oggi, non mi pesavano<br />

affatto, perché quella era l’atmosfera, la cultura generale. La differenza<br />

l’ho colta entrando in prima liceo nel Pime nel settembre<br />

1945. Provai la stessa reazione che don Padrini riferisce a <strong>Cesare</strong><br />

<strong>Pesce</strong>: “La prima impressione che ebbe cambiando di seminario,<br />

fu di trovarsi in un mondo libero”.<br />

Come precisare meglio questa differenza, interessante per<br />

capire dove e come nasce il missionario? Nel seminario diocesano<br />

si mirava a formare il sacerdote adatto per la Chiesa italiana di<br />

quel tempo: in un ambiente di “civiltà cristiana”, con un popolo<br />

battezzato al 98%, una pratica religiosa e un codice morale fissati<br />

una volta per sempre, una liturgia solenne ma quasi imbalsamata,<br />

l’attività pastorale del prete di parrocchia stabilita nei minimi<br />

particolari e con tendenza al formalismo, due millenni di santa<br />

tradizione da trasmettere ai giovani.<br />

25


La formazione del missionario, almeno 60-70 anni fa era molto<br />

diversa (oggi poi la “globalizzazione” cambia di nuovo tutto!): ti<br />

ficcavano in testa che tu eri l’esploratore di nuovi spazi antropologici<br />

e culturali, il fondatore di nuove comunità cristiane in ambienti<br />

totalmente “pagani”; che dovevi abituarti a vivere da solo, a bastare<br />

a te stesso; che la tua fede e la tua pietà dovevano essere autentiche,<br />

personalizzate, altrimenti andavi incontro al fallimento.<br />

Il nostro eroe e “mito” era padre Clemente Vismara (prossimo<br />

beato) che, giunto in Birmania a 26 anni (nel 1923), il vescovo di<br />

Kengtung lo porta a cavallo a 120 chilometri dalla sede episcopale,<br />

sta con lui tre mesi aiutandolo a costruirsi una capanna di paglia<br />

e fango, gli lascia poche rupie e lo abbandona dandogli la sua<br />

benedizione e dicendogli che deve darsi da fare. Clemente scriveva<br />

in una lettera: “Se voglio incontrare un altro cristiano nel raggio<br />

di cento chilometri, debbo guardarmi allo specchio”.<br />

Interessante la lettera che <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> scrive al Superiore<br />

generale del Pime, mons. Lorenzo M. Balconi, per chiedere l’ammissione<br />

al Pime 5 :<br />

Il sottoscritto, alunno del Seminario vescovile maggiore di Tortona...<br />

domanda di essere ammesso nel PIME, per dedicarsi totalmente<br />

alla salvezza delle anime in terra straniera. “Tutta la mia vita per<br />

Gesù e per la salvezza delle anime!”. Questo è stato il mio sogno da<br />

più di quattro anni ed ora, col permesso del mio direttore spirituale,<br />

sta per diventare dolce realtà. Come esulterà il mio cuore se leggerà<br />

d’essere stato accettato a far parte della famiglia dei valorosi<br />

eroi di Cristo Redentore!<br />

Questa la richiesta ufficiale di ammissione nell’Istituto missionario.<br />

Ma <strong>Cesare</strong> manda a Balconi un’altra lettera con i documenti<br />

necessari per essere accettato e si scusa perché non è riuscito<br />

ad avere il permesso del vescovo 6 : “Sono stato già tre volte a Tor-<br />

5 In data 13 settembre 1937. Documento conservato nell’Archivio generale<br />

del Pime di Roma, come tutti quelli citati qui di seguito riguardanti la vita di<br />

padre <strong>Pesce</strong> da giovane seminarista e sacerdote.<br />

6 Il permesso del vescovo <strong>Cesare</strong> lo manda il 19 settembre seguente.<br />

26


tona per parlare con Sua Ecc.za, ma mai lo potei trovare. Adesso<br />

gli ho scritto ma non ho ancora ricevuto risposta. Scriverò ora a<br />

mons. vicario generale...”. Nella stessa lettera <strong>Cesare</strong> aggiunge:<br />

Il consenso della mia famiglia è unanime: anzi i miei familiari sono<br />

assai contenti di avere un figlio dedicatosi totalmente alla salvezza<br />

delle anime. Mio padre, le assicuro, è contentissimo. Spero di venire<br />

domenica a Milano con mio fratello.<br />

Il 18 aprile 1948 a Voghera<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> è ordinato sacerdote dal card. beato Ildefonso<br />

Schuster nel Duomo di Milano, il 26 marzo 1942. Erano gli anni<br />

della II guerra mondiale, partire per le missioni era impossibile,<br />

anzi il superiore generale del Pime non aveva più notizie dalla<br />

maggioranza dei suoi missionari. L’Istituto aveva in quel tempo<br />

15-20 nuovi sacerdoti all’anno, che non potevano rimanere nei<br />

seminari e case del Pime. Mons. Balconi li mandava come viceparroci<br />

in parrocchie delle loro diocesi, a servizio del rispettivo<br />

vescovo diocesano secondo la tradizione del Pime 7 .<br />

Per un anno scolastico (1942-1943) padre <strong>Pesce</strong> è prefetto<br />

degli alunni nel seminario del Pime a Genova-Nervi e l’anno<br />

seguente è destinato ad Alzate Brianza (Como), in zona di resistenza<br />

partigiana abbastanza vicina al confine svizzero. Qui si<br />

impegna con i giovani nell’oratorio e nella pastorale parrocchia-<br />

7 Il P.I.M.E. di Milano è nato nel 1926 dal precedente “Seminario lombardo<br />

per le missioni estere” fondato nel 1850 a Saronno (Milano) da mons. Angelo<br />

Ramazzotti (vescovo di Pavia e patriarca di Venezia) e fatto proprio da tutti<br />

i vescovi della Lombardia, per inviare in missione sacerdoti e laici diocesani senza<br />

che diventassero religiosi. I missionari che tornavano in patria per qualsiasi<br />

motivo (salute, età) andavano nelle proprie diocesi nelle quali erano rimasti<br />

incardinati. Nel 1926 Pio XI crea il Pime, unendo al Seminario missionario di<br />

Milano quello di Roma, fondato nel 1871 da mons. Pietro Avanzini per soddisfare<br />

il desiderio del beato Pio IX. La mentalità dell’Istituto è rimasta quella di<br />

prima: essere a servizio della propria diocesi e di quelle che la Santa Sede manda<br />

a fondare fra i popoli non cristiani.<br />

27


le, ma partecipa anche alla rete di aiuto ad ebrei e perseguitati<br />

politici (che venivano fatti fuggire in Svizzera); poi, nell’immediato<br />

dopoguerra, contribuisce a salvare diversi militanti della<br />

Repubblica Sociale, uomini e donne, in pericolo di vita. Purtroppo<br />

non rimangono in archivio notizie precise di questa sua attività<br />

clandestina, che egli però ricordava a volte con una certa fierezza<br />

ma senza lasciarne una descrizione circostanziata 8 . In un<br />

volumetto di ricordi così si descrive rapidamente in un’opera<br />

meritoria di carità 9 :<br />

L’ultimo anno di guerra, sulle colline della Brianza, strano partigiano<br />

senza fede politica che, invece di ammazzare le stupide repubblichine,<br />

le faceva scappare a casa loro a fare la calza: firmato<br />

“Comitato di Liberazione”.<br />

Nell’estate 1945 mons. Balconi destina padre <strong>Pesce</strong> alla parrocchia<br />

di San Rocco in Voghera (provincia di Pavia ma diocesi<br />

di Tortona), che stava nascendo in quel tempo. Il parroco di San<br />

Rocco (dal 1963 al 2000), mons. Manlio Achilli, lo ricorda come<br />

28<br />

un sacerdote dal carattere sempre allegro, che non si arrendeva mai<br />

di fronte alla difficoltà. In uno dei suoi ritorni in patria venne organizzata<br />

una cena in suo onore. Padre <strong>Cesare</strong>, raccontando la sua vita<br />

in Bangladesh, disse che doveva costruire il tetto della nuova scuola.<br />

Tra i commensali si cercò di conoscere la somma necessaria. Calcolando<br />

i costi in Italia, la cifra si aggirava sui 200 o 300 milioni di<br />

lire, ma <strong>Cesare</strong> spiegò che in Bangladesh con sette od otto milioni<br />

di lire si poteva fare il tetto. Ebbene, in quella sera stessa venne raccolta<br />

questa cifra, tanta era la stima e l’affetto che i suoi amici di<br />

Voghera avevano per lui.<br />

Ernesto <strong>Pesce</strong>, figlio di Natale, fratello di <strong>Cesare</strong>, mi dice 10 :<br />

8 <strong>Cesare</strong> scriveva bene, era geniale nei suoi scritti ma non sistematico. Andava<br />

avanti per cenni sommari, trascurava le date, saltava da un tema all’altro, ecc.<br />

Non rileggeva i suoi scritti o forse era proprio questo il suo modo di esprimersi.<br />

9 Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 12.<br />

10 Intervista telefonica del 3 settembre 2003.


A Voghera lo zio era vice-parroco. C’era un parroco anziano, che<br />

non era portato a curare i ragazzi, ma lasciava fare a padre <strong>Cesare</strong>,<br />

il quale ha subito radunati i giovani attorno a sé ed erano davvero<br />

tanti. Io andavo a trovarlo da Novi Ligure in bicicletta. Lui ha fatto<br />

dal niente l’oratorio, la sala del cinema e altre iniziative. I ragazzi<br />

di quel tempo sono ancor oggi amici suoi, gli mandavano soldi,<br />

ecc.<br />

Uno di questi “Amici di padre <strong>Cesare</strong>” è il noto attore vogherese,<br />

Beppe Buzzi. Ricorda con affetto il giovane missionario e<br />

vice-parroco a Voghera, che ha lasciato un segno profondo nella<br />

sua vita.<br />

“Giocava al pallone con noi ragazzi, con le veste arrotolata attorno<br />

alla vita. Una volta, arriva una signora che lo chiama perché vuole<br />

parlargli o forse confessarsi. <strong>Cesare</strong>, srotola la veste, si pulisce la<br />

fronte e la mani col fazzoletto e si ritira con la signora per parlarle di<br />

Dio. Era un uomo generoso, dava tutto per l’oratorio. Una notte si<br />

ferma con me fino alla quattro di mattino per dipingere un fondale<br />

del teatro e dato che le canne dell’acqua erano gelate e i rubinetti<br />

non davano acqua, prendiamo della neve e la fondiamo per diluire i<br />

colori e finire il lavoro. Era un prete che si faceva voler bene”.<br />

Il giornalista Antonio Airò scrive 11 : padre <strong>Cesare</strong> “è stato nell’immediato<br />

dopoguerra viceparroco a San Rocco di Voghera e sono<br />

molti i vogheresi – oggi tra i quaranta e i cinquant’anni (allora ragazzi,<br />

giovani e signorine dell’oratorio) – che ricordano questo sacerdote<br />

dalla barba sale e pepe, sempre allegro e pronto allo scherzo,<br />

alla battuta piena di humour. E don <strong>Cesare</strong> ricorda con commozione<br />

e nostalgia Voghera”.<br />

Infatti padre <strong>Cesare</strong> ha sempre avuto nostalgia dei pochi anni<br />

trascorsi a Voghera, “con il solito massacrante e gradito lavoro<br />

dell’oratorio e dell’Azione Cattolica, che mi faceva quasi dimenticare<br />

l’eventualità della partenza per le missioni”. Infatti scrive 12:<br />

11 Il Giornale di Voghera, 8 ottobre 1981.<br />

12 Strade della Vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 11.<br />

29


Mi trovavo davvero bene a Voghera! È una bella cittadina con tanta<br />

brava gente. S. Rocco, poi, era un angolo privilegiato. In canonica<br />

il vecchio parroco, un eccezionale gran brav’uomo, intelligente e<br />

istruito, quanto semplice e umile; la sua cugina, padrona di casa,<br />

una santa non troppo bisbetica. In oratorio, un nugolo di ragazzi<br />

meravigliosi che, più che al catechismo, si arrangiavano per strappare,<br />

nelle finali, le coppe ai “pulcini” della Vogherese e, sui palchi<br />

cittadini, gli applausi della folla. Negli “slums” (baraccopoli) dell’Ilva,<br />

giovanotti e ragazze si prodigavano ad alleviare la miseria di<br />

quella povera gente venuta da chissà dove. E poi, il 18 aprile del<br />

1948, con tutto il lavoro e il sonno regalati a De Gasperi. Giornate<br />

bellissime al Sanrocchino.<br />

Anche qui, come in altri suoi scritti, <strong>Cesare</strong> lascia un po’ con<br />

l’amaro in bocca. Vorremmo saperne di più della sua partecipazione<br />

alle lotte strapaesane che hanno preparato il 18 aprile 1948:<br />

ma lui se la cava con una semplice battuta. Quando ho visitato<br />

padre <strong>Pesce</strong> a Rajarampur, nel settembre 2001, nel santuario<br />

mariano (“St. Mary Shrine Village”) dove ha trascorso i suoi ultimi<br />

anni bengalesi, a pranzo ci siamo raccontate le vicende della<br />

nostra vita passata. Io sono nato dieci anni dopo di lui (nel 1929),<br />

ma avevamo ambedue un forte ricordo di quella primavera 1948<br />

- lui già prete, io ancora seminarista - quando la Chiesa italiana si<br />

impegnò fortemente a fianco della Democrazia cristiana, per evitare<br />

il pericolo di scivolare democraticamente dietro la “Cortina<br />

di Ferro”! <strong>Cesare</strong> raccontava che a San Rocco di Voghera, in parrocchia<br />

ma soprattutto nell’oratorio maschile, erano mesi febbrili<br />

di lavoro diurno (per gli impegni pastorali) e notturno, a servizio<br />

della DC!<br />

L’Azione Cattolica cittadina, di cui <strong>Cesare</strong> era l’assistente parrocchiale,<br />

condusse un’azione sistematica porta a porta, famiglia<br />

per famiglia, e poi con l’affissione di manifesti e manifestini,<br />

occupando tutti gli spazi liberi sui muri. Ma il problema principale,<br />

diceva <strong>Cesare</strong>, era di impedire che i nostri giovani e uomini<br />

venissero a contatto fisico con quelli della parte opposta, specie<br />

di notte quando potevano esplodere scazzottature feroci, da evitare<br />

ad ogni costo. Ricordo che diceva:<br />

30


Siamo giunti ad un accordo sulla parola col comitato elettorale del<br />

Fronte popolare, sulla base di questi due punti: proibito strappare<br />

i manifesti della parte opposta per attaccarci i propri; e stare alla larga<br />

da un gruppo avverso già in attività in una strada o piazza. A<br />

Voghera non è successo nulla di grave, come in altre cittadine o paesi,<br />

ma il mio compito non era facile: da un lato dovevo animare i<br />

nostri e dare motivazioni anche religiose al loro impegno, dall’altro<br />

tenerli calmi quando c’erano, o pareva ci fossero, provocazioni o<br />

violazioni degli accordi.<br />

Nel mitico Bengala delle foreste e delle tigri<br />

Il 1948 è l’anno della partenza di padre <strong>Pesce</strong> per il Bengala, a<br />

cui <strong>Cesare</strong> era stato destinato nel 1944 da mons. Lorenzo M. Balconi.<br />

Prima di partire ha avuto una piccola crisi di rigetto della vocazione<br />

missionaria “alle genti”. I sei anni trascorsi come sacerdote<br />

diocesano in due parrocchie l’hanno passionalmente coinvolto<br />

nei problemi del popolo italiano, gli hanno fatto vedere il bisogno<br />

enorme di sacerdoti con spirito missionario qui in Italia:<br />

Nell’attesa, troppo lunga attesa, il Bengala, tanto desiderato qualche<br />

tempo prima, s’andava ammantando di nuvolaglie così fitte da non<br />

farsi più scorgere. Il Bengala, con le sue tigri, con i suoi milioni di<br />

indù e musulmani mezzo-morti di fame? Andare laggiù ad arrostire<br />

al sole, a battere i denti con la malaria in corpo? E chi me lo fa fare?<br />

Vada a farsi friggere il Bengala con tutti i suoi bengalesi 13 .<br />

<strong>Cesare</strong> passa giorni e notti nel dubbio: andare in Bengala o<br />

rimanere in Italia, a Voghera? “Brutte ore, brutti giorni, vissuti<br />

come in un’eclisse di sole”. Ma ecco, all’improvviso, uno spiraglio<br />

di luce. Una domenica, nel cortile dell’oratorio, una ragazza gli si<br />

avvicina timida 14 , si guarda attorno perché nessuno senta e arros-<br />

13 Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, pp. 11-<br />

12.<br />

14 La ragazza si chiamava Elisa Croci, poi Missionaria dell’Immacolata col<br />

nome religioso di suor Ancilla, partita fra le prime per il Bangladesh nel 1954 e<br />

ancor oggi al lavoro in quella giovane Chiesa.<br />

31


sendo gli confida: “Don <strong>Cesare</strong>, ho una cosa da dirle. Io vorrei<br />

andare missionaria. Lei cosa ne dice?”. Un fulmine folgora il missionario<br />

incerto: ma come? Una ragazzina del popolo vuol farsi<br />

missionaria e tu che già lo sei vuoi tirarti indietro? La lotta per la<br />

fedeltà alla chiamata di Dio è finita: è Dio stesso che ha messo<br />

sulla sua strada quella brava ragazza, che senza saperlo ha fatto<br />

ritornare in sé il missionario pieno di dubbi e di tentazioni.<br />

Poco dopo riceve dal Pime di Milano la cartolina precetto: “Si<br />

partirà da Genova ai primi di ottobre. Preparati e trovati pronto”.<br />

Ogni distacco ha il sapore della morte, “Nessuno s’è mai<br />

sognato di cantare in versi allegri la partenza”. Ma <strong>Cesare</strong> ormai<br />

non ha più dubbi, ha superato la prova, è tornato il prete allegro<br />

e coraggioso che è sempre stato.<br />

Il 10 ottobre 1948 parte con altri missionari da Genova sulla<br />

motonave “Taurinia”: alcuni vanno in India, altri in Bengala. Una<br />

sosta a Napoli, poi a Pompei e infine i missionari salutano l’ultimo<br />

lembo d’Italia che scompare, con la prospettiva di non tornare più<br />

indietro, com’era normale a quei tempi. Prime fermata a Port Said<br />

in Egitto, poi a Porto Sudan e infine a Massaua in Eritrea, antica<br />

colonia italiana ora sotto amministrazione inglese. Scendono e sui<br />

muri trovano scritte che dicono: “W Italia!”. Un nero<br />

si avvicina e con un largo sorriso, mettendo in mostra i suoi bellissimi<br />

denti bianchi, dice: “Tu italiano? Bello! Italiani stare qui? Bello!<br />

Italiani dire ‘porco’, dare calci nel culo, ma dare sempre pane!<br />

Inglesi non dire ‘porco’, non dare calci, ma non dare mai pane...”.<br />

Lui, da uomo pratico, tra i due preferiva i primi.<br />

Il 4 novembre la Taurinia attracca a Bombay, “la porta dell’India”.<br />

I missionari destinati alle missioni del sud India (stato di<br />

Andhra Pradesh) sono arrivati. Invece, padre <strong>Cesare</strong> e i suoi quattro<br />

compagni 15 che vanno in Bengala (allora Pakistan orientale)<br />

15 Padre Angelo Maggioni (1817-1972), ucciso ad Andarkota (Bangladesh)<br />

il 14 agosto 1972; p. Luigi Oggioni (1916-1955) morto a Milano dopo la breve<br />

missione in Bangladesh il 26 marzo 1955; padre Luigi Pinos (morto a Raishahi<br />

il 20 giugno 2001) e padre Luigi Scuccato, quest’ultimo ancora al lavoro a Beneedwar<br />

in Bangladesh.<br />

32


sono respinti dalle autorità indiane di frontiera: hanno solo il<br />

visto d’ingresso in Pakistan, lo stato islamico nato dalla partizione<br />

dell’India al momento dell’indipendenza (15 agosto 1947),<br />

quindi nemico dell’India. I cinque missionari hanno due alternative:<br />

o tornano in Italia o vanno a Karachi in Pakistan. Ecco un<br />

intoppo a cui, in Italia, nessuno aveva pensato. Due giorni di consegna<br />

sulla Taurinia che getta l’ancora al largo, piantonati da poliziotti<br />

indiani. Poi si muove il vescovo ausiliare (che poi sarà il primo<br />

cardinale indiano arcivescovo di Bombay), mons. Valeriano<br />

Gracias, e il Console d’Italia: riescono a ottenere un permesso di<br />

andare in treno verso il Bengala pakistano: Bombay – Nagpur –<br />

Calcutta. Un viaggio da incubo per i giovani missionari che escono<br />

dall’Italia per la prima volta e non avevano mai visto gli aspetti<br />

affascinanti ma anche le miserie estreme dell’India: fame, folle<br />

di mendicanti e di lebbrosi, gente che dorme sui marciapiedi, nelle<br />

stazioni... e poi,<br />

vacche sacre che passeggiano indisturbate per le vie, donne che<br />

impastano la bovina nei crocicchi, uomini che, accovacciati, orinano<br />

indisturbati ai lati delle vie, migliaia di corvi che gracchiano<br />

assordanti sui tetti delle case...<br />

A Calcutta sono ospitati fraternamente dai “Christian Brothers”,<br />

missionari irlandesi. E poi, in treno, in barca e a piedi,<br />

all’inizio di dicembre arrivano a Dinajpur. Finalmente in missione,<br />

nel mitico Bengala di Khammamuri e Tremal-Naik, che <strong>Cesare</strong><br />

aveva solo immaginato leggendo i libri avventurosi di Salgari<br />

(il quale, però, non c’era mai stato)!<br />

La vita missionaria nella quale si immerge padre <strong>Cesare</strong><br />

<strong>Pesce</strong>, quando il 14 novembre 1948 arriva con i suoi compagni a<br />

Dinajpur, era radicalmente diversa da quella attuale. Oggi un giovane<br />

missionario del Pime che giunge dall’Italia in Bangladesh ha<br />

davanti a sé un anno o due di tempo per adattarsi al clima, al cibo<br />

e ai costumi locali; in un apposito “Centro studi” apprende la lingua<br />

bengalese (definita “l’italiano dell’Asia” per la sua musicalità),<br />

le religioni e i costumi locali; inoltre, ha la possibilità di visitare<br />

tutte le stazioni missionarie disperse nel vasto territorio del-<br />

33


la diocesi di Dinajpur e di altre, dove lavora il Pime 16 , per rendersi<br />

conto delle varie situazioni e parlare con i confratelli. Non<br />

solo, ma oggi il missionario del Pime va in Bangladesh dopo almeno<br />

un anno di studio e di pratica dell’inglese nella sede dell’istituto<br />

a Detroit e in una parrocchia degli Stati Uniti (dopo averlo<br />

già studiato per almeno quattro anni in Italia).<br />

Un furto definito “opera di carità"<br />

Gli anni trenta e quaranta del secolo scorso (quindi il 1948<br />

quando padre <strong>Pesce</strong> va in missione) sono visti come l’Antico<br />

Testamento del mondo missionario. <strong>Cesare</strong>, come i suoi compagni<br />

di quel tempo, non sapeva quasi nulla di inglese, veniva direttamente<br />

dall’Italia (il primo viaggio che faceva all’estero) e ignorava<br />

del tutto il bengalese. Eppure, meno di un mese dopo che è<br />

a Dinajpur il vescovo lo destina a Mal Bazar, una missione nella<br />

vicina India, che dipendeva ancora dalla diocesi di Dinajpur in<br />

Pakistan orientale! È vero che là c’era un anziano padre del Pime,<br />

ma destinare un giovane missionario oltre confine in un paese<br />

come l’India (indù), nemica dichiarata del Pakistan (islamico), era<br />

un azzardo non da poco, una sfida alla Provvidenza che però protegge<br />

specialmente i giovani missionari non ancora ambientati e<br />

quindi facili a commettere errori madornali. Questa era la formazione<br />

ardua e ruvida che veniva data nelle missioni ai novellini,<br />

buttati là in situazioni difficili, per vedere come se la cavavano: si<br />

spiega quindi perché, come ho già detto, agli alunni dei seminari<br />

missionari si ficcava bene in testa che dovevano imparare a vivere<br />

da soli e bastare a se stessi, sia da un punto di vista spirituale<br />

(una pietà non formale ma autentica, profonda), sia in campo<br />

materiale (arrangiarsi in ogni situazione).<br />

16 La diocesi di Dinajpur (fondata nel 1927) ha dato origine alle diocesi di<br />

Jalpaiguri (nel 1952) e di Dumka (nel 1962) in India; e alle diocesi di Khulna<br />

(nel 1956) e di Rajshahi (nel 1990) in Bangladesh. Eppure oggi è ancora estesa<br />

17.500 chilometri quadrati (due volte la Basilicata, più di tre volte la Liguria),<br />

mentre l’archidiocesi di Milano, forse la più estesa in Italia, conta 4.243 kmq.<br />

34


Occorre notare l’assurdità della situazione di padre <strong>Pesce</strong>,<br />

vista con gli occhi e la mentalità di oggi. Viene mandato in India<br />

mentre doveva lavorare in Pakistan; va con un vecchio e santo<br />

missionario col quale avrebbe dovuto imparare l’inglese, l’hindi e<br />

l’oraon, oltre che adattarsi al clima, cibo, costumi… Ma questa<br />

era, a quei tempi, l’accoglienza riservata ai giovani missionari.<br />

<strong>Pesce</strong> racconta la piccola avventura di una suora di Maria<br />

Bambina, sua compagna di missione, quando era giunta dall’Italia<br />

sapendo solo poche parole di inglese: “bella come tutte le<br />

ragazze italiane”, scrive. Giunge a Bombay in nave e deve proseguire<br />

in treno, con le sue sorelle, verso Calcutta. Viaggio interminabile<br />

e le tre giovani suore dopo un po’ hanno appetito. Il treno<br />

si ferma in una stazione e lei guarda fuori per acquistare del<br />

cibo. Vede un giovanotto che tira un carretto sopra il quale ci<br />

sono, tra l’altro, dei pezzi di formaggio (così almeno pensava lei,<br />

invece era sapone da bucato!). “Grazie, Gesù, pensa, qui si trova<br />

anche il formaggio!”. Consulta il suo piccolo vocabolario italiano-inglese<br />

e poi dice: “Please, give me a kiss!”. Naturalmente<br />

voleva dire “cheese” (cioè formaggio): sapeva che il doppio “ee”<br />

si pronunzia “i”, ma ignorava che il “ch” in inglese si pronunzia<br />

“c” e non “k”! Il giovanotto sente che quella bella ragazza bianca<br />

vuole un “kiss” (cioè, un bacio), non ci pensa due volte e subito<br />

l’accontenta: balza sul treno, l’abbraccia e le stampa due bei<br />

bacioni sulle bianche e rosse guance paffute, senza che lei abbia<br />

il tempo di rendersi conto di cosa sta succedendo.<br />

Il giovanotto ride contento, mentre la suorina grida in italiano<br />

fra l’ilarità dei presenti: “Farabutto, vigliacco! Che razza di<br />

paese è mai questo? Il paese dei mascalzoni?”. Il giovanotto capisce<br />

di averla fatta grossa e se ne va in fretta, mentre la suora, tutta<br />

mortificata, si rannicchia sul suo sedile e una donna seduta vicino<br />

a lei le spiega, più a gesti che a parole, che “kiss” vuol dire<br />

“bacio”, mentre cheese (pronunzia “ciis””) vuol dire formaggio...<br />

Queste le avventure dell’”inculturazione” che i missionari sperimentavano<br />

a metà del secolo scorso.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> resiste in India tre mesi, poi viene espulso senza<br />

danni. Ma di questo diremo in seguito. Interessa invece, per<br />

capire il personaggio, conoscere come ha passato il mese di<br />

35


dicembre 1948 a Dinajpur, appena arrivato in Pakistan e prima di<br />

andare in India. Uno si immagina che il giovane “Pesciolino”,<br />

ignorante delle lingue e di tutto il resto, se ne stia tranquillo e<br />

obbediente, guardando a cosa fanno gli anziani e senza prendere<br />

nessuna iniziativa personale. Macché, neanche per sogno! <strong>Cesare</strong><br />

si guarda attorno, vede la povertà di mezzi che ha la missione e si<br />

accorge che, a poca distanza dalla sede del vescovo, c’è il palazzotto<br />

abbandonato di un “raja” indiano (ricco proprietario terriero)<br />

che nell’estate precedente era fuggito dal Pakistan orientale<br />

verso l’India, temendo le rappresaglie dei musulmani contro gli<br />

indù 17 . L’antica residenza era ridotta ad uno stato deplorevole in<br />

pochi mesi, dopo la stagione delle piogge: le erbe selvatiche, i<br />

semi dei pioppi e del cotone selvatico trovano la loro strada in<br />

invisibili fessure, germogliano, affondano le radici tra mattone e<br />

mattone e rapidamente, aggrovigliandosi come serpi, salgono sul<br />

tetto trasformandolo in un giardino pensile. Una pacchia per gli<br />

sciacalli e le termiti.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> e i suoi giovani compagni di viaggio vedono<br />

che, dopo le distruzioni delle lotte nella divisione con l’India, tutte<br />

le missioni sono in piena attività per riparare o ricostruire scuole,<br />

cappelle, dispensari medici, residenze per preti e suore e l’orfanotrofio<br />

della missione a Dinajpur. La difficoltà principale,<br />

oltre che la cronica scarsezza di denaro, è trovare il ferro e il<br />

cemento. Padre <strong>Cesare</strong> visita con un altro missionario il palazzotto<br />

del raja indiano: entrano e vedono che una parte dello stesso<br />

sta crollando e una grossa putrella di ferro spunta dalle macerie;<br />

altro ferro che sostiene muri e scale è libero, se rimane sul posto<br />

arrugginisce inutilmente.<br />

Ecco l’impresa. I cinque missionari entrano nel palazzo con<br />

picconi e badili e rendono trasportabili la putrella e altri utili rottami<br />

e tondini di ferro. Sollevano un gran polverone, ma nessuno<br />

dice niente. I contadini che lavorano nei campi vicini guardano<br />

17 È noto che la divisione fra India e Pakistan nell’estate 1948 ha causato<br />

dagli otto ai dodici milioni di morti ammazzati. Si fermavano i treni carichi di<br />

profughi, da una parte e dall’altra del confine, e tutti venivano passati per le<br />

armi: ma è solo un esempio.<br />

36


stupiti e un po’ timorosi: “Forse gli spiriti degli antenati del raja<br />

sono venuti a distruggere il loro palazzo, per non lasciarlo in<br />

mano ai musulmani?”. Il problema poi è di trasportare quel prezioso<br />

materiale nella missione. Bisogna agire di notte, ma non è<br />

facile in una città di frontiera con l’India, percorsa continuamente<br />

da poliziotti. I giovani missionari ne parlano a tavola per consultarsi.<br />

Il vicario generale si oppone: “Questo è un furto bell’e<br />

buono” e cita moralisti autorevoli ma che, in quella situazione,<br />

appaiono superati. I giovani rispondono: “Usare i beni superflui<br />

e abbandonati a beneficio dei poveri è un’opera di carità”. Ma il<br />

vicario continua: “Se la polizia vi prende sul fatto, sarete condannati<br />

e la fama della missione resterà infangata per sempre”.<br />

Il vecchio vescovo assiste divertito al dibattito e taglia la testa<br />

al toro citando un antico proverbio: “Il mondo è bello perché è<br />

vario. Fate come vi detta la vostra coscienza”. In pratica è una<br />

sorta di benedizione per l’impresa. Che viene messa in atto la notte<br />

stessa. Tutto va bene fino all’ultimo, quando si è finito di legare<br />

e bisogna tirare per qualche centinaio di metri il tesoro più prezioso,<br />

la lunga e pesante putrella. Mentre stanno per iniziare<br />

l’operazione, i cinque “ladri per amore” sentono dei passi che si<br />

avvicinano. I poliziotti! Li vedono in lontananza, sono due e con<br />

le scarpe, fatto strano nel Bengala di quel tempo. I tre missionari<br />

più vicini ai campi fanno a tempo a saltare il muretto di cinta<br />

e si disperdono arrivando in missione più tardi. <strong>Cesare</strong> e un altro<br />

sono in trappola: rimangono fermi “come stoccafissi fino all’arrivo<br />

dei due rompiscatole”.<br />

All’ultimo momento, ecco l’idea luminosa. Seminascosti dietro i<br />

cespugli che costeggiano la strada, caliamo le braghe e, vergognosi,<br />

restiamo accovacciati in quella posizione così poco decorosa, ma<br />

indiana al cento per cento! Nessuno oserà mai disturbare un cittadino<br />

in tale delicata circostanza. Là vicino a noi spunta la testa della<br />

putrella con la grossa corda attorcigliata: sembra un serpente colpito<br />

a morte. I due poliziotti arrivano, si fermano e scrutano nell’oscurità,<br />

parlottano fra di loro, si guardano alle spalle un po’ perplessi<br />

e, più in fretta di come sono venuti, proseguono decisi il loro<br />

cammino. Che cosa hanno pensato e si sono detti lo sa solo Allah,<br />

ma prima che sorga il sole tutto è sistemato, con la grossa putrella<br />

37


nascosta in un fossato dell’orfanotrofio in attesa di essere sistemata<br />

per sostenere la nuova casa dei bambini abbandonati.<br />

Con un parroco così, bisogna rigare dritto<br />

A mezzanotte del 31 dicembre 1948 padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> sta<br />

andando in treno dal Pakistan orientale all’India. Pensa ai suoi<br />

amici di Novi Ligure e di Voghera: in questa notte magica, organizzano<br />

cenoni, mangiano il panettone, stappano bottiglie di spumante,<br />

fanno un po’ di baldoria per salutare l’anno nuovo 1949;<br />

altri sono in chiesa a pregare, anch’essi in un’atmosfera di gioia.<br />

<strong>Cesare</strong> invece è su un vecchio treno sferragliante, “un lurido treno<br />

che puzza orrendamente di tabacco, di orina, di sudore”. Cosa<br />

fa? Prega? Sì, ma vorrebbe festeggiare l’anno nuovo e non sa<br />

come fare: bere qualcosa? ha solo un po’ di té che sa di erbe marce.<br />

Parlare con qualcuno per condividere la ricorrenza? Non sa<br />

le lingue e poi, guardando quelli che gli sono vicini, pensa: “Poveretti,<br />

forse non sanno neppure che un altro anno se n’è andato”.<br />

Certamente “mi prenderebbero per uno svitato che gira il mondo.<br />

Per carità – conclude – meglio far silenzio e tenermi i miei<br />

pensieri e sentimenti ben nascosti”.<br />

Il mattino seguente, quando giunge alla stazione di Mal Bazar,<br />

nessuno lo attende. In qualche modo riesce ad arrivare alla missione<br />

cattolica, ma il parroco è assente. Però c’è il cuoco factotum che<br />

gli dà qualcosa da mettere sotto i denti e poi gli fa visitare il centro<br />

della missione, comprese la nuova scuola e la nuova chiesa ancora<br />

in costruzione, “costruite in cemento economicamente armato”; e<br />

la vecchia chiesa di bambù e paglia, col tetto di lamiera. Alla sera<br />

arriva il parroco, padre Giuseppe Milozzi 18. Lo vede e gli dice<br />

tutto d’un fiato, senza dargli tempo di interloquire:<br />

18 Per capire che tipo era padre Milozzi (1895-1983), ricordo che quando<br />

nel 1964 sono andato a trovarlo nella sua missione di Damanpur nel nord Bengala<br />

indiano (diocesi di Jalpaiguri), avevo avvisato per tempo che visitavo le missioni<br />

del Pime in India col permesso dei superiori e come giornalista e direttore<br />

delle riviste dell’Istituto (ero andato in India con Paolo VI). Alla stazione del<br />

38


Lei dunque sarebbe il <strong>Pesce</strong>, vero? Ieri ricevetti la lettera del vescovo.<br />

Da che parte viene dell’Italia? Dalla Sicilia, vero? (<strong>Pesce</strong> aveva<br />

capelli, barba e occhi nerissimi, n.d.r.). Non importa, io sono marchigiano.<br />

Ma anche i siciliani sono brava gente, e intelligente, se<br />

sono riusciti a creare la mafia... Bene, bene, ma mi dica: ha fatto la<br />

doccia, ha mangiato qualcosa? È a casa sua. Qui, se si lavora, si<br />

mangia pure...<br />

Il “Pesciolino” capisce subito che, con un parroco così, bisogna<br />

rigare dritto e rendersi utile. Rimboccate le maniche, lavora<br />

con i muratori per gettare le fondamenta della nuova chiesa.<br />

Milozzi<br />

è l’architetto, l’ingegnere, il capomastro, il datore di lavoro, tutta<br />

l’anima di questa faccenda e io l’aiuto come mezza cazzuola. Mi<br />

pesa un poco, dico la verità. Ma con questo meraviglioso tipaccio di<br />

prete operaio lo sgobbare diventa un piacere.<br />

Al mattino celebra la Messa alle cinque e mezzo e poi serve<br />

Milozzi mentre celebra la sua Eucarestia (allora non c’era ancora<br />

la concelebrazione). Alle sette in punto si incomincia a lavorare e<br />

si va avanti tutta la giornata. Nei ritagli di tempo padre <strong>Cesare</strong><br />

impara un po’ di inglese e un po’ di hindi (la lingua nazionale dell’India,<br />

che poi nel Pakistan bengalese non servirà più). A pranzo<br />

e a cena “è uno spasso sentirlo parlare delle sue avventure”,<br />

ma intanto lo studio delle lingue langue per mancanza di tempo.<br />

Ma per Milozzi quei giorni passati sfaticando come muratore<br />

debbono servire al giovane missionario come un esercizio linguistico.<br />

Per cui, venti giorni dopo che è arrivato, un sabato sera il<br />

parroco gli dice: “Domani è domenica, sarà meglio che lei inco-<br />

treno nessuno mi aspetta. Con un “risciò” vado alla missione e sulla porta d’entrata<br />

trovo questo biglietto scritto in italiano: “Il padre Giuseppe Milozzi è<br />

andato a visitare i villaggi e tornerà a Damanpur quando il missionario-turistagiornalista<br />

se ne sarà andato. Padre Giuseppe Milozzi”. Naturalmente è scritto<br />

per nessun altro che per me, unico italiano nel giro di non so quante decine di<br />

chilometri. Per fortuna un catechista mi apre la porta della missione e le suore<br />

mi danno da mangiare!<br />

39


minci ad ascoltare le confessioni della gente”. <strong>Cesare</strong> risponde<br />

che non sa assolutamente le lingue e l’altro ribatte:<br />

Come, non le ha ancora imparate, dopo un mese di studio? Io, la<br />

prima domenica del mese faccio la predica in kuruk (oraon), la<br />

seconda domenica in sadri, la terza e la quarta in hindi. Se vedo che<br />

c’è un buon numero di santal, aggiungo un pensierino anche in santal.<br />

Imparare una lingua è la cosa più banale di questo mondo, è<br />

come scrivere un libro. Si tratta solo di volontà. Ogni sera, prima di<br />

coricarmi, quando nessuno viene a rompere le scatole, io leggo, studio,<br />

scrivo. Così ho prodotto un catechismo in kuruk e due libretti<br />

in hindi, ora sto scrivendone un altro sulla famiglia cristiana. Ripeto,<br />

si tratta soltanto di volontà.<br />

<strong>Pesce</strong> lo guarda un po’ confuso e scrive: “Dice tutto lui... Il<br />

bello è che non soltanto dice, ma anche fa”. Nei tre mesi che<br />

rimane in India, padre <strong>Cesare</strong> ha anche il tempo di visitare i missionari<br />

del Pime nel nord Bengala indiano (diocesi di Jalpaiguri).<br />

Nella missione di Nagrakata, fondata dai missionari del Pime<br />

all’inizio del 1900, riesce a fare una visita in Bhutan, il misterioso<br />

regno indipendente dall’India, sulle pendici della catena dell’Himalaia,<br />

tra foreste secolari. Trova un popolo ancora immerso nella<br />

vita naturale e visita alcuni villaggi oraon cristiani:<br />

Credo che siano i soli cristiani del paese. Vivono attorniati da una<br />

pace infinita, forse la pace che cercano gli europei, assillati dalla<br />

continua ricerca e bramosia di agi effimeri. Qui c’è l’amore puro<br />

della Natura, della grande Madre, la Terra, sempre madre anche<br />

quando castiga con siccità o alluvioni... Il tramonto scende veloce<br />

sull’Himalaia, creando una splendida sera d’Oriente.<br />

Poi visita la foresta di Chalsa in India, proprio nel territorio<br />

della missione di Nagrakata: un parco naturale in cui sono conservate<br />

molte specie vegetali e animali già scomparse in altre parti<br />

dell’India 19 .<br />

19 Ho visitato anch’io questa parte dell’India (nel 1964), in compagnia di<br />

padre Tarcisio Manfredotti, passando una notte di luna piena in un “bungalow”<br />

40


Uno spettacolo inimmaginabile, scrive padre <strong>Pesce</strong>. Alberi di tutte<br />

le forme e dimensioni, le cui cime lussureggianti di foglie formano<br />

un’incantevole enorme pittura policroma, che ti ricorda la scena<br />

della creazione. Scimmiette che giocano sulla strada, al rumore del<br />

camion scappano e, nascoste dietro i cespugli, ci osservano con i<br />

loro occhietti pensosi. Uccelli dalle piume bellissime volano via,<br />

quasi timorosi di essere contaminati dalla vista dell’uomo.<br />

Ad una svolta, ecco cinque casette di legno su palafitte altissime. Il<br />

maestro mi spiega che quelle sono le abitazioni dei tagliatori di alberi<br />

e dei piccoli impiegati forestali. Per difendersi dalle tigri e dagli<br />

elefanti costruiscono così le loro case. Per entrare ed uscire si servono<br />

di una scala di legno, che gettano dall’alto e ritirano immediatamente<br />

dopo l’uso. Immerse così in quest’aria balsamica, sono certamente<br />

le abitazioni più salubri del mondo. Qui ci vorrebbe Celentano,<br />

a cantare le sue prigioni di cemento…<br />

nel parco naturale di Gorumara (presso Chalsha) per vedere gli animali selvatici<br />

uscire dalla foresta e abbeverarsi nel fiume.<br />

41


2.<br />

LA PRIMA MISSIONE A RUHEA<br />

Una delle caratteristiche della vita missionaria di padre <strong>Pesce</strong><br />

è questa: in 54 anni di Bengala, con sei brevi ritorni in patria, il<br />

Vescovo lo cambia di posto una decina o dozzina di volte, compresa<br />

la missione di Malda in India per i primi tre mesi. E questo,<br />

come vedremo, non per un motivo che sarebbe facile immaginare:<br />

non si adattava bene o non era gradito in nessun posto.<br />

Ma proprio per il motivo opposto. <strong>Cesare</strong> era talmente sereno,<br />

con un bel carattere e capace di adattarsi ovunque, che tutti<br />

l’avrebbero voluto, ma i Vescovi di Dinajpur (ne ha avuti cinque)<br />

lo usavano come un “jolly” per le situazioni difficili. È un tratto<br />

molto caratteristico della sua personalità. Fra i missionari non è<br />

facile trovare esempi di questo genere. Ci sono missionari certamente<br />

bravi e spirituali, che però, quando sono in un posto, guai<br />

a toccarli: si attaccano facilmente a tutto e a tutti, diventano inamovibili.<br />

<strong>Pesce</strong> assolutamente no, era sempre disponibile e obbediente;<br />

soprattutto sapeva portare la pace dove c’erano divisioni<br />

e lotte intestine. Aveva una bella personalità, era un personaggio<br />

nella missione del Pime in Bengala, ma anche molto umile e senza<br />

ambizioni personali.<br />

“Ma come, non sai ancora il santal?”<br />

Nell’aprile 1949 padre <strong>Pesce</strong> è rispedito in Pakistan orientale<br />

dalle autorità indiane: l’India non ammette, dopo l’indipendenza,<br />

altri stranieri sul suo territorio. Deve abbandonare lo studio dell’indi<br />

(in Pakistan non serve) e comincia a studiare il bengalese e<br />

il santal. Prima a Dinajpur e due mesi dopo a Daulighat (Mariam-<br />

43


pur), dove il vescovo lo manda a “imparare il santal col padre<br />

Luigi Martinelli”. Il quale, due mesi dopo, viene trasferito da<br />

Mariampur e il suo posto è preso da padre Ferdinando Sozzi che,<br />

come vedremo, non vuole fare il parroco e dice a <strong>Pesce</strong> che lui<br />

non si assume responsabilità economiche: non firmerà alcun<br />

documento amministrativo. Insomma, nei primi sei mesi di Bengala,<br />

il povero “Pesciolino” è sballottato da un posto all’altro, da<br />

un incarico all’altro, dallo studio di una lingua all’altra, senza<br />

sapere ancora l’inglese! Per fortuna aveva un carattere felice e<br />

molta fede. Infatti scrive:<br />

Sono sempre stato lettore e seguace di Teilhard de Chardin, definito<br />

da Paolo VI “un uomo indispensabile”; e cerco di autoconvincermi<br />

che ogni avvenimento che mi riguarda è sempre il meglio per me<br />

e per gli altri.<br />

Interessante (per noi che leggiamo) il viaggio da Dinajpur a<br />

Daulighat che <strong>Pesce</strong> compie in treno e in bicicletta. La distanza<br />

è di circa 90 chilometri, ma lui parte il venerdì mattino e arriva a<br />

destinazione la domenica a mezzogiorno! Come mai? <strong>Cesare</strong> e la<br />

sua bici non possono viaggiare sullo stesso treno: lui sale sul treno<br />

passeggeri, la sua bicicletta sul treno merci. Arrivato alla stazione<br />

di Parbatipur, rimane una notte in attesa del treno per<br />

Chorkai, da cui deve proseguite pedalando. Dorme nella sala<br />

d’aspetto della stazione ferroviaria e il mattino di sabato prosegue<br />

in treno, ma arriva a Chorkai ben prima della bicicletta. Rimane<br />

una lunga giornata in attesa nella misera stazione ferroviaria, una<br />

sola stanza d’aspetto sovraffollata di povera gente con tutti i suoi<br />

bagagli. Commenta:<br />

44<br />

Attendere, parola d’ordine da queste parti. Passano ore e ore d’attesa.<br />

E tutta questa gente, accoccolata sui talloni, non fa una piega.<br />

Abituati da infanti ad attendere il latte della mamma; da bambini ad<br />

attendere che il papà torni dal lavoro, a sera inoltrata, col fagottino<br />

del riso; da adulti ad attendere che tempi migliori si affaccino<br />

all’orizzonte. Tutta la loro vita è un’attesa!


Al sabato verso sera, quando il treno merci gli porta la sua<br />

bicicletta, <strong>Pesce</strong> pedala fin quando incomincia a far buio, in un<br />

mare di fango. Poi si ferma in un villaggio cristiano, perchè non<br />

ne può più ed è pericoloso proseguire. Sonno, stanchezza, fame,<br />

la voglia di andare subito a letto: ma deve preparare la predica<br />

per il giorno dopo che è domenica, col poco santal imparato in<br />

due mesi: un’impresa di vero eroismo. Domenica, celebra la Messa<br />

e legge il suo discorsino alla gente, poi si aspetta che qualcuno<br />

gli faccia le congratulazioni. Per carità! Il capo villaggio gli dice:<br />

“Ma come, non sai ancora il santal?”. Vorrebbe mandarli tutti<br />

sulla forca, ma si limita a sorridere pensando: “La prossima volta<br />

andrà meglio”. Poi inforca la bicicletta, carica in qualche modo<br />

tutte le sue proprietà e bagagli legandoli da ogni parte, e<br />

mi butto in quella lunga striscia di melma che si onora di essere<br />

chiamata strada. La stagione delle piogge è iniziata e le strade perdono<br />

quel minimo di praticabilità che avevano in primavera. La mia<br />

“Bianchi” si fa onore nella corsa campestre di una trentina di chilometri:<br />

dopo quattro ore taglio il traguardo. Ero il solo concorrente.<br />

Arriva a Daulighat (Mariampur) a mezzogiorno, si lava e si<br />

presenta a tavola con una fame da lupo, ma ecco un’altra delusione.<br />

Pranzo domenicale: riso bollito con peperoncino piccante e<br />

cavoli anch’essi bolliti. Nient’altro. “Andiamo bene, pensa <strong>Cesare</strong>,<br />

se continua così rischio di morire di fame”. Il parroco, tanto<br />

per cambiare, non c’è, ma arriva nel pomeriggio e lo porta a visitare<br />

un villaggio cristiano santal, in bicicletta, seguiti dal grosso<br />

cane della missione, che viene dal Kashmir. Martinelli e <strong>Pesce</strong> si<br />

seggono sotto un albero a parlare col capo villaggio. Intanto il<br />

cane gironzola attorno e, adocchiata una capra, le salta addosso e<br />

la azzanna alla gola uccidendola. Pianti della padrona di casa,<br />

occhiate imploranti del capo villaggio.<br />

“Quanto costa questa capra?” chiede Martinelli. “Dieci, dodici<br />

rupie pakistane” dice il capo. “Va bene, eccotene quattordici”. Il<br />

pianto della donna cessa all’istante e tutti sono lieti di aver preso<br />

parte ad una piccola avventura, grossa variante alla monotonia di<br />

45


serate sempre uguali, piatte e sciatte. Tre ragazzotti portano la capra<br />

alla cucina della missione.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> è il più contento di tutti. Finisce i tre giorni di<br />

viaggio, da Dinajpur a Daulighat (Mariampur), addentando un<br />

cosciotto di capra e bevendo addirittura un buon vino da Messa,<br />

che il parroco tira fuori per festeggiarlo. “Evviva il cane! pensa<br />

<strong>Cesare</strong>. Mi ha vendicato del riso bollito bianco e dei cavoli di<br />

mezzogiorno”.<br />

A Mariampur per imparare il santal<br />

La chiesa di Mariampur, in stile dorico, è l’unica chiesa del<br />

Bengala: sembra un tempio greco antico ed è anche l’unica con<br />

un campanile. Meraviglioso! <strong>Pesce</strong> è entusiasta della chiesa, di<br />

padre Martinelli, dei cristiani e della gente del posto. Aveva questa<br />

grande qualità: era sempre contento di tutto. Destinato a<br />

Mariampur, ha avuto la fortuna di vivere con due missionari che<br />

la tradizione del Pime in Bengala considera ancor oggi due santi:<br />

padre Luigi Martinelli (1901-1968) e padre Ferdinando Sozzi<br />

(1904-1977). Commovente la descrizione che <strong>Pesce</strong> ha fatto di<br />

Martinelli:<br />

46<br />

Mi invitò a visitare il suo dispensario dicendomi: “Ricordati che Gesù<br />

era sempre impegnato a curare i malati che lo seguivano con amore<br />

e gratitudine”. Si firmava sempre facendo seguire alla sua firma le<br />

due lettere M.O. (ufficiale medico). E quando qualche anno dopo si<br />

ebbe nel vicino villaggio di Shitolgram un’epidemia di vaiolo tra i<br />

Malos, Padre Martinelli convertì immediatamente la sua scuola in<br />

lazzaretto per curare i malati. In alcuni casi fu visto addirittura, spinto<br />

dal suo zelo e dalla sua carità, trasportare sulle proprie spalle i malati<br />

più gravi e i moribondi dal villaggio al lazzaretto per tentare di<br />

salvare dal contagio chi restava. Seguendo l’esempio dei santi, era<br />

sempre pronto ad offrire la propria vita per aiutare il prossimo. Dopo<br />

una tremenda calamità, un dottore musulmano del luogo gli disse: “Il<br />

fatto che tu sia ancora vivo e non contagiato da questa orribile malattia<br />

è una prova sicura della presenza di Dio in te”.


Padre Martinelli era un uomo che sapeva disseminare amore, tanto<br />

in un mendicante come in un re! Un uomo che trascurava tutto,<br />

anche la propria vita, per il bene delle sue pecorelle, a partire dal<br />

campo spirituale ma non dimenticando mai i problemi legati alla<br />

povertà e alle discriminazioni ormai endemiche.<br />

Nell’estate 1949 il vescovo di Dinajpur, mons. G.B. Anselmo,<br />

nomina padre Sozzi parroco a Mariampur, in sostituzione di<br />

padre Martinelli. Il nuovo parroco, padre Ferdinando Sozzi<br />

(1904-1977), anche lui un sant’uomo, era un tipo del tutto diverso.<br />

La sua unica vocazione, lo diceva lui stesso, era di fare l’eremita,<br />

il contemplativo. L’ho conosciuto anch’io e abbiamo pubblicato<br />

nel 1973, quando ero direttore di «Mondo e Missione»,<br />

una sua lunga intervista che ebbe un successo strepitoso, ristampata<br />

più volte in un “estratto” della rivista per circa 30.000<br />

copie 1 . Padre Sozzi era un uomo di Dio, poetico, carismatico. Il<br />

racconto della sua vita affascina ancor oggi. Padre <strong>Pesce</strong> scrive:<br />

Molto spesso, nei suoi giri nei villaggi cristiani e non, annunziava la<br />

Parola di Dio, servendosi anche della sua chitarra e componendo<br />

dei piccoli canti popolari in lingua santal... Il suo pensiero andava<br />

sempre alla piccola capanna, senza alcun conforto, nel piccolo villaggio<br />

santal di Maldo. Soltanto in quel posto era in grado di trovare<br />

pace con la preghiera e le lunghe ore di meditazione.<br />

Sozzi non voleva assolutamente fare il parroco e avere la<br />

responsabilità delle strutture della parrocchia; si chiedeva: a chi<br />

devo obbedire, al vescovo, rappresentante di Dio, o alla mia<br />

coscienza, voce di Dio? Passano i giorni e le settimane, con lettere<br />

e visite lampo nel romitaggio di padre Sozzi: niente da fare. Ma<br />

un bel giorno padre Ferdinando compare a Mariampur e dice a<br />

1 GHEDDO P. e BORDIGNON S., I miei 44 anni in Bengala – Intervista a padre<br />

Ferdinando Sozzi, in «Mondo e missione», 1973, pp. 501-528. Dopo la morte di<br />

Sozzi (11 gennaio 1977) mi ero proposto di scriverne la biografia, ma ho trovato<br />

solo una decina di sue lettere e quasi nessuna testimonianza su di lui nell’Archivio<br />

generale del Pime; ho telefonato ai parenti a Saronno e ai confratelli in<br />

Bangladesh, senza ottenere risposte significative.<br />

47


padre <strong>Cesare</strong>: “Va bene, faccio il parroco ma a due condizioni.<br />

Primo, non metterò nessuna firma su un documento importante<br />

della parrocchia. Secondo, non mi occuperò dell’amministrazione<br />

economica della parrocchia, che è compito tuo”. Bel tipo di<br />

missionario, no? A <strong>Cesare</strong> non resta che obbedire, come ha sempre<br />

fatto.<br />

A Mariampur – scrive padre <strong>Cesare</strong> – con questo sant’uomo, che<br />

ogni notte alle tre esatte si recava in chiesa per prepararsi alla Messa,<br />

io ero costretto a seguire il suo esempio e imparare, nell’amministrazione<br />

della parrocchia, che il denaro della Chiesa è denaro dei<br />

poveri, altrimenti diventa “escremento del diavolo"! A fianco di<br />

padre Sozzi, che parlava santal meglio degli stessi santal, fui in grado<br />

di apprendere velocemente la loro lingua, anche se per mia negligenza<br />

in maniera approssimativa. E lui, uomo sempre allegro e in<br />

grado di far sembrare commedia anche una tragedia, imparai come<br />

comportarmi con questi fratelli tanto differenti da me per carattere,<br />

mentalità, cultura.<br />

<strong>Cesare</strong> racconta un episodio significativo del modo di comportarsi<br />

di padre Sozzi. Il primo prete santal ordinato sacerdote<br />

durante la guerra, padre Lambert Kisku, lavora bene per qualche<br />

tempo in diocesi; poi si innamora di una ragazza santal e convive<br />

con la stessa, obbligando il vescovo a dimetterlo dall’incarico che<br />

aveva in una parrocchia. Ma cade sotto la legge tribale, molto<br />

severa con chi convive ma non si è sposato secondo la loro tradizione.<br />

Mentre i capi stanno discutendo su quale punizione infliggere<br />

al povero Kisku, certamente grave, il vescovo mons. Obert<br />

(chiamato “il vescovo baba”, cioè “vescovo nonno") manda a<br />

<strong>Pesce</strong> una lettera di raccomandazione ai capi santal e una grossa<br />

somma di denaro, pregandolo di usarla per liberare il confratello.<br />

Padre Sozzi dice a <strong>Pesce</strong>: “Fai quel che vuoi, ma io conosco<br />

molto bene Lambert e Dio lo conosce meglio di me”. Lo saluta e<br />

se ne va alla sua capanna, isolata nella foresta, il suo romitaggio:<br />

va a pregare e a digiunare tre giorni per Lambert. <strong>Cesare</strong> agisce<br />

con rapidità e quattro giorni dopo viene a visitarlo in missione il<br />

fratello di padre Kisku, il quale dice: “Tutto è finito bene, è sta-<br />

48


to deciso che Lambert potrà tornare libero a casa”. Sozzi è presente<br />

e dice: “Sto dormendo in piedi, vado subito a dormire”.<br />

<strong>Cesare</strong> capisce tutto. Le lettere e il denaro del vescovo avevano<br />

fatto qualcosa, ma molto più avevano ottenuto un risultato le tre<br />

notti che Sozzi aveva passato in preghiera! La storia poi ha avuto<br />

un esito felice: dopo qualche tempo, Lambert è tornato al<br />

sacerdozio ed ha ripreso il ministero e l’insegnamento.<br />

“Ciatro Chai”: Vogliamo nuovi studenti<br />

Anche a padre <strong>Cesare</strong> succede quello che, almeno in passato,<br />

era il destino dei giovani missionari: fare da “turabuchi” nella<br />

missione. Il vescovo li spostava spesso, anche per far loro conoscere<br />

le varie situazioni del popolo e della Chiesa. Dopo circa due<br />

anni di lavoro a Mariampur, il vescovo Obert sposta padre <strong>Cesare</strong><br />

a Dinajpur e lo mette a capo della scuola superiore “St. Philips<br />

Junior’s High School” e di un ostello per giovani che vengono in<br />

città per studiare (“St. Philip’s Hostel”).<br />

Lavoro importante quanto poco gradito, scrive <strong>Cesare</strong>. Immaginarsi<br />

se io, col mio caratteraccio, potevo restare col vecchio prevosto<br />

della Cattedrale che a pranzo mi chiedeva: “Come puoi permettere<br />

che i tuoi ragazzi, all’uscita della chiesa, guardino le ragazze del collegio<br />

diretto dalle suore?”. Io rispondevo: “Beh, vede, i nostri ragazzi<br />

sono normali: cioè, mi spiego, non sono omosessuali”. Grossa<br />

meraviglia del buon vecchio. Quando lui era giovane prete queste<br />

parole erano tabù.<br />

Un’altra volta successe il finimondo. Un giovanotto della classe VIII<br />

ebbe l’infelice idea di impostare una sua letterina rosa in chiesa,<br />

proprio sotto la stuoia su cui si inginocchiava una bella ragazzetta 2 .<br />

La stupidotta non s’accorse di nulla e la lettera rimase là, incustodita,<br />

finché venne scoperta dalla suora sacrista. Apriti cielo! La casa<br />

di Dio, meglio, la casa del prevosto era profanata da una lettera<br />

rosa! E il criminale era un ragazzo del collegio, di cui io ero l’inde-<br />

2 In chiesa non c’erano banchi come in Italia, ci si inginocchiava per terra,<br />

con una piccola stuoia sotto le ginocchia.<br />

49


gno direttore... Vergogna! Peggio che se quella lettera l’avessi scritta<br />

io!<br />

Padre <strong>Pesce</strong> intanto lavorava bene con i giovani, che definisce<br />

“splendidi, generalmente anche meglio dei ragazzi del mio<br />

oratorio italiano”; e ricorda con orgoglio che “alcuni di questi<br />

ragazzi del convitto St. Philip sono diventati membri importanti<br />

della comunità cattolica del nostro tempo”. Ricorda pure di<br />

aver battezzato diversi dei suoi giovani studenti, dopo un lungo<br />

catecumenato, diventati poi catechisti e insegnanti. Ma <strong>Cesare</strong><br />

vorrebbe innovare parecchio nei metodi dell’educazione giovanile<br />

data in diocesi. Però, in un posto di responsabilità diocesana<br />

si sente troppo sotto controllo, per un tipo libertario come<br />

lui! Le sue proposte sono a volte sospette di “modernismo” e sa<br />

che se esterna il suo pensiero ha poi finito di star bene e di lavorare.<br />

Nel 1952 viene in Bengala il Nunzio apostolico in Pakistan,<br />

che era anche arcivescovo di Karachi. È molto contento del lavoro<br />

che fanno i missionari del Pime, ammira il lavoro degli anziani<br />

e loda l’entusiasmo dei giovani, ma rimprovera loro di non avere<br />

ancora una scuola superiore a Dinajpur; e dà loro questo orientamento:<br />

Partite immediatamente con la classe IX della scuola superiore. Tutto<br />

il resto, cioè riconoscimenti, approvazione governativa e aiuti del<br />

governo verranno come conseguenza. Ma non aspettate di essere in<br />

regola per iniziare, adesso è il momento favorevole.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> è entusiasta della proposta e manda subito in<br />

giro nei villaggi santal un piccolo opuscolo stampato dalla missione:<br />

“Ciatro Chai” (Vogliamo nuovi studenti), in cui illustra l’inizio<br />

della scuola superiore e le condizioni richieste per accedervi.<br />

Ma non aveva nemmeno avvisato il vescovo, l’anziano, paterno<br />

ma prudente mons. Giuseppe Obert. Il suo vicario generale, il<br />

ruvido padre Francesco Ghezzi, imparte al giovane missionario<br />

una solenne ramanzina e una lunga lezione sulla virtù dell’obbedienza,<br />

anche se <strong>Pesce</strong> pensa di aver obbedito al Nunzio che ave-<br />

50


va detto: “Incominciate subito, non aspettate il permesso dell’autorità”.<br />

Il Nunzio intendeva l’autorità governativa, sempre lenta<br />

nel dare i permessi. Ma <strong>Cesare</strong>, che conosceva bene anche l’autorità<br />

ecclesiastica, interpreta il suggerimento nel senso secondo lui<br />

più opportuno. Naturalmente, di fronte a Ghezzi si dichiara pentito,<br />

però la scuola superiore inizia e continua bene e lui ne è contentissimo.<br />

Così anche Dinajpur ha la sua scuola per la formazione<br />

delle élites cristiane.<br />

Passano pochi mesi ed ecco nel dicembre 1951 ancora scatta<br />

la tradizione del “turabuchi”. Veramente, questa volta è <strong>Pesce</strong><br />

stesso che chiede al vescovo di poter andare in una missione fra<br />

il popolo. Gli dice che le scuole a Dinajpur sono importantissime,<br />

ma per questo ci vuole un tipo più in gamba di lui, che non<br />

ci si trova. Il vescovo gli dice: “Fa’ il tuo fagotto e va’ a Ruhea”,<br />

all’estremo nord-ovest del Bangladesh. Una missione che merita<br />

qualche parola di ambientazione storica, anche perché Ruhea<br />

(con la vicina Thakurgaon) è la prima missione in cui padre <strong>Pesce</strong><br />

si ferma per diversi anni.<br />

“Avevo una casetta piccolina a Ruhea...”<br />

Quando <strong>Cesare</strong> giunge in Bengala nel 1948, i missionari del<br />

Pime già vi lavoravano da poco meno di un secolo. Giungono nel<br />

1855: partendo da Calcutta dove già c’era un vescovo, salgono<br />

verso il nord e si fermano a Krishnagar dove fondano la prima<br />

diocesi del Bengala centrale (poi passata ai salesiani), da cui, in<br />

un secolo e mezzo, sono nate altre cinque diocesi: Dumka e Jalpaiguri<br />

in India; Dinajpur, Khulna e Rajshahi in Bangladesh.<br />

Nel 1870 viene costituita la prefettura apostolica del Bengala<br />

centrale, con sede a Krishnagar, affidata ai missionari del Pime, la<br />

cui meta principale era di “passare il Gange”. Si erano infatti convinti<br />

che a sud della “Madre di tutti i fiumi”, tra musulmani e<br />

indù di forte fede e tradizione religiosa, era molto difficile annunziare<br />

Gesù Cristo e ottenere conversioni. Nel nord, invece, fra gli<br />

aborigeni “animisti” abitatori delle foreste (santal, oraon, munda,<br />

pahari, risi, ecc.) era più facile fondare la Chiesa.<br />

51


La storia del Pime in Bengala è un’avventura affascinante e<br />

commovente 3 . Al tempo della colonizzazione inglese il Bengala<br />

era chiamato “la tomba degli uomini bianchi”. Numerosi missionari<br />

italiani del Pime (e le suore di Maria Bambina che li avevano<br />

seguiti) morivano dopo pochi anni di missione, cioè sotto i<br />

trent’anni di età (nel 1800 la media di vita dei missionari in Bengala<br />

era sui 35-36 anni!). Il passaggio del Gange avviene nel 1901<br />

da parte di padre Francesco Rocca e di alcuni altri che lo seguono<br />

e fondano le prime missioni fra i santal del Bengala, fruttuose<br />

fin dall’inizio.<br />

Uno dei pionieri della missione oltre il Gange fu padre Pietro<br />

Costa (1885-1977) che giunse fino a Ruhea; seguito da padre<br />

Giuseppe Macchi (1868-1947) e da padre Luigi Bellini (1912-<br />

1996). Ma la missione di Ruhea fu chiusa con lo scoppio della II<br />

guerra mondiale, quando i missionari italiani del Pime più giovani<br />

vennero rinchiusi in campo di concentramento, lasciando il<br />

vescovo di Dinajpur, mons. Giovanni Battista Anselmo, quasi<br />

solo con alcuni sacerdoti locali. Le poche centinaia di cristiani di<br />

Ruhea, da poco convertiti, vennero lasciati senza assistenza religiosa<br />

per più d’un decennio: le evangeliche pecorelle senza<br />

pastore.<br />

Il 1° gennaio 1952 arriva alla stazione ferroviaria di Ruhea<br />

padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, incaricato di riaprire come residente la missione.<br />

Un impiegato della ferrovia lo accompagna a piedi alla casa<br />

parrocchiale, aiutandolo a portare i suoi bagagli. Vi trova il sacerdote<br />

locale padre Job Elampacherry, che da alcuni mesi era andato<br />

a riaprire la missione, chiusa da più di dieci anni. Gli fa visitare<br />

la casetta.<br />

52<br />

Faccio subito l’inventario. Una casetta in muratura, quattro stanzette,<br />

piccole ma asciutte: una di esse funziona da cappella, un’altra da<br />

stanza da letto, la terza da cucina e sala da pranzo e l’ultima da ufficio<br />

parrocchiale. A cinquanta metri dalla casa c’è un casottino per i<br />

3 GHEDDO P., PIME 1850-2000, 150 anni di missione, Emi, Bologna 2000,<br />

p. 1.229. Il capitolo Passare il Gange in Bengala (Bangladesh) (pp. 385-462)<br />

descrive la storia del Pime in Bengala e Assam.


servizi. Meglio di un Papa! In vita mia non ho mai avuto tanta roba<br />

così. Non ci sono chiesa, né stalla, né granaio. Più di così si muore.<br />

Libero di fare e di non fare. Non ci sono fabbricerie né comitati parrocchiali.<br />

Che bellezza! Monarchia assoluta. Faccio una visita al<br />

gruppetto di famiglie cristiane al di là della strada: sono cinque<br />

capanne poverissime, che fanno capo alla casetta più decente del<br />

catechista. In tutto 28 persone, compresi i lattanti.<br />

Poi si siedono per il pranzo: in suo onore padre Job ha fatto<br />

preparare un pollo arrosto che <strong>Cesare</strong> mangia con gusto e appetito.<br />

È felicissimo di essere in una missione tutta sua e ne ringrazia<br />

il Signore nella cappellina. Anche padre Job è felice che lui sia<br />

arrivato, perchè così può tornare a Dinajpur, dove insegna alla<br />

scuola superiore di San Filippo.<br />

Dopo pranzo, Job presenta a <strong>Cesare</strong> il registro col resoconto<br />

finanziario aggiornato al 31 dicembre 1951: nessun debito e nessun<br />

credito. “Il vescovo mi dà 30 rupie al mese – dice. – Ecco le<br />

27,5 di gennaio: quel che manca l’ho usato per comperare il pollo<br />

che abbiamo mangiato”. Poi gli presenta il cuoco, John Das, la<br />

cui moglie li invita a bere il tè nella sua capanna, lì vicino. Padre<br />

Job parte e finalmente <strong>Cesare</strong> si ritrova solo in casa mentre scende<br />

il sole. È pieno di gioia e commenta:<br />

Mi viene in mente una canzonetta che andava di moda a quei tempi:<br />

“Avevo una casetta piccolina in Canadà”... pardon, a Ruhea, nell’Est<br />

Pakistan! Bellissimo e commovente canticchiare mentre scende<br />

la sera nella pianura bengalese, con la meravigliosa visione dei<br />

monti dell’Himalaia baciati dal sole.<br />

Il mattino seguente, <strong>Cesare</strong> si alza che è ancora notte e va a<br />

pregare nella quarta stanza, la cappella: è felice di essere finalmente<br />

in missione, da solo, in un posto quasi nuovo che sembra<br />

fatto apposta per lui. Celebrata la Messa, è l’alba e il cuoco lo<br />

invita a salire sulla terrazza della casa: incantevole visione! Si vede<br />

“la seconda montagna della terra” dopo l’Everest, il Kanchenjunga,<br />

sfavillante di luce nelle sue nevi eterne, mentre la pianura bengalese<br />

è ancora nell’ombra. Uno spettacolo che lascia <strong>Cesare</strong><br />

“senza respiro”. E nota che la neve, da lontano, sembra rosea,<br />

53


“un buon auspicio per la missione di Ruhea!” 4 . Ecco l’ottimista<br />

che non si scoraggia mai ed è sempre contento...<br />

La prima domenica vengono alla Messa 17 cristiani, ma il<br />

catechista Mahonto, “un bell’uomo, istruito, intelligente, ottimista”,<br />

gli presenta la situazione della missione; i battezzati sono circa<br />

500, sparsi in una trentina di villaggi (vicino alla residenza del<br />

padre solo poche famiglie cattoliche) su un territorio “vasto come<br />

le province di Alessandria e di Cuneo messe assieme”. Dovrebbero<br />

essere di più se alcuni gruppi, durante i lunghi anni di isolamento<br />

e della guerra, non si fossero allontanati. Sono rimasti gli<br />

“hari”, bengalesi di una disprezzata casta indù, fattisi cristiani<br />

una ventina d’anni prima. ll piano del catechista è semplice: entro<br />

tre mesi visitare col missionario tutta la missione, fermandosi una<br />

giornata o due nei villaggi cattolici e facendo puntate in quelli che<br />

si sono allontanati dalla Chiesa.<br />

Mi descrive l’importanza di quella visita: da dieci anni e più, sono<br />

il primo prete che va a trovare i cristiani nei loro villaggi. La mia<br />

responsabilità è grande. Quella sera, andando a letto dopo le preghiere,<br />

mi viene in mente il mio vecchio e santo parroco in Brianza,<br />

il quale mi raccontava che la prima notte insonne della sua vita era<br />

coincisa con la data della sua designazione a parroco: “Ero così preoccupato<br />

delle mie responsabilità, che non ho chiuso occhio”. Ma<br />

le teste e le sensibilità sono diverse. Io ho dormito bene tutta la notte.<br />

L’incontro con “i pazzi di Dio”<br />

<strong>Pesce</strong> inizia la sua missione a Ruhea con entusiasmo e un<br />

grande spirito di sacrificio. Continuamente in giro, un villaggio<br />

dopo l’altro sempre a piedi, mangiando e dormendo dove e come<br />

capita. Per fortuna ha con sé il catechista Mahonto, formidabile.<br />

Conosce tutti, se la cava anche nei dialetti locali, è ben visto e pie-<br />

4 In realtà il Kanchenjunga è la terza montagna della terra (8.586 metri),<br />

dopo l’Everest (8.846 m.) e il K2 (8.616 m.), tutti nella catena dell’Himalaia.<br />

54


no di buon senso. Assieme si rendono conto che i vecchi cristiani,<br />

rivisitati tanti anni dopo, sono ancora pieni di fervore e disposti<br />

a riprendere il cammino cristiano. Padre <strong>Cesare</strong> si commuove<br />

nel constatare tanta fedeltà! In alcuni villaggi “hari” si dichiarano<br />

disposti a costruire una cappella provvisoria in attesa della<br />

cappella di mattoni. Durante la visita dei villaggi, cristiani e non<br />

cristiani, tribali o di basse caste chiedono a <strong>Pesce</strong> di istituire a<br />

Ruhea un convitto come quello di Dinajpur, per mandarvi i loro<br />

figli. A quel tempo (anni cinquanta del secolo scorso!), i più<br />

poveri non potevano attingere acqua al pozzo del villaggio, non<br />

potevano andare al mercato e meno che mai nelle scuole pubbliche.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> tocca con mano che “le famiglie senza istruzione<br />

sono condannate alla morte sociale, peggiore anche di quella<br />

fisica”.<br />

Che fare? A Ruhea incomincia a costruire un ostello per ospitare<br />

i primi 30-40 bambini. E capisce che bisogna presto edificare<br />

una vera chiesa: la stanzetta destinata a cappella non basta più e diventa<br />

anche ridicola. Il 19 agosto 1953 scrive alla Procura del Pime<br />

di Milano: “Sto fabbricando la cappella e sono senza soldi: se non<br />

mi aiuta la Provvidenza è un pasticcio!”. I soldi a poco a poco arrivano,<br />

specialmente da Tortona, Novi Ligure e Voghera; il 26 gennaio<br />

1954 scrive ancora a Milano di mandargli un “Aquilotto”, piccola<br />

moto italiana in uso a quei tempi, già sperimentata dai missionari<br />

del Bengala: “I soldi, aggiunge, vedrò di farli arrivare in un<br />

modo o nell’altro”. Altra lettera il 1° luglio 1955 a padre Sante Nicchiarelli,<br />

mitico procuratore delle missioni del Pime a Milano, per<br />

ringraziarlo: “L’Aquilotto è arrivato bene e intatto”. Poi gli chiede<br />

notizia di una “cassetta di medicinali” che il dottor Marcello Candia,<br />

a cui l’aveva chiesta, ha mandato per lui attraverso l’ALAM<br />

(Associazione Laici in Aiuto alle Missioni) 5 . E scrive di mandargliela<br />

subito perché, aggiunge:<br />

5 Si veda: GHEDDO P., Marcello dei Lebbrosi, De Agostini 1995 (V° ediz.),<br />

p. 328.<br />

55


Da un mese nel Bengala pakistano non si trova più un accidente in<br />

fatto di medicine, ma al “black market” (mercato nero) si trova tutto<br />

a prezzi impossibili. Spero arrivi presto l’aiuto italiano e la ringrazio<br />

in anticipo anche a nome del fratello Massimo, incaricato del<br />

dispensario medico della missione…. Il programma della missione<br />

di cento battesimi l’anno è mantenuto e superato… Per il nuovo<br />

anno missionario incominciato oggi ho una buona massa di catecumeni<br />

tra gli hari indù e i santal animisti.<br />

Ruhea è vicinissima al confine con l’India, in un angolo della<br />

pianura bengalese nel Pakistan orientale, a grande maggioranza<br />

islamico; almeno negli anni cinquanta, buona parte della popolazione<br />

di Ruhea e dintorni era di religione indù. <strong>Cesare</strong>, curioso<br />

per natura, voleva entrare in contatto con i fedeli all’induismo,<br />

non solo con tribali e basse caste come all’inizio della missione.<br />

Quando sente che nel villaggio di Barni Mela, proprio ai confini<br />

con l’India, c’è una grande fiera e festa indù, ci va a piedi col suo<br />

catechista Mahonto. Il passaggio della frontiera era a quel tempo<br />

molto facile e la gente veniva a Barni Mela anche da villaggi della<br />

vicina India. Una folla notevole di indù, bramini, thakur (santoni),<br />

fachiri, incantatori di serpenti, piccoli commercianti e fedeli,<br />

tutti seminudi per prendere il bagno sacro nel fiume vicino. In<br />

piccolo, un’immagine di Benares sul Gange (oggi Varanasi), città<br />

santa dell’Induismo.<br />

56<br />

Alla sera, racconta <strong>Cesare</strong>, una decina di “thakur” vennero alla casa<br />

“hari” cristiana dove ero ospitato, contenti di conoscere un “thakur”<br />

cristiano. Si presentarono come “pagol dol” (letteralmente<br />

“pazzi di Dio"). Dicevano che facevano divertire il popolo in nome<br />

di Dio e, in suo nome, andavano qua e là senza fissa dimora e senza<br />

destinazione precisa. In ogni posto trovavano qualcuno che, in<br />

una situazione difficile, aveva bisogno di un buon consiglio. Talvolta<br />

mi dissero, entravano nella casa di qualcuno che era distrutto dal<br />

dolore e dalla tristezze c condividevano con lui. E quando in un villaggio<br />

trovavano gioia e felicità erano contenti di aggiungere, con la<br />

loro presenza, altra gioia e felicità. Talvolta non erano accettati e<br />

altre volte erano anche cacciati via. Ma non avevano nessun sentimento<br />

di rimpianto o di odio, altrimenti non sarebbero stati i “pagol


dol”. Una lezione di giusta filosofia umana e di teologia francescana!<br />

Naturalmente non mi inserii nel loro registro, ma il mio cuore era<br />

con loro. Mi unii al loro gruppo come un thakur più basso, o meglio<br />

come un estraneo che condivideva quel modo di vivere per onorare<br />

Dio. Mesi dopo, quando nei nostri viaggi a volte bagnati di sudore<br />

come pulcini, facevamo una sosta, Mahonto mi provocava chiamandomi<br />

ancora “pagol Dol” o “pagol thakur”.<br />

Nel 1954 un colpo di fortuna, una benedizione di Dio. Viene<br />

in missione padre Luigi Verpelli di Monza, sacerdote diocesano<br />

di Milano dal 1940, entrato nel Pime e destinato al Bengala 6 . Il<br />

vescovo mons. Obert lo manda a Ruhea con padre <strong>Pesce</strong> “per<br />

imparare l’inglese e il bengalese”. <strong>Cesare</strong> commenta:<br />

Imparare il bengalese parlato a Ruhea era come mandare uno straniero<br />

che avesse voluto imparare l’italiano in un paesino sperduto<br />

della Sicilia, dove non si parlava altro che il dialetto siciliano!<br />

Verpelli è un dono di Dio. <strong>Pesce</strong> lo affida al catechista<br />

Mahonto, chiamato “il maestro”, perché gli insegni l’inglese e il<br />

bengalese classico. Oltre che imparare le lingue, Verpelli impara<br />

anche ad amare quella povera gente ed a lavorare per il loro progresso<br />

spirituale e materiale. Con due preti, la missione si estende:<br />

riescono a visitare anche villaggi di “hari” e di “risi” mai visitati<br />

prima, ed avere un primo gruppetto di catecumeni santal.<br />

6 Il PIME è nato a Saronno (MI) nel 1850 come “Seminario lombardo per<br />

le missioni estere”, per inviare in missione sacerdoti e laici diocesani senza farne<br />

dei religiosi (con i voti); e ha sempre accolto numerosi sacerdoti e chierici<br />

diocesani soprattutto dalla Lombardia e dal Veneto. Fino al 1957 erano in media<br />

3-4 l’anno, poi, dopo l’Enciclica Fidei Donum, questo flusso è diminuito senza<br />

cessare mai del tutto. Anzi, negli ultimi anni, specie dopo le celebrazioni del<br />

150° anniversario di fondazione dell’Istituto, è ripreso con una certa intensità.<br />

Un fatto nuovo degli ultimi tempi sono i sacerdoti diocesani italiani che si uniscono<br />

al Pime come “associati” (per qualche anno, con impegno rinnovabile) e<br />

lavorando in missione godendo di tutta l’assistenza dei membri dell’Istituto.<br />

57


Purtroppo, dopo circa un anno di permanenza a Ruhea, anche<br />

Verpelli segue la regola generale del “missionario tappabuchi” e<br />

viene mandato a Bonpara per costruire una nuova chiesa, “fatta<br />

non soltanto di cemento e di mattoni, ma anche di spirito e di<br />

fede... E fu un successo!” aggiunge padre <strong>Cesare</strong>.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> venerato come uno spirito<br />

Ad aiutare padre <strong>Pesce</strong> viene p. Luigi Carrea, suo condiocesano<br />

di Tortona, e nell’estate 1955 egli accoglie fratel Massimo<br />

Teruzzi di cui diremo più avanti in questo capitolo: era lebbroso<br />

(in fase non infettiva però) e si dedica alla cura dei malati. In una<br />

lettera del 21 dicembre 1955 al superiore generale padre Luigi<br />

Risso, <strong>Pesce</strong> scrive che dall’inizio di novembre ha ottenuto come<br />

aiuto provvisorio tre suore e ha fatto con loro un giro nei villaggi<br />

(“moffusil”), durante il quale ha amministrato 70 battesimi, tra<br />

cui molti di adulti.<br />

Il più grave pensiero che mi tormenta è l’educazione della donna:<br />

io ho una maggioranza di cristiani ex-indù e solo le suore possono<br />

educare le loro donne, per me difficilmente avvicinabili. Mi occorre<br />

un conventino per le suore, ma mi rimane sempre la mancanza di<br />

mezzi. Noi, i tre Re Magi di Ruhea, tiriamo avanti bene. Il fratel<br />

Massimo fa miracoli con le sue medicine, sempre occupato nella sua<br />

capanna, dispensario e farmacia. Il nuovo padre aiutante, Luigi Carrea,<br />

parla il bengalese e mi aiuta davvero. Il numero dei cristiani<br />

aumenta, ma incomincio a sentire la mancanza e l’impreparazione<br />

dei catechisti. Per fortuna ho un sant’uomo come capo dei catechisti<br />

e braccio destro della missione.<br />

In una di queste faticose visite ai villaggi, dopo nove giorni di<br />

vita in foresta dormendo, tutto vestito, su una stuoia di bambù<br />

poggiata sulla nuda terra, con spifferi d’aria che soffiano dalle<br />

pareti delle capanne, <strong>Cesare</strong> si trova sulla via del ritorno a Ruhea.<br />

Pedala e pedala sognando il suo letto, la possibilità di prendere<br />

una doccia e di fare una buona cena, di andare a dormire fra due<br />

lenzuola e senza i pantaloni, in una stanza ben chiusa, quando...<br />

58


plafff, uno stecchino di bambù si va a ficcare fra il copertone e il<br />

cerchione della ruota posteriore e, manco a dirlo, lacera la camera<br />

d’aria. <strong>Cesare</strong> si ferma e il fedele Mahonto, che viene dopo di<br />

lui, fa altrettanto. Che fare? È quasi buio, mancano quindici chilometri<br />

a Ruhea, impossibile andare avanti.<br />

Mahonto sa che poco distante c’è un villaggio hari: “Sono<br />

poveri, ma buoni e certamente per questa notte ci daranno ospitalità”.<br />

Detto fatto, va verso quel villaggio lasciando <strong>Pesce</strong> solo<br />

con la sua bici rotta. <strong>Cesare</strong> si siede e si appoggia a un grande<br />

albero, chiude gli occhi e sogna. Quella luna piena lassù in cielo<br />

gli fa venire la malinconia: vede la sorella a Novi Ligure che sta<br />

preparando il minestrone per la cena e si chiede se da Novi vedono<br />

la stessa luna e le stesse stelle che sta vedendo lui. Un urlo<br />

improvviso lo scuote. Apre gli occhi e vede gente che fugge.<br />

Ma da dove è sbucata tutta quella gente? Non avevo visto nessuno<br />

al mio arrivo. Un pensiero terribile mi attraversa la mente: la tigre!<br />

Scatto in piedi e mi metto a correre anch’io, senza nemmeno sapere<br />

dove. Faccio quattro salti verso il gruppo che fugge e la mia meraviglia<br />

rasenta l’incredibile. Tre donne si fermano, si prostrano a terra<br />

davanti a me, come i preti ai piedi dell’altare prima di iniziare la<br />

liturgia del Venerdì santo. Io rimango lì impalato come una statua<br />

davanti a loro...<br />

<strong>Cesare</strong> rivolge alle donne alcune domande, ma quelle rimangono<br />

immobili e prostrate a terra davanti a lui. Che sia una sua<br />

allucinazione causata dalla fame? Torna indietro e va di nuovo a<br />

sedersi sotto l’albero. Poco dopo arriva Mahonto con alcuni<br />

uomini del villaggio, che li ospita per la notte. Finalmente il<br />

mistero è svelato. La tigre non c’entrava per niente!<br />

Io mi ero seduto appoggiandomi ad un albero che, manco a dirlo,<br />

era un albero sacro. Alle sue radici, dove avevo messo la bicicletta,<br />

c’era l’altarino per i sacrifici e le offerte. Il tenue luccichio del manubrio<br />

cromato della bicicletta dava la vaga idea di due occhi lucenti<br />

nella notte. Volle il caso che proprio quella sera un gruppetto di<br />

donne venissero a portare offerte ed a pregare lo spirito residente<br />

su quell’albero maestoso. I due occhi che le guardavano nell’ombra<br />

59


non erano altro che il manubrio della bici di un poveraccio come<br />

loro, che sognava il minestrone alla genovese e il materasso di gommapiuma!<br />

Il racconto dell’apparizione dello spirito a tre donne fece presto il<br />

giro dei dintorni, reso più colorito e infiorato da dettagli strabilianti.<br />

Il mattino seguente, uscendo dalla capanna in cui avevo dormito<br />

su un mucchio di paglia, incontro varie persone già al corrente dell’avvenuto<br />

miracolo, che morivano dalla voglia di raccontarmi, per<br />

filo e per segno, la storia. Tentai invano di chiarire la faccenda, dando<br />

la versione realistica del fatto. Come parlare al vento! Lo spirito<br />

era realmente apparso, in carne ed ossa, ed aveva gradito l’offerta<br />

delle tre donne fortunate. Non era ammessa alcuna discussione.<br />

Massimo Teruzzi, il missionario lebbroso<br />

Il missionario che ha segnato più profondamente con la sua<br />

presenza la storia della missione di Ruhea è senza dubbio fratel<br />

Massimo Teruzzi: un semplice muratore e poi infermiere, morto<br />

lebbroso il 19 luglio 1963 a 63 anni, 34 dei quali passati in missione:<br />

un autentico eroe della carità. Ecco come lo ricorda, con<br />

parole commosse, padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> 7 :<br />

60<br />

A questa massa di poveracci, di rifiuti della società che continuano<br />

ad affluire al nostro dispensario di Ruhea, debbo annunziare: “Nulla<br />

da fare, il dottor Massimo se ne è andato non a Dinajpur a comperare<br />

le medicine per voi, come aveva fatto tante volte nel passato;<br />

se n’è andato per sempre, non tornerà più, mai più”. Che tristezza!<br />

Non lo senti anche tu, amico lettore? I poveri d’ogni razza,<br />

d’ogni lingua e d’ogni fede piangono sconsolatamente il loro benefattore.<br />

E sono tanti, tanti, quanti neppure noi riuscivamo ad immaginare!<br />

È sempre stato così, dal giorno in cui Gesù donò la sua vita sulla<br />

croce per gli altri. “L’umile sarà esaltato, la sua memoria passerà in<br />

benedizione”. Fratel Massimo Teruzzi, con la sua umiltà, col suo<br />

7 Riporto quasi integralmente l’articolo pubblicato da p. <strong>Pesce</strong> in occasione<br />

della sua morte, in «Le Missioni Cattoliche» 1963, pp. 392-393.


disprezzo di tutto ciò che sa di egoismo, con la sua dedizione alla<br />

carità, ha scritto una pagina autenticamente gloriosa nella storia dei<br />

missionari del Pime.<br />

Era nato a Lesmo (Milano), il 14 ottobre 1902, da Carlo e Maria<br />

Pozzi. Era forse suo desiderio fare qualcosa di più delle elementari,<br />

ma in casa per tirare avanti bisognava lavorare. E lui, dopo il servizio<br />

militare, s’impiegò come muratore. Al mattino una visita in chiesa,<br />

spesso la Comunione, e via col piombino, la cazzuola, un panino<br />

e il giornale. Lavorava sodo, ma pensava che era meglio costruire<br />

la casa al Signore che ai ricchi. Piantò tutti in asso e dopo aver<br />

ricevuto l’abito di Fratello del Pime a Milano, nel 1929 s’imbarcò<br />

con un altro missionario per il Bengala, allora ritenuto “la tomba<br />

degli europei”.<br />

Giunto in missione, dapprima credette che il suo antico mestiere<br />

fosse il più utile alla missione e si mise di buona lena a costruire<br />

chiesette in serie, tetto di lamiera su muri di fango. Ben presto però<br />

s’accorse della miseria enorme imperante nel paese. Troppi gli<br />

ammalati inesorabilmente condannati a morte per la mancanza di<br />

medicine o per l’impossibilità di comperarle. Abbandonò definitivamente<br />

gli strumenti del carpentiere e si mise a studiare sui libri<br />

popolari di medicina e a praticare in dispensari improvvisati con<br />

bambù e paglia. Si sentiva male alla vista di tanta povera gente e non<br />

si dava riposo finché non avesse visitato tutti. Non c’era orario per<br />

lui: gli ammalati poveri erano i suoi padroni e potevano presentarsi<br />

anche di notte.<br />

Poi fecero capolino timidamente i lebbrosi e nel suo singolare cuore,<br />

un misto di S. Camillo e San Francesco, immediatamente presero<br />

il posto principale, divennero nel giro di pochi mesi i suoi beniamini.<br />

Non so se ebbe il tempo di leggere la biografia di P. Damiano,<br />

ma è un fatto che lo imitò fino al sacrificio di se stesso per i lebbrosi.<br />

Un giorno era stanco, forse. Nel lebbrosario di Dhanjuri (Dinajpur)<br />

non c’era ancora l’attrezzatura moderna di oggi. Come al solito,<br />

puliva col bisturi le piaghe dei lebbrosi all’ingresso della capanna.<br />

Un momento di stanchezza, un attimo di disattenzione e il bisturi<br />

impregnato di pus e di sangue del malato, colpì il braccio del chirurgo.<br />

Più nulla da fare, il bacillo di Hansen, come un nemico vendicatore<br />

non perdonò, invase immediatamente il suo sangue. È facile<br />

essere poeti a questo punto. Per amore di Gesù, per amore dei<br />

61


62<br />

fratelli più disprezzati del mondo, dei relitti della società, l’ostia<br />

offerta sull’altare del sacrificio... Belle parole in verità, ma la realtà<br />

è brutta, tremendamente brutta.<br />

Un uomo nel pieno vigore delle sue forze, consapevole d’essere lebbroso,<br />

ha poca voglia di fare il poeta e abbandonarsi a sogni di gloria.<br />

È qui che rifulge maggiormente la grandezza dell’uomo di Dio.<br />

Massimo non si scompose. Semplice ed umile, come se si trattasse<br />

di una bazzecola, di un avvenimento che doveva ineluttabilmente<br />

accadere, preparò la sua valigetta e andò a picchiare alla porta del<br />

lebbrosario di Calcutta. Lui, direttore e medico di un lebbrosario,<br />

diventato un lebbroso, un numero in un lebbrosario.<br />

Il fisico era forte allora e, seguendo con scrupolo le cure moderne,<br />

in pochi anni la lebbra era ridotta al negativo. Disse grazie al Signore<br />

e alle suore, rifece la sua valigia e ritornò dai suoi ammalati con<br />

una esperienza medica di più, fatta sul suo corpo. L’anima s’era affinata<br />

nella comprensione della sofferenza e lui, il malato, il lebbroso<br />

di Cristo si donò senza riserve al servizio del popolo sofferente.<br />

Davvero ormai lo si poteva chiamare un eroe della carità.<br />

Dopo 24 anni ininterrotti di lavoro ebbe una brevissima parentesi<br />

di vacanza in Italia. Qualcuno, vedendo quella lunga barba bianca,<br />

quegli occhi stanchi, quelle spalle ormai curve, lo consigliava di<br />

restare. “No – rispose fermo in un modo che non ammetteva replica<br />

– il mio posto è là, tra i miei poveri”. E ripartì per una missione<br />

più povera della precedente, Ruhea, all’estremo nord del Pakistan<br />

Orientale. Dapprima in una capanna di paglia, poi in una casetta<br />

angusta e soffocante, seppe intessere la sua corona di gloria più bella,<br />

raggiungendo l’apogeo dell’amore cristiano. E come seppe amare<br />

fu amato. Oh, come fu amato! Io penso, e non temo di sbagliare,<br />

che l’uomo più amato di Ruhea e dintorni fu proprio il “Brother”<br />

(fratello).<br />

La sua fama di bontà e abilità medica era giunta lontano. Da Tetulia,<br />

da Dinajpur, venivano i malati poveri, i lebbrosi, i disperati della<br />

scienza medica: il “Brother” era diventato l’ultima loro speranza.<br />

E lui, burbero benefico, a tentare e ritentare con successo, con<br />

insuccesso. Con quegli occhiali più vecchi di lui sul naso, a rincuorare<br />

con barzellette nel dialetto del paese che aveva appreso alla<br />

perfezione. Una figura indimenticabile.<br />

E così, come è vissuto se ne è andato. Non ne poteva più, ormai trascinava<br />

le gambe stanche, sembrava un vecchio di cent’anni, ma al


confratello che amabilmente lo redarguiva e lo invitava al riposo,<br />

rispondeva sempre: “Riposerò dopo...”. L’ultimo giorno di lavoro<br />

tra gli ammalati del suo dispensario “Don Orione” di Ruhea fu il<br />

giovedì, 11 luglio 1963. Respirava troppo a fatica. “Basta – disse. –<br />

Stavolta è proprio finita”. Sabato mattino fece chiamare i suoi poveri,<br />

vuotò le tasche e l’armadio di quei pochi spiccioli che rimanevano<br />

e in silenzio, senza importunare alcuno, andò a Dinajpur<br />

all’ospedale cattolico. Pochi giorni di degenza, sempre allegro e sorridente<br />

fino alla notte del giovedì 18 luglio. “Non ce la faccio più”<br />

disse, e col nome di Maria sulle labbra spirò all’alba del venerdì,<br />

dopo aver ricevuto i sacramenti.<br />

Ed ora hanno ragione, oh se hanno ragione, gli sciancati, i lebbrosi,<br />

i poveri di ogni genere, le vedove, di piangere mentre tornano più<br />

volte alla missione e si aggirano in ogni angolo del dispensario quasi<br />

a cercarlo, non sapendo capacitarsi di tanta perdita. Il pianto è un<br />

balsamo, ma il balsamo non riempie il vuoto del cuore. Nessuno al<br />

mondo lo potrà mai sostituire. La morte dell’uomo della carità<br />

lascia lo sconforto più sincero. Fratel Massimo ha lasciato l’esempio<br />

di una vita interamente spesa nell’amore del prossimo nel nome di<br />

Gesù. Il bengalese, ignaro del senso di pura carità e gratuità, ha avuto<br />

una scossa da questo esempio: forse non diventerà cristiano, ma<br />

sarà più buono perché ha costatato che soltanto il Cristianesimo<br />

può produrre uomini così.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> non lo dice, ma i missionari del Bangladesh ricordano<br />

(almeno i più anziani), che proprio lui ha compiuto forse il<br />

gesto più bello ed eroico della sua vita missionaria, accogliendo<br />

fratel Massimo a Ruhea nel 1956, quando tutti sapevano che era<br />

lebbroso; correndo così coscientemente il pericolo di prendere lui<br />

stesso, inavvertitamente, la terribile malattia, in anni in cui la lebbra<br />

era quasi incurabile. E faceva paura a tutti. Suor Franca Nava,<br />

che era giunta in Bangladesh nel 1953 e lavorava nel lebbrosario<br />

di Dhanjuri come infermiera, ricorda:<br />

Fratel Massimo, quando è uscito dal lebbrosario di Dhanjuri è<br />

andato a Ruhea. Padre <strong>Pesce</strong> l’ha accolto mentre altri lo rifiutavano,<br />

per non creare problemi alla loro missione: avere in casa un lebbroso,<br />

a quei tempi, era un fatto terrificante per tutti. Quando sono<br />

arrivata io a Dhanjuri, tutti dicevano: Massimo s’è infettato perché<br />

63


lo voleva. Nel senso che viveva del tutto con i lebbrosi, mangiava<br />

con loro, dormiva con loro, fumava con loro. Per me, che in quegli<br />

anni ero nel lebbrosario, uno dei gesti più eroici che ha fatto padre<br />

<strong>Pesce</strong> è stato proprio di accogliere Massimo come un fratello e di<br />

vivere con lui senza problemi.<br />

La figura di fratel Massimo merita ancora di essere illuminata<br />

con alcuni passaggi di quanto ha scritto padre Mauro Mezzadonna<br />

nel necrologio pubblicato su «Missionari del Pime» (settembre<br />

1963, p. 2).<br />

64<br />

Fratel Massimo era un autodidatta, ma pur non avendo alcun diploma<br />

di medico o infermiere, tutti lo chiamavano “dottore”, tanto che<br />

molti medici andavano da lui a chiedere pareri e consigli… Massimo<br />

non ha mai fatto un giorno di riposo, dedicando anche la domenica<br />

alla cura dei lebbrosi. È stato un apostolo degli ammalati e<br />

anche dei poveri. Adorava i poveri, li aveva sempre con sé. Gente<br />

di ogni razza, buoni e cattivi, dopo la sua morte continuano a venire<br />

a Ruhea da tutte le parti perché hanno sentito che il vecchio nonno<br />

è morto… Sembra a loro impossibile che il dottore tanto buono<br />

– che spesso, oltre le medicine, dava loro anche qualche spicciolo<br />

per nutrirsi – li abbia lasciati per sempre.<br />

Soccorreva i poveri col poco che aveva: di molto grande aveva solo<br />

il cuore. Quando nel 1962 fu pubblicato un articolo che parlava di<br />

lui, giunsero delle offerte che gli furono trasmesse. Ebbene, quasi<br />

non si riusciva a convincerlo che ci fossero anche dei buoni che pensavano<br />

a lui! Da notare che quando era andato in missione, non aveva<br />

mai avuto un benefattore proprio. Le uniche offerte erano quelle<br />

dei suoi fratelli. Eppure trovava modo di dare egualmente: dando<br />

del suo, di ciò che era a lui destinato dai superiori. Quando nel<br />

1954 celebrò il suo 25° di missione, p. Luigi Verpelli che allora era<br />

con lui dovette comperargli un paio di scarpe e di calze, perché ne<br />

era privo; e quando era a Ruhea, il padre Alvigini lo convinse ad<br />

accettare una sua veste bianca, dato che quella che aveva era ormai<br />

ridotta a condizioni pietose. Massimo non aveva neppure un letto,<br />

ma dormiva su un intreccio di nodose canne di bambù; per coperte<br />

e lenzuola usava addirittura dei sacchi vecchi. Il padre Alvigini li<br />

sostituì con qualcosa di più decente; identica operazione per la zanzariera<br />

– residuo dell’esercito americano nell’ultima guerra – che


egli si sforzava di tappare con dei grandi cerotti. Per scrivania aveva<br />

una cassa da imballaggio.<br />

A dargli una maglietta o un uovo in più da mangiare, nel 99% dei<br />

casi trovava subito il modo di disfarsene. A riprenderlo di questo<br />

zelo eccessivo, diceva che ormai era troppo vecchio per cambiare e<br />

il risultato era che faceva la carità il più nascostamente possibile.<br />

Qualche volta anche fratel Massimo, tra malanni e strettezze, era di<br />

humour nero, ma appena si presentava la prospettiva di ricevere<br />

dall’Italia qualche cassetta di medicinali, si metteva a cantare ed a<br />

scherzare come un bambino. Le medicine erano la sua passione, ma<br />

non sono valse a salvarlo da quella che egli diceva fosse un semplice<br />

raffreddore e che invece si rivelò una polmonite; e neppure gli<br />

giovò il trasporto all’ospedale di Dinajpur, ove andò allegro e scherzando<br />

con tutti. Ma pochi giorni dopo, il 18 luglio scorso, senza<br />

troppo soffrire e senza dar fastidio a nessuno, se ne è andato al Cielo,<br />

a ritrovare tanti ex-poveri ed ex-ammalati diventati ricchi per<br />

opera sua.<br />

Mario Alvigini, il missionario delle pompe<br />

Com’era la vita di padre <strong>Cesare</strong> nella missione di Ruhea?<br />

Sempre in movimento per visitare i villaggi, anche quelli più lontani<br />

e difficili da raggiungere. Nella tradizione pastorale e missionaria<br />

del Pime in Bengala, il “moffusil” (visita ai villaggi) è sempre<br />

stato il sistema migliore di annunziare Cristo e aiutare i poveri,<br />

anche dove il Vangelo di Cristo non è conosciuto. Ma che fatiche!<br />

In Italia è difficile immaginare cosa vuol dire partire da casa e<br />

star via una settimana o 10-15 giorni e vivere più o meno come le<br />

persone del luogo in Bengala. Nella pianura bengalese quasi senza<br />

strade (a quel tempo), fra risaie, foreste, fiumi maestosi e villaggetti,<br />

un popolo cordiale ma all’estremo limite della miseria: cibo<br />

scarso e molto povero, dormire per terra su una stuoia di bambù,<br />

in capanne soffocanti e piene di animaletti, lontani da ogni comodità<br />

della vita moderna, col sole che batte a picco, difficoltà di trovare<br />

un bicchiere d’acqua pulita, ecc. E poi, piogge torrenziali,<br />

inondazioni, piccole guerre tra villaggi ed etnie diverse, malattie<br />

65


epidemiche senza strutture sanitarie adeguate per combatterle<br />

(malaria, colera, lebbra, febbre gialla, dissenteria, ecc.).<br />

Padre <strong>Pesce</strong> è giovane ed entusiasta della sua missione. Non<br />

si risparmia: Dio gli dà la forza e la gioia di praticare questa missione<br />

itinerante col suo Mahonto, catechista e maestro di vita<br />

bengalese.<br />

Talvolta eravamo distrutti dal caldo e dalla fatica, ma era sempre un<br />

sollievo e una profonda gioia considerare che in un piccolo angolo<br />

di questo mondo per la prima volta arrivava la verità di Cristo e un<br />

nuovo battezzato si sarebbe svegliato nel suo nome. In ogni villaggio<br />

cristiano vi era una persona che aveva la responsabilità di curare<br />

il decoro della cappella e guidare il servizio domenicale. Io ciclostilavo<br />

parecchie copie di semplici omelie che venivano lette nei villaggi.<br />

Ero ben consapevole che non tutte queste persone riuscivano<br />

a capire il senso di quanto era scritto, e meno che mai capire<br />

quanto riguardava la fede; alcune avevano anche difficoltà a leggere.<br />

Ma mi andavo ripetendo che almeno l’uno per cento sarebbe<br />

rimasto. Molto del mio tempo e di quello di Mahonto era speso per<br />

insegnare ai bambini e agli adulti analfabeti (in maggioranza donne)<br />

le preghiere e il catechismo di base. Mandammo nei villaggi<br />

una schiera di catechisti a svolgere questo lavoro, indispensabile<br />

ma troppo lungo.<br />

Nel suo scritto, <strong>Pesce</strong> ringrazia gli amici dall’Italia che lo aiutano<br />

con le loro preghiere e offerte; li definisce suoi “angeli” e<br />

dice: “Senza di loro non potrei fare nulla”. La crescita della missione<br />

di Ruhea è stata graduale ma costante. I frutti spirituali non<br />

tardano a venire. Nel 1955 le conversioni sono in aumento, i villaggi<br />

con cappelle di paglia e fango una cinquantina. Nel 1956<br />

<strong>Pesce</strong> decide di costruire una chiesa decorosa a Ruhea, in mattoni<br />

e cemento, materiale non facile da reperire. Il missionario<br />

novese si improvvisa artigiano e costruttore: incomincia a fare<br />

una fornace per cuocere i mattoni e le tegole, poi tira su i muri<br />

ed infine provvede all’intonaco. Nel 1957 benedice e inaugura<br />

l’ospedaletto intitolato al suo caro Don Orione.<br />

La vita missionaria di padre <strong>Cesare</strong> ha questa caratteristica:<br />

tutte le imprese che progetta gli sembrano all’inizio quasi impos-<br />

66


sibili; poi, a poco a poco, con molte fatiche, vede che si stanno<br />

realizzando, naturalmente con l’aiuto di Dio e dei molti amici che<br />

ha lasciato in Italia. La costruzione della bella chiesa di Ruhea, ad<br />

esempio, è continuata dal padre Mario Alvigini, che viene a<br />

Ruhea nel 1958 e terminata nel 1960. Alvigini viene anche lui dalla<br />

diocesi di Tortona, anzi è nato proprio a Tortona nel 1930<br />

(morirà a Lecco, dopo un’operazione al cuore, il 15 novembre<br />

1991), Anche padre Mario è un grosso personaggio che andrebbe<br />

riscoperto con uno studio delle sue lettere e delle testimonianze<br />

su di lui: ha lasciato un forte e positivo ricordo sia nel Pime<br />

che nella diocesi di Dinajpur. Lo incontreremo ancora più avanti.<br />

Così lo ricorda padre <strong>Pesce</strong> 8 :<br />

Con uno zelante catechista da poco convertito, Dhorjio Das, padre<br />

Mario andava in giro in bicicletta nei villaggi della zona, alla ricerca<br />

dei parenti dei cristiani che ancora non avevano seguito il loro<br />

esempio e non erano ancora entrati nella Chiesa di Cristo. Fin dalla<br />

sua giovinezza, Mario era sempre stato attratto dai malati e nelle<br />

sue visite ai villaggi era pronto non soltanto ad un lavoro spirituale,<br />

ma anche a visitare e curare i malati. Io ero entusiasta nel vedere che<br />

la missione di Ruhea, iniziata dai pionieri, Macchi, Costa, Bibini,<br />

Bellini... ora stava continuando bene al di là di ogni speranza…<br />

Erano gli anni della mietitura di battesimi in quel di Ruhea: due-trecento<br />

all’anno. Me lo rivedo vivo, reale... Come il buon contadino<br />

che ritorna a casa curvo sotto il peso dei covoni di riso, con la fronte<br />

madida di sudore splendente di gioia agli ultimi raggi del sole del<br />

tramonto, così padre Mario Alvigini al ritorno, stanco, dopo una<br />

lunga settimana passata nei villaggi degli Hari. Prima di sedersi a<br />

cena eccolo riempire di nomi un paginone del registro dei battesimi.<br />

Una partita a scacchi e giù, una lunga dormitona, finalmente su<br />

un letto, dopo tante notti passate sulla nuda terra o, se la fortuna gli<br />

aveva sorriso, su un avaro mucchietto di paglia.<br />

Un giorno, il catechista che lo accompagnava nelle sue escursioni<br />

missionarie viene a lamentarsi con me: “Io non ce la faccio più con<br />

lui. L’ultima volta a Tulsipara mi ha fatto digiunare con lui un’intera<br />

giornata: solo acqua e anche quella cattiva. Mi assicurava che col<br />

8 Citato da varie fonti fra le quale il volume Bangladesh Jindabad!.<br />

67


68<br />

nostro digiuno di penitenza avremmo ottenuta la grazia del ritorno<br />

di una famiglia che aveva apostatato dalla fede”.<br />

“Magnifico! E dopo il vostro digiuno sono ritornati?”.<br />

“Sì, dopo due giorni li abbiamo incontrati nella cappella di Kistopur”.<br />

Capito che razza d’un santo? Troppo all’antica? Digiuni, preghiere,<br />

prediche e giaculatorie soltanto? Sbagli di grosso se la pensi così.<br />

Nei villaggi lui osservava le donne a fare la spola, cariche di grosse<br />

anfore, tra la casa e il “pukur” (laghetto) vicino, nel quale vedeva<br />

anche bufali e buoi godersi beati il fresco dell’acqua, mentre i pastorelli<br />

spensierati giocavano in gare di nuoto. Poi, ahimè, dolori di<br />

pancia tremendi, diarrea e vomito, amebe e vermi a non finire.<br />

“Qui ci vuole una pompa per questa gente altro che pillole. Il<br />

“pukur” lasciamolo ai buoi!”, grida il Mario. Detto, fatto. Scrive in<br />

Italia ai suoi benefattori, va in città, compra le canne ed eccoti l’acqua<br />

pura, ridente, salubre sgorgare dal sottosuolo! Decine di pompe<br />

in decine di villaggi. Insieme con la grazia soprannaturale dell’acqua<br />

battesimale, la grazia naturalissima dell’acqua potabile. Evviva<br />

il Mario, il missionario delle pompe!<br />

E così la parrocchia, innaffiata da quelle acque limpide, s’ingrandisce<br />

sempre di più. In una decina d’anni la popolazione della parrocchia<br />

s’era quintuplicata. Una quarantina di villaggi cristiani da visitare<br />

mentre altri non cristiani chiedevano la nostra visita. Pressante<br />

quindi la necessità di aprire un nuovo centro per servire con maggior<br />

facilità ed efficienza tutta la gente della zona.<br />

Il lavoro tra gli Hari non è facile. Sono indù di bassa casta, poveri<br />

in canna. Harijan, come li chiamava la buonanima di Gandhi, cioè<br />

“figli di Dio”, perché solo Dio si cura di loro. Di costumi piuttosto<br />

facili. Seguendo l’antico costume indù, fanno matrimoni precoci,<br />

causa poi di eventuali interminabili liti tra i vari suoceri e capivillaggio.<br />

Amano intensamente i loro bambini. Il bambino, per gli hari, è<br />

il re della famiglia: a lui tutto è concesso. Capita così che al ragazzino<br />

coccolato, viziato dai genitori, non piace andare a scuola: con<br />

il loro stupido consenso rimarrà analfabeta, non si potrà mai rendere<br />

conto della sua dignità umana, rimarrà un harijan per tutta la vita.<br />

P. Mario ha capito la situazione critica: senza educazione si farà un<br />

buco nell’acqua, forza dunque all’educazione quell’esercito di<br />

monelli! Ne arruola un centinaio e te li spedisce al nostro ostello del<br />

centro Diocesano di Dinajpur. Non possono pagare la retta? Ci pen-


sa lui. Nel termine di una quindicina di anni molti di quei mocciosetti<br />

indisciplinati diventano persone istruite, educate, abili a svolgere<br />

impieghi dignitosi, redditizi.<br />

P. Mario è pieno di gioia. La nostra eredità (ottomila nuovi cristiani<br />

nelle due parrocchie di Ruhea e Thakurgaon) è sicura ormai in<br />

nuove buone mani. I preti locali, gli ex mocciosetti, ex discoletti se<br />

ne occuperanno... Lui è stanco ormai: il suo cuore non regge più al<br />

lavoro intenso del Bangladesh. Qualche anno in Italia, a Busto Arsizio,<br />

a pregare per i suoi bengalesi e poi, in punta di piedi, se ne va<br />

a consultare la pagina “Pakistan-Bangladesh” del registro di San<br />

Pietro, meglio ad ispezionarla, dato che lui era ragioniere. Mica<br />

male! Ottomila battesimi uguale a “otto più” in condotta. Con l’aggiunta<br />

dello “straordinario” si arriva a “dieci”. Più il “premio” per<br />

zona pericolosa “musulmana” e siamo al “dieci maxima cum laude”.<br />

Bravo Mario! Bravissimo.<br />

69


3.<br />

IL PRIMO RITORNO IN ITALIA<br />

A metà degli anni cinquanta inizia per i missionari del Pime<br />

(anzi per tutti i missionari) la rivoluzione del ritorno in patria<br />

dopo dieci anni di lavoro in missione, poco dopo portati a otto,<br />

poi a cinque e oggi a tre. Una rivoluzione indispensabile perché<br />

la Chiesa e la missione stavano radicalmente cambiando:<br />

l’“aggiornamento” del missionario diventava un imperativo per<br />

tutti. Prima, il missionario partiva per non tornare mai più in<br />

patria. La tradizione nel Pime era forte e coltivata con cura dai<br />

vecchi missionari (ancor oggi ne abbiamo alcuni che da più di<br />

mezzo secolo non sono tornati in Italia), come segno di fedeltà<br />

alla vocazione missionaria. Nel 2003 ho scritto la biografia di<br />

padre Alfredo Cremonesi, missionario di Crema in Birmania<br />

morto martire nel 1953 a 51 anni, di cui è stata iniziata la causa<br />

di canonizzazione. Figura affascinante, avventurosa, poetica. Cremonesi<br />

ha scritto molte e interessanti lettere su questo tema: partire<br />

per non più tornare, non voltarsi indietro, fare il sacrificio<br />

estremo di non veder più i genitori e la patria, come lui ha fatto<br />

nonostante le forti pressioni ricevute dalla famiglia. Scriveva che<br />

sarebbe tornato solo se glie lo comandavano il vescovo e i superiori<br />

dell’Istituto, nonostante le necessità dei suoi cari 1 . Padre<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> fa parte della generazione successiva a quella di<br />

padre Cremonesi. In Italia c’è tornato più volte.<br />

1 GHEDDO P., Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo (1902-<br />

1953), Emi, Bologna 2003, pp. 235.<br />

71


Sfuma il sogno di convertire i Khotryio<br />

L’avventura apostolicamente più interessante, che padre<br />

<strong>Pesce</strong> ha vissuto a Ruhea e di cui ci ha lasciato il ricordo, è l’inizio<br />

del movimento di conversione dei Khotryio, una delle tante<br />

caste e sottocaste del mondo religioso e sociale dell’induismo. Il<br />

Bengala indiano, dove incomincia l’avventura, era a quei tempi<br />

politicamente dominato dal Partito comunista bengalese, al potere<br />

nella capitale dello stato del Bengala indiano, Calcutta. L’influsso<br />

politico ma anche culturale del comunismo si estendeva<br />

anche al di là dei confini del Pakistan orientale, cioè nel Bengala<br />

pakistano a grande maggioranza islamico (futuro Bangladesh).<br />

Tutto comincia quando la propaganda del Partito convince i<br />

membri delle caste più basse che ogni uomo è comunque un<br />

uomo, sia un bramino che uno spazzino. Quindi bisogna coraggiosamente<br />

violare le regole che governano il sistema delle caste:<br />

la separazione assoluta (“apartheid”) fra i membri delle varie<br />

caste, secondo la quale i membri delle basse caste (o i fuoricasta)<br />

non possono impunemente toccare quelli delle altre caste o, peggio<br />

ancora, mangiare con loro.<br />

Un “thakur” (santone) dei Khotryio, per mostrare pubblicamente<br />

la sua ribellione contro il sistema delle caste, in un affollatissimo<br />

mercato nel villaggio di Bhamradaha, prende una focaccia<br />

dal banchetto di un paria e se la mangia. Il povero “Thakur”<br />

è immediatamente ostracizzato, non solo dai membri delle alte<br />

caste, ma anche da quelli delle caste inferiori. Ma questo gesto fa<br />

riflettere molti. Avanza tra i poveri una mentalità nuova, rivoluzionaria<br />

rispetto al sistema delle caste e favorevole al Partito<br />

comunista che ha innescato questo processo di coscientizzazione.<br />

Gli anziani e le donne obiettano che le pratiche religiose tradizionali<br />

non si possono abolire; gli attivisti comunisti rispondono:<br />

“L’Italia è il paese che ha il maggior numero di comunisti, eppure<br />

è anche il miglior paese cristiano al mondo”.<br />

Così, senza che padre <strong>Cesare</strong> sapesse nulla, i Khotryio decidono<br />

di entrare nel Partito comunista e di farsi cristiani e organizzano<br />

a Ruhea una grande assemblea a cui invitano il missionario<br />

e il suo catechista Mahonto a spiegare chiaramente la religio-<br />

72


ne cristiana e la posizione della Chiesa riguardo alle caste e alla<br />

società indiana. Mahonto fa un discorso che padre <strong>Cesare</strong> definisce<br />

“brillante”: insiste sulla predilezione di Gesù per i poveri, per<br />

i fuori casta, in una società in cui comandano i ricchi e i potenti,<br />

suscitando impressione positiva nella gente.<br />

Dopo alcune settimane, il missionario e il suo catechista sono<br />

invitati a celebrare i servizi cristiani in tre cappelle che i Khotryio<br />

avevano costruito nei loro villaggi. Poi, nel tempo natalizio, essi<br />

invitano i Khotryio alle cerimonie in un villaggio cristiano: rimangono<br />

stupiti per la solennità e la gioiosità di quei riti e di avere la<br />

possibilità di pregare con i cristiani, recitando preghiere così belle.<br />

Intanto il “thakur” (santone) da cui è nato il movimento, incomincia<br />

a prendere parte alle riunioni mensili dei catechisti che si<br />

tengono a Ruhea ed esprime il desiderio non solo di essere battezzato,<br />

ma di diventare catechista presso i Khotryio e gli indù di<br />

bassa casta. Padre <strong>Pesce</strong> è felice e lo manda da padre Ferdinando<br />

Sozzi che in 15 giorni lo restituisce dopo averlo tenuto con sé<br />

e istruito nella fede e nella preghiera cristiana.<br />

Tutto troppo bello e splendido per essere vero! – commenta padre<br />

<strong>Cesare</strong>. – Io avevo paura di tanta euforia e nell’anticamera del mio<br />

cervello girava un detto latino che mi tornava spesso alla mente: “In<br />

cauda venenum!” (il veleno sta nella coda!). Purtroppo ho dovuto<br />

imparare che spesso sensazioni di questo tipo portano a qualcosa di<br />

spiacevole.<br />

Infatti, un bel mattino dopo la Messa, Mahonto gli dice:<br />

Notizie brutte dai Khotryio. La settimana scorsa è morto il piccolo<br />

figlio del “thakur” e nel villaggio si mormora che questa è la<br />

vendetta degli dei contro chi ha abiurato la fede indù. Il thakur<br />

non solo ha dovuto sopportare la sofferenza per la morte del figlio,<br />

ma anche gli insulti della sua gente. Rimangono con noi solo il vecchio<br />

carpentiere e sua moglie. Inoltre ieri sera un gruppo di quelli<br />

che hanno costruito le cappelle sono venuti a dirmi che non possono<br />

entrare nella Chiesa perché i proprietari delle terre su cui<br />

hanno costruito le loro povere capanne, minacciano di buttarli sulla<br />

strada.<br />

73


Il catechista vorrebbe denunziare i proprietari di terre al tribunale<br />

pakistano, ma padre <strong>Cesare</strong> non è d’accordo. Non è bene<br />

creare altre inimicizie alla missione. Se si va in tribunale, la questione<br />

diventa lunga e finirà per esasperare i rapporti con il mondo<br />

non cristiano. Dice a Mahonto: “I Khotryio hanno aspettato<br />

tanto per incontrare Cristo, aspetteranno ancora. Aspettiamo<br />

anche noi” 2 .<br />

“Dopo tredici anni, per adesso può bastare”<br />

È il 1960. Il sogno di convertire i Khotryio sfuma in un attimo<br />

per un motivo assurdo. È una pesante sconfitta che pesa sull’animo<br />

di padre <strong>Pesce</strong>: ne esce umiliato e prostrato sia fisicamente<br />

che psicologicamente. Aveva pregato e nutrito grandi disegni<br />

su questa bassa casta indù che voleva entrare nella Chiesa: poteva<br />

essere l’inizio di un cammino nuovo nell’apostolato in Bengala.<br />

Non più solo tribali che vivono (vivevano) nelle foreste, separati<br />

dalla società bengalese, ma anche indiani, indù. Invece, nulla.<br />

La morte del bambino del thakur, il capofila di quelli che volevano<br />

diventare cristiani, è interpretata secondo la mentalità pagana:<br />

gli dei indù si sono vendicati. E <strong>Cesare</strong> vede crollare tutto il<br />

castello di sogni e speranze che aveva costruito nella sua testa, nel<br />

suo cuore e che sicuramente aveva comunicato ai confratelli, al<br />

vescovo. Un fatto quasi assurdo, difficile da digerire. Pregando e<br />

riflettendo scrive:<br />

74<br />

Un contadino non è mai arrabbiato quando semina e io ho semplicemente<br />

seminato. Altri raccoglierà. Il maestro Theilard de Chardin<br />

diceva: ‘Ogni cosa avviene per un domani migliore’. E allora, perché<br />

lamentarsi?...<br />

Dopo dodici anni ininterrotti di vita con questa realtà tanto diversa<br />

dalla mia e tanto difficile, con le caste differenti, le varie tribù: hari,<br />

2 Chi raccoglierà i frutti di questa semina sarà padre Luigi Pinos, che negli<br />

anni ottanta e novanta entrerà ancora in contatto con i Khotryio e otterrà conversioni.


santal, oraon, risi, metors, ciascuna con le proprie abitudini, tradizioni,<br />

usanze talvolta noiose, divertenti... Una realtà di fratelli sparpagliati<br />

in una miriade di piccoli villaggi sperduti e difficili persino<br />

da trovare... Sognavo il panorama delle mie vallate sull’Appennino<br />

ligure, l’aria salmastra proveniente dal Mar Ligure. Un giorno consultai<br />

i registri dei battesimi e vidi che dal 1952 avevo amministrato<br />

oltre tremila battesimi; nel 1959 (l’anno migliore) circa 300 battesimi.<br />

Questa volta dissi a me stesso: per adesso può davvero bastare.<br />

Fa’ il tuo fagotto e va’... Era la prima volta che questa frase veniva<br />

pronunziata da me in Bengala. Così partii per Novi Ligure, con<br />

già in tasca il biglietto del mio ritorno e nel mio cuore uno splendido<br />

sogno.<br />

Quando padre <strong>Cesare</strong> sbarca dall’aereo a Roma, l’Italia non è<br />

più quella che aveva lasciato dodici anni prima. Era partito nel<br />

1948, con un paese distrutto dalla guerra, ancor molto povero,<br />

radicalmente diviso e attraversato da odi, vendette e violenze.<br />

Dopo dodici anni in Bengala, il missionario di Tortona scrive 3 :<br />

Arrivo a Roma e tutto mi stupisce: un altro mondo per me. Parlo<br />

italiano, ma a volte mi intoppo, non mi viene subito la parola... E<br />

che differenza con le mie abitudini e mentalità acquisite in Bengala.<br />

Gli amici mi invitano a pranzo e non riesco a far onore alla tavola.<br />

Mi invitano a parlare dei miei dodici anni passati laggiù e io,<br />

dopo le prime battute, rimango impappinato, nel dubbio che mi<br />

prendano per uno che le sballa grosse. Mi invitano a fare qualche<br />

conferenza e alla fine gli organizzatori mi rimproverano: “Ma perchè<br />

non parli dell’infelicità, della miseria, dei morti di fame, dei<br />

sacrifici che fai laggiù?”. Sacrifici? Come se buttar giù tutti gli antipasti<br />

sofisticati e sti piattoni di ogni ben di Dio, pesanti come il<br />

piombo, per poi ingoiare medicine amare come il tossico nel tentativo<br />

di combattere il colesterolo, non fossero sacrifici più grossi!<br />

Questa la prima impressione, ma poi <strong>Cesare</strong> si ambienta nuovamente<br />

in Italia, anche se non vuole parlare della miseria dei<br />

3 In Le Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989,<br />

p. 65.<br />

75


engalesi, per non dare un’immagine errata della sua nuova patria<br />

e del suo carissimo popolo. In un’intervista a «Il Popolo di Novi<br />

Ligure» dice 4 :<br />

Sono tornato volentieri, ma il mio pensiero è sempre là, alla missione...<br />

Mi fermo in Italia sei mesi, ma le dico che ho lasciato il cuore<br />

a Ruhea. E se è umana la gioia di ritrovarsi in questa breve parentesi<br />

coi parenti e gli amici, sento che la mia vita è laggiù, dove ho<br />

piantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensioni<br />

così sconfinate, che non saprei concepirlo né più bello, né più entusiasmante.<br />

Otto mesi passano in fretta e <strong>Pesce</strong> si ritrova sul piede di partenza<br />

nel dicembre 1960. Notare che è aumentato di 15 chili e che<br />

il portafoglio è pieno dei generosi aiuti di parenti e amici. Adesso<br />

gli spiace lasciare la patria, ma parte con entusiasmo perché ha<br />

dei piani per la missione di Ruhea, che spera di mettere in atto<br />

con l’amico padre Mario Alvigini, suo condiocesano di Tortona.<br />

Quando giunge alla missione, in pochi giorni si accorge che padre<br />

Mario<br />

durante la mia assenza, aveva svolto uno splendido lavoro. Pensavo:<br />

lasciamolo continuare col suo entusiasmo e il suo sistema, che ha<br />

dato così eccellenti risultati, io andrò più a sud, come Lot lasciò<br />

Abramo per andare nella valle del Giordano. Oltre tutto, la città di<br />

Thakurgaon si stava sviluppando velocemente e per la Chiesa era<br />

davvero indispensabile essere presente, senza altri indugi.<br />

Il pranzo di Natale fugge nella giungla<br />

La vita di padre <strong>Cesare</strong> era veramente fondata sulla fede.<br />

Questo viene fuori da un dato di fatto basilare, dimostrato da tanti<br />

episodi precisi: era a servizio del Regno di Dio e non del proprio<br />

interesse. Ecco perché, quando si rende conto che a Ruhea<br />

76<br />

4 «Il Popolo di Novi Ligure», 3 aprile 1960.


padre Alvigini fa “uno splendido lavoro”, invece di arroccarsi<br />

nella parrocchia che ha fondato e dove ormai si è “sistemato”,<br />

abbandona a poco a poco Ruhea nelle mani del giovane missionario<br />

e fissa la sua residenza a Thakurgaon, ricominciando da<br />

capo la fondazione di una nuova missione, con tutte le difficoltà<br />

che questo comporta: acquisto del terreno, costruzione della prima<br />

residenza e della cappella, della scuola e della casa per le suore,<br />

presa di contatto con i gruppi di cristiani dispersi nel mare<br />

islamico, formazione dei catechisti, visita ai villaggi annunziando<br />

e testimoniando la carità di Cristo...<br />

Ha solo 41 anni, le forze e l’entusiasmo non gli mancano.<br />

Anche la Provvidenza si ricorda di lui: a Novi Ligure gli hanno<br />

regalato una macchina per fare i mattoni e gli “Amici di Don<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>” di Voghera gli mandano addirittura una sufficiente<br />

quantità di cemento per la prima costruzione, “che arrivò come<br />

acqua benedetta in un deserto, data la quasi impossibilità di comprare<br />

cemento sul posto”. Dio l’aiuta a trovare un buon capomastro<br />

“bihari” (musulmani fuggiti dall’India durante il periodo della<br />

partizione del territorio fra India e Pakistan nel 1947), che si<br />

prodiga a insegnare il mestiere “agli inesperti operai, che per la<br />

prima volta costruivano in cemento e mattoni e non in paglia e<br />

fango”.<br />

Ogni giorno, all’alba, arrivavo a Thakurgaon in treno o in motocicletta<br />

e alla sera tornavo a Ruhea, talvolta con lunghi tratti a piedi,<br />

quando la moto non voleva procedere nel viscido fango. Che incredibili<br />

fatiche! Ma alla fine potevo dire: “Grazie, mio Dio! Grazie<br />

ancora di tutto. Ora, per favore fammi dormire in pace in questo<br />

piccolo buco che ho riservato per me nella veranda e tu puoi prenderti<br />

la stanza grande che adesso sarà adibita a chiesa, ma in futuro<br />

servirà da ufficio e da stanza da letto”.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> rimane a Thakurgaon fino all’estate 1965. Nel<br />

Natale 1964 sono andato a trovarlo, dopo essere stato da Alvigini<br />

a Ruhea. La missione era ancora formata dalla semplice casetta<br />

del missionario, con una cappella provvisoria e un bel terreno<br />

sulla strada e verso la campagna, dove stava sorgendo la scuola.<br />

In occasione del Natale 1964 qualche centinaio di cattolici triba-<br />

77


li (santal e oraon) sono venuti alla missione per celebrare assieme<br />

la grande festa di Gesù e per fare i loro incontri annuali, sia religiosi<br />

che civili.<br />

Rimangono nella missione due notti, in pratica circa tre giorni,<br />

dormono sotto tettoie di paglia, per terra, su stuoie di bambù.<br />

Nel cortile hanno costruito delle tettoie di bambù e paglia; ovunque<br />

festoni di carta colorata, sulla facciata della chiesa una grande<br />

stella di Natale illuminata, visibile nella notte anche da lontano.<br />

Il momento forte della festa, oltre alla Messa solenne della<br />

vigilia e quella del mattino di Natale, è il pranzo comunitario a<br />

mezzogiorno. Le feste riescono bene quando si può mangiare a<br />

crepapelle. La missione ha preparato quintali di riso e poi verdure,<br />

frutta, peperoncino (per la salsa piccante), miele, zucchero e<br />

farina per i dolci. I tribali hanno portato dai loro villaggi in foresta<br />

sei cinghiali catturati in trappole, vivi. Sono nel recinto, verranno<br />

uccisi il mattino di Natale per il pranzo. Secondo la tradizione<br />

dei cacciatori oraon e santal, il cinghiale catturato in foresta<br />

con l’inganno non può essere macellato a freddo. Deve poter<br />

fuggire, avere una via di scampo, e poi cacciato e ucciso.<br />

Così il mattino di Natale, dopo la Messa all’alba, un rullo di<br />

tamburi segna l’inizio della caccia. I cinghiali escono uno per uno<br />

dal recinto, si lanciano pancia a terra verso la vicina foresta, ma,<br />

quando il capo-caccia dà il segnale abbassando una bandierina,<br />

cadono trafitti da varie frecce scoccate anche da notevole distanza<br />

dai cacciatori, che sono una decina posti in varie parti del terreno,<br />

quindi non devono sbagliare. L’ultimo cinghiale, il più grosso,<br />

riserva una sorpresa. Appena uscito, invece di fuggire, si pianta<br />

sulle quattro zampe fuori del recinto, sta fermo e muggisce<br />

minaccioso. Forse ha capito che se scappa come i cinghialetti che<br />

l’hanno preceduto, è finito. Ma come si fa a tirare su un animale<br />

che non fugge? Sarebbe una vergogna per questo popolo di cacciatori.<br />

Cercano di stimolarlo, ma il cinghiale grugnisce di brutto<br />

e manda a gambe levate due giovani che gli si sono avvicinati<br />

troppo, con della paglia incendiata per mettergliela sotto la pancia.<br />

Il capo-caccia non sa cosa fare.<br />

La gente ormai ride, la tensione si allenta, i cacciatori abbassano<br />

l’arco. Allora il grosso cinghiale, improvvisamente, parte<br />

78


sparato come un razzo, travolge alcuni che erano sulla sua via e<br />

scompare nella vicina foresta. Impossibile mettersi a mangiare in<br />

quelle condizioni di spirito. La fuga del cinghiale è uno scacco<br />

per i tribali che hanno fama di formidabili cacciatori; per di più,<br />

i musulmani, che sono la maggioranza a Thakurgaon, sono venuti<br />

numerosi ai bordi del cortile e campo da pallone per vedere la<br />

festa e se raccontano questa incredibile sconfitta dei cristiani, ne<br />

va di mezzo anche l’onore della fede e della Chiesa… I capi organizzano<br />

cinque squadre di battitori e dicono: “Non si mangia finché<br />

il cinghiale non è abbattuto”.<br />

La caccia in foresta dura fino alle quattro del pomeriggio.<br />

Lunga l’attesa, ma trionfale il momento del ritorno dei cacciatori,<br />

che mostrano il grosso cinghiale penzolante da due lunghe e<br />

grosse aste di bambù portate a spalla da otto uomini. La gioia<br />

esplosiva dei tribali non conosce limiti. Un pranzo di Natale da<br />

ricordare per generazioni. Si è continuato a mangiare fino a notte,<br />

con canti e danze, al chiarore della luna piena.<br />

Inventa il “Concorso biblico per corrispondenza”<br />

All’inizio del 1965, <strong>Cesare</strong> incomincia a scavare per le fondamenta<br />

della nuova chiesa di Thakurgaon. Ma, come sappiamo, la<br />

situazione di padre <strong>Pesce</strong> è spesso questa: quando ha fatto i suoi<br />

piani e si crede sistemato, ecco che qualcosa lo sbalza da cavallo<br />

e deve ricominciare da capo. Nell’estate 1965, fra India e Pakistan<br />

scoppia uno dei tanti incidenti di frontiera che a volte portano<br />

ad un conflitto più o meno vasto e duraturo. La cittadina di<br />

Thakurgaon è vicina al confine dell’India e il governatore della<br />

provincia ordina a tutti gli stranieri (“per la loro sicurezza”) di<br />

lasciare il paese. È un nuovo “Fa’ il tuo fagotto e va’” (“Pack up<br />

and go”) come spesso succede nella vita di padre <strong>Cesare</strong>.<br />

Il Signore però gli risparmia l’umiliazione di dover tornare<br />

una seconda volta in Italia. Così, andato a Dacca, l’arcivescovo<br />

ottiene il permesso dalle autorità di trattenerlo mandandolo nella<br />

missione di Mothbari, vicina alla capitale, per aiutare un<br />

anziano e ammalato missionario americano, “ben felice di trova-<br />

79


e in me un assistente”, scrive <strong>Cesare</strong>. Anche a Mothbari si trova<br />

coinvolto in una costruzione impegnativa: una nuova grande<br />

scuola.<br />

Ogni giorno mi svegliavo all’alba e andavo in giro, in motocicletta,<br />

nei vari villaggi per le confessioni, le messe, qualche parola veloce,<br />

per poi tornare a dirigere i lavori della scuola... Secondo il mio solito,<br />

lavoro specialmente tra i ragazzi e le ragazze della scuola, pensando<br />

al bene spirituale e umano di queste 1400 anime. Tutto sommato<br />

mi trovo bene, ma il pensiero della mia chiesetta lasciata a<br />

metà, là sulla strada che unisce la cittadina alla stazione ferroviaria<br />

di Thakurgaon, alla scuola nuova non del tutto finita, mi fa stare un<br />

po’ in ansia. Pazienza!<br />

Padre <strong>Pesce</strong> comunica poi al Superiore generale 5 che i suoi<br />

alunni di Thakurgaon hanno preso tre delle quattro medaglie<br />

d’oro nel concorso catechistico diocesano 1965: così gli scrive il<br />

presidente diocesano dell’Azione Cattolica di Dinajpur. Invece, a<br />

Mothbari, <strong>Cesare</strong> studia un nuovo sistema di insegnamento del<br />

catechismo. Scrive:<br />

Non ero affatto soddisfatto di me stesso. La mia eccessiva passione<br />

per i mattoni e le costruzioni stava diventando pericolosa per me!<br />

Allora cercai di realizzare qualcosa di esclusivamente religioso, che<br />

potesse attrarre di più gli uomini verso Dio.<br />

Così, leggendo il «Morning News» di Dacca si accorge che il<br />

quotidiano sta facendo un concorso sulla lingua bengalese, proponendo<br />

ai lettori vari quiz per dimostrare di conoscere bene la<br />

lingua nazionale. Questo lo ispira per una iniziativa intitolata<br />

“Bible Contest by Correspondence”, Concorso biblico per corrispondenza.<br />

Con l’aiuto della catechista suor Vincenza, prepara<br />

uno schema di regole chiare e precise per i partecipanti, con le<br />

norme del concorso, gli esami finali, i premi, ecc. Quando ritorna<br />

a Thakurgaon nell’estate 1966, <strong>Cesare</strong> stampa centinaia di<br />

80<br />

5 Lettera da Mothbari a mons. Aristide Pirovano del 28 dicembre 1965.


volantini e li manda a tutte le parrocchie e organizzazioni diocesane<br />

di Dinajpur: riceve in breve più di mille adesioni e iscrizioni,<br />

dalle scuole elementari fino alle superiori e agli adulti.<br />

Era per me un’ottima cosa avere il modo di occupare il mio tempo<br />

in modo piacevole e utile, nelle lunghe serate di solitudine: esaminavo<br />

e correggevo ogni foglio, dando le relative valutazioni. Ero felice<br />

di questa mia iniziativa che, grazie a Dio e anche grazie ai molti<br />

collaboratori, stava dando risultati insperati.<br />

Confortante anche il progresso della missione e della città di<br />

Thakurgaon. Terminata la costruzione della chiesa e dell’edificio<br />

destinato a scuola: “Ero felice nel vedere questi fabbricati, bagnati<br />

dal mio sudore, nei luoghi in cui appena qualche anno prima<br />

andavo a cacciare nella giungla qualche cinghiale per il Natale”.<br />

Intanto, “la mia piccola Thakurgaon si trasformava da un brutto<br />

villaggio in una città, con scuole, palazzi, negozi e attrezzature<br />

moderne”.<br />

Segretario di «Mani Tese» a Milano<br />

Ma ancora una volta, come sempre, quando <strong>Cesare</strong> incomincia<br />

ad avvertire che finalmente si sta realizzando nei suoi piani di<br />

sviluppo della missione, ecco che arriva l’imprevisto: “Fa’ il tuo<br />

fagotto e va’!”. Nel 1968 mons. Giuseppe Obert, vescovo di<br />

Dinajpur dà le dimissioni 6 e la Nunziatura avvia l’inchiesta fra i<br />

sacerdoti diocesani per conoscere una terna di nomi fra i quali<br />

scegliere il nuovo vescovo. Padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> risulta il primo<br />

della terna fra i diocesani: il vescovo poi sarà scelto fuori diocesi,<br />

il bengalese mons. Michael Rozario, oggi arcivescovo di Dacca.<br />

Ma il fatto è significativo della stima di cui godeva padre <strong>Cesare</strong><br />

tra il clero diocesano, anche locale, nella sua diocesi.<br />

6 Mons. Obert era nato a Lignod di Ayas in Valle d’Aosta nel 1890, nel 1968<br />

aveva 78 anni. Morì in Italia nel 1972.<br />

81


Il superiore generale del Pime, mons. Aristide Pirovano,<br />

richiama temporaneamente <strong>Pesce</strong> in Italia per dirigere l’associazione<br />

“Mani Tese”, nata nel 1963 al Centro missionario del Pime<br />

a Milano. In quegli anni in Italia furoreggiava la “Campagna contro<br />

la fame nel mondo”, lanciata dalla Fao nel 1960 e subito cordialmente<br />

appoggiata da Giovanni XXIII. La rivista «Le Missioni<br />

Cattoliche», di cui ero direttore (oggi «Mondo e Missione»), si<br />

impegnò fortemente con servizi giornalistici e studi a documentare<br />

la tragedia del mondo moderno, di cui solo allora si prendeva<br />

coscienza: il mondo spaccato in due fra un Nord sviluppato,<br />

democratico, pacifico, istruito e un Sud affamato e afflitto da<br />

guerre, dittature, analfabetismo, ecc.<br />

Anni appassionanti per noi missionari in Italia: eravamo continuamente<br />

invitati a parlare in parrocchie, scuole, associazioni,<br />

centri culturali, comuni, università, radio, televisioni e via dicendo.<br />

Così, nella primavera 1963 sono stato, con i padri Amelio<br />

Crotti, Giacomo Girardi e Carlo Torriani, tra i fondatori di “Mani<br />

Tese” (il titolo era quello di una rubrica di aiuti ai missionari della<br />

rivista per gli adolescenti «Italia Missionaria»): un’associazione<br />

laicale di sostegno al Pime nella campagna contro la fame, con<br />

mostre, conferenze, visite alle scuole, articoli, ecc. A fondamento<br />

di Mani Tese c’era ogni settimana un incontro spirituale (lettura<br />

della Bibbia e preghiera) e organizzativo, poi il contatto con i missionari<br />

reduci e sul campo per avere notizie, fotografie e progetti<br />

di sviluppo da finanziare.<br />

All’inizio Mani Tese, il primo organismo nato in Italia per la<br />

campagna contro la fame, venne lanciato da giornali e radio-televisioni<br />

ed ebbe una diffusione rapidissima e imprevista in ogni<br />

parte del nostro paese. Nascevano spontaneamente gruppi con<br />

questo nome, che si costituivano in diocesi e parrocchie, ma<br />

anche in scuole, comuni, industrie, banche, ambienti laici; e poi<br />

avvisavano il nostro Centro missionario a Milano e chiedevano di<br />

assisterli, di mandare materiale, visitarli. Tanto che, nel 1966 il<br />

superiore generale del Pime, mons. Aristide Pirovano, chiede agli<br />

altri tre istituti missionari italiani (Comboniani, Saveriani e Consolata)<br />

di associarsi al Centro missionario Pime di Milano per<br />

rispondere a queste richieste di assistenza, conferenze, progetti di<br />

82


sviluppo. Mani Tese diventa in pochi anni un’associazione diffusa<br />

ovunque: finanziava progetti di sviluppo (“micro-realizzazioni”),<br />

organizzava campi di lavoro per giovani, congressi e conferenze,<br />

pubblicava libri, riviste e manifesti, visitava scuole e ditte, ecc.<br />

Quando nel maggio 1969 entra in campo padre <strong>Pesce</strong>, era da<br />

poco scoppiato il “Sessantotto” e Mani Tese stava sfuggendo di<br />

mano agli Istituti missionari, che nel 1976 si ritirano lasciando<br />

liberi i laici di continuare nell’impostazione politicizzata che i<br />

missionari non condividevano: da associazione di preghiera per le<br />

missioni e di aiuto ai popoli poveri attraverso il finanziamento di<br />

micro-progetti proposti dai missionari, stava diventando un movimento<br />

politicizzato “sessantottino”, secondo la moda culturale di<br />

quel tempo. Anni dopo padre <strong>Pesce</strong> dice in un’intervista 7 :<br />

La metodologia un po’ troppo “filantropica” di Mani Tese non collimava<br />

pienamente con la dimensione più “verticale”, verso Dio,<br />

che è la mia e a cui non volevo rinunziare.<br />

Personalmente, io sono l’unico del Pime e fra i missionari italiani<br />

che ha vissuto ininterrottamente in Mani Tese gli anni dal<br />

1963 al 1976 (all’inizio ero direttore delle pubblicazioni e animatore)<br />

e li ricordo con un po’ di nostalgia, ma anche come un tempo<br />

di sbandamento collettivo: quasi tutte le sere ero invitato in<br />

qualcuno dei circa 80 gruppi che si erano costituiti in Lombardia<br />

a discutere non di fame, di aiuti allo sviluppo e di micro-realizzazioni,<br />

ma sui disastri del capitalismo e le felici prospettive del<br />

socialismo (naturalmente il fallimento del comunismo dove<br />

governava era argomento tabù), rivoluzione violenta o non violenta<br />

(quasi tutti erano per la prima ipotesi!), Cuba, Che Guevara,<br />

Mao Tze Tung e la sua “rivoluzione culturale”, la “guerra antiimperialista”<br />

in Vietnam e le “guerriglie di liberazione” in Africa<br />

e America Latina, ecc.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> veniva dalle campagne del Bangladesh e aveva<br />

perso il contatto con la società italiana, ma soprattutto era rima-<br />

7 Intervista rilasciata a fratel Massimo Cattaneo, Dinajpur, 22 ottobre 2001<br />

(ciclostilato).<br />

83


sto un missionario autentico, non poteva approvare l’impostazione<br />

politicizzata e ideologizzata di Mani Tese: era cosciente che<br />

non aiutava i popoli poveri. Ecco due fatti da lui stesso raccontati<br />

8 :<br />

Un propagandista di Mani Tese rifiutò un milione dall’industriale<br />

De Agostini, perché ritenuto frutto di sfruttamento. Il presidente di<br />

Mani Tese, ing. Silvio Ghielmi, lo rimproverò: per colpa tua, domani<br />

molti bambini del terzo mondo moriranno di fame. Una sera criticavano<br />

Madre Teresa e le sue opere di carità. Prima di addormentarmi<br />

pensavo: “E quel poveraccio mendicante, nel momento della<br />

sua morte, invece del sorriso amorevole della suora, avrebbe forse<br />

sentito sul suo volto l’alito di un cane rognoso…”.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> non capisce questa logica “sessantottina”, fa difficoltà<br />

ad inserirsi nella bolgia di quegli anni; svolge il suo compito<br />

con grinta e coraggio, ma non può continuare a lungo. Il<br />

padre Venanzio Milani, comboniano, è stato segretario di “Mani<br />

Tese” dopo padre <strong>Pesce</strong> e mi dice (intervista del 10 giugno 2004):<br />

84<br />

Padre <strong>Cesare</strong> s’è trovato in grave difficoltà perché in quegli anni<br />

post-sessantotto i gruppi giovanili erano una baraonda. Io ero stato<br />

all’inizio di Mani Tese e poi sono entrato come segretario avendo<br />

già un’esperienza di gruppi giovanili di quegli anni. Avevo 31 anni<br />

e <strong>Cesare</strong> ne aveva 50, però con una bella esperienza di missione fra<br />

i poveri. Era un uomo cordiale, saggio, equilibrato. Infatti il personale<br />

della segreteria era contento di lui, soprattutto perché era uno<br />

dei pochi che aveva veramente esperienza di popoli poveri. Però, di<br />

fronte a tutta la rivoluzione di quegli anni, con proteste critiche,<br />

accuse, sostegno alle “guerre di liberazione”, non sapeva più che<br />

pesci pigliare. Inutilmente cercava di raccontare le sue esperienze,<br />

per far vedere che molte idee non erano giuste. Ma inutilmente, a<br />

quel tempo specie i giovani erano ammaliati dalle ideologie rivoluzionarie<br />

e spesso perdevano il senso della realtà.<br />

Però padre <strong>Pesce</strong> ha lasciato in tanti, e anche in me, un bel ricordo<br />

8 In «Infor-Pime», bollettino interno di collegamento fra i missionari del<br />

Pime, n. 36, aprile 1979, p. 14.


di saggezza, equilibrio e capacità di decidere: partiva dalla conoscenza<br />

della povertà e del terzo mondo, non dalle ideologie. Poi era<br />

un uomo cordiale e spirituale, sarebbe stato un buon segretario di<br />

Mani Tese, se non fosse capitato in momento quasi impossibile. Era<br />

un vero missionario, ma allora i missionari, se non dicevano quello<br />

che volevano quei gruppi scatenati, non erano ascoltati.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> approfitta di quel periodo in Italia per conseguire<br />

un diploma di teologia pastorale con specializzazione di<br />

catechetica, presso la Pontificia Università Lateranense a Roma 9 .<br />

E nel novembre 1970 ritorna in Bangladesh. Il 16 novembre scrive<br />

da Dinajpur a mons. Aristide Pirovano:<br />

Eccomi arrivato finalmente a Dinajpur, da dove a giorni partirò per<br />

la nuova destinazione nella giungla, lontano dal mondo civile o incivile...<br />

Che disastro in questo povero paese! Mi è parso più brutto di<br />

quando lo lasciai due anni fa... Sono arrivato con un’amarezza indicibile,<br />

ho ancora negli occhi lo spettacolo desolante degli slums<br />

(baraccopoli) di Bombay e Dacca... E mi rammarico di essere stato<br />

tentato di rimanere in Italia, abbandonando questa gente alla sua<br />

triste sorte 10 . E d’altra parte sono ancora tentato di essere perplesso<br />

sull’utilità, meglio, sul successo del nostro lavoro in un campo<br />

così enorme, sproporzionato alle nostre forze. Siamo una goccia<br />

d’acqua nell’oceano, realmente! Beh, faremo quel che possiamo,<br />

fidandoci della verità del Vangelo. Oggi sto vincendo le emozioni<br />

inevitabili e “tirem innanz”.<br />

La guerra per l’indipendenza del Bengala<br />

Intanto, giorni oscuri si preparano per il Bengala, allora<br />

“Pakistan orientale”: la guerra civile sta covando sotto la brace<br />

9 Diploma conseguito il 19 giugno 1970.<br />

10 Nel testo al computer Pack up and go padre <strong>Cesare</strong> scrive: “Sarebbe stato<br />

un atto di codardia restare in Italia quando il mio paese di adozione si trovava<br />

in enormi difficoltà. E così tornai nel Pakistan orientale, in tempo per poter<br />

dire: ‘Ci sono anch’io’”.<br />

85


del nazionalismo bengalese. Il Pakistan, nato nel 1947 per unire<br />

tutti i musulmani dell’India, che diventava indipendente dall’Inghilterra,<br />

si divideva in due tronconi separati dall’India stessa:<br />

Pakistan occidentale con la capitale nazionale Rawalpindi (oggi la<br />

città nuova di Islamabad) e Pakistan orientale con la capitale<br />

locale Dacca. Le due parti non si sono mai integrate ed era anche<br />

quasi impossibile integrarle! La classe dirigente, tutta del Pakistan<br />

occidentale, impone ai bengalesi la “lingua nazionale”, l’urdu,<br />

mentre in Bengala si parla e si scrive il bengalese, nobile lingua<br />

di elevata musicalità (la definiscono “l’italiano dell’Asia”)<br />

derivata dal sanscrito, con una letteratura di grande valore.<br />

È solo una delle prepotenze che le popolazioni del Pakistan<br />

occidentale (punjabi, pashtun, sindi, belucistani, ecc.) esercitano<br />

verso i bengalesi; così, mentre il Pakistan occidentale si sviluppa<br />

con industrie e molte opere pubbliche (strade, dighe, ferrovie,<br />

ecc.), la parte orientale del paese rimane povera e quasi abbandonata<br />

dal governo. L’opposizione cresce, specialmente dopo che il<br />

generale Yahya Khan, presidente del Pakistan, il 29 marzo 1969<br />

proclama la “legge marziale” per imporre la dittatura militare. La<br />

reazione nel Pakistan orientale è fortissima e alle elezioni politiche<br />

generali del 7 dicembre 1970 l’“Awami League”, guidata da<br />

Mujibur Rahman, conquista 167 seggi sui 169 riservati al Bengala;<br />

mentre nel Pakistan occidentale il “Partito del Popolo” di Zulfikar<br />

Ali Bhutto (opposizione ai militari) ottiene 83 seggi su un<br />

totale di 144. Nelle elezioni provinciali in Bengala la “Awami League”<br />

conquista 269 seggi su 279!<br />

Logicamente, secondo la volontà del popolo pakistano, Mujibur<br />

Rahman avrebbe dovuto diventare presidente del Pakistan.<br />

Ma spesso le elezioni vanno in un senso e la politica in un altro.<br />

L’assemblea nazionale è tramandata di settimana in settimana,<br />

finché nel marzo 1971 scoppia in Bengala la rivolta contro i militari<br />

e la burocrazia governativa del Pakistan occidentale. Le manifestazioni<br />

violente, con centinaia di morti, incendiano tutte le città<br />

e per la prima volta sventola una nuova bandiera: sullo sfondo<br />

verde, un disco rosso e la carta geografica schematizzata del Bengala.<br />

È il segno della volontà dei bengalesi: indipendenza o almeno<br />

autonomia totale dal Pakistan occidentale.<br />

86


Probabilmente, un paese come il Pakistan, diviso in due tronconi<br />

da 2000 chilometri di India, non aveva alcuna possibilità di<br />

sopravvivere. Ma l’errore madornale lo compie il presidente<br />

Yahya Khan, che dichiara: “Io sono un soldato, non un politico e<br />

come soldato ho il dovere di difendere l’integrità nazionale”; così,<br />

invece di scendere a patti con i bengalesi e trovare un compromesso,<br />

scatena una repressione feroce, con carneficine spaventose.<br />

Questa storia della guerra civile in Bengala è sconosciuta in<br />

Occidente, come tanti altri massacri del genere che succedono<br />

fuori del nostro mondo. Basti dire che nelle città venivano uccisi<br />

soprattutto studenti, intellettuali, professionisti, cioè le élites bengalesi:<br />

“In quei giorni – scriveva un missionario in una lettera del<br />

settembre 1971, riferendosi alla primavera precedente – bastava<br />

essere studenti e intellettuali, o con l’apparenza di intellettuali,<br />

per essere passati per le armi. L’Università di Dacca era diventata<br />

un cimitero”.<br />

Il 17 aprile 1971 l’indipendenza del Bengala viene proclamata<br />

in India, dove si instaura un governo in esilio: è la nascita del<br />

Bangladesh. Intanto la guerra civile continua feroce. Milioni di<br />

bengalesi, braccati dalle truppe pakistane, si rifugiano in 156<br />

campi profughi in India, dove il primo ministro, Indira Gandhi,<br />

attende il momento opportuno per intervenire contro il Pakistan,<br />

dal 1947 in conflitto con l’India, soprattutto a causa del Kashmir<br />

(ancor oggi diviso in due). Il 6 dicembre 1971, la Gandhi riconosce<br />

ufficialmente il Bangladesh e comanda alle truppe indiane di<br />

intervenire per sostenere i patrioti bengalesi (“mukti bahini”). Le<br />

truppe pakistane, lontane dalla loro base del Pakistan occidentale,<br />

non possono nulla contro l’esercito indiano. Il 16 dicembre<br />

1971, il generale A.K. Niasi accetta la loro resa quasi incondizionata.<br />

Le folle bengalesi deliranti acclamano l’eroe nazionale e<br />

“bongobondhu” (“padre della patria”) Mujibur Rahman, liberato<br />

dalla prigione: “Mujib joe, joe! Joe Bangla!”.<br />

Naturalmente, come sempre succede nelle guerre civili particolarmente<br />

sanguinose, alle feste per l’indipendenza seguono i tristi<br />

giorni delle vendette e dei massacri di ex-militari del Pakistan<br />

occidentale che non hanno fatto a tempo a ritornare nel loro paese<br />

(distante 2.000 chilometri!) e dei loro “collaborazionisti”,<br />

87


soprattutto i “bihari”, musulmani indiani fuggiti in Bengala nel<br />

1947-1948 dallo stato indiano di “Bihar”, per non rimanere nell’India<br />

indù dove si sentivano discriminati.<br />

La Chiesa cattolica, che nella guerra per l’indipendenza aveva<br />

protetto i partigiani bengalesi e la popolazione civile dalle violenze<br />

assurde dei militari pakistani, si impegna a fondo per ospitare,<br />

nascondere, proteggere i nuovi perdenti e perseguitati! Le<br />

missioni diventano centri di accoglienza di questi poveracci, molti<br />

dei quali riescono, grazie anche ai buoni uffici degli organismi<br />

dell’Onu e del governo stesso di Dacca, a uscire indenni dal Bangladesh.<br />

Nel dicembre 1970, appena giunto in Bengala, padre <strong>Cesare</strong><br />

è destinato dal vescovo a Mariampur, dove già aveva lavorato nei<br />

primi tempi della sua permanenza in missione. Scrive:<br />

88<br />

Dopo circa vent’anni passati al nord del Bengala, eccomi di nuovo<br />

a Mariampur. I miglioramenti sono visibili dappertutto. Le vecchie<br />

case dei soldati “bihari” ora hanno i loro giardini ordinati e curati<br />

e non mancano bellissimi alberi; la scuola della missione non è soltanto<br />

riparata, ma anche allargata, i laghetti vicini alle abitazioni dei<br />

santal sono pieni di pesci... Attorno alla chiesa dozzine di campi coltivati<br />

a riso che aspettano la mietitura.<br />

I miei vecchi conoscenti sono felici di incontrarmi di nuovo, dopo<br />

tanto tempo. Come assistente ho padre Gregorio Schiavi, sempre indaffarato<br />

con le sue motopompe, che mai si arrende di fronte a nessuna<br />

difficoltà. La sua presenza è una iniezione di fiducia e di sicurezza<br />

per eventuali pericoli. Vicino alla chiesa è stato costruito un<br />

nuovo convento per le suore di Maria Bambina. Ricordavo, vent’anni<br />

prima, suor Erminia che da sola e in compagnia di un enorme cane<br />

abitava in un tugurio diroccato e dispensava incessantemente parole<br />

di conforto e consigli a tutti, nel suo bengalese mischiato all’italiano<br />

germanizzato del suo dialetto trentino. Dopo vent’anni suor Erminia<br />

non è affatto cambiata, sempre uguale, sempre sorridente, forse un<br />

po’ più magra. Ma con lei adesso vi sono altre tre suore che lavorano<br />

nel dispensario medico dal mattino alla sera, ricevendo centinaia di<br />

persone, ascoltando pazientemente le loro pene e sofferenze fisiche,<br />

rassicurando quella povera gente, timorosa e impaurita dagli eventi<br />

che si stanno profilando all’orizzonte.


Testimone allibito di atrocità e massacri<br />

A Mariampur <strong>Pesce</strong> si trova bene, ma dalla quiete italiana<br />

(per modo di dire, in quei tempi di “contestazione”!) precipita in<br />

un periodo di emergenza grave per i venti di guerra che soffiano<br />

sul Bengala; e nel posto meno raccomandabile, cioè a poca<br />

distanza dalla frontiera con l’India. La rivolta dei bengalesi contro<br />

i soldati del Pakistan occidentale è ormai generale, la repressione<br />

militare durissima, la gente scappa in India, specie i tribali<br />

aborigeni e gli indù: finiscono negli affollati campi profughi che<br />

gli organismi internazionali hanno preparato. Persino il catechista<br />

più importante della missione di Mariampur chiede a padre<br />

<strong>Cesare</strong> di ricevere, lui e la sua famiglia, la Comunione come Viatico<br />

per poi scappare in India.<br />

Nella guerra civile dei bengalesi contro le truppe pakistane,<br />

diversi missionari del Pime hanno avuto avventure drammatiche,<br />

rischiando la vita e alcuni fuggendo in India, anche per assistere<br />

i profughi bengalesi nei campi di accoglienza. Padre Gregorio<br />

Schiavi è brutalmente preso e minacciato di morte dai militari,<br />

per aver protestato contro l’uccisione di civili; padre Adolfo<br />

L’Imperio pure lui arrestato per diverse ore e minacciato di morte.<br />

A Ruhea (diocesi di Dinajpur), il 24 aprile 1971 viene ucciso<br />

dai militari pakistani il sacerdote santal, don Luca Marandi, mentre<br />

il padre Mario Alvigini, che ha preso il posto di padre <strong>Pesce</strong><br />

a Thakurgaon, così racconta la sua storia 11 :<br />

Fino al 14 aprile (1971) sono stato testimone allibito di atrocità e<br />

stermini inesorabili: i fratelli contro i fratelli, senza alcuna pietà! Poi<br />

venne il peggio. Il giorno 15 aprile, verso mezzogiorno, essendomi<br />

recato in città in bicicletta, trovo tutto vuoto in un silenzio di tomba.<br />

Improvvisamente vedo la morte di fronte. Stanno entrando in<br />

città reparti dell’esercito per occuparla, sparando all’impazzata con<br />

un volume di fuoco impressionante e assurdo, poiché nessuno<br />

oppone resistenza. Salto giù dalla bici e mi nascondo dietro un albe-<br />

11 GHEDDO P., Testimonianze di missionari dal Bangladesh in «Mondo e<br />

Missione», aprile 1972, pp. 228-260.<br />

89


o, poi vedo che è inutile nascondersi perché le pallottole fischiano<br />

da tutte le parti. Salto i reticolati della caserma-prigione saccheggiata<br />

nei giorni precedenti e vedo diverse persone fuggire impazzite<br />

verso il fiume. D’un balzo mi getto anch’io in acqua in una pioggia<br />

di proiettili che falciano diversi disgraziati in fuga con me. Appena<br />

in acqua prendo a nuotare con la forza della disperazione. Un ragazzetto<br />

accanto a me, sebbene nuoti sott’acqua, viene colpito e l’acqua<br />

si arrossa del suo sangue.<br />

Arrivo all’altra sponda e mi butto a terra completamente esposto<br />

alla sparatoria di quei pazzi di soldati, che fanno il tiro a segno sui<br />

fuggitivi. Sento le grida dei colpiti a morte e i fischi delle pallottole.<br />

Per più di mezz’ora rimango fermo come un sasso col cuore in<br />

gola, aspettando da un attimo all’altro di essere colpito anch’io. Noi<br />

preti diciamo: quando stai per morire, raccomandati l’anima a Dio.<br />

Storie, io pensavo solo (guarda che pazzo): se mi uccidono, pazienza;<br />

ma se mi colpiscono e non muoio dovrò passare lunghe ore qui<br />

sulla sponda, nessuno mi verrà in aiuto, morirò dissanguato col sole<br />

che mi picchia addosso… Però ogni tanto pensavo anche al buon<br />

Dio e gli dicevo: “Se mi aiuti a non morire, giuro che scappo in<br />

India”. Adesso, a ripensarci, mi metto a ridere, ma in quei momenti<br />

il terrore mi penetrava lentamente nel cervello e nell’immobilità<br />

assoluta pensavo: “Mario, stai calmo e non muoverti, se ti muovi ti<br />

prendono di mira e sei spacciato!”. Avevo già passato altri momenti<br />

terribili, come quella volta che un leopardo mi saltò addosso dalla<br />

boscaglia e mi ferì con una unghiata, mentre lo facevo fuori con<br />

una fucilata: ma questa volta era peggio!<br />

La cosa durò a lungo. Dopo mezz’ora non sparavano più perché<br />

avevano fatto fuori tutti quelli che si muovevano. Vedo sull’altra<br />

sponda i soldati avvicinarsi al fiume e bere le sue acque, poi vanno<br />

verso la città, incendiando diverse casette. Tutto questo mentre continuavo<br />

a rimanere immobile ed osservavo con gli occhi socchiusi:<br />

per fortuna tra me e loro c’era il fiume, ma morivo dal caldo, dai<br />

crampi e dal sudore che mi inondava il volto e tutto il corpo. Finalmente,<br />

i militari pakistani montano sui loro camions e se ne vanno.<br />

Aspetto ancora un po’ e poi mi alzo e vedo che altri disgraziati come<br />

me si levano: anche loro hanno avuto salva la vita rimanendo perfettamente<br />

immobili, alcuni anche feriti.<br />

Alvigini, tornato alla missione, prende i suoi documenti e<br />

poche cose e scappa in India, dove potrà lavorare nei campi pro-<br />

90


fughi allestiti dagli organismi internazionali, ritrovandovi parecchi<br />

dei suoi cristiani anche di Ruhea. Quando quasi un anno<br />

dopo ritorna a Thakurgaon e viene a sapere che poche ore dopo<br />

la sua fuga, i militari erano tornati e avevano saccheggiato la missione.:<br />

“Se mi trovavano sul posto, scrive, chissà che brutta fine<br />

avrei fatto!”.<br />

“Gesù è con noi, perché essere preoccupati?”<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> ha lasciato pochi ricordi del come ha vissuto la<br />

guerra civile in Bengala. Padre Angelo Rusconi, a quel tempo<br />

missionario in Bengala, ha scritto alla mamma una lunghissima<br />

lettera (gennaio 1972), in cui dice che padre <strong>Pesce</strong> “ha passato<br />

brutti momenti sotto l’accusa di essere a capo della resistenza<br />

locale, lui che aveva già fatto il partigiano in Italia ed era pratico<br />

di queste cose!” 12 . Padre Adolfo L’Imperio scrive: “Padre <strong>Pesce</strong><br />

è stato salvato all’ultimo momento dall’intervento di militari”.<br />

Cos’era successo? Lo stesso padre L’Imperio racconta (intervistato<br />

nell’aprile 2004 a Milano):<br />

Quando io ero a Dhanjuri e lui a Mariampur (due missioni vicine e<br />

confinanti, n.d.r.), nel 1970-1971, era il tempo della repressione pakistana<br />

nei confronti del nazionalismo bengalese e specialmente ai<br />

confini con l’India i militari sorvegliavano la frontiera. Molta gente,<br />

di notte, scappava dal Pakistan orientale in India, c’era confusione e<br />

repressione, le missioni si erano mobilitate per aiutare la gente che<br />

scappava. C’erano i “bihari”, fedeli al Pakistan, che volevano assaltare<br />

la missione di Mariampur perché cercavano i profughi. Noi invece,<br />

a Dhanjuri, ospitavamo i profughi che arrivavano alla spicciolata<br />

di giorno, gli davamo da mangiare e di notte scappavano nella vicina<br />

India. Ma i militari del vicino accampamento di Fulbari facevano<br />

finta di non vedere e dicevano sempre: “Tutto è regolare”.<br />

Un giorno, mi arriva una jeep militare a Dhanjuri e il maggiore vuol<br />

visitare il lebbrosario e la missione. Lo porto in giro e poiché c’era<br />

12 GHEDDO P., Testimonianze di missionari del Bangladesh, «Le Missioni<br />

Cattoliche», aprile 1972, pp. 228-260 (testo citato a p. 241)<br />

91


molta gente che con la missione non c’entrava per niente, sono stato<br />

sincero e gli ho detto che di notte scappavano in India. Lui mi<br />

dice: “Non si preoccupi, tutto è regolare”. In quel momento arriva<br />

un catechista da Mariampur e mi porta una lettera di padre <strong>Pesce</strong><br />

che diceva di essere assediato dai militari pakistani e che era pronto<br />

a morire per la Chiesa e il popolo bengalese. Diceva: “Ormai siamo<br />

agli sgoccioli, prima o poi assaltano la missione. Ma io ho preparato<br />

le mie difese e se vengono non mi arrendo, mi difendo. Pregate<br />

per me e il mio popolo”.<br />

Allora io faccio vedere questa lettera al maggiore e gliela traduco<br />

dicendogli: “Vede? Lei dice che è tutto regolare, ma nella missione<br />

qui vicina succede questo e sono i militari pakistani che disturbano<br />

il padre e il popolo”. Il maggiore prende con sé il catechista sulla<br />

jeep e vanno a Mariampur. La jeep aveva un cannoncino davanti e<br />

padre <strong>Pesce</strong>, quando vede il cannoncino, si prepara a dare fuoco<br />

alle difese che aveva preparato.<br />

– Quali difese?<br />

– Aveva fatto scavare attorno alla missione un profondo e largo fossato<br />

che aveva riempito di nafta ed era pronto a dargli fuoco. Poi<br />

c’erano i santal con le loro frecce micidiali. In seguito, <strong>Cesare</strong> mi raccontava<br />

di essere sicuro che avrebbero davvero respinto i militari.<br />

Non è che dicesse: mi arrendo alla violenza. No, aveva organizzato la<br />

difesa. Fatto sta che, vedendo la jeep col cannoncino, allerta i suoi<br />

uomini e si prepara a difendersi; ma il catechista va avanti a mani alzate<br />

e grida: “Padre, sono amici, sono amici!”. Così riceve il maggiore<br />

nella missione, gli fa visitare tutto, profughi compresi, e gli dice<br />

chiaramente che i militari dell’accampamento vicino disturbano il lavoro<br />

caritativo della missione. Il maggiore chiama il comandante e i<br />

suoi aiutanti del campo vicino e dice loro: “Se i vostri militari fanno<br />

del male al padre e alle persone ospitate nella missione, voi siete responsabili<br />

e vi accuserò di fronte alla corte marziale”. Padre <strong>Pesce</strong><br />

non ha più avuto fastidi. Era il tempo fra marzo e giugno del 1971,<br />

quando i bengalesi si erano rivoltati contro i militari pakistani e bihari;<br />

soprattutto questi ultimi erano i più feroci oppressori dei bengalesi.<br />

La guerra civile è scoppiata il 25 marzo 1971 e terminata, grazie<br />

all’intervento dell’India, il 16 dicembre 1971.<br />

Perché padre <strong>Pesce</strong> non è fuggito in India come altri missionari<br />

del Pime che vivevano vicino al confine, che hanno seguito<br />

92


il loro gregge nei campi profughi indiani? <strong>Cesare</strong> racconta che<br />

quando il suo catechista è fuggito in India (vedi sopra), gli giunge,<br />

da un confratello che lavora nei campi profughi in India (probabilmente<br />

lo stesso padre Alvigini già ricordato), una lettera<br />

accorata in cui gli dice di fuggire anche lui con le suore in India:<br />

restando in Bengala sono in grave pericolo, tanto più che in quei<br />

giorni varie voci avevano avvisato che era possibile un prossimo<br />

attacco alla missione di Mariampur da parte delle truppe pakistane.<br />

<strong>Cesare</strong> scrive:<br />

Avevo paura, una incontrollabile paura. Convocai una riunione<br />

segreta e per sicurezza ci riunimmo nel convento delle suore per<br />

discutere come comportarci in quella difficilissima situazione.<br />

Quando arrivammo al punto cruciale della situazione, e cioè se<br />

abbandonare la missione, suor Erminia, la donna più semplice che<br />

io abbia mai incontrato, scese dalle scale e sorridendo ci disse: “No,<br />

fratelli, non andate via, per favore. Niente mai avverrà qui, poiché<br />

Gesù è con noi. Perché essere preoccupati?”. E il suo volto, ormai<br />

con molte rughe ma ancora bello, si illuminò tutto nel buio della<br />

notte. Così restammo e non avvenne niente.<br />

Superata l’emergenza della guerra civile, la missione di<br />

Mariampur riprende a marciare a pieno regime. <strong>Cesare</strong> scrive che<br />

la missione tenta di far entrare nelle cooperative agricole e nelle<br />

“credit unions” anche i musulmani e gli indù, ma le difficoltà che<br />

si incontrano, “per i loro pregiudizi e ignoranza”, sono notevoli.<br />

Comunque, gli alunni della scuola della missione sono duplicati<br />

in pochi anni, da 300 a 600 e sono “obbligati a fare scuola sotto<br />

le piante” 13 . In un’altra lettera <strong>Pesce</strong> butta giù uno spaccato di<br />

vita missionaria quotidiana, quasi eroica se vogliamo, ma per lui<br />

era la normalità. Scrive 14 :<br />

13 Lettera del 2 ottobre 1972 a mons. Libero Meriggi, direttore del Centro<br />

missionario diocesano e Vicario generale della diocesi di Tortona (morto il 15<br />

marzo 1996). Le lettere a mons. Meriggi e al Centro missionario diocesano di<br />

Tortona, conservate in trascrizione al computer nell’Archivio generale del Pime<br />

(più di cento dal 1965 al 1999), costituiscono il materiale archivistico più importante<br />

che abbiamo trovato per questa biografia.<br />

14 Lettera a mons. Meriggi il 13 dicembre 1972.<br />

93


Sono le cinque del mattino e attendo che si rischiari per fare una<br />

motociclettata a Belewa, un villaggio cristiano a una quindicina di<br />

chilometri, per preparare quella buona gente al Natale. Questo<br />

mese è così: ogni mattina la messa in un villaggio e alla sera qui al<br />

centro. Il tempo passa veloce e lieto. Mi rimarranno purtroppo una<br />

decina di villaggi da visitare: ho sbagliato i calcoli e per Natale non<br />

tutti potranno confessarsi e comunicarsi. Sarà per dopo Natale.<br />

Sono ancora solo, essendo l’altro prete in Italia per le sue vacanze.<br />

Così mi rimane un monte di cose da fare e da pensare. Adesso<br />

abbiamo iniziato una quindicina di cooperative agricole e ti dico io<br />

che non rimane neppure il tempo di fare il bagno prima del pranzo<br />

(se si può chiamare pranzo un piatto di riso bollito da solo). Domani<br />

mattino, se mi sveglio alle 4,30 come oggi, scriverò alla tua segretaria<br />

missionaria sulle nostre cooperative. Ciao e grazie di tutto a<br />

nome mio e di tutta questa gente che ormai ti conosce di nome se<br />

non di persona.<br />

Per completare il quadro, vale la pena di leggere quanto <strong>Cesare</strong><br />

scriveva alla segretaria dell’Ufficio missionario diocesano<br />

(Camilla Brambilla). Dopo averle chiesto di interessare i lettori<br />

del settimanale diocesano di Tortona per aiutare le sue cooperative<br />

agricole, aggiunge 15 :<br />

94<br />

Io non ho proprio più il tempo materiale e poi non sono più capace<br />

di scrivere articoli. Da quindici giorni mi alzo alle cinque, vado<br />

in moto a dir Messa in qualche villaggio cristiano, magari a 30-40<br />

km. da qui (con quelle strade! n.d.r.). Ritorno, pranzo e lavoro in<br />

ufficio fino alle sei di sera, celebro la seconda Messa con i cristiani<br />

di questo villaggio e i duecento ragazzi del “boarding” (ostello per<br />

studenti), ceno in fretta perché alla sera c’è sempre qualche adunanza<br />

della S. Vincenzo o del Corr (Caritas bengalese) o delle cooperative<br />

o qualche altro accidente che mi manda a dormire oltre le<br />

dieci. Ora debbo smettere perché mi accorgo che sono le 6 e debbo<br />

correre a Cheargaon dove mi aspettano per la Messa e le confessioni.<br />

15 Lettera del 16 aprile 1974 da Dinajpur.


“I morti di fame non s’incontrano più per le strade”<br />

Non so quanti missionari hanno fatto l’esperienza di padre<br />

<strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>: credo pochi, pochissimi. Lui era un prete disposto<br />

a tutto, malleabile, flessibile, aperto, generoso, sorridente<br />

nonostante tutto. Addentrandomi nell’esame delle sue lettere e<br />

della sua vita di missione, mi accorgo che il vescovo e i superiori<br />

del Pime lo usavano come un “jolly”: sapevano che col suo<br />

carattere cordiale, disponibile e molto concreto, ovunque andava<br />

faceva bene e lo mandano dove c’è bisogno di iniziare un<br />

lavoro o risolvere qualche problema o rimpiazzare altri che hanno<br />

realizzato poco oppure hanno combinato qualche pasticcio.<br />

Fatto sta che anche la seconda volta che va a Mariampur (Daulighat),<br />

vi rimane poco più di tre anni (dicembre 1970 – marzo<br />

1974), durante i quali crea le cooperative agricole e (come dice<br />

in una lettera del 27 giugno 1973) fonda un’azienda agricola e<br />

decine di scuolette nei villaggi che ne erano privi. Gli amici di<br />

Novi Ligure gli avevano regalato pompe per l’acqua e quelli di<br />

Voghera un trattore. Il parroco di Novi Ligure, don Franco<br />

Zanolli, ricorda:<br />

In una lettera che mons. Brenta aveva scritto a padre <strong>Cesare</strong>, gli aveva<br />

messo alcuni semi di pomodoro e qualche mese dopo <strong>Pesce</strong> gli<br />

scriveva: “Qui i pomodori vengono grossi come zucche”; e raccontava<br />

che nella sua fattoria si facevano tre e anche quattro raccolti di<br />

riso l’anno. La lettera venne letta nelle Messe qui alla Collegiata.<br />

Quando era in vacanza a Novi, padre <strong>Cesare</strong> parlava nelle scuole e<br />

meravigliava gli alunni quando affermava che nella scuola della sua<br />

missione i bambini ci andavano molto volentieri, ma poi aggiungeva:<br />

“Almeno sono sicuri di mangiare per quel giorno una scodella<br />

di riso con un po’ di pomodoro o altro condimento”.<br />

Mentre era a Mariampur, il 24 giugno 1972 scrive a mons.<br />

Meriggi una delle poche lettere in cui traspare un certo sconforto,<br />

lui che era sempre così ottimista e pieno di speranza:<br />

95


Grazie della tua lettera e dell’aiuto generoso per questo povero paese<br />

disgraziato fino alle midolla delle ossa. Io davvero alle volte mi<br />

domando quale diavoleria sia venuta a ficcarsi in questa terra. Dopo<br />

tutte le traversie del ciclone e della guerra civile, siamo venuti ora<br />

alla siccità che ha impedito la semina del primo riso: si prospetta la<br />

fame, mi correggo, siamo già alla fame. Il C.O.R.R. (“Christian<br />

Organisation Relief and Rehabilitation”, la Caritas del Bangladesh)<br />

fa un lavoro immenso per tappare qualche falla, ma ci vuole altro<br />

con 70 milioni di poveracci. Noi non ce la facciamo più: morti dal<br />

lavoro per questo relief, i nervi cedono dopo un anno di guerra fra<br />

l’esercito pakistano e i partigiani bengalesi (Mukti-Bahini) e un<br />

secondo anno di lotta contro la fame, le malattie, la mancanza di<br />

lavoro di un popolo intero.<br />

I superiori e il Vescovo ora provvedono a darci un mese di vacanza.<br />

Molti ne approfittano perché hanno davvero bisogno per la salute<br />

fisica e psichica. Sto pensando anch’io a questa possibilità, ma<br />

sono qui da solo e lasciare tutto questo ufficio e la parrocchia per<br />

un mese è un problema… Ad ogni modo per ora tiro avanti più con<br />

la fede e la forza morale che con la forza e la volontà fisica.<br />

Nel marzo 1973 il vescovo chiama padre <strong>Pesce</strong> a Dinajpur per<br />

metterlo a capo del “Centro catechistico diocesano” da poco fondato<br />

(ma continua il suo impegno a Mariampur fino al marzo<br />

1974). Infatti a Mariampur <strong>Cesare</strong> si era già distinto per la capacità<br />

di fare “il catechista dei catechisti” come lui stesso scrive.<br />

Avrebbe potuto dire: “Ma insomma, basta, lasciatemi un po’ tranquillo<br />

in questa missione che ho rimesso in piedi!”. Invece no:<br />

tace, obbedisce e va sereno dove lo mandano, come al solito, pieno<br />

di entusiasmo. Qui non si tratta solo di bel carattere, c’è qualcosa<br />

d’altro, che è la santità di vita, la forza di Dio che era in lui.<br />

Al massimo si confida con mons. Meriggi, direttore dell’Ufficio<br />

missionario diocesano di Tortona 16:<br />

96<br />

Con dolore e sacrificio immaginabile ho lasciato il mio distretto missionario<br />

e sono venuto qui col misero bagaglio di cognizioni apprese<br />

qualche anno fa all’Università Lateranense, per tentare qualcosa<br />

16 Lettera del 16 aprile 1974 da Dinajpur.


nella formazione dei nostri catechisti e formarne dei nuovi. È un<br />

lavoro massacrante di preparazione, ma bisogna che qualcuno si<br />

prenda questa briga. Speriamo che qualcosa riesca a fare, con l’aiuto<br />

del Signore. Mi è spiaciuto molto, molto davvero lasciare quella<br />

mia buona gente di Mariampur, a cui mi ero affezionato come e più<br />

della mia famiglia. Ormai è fatta e ho cominciato a lavorare nel mio<br />

nuovo campo. Certamente non avrò le soddisfazioni che può avere<br />

un pastore nella sua parrocchia, ma sono convinto che quest’opera<br />

deve avere la priorità sul lavoro stesso della parrocchia. E così sono<br />

qui a chiederti una preghiera per aiutarmi a compiere il mio dovere.<br />

Il corso residenziale per catechisti organizzato da padre <strong>Cesare</strong><br />

a Dinajpur, centro della diocesi, durava due anni, con lezioni e<br />

vita comunitaria come in un seminario. I suoi primi diplomati<br />

sono 28 (14 uomini e 14 donne, di cui 5 suore), “che dovrebbero<br />

diventare i leaders del prossimo futuro, una specie di diaconi<br />

anche sposati senza l’ordine”; poi ci sono i corsi brevi di uno o<br />

due giorni ai catechisti delle singole missioni, che <strong>Cesare</strong> tiene<br />

ovunque venga richiesto. L’anno 1974, giudicando dalle sue lettere,<br />

è stato uno dei peggiori, per le turbolenze politiche e soprattutto<br />

per una grave carestia, che egli a dicembre così ricorda 17 :<br />

Qui in Bangladesh la va un po’ meglio: i morti di fame non si incontrano<br />

più per le strade. Il riso ormai matura nei campi e per un po’<br />

di tempo, almeno, i tristi giorni delle morti per fame non sorgeranno<br />

più. Poi sui giornali leggo di grossi aiuti elargiti dalle Nazioni<br />

Unite e da vari paesi: tutto fa sperare in un anno nuovo, migliore<br />

del passato.<br />

Nel 1975 gli viene affidato anche l’impegno domenicale nella<br />

parrocchia di Saidpur (una quarantina di chilometri da Dinajpur),<br />

dove si trasferisce nel maggio 1977, mantenendo ancora<br />

l’incarico di direttore del Centro catechistico diocesano.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> era amicissimo di mons. Aristide Pirovano, a<br />

quel tempo superiore generale del Pime. Erano cresciuti assieme<br />

nel seminario teologico del Pime e diventati sacerdoti a poca<br />

17 Lettera a mons. Meriggi, 3 dicembre 1974.<br />

97


distanza l’uno dall’altro: Pirovano il 21 dicembre 1941 e <strong>Pesce</strong> il<br />

29 marzo 1942. Il missionario di Novi Ligure scrive al vescovo (4<br />

dicembre 1974) per gli auguri di Natale, ma anche, e forse soprattutto,<br />

per presentargli, “da buon amico”, un lamento che lui stesso<br />

e altri fanno al “raja del Pime”: “raja” è il principe, il capo, il<br />

padrone. <strong>Cesare</strong> scrive che il vescovo di Dinajpur è tornato da<br />

Roma e lui gli ha chiesto come ha trovato mons. Pirovano. “È un<br />

po’ invecchiato – risponde – e non ha idea di venire in Bangladesh”.<br />

<strong>Cesare</strong> aggiunge: “Che tu abbia poca voglia di venire in<br />

Bangladesh non è necessario un Einstein per intuirlo”.<br />

La lettera va spiegata perché è interessante per inquadrare lo<br />

spirito di padre <strong>Pesce</strong>. Mons. Pirovano era stato in Bangladesh<br />

qualche anno prima (1969) e diversi membri dell’Istituto l’avevano<br />

accolto freddamente e anche in modo sgarbato. Erano gli anni<br />

del “sessantotto” e un certo spirito di fronda e di contestazione<br />

dell’autorità si era diffuso nelle missioni, attraverso i missionari<br />

giovani che vi venivano inviati, ma anche per la stampa internazionale<br />

e cattolica che diffondeva lo “spirito del sessantotto”. In<br />

Bangladesh poi esistevano motivi più precisi per questo atteggiamento:<br />

i missionari vivevano un’agonia continua: guerra di liberazione,<br />

violenze e vendette dopo la liberazione; inondazioni e<br />

carestie, povertà estrema della loro gente; epidemie di colera e<br />

altre malattie... Come spesso succede nelle missioni più provate,<br />

i missionari avevano l’impressione che il Bangladesh fosse trascurato<br />

dai superiori del Pime e dall’Istituto stesso. Così quando<br />

Pirovano va in visita ai missionari del Bangladesh (con molto<br />

sacrificio perché non stava bene) un suo missionario gli dice:<br />

“Perché è venuto a trovarci? Lei qui è superfluo”; e poi in vari<br />

modi gli fanno pesare la sua presenza. In seguito manda il suo<br />

vicario generale e alcuni consiglieri, ma lui non ci va più.<br />

Il 19 febbraio 1975 Pirovano risponde a <strong>Pesce</strong> e gli ricorda i<br />

momenti belli del loro seminario. Il “caro Pesciolino” aveva, da<br />

“buon giovincello”, la passione del pallone e al lunedì, con altri<br />

compagni, comperavano «La Gazzetta dello Sport» per leggerla<br />

di nascosto, “giornale proibito agli occhi del buon e innocente<br />

padre Caminada” (il rettore del tempo). Pirovano aggiunge che<br />

le sue “grane” sono ben altre che quelle! I seminaristi “almeno<br />

98


leggessero e studiassero solo la «Gazzetta dello Sport»: sarei sicuro,<br />

sicurissimo di avere dei missionari in gamba”. Invece in quegli<br />

anni c’era la contestazione sistematica alla Chiesa, al Papa e ai<br />

vescovi, ecc. Tanto che Pirovano era stato da poco costretto a<br />

chiudere il seminario teologico del Pime, per riaprirlo l’anno<br />

seguente con nuovi superiori, professori e circa metà degli ottanta<br />

alunni di prima. Tutto questo per capire la situazione del vescovo<br />

superiore generale. Il quale scrive a <strong>Cesare</strong>:<br />

Non è che non abbia voglia di vedere e visitare il Bangladesh. La<br />

verità è che non ci sono più venuto e non penso di venire perché è<br />

stato scritto dalla... comunità che la mia è stata una visita inutile; e<br />

questo in un documento ufficiale esprimente la volontà della comunità.<br />

Deo gratias, mi sono detto; una bella grana di meno. Grazie al<br />

Cielo non mi sono mai rifiutato di affrontare le grane, quando queste<br />

mi cercano e mi piovono addosso; ma il senno della vecchiaia (e,<br />

confessiamolo, un po’ di “puntiglio” nei vostri riguardi) mi ha insegnato<br />

a non rincorrerle e a non cercarle. Si sta meglio tutti: voi e io.<br />

D’altra parte, in coscienza sono tranquillo perché non si può dire,<br />

nonostante il “puntiglio”, che la Direzione generale abbia tralasciato<br />

di curare e provvedere il Bangladesh: uomini e mezzi non sono<br />

mancati e siete la missione più aiutata; visite di membri della Direzione<br />

generale pure non sono mancate. Quindi, in pace voi e in pace<br />

io. Del resto sono sicuro che anche voi, pian piano, troverete la via<br />

giusta non solo per aiutare questa povera gente morta di fame, ma<br />

specialmente per farne... discepoli del Signore: punto centrale della<br />

missione.<br />

Naturalmente questa è la visione del problema che ne aveva<br />

mons. Pirovano. La verità è forse più complessa, ma ho citato<br />

l’episodio per dare un’idea molto concreta delle tensioni che vivevano<br />

i missionari del Bengala in quelle tragiche situazioni e di altri<br />

“incidenti” simili che capitavano in quegli anni post-sessantottini<br />

anche in altre missioni affidate al Pime (Filippine, Guinea-Bissau,<br />

Amazzonia, Brasile del sud). Pirovano conclude la sua lettera<br />

incoraggiando l’amico “Pesciolino”:<br />

99


100<br />

Auguri per il tuo lavoro al Centro catechistico: per me lo considero<br />

il lavoro più importante di tutta la diocesi: centro catechistico e<br />

seminario sono le due colonne della Chiesa. Coraggio: tu sei ancora<br />

giovane (relativamente) e non ti manca l’intelligenza, l’esperienza<br />

missionaria e la scienza. Coraggio, Pesciolino, e resisti: è il più bel<br />

lavoro e il più importante che ti possa capitare.


4.<br />

PARROCO A PATHORGATA<br />

La vita del missionario, specialmente di uno come padre<br />

<strong>Pesce</strong>, sempre allegro perché prendeva tutto dalle mani di Dio, è<br />

quanto mai varia e ogni giorno nuova. Nei suoi 45 anni di Bengala,<br />

<strong>Cesare</strong> ha cambiato una dozzina di posti e di compiti, sempre<br />

mettendo in ciascuno di essi tutta la sua passione e agendo<br />

come se fosse il più importante e quello definitivo della sua vita.<br />

Ancora negli ultimi tempi, quando aveva più di ottant’anni, ci siamo<br />

visti nel santuario di Rajarampur (nel settembre 2001, era là<br />

dal gennaio 2000) e ho passato con lui una giornata a sentirlo illustrare<br />

i suoi progetti non solo per il piccolo e nuovo Santuario di<br />

Maria, ma di contatti con musulmani e indù, di iniziative nuove<br />

da intraprendere, di un libro che stava scrivendo sulla sua vita<br />

missionaria. Ricordo che gli ho detto: “Tu non andrai mai in pensione”.<br />

Infatti, nel gennaio 2002 ha dovuto tornare in Italia ed è<br />

morto a Rancio di Lecco il 13 luglio dello stesso anno. Libero da<br />

ogni attaccamento, disponibile a tutto! Che bella vita! Che bel<br />

missionario!<br />

Espulso dal Bangladesh per una bottiglia di cognac?<br />

Nel 1975 padre <strong>Pesce</strong> riceve dal Vescovo l’incarico di assistere<br />

i fedeli della parrocchia di Saidpur, mentre è ancora direttore<br />

del Centro catechistico diocesano. Saidpur, importante centro<br />

ferroviario e cittadina moderna, è la più antica parrocchia della<br />

diocesi di Dinajpur, fondata dai missionari del Pime all’inizio del<br />

secolo XIX; ma anche quella con il minor numero di cristiani,<br />

quindi adatta a padre <strong>Cesare</strong> che dirigeva anche il Centro catechistico<br />

diocesano a Dinajpur. Due impegni faticosi, anche per i<br />

continui viaggi dalla sede episcopale alla parrocchia, circa 60 chi-<br />

101


lometri, con le strade bengalesi di quel tempo! Ma <strong>Cesare</strong> non<br />

aveva ancora 60 anni, era appassionato del suo lavoro e si impegnava<br />

ad organizzare la pastorale a Saidpur, mentre nel centro<br />

della diocesi dirige il movimento catechistico con sempre nuove<br />

iniziative a livello popolare, soprattutto producendo sussidi in<br />

bengalese per le scuole di catechismo. Nell’autunno 1976 si concede<br />

una breve vacanza in Italia e due mesi dopo, il 14 gennaio<br />

1977, è di ritorno a Dinajpur (lettera a mons. Meriggi del 25 gennaio<br />

1977). In un’altra lettera a mons. Meriggi (del 3 dicembre<br />

1977) così descrive i suoi due incarichi:<br />

Io continuo a dirigere il centro catechistico e giro le parrocchie della<br />

diocesi per i corsi di istruzione e preparazione pastorale ai catechisti<br />

e leaders dei villaggi. Nello stesso tempo reggo questa vecchia<br />

parrocchietta di Saidpur. Sto a casa poco tempo, ma questo sparuto<br />

gruppo di cristiani ha un prete, dopo tanti anni che non aveva<br />

nessuno, almeno alla domenica e alle feste religiose. Sto tentando in<br />

qualche villaggio indù di far conoscere che Gesù è nato anche per<br />

loro, speriamo bene! E poi sto scrivendo qualche libretto religioso<br />

in bengalese, per aiutare i catechisti e i catecumeni. Così la mia giornata<br />

passa veloce e, spero, non inutilmente.<br />

A Saidpur <strong>Pesce</strong> visita i villaggi in compagnia di due suore del<br />

Centro diocesano e scrive che “senza suore permanenti il lavoro<br />

missionario è sempre a metà: bambini e donne sono più curati<br />

dalle suore che dal missionario, senza contare poi la scuola elementare<br />

e il dispensario medico”. Infatti a Saidpur avvia subito la<br />

costruzione di una casa per le suore e ringrazia mons. Meriggi che<br />

gli ha mandato “una grossa somma, proprio necessaria” anche<br />

per costruire la nuova scuola.<br />

I suoi amici della diocesi di Tortona non lo abbandonano. Gli<br />

mandano continuamente soldi, materiale da costruzione, attrezzature<br />

per le sue opere e naturalmente molti pacchi e pacchetti.<br />

La signora Rita Mora (che <strong>Cesare</strong> ricordava con affetto come “la<br />

bionda”), racconta un episodio degli anni settanta:<br />

102<br />

A quel tempo nelle missioni si spediva di tutto, si può immaginare<br />

l’impegno del gruppo San Paolo nei riguardi di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>.


Era anche un modo per fargli sentire la nostra amicizia, in particolare<br />

nell’avvicinarsi delle grandi feste come Natale. Fu in una occasione<br />

simile che suggerii di occultare una bottiglia di cognac tra gli<br />

indumenti e le varie cose. Già gustavamo la sua gradita sorpresa.<br />

Ahimè, come ci sbagliavamo!!<br />

Da un suo ritorno in patria (perché di scrivere queste cose non se<br />

ne parlava) in occasione della malattia della sorella che desiderava<br />

vederlo, ci raccontò quali furono i grattacapi che ebbe all’ufficio<br />

postale per sdoganare quel famoso pacco contenente la bottiglia di<br />

cognac. Il personale dell’ufficio, che ficcava il naso nei pacchi altrui<br />

specie se non musulmani, scoprì la bottiglia e padre <strong>Cesare</strong> dovette<br />

faticare parecchio per non urtare i funzionari ultrazelanti, assicurando<br />

che lo usava come medicinale, e asserendo che, se credevano, lo<br />

potevano buttare a mare.<br />

Alla fine riuscì a sdoganare il pacco, compresa la bottiglia di cognac.<br />

Se la vide parecchio brutta, perché esisteva il reale pericolo di espulsione<br />

dal paese. Il ricordo è vivo dentro me, perché mentre lui ci<br />

rimproverava e ci raccomandava di non fare più una simile “gentilezza”,<br />

guardava proprio me, eppure su quella bottiglia non c’era<br />

mica il mio nome. Avevamo però capito che padre <strong>Cesare</strong> conosceva<br />

perfettamente il suo popolo bengalese, ma anche noi di Novi<br />

Ligure. Mi viene spontaneo dire a padre <strong>Cesare</strong>: “Che bella vita è<br />

stata la tua!”.<br />

“Ma i soldi arriveranno lo stesso”<br />

Nel luglio 1979 padre <strong>Pesce</strong> è trasferito da Saidpur a Pathorgata,<br />

dove rimane fino al 1995. Aveva 60 anni, che in Bangladesh<br />

valgono più che in Italia, in quel clima e in quella povertà. In una<br />

lettera dei primi giorni della sua permanenza a Pathorgata, dove<br />

il vescovo l’ha mandato per sistemare i contrasti nati nella parrocchia,<br />

scrive all’amico mons. Libero Meriggi di Tortona (24 luglio<br />

1979):<br />

In Italia la gente della mia età (aveva sessant’anni, n.d.r.) è forzata<br />

ad andarsene in pensione. Prende la canna da pesca e se ne va in<br />

riva al fiume in attesa dell’ultimo tramonto. Qui fortunatamente le<br />

cose sono un po’ differenti. Vedi l’intestazione della lettera? Cam-<br />

103


104<br />

bio di indirizzo, vero? Già, il vescovo mi ha mandato a fare il parroco<br />

di Pathorgata, dove il parroco e un gruppo di cristiani non<br />

andavano più d’accordo. A rompere la pace erano sorte questioni<br />

sulla scuola e sulla cooperativa agricola. Il parroco pensò bene di<br />

dimettersi e di andarsene. Il Vescovo, che, oltre al resto, è nuovo, si<br />

trovò in un ginepraio. Che fare? Pensò che un vecchio lupo del Bangladesh<br />

– 31 anni di missione ormai – potrebbe essere ancora utile<br />

a sciogliere la matassa. Ed eccomi qui.<br />

Due settimane fa feci il mio ingresso trionfale (!?)… in bicicletta, dalla<br />

stazioncina ferroviaria di Panchbibi su una strada fangosa e viscida.<br />

Ogni tanto mi fermavo a togliere il fango che si incastrava fra il<br />

parafango e la ruota posteriore. Era la preparazione alla mia prima<br />

messa nella nuova parrocchia. Finalmente arrivo in chiesa. Che<br />

malinconia! Dalla splendida chiesetta di Saidpur, forse la più bella<br />

del Bangladesh, ad uno stanzone fatto di fango e lamiere… poi nella<br />

canonica costruita con fango e mattoni non imbiancati di calce.<br />

Per rendere l’avvenimento più solenne, all’aperto, tre o quattro<br />

ragazze si mettono a danzare. Ce la mettono tutta, poverine, per sollevare<br />

il mio spirito. Io sorrido, applaudo, continuo a ripetere: “Bello!<br />

Magnifico! Artistico!”, ma rivedo nella mia fantasia le splendide<br />

ragazze musulmane della città lasciata, istruite nella loro piccola<br />

accademia di arte e musica. Che differenza! Nel ritmo, nelle movenze,<br />

nella grazia, nella bellezza …beh, ma forse il cuore è lo stesso, il<br />

fine è lo stesso: versare un po’ di gioia nel mio vecchio cuore, prepararlo<br />

e scuoterlo al nuovo amore verso questa mia nuova famiglia.<br />

Uno studente legge un address (indirizzo) di benvenuto e d’augurio.<br />

“Bellissimo! Grazie!”, dico io e penso alla dolcezza della lingua<br />

bengalese massacrata dalla pronuncia di un aborigeno… eppure la<br />

sostanza è la stessa. Ciò che vuole esprimere lo studente della campagna<br />

di Pathorgata non è diverso da ciò che esprime il raffinato e<br />

il sofisticato studente cittadino di Saidpur. “Sta allegro don <strong>Cesare</strong>”,<br />

mi dico: “Ti vogliono già bene al tuo arrivo. Su, su, guarda il sole e<br />

le ombre rimarranno alle tue spalle!”. Così, a Pathorgata ormai, in<br />

un angolo della campagna del Bangladesh, lasciati i piccoli conforti<br />

che può offrire la città. Fango e campi di riso, strade impossibili<br />

e capanne di fango e paglia, ma alberi uccelli e fiori, fiori: orrido e<br />

bello. Immensamente bello. Dio mi ha mandato qui a cogliere i fiori,<br />

non le spine. Ma so già che per impossessarmi dei fiori dovrò lottare<br />

con le spine; forse è necessaria qualche goccia di sangue. Beh,


è legge di natura. Ma ne vale la pena: inebriarmi del profumo di<br />

questi fiori, anche se punzecchiato da qualche maligna spina della<br />

giungla.<br />

Ho un po’ di paura, è logico. Non so neppure da dove incominciare.<br />

Che avverrà? I miei amici musulmani mi rispondono in arabo :<br />

“Wallaha a’am” (solo Iddio lo sa) ed io aggiungo in italiano: “Qualche<br />

santo provvederà”. Ricordati di me che sto tentando di cogliere<br />

fiori fra le spine.<br />

Infatti, gli amici di Tortona, Novi Ligure e Voghera non lo<br />

dimenticano e gli mandano aiuti consistenti. Ma spedire i pacchi<br />

ai missionari è spesso un’avventura. Una volta <strong>Cesare</strong> riceve un<br />

pacco da Tortona, ringrazia e scrive che quanto gli hanno spedito<br />

è graditissimo… però un’altra volta scrive: “State attenti: la<br />

farina di polenta, lo zucchero e il caffè macinato sono usciti dai<br />

cartocci e s’è creato un bel miscuglio. E adesso, che faccio?”. Ma<br />

i problemi del missionario erano ben altri. Ad esempio, a Pathorgata<br />

trova una chiesa che è un capannone di fango con tetto di<br />

lamiera. Bisogna costruirne una nuova, anche perché lì vicino<br />

“c’è una moschea nuova fiammante a fianco della tomba di un<br />

santone musulmano, meta quotidiana di pellegrinaggi. Naturalmente<br />

i pellegrini vengono a curiosare da noi e io mi trovo sempre<br />

pieno di vergogna nel mostrare il capannone-chiesa…”. Però<br />

le suore sono una priorità assoluta. <strong>Cesare</strong> incomincia a costruire<br />

la loro casetta, ma quando al sabato sera i muratori vengono a<br />

chiedere la giusta ricompensa, lui si avvicina alla “cassaforte”<br />

(che, scrive, bisognerebbe chiamare “cassadebole”) e per fortuna,<br />

chissà come, ci trova il necessario. Aggiunge (lettera del 7 febbraio<br />

1980):<br />

Quand’ero ragazzo, c’era un uomo che dal balcone di Palazzo Venezia<br />

a Roma gridava: “Chi si ferma è perduto!”. Lui non si è fermato<br />

e si è perduto. Spero che la stessa disgraziata vicenda non si ripeta<br />

per me. Quello là, volere o no, aveva una bella dose di temerarietà,<br />

io invece ho sempre una paura maledetta di fallire, se dall’alto<br />

non scende un raggio di sole o almeno un pallido chiarore di luna<br />

piena.<br />

105


Gli amici italiani non lo lasciavano solo e lui scriveva: “Ti<br />

devo ripetere che ho ricevuto tutto: e pacchi e roba e soldi e preghiere<br />

e amore. E ti devo ripetere il mio grazie e le manifestazioni<br />

di gratitudine e di gioia da parte dei miei ragazzi e delle suore”.<br />

Però poi gli amici vogliono che egli scriva articoli sul settimanale<br />

diocesano di Tortona e su quello di Novi Ligure. <strong>Cesare</strong>,<br />

come abbiamo visto, sapeva scrivere bene, era geniale ed efficace.<br />

Ma spesso rispondeva scusandosi di non aver mandato articoli:<br />

non aveva tempo, le sue mani da contadino erano ormai inadatte<br />

a maneggiare la penna e via dicendo. Una volta finalmente<br />

scrive il suo articolo: come mai? perché? (Lettera del 4 ottobre<br />

1980).<br />

Oggi finalmente scriverò, sebbene malamente perchè ho un dente<br />

che mi fa vedere le stelle. Non ho dormito tutta la notte e qui non<br />

c’è un accidente di medicina per calmare il dolore. Beh, passerà.<br />

Forse, scrivendo e pensando ad altro, si sente meno.<br />

A volte <strong>Pesce</strong> manda lettere e anche foto, ma tutto va perso.<br />

Allora si arrabbia, ma il massimo grado delle sue imprecazioni è<br />

“Orco cane!”. Oppure i pacchi e il materiale che gli amici mandano<br />

non arrivano: allora <strong>Cesare</strong> diventa una belva e impreca contro<br />

il personale delle poste o le dogane del Bangladesh. Nota che, data<br />

la difficile situazione politica del paese (colpi di stato e legge marziale),<br />

i controlli sono diventati asfissianti e le dogane costano il<br />

doppio dell’anno precedente. Non riceve quasi più il settimanale<br />

diocesano, nemmeno i numeri sui quali c’è un suo articolo: “Cosa<br />

vuoi farci? Qualche volta al post-office hanno bisogno della bella<br />

carta estera e ringraziano Allah quando essa cade facile preda nelle<br />

loro mani”. Così come quando i pacchi che contengono “food”,<br />

cibo, spariscono senza lasciare traccia e il povero “Pesciolino”<br />

legge costernato l’elenco di quel che c’era dentro: scatolette di<br />

carne e sugo di pomodoro ad esempio, per insaporire ogni tanto il<br />

riso bollito e non finire sempre nella solita salsa “curry”, cioè piccante.<br />

Come nel Natale 1983, quando gli mandano il necessario<br />

per una “spaghettata” che doveva essere memorabile nella sua vita<br />

in Bangladesh. E invece deve accontentarsi del “solito curry”.<br />

106


Ma queste sono piccole pene, a confronto di quelle che succedono<br />

nel periodo in cui si celebrano i matrimoni (dal Natale<br />

alla Quaresima), quando il missionario deve stare attento a non<br />

trasgredire non solo le leggi della Chiesa, ma anche quelle della<br />

tradizione tribale (non scritta) dei suoi oraon e santal, che sono<br />

“un rompicapo terribile”. Lui, dopo trent’anni di Bengala, ci fa<br />

spesso “la figura dello stupidotto” ed esclama: “Il periodo dei<br />

matrimoni è finito, grazie al Padreterno e ad Adamo che li hanno<br />

inventati”. Ma padre <strong>Cesare</strong> è un appassionato del ministero<br />

sacerdotale, pur con tutti i fastidi che procura. Il 2 agosto 1981,<br />

dopo una rapida visita in Italia, scrive:<br />

Eccomi arrivato a casa. Stamattina ho celebrato la Messa domenicale<br />

e la chiesa era piena. I bambini naturalmente erano i più numerosi<br />

e i più adatti a farmi scappare la nostalgia di Novi e dell’Italia.<br />

Logico, oggi abbiamo pregato per i miei parenti, amici, benefattori,<br />

per tutta l’Italia e quelli che ci sono dentro, buoni e cattivi, sani e<br />

malati, felici e infelici. Sono lieto di essere ritornato. Ci saranno i<br />

grattacapi accumulatisi durante la mia assenza, oltre i soliti di ogni<br />

giorno. Lo sai che questa parrocchietta non è poi delle più facili e<br />

ci vuole tutta la diplomazia di un … affezionato al Vaticano come<br />

sono io per cavarmela? Speriamo bene.<br />

Qui ora sono impegnato, un po’ troppo, per i corsi annuali ai matrimoniandi,<br />

ai genitori, ai catechisti, ecc. Oltre al resto, ho due suore<br />

che tentano di dare un po’ di istruzione religiosa nei villaggi ed è<br />

logico che debba seguirle un po’, almeno per la Messa nei diversi<br />

luoghi. Il Vescovo poi verrà in visita pastorale alla metà di novembre.<br />

Bisogna preparare i bambini alla Cresima: è dal 1975 che non<br />

la si amministra. Per fortuna i 78 ragazzi e ragazze dell’hostel (pensionato<br />

scolastico) non danno fastidi. Mi porta via un po’ di calma<br />

il progetto di irrigazione, dato che non piove e i canali sono in uno<br />

stato pietoso. La gente è sottosopra per la faccenda. Porterò la sabbia<br />

e aggiusterò, almeno per il grano. Poi ci sarà la grossa porcheria<br />

del tetto della scuola da cui, durante la stagione delle piogge,<br />

pioveva a catinelle e abbiamo dovuto far andare gli scolari a sedersi<br />

altrove, in posti di fortuna. Mi dico spesso: “Calma!” e tiro avanti.<br />

Così, Joy Bangla! (Lettera del 22 ottobre 1981).<br />

107


La vita quotidiana di padre <strong>Cesare</strong>, come degli altri missionari,<br />

era strettamente dipendente dalla preghiera e dall’aiuto di Dio,<br />

ma anche dai soldi, che in genere non bastano mai: costruzioni,<br />

catechisti, aiuti ai poveri, mantenimento di orfani, scuole, dispensari<br />

medici e di altri servizi sociali, riparazione delle costruzioni<br />

(che in quel clima caldo umido si sfasciano presto!), ecc. Nelle<br />

sue lettere <strong>Pesce</strong> non chiede quasi mai direttamente aiuti a parenti<br />

ed amici. Ringrazia sempre chi gli manda qualcosa, ma ha una<br />

grande fiducia nella Provvidenza ed è distaccato anche dal denaro.<br />

A volte vorrebbe ringraziare ma dall’Italia riceve somme<br />

anche consistenti e non capisce chi glie le manda! Il 22 febbraio<br />

1994 scrive a don Franco Zanolli, parroco della Collegiata di<br />

Novi Ligure:<br />

Grazie della grossa somma che mi hai mandato. Caspita, che colpo!<br />

Ma a chi devo scrivere i ringraziamenti? C’è il nome ma non riesco<br />

a leggerlo e poi non c’è l’indirizzo. Anche mons. Meriggi mi manda<br />

la ricevuta e si ripete la stessa faccenda: nome indecifrabile e mancanza<br />

di indirizzo!<br />

Nel 1979 <strong>Pesce</strong> stampa la prima edizione del volumetto Strade<br />

della vita (con la prefazione dell’amico francescano padre<br />

Nazareno Fabretti), paga le spese acquistando un certo numero<br />

di copie, che affida al direttore del Centro missionario diocesano,<br />

mons. Libero Meriggi, perché le venda realizzando qualcosa per<br />

la sua missione (la seconda edizione è del 1989). Nel 1981 gli scrivono<br />

da Tortona che hanno ancora in deposito un buon numero<br />

di libri: cosa ne facciamo? <strong>Cesare</strong> risponde di darli in omaggio e<br />

distribuirne una decina di copie a ciascuna delle zelatrici missionarie,<br />

affinché le distribuiscano a chi può essere interessato, gratis.<br />

Se poi viene su qualcosa per la missione, tanto meglio, altrimenti<br />

va bene lo stesso; e anche se le offerte, invece di andare a<br />

Pathorgata vanno a qualche altra missione non importa.<br />

108<br />

A me non importa proprio nulla se qualche bigliettone va a qualche<br />

altra missione, anzi, ne sono arcicontentissimo. In generale non<br />

chiedo mai per Pathorgata, come non ho mai chiesto per Thakur-


gaon. Eppure là s’è costruito quasi tutto e qui ho il “boarding”<br />

(pensionato per studenti) da riparare, quelli di Jantuli vogliono la<br />

chiesa in muratura, ecc. Ma i soldi verranno lo stesso. Non temere,<br />

ce la faremo, vedrai (Lettera del 3 dicembre 1981).<br />

Questa la vita missionaria: magnifica!<br />

Negli anni ottanta, uno dei più forti ostacoli alle missioni cristiane<br />

in Bangladesh viene dai militari al potere, che hanno messo<br />

delle “regole tremende” per controllare il lavoro dei missionari<br />

e gli aiuti che ricevono dall’estero. “Hanno cominciato col voler<br />

sapere quanti nuovi cristiani vengono registrati, poi quante take<br />

(la moneta bengalese, n.d.r.) e in che modo e perché si spendono,<br />

specialmente se quelle take sono state acquistate con cambio<br />

di denaro estero…”. Temono che con i missionari stranieri si<br />

infiltri nel paese qualche teoria rivoluzionaria o che si “comperino<br />

le conversioni”. Padre <strong>Cesare</strong> ammette (lettera del 15 luglio<br />

1983) che, secondo quanto si dice, c’è qualche setta pseudo-protestante<br />

americana o coreana che “giunge alla demenza di dare<br />

denaro a questo scopo”. Ma questo non è assolutamente vero per<br />

la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti storiche (anglicani, luterani,<br />

ecc.), per cui diventa “un abuso inammissibile” penalizzare<br />

tutte le missioni cristiane per qualche “demente” facilmente individuabile<br />

e punibile.<br />

Tanto più che proprio le missioni cristiane hanno una massa<br />

notevole di aiuti umanitari e di programmi di sviluppo, di cui<br />

beneficiano tutti i bengalesi, senza eccezione di religione o di<br />

etnia. Come si fa a scoraggiare questo fiume di aiuti gratuiti, con<br />

una caterva di “regole e regolette”, suscitando disgusto e anche<br />

qualche ritiro dal Bangladesh? È vero che le missioni cattoliche e<br />

protestanti dipendono ancora in gran parte dagli aiuti dall’estero,<br />

con tutta “la massa di programmi umanitari” che gestiscono.<br />

“Come principio – scrive <strong>Pesce</strong> – anch’io sono convinto che idealmente<br />

la Chiesa del Bangladesh dovrebbe essere indipendente<br />

e autosufficiente: ma dalla teoria alla pratica ci passa tutta l’acqua<br />

109


del Gange e del Bramaputra”. Nel senso che se la Chiesa pensasse<br />

solo alla sua sopravvivenza e non ad aiutare il popolo, questo<br />

sarebbe abbastanza facile: ma se vuol contribuire allo sviluppo<br />

umano, all’educazione, a lenire le miserie più disumane, deve per<br />

forza di cose chiedere l’aiuto dei fratelli cristiani di ogni parte del<br />

mondo.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> si interroga: come fare a scrivere articoli, “manifestando<br />

con la stampa idee che non devono essere espresse?<br />

Allora, è meglio seguire la strada del vecchio Cincinnato: prendere<br />

l’aratro e andare su e giù per i sentierucoli che dividono i campetti<br />

di riso”. E aggiunge:<br />

Da trentacinque anni mi sembra di tirare a riva, in questo oceano di<br />

povertà che è il Bengala, almeno qualche disgraziato naufrago e ti<br />

vengono a immobilizzare le braccia. Ora sembra che le cose prendano<br />

una piega migliore, almeno più moderata. Il popolo, in generale,<br />

vuole uno stato più laico, eccettuata la solita fascia di fondamentalisti.<br />

A domare i bengalesi non sono riusciti né gli inglesi né i<br />

pakistani e neppure le idee medievali e gli ulema del mondo arabo<br />

hanno avuto successo. Io sono ottimista per natura e credo di non<br />

andare errato a pensarla così.<br />

Nella stessa lettera del 15 luglio 1983 (citata), padre <strong>Pesce</strong><br />

descrive la visita pastorale del Vescovo alla sua missione, dove ha<br />

benedetto due nuove cappelle in due paesini da tempo cristiani:<br />

“Mi sono costate un sacco di take. Sono contento però di averle<br />

spese in questo paese, tanto più che le cappelle durante la settimana<br />

sono trasformate in aule scolastiche per i bambini aborigeni”.<br />

110<br />

Durante la visita ad un villaggetto santal, la cui popolazione è in<br />

maggioranza “battista”, ho avuto la gioia di assistere ad un bel convegno<br />

ecumenico tra cattolici romani e battisti. Il Vescovo stesso<br />

non riusciva a realizzare la situazione, credeva di trovarsi in mezzo<br />

soltanto a cattolici, tanto i fratelli battisti andavano a gara a manifestare<br />

la loro gioia di avere un Vescovo in mezzo a loro e a manifestare<br />

il loro amore al rappresentante di Gesù indiviso, tra tante divisioni<br />

di uomini.<br />

Le scuole sono ancora chiuse in occasione del mese sacro di Rama-


dan. È finito con la famosa festa dell’Eid celebrata questa settimana.<br />

Fra giorni ricominceranno la solita storia: sacchi di riso e di take<br />

per l’educazione di migliaia di ragazzi e ragazze dall’avvenire incerto<br />

in una nazione della Mezzaluna (segno e simbolo del mondo islamico,<br />

n.d.r.). Adesso sono maledettamente affaccendato con la<br />

piantagione del riso e nelle riparazioni del “boarding”. I vicini non<br />

cristiani (i cristiani qui sul posto, possiedono ben poche terre) sono<br />

sempre sul punto di azzuffarsi per prendere l’acqua dal progetto<br />

d’irrigazione della missione. Eccoti qui la mia missione di raffreddare<br />

con parole evangeliche e coraniche gli spiriti bollenti e buttare<br />

soldi per tirar su acqua che servirà a sfamare centinaia, forse<br />

migliaia di gente che si chiama “il nostro prossimo”. Altro che comprare<br />

cristiani! Quest’anno si preannuncia nero: non piove per nulla<br />

e senza acqua qui siamo come i pesci all’asciutto. Allah Rahaman<br />

dega! Altrimenti povero Bangladesh, che Kissinger ha definito “A<br />

bottomless basket” (“Una cesta senza fondo”)!<br />

Padre <strong>Cesare</strong> ama appassionatamente il popolo bengalese e<br />

ha legato la sua vita di italiano alla nuova patria di adozione. Per<br />

lui è una sofferenza constatare, a volte, che la situazione generale<br />

pare vada peggiorando, non migliorando. Buona parte del suo<br />

tempo lo impegna nelle opere sociali e di promozione umana ed<br />

economica. Ad esempio ha varato un “progetto irrigazione” con<br />

una pompa per tirar su l’acqua dal terreno e un canale di distribuzione,<br />

che quando tutto va bene funziona. Ma, ad esempio, nel<br />

1984 manca l’elettricità per tre mesi e si rischia di perdere il raccolto<br />

del riso. Il 7 luglio 1984 scrive a mons. Meriggi 1.<br />

Per tre mesi siamo rimasti senza corrente elettrica. Puoi immaginare<br />

la costernazione di tutta questa gente che si serve del progetto<br />

d’irrigazione della missione. Senz’acqua non c’è alcuna possibilità di<br />

coltivare il riso. Da una settimana, grazie a Dio e ai capi di questo<br />

povero paese, le lampadine stanno accendendosi… E pensare che<br />

mentre noi diventiamo matti per avere l’acqua, in altre parti del pae-<br />

1 Testo pubblicato in occasione del Premio “Torre d’Oro” ricevuto a Novi<br />

Ligure nell’ottobre 1998 (vedi opuscolo pubblicato in quella circostanza); e in<br />

«Missionari del Pime», dicembre 1998, p. 3.<br />

111


se più della metà del Bangladesh è allagato con la perdita del raccolto<br />

di questa stagione.<br />

Quel che preoccupa soprattutto padre <strong>Cesare</strong> è la situazione<br />

generale del paese. I militari, dopo il primo tumultuoso decennio<br />

di nazione indipendente (due presidenti uccisi e vari colpi di stato,<br />

scontri di fazioni e partiti, scioperi continui), hanno imposto<br />

la legge marziale e rimandato le elezioni politiche, dato che i partiti<br />

d’opposizione avevano promesso di boicottarle. Il 2 novembre<br />

1984 <strong>Cesare</strong> scrive:<br />

Noi che siamo in campagna abbiamo e commentiamo soltanto le<br />

notizie che vengono dalle città. Cosa vuoi che si interessino di politica<br />

questi poveri contadini che lottano soltanto per avere un piatto<br />

di riso condito malamente con un po’ di sale e due peperoncini?<br />

Il paese va avanti con gli aiuti che vengono dall’estero. Non siamo<br />

nelle condizioni dell’Etiopia, ma i prezzi sono proibitivi… La vita<br />

politica è uno sfacelo. E di conseguenza l’economia nazionale va a<br />

rotoli, le cose vanno di male in peggio.<br />

Ma <strong>Cesare</strong> non ha tempo di scoraggiarsi. Deve mantenere,<br />

oltre a tutto il resto, 115 ragazzi e ragazze che ospita nel pensionato<br />

della missione per farli studiare. Dalla poca terra che la missione<br />

possiede deve ricavare il vitto per tutta la tribù che dipende<br />

da lui: preti e suore, insegnanti e catechisti, orfani e studenti,<br />

poveri, vedove e ammalati (che non possono pagare nulla); e poi<br />

ricavare il necessario per pagare lo stipendio agli otto insegnanti<br />

che istruiscono 300 studenti nella scuola della missione e agli altri<br />

che servono nella missione. Cosicché, scrive, quattro buoi e tre<br />

uomini lavorano ogni giorno sui campi tentando di ricavare dalla<br />

madre terra, anche variando le colture, il massimo che essa può<br />

dare.<br />

112<br />

Il Presidente Zia (il capo del governo del Bangladesh, n.d.r.) – scrive<br />

in una lettera del settembre 1980 a don Franco Zanolli di Novi<br />

Ligure – grida ai quattro venti che nemmeno un centimetro quadrato<br />

di terra del Bengala deve rimanere incolto. Ma anche senza le sue<br />

parole, questo è un problema di vita o di morte. La Chiesa cattoli-


ca del Bangladesh è tremendamente preoccupata di questo problema<br />

dell’alimentazione ed è logico che i preti, insieme al Paternoster,<br />

insegnino a coltivare riso e grano e passino la maggior parte delle<br />

ore del giorno nei campi o nelle aie a tentare di far capire come funzionano<br />

pompe e attrezzi agricoli. Allora, anch’io divento contadino.<br />

E ti assicuro che così la vita è bella anche senza la televisione e<br />

il cinema, il dancing e l’automobile. Di sera, dopo aver ascoltato il<br />

giornale radio con le solite terribili notizie di attentati e atti terroristici,<br />

mi butto sul letto e mi addormento all’istante al ritmico gracidare<br />

delle rane, mandando a quel paese tutti gli stupidi, piccini<br />

egoismi nazionali e personali di chi siede sui cadreghini governativi<br />

del mondo.<br />

Buona notte a me! Domani all’alba mi attende quel campo in riva<br />

al fiume, che mi fa sempre “girar l’anima” con le sue falle. Dovrò<br />

svegliare presto il mio uomo, per tamponarle ancora una volta: tre,<br />

quattro quintali di riso raccolto laggiù vogliono dire il rancio per<br />

dieci giorni dei miei studenti e studentesse all’Hostel! Buona notte<br />

a te e ai tuoi bravi giovani e ragazze di Novi Ligure! Buon riposo e<br />

dolci sogni guadagnati col vostro sacrificio e le vostre offerte, nel<br />

tentativo di tamponare le numerose falle morali, economiche e<br />

sociali di questo povero campo del Bangladesh. Grazie.<br />

Padre <strong>Pesce</strong> prende tutto con fede e amore a Dio e al prossimo.<br />

Quindi è sempre su di giri. Il 3 dicembre 1984, dopo aver<br />

descritto le situazioni di miseria del popolo e il lavoro delle missioni<br />

per aiutare la povera gente, scrive:<br />

La vitaccia, intanto, va più o meno come al solito: per Natale la visita<br />

ai villaggi per le confessioni e le Messe, su e giù per le fantastiche,<br />

impensabili strade (ma chi ha il coraggio di chiamarle strade?)<br />

del Bangladesh. Ritiri ai giovani, a uomini e donne… e poi la mietitura<br />

del riso, semina del grano e delle patate. Tutto fa brodo. È la<br />

vita missionaria: magnifica!<br />

Qualche anno dopo conferma (lettera del 28 maggio 1990):<br />

“La vitaccia continua, la più bella del mondo, perché è quella di<br />

un prete: la mia, la tua”.<br />

113


“Mi godo la povertà felice del Bangladesh”<br />

Nella corrispondenza di padre <strong>Pesce</strong> si trovano lettere che<br />

sono quasi da antologia letteraria, almeno della letteratura missionaria.<br />

Questa ad esempio del 1° maggio 1985, all’amico mons.<br />

Libero Meriggi (l’unico che ha conservato tutte le sue lettere!) da<br />

Pathorgata, la parrocchia dove padre <strong>Pesce</strong> resta dal 1979 al<br />

1995. A Pasqua, per mancanza di tempo, non ha fatto gli auguri<br />

a don Libero e a tutti quelli che, con le loro preghiere e aiuti, permettono<br />

alla sua missione di vivere e progredire. <strong>Cesare</strong> se ne<br />

accorge in ritardo, scrive all’amico e si presenta a lui “come il barbone<br />

della Piazza del Duomo (di Tortona), a testa bassa, umile<br />

umile, per dirti che sono contrito e umiliato, e chiedo scusa…”.<br />

Poi aggiunge:<br />

114<br />

Ma mi viene il dubbio: non è la mancanza di tempo per questi usuali<br />

ritardi nello scrivere. Dolorosamente, ahimé, devo ammettere che<br />

divento vecchio e il brio d’un tempo va a farsi benedire. Per scrivere<br />

ci vuole concentrazione e io ora ne possiedo poca. Diventato parroco<br />

contadino di questa missione che, grazie alle fatiche del mio<br />

predecessore, ha fama di essere all’avanguardia nei nuovi sistemi di<br />

produzione agricola, mi piace un mondo sporcarmi le mani, aspirare<br />

l’odore acido del diesel e mobil-oil presso la vecchia pompa che<br />

irriga i campi dei miei compaesani.<br />

Che farci? Se non funziona la pompa della missione qui non c’è<br />

acqua. Caspita, se non c’è acqua non si mangia. Da un anno qui<br />

manca l’elettricità e il motore elettrico che pompava acqua per una<br />

cinquantina di famiglie contadine ora è inattivo. Mi hanno regalato<br />

un vecchio Slanzi che mi fa diventar matto per le sue continue<br />

malattie. A forza di altrettanti continui interventi chirurgici riesce<br />

però, quando sta bene, a far contente una ventina di famiglie.<br />

Meglio che niente, no? E allora giù diesel e su acqua. Giù semi e su<br />

riso. Qualcosa si ottiene, una goccia nell’oceano, per sfamare ‘sti<br />

cento milioni di gente che mangia quando può.<br />

Il manager della missione tempo fa è caduto giù dal secondo piano<br />

della scuola ed è ritornato dopo qualche mese d’ospedale un po’<br />

menomato dal collo in su. Ora fa il pensionato, va a pescare, gironzola<br />

e ritorna quando vuole; un piatto di riso, caldo o freddo, qui


lo trova sempre. Mi ha lasciato però le sue incombenze di far seminare<br />

oggi la iuta, domani di piantare il riso e i peperoni, le patate e<br />

via via i prodotti propri di ogni stagione. Tutta roba che andrà a formare<br />

le ossa degli orfani e dei ragazzi del boarding. Io ci guazzo<br />

dentro lieto come un pesce del vicino Tulsiganga (non per nulla mi<br />

chiamo “pesce”).<br />

Due settimane fa è stato qui a trovarmi il Vescovo Joakim (di Chittagong),<br />

un amico di vecchia data. Dopo una mia predichetta (in<br />

bengalese), a colazione mi fa gli elogi: “Parli bene, ti ho ascoltato<br />

con gusto”. E va bene. Dopo qualche ora capita qui un amico<br />

musulmano, l’ex sindaco del paese. Mentre toglie la chiavetta dalla<br />

motocicletta: “Magnifico!” grida tra gli scoppi del motore morente:<br />

“Questo è il campo di cipolle più bello del paese” e indica il campetto<br />

che costeggia la casa. Debbo dirti la verità? Mi ha fatto più<br />

piacere la lode delle cipolle che quella della predica. Cibo dell’anima<br />

e cibo della pancia. Tento di dispensarne un po’ dell’uno e un<br />

po’ dell’altro. Ma a sentire le mie prediche purtroppo, eccetto quei<br />

quattro buoni gatti di cristiani, non viene quasi nessuno, anche se il<br />

Vescovo di Chittagong così, per consolarmi, mi dice “bravo!”. Un<br />

seme tra cento milioni per caso germoglia nel deserto cristiano o,<br />

meglio, nella serra opulenta musulmana del Bangladesh. Le cipolle<br />

invece, nascoste sotto terra, escono abbondanti e panciute nelle<br />

mani dei poveri. E chissà che domani quel riso e quelle cipolle, irrorate<br />

dal sudore del missionario, non vadano a formare nei cervelli la<br />

materia grigia necessaria a far trovare la via della verità!<br />

E così tra una benedizione agli sposi, una maledizione ai vermi del<br />

riso, un titolaccio da facchino al pistone che rifiuta di muoversi e<br />

una sgridata ai ragazzi della scuola che, invece di studiare vanno a<br />

caccia di uccelli e di pesci, arrivo alla sera contento d’essere ancora<br />

vivo a godermi la povertà felice del Bangladesh. E le lettere di ringraziamento<br />

dei benefattori e amici delle missioni? Alla sera. Giusto<br />

il tempo di buttarle giù. Ma… non c’è la luce… ci sono le zanzare…<br />

c’è quell’articolo interessante sulla tal rivista… Piuttosto c’è<br />

la pigrizia, bestia nera, da combattere. Ricordi il vecchio funereo<br />

gesuitone? “L’ozio è il padre dei vizi. No, reverendi, l’ozio è il vizio<br />

dei padri!”. Ti saluto e grido forte forte a te, a tutti gli amici: Grazie!<br />

O alla maniera islamica del mio Paese d’adozione: “Khoda<br />

afez!”. Ma gira e rigira il più bello e il più cordiale è sempre<br />

“CIAO”.<br />

115


Mentre leggo le lettere del nostro missionario, spesso mi viene<br />

in mente questo pensiero: che grande cosa la fede! Pensate un<br />

po’: <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> di Novi Ligure, a 66 anni è contento come una<br />

Pasqua di vivere nel paese tra i più poveri e miseri del mondo, nel<br />

mare dell’islam e in mille difficoltà, privo delle gioie più normali<br />

per un vecchietto italiano della sua età in pensione: un po’ di televisione,<br />

una partita a carte o a bocce, buoni risotti e arrosti, passeggiate<br />

e chiacchiere con gli amici, e poi le gioie della famiglia,<br />

tra nipoti e nipotini, gli impegni possibili di volontariato senza<br />

impedire il giusto e meritato riposo, ecc. <strong>Cesare</strong> invece è super<br />

impegnato tutto il giorno, anche sabato e domenica, e le sue serate<br />

sono occupate da incontri, conferenze, visite ai villaggi, lettere<br />

agli amici e benefattori. Eppure è felice della vita che fa, della sua<br />

vocazione missionaria.<br />

Che grande cosa la fede!<br />

Padre <strong>Pesce</strong> è contento quando riesce a fare qualcosa per la<br />

sua gente. Il 17 giugno 1985 scrive che è felice perché è riuscito<br />

a realizzare, ed è andato bene, un “corso di preghiera” di dieci<br />

giorni (e di vita comunitaria con tanti giochi e istruzione elementare)<br />

per i bambini e bambine dalla seconda alla quinta elementare:<br />

erano 104! Ma soprattutto è soddisfatto perché il “progetto<br />

sociale” che sta realizzando va avanti bene. Di cosa si tratta? Di<br />

una cooperativa di produzione e di consumo? No! Di una scuola<br />

di alfabetizzazione per uomini e donne? No! Di una “banca del<br />

riso” per i più poveri? No! Di una nuova casa di accoglienza e di<br />

cura per poveri e ammalati? Nemmeno per sogno… <strong>Pesce</strong> si è<br />

messo in testa di costruire (e le autorità civili hanno approvato il<br />

progetto) 400 latrine per la gente nei villaggi che egli visita (duetre<br />

per villaggio). Il “cesso” è un segno del progresso che avanza.<br />

Ma <strong>Cesare</strong> scrive:<br />

116<br />

Faccio difficoltà a convincere la gente, specie gli aborigeni, che è<br />

meglio avere un cesso vicino a casa. Loro invece preferiscono andare<br />

liberi nei campi, contro ogni norma di igiene e di modestia. Finora<br />

ne ho costruiti cinquanta, continuerò dopo i mesi della stagione<br />

delle piogge. È un progetto che ha poco successo. Invece per le<br />

pompe per l’acqua tutti sono d’accordo: capiscono bene che l’acqua


della pompa è più salubre di quella dello stagno presso casa. I soldi<br />

che spendo in questi due progetti non saranno poi spesi in medicine<br />

contro la diarrea, il tifo e il colera 2 .<br />

Un altro “progetto di sviluppo” realizzato a Pathorgata negli<br />

anni ottanta è questo, che <strong>Pesce</strong> stesso racconta 3 :<br />

Un bel giorno, intento a scovare il guasto nel motore dell’acqua per<br />

l’irrigazione in un villaggio alla periferia di Panchbibi nella provincia<br />

di Bogra, vengo chiamato d’urgenza dal Sindaco. Inimmaginabile!<br />

L’Ambasciatore della Danimarca in Bangladesh si presenta senza<br />

tante premesse e chiede la mia collaborazione, con quella del Sindaco,<br />

per un progetto che il suo governo finanzierebbe: un “gonobiddaloy”<br />

(in inglese “Popular educational Centre”), dove i giovani<br />

avrebbero appreso nozioni di agraria moderna, meccanica, cucito,<br />

economia domestica, ecc. Il Sindaco era già al corrente della faccenda<br />

e aveva già visitato un altro centro simile in altra zona del Bangladesh...<br />

Era entusiasta e io più di lui. Il mio vecchio sogno si realizzava:<br />

un lavoro fatto assieme, abbattute finalmente tutte le nefaste<br />

barriere di casta e religione, in unione di intenti per il bene di<br />

2 Il fatto raccontato da padre <strong>Pesce</strong> non deve meravigliare. Meno di un<br />

secolo fa, in Italia, nel piccolo paese di Viancino (Vercelli), la famiglia Gheddo<br />

aveva nel 1907 una trattoria. L’hanno venduta per questo motivo: in quell’anno<br />

c’erano i primi aerei e uno di questi è atterrato in un campo vicino a Viancino.<br />

Tutta la gente è corsa a vedere, il pilota aveva bisogno del bagno ed è andato in<br />

paese con tutta la gente che gli andava dietro. Ma a Viancino gli hanno detto<br />

che nessuna delle case aveva un gabinetto, nemmeno l’unica trattoria. Allora il<br />

pilota ha fatto un rapporto al Prefetto di Vercelli, lamentandosi dell’arretratezza<br />

di quel paesino. Il Prefetto ha firmato un decreto col quale imponeva a Pietro<br />

Gheddo (mio nonno!) di costruire un gabinetto nella trattoria. E il nonno<br />

ha venduto la casa per 8.000 lire! Il gabinetto in casa allora era impensabile, il<br />

nonno non voleva spendere soldi per qualcosa che non serviva a nessuno!<br />

3 L’ho già detto ma è bene ripeterlo. Mi è stato possibile scrivere questa biografia<br />

di padre <strong>Pesce</strong> solo perché il direttore del Centro missionario diocesano<br />

di Tortona, mons. Libero Meriggi, e i suoi collaboratori, specialmente Camilla<br />

Brambilla e Riccarda Carrer, hanno conservato gelosamente tutte le lettere del<br />

missionario, che sono oggi la fonte principale per conoscere la sua vita. Quando<br />

non indico il destinatario delle sue lettere, significa che è mons. Libero<br />

Meriggi e il Centro missionario di Tortona.<br />

117


questa nostra gente, per renderla “self-supporting” (auto-sufficiente)<br />

con il proprio lavoro reso più razionale, meno pesante e più redditizio.<br />

Ed ora eccoci impegnati in questa nuova avventura. È un piacere<br />

lavorare con questo Sindaco, un dotto e pio musulmano del luogo.<br />

Fa il medico, specializzato in ginecologia. Mi è riuscito simpatico alla<br />

prima occasione in cui erano coinvolte la salvezza di uno studente<br />

della mia scuola e la sua arte medica… Come dicevo, è un uomo di<br />

compagnia. La sua sincerità e onestà nel trattare con gente semplice<br />

e poco istruita mi spinge a seguire il suo esempio. D’altra parte, la<br />

sua fermezza con chi tenta di imbrogliare o di fare il furbo mi dà<br />

coraggio e sicurezza nella mia condizione di straniero, quindi ritenuto<br />

meno furbo di un bengalese, a cui la cronica necessità aguzza l’ingegno.<br />

Insomma, siamo diventati amici, gli voglio bene.<br />

Non abbiamo altre notizie su questa iniziativa di sviluppo. Interessante<br />

però notare che l’ambasciatore della Danimarca (e quindi<br />

il suo governo) per realizzare un progetto per il popolo da loro<br />

finanziato si rivolgono al missionario cattolico, oltre che all’autorità<br />

civile del posto. Fatto strano, non comune nella distribuzione di<br />

aiuti da parte dei governi di paesi ricchi che realizzano progetti in<br />

quelli poveri: l’ambasciatore danese aveva capito, che coinvolgendo<br />

il missionario cristiano del posto, è più facile che il progetto<br />

venga realizzato, che il denaro non si perda per altre vie… È una<br />

dimostrazione della verità di quanto dice Giovanni Paolo II nell’enciclica<br />

del 1990 Redemptoris Missio (n. 58):<br />

La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha<br />

evangelizzato, la spinta verso il progresso, ed oggi i missionari, più<br />

che in passato, sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo<br />

da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto<br />

che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> vive “in una girandola di fuochi artificiali”<br />

Il culmine della gioia e della consolazione spirituale padre<br />

<strong>Cesare</strong> lo raggiunge nei giorni del Natale 1988, quando a Pathor-<br />

118


gata il Vescovo mons. Theotonius Gomes consacra il primo prete<br />

della parrocchia e anche il primo oraon della diocesi di Dinajpur:<br />

già un po’ anziano, 36 anni, “contadino di nascita e di carattere,<br />

quindi tenace nelle sue idee. Spero faccia bene anche perché<br />

non pretenzioso come qualcuno dei giovani preti locali”. Una<br />

festa preparata con cura da mesi (restauri, nuove strade, tendoni,<br />

canti e danze, cerimonie e cori, allestimento dei vettovagliamenti)<br />

che ha riunito i cristiani nella preghiera, ma anche<br />

nell’“immancabile pranzone semi-religioso con un migliaio di<br />

invitati”.<br />

Nel Diario di un curato di campagna, Georges Bernanos inizia<br />

il romanzo con queste parole del suo curato di Ambricourt, parrocchietta<br />

sperduta nella Fiandra che è l’immagine del mondo o<br />

meglio della cristianità occidentale:<br />

La mia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte.<br />

Le parrocchie d’oggi, naturalmente… La mia parrocchia è divorata<br />

dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie. La noia le<br />

divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche<br />

giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile<br />

cancro. Si può vivere molto a lungo con questo cancro in corpo.<br />

Cesbron semplifica ed esagera, ma non sbaglia nel descrivere<br />

l’atmosfera del nostro “Occidente cristiano” con la parola “noia”:<br />

basta pensare a come le prime pagine di giornali e telegiornali<br />

sono occupate dalle spesso futili schermaglie del ceto politico, da<br />

fatti giudiziari gonfiati all’inverosimile, dalle sfilate stucchevoli<br />

(sempre uguali) della moda e via dicendo. Abbiamo tutto, molto<br />

più di quanto sarebbe necessario alla vita, e non sappiamo più<br />

goderne in modo umano. Per “divertirci” inventiamo le discoteche,<br />

lo sballo notturno che invecchia anzitempo: ecco la noia, il<br />

cinismo, l’aridità dei rapporti umani. In fondo, l’egoismo e l’aridità<br />

dei ricchi.<br />

Tutto il contrario di quel che sperimenta padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong><br />

nella parrocchietta di Pathorgata, sperduta nella pianura del Bengala,<br />

fra il Gange, il Bramaputra e le foreste dei Dooars. Una parrocchia<br />

di nuovi cristiani in un mare islamico, fra popoli ancora<br />

119


un po’ “primitivi”, cioè ai primi passi verso il progresso e il mondo<br />

moderno, ma più autentici, più “umani” di noi. I problemi di<br />

padre <strong>Cesare</strong> sono molti e l’ultima parola che gli sarebbe venuta<br />

in mente per descrivere il suo popolo e la sua stessa vita, se avesse<br />

tenuto un diario come il curato di Ambricourt, era “noia”.<br />

Infatti lui a volte scrive che vive “in una babilonia da Torre di<br />

Babele”, in una “situazione caotica”, in “un pasticcio dell’ira”,<br />

persino “in un casino da non credersi”. Ma in una “situazione di<br />

noia”, no! Ecco come descrive la sua esistenza quotidiana in una<br />

lettera dell’11 novembre 1991:<br />

120<br />

Sto vivendo in una girandola di fuochi artificiali: scoppi intermittenti,<br />

via l’uno arriva l’altro: questo ti racconta i suoi guai in famiglia e<br />

della moglie ammalata; quello ti domanda un consiglio per la figlia,<br />

pronta a sposarsi; ed eccoti i soliti ammalati che domandano il benestare<br />

– lettera firmata e timbrata – per entrare nell’ospedale cattolico<br />

di Dinajpur, cosicché poi io dovrò pagare i soliti salati bills (conti).<br />

Un po’ di respiro? No, neppure un attimo. Sulla porta si delinea<br />

la faccia del “mistri” (muratore capo): bisogna andare d’urgenza a<br />

stabilire le misure per un pilastro nell’erigenda casa delle monache.<br />

E dietro al mistri l’immancabile manager delle terre che ti viene a<br />

domandare quanti kg. di urea e potassio deve dare sul campo dei<br />

cavoli. Così la ruota gira tutto il santo giorno.<br />

Senza contare la fila dei poveri diavoli colpiti dall’inondazione del<br />

nord. Perché lo sai, dopo il ciclone verso il mare, il Bangladesh (il<br />

“servo sofferente” della Bibbia) ha avuto l’inondazione dalle mie<br />

parti: case crollate, campi di riso andati alla malora e, di conseguenza,<br />

migliaia di persone colpite dalla diarrea e influenza. Io ho distribuito<br />

centinaia di pacchetti di “saline” e “terramicin”. Anche la<br />

missione ha avuto due cappelle col tetto di lamiera completamente<br />

distrutte. Puoi immaginare quanti ammalati avevamo: su 97 ragazzi<br />

e ragazze dell’orfanotrofio-hostel, 45 rimasero a letto per una settimana<br />

o una decina di giorni. Grazie a Dio nessuna vittima tra i cristiani,<br />

se si eccettua un padre di famiglia annegato nel fiume vicino<br />

nel tentativo di ritornare a casa “prima di notte”.<br />

Ora è ritornato il sereno sia nel cielo che nell’animo. Posso lavorare<br />

anche un po’ nello spirituale. Il 3-4-5 di questo mese abbiamo<br />

avuto il raduno della gioventù cattolica, 136 giovanotti e giovanotte.<br />

Riuscito abbastanza bene. Gli oratori erano il direttore del cen-


tro catechistico e una suora molto brava. Dal 7 al 10 novembre ho<br />

organizzato il “Bible Dibosh” (Festa della Bibbia) con 150 ragazzi<br />

e ragazze dei paesi vicini alla missione. Riuscito bene. I partecipanti<br />

sono rimasti qui con me giorno e notte e il loro entusiasmo ha colpito<br />

persino me, dall’animo ormai incartapecorito! Ed ora sto preparando<br />

il corso dei candidati al matrimonio: sarà verso la fine di<br />

questo mese. E così fra lo spirituale e il materiale tentiamo di fare<br />

qualcosa per un domani migliore del passato. Davvero? Mah, speriamo<br />

col gesuitico A.M.D.G. (“Ad Maiorem Dei Gloriam”, Per la<br />

maggior gloria di Dio). Ciao, Be cheerful! (sii pieno di gioia).<br />

Nel marzo-maggio 1992, la diocesi di Dinajpur e i missionari<br />

del Pime organizzano feste e celebrazioni in onore di padre <strong>Pesce</strong><br />

per il suo cinquantesimo di sacerdozio. Prima l’hanno festeggiato<br />

i preti locali ed esteri, con i catechisti: “Una giornata passata<br />

in allegria e fraternità intima senza tanti fronzoli; un bel ‘meeting’,<br />

una Messa concelebrata con molto fervore e commozione<br />

date le circostanze, un bel pranzone alla bengalese e chi s’è visto<br />

s’è visto”. Una settimana dopo, festa alla casa del Pime a Dacca,<br />

alla presenza di tutti i quaranta membri dell’Istituto e del Nunzio<br />

apostolico, mons. Piero Biggio. Il 15 maggio 1992 <strong>Cesare</strong> scrive a<br />

don Libero Meriggi:<br />

Se ne sono dette di tutti i colori sul mio conto, lasciando perdere<br />

naturalmente le magagne. È ovvio, non dare pennellate inutili e dannose<br />

ad un quadro d’artista come era stato concepito dall’amico<br />

superiore regionale, padre Gino Goduto. Là tutto all’italiana, da<br />

“Nel nome del Padre” fino all’ultimo pezzetto di torrone “Pernigotti”<br />

di Novi Ligure. E anche quella festa è passata. Poi la celebrazione<br />

in parrocchia, a Pathorgata, il 3 maggio, preparata dalla gioventù<br />

maschile e femminile. Da tutti i buchi sono spuntati i miei cristiani<br />

(più di mille) a ringraziare il Signore, o meglio, a perdonare il<br />

Signore d’aver mandato in mezzo a loro un accidente di prete quale<br />

sono io. E canti e suoni e danze dalla mattina alla sera. La messa<br />

solenne all’aperto mi ricordava la Collegiata di Novi gremita all’inverosimile<br />

di 50 anni fa quando celebrai la prima Messa. Commozione?<br />

Eh, sì, un po’. Per fortuna erano presenti quel buontempone<br />

del Vicario generale e un altro amico, che sparavano battute per<br />

tenermi nell’umiltà.<br />

121


122<br />

L’ultima festa, per ora, a Dinajpur, al centro della Diocesi. Il Vescovo<br />

Theotonius Gomes non si è lasciato vincere dalle mie proteste e<br />

obiezioni, ha voluto fare a tutti i costi una cosa enorme, solenne.<br />

Troppo, davvero troppo. Ha fatto venire una rappresentanza da tutte<br />

le parrocchie della Diocesi e da tutte le istituzioni cattoliche. E<br />

giù discorsi, ricordi di fatti che io avevo ormai dimenticato… Quasi<br />

mi convincevano ad ammettere che ho fatto qualcosa in questa<br />

mia patria d’adozione… Ho detto “quasi” bada bene: non ne sono<br />

per nulla convinto. Statistiche? Beh, quattro – cinquemila battesimi…<br />

Se c’era un altro al mio posto ne avrebbe amministrato sei o<br />

settemila. Centinaia, migliaia di chilometri sulle strade (strade per<br />

modo di dire) del Bengala a dare la Messa magari a quattro famiglie<br />

che sanno a stento il Pater Noster, a dire loro soltanto di non aver<br />

paura che ci sono io: se ci sono io, c’è Dio in mezzo a loro.<br />

Fatica, pericoli? La gioia che provi dopo una fatica superata, dopo<br />

un pericolo da cui sei uscito vittorioso è già ricompensa umanamente<br />

valida. Quel sorriso affiorato sul volto di quella ragazzina disperata,<br />

perché tradita, ti fa dire: “Valeva la pena di fare 50 km per dirle<br />

una parola, e ottenere per me questa gioia del successo”. E quando<br />

dopo tanta strada torni a casa a mani vuote, vergognosamente<br />

fallito?…Te possino… Alle feste mia sorella era solita fare dolci a<br />

forma di cuore o di fiore: tra i tanti alcuni venivano fuori sformati,<br />

schiacciati. Erano quelli i più gustosi. Il fallimento ti sollecita a fare<br />

meglio domani, ad evitare gli errori stupidamente commessi.<br />

E così nella gioia del lungo andare di 50 anni di sacerdozio vanno in<br />

frantumi le fide due biciclette e le malfidate cinque motociclette. La<br />

sesta è buona. Agli amici musulmani che non tollerano il celibato, dico<br />

sempre indicando la moto: “This is my wife (questa è mia moglie). È<br />

una giapponesina”. E la questione del celibato dei preti cattolici finisce<br />

con una risata. Altrimenti Dio ti salvi dalle loro argomentazioni coraniche<br />

e bibliche vetero-testamentarie. Tutto sommato, pensando al<br />

mio passato mi convinco sempre più che tutto fu predisposto da Dio<br />

a farmi cercare, e molte volte ottenere, la gioia di vivere la mia vita missionaria<br />

senza patemi d’animo, terra terra, senza misticismi. Come il<br />

contadino bengalese che suda e fatica attendendo la gioia di mietere<br />

il riso sorgente di gioia e di vita dei suoi bambini, così arrivi alla fine<br />

con il dubbio di aver accumulato ben pochi meriti per l’al di là. Ripeto,<br />

la ricompensa per il poco bene mal fatto mi è ormai stata elargita<br />

con la gioia provata giornalmente nel mio lavoro.


Non mi rimane che dire grazie a Dio, grazie a chi amo e a chi mi<br />

ama. Quel “chi” sei tu. Ciao, tuo don <strong>Cesare</strong>. (La prossima settimana<br />

ancora mi festeggiano a Thakurgaon e poi basta, basta per amor<br />

di Dio. Ne ho piene le scatole di tutte queste feste).<br />

123


5.<br />

IL TRAMONTO NEL SANTUARIO DI MARIA<br />

Quando nel 1983 sono andato a trovare padre Clemente<br />

Vismara in Birmania, a 86 anni era ancora parroco di Mong Ping<br />

e a me che lo intervistavo sulle sue avventure, che avevo spesso<br />

letto e anche pubblicato sulle riviste del Pime, diceva: “Lascia<br />

perdere le storie del passato, queste cose le ho scritte tante volte.<br />

Parliamo invece del mio futuro, del futuro di questa missione di<br />

Mong Ping…”. Mi sono accorto che, pur avendo superato gli 86<br />

anni, non era mai invecchiato! Tutto bianco, ma con l’animo di<br />

un giovane che guarda al futuro. Ecco, leggendo le lettere di<br />

padre <strong>Pesce</strong> mi è venuto in mente Vismara, che diceva: “Diventi<br />

vecchio quando ti accorgi che non sei più utile a nessuno”. Così<br />

anche il “Pesciolino” di Novi Ligure: leggendo le sue lettere, mi<br />

accorgo che anche lui non è mai invecchiato. È morto a 83 anni<br />

con lo stesso spirito di quando ne aveva trenta o quaranta: guardando<br />

al futuro pieno di speranza, programmando nuove imprese<br />

apostoliche. Infatti, quando è costretto a tornare stabilmente<br />

in Italia nel gennaio 2002 perché non ce la fa più a stare in Bengala,<br />

muore sei mesi dopo, felice e contento di andare incontro al<br />

Padre e ai suoi bengalesi che lo aspettano anche in Paradiso.<br />

Missione di pace tra due feudi oraon a Kalisha<br />

Naturalmente non si può dire: ecco questo è il missionario.<br />

No, ciascuno ha la sua vita, il suo percorso segnato da Dio, i suoi<br />

doni e carismi, le sue avventure. Non esiste un modello unico di<br />

missionario, anche se Cristo è il modello di tutti. Ma possiamo<br />

dire che il nostro “Pesciolino” è invecchiato bene. Quando si<br />

accorge che fisicamente sta diventando anziano, non pensa di<br />

125


mettersi a riposo o di fare chissà cosa per ritardare la decadenza<br />

della vecchiaia. Canta le lodi di Dio e va avanti come prima. Ecco<br />

cosa scrive agli amici il 9 dicembre 1992 (morirà dieci anni dopo):<br />

Carissimo, dura lex sed lex et senectus ipsa morbus (la legge è dura,<br />

ma è la legge: la stessa vecchiaia è una malattia). Te possino (era una<br />

delle sue imprecazioni preferite, n.d.r.), sono giunto a questa triste<br />

conclusione ineluttabile nella mia vita. Una piccola conseguenza di<br />

questa situazione è proprio la pigrizia nello scrivere. Era il mio hobby,<br />

il mio relax: buttar giù quattro righe e compiacermi della maggiore<br />

o minore riuscita. Ora, preso tutto il giorno da mille cosette,<br />

la costruzione del convento delle monache, la sequela di “training”<br />

(addestramento) per ogni categoria di persone, la scuola, il boarding,<br />

la fila dei poveri di pecunia e di spirito… e alla sera, guardo<br />

la penna addormentata sul tavolo e tiro un sospiro pieno di malinconia.<br />

Adagio adagio si chiude il sipario. Per fortuna torna il vecchio<br />

Isaia a gridare: “Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie<br />

in Sion…”. Penso: io sono sceso in una terra piana, bassissima,<br />

ma in qualche modo, più male che bene, ho recato liete notizie e sta<br />

arrivando il Natale 1992! E ciò con il tuo aiuto. Auguri di un bellissimo<br />

Natale e di uno splendido Anno Nuovo.<br />

Due le novità dell’inizio anni novanta. Anzitutto, padre <strong>Pesce</strong><br />

si mette a scrivere in inglese la storia generale della Chiesa cattolica,<br />

che voleva poi far tradurre in bengalese. Lui parla di “sommario<br />

della storia” e dice che fa questo lavoro perché non c’è<br />

ancora un libro in bengalese sulla storia della Chiesa. Si è documentato,<br />

ha raccolto sette-otto autori i cui testi gli riempiono il<br />

tavolo e, appena ha un po’ di tempo, si mette a lavorare con<br />

gusto. Scrive a macchina su fogli di quaderno (metà di A4) e giunge<br />

fino a pag. 398, fino a Napoleone compreso.<br />

Il testo originale è conservato nell’Archivio generale del Pime<br />

a Roma. I fogli sciolti sono stati mandati dal Bangladesh dopo la<br />

morte di p. <strong>Pesce</strong>. L’archivista padre Angelo Bubani, con un<br />

paziente lavoro, li ha ordinati e numerati, ha fatto l’indice e li ha<br />

raccolti in un volume. Credo sia il lavoro letterario più importante<br />

di padre <strong>Cesare</strong>. L’opera è incompleta, ma scorrendola sono<br />

rimasto colpito dalla sua capacità narrativa. Non è facile scrivere<br />

126


la storia della Chiesa, dagli inizi ad oggi, in uno stile adatto ai giovani<br />

cristiani del Bangladesh, in una cultura radicalmente diversa<br />

da quella europea. Da una rapida lettura, mi pare che <strong>Cesare</strong> c’è<br />

riuscito. Di ogni periodo mette in risalto i fatti principali, personalizzando<br />

le vicende con la presentazione dei vari Papi e santi,<br />

dando spazio anche ai personaggi degli eresiarchi e alle loro idee,<br />

per mostrare come la Chiesa, attraverso duemila anni di storia<br />

tormentata, è stata guidata dallo Spirito Santo a mantenersi fedele<br />

al Vangelo e al modello di Cristo.<br />

Nel 1992 padre <strong>Pesce</strong> ha problemi di ischemia cardiaca che<br />

lo obbligano a ritornare in Italia per un po’ di riposo; e nel gennaio<br />

1993 cade malamente: si riempie di escoriazioni e tumefazioni,<br />

cammina con difficoltà e deve stare un po’ fermo. Il superiore<br />

regionale del Pime gli manda in aiuto, a Pathorgata, padre Giulio<br />

Berutti. <strong>Cesare</strong> è contentissimo e ci fa subito su la battuta:<br />

Lui si chiama Giulio e io <strong>Cesare</strong>. Somma: Giulio <strong>Cesare</strong>. Te possino…<br />

Andremo alla conquista della Gallia e Britannia ancora pagane.<br />

Ho già qui due bei villaggi quasi pronti per entrare nel grande<br />

Ovile, con la “O” maiuscola. Sarà per Pasqua, spero… E le tre scuole<br />

elementari con 500-600 alunni, di cui 105 interni. E le cooperative<br />

e casse di risparmio. E poi trainings e meetings di continuo<br />

seguendo la moda dei tempi. E via via… Così, con tutte queste belle<br />

storie a cui pensare e badare, eccomi diventato vecchio, vecchissimo,<br />

da ammazzare… “Forza che ce la fai” mi dicono i nuovi missionari<br />

che stanno studiando il bengalese e il santal. “Pedalate,<br />

pedalate – rispondo loro – qui ce n’è per tutti giovani e vecchi. Evviva<br />

il Bangladesh!” (lettera a mons. Meriggi del 15 febbraio 1993).<br />

Nell’aprile 1995 padre <strong>Pesce</strong> è ricoverato nella clinica Gulsan<br />

di Dhaka per essere operato di ernia inguinale. Da tempo gli dava<br />

fastidio e rimandava sempre l’intervento, fin che diventa indispensabile.<br />

Quando esce dalla clinica vorrebbe tornare alla sua<br />

parrocchia di Pathorgata, ma scrive (5 maggio 1995):<br />

Ho ricevuto l’ordine di riposare. Il capo mi consiglia di venire in<br />

Italia per qualche mese, il Vescovo idem… “Sei calato di dieci chili<br />

e in Bangladesh chi te li ridà?”. E va bene, seguiamo i consigli di<br />

127


“color che sanno”. Mi spiace lasciare la mia famiglia di qui, puoi<br />

immaginarlo. Ma con la speranza di non sbagliare verrò. Spero solo<br />

per qualche mese in modo da rimettermi.<br />

In altra lettera scrive: “Il Vescovo e i capi del Pime mi consigliano,<br />

meglio, mi forzano di venire per qualche mese in Italia a<br />

rimettermi un po’. Ho accettato a malincuore, pensando alla buona<br />

occasione di vedere la mia vecchia sorella”.<br />

A maggio 1995 ritorna in Italia per convalescenza e riposo.<br />

Mentre nell’estate 1995 è a Novi Ligure in vacanza, riceve nuovamente<br />

l’offerta di assumere una parrocchia nella sua diocesi di<br />

Tortona, sull’Appennino Ligure. Questa volta il missionario si<br />

interroga seriamente su quale strada scegliere, forse perché capisce<br />

che, a 76 anni in un paese caldo umido come il Bangladesh,<br />

non può resistere molto e potrebbe anche diventare di peso ai<br />

confratelli e alla missione. Il consiglio di un vecchio amico lo conforta<br />

nel tornare in missione, come racconta lui stesso nell’intervista<br />

a fratel Massimo Cattaneo (del 22 ottobre 2001 a Rajarampur).<br />

Il suo grande amico don Franco Zanolli, parroco della Collegiata<br />

di Novi Ligure, scrive:<br />

Dopo le cure avute a Dhaka, arrivò a Novi stanco e sfiduciato, pensieroso<br />

nel dubbio di non poter più ripartire. La cucina della sorella<br />

Maria, il conforto degli amici, l’aria buona della città natìa ben<br />

presto lo restituiscono alla piena salute e alla ilarità del suo carattere<br />

esuberante. Dopo una visita di controllo a Milano, che lo diagnostica<br />

guarito, esultava: “Guarito! Guarito!” diceva e riparte per il<br />

Bangladesh.<br />

Ma ecco che, appena arrivato a Dinajpur poco prima del<br />

Natale 1995, il Vescovo mons. Theotonius conferma la bontà di<br />

questa sua libera scelta: gli chiede di diventare parroco di Kalisha,<br />

ancora per lo stesso motivo per cui 15 anni prima l’aveva<br />

mandato a Pathorgata: per riportare pace nell’ovile di questa nuova<br />

parrocchia, “tra i soliti capricciosi feudi oraon (aborigeni)”. Il<br />

giovane padre Luca Galimberti, missionario in Bangladesh dal<br />

1992, mi racconta (il 3 giugno 2004 a Roma):<br />

128


Ero per caso a Dinajpur (dalla sua missione di Boldipukur, n.d.r.) e<br />

un pomeriggio il vescovo mi chiede di portare padre <strong>Pesce</strong> a Kalisha,<br />

che è poco distante da Boldipukur. Vado da <strong>Pesce</strong>: quando<br />

vuole andarci? “Domani”, mi risponde. Gli chiedo quando il vescovo<br />

gli ha detto di andare a Kalisha, dato che da poco è tornato dall’Italia.<br />

“Ieri sera, mi dice, ma sono già pronto”. Il giorno dopo siamo<br />

partiti in jeep. Lui aveva due borsette a mano con tutto quel che<br />

gli occorreva. Gli ho detto che sarei andato a trovarlo un mese<br />

dopo, se aveva bisogno di qualcosa. “No, rispose, grazie, non ho<br />

bisogno di nient’altro”. Ricordo che rimasi ammirato da questa<br />

disponibilità ad accettare, sui due piedi, una nuova destinazione che<br />

sapeva non facile.<br />

In una lettera al nipote Ernesto del 22 dicembre 1995, così<br />

padre <strong>Cesare</strong> descrive il suo compito a Kalisha, dov’è arrivato da<br />

pochi giorni:<br />

Una missione di pace tra due partiti formatisi in questa parrocchia<br />

una decina di anni fa tra gente della stessa tribù. Una lite tra feudi,<br />

come capita anche in Sardegna. Lite in cui è stato coinvolto, qualche<br />

mese fa, anche il missionario fondatore della missione cattolica,<br />

assalito e derubato non si sa da chi (probabilmente qualche musulmano<br />

assoldato da cristiani per la perfida azione). Il posto è ancora<br />

degno del secolo scorso sia per le scarse comunicazioni che per lo<br />

stile di vita degli abitanti. Porto un esempio capitatomi ieri: mando<br />

un uomo al post-office più vicino (due buoni chilometri) a spedire<br />

un libretto nelle Filippine. Il direttore dell’ufficio postale risponde<br />

che non sa dove sia quella nazione e quindi quanto si debba pagare<br />

in francobolli e del resto non ha i francobolli per spedire una<br />

roba simile… Mando a comperare un mezza dozzina di tazzine per<br />

il tè o il caffè e il bottegaio dice al mio uomo che non ha le tazzine:<br />

“Dì al tuo padrone di usare il bicchiere”. E così si tira avanti… La<br />

cosa più fastidiosa è la mancanza di una strada decente: si può usare<br />

solo la jeep, che io non ho. Penso che dovrò farmi aiutare un po’<br />

dal Vescovo e decidermi a comprarla…<br />

129


Obak, in bengalese significa “senza parola”<br />

Tornando dall’Italia per il Natale 1995, padre <strong>Pesce</strong> pensava<br />

di non essere più utile alla missione; invece il Vescovo (mons.<br />

Moses Costa) e il superiore regionale del Pime in Bangladesh<br />

(allora padre Mariano Ponzinibbi di Lodi) sono di parere contrario.<br />

Infatti, nei quattro anni seguenti, fino al 1° gennaio 2000 (a<br />

81 anni compiuti) il Pesciolino svolge un ottimo lavoro a Kalisha,<br />

sistemando una situazione difficile. Sapeva trattare con la gente,<br />

non potevano non volergli bene: con lui i motivi di dissenso e di<br />

contrasto non duravano a lungo. Questo era certo frutto di un bel<br />

carattere, ma anche di soda virtù e di grande umiltà (che permette<br />

di essere realisti in tutte le situazioni) e, in fondo, di fede autentica.<br />

<strong>Cesare</strong> ha sempre lavorato per il Regno di Dio, mai per se<br />

stesso! Nel volumetto “Pack up and go!” pubblicato in inglese<br />

nel 2000 a Dinajpur (Unique Press), ricordando i primi tempi<br />

della sua missione a Ruhea, la povertà, le faticacce e le molte conversioni<br />

di quegli anni, scrive:<br />

Talvolta eravamo distrutti dal caldo e dalla fatica, ma era sempre un<br />

sollievo e una profonda gioia considerare che in un piccolo e sconosciuto<br />

angolo di questo mondo, per la prima volta era arrivata la<br />

verità di Cristo e un nuovo battezzato si sarebbe svegliato nel Suo<br />

Nome.<br />

Il 14 febbraio 1999 scrive a mons. Francesco Giorgi, segretario<br />

del vescovo di Tortona e direttore del Centro missionario diocesano,<br />

dicendogli che tre anni prima era stato mandato dal<br />

Vescovo a Kalisha “per tentare di riportare la pace fra i capricciosi<br />

feudi oraon”; e a Natale del 1999 comunica gioioso: “Ebbi la<br />

gioia di partecipare al grande cenone (“puruti choi”, cena d’affetto)<br />

con 800 commensali, esclusi i bambini”. La pace è tornata,<br />

padre <strong>Cesare</strong> è al massimo della felicità.<br />

A Kalisha padre <strong>Pesce</strong> lavora come parroco con tutte le<br />

incombenze pastorali e di promozione umana a cui era abituato,<br />

dando particolare risalto alla formazione cristiana delle famiglie e<br />

dei giovani: catechismo, preparazione ai Sacramenti, predicazio-<br />

130


ni speciali, direzione spirituale, visite ai malati. Non un percorso<br />

di “routine” pastorale come spesso succede in Italia: in Bengala<br />

la “routine” è continuamente interrotta dagli imprevisti.<br />

Ad esempio, in una lettera a Camilla Brambilla del Centro<br />

missionario diocesano (14 novembre 1998) <strong>Cesare</strong> scrive che hanno<br />

avuto una pioggia torrenziale continua per tre giorni: una nuova<br />

alluvione, in attesa della prossima… o del periodo di siccità;<br />

lui riceve gli aiuti della Caritas di Tortona e della Caritas locale<br />

del Bangladesh, poi distribuisce il “relief “ (parola inglese che<br />

significa “aiuto per le emergenze”), che anche gli analfabeti conoscono<br />

e pronunziano bene! E scrive:<br />

Per sette-otto giorni, dal mattino alla sera, la sfilata ininterrotta degli<br />

alluvionati: quelli delle case distrutte o danneggiate… quelli che<br />

hanno perduto il raccolto dei campi… quelli che chiedono per comperare<br />

le sementi per l’orto… quelli che non vogliono passare per<br />

scemi perdendo l’occasione buona per arraffare a ufo qualcosina…<br />

Tutti mi dicono “GRAZIE!”. Certo, quel grazie non è per me. Da<br />

buon postino lo giro, per posta superaerea, a chi se lo merita.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> ha potuto realizzare tante opere in Bengala perché<br />

riceveva molti aiuti. Ma bisogna dire che era un missionario<br />

molto preciso nella sua corrispondenza. Ringraziava sempre chi<br />

gli mandava un’offerta, anche con lettere lunghe e gustose. Questa<br />

ad esempio, scritta da Pathorgata il 5 luglio 1988 al prof. Egidio<br />

Mascherini di Novi Ligure, che aveva mandato al missionario<br />

il ricavato dalla vendita di un suo libro:<br />

Obak! In bengalese significa “senza parola”. Ecco, ricevendo la sua<br />

generosa offerta io sono rimasto senza parola. Volevo mandarle<br />

subito i miei ringraziamenti e invece sono rimasto senza parola fino<br />

ad oggi. Adesso lei mi dirà: “Va n’sla furca!”, pur sapendo che io<br />

non ci vado. Invece le racconto come e dove è finito il malloppo di<br />

cui ancora la ringrazio.<br />

Il primo venerdì di ogni mese si radunano i membri del Consiglio<br />

parrocchiale e qualche capo dei villaggi cristiani. Lo scorso venerdì<br />

c’era da decidere alcune cose sulla scuola e sull’istruzione religiosa<br />

dei ragazzi residenti nei villaggi periferici della missione… Il suo<br />

131


aiuto ci ha permesso di approvare dei lavori urgenti di riparazioni<br />

nella nostra scuola. Poi, al secondo punto dell’agenda, bisognava<br />

discutere se realizzare in parrocchia la settimana di istruzione religiosa<br />

dei ragazzi e ragazze cattolici che vivono lontani dalla missione.<br />

Facce lunghe e preoccupate, sospiri. Uno dice: “Quest’anno,<br />

questa settimana non possiamo farla. L’alluvione ha rovinato il raccolto<br />

di molte famiglie, che non potranno più portare il riso per i<br />

loro ragazzi…”. Il progetto rischiava di essere bocciato.<br />

Allora io dico: “Fidatevi della Provvidenza! Calcolate le spese che<br />

dobbiamo sostenere per questa indispensabile iniziativa”. Vengono<br />

fuori delle grosse cifre. Allora dico: “Non preoccupatevi, un amico<br />

professore della mia città ha mandato quanto basta anche per questo”.<br />

I volti si illuminano, tutti sorridono e applaudono. La suorina<br />

bengalese membro del Consiglio parrocchiale, che non aveva ancora<br />

parlato, si alza e dice: “Sapete cosa dobbiamo fare? Diciamo grazie<br />

a Dio e recitiamo insieme un’Ave Maria per quel brav’uomo italiano.<br />

Che Dio lo benedica tanto, tanto!”. E senza aspettare risposta<br />

intona: “Pronam Maria proshadpurna…”.<br />

Così, caro professore, questa piccola storia di Pathorgata, sconosciuto<br />

villaggio in un angolino del Bangladesh, le sia segno del<br />

nostro ringraziamento.<br />

Nei quattro anni che è stato a Kalisha (1995-1999) padre<br />

<strong>Pesce</strong> ha scritto meno lettere del solito. Lui stesso lo dice al vescovo<br />

di Tortona mons. Luigi Bongianino 1 , ringraziandolo per tutto<br />

quello che ha fatto per la diocesi e per i missionari diocesani<br />

all’estero; e lo ripete a don Franco Zanolli (lettera del 25 giugno<br />

1999):<br />

132<br />

Divento vecchio davvero. Me ne accorgo perché, mentre il mio hobby<br />

era lo scribacchiare, ora non amo più prendere la penna in mano.<br />

E allora, ai vecchi si perdona ogni errore, ogni mancanza.<br />

1 Sacerdote diocesano di Vercelli e mio professore al seminario minore di<br />

Moncrivello nella prima metà degli anni quaranta, prima che io entrassi nel<br />

Pime.


Il fatto che si sente diventare vecchio è quasi un ritornello nelle<br />

sue lettere degli ultimi anni. Al prof. Carlo Mandessaro scrive<br />

da Kalisha (16 maggio 1997):<br />

Grazie per la gioia procuratami dalla vostra letterina. Dico la verità,<br />

l’aspettavo sul serio. E grazie per il colpetto sulla spalla per rincuorare<br />

il vecchietto che non vuole cedere, che non vuole ammettere,<br />

con umiltà, di essere ormai sul punto di mettersi nell’angolo polveroso<br />

dei rottami. La salute fisica è abbastanza buona. Qualche<br />

giorno, magari dopo qualche corsa in più, mi sento stanco, ma la<br />

stanchezza passa come una nuvola che ti gira sul capo.<br />

Non ho più fatto visite mediche, dato che per andare a Dhaka, fra<br />

andare e venire e starci, mi ci vuole una settimana e l’aeroporto più<br />

vicino è a 150 km. Impossibile andare in corriera o in treno, essendo<br />

il “ferry” (trasporto su barca per attraversare lo sconfinato fiume<br />

Bramaputra, n.d.r.) in condizioni pietose. Fare un viaggetto con<br />

la mia piccola ‘jeep’ indiana sarebbe bello, ma il mio autista teme il<br />

traffico matto, inimmaginabile della capitale; e poi ci sarebbe sempre<br />

quel benedetto fiume da passare (in seguito è stato inaugurato<br />

il ponte sul Bramaputra, che dimezza i tempi del percorso fra<br />

Dakha e la regione di Dinajpur, n.d.r.)…<br />

D’altra parte è meglio stare lontani dai camici bianchi, che ti trovano<br />

anche le malattie e i mali che non hai... Qui ormai c’è da fare, da<br />

lavorare, dopo che un po’ di pace e tranquillità è rientrata fra le<br />

famiglie della parrocchia: vedo che necessitano iniziative, associazioni,<br />

programmi impegnativi. E io non me la sento più, come pochi<br />

anni fa, di stare in ballo giornate intere e serate lunghe, a parlare,<br />

proporre, discutere, decidere e poi prendere parte attiva ai lavori.<br />

Dio me la mandi buona!<br />

500-600 pellegrini alla domenica nel Santuario mariano<br />

Negli ultimi anni di vita, padre <strong>Cesare</strong> è ritornato due volte<br />

in Italia, nel 1998 e 1999. Per quest’ultimo ritorno, l’11 luglio<br />

1999 scriveva a don Zanolli: “Dato che sono vecchio, vecchissimo,<br />

il Vescovo mi dà una nuova vacanzina in Italia”. Veniva<br />

soprattutto per trovare la sorella Maria a cui era molto affeziona-<br />

133


to (nata nel 1912 e morta nel 2000), Era profondamente attaccato<br />

alla sua famiglia a Novi Ligure. La signora Marilena Leone in<br />

<strong>Pesce</strong>, moglie di Ernesto nipote di padre <strong>Cesare</strong> (figlio di suo fratello<br />

Natale), intervistata il 1° giugno 2004, ricorda:<br />

Lo zio <strong>Cesare</strong> era un uomo cordiale, vivace, originale. Quando arrivava,<br />

portava sempre allegria. Era ottimista e allegro, con le sue battute<br />

un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Aveva sempre da raccontare<br />

qualcosa di interessante, quegli episodi che ha messo nei suoi<br />

libri. E poi sapeva dare coraggio, speranza. Per noi era uno zio simpatico<br />

e gradito.<br />

Quando mia figlia Emanuela si è sposata nel 1989, aveva avvisato<br />

per tempo padre <strong>Cesare</strong> e lui è tornato per celebrare il matrimonio;<br />

mentre era in Italia, ha battezzato anche il nipotino Nicolò, figlio di<br />

mio figlio Fulvio. Quando veniva in Italia era sempre con noi. Abitava<br />

dalla sorella Maria, ma ci visitava spesso. C’è stata una estate in<br />

cui padre <strong>Cesare</strong> ci ha invogliati ad andare in giro con lui: mio marito,<br />

zia Maria, zio <strong>Cesare</strong> e io, con l’auto di mio marito. Andavamo<br />

a fare delle gite e delle merende qui attorno, in luoghi che aveva<br />

conosciuto bene da giovane, santuari, chiese e altri posti. È rimasto<br />

molto affezionato alla famiglia.<br />

Noi scrivevamo poco, ma anche lui scriveva poco. Ci passavamo<br />

quelle poche lettere che scriveva. Mio marito andava sempre ad<br />

accompagnarlo in auto a Milano. Dormiva là al Pime, lo portava<br />

all’aeroporto e poi tornava a casa. Quando è venuto nel 1960, ed era<br />

la prima volta che tornava, l’abbiamo accompagnato al porto di<br />

Genova perché è ripartito per nave. Un ricordo commovente perché<br />

lui partiva felice e noi capivamo che aveva una grande missione<br />

da compiere.<br />

Il marito di Marilena, Ernesto (figlio di Natale, fratello maggiore<br />

di padre <strong>Cesare</strong>), intervistato a Milano il 15 giugno 2004,<br />

aggiunge:<br />

134<br />

Lo zio <strong>Cesare</strong> mi manca molto. Era una presenza importante nella<br />

nostra famiglia. Quando tornava in Italia era una festa, raccontava<br />

le sue avventure e si stava ad ascoltarlo volentieri per delle ore, non<br />

solo noi parenti, ma anche gli amici e altri. Era un sostegno per la<br />

famiglia e per tutti. Ricordo quando è tornato la prima volta dal


Bengala nel 1960, è stato in Italia diversi mesi con parecchie visite<br />

e permanenze in famiglia. All’ultimo giorno, prima di ripartire per<br />

nave da Genova verso il Bengala, era a Novi Ligure e la sera abbiamo<br />

fatto una cena con parecchi amici: ha incominciato a raccontare<br />

e siamo andati avanti fino alle cinque del mattino! Cosa facciamo?<br />

Ci siamo lavati la faccia, abbiamo fatto colazione e l’abbiamo<br />

portato a Genova per prendere la nave!<br />

Di serate e nottate come questa ne ricordo diverse. Con lui le ore<br />

passavano e non ce ne accorgevamo. Un altro ricordo che ho di lui<br />

è quando era viceparroco a San Rocco di Voghera, negli anni dal<br />

1945 al 1948. Io andavo spesso a trovarlo in bicicletta da Novi Ligure<br />

a Voghera (Ernesto è nato nel 1933, n.d.r.). In parrocchia non<br />

c’erano ragazzi: c’era già il cortile e i locali, ma i ragazzi non venivano,<br />

l’oratorio praticamente non esisteva. Padre <strong>Cesare</strong> ne ha portati<br />

a centinaia, ha fondato l’oratorio, ha fatto il cinema e tante altre<br />

iniziative. L’oratorio di San Rocco era famoso e i ragazzi della città<br />

venivano tutti. Lui attirava i bambini, i giovanotti e gli uomini.<br />

Nell’ottobre 1998 a Novi Ligure padre <strong>Cesare</strong> riceve “La<br />

Torre d’Oro”, premio annuale del Comune e del Centro studi<br />

“In Novitate” (nato nel 1985), ad un cittadino che si è distinto<br />

nel corso dell’anno. Prima un concerto d’organo nella Collegiata<br />

eseguito dal maestro Giancarlo Parodi in onore del festeggiato;<br />

poi la consegna del premio in Municipio alla presenza delle autorità<br />

e di un folto pubblico. Quel prestigioso e pubblico riconoscimento<br />

della sua città natale riempie di gioia il cuore di padre<br />

<strong>Cesare</strong>. Ne era orgoglioso e quando ritorna in Bangladesh, dicono<br />

i confratelli, mostrava a tutti il suo premio, raccontando come<br />

erano giunti a quell’assegnazione che lui non si sognava nemmeno.<br />

Nell’estate 1999 è ancora brevemente in Italia e, quando a<br />

novembre ritorna a Dinajpur, padre Carlo Calanchi ricorda che<br />

di nuovo parlava di una piccola parrocchia che gli avevano offerto<br />

di assumere sull’Appennino ligure. Ma lui preferisce ritornare<br />

in Bengala. Scrive Calanchi (lettera a Gheddo del 9 maggio 2004):<br />

La ragione – aveva detto testualmente – era che il posto che gli<br />

avrebbero dato in Italia comportava così poco lavoro, che lui… non<br />

135


se la sentiva di assumerlo. Mi pare si trattasse di una parrocchietta<br />

di montagna. Lui, il <strong>Pesce</strong>!<br />

Giunto in Bengala, <strong>Cesare</strong> scrive a don Franco Zanolli (lettera<br />

del 25 novembre 1999):<br />

Come avevo subodorato, ieri il Vescovo (Mons. Moses Costa) mi ha<br />

chiesto la disponibilità di lavorare in quel famoso santuario mariano<br />

di cui ti parlavo. La costruzione è già a buon punto: verrà fuori<br />

bellissimo, degno del 2000! Ora vedrò di accordarmi per l’eventuale<br />

necessaria costruzione di una piccola casa per il cappellano.<br />

Il Santuario è stato realizzato in collaborazione da tre padri del<br />

Pime con il bernoccolo delle costruzioni: Faustino Cescato (direttore<br />

prima della Caritas diocesana e poi del “St. Vincent Hospital”),<br />

Adolfo L’Imperio (parroco della cattedrale di Dinajpur) e Giovanni<br />

Beretta (direttore della scuola tecnica “Novara Centre” di Suihari).<br />

“Questo – dicono i confratelli maliziosi – è il primo miracolo della<br />

Madonna del Rosario venerata nel Santuario”: una costruzione veramente<br />

bella, realizzata da tre missionari che lavorano assieme!<br />

Padre <strong>Cesare</strong> è contento della sua destinazione. Vi vede<br />

un posto di non eccessiva responsabilità e nello stesso tempo un<br />

lavoro abbastanza utile al prossimo… come auspicata oasi spirituale<br />

di pellegrini, in cerca di conforto e di pace in momenti trepidi<br />

della vita e per dire “grazie” in momenti di gioia per favori ricevuti.<br />

Qui per ora c’è soltanto la chiesa. Sto pensando di sostituire la<br />

presente mia abitazione che è in sacrestia (con attaccata una cucinetta<br />

di tre metri quadrati fatta di bambù e lamiere), con una vera<br />

casetta fatta di cemento e mattoni. Poi, se non servirà a me, servirà<br />

al mio successore (lettera a don Franco Zanolli del 3 febbraio 2000).<br />

In altra lettera a don Zanolli (14 agosto 2000), l’anziano<br />

“Pesciolino” ricorda i canonici del Duomo di Tortona di sessant’anni<br />

prima, quando lui era giovane, “patriarchi cariatidi di una<br />

Chiesa indistruttibile”, che salmodiavano in coro dietro l’altare<br />

maggiore. Li ricorda con nostalgia perché si trova anche lui nella<br />

stessa situazione:<br />

136


Te possino, ci sono arrivato anch’io. Non salmodio perché purtroppo<br />

non è mai stata la mia attrazione. Non alzo le mani o braccia verso<br />

il cielo perché non è mai stata la mia ginnastica spirituale, però<br />

ci sono arrivato a fare la cariatide, anche se un po’ moderna perché<br />

sono in Bangladesh.<br />

Poi ricorda i giovani monaci della Certosa di Pavia che hanno<br />

cambiato sistema di evangelizzazione rispetto al passato. Siedono<br />

al bar della Certosa e mentre sorseggiano un caffé tengono<br />

banco in una fraterna chiacchierata con gente sconosciuta, venuta<br />

ad ammirare l’arte e a bere un bicchierino di elisir eremitico.<br />

<strong>Cesare</strong> scrive che tenta di imitare quei monaci con i molti visitatori<br />

del Santuario.<br />

I pellegrini non mancano: gente di ogni cultura e formazione, di<br />

ogni credo politico e religioso, individui che racchiudono nel loro<br />

cuore una biografia, fatta di gioia e di dolori nascosti, il prodotto di<br />

amori e di odi indicibili. Il passare le ore con questa gente è per me<br />

un’esperienza bellissima: ne ringrazio il Signore! (Lettera a mons.<br />

Francesco Giorgi, 9 febbraio 2000).<br />

Nel settembre 2001 sono stato in visita ai confratelli del Bangladesh<br />

e il 12 settembre ero da padre <strong>Pesce</strong> a Rajarampur, con<br />

fratel Massimo Cattaneo. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2002,<br />

<strong>Cesare</strong> sarebbe tornato in Italia per morirvi il 13 luglio dello stesso<br />

anno nella casa del Pime di Rancio (Lecco). Ma nel settembre<br />

2001 era ancora in forma, pieno di progetti per il futuro del Santuario<br />

dov’era dal gennaio 2000. Ho scattato parecchie foto, che<br />

dimostrano il suo ottimo stato di salute, meno di un anno prima<br />

della morte.<br />

Mi ha fatto visitare la sua casetta in muratura da poco terminata<br />

e la chiesa luminosa, veramente bella. Poi siamo andati in<br />

giro per vedere l’ambiente in cui sorge il Santuario: il grande piazzale<br />

davanti alla chiesa, i campi di riso, diversi villaggi e il villaggetto<br />

cristiano accanto al Santuario. Tutti quelli che abbiamo<br />

incontrato conoscevano padre <strong>Cesare</strong> e si fermavano a parlare<br />

con lui. Ricordo che ogni tanto mi diceva: “Questo è musulmano,<br />

un buon amico” (per <strong>Cesare</strong> erano tutti amici). Riporto inte-<br />

137


gralmente la breve intervista che mi concesse quel giorno, non<br />

ancora pubblicata. Mi sono complimentato con lui per quel posto<br />

così adatto alla sua età e alla sua personalità, cordiale e di facili<br />

contatti con tutti. Mi dice:<br />

138<br />

– Debbo dire che il venire qui lo considero una grande grazia di<br />

Dio. Non potevo immaginare un compito e un posto migliori di<br />

questo, per la mia età e il mio stato di salute. Il Santuario diocesano<br />

non è parrocchia, anche se sono convinto che fra qualche anno<br />

lo diventerà. Ma il suo valore è proprio quello di essere una chiesa<br />

al di fuori della struttura parrocchiale, che ha tanti valori ma anche<br />

tanti limiti per un’affluenza di pellegrini in qualsiasi giorno e<br />

momento.<br />

– Com’è nata l’idea del Santuario?<br />

– Per celebrare il Giubileo del 2000 si voleva lasciare un segno visibile<br />

di questi duemila anni di Redenzione. È stato comperato il terreno<br />

che era del raja di Dinajpur, il capo indiano che è fuggito in<br />

India nel 1948, dopo la divisione fra India e Pakistan. Abbiamo<br />

dato la terra e costruito le case per 28 famiglie cattoliche che hanno<br />

formato il villaggio vicino al Santuario, in modo che questo possa<br />

avere una comunità cattolica vicina, per tutti i servizi alla chiesa<br />

e alle cerimonie.<br />

– Sono molti i pellegrini che vengono a pregare la Madonna?<br />

– È poco più di un anno che il Santuario è aperto e la gente incomincia<br />

a venire. La domenica abbiamo 500-600 fedeli, alla Messa<br />

quotidiana molti meno. Non vengono solo i cattolici, ma anche i<br />

musulmani e credo che nel futuro aumenteranno perché l’immagine<br />

di Maria e la sua devozione sono molto popolari fra i bengalesi.<br />

Penso anche che, come Santuario ben visto dai musulmani, col tempo<br />

si potranno promuovere amicizie, incontri, collaborazioni, iniziative<br />

di dialogo.<br />

– Tu sei sempre stato amico di tutti e anche dei musulmani, quindi<br />

sei facilitato in questo.<br />

– Non c’è dubbio, il mio carattere in questo senso mi aiuta, non ho<br />

mai fatto differenza di religione, ho sempre accolto e fatto amicizia<br />

con tutti. Anche qui a Rajarampur, appena arrivato, le prime famiglie<br />

che ho avvicinato e di cui sono diventato amico erano musulmane<br />

perché quelle cattoliche stavano appena arrivando. Sono convinto<br />

che dal Santuario mariano è forse più facile che da una par-


occhia (bisognerà poi vedere se è vero, perché è solo un’ipotesi)<br />

portare avanti il dialogo inter-religioso di cui tanto si parla anche in<br />

Bangladesh, ma che è difficile realizzare. Ci sono troppi pregiudizi<br />

da ambedue le parti e pochi tentativi concreti. A livello popolare c’è<br />

il cosiddetto “dialogo della vita”: l’80-90% delle nostre opere educative,<br />

caritative, di promozione umana e di sviluppo economico<br />

sono a vantaggio dei musulmani; ma a livello di dialogo religioso e<br />

di élites religiose non si va oltre gli incontri formali.<br />

Quindi tu sei impegnato tutti i giorni nel Santuario o hai anche altri<br />

impegni?<br />

Il vescovo mi ha chiesto di scrivere i ricordi della mia vita missionaria<br />

in Bengala e sono contento di questo impegno. Poi sto scrivendo<br />

la storia della Chiesa in inglese, da tradurre in bengalese. Un<br />

libro non impegnativo ma popolare perché non c’è nulla del genere<br />

nella lingua bengalese. A me è sempre piaciuto scrivere, anche se<br />

con l’età mi sono un po’ impigrito. Infine, sono disponibile ad aiutare<br />

dove c’è bisogno di un prete, per confessioni o altro.<br />

“Tento di portare la pace e di dare gioia”<br />

Nel 2000 p. <strong>Pesce</strong> ha passato 52 anni in Bengala! Il 22 ottobre<br />

firma a Rajarampur la “Premessa” di Pack up and go!, con i<br />

ricordi della sua vita missionaria. “L’ho scritto in inglese perché<br />

i preti locali possano leggerlo”, dice in una lettera. Il titolo, “Fa’<br />

il tuo fagotto e va’!”, ricorda la frase che mons. G.B. Anselmo,<br />

Vescovo di Dinajpur, disse nel 1948 al giovane padre <strong>Pesce</strong>,<br />

meno di un mese dopo il suo arrivo dall’Italia, per mandarlo oltre<br />

frontiera, in India, nella sua prima missione: Malda. Dopo quel<br />

primo Pack up and go! ne sono seguiti molti altri e padre <strong>Cesare</strong><br />

ricorda i suoi “vagabondaggi” fra una missione e l’altra della<br />

vasta diocesi di Dinajpur, nel 1948 estesa più o meno come Piemonte<br />

e Lombardia uniti. Ma racconta solo fino al 1972. Il resto<br />

lo rimanda ad un testo seguente, che non farà a tempo a preparare.<br />

Nel 2001 pensa ancora di tornare in Italia per un’operazione<br />

di cataratta che i medici locali gli hanno consigliato, ma poi finisce<br />

per restare nel suo Santuario mariano, lavorando fino all’ulti-<br />

139


mo ai progetti che aveva in corso. Ha ancora trascorso bene il<br />

Natale del 2001, ma nel gennaio 2002 preoccupa i confratelli che<br />

vedono una sua rapida decadenza. Il padre e dottore in medicina<br />

Francesco Rapacioli, che lo seguiva da vicino, il 18 gennaio 2002<br />

manda questa Email al vicario generale del Pime, p. Luigi Bonalumi,<br />

per annunziargli che il 20 gennaio padre <strong>Pesce</strong> arriva a<br />

Roma, accompagnato da un confratello:<br />

Dal punto di vista medico ha il cuore un po’ scompensato (stanco) e<br />

questo gli ha provocato edema ai piedi e una tosse fastidiosa, peggiorata<br />

dal freddo. Abbiamo tentato di ricoverarlo in una clinica a Dhaka<br />

per rimetterlo un po’ in sesto, ma, nella migliore tradizione del Pime,<br />

si è rifiutato di rimanere. Il cardiologo comunque gli ha prescritto la<br />

terapia che sta assumendo dallo scorso venerdì (12 gennaio). Quello<br />

che ci ha fatto decidere per un pronto rientro in Italia è il fatto che<br />

padre <strong>Cesare</strong> non sa più gestirsi autonomamente. Probabilmente da<br />

qualche giorno o addirittura da qualche settimana mangiava in modo<br />

saltuario, non si vestiva adeguatamente e non prendeva le medicine<br />

regolarmente… Questa sua incapacità di gestirsi deve essere tenuta a<br />

mente. Sarebbe impensabile un suo rientro senza un accompagnatore….<br />

Mi hanno detto che il volo col quale padre <strong>Cesare</strong> arriva a Roma<br />

è della Biman (la compagnia aerea del Bangladesh), direttamente da<br />

Dhaka alle 10 del mattino del 20 gennaio.<br />

Così padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, “il lupo del Bengala”, come lui stesso<br />

a volte si definiva, sbarca a Roma dove lo attende un’autoambulanza,<br />

che lo trasporta alla casa di cura e di riposo del Pime per<br />

i suoi missionari anziani a Rancio di Lecco. Il 23 gennaio è sottoposto<br />

alle prime visite e gli vengono riscontrati vari malanni cardio-circolatori<br />

(“evidente arteriosclerosi”, cuore ingrossato), con<br />

“modesto” versamento pleurico e artrosi. Amorevolmente curato<br />

dalle infermiere Missionarie dell’Immacolata nella casa del Pime<br />

e nella “Casa di Cura Lecco”, nei mesi seguenti si riprende e partecipa<br />

ai festeggiamenti organizzati per il suo 60° di sacerdozio<br />

(29 marzo 2002). In quella circostanza, il Superiore generale del<br />

Pime, padre Giovanni Battista Zanchi anche lui missionario in<br />

Bangladesh, gli scrive una sentita lettera di ringraziamento e di<br />

augurio in cui si legge:<br />

140


La sua opera non è finita. Le forze non sono più quelle di un tempo<br />

e anche gli impegni hanno cambiato modalità. Ma lei sta testimoniando<br />

la fedeltà gioiosa, contro ogni avversità, ai più giovani e<br />

a quelli in formazione; sta dando e può dare sempre più l’aiuto della<br />

preghiera e dell’invocazione che sale dalla sua vita, anche quando<br />

entra nella debolezza e nella malattia.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, come s’è detto, è morto il 13 luglio 2002<br />

a Lecco ed è sepolto nel Cimitero di Novi Ligure (Alessandria).<br />

Uno degli ultimi articoli che ha scritto è stata una auto-intervista,<br />

in cui finge che un giornalista sia venuto a trovarlo e scriva l’articolo,<br />

poi pubblicato da «Missionari del Pime» come suo necrologio<br />

(ottobre 2002, pag. 3). <strong>Cesare</strong> immagina che un visitatore gli<br />

chieda di parlare di sé e poi porti il discorso sul suo testamento<br />

spirituale. Scrive:<br />

Il parroco, un lupo del Bengala, è un uomo anziano, per non dire<br />

vecchio, ma ancora in gamba, lucido di mente, sempre pronto alla<br />

battuta. È contento che io sia venuto, inaspettato, a trovarlo. Dopo<br />

il caffè, il discorso si avvia su un eventuale “testamento spirituale”.<br />

Dice:<br />

“Testamento spirituale? Bella idea. Ne ho letto qualcuno ma vorrei<br />

fare una premessa: cos’è poi questa spiritualità non l’ho mai capito…<br />

Allora, invece di usare questo nome pomposo, che sa di legalismo,<br />

chiamiamola invece ‘intervista in vista del traguardo’. Nel<br />

corso della mia lunga vita mi sono proposto di non dare troppo<br />

fastidio al prossimo. A chi l’ho dato non posso che chiedere scusa.<br />

Mi sono proposto di regalare la gioia e una briciola di pace a chi ne<br />

avesse bisogno. L’eventuale successo di dare anche una sola ora di<br />

gioia a chi soffriva, mi ha sempre dato l’impressione che quella gioia<br />

ricadesse moltiplicata su me stesso.<br />

“Questo mio hobby, mi scusi per i soliti ricordi di un tempo che fu,<br />

è iniziato in una via di Genova, ad un passaggio munito di semaforo.<br />

Quegli aggeggi a luce verde, rossa e gialla allora erano ancora<br />

quasi sconosciuti. Eravamo una quarantina di persone in attesa di<br />

attraversare la strada. Nel gruppo una bimbetta un po’ in ansia,<br />

incerta di quanto e come passare. Ad un tratto alzò lo sguardo, ci<br />

passò in rivista uno ad uno squadrandoci con cura, prese la mia<br />

mano sorridendomi dolcemente. Strinsi quella manina orgoglioso<br />

141


come un campione stringe la medaglia d’oro del suo successo. Che<br />

gioia immensa! Gongolante, attraversai con lei la strada. Io fra tutti<br />

il prescelto, io a cui fu data la fiducia di proteggere una vita. Il<br />

mio sorriso aveva vinto!<br />

“E così, da egoista quale sono, cerco la gioia, la felicità, tentando<br />

con tutte le mie forze di portare la pace e di dare un attimo di gioia<br />

all’uomo che incontro sulla mia strada. Lui cerca la felicità, come<br />

me, come lei, come tutti i mortali. Camminando insieme, mano nella<br />

mano, la ricerca diventa più facile, il raggiungere la meta possibile”.<br />

L’ultimo saluto: “Grazie, padre <strong>Cesare</strong>!”<br />

Due i discorsi funebri per padre <strong>Pesce</strong>, conservati nell’Archivio<br />

generale del Pime a Roma. Il primo l’ha pronunziato a Lecco<br />

padre Gianantonio Baio, superiore regionale dell’Istituto a Milano<br />

e già missionario in Bangladesh, che dice fra l’altro:<br />

142<br />

Padre <strong>Cesare</strong> era un uomo schietto, che non nascondeva fifa, malinconia,<br />

rimpianti. Non è stato un eroe, né un santo e neppure un<br />

martire. Niente retorica e mai contare frottole ai poveri… in nome<br />

di Dio. Un uomo con i piedi per terra, tanta fede e buon senso, con<br />

una “perfetta letizia” che non l’abbandonò mai. Prete scugnizzo,<br />

come lo chiamava un suo amico prevosto di Voghera, più bengalese<br />

che italiano. Uomo di dialogo di vita con tutti, anche se la preferenza<br />

è per i poveri, gli emarginati della società. Si è messo in cammino<br />

con una varietà di amici d’ogni religione, razza, tribù. Li ascoltava<br />

con stima, li osservava con vero interesse e gioia, senza imporre<br />

nulla e senza imporsi. I suoi amici erano:<br />

– il bramino indù, “ambedue pellegrini sulla stessa strada, alla ricerca<br />

del Vero”;<br />

– l’harijan, il fuoricasta analfabeta, umile: “costui sarà il mio uomo,<br />

con lui viaggerò tanto”;<br />

– il tribale, aborigeno libero e intelligente, senza complessi: “la sua<br />

strada sarà pure la mia”;<br />

– il musulmano bengalese, tollerante: “mi unisco anche a lui nel mio<br />

viaggio”.


52 anni in cammino con loro, uno di loro, promuovendo la fratellanza<br />

universale nella concretezza e semplicità, con la vita, mosso da<br />

una convinzione profonda: Dio è Padre di tutti. Una convivenza<br />

pacifica ad ogni costo, sdrammatizzando situazioni difficili, magari<br />

in modo scanzonato.<br />

Don Franco Zanolli, parroco della parrocchia di padre <strong>Cesare</strong>,<br />

la insigne Chiesa Collegiata e Santuario di N.S. Lacrimosa a<br />

Novi Ligure, ha dato una bella testimonianza del suo grande amico<br />

novese durante le esequie presiedute dal Vescovo di Tortona,<br />

mons. Martino Canessa, presenti alcuni missionari del Pime (dal<br />

Bangladesh) e una trentina di sacerdoti diocesani:<br />

Da quando era partito da Novi, 55 anni fa, i parenti, gli amici, la<br />

comunità di fede, la città di Novi Ligure vivevano la gioia di un suo<br />

ritorno. Padre <strong>Cesare</strong> era diventato un segno proprio perché missionario,<br />

richiamo di generosità nell’attuare la vocazione, punto di<br />

riferimento nel compiere la carità. La città è stata generosa con lui,<br />

perché sapeva il bene che in Bangladesh andava compiendo. Per<br />

questo padre <strong>Cesare</strong> ha potuto scolpire, sull’ultima struttura innalzata<br />

vicino al Santuario dedicato alla Madonna a Rajarampur, la<br />

scritta: “Padre <strong>Cesare</strong> con l’aiuto dei novesi”.<br />

Carattere schietto e volitivo, sempre pronto a fare perché il suo cuore<br />

era per dare; dare agli altri quanto aveva ricevuto: la fede e con<br />

questa l’impegno qualificante della vita condivisa nei bisogni e nelle<br />

varie necessità, per la gioia del rispetto di tutto e di tutti. Con la<br />

sua parola: semplice, chiara e convincente, educava; con i suoi scritti<br />

lascia la testimonianza dell’apostolo che non si risparmia.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> è tornato fra noi. Non solo come memoria in una lapide,<br />

ma come reliquia da venerare perché il suo ricordo sproni ad<br />

essere ed operare nell’edificare il Regno di Dio. La Chiesa novese e<br />

tutta la città è orgogliosa del suo missionario, per questo la Società<br />

Storica lo ha annoverato tra i “Cittadini Illustri”, conferendogli<br />

l’ambito Premio “La Torre d’Oro”…<br />

È tornato padre <strong>Cesare</strong>, e noi preghiamo per lui con il suffragio della<br />

liturgia funebre; preghiamo per lui, come chiedeva nel concludere<br />

le sue lettere, per quella devozione che aveva nel cuore alla<br />

Madonna Lacrimosa.<br />

Grazie, padre <strong>Cesare</strong>! Lo esprime la Chiesa con la presenza di tan-<br />

143


ti confratelli e del Vescovo; lo esprime la città con la presenza del<br />

Signor Sindaco e delle Autorità. Grazie, padre <strong>Cesare</strong>! Per la vocazione<br />

attuata, per la missione realizzata, per la vita donata. Resti la<br />

sua memoria in benedizione per la Chiesa e la Città di Novi Ligure.<br />

La domenica 30 marzo 2003, poco meno di un anno dopo la<br />

sua morte, padre Gianantonio Baio, superiore regionale del Pime<br />

a Milano e già compagno di <strong>Pesce</strong> in Bengala, ha portato a Novi<br />

Ligure il vescovo di Dinajpur mons. Moses Costa, nella cui diocesi<br />

aveva vissuto e operato il missionario novese. Dopo aver pregato<br />

e benedetto la sua tomba nel cimitero di Novi, il vescovo<br />

bengalese ha celebrato la S. Messa delle ore 11. Nell’omelia ricordava<br />

padre <strong>Cesare</strong> come uomo di grande fede e di tante buone<br />

qualità e capacità umane nel costruire il Regno: per questo ha<br />

lasciato la sua impronta nell’animo dei cristiani e dei non cristiani<br />

e in tante opere e costruzioni non solo di chiese, ma anche di<br />

scuole, dispensari, case per i missionari e le suore. Mons. Moses<br />

ha evidenziato l’opera svolta dal missionario nell’attività catechistica,<br />

fino a coprire l’incarico di direttore del Centro catechistico<br />

diocesano ed ha voluto esprimere riconoscenza per quanto ha fatto<br />

padre <strong>Pesce</strong> per il popolo e la Chiesa del Bangladesh e per gli<br />

aiuti che la città di Novi e la diocesi di Tortona hanno dato al missionario<br />

e alle sue opere, in assistenza spirituale e materiale, con<br />

tanta squisita carità. Il vescovo bengalese ha concluso dicendo<br />

che il ricordo di padre <strong>Pesce</strong> è ancora vivo sia in Bengala che in<br />

Italia e ha espresso l’augurio che il rapporto di fraternità fra le<br />

comunità ecclesiali del Bangladesh e della diocesi di Tortona, specie<br />

della sua città natale di Novi Ligure, continui anche dopo la<br />

sua scomparsa per produrre altri frutti di bene e di Vangelo.<br />

Un tramonto dietro l’Himalaya. Il mio<br />

Ecco uno degli ultimi scritti di padre <strong>Cesare</strong>, pubblicato dopo<br />

la sua morte a Novi Ligure in un ricordino che lo commemora<br />

per i suoi concittadini, con in prima pagina la foto di lui appog-<br />

144


giato al bastone che usava nelle ultime settimane di vita. L’ha<br />

scritto negli ultimi mesi dell’anno 2001, mentre era in Bangladesh,<br />

nel Santuario di Rajarampur: è un saluto alla vita poetico e<br />

di efficace forza evocativa, com’era nelle sue corde espressive. È<br />

intitolato: Un tramonto dietro l’Himalaya. Il mio.<br />

E così, tra un’avventura e l’altra, una più bella dell’altra, sono arrivato<br />

all’ultima, a quella di ieri. È pomeriggio inoltrato. L’ho già visto<br />

centinaia di volte, da quando sono qui in Bangladesh: il sole che<br />

cade, che va a nascondersi dietro la catena dell’Himalaya. Uno spettacolo<br />

quotidiano, ordinario, ma sempre splendido e meraviglioso.<br />

Ma ieri c’era qualcosa di particolare. Eccomi a Rajarampur, ritto sull’altura<br />

della scalinata di questo nuovissimo Santuario mariano.<br />

Concepito, nato e cresciuto indisturbato in mezzo a centinaia e centinaia<br />

di mezzelune, dipinte o scolpite sulle decine di moschee del<br />

vicinato. Il Santuario è cresciuto al ritmo dei salmi e delle invocazioni<br />

del muezzin, al ritmo delle cantilene mattutine, di ninna nanne<br />

esotiche al Babbo Sole presso i vetusti tempietti indù, di cui è<br />

disseminata la terra di qui.<br />

Sto meditando vicino a questo monumento cristiano, eretto a ricordo<br />

dell’avvenimento storico più grande, più importante per l’umanità<br />

intera: il Giubileo di Cristo nell’anno 2000. Un tesoro impensato<br />

in mezzo a capanne di aborigeni, tra gente di scarsa cultura, tra<br />

persone quasi emarginate dalla società, gente per cui Gesù è nato<br />

più di duemila anni fa. Splendida opera di architettura, che appunto<br />

perché splendida attira, nel buio di questo mondo, l’uomo alla<br />

ricerca di un’ora di pace e di felicità.<br />

Vedo che i gruppetti di pellegrini e di curiosi stanno disperdendosi.<br />

“Oh, sì!”, esclamo a voce alta, ora che sono rimasto solo, libero<br />

da tutta quella gente sconosciuta, qui venuta a dare sfogo ai propri<br />

sentimenti di dolore, rabbia, odio, amore…<br />

Che gioia! Solo con me stesso, anch’io lasciato un pochino in<br />

pace… Libero anch’io di vuotare il sacco delle mie emozioni! Poco<br />

prima, una studentessa universitaria della Facoltà di Agraria della<br />

città vicina, con un sorriso angelico, mi ha offerto una rosa, grossa<br />

come una dalia, farfugliando: “I miei due nonni sono morti. Gradiscila,<br />

prego, ora il mio nonno sei tu…”.<br />

Tramonto. Il mio. Ottant’anni…passati. All’interno della chiesa vi è<br />

quella lucetta della lampada rossa presso il Tabernacolo: niente se<br />

145


paragonata all’enorme massa di fuoco e luce laggiù, lontano, che<br />

scende lentamente fino a scomparire dietro l’Himalaya… Mi lascia<br />

nell’animo una dolce, inesprimibile mestizia, mista ad una soffusa,<br />

mistica, delicata gioia.<br />

Volgo lo sguardo verso l’abside del tempio, debolmente illuminata<br />

dalle ultime luci del tramonto. Oh, prodigio!… Maria sorride, sorride<br />

a me… davvero sorride a me? Meravigliosa avventura!<br />

Padre Angelo Rusconi, suo confratello in Bangladesh, ricorda<br />

i suoi ultimi mesi di vita a Rancio di Lecco nel 2002 2 :<br />

146<br />

Il lunedì di Pasqua 2002 sono andato a trovarlo nella casa di riposo<br />

del Pime a Lecco. Si era ripreso e stava davvero bene. Mi prende<br />

in disparte e mi dice: “Dimmi tu con sincerità che cosa debbo<br />

fare: posso ritornare al mio Santuario di Rajarampur oppure debbo<br />

restare qui a fare compagnia ai confratelli anziani e più ammalati di<br />

me? Io vorrei tentare di tornare in Bengala, ma capisco che altri<br />

deve decidere per me”.<br />

Caro e dolcissimo padre <strong>Cesare</strong>: sapeva prendere tutte le cose in<br />

senso positivo e aveva la battuta pronta in ogni circostanza. Pochi<br />

giorni prima che morisse siamo andati a trovarlo in due del Bangladesh,<br />

padre Mariano Ponzinibbi e io. Dopo la Messa si è sentito<br />

male e l’hanno messo a letto. Quando si è ripreso e ci ha visti assieme,<br />

dice: “Siete venuti a darmi l’estrema unzione? – e sottolineava<br />

con la voce l’aggettivo “estrema” – Oppekka Koro! Aspettate ancora!”.<br />

– Che uomo era?<br />

– Anzitutto era un entusiasta della vocazione missionaria, un estroverso<br />

che tentava tutti i metodi per annunziare Gesù Cristo. Vivere<br />

e lavorare con lui non era facile perché imprevedibile. Era un grande<br />

sentimentale, un lavoratore accanito. Si buttava in tutte le vie che<br />

vedeva. Era amico di indù e musulmani, si dedicava specialmente ai<br />

più poveri e marginali. Si era fatto nominare re degli Harijans, cioè<br />

primo responsabile del villaggio di una tribù di fuori casta concentrati<br />

a Ruhea, cioè di poveracci veramente miserabili, per tentare di<br />

tirarli su.<br />

2 Intervistato a Milano il 18 aprile 2004.


– Com’era con voi confratelli?<br />

– Amava la nostra compagnia e anche scherzare e fare battute: dovevi<br />

essere pronto alle sue frecciate che però erano amabili, non offendevano<br />

nessuno. Pur essendo un tipo abbastanza individualista,<br />

sapeva collaborare con altri e dava la carica a tutti col suo entusiasmo<br />

e ottimismo. Era entusiasta della vocazione missionaria, ma<br />

anche della vita in sé, gli piaceva vivere e far vivere.<br />

– Sembra a volte, leggendo le sue lettere, che abbia quasi pudore a<br />

parlare della fede e della vocazione missionaria. È indubbiamente<br />

un uomo di fede ed un entusiasta della vocazione missionaria, ma<br />

questo risulta più dalla vita che ha fatto che dalle parole che ha scritto.<br />

– Non so, non ho letto le sue lettere. Io non ho avuto questa impressione.<br />

Se dovessi dare un giudizio sul suo modo di essere e di esercitare<br />

la missione, direi che la sua preoccupazione maggiore era di<br />

contattare tutti, dialogare con tutti, voler bene a tutti, essere amico<br />

di tutti; e sapeva anche essere libero nell’annunziare la fede, nella<br />

liturgia, ma profondamente credente e missionario. Era scanzonato,<br />

originale, gli piaceva anche scherzare e fare battute, ma la sua fede<br />

non era dubbia. Importante ricordare che padre <strong>Cesare</strong> le ha inventate<br />

e tentate tutte per annunziare e proclamare Gesù Cristo e la<br />

Chiesa e ha speso tutta la sua vita per questo scopo. Solo che poi,<br />

incontrando i singoli, li accettava nella loro umanità concreta, era<br />

molto rispettoso del cammino che facevano e della libera scelta di<br />

cui erano gratificati da Dio. Per fare anch’io una battuta, direi che<br />

non era un “ciellino”, ma piuttosto un “focolarino”.<br />

Il parroco di Novi Ligure, don Franco Zanolli, è il prete che<br />

l’ha conosciuto meglio, perché gli è stato vicino con lettere e aiuti<br />

quando era in Bengala, e poi, soprattutto, quando tornava in<br />

Italia come parroco della sua parrocchia a Novi: era il suo amico<br />

e confidente. Ha dato di lui questa testimonianza (in una lettera<br />

a p. Gheddo dell’aprile 2004):<br />

<strong>Cesare</strong> ebbe in alcune circostanze la tentazione di rimanere in Italia,<br />

per le contrarietà della situazione locale in Bengala e per le calamità<br />

naturali come le alluvioni, che in pochi giorni annientano il<br />

lavoro di tanti anni. Memore del monito del Signore: “Chi pone<br />

mano all’aratro e poi si volge indietro non entrerà nel Regno dei cie-<br />

147


148<br />

li”, mai cedette a simili tentazioni e detestava l’idea di dover finire<br />

la sua vita in una casa di riposo, rifiutando l’invito dei superiori a<br />

mettersi in pensione. Da molte sue lettere traspariva l’amore alla<br />

Chiesa, all’uomo, al paese in cui viveva. Amava scrivere, come opera<br />

strettamente legata all’annunzio, coltivando e conservando amicizie<br />

serene. Alcune di queste lettere, raccolte in CD-Audio ne trasmettono<br />

lo spirito. Quando don Paolo Padrini, giovane sacerdote<br />

novese, espresse il desiderio di realizzare il CD-Audio con alcune<br />

sue lettere significative, ebbe tutto il mio incoraggiamento: si intitola<br />

“Harijan – La carezza di Dio – Lettere di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> lette<br />

da Arnoldo Foà”.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> si presentava in modo dimesso ed umile, ma sempre<br />

con tanta proprietà, senza nulla di ricercato. Ispirava fiducia e favoriva<br />

il dialogo con tutti. Quando in alcune circostanze solenni preparavo<br />

paramenti liturgici festivi di cui la Collegiata di Novi Ligure<br />

è fiera, subito diceva: “Ma questi paramenti sono per i monsignori!”.<br />

La puntualità era la sua caratteristica. Si presentava per tempo<br />

alla celebrazione, a cui faceva precedere una preghiera di preparazione<br />

e poi restava a lungo a pregare per il ringraziamento.<br />

Quando nel gennaio 2002 giunse la notizia che padre <strong>Cesare</strong> era a<br />

Lecco nella casa di riposo dei missionari del Pime, siamo andati a<br />

trovarlo e ci siamo trovati di fronte ad un uomo debilitato nelle sue<br />

funzioni fisiche e psichiche. Appena si accorse della nostra presenza<br />

(ero con due amici, uno dei quali il nipote Ernesto), ebbe un<br />

momento di rianimazione e volle che la suora che lo accudiva prendesse<br />

da un cassetto un plico di cartelle da consegnare a noi per la<br />

pubblicazione: era una storia della Chiesa universale in inglese,<br />

scritta per i bengalesi. Tornati una seconda volta a visitarlo, si era<br />

ripreso e parlava correntemente: diceva che l’opera era ancora<br />

incompleta, ma pensava di poterla terminare. Ora questo testo è<br />

nell’Archivio del Pime a Roma (vedi all’inizio di questo capitolo,<br />

n.d.r.).<br />

Conversare con padre <strong>Cesare</strong> era piacevole perché arricchiva il suo<br />

dire con ilarità e facezie, non s’imponeva mai agli altri e restava<br />

volentieri in ascolto. Il nostro dialogare fu sempre rispettoso e sincero,<br />

animato dall’ansia pastorale per il bene degli altri e quando a<br />

volte si perdeva in umane considerazioni, velava il tutto con cristiana<br />

comprensione e carità…. Padre <strong>Cesare</strong> fu sempre riconoscente<br />

per l’aiuto dato da anime buone per le sue attività missionarie. Ci


proponiamo di continuare con quello stesso spirito. La memoria<br />

della vita e della missione di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> ci ricorda che la<br />

sua meravigliosa impresa non solo è possibile, ma è anche un dovere<br />

per la nostra salvezza.<br />

149


6.<br />

SEMPRE ALLEGRO E GRADITO A TUTTI<br />

Al termine della biografia di p. <strong>Pesce</strong>, mi rimane un dubbio.<br />

<strong>Cesare</strong> ha avuto una vita molto dedicata al prossimo e sacrificata,<br />

ma non ha vissuto avventure drammatiche come altri missionari<br />

di cui ho scritto la biografia. Forse il momento più avventuroso<br />

è stato durante la “guerra di liberazione” del Bangladesh dal<br />

Pakistan occidentale, quando era a Mariampur. Ma di quei mesi<br />

non ha scritto nulla, mentre ad esempio l’amico e condiocesano<br />

padre Mario Alvigini ha scritto alcune pagine da brivido (vedi al<br />

capitolo III).<br />

Il dubbio che mi rimane è questo. Non vorrei che l’amico lettore<br />

chiudesse questa biografia pensando: beh, tutto sommato, <strong>Cesare</strong><br />

<strong>Pesce</strong> ha fatto il parroco laggiù in Bangladesh con una vita più<br />

o meno uguale a quella dei nostri preti in Italia. Sarebbe una conclusione<br />

che non corrisponde a verità. Il vero sacrificio di padre<br />

<strong>Pesce</strong> (come di tutti gli altri missionari che vivono lunghi anni lontani<br />

dalla patria) è stato di vivere e lavorare, con fedeltà e costanza<br />

per 54 anni, nel difficile ambiente del Bangladesh, circondato<br />

dalla povertà e dalla miseria, adattandosi al clima quasi sempre<br />

caldo umido soffocante, al cibo, ai costumi, ad una società islamica;<br />

dovendo esprimersi in bengalese, in santal, in oraon e qualche<br />

volta anche in inglese. La difficoltà maggiore che incontra il missionario<br />

è di ambientarsi in un paese completamente diverso dal<br />

nostro. Ci vogliono anni di rinunzie, di sacrifici, di continue tensioni,<br />

prima di sentirsi a casa propria! Durante una vacanza in Italia<br />

nel 1980, in una intervista padre <strong>Cesare</strong> diceva: “Dopo trentadue<br />

anni passati in Bengala non so neppure io se sono bengalese o<br />

europeo. Sul mio passaporto è scritto: ‘Nazionalità italiana’, ma<br />

sotto la mia pelle si legge ‘bengalese’”. È la testimonianza più convincente<br />

della sua fedeltà alla vocazione missionaria.<br />

151


Il Bengala era la “La tomba dell’uomo bianco”<br />

Ecco una gustosa descrizione del travaglio quotidiano vissuto<br />

da un missionario in Bangladesh, fatta dallo stesso “Pesciolino”<br />

in una lettera del 13 novembre 1983 a don Giuseppe Bruniera,<br />

parroco del Sacro Cuore di Novi Ligure:<br />

152<br />

Quindici giorni fa, durante la pioggia torrenziale, è caduto un palo<br />

della luce presso la vicina moschea e i fili, a contatto con la terra<br />

bagnata, hanno causato un corto circuito nel trasformatore della<br />

linea principale, riducendolo ad un rogo. Ora siamo al buio, con la<br />

paura di ladruncoli affamati, con la prospettiva di non avere la corrente<br />

per tutto il resto di questo millennio. L’ingegnere dell’Electric<br />

Department del nostro distretto assicura che non si trova un altro<br />

trasformatore neppure pagandolo a peso d’oro. I mulini della zona<br />

sono fermi. I contadini pensano ai prossimi mesi in cui avranno<br />

bisogno di acqua per seminare il grano e il motore elettrico del progetto<br />

d’irrigazione della missione sarà inattivo. Qui ora è una processione<br />

di gente che viene a pregarmi di far muovere i capi. Come<br />

se io fossi l’onnipotente, che dicendo “fiat lux”, crea la luce. Mah!<br />

Lunedì della scorsa settimana mi chiamarono d’urgenza a visitare<br />

una ragazza madre che, dopo aver dato alla luce un bambino morto,<br />

stava pure lei male da morire. Il paese dove abita dista dalla missione<br />

una ventina di chilometri. Domandai al giovanotto che venne<br />

a chiamarmi com’era la strada. “Bella” rispose. Allora, via in motocicletta.<br />

Dopo due miglia, pozzanghere enormi, profonde, carreggiate<br />

pericolose. Che fare? ormai sono in moto e decido di tentare<br />

l’impossibile. Dico: Vai!… cado nel fango e il tubo di scappamento<br />

mi disegna un virgolone bluastro sulla caviglia del piede destro.<br />

Rialzo la moto, ma essa fa le bizze. La pulisco nelle sue parti vitali,<br />

l’accarezzo, la sgrido. Niente da fare, non capisce. Si ostina a non<br />

ripartire, l’asinaccia. Con l’aiuto del solito stuolo di ragazzi, che<br />

incontri sempre e dappertutto in Bangladesh, la spingo nella prima<br />

casa che trovo per la strada e proseguo zoppicando. Coi pantaloni<br />

e la camicia mimetizzati dal fango sembro un disertore dell’esercito<br />

di Arafat. Una grossa consolazione al mio arrivo: la ragazza risponde<br />

a monosillabi alle mie benedizioni e parole incoraggiamento. Se<br />

la caverà, poveretta. E se la caverà anche la mia “Honda”, sotto le<br />

cure d’un meccanico maniscalco del paese. La scottatura alla cavi-


glia sta ormai asciugandosi regolarmente. In conclusione tutto va<br />

bene!<br />

Due settimane fa s’è messo a piovere a dirotto e per sei giorni non<br />

volle saperne di smettere. Un po’ fuori tempo tutta quell’acqua. I<br />

campi bellissimi, coperti dalle piantine di riso in fiore, il giorno prima<br />

della pioggia presentavano uno spettacolo meraviglioso. I contadini,<br />

incuranti della rugiada che inzuppava i loro “longhi” 1 , al<br />

mattino facevano la loro passeggiata tra i campi sorridendo al pensiero<br />

di un prossimo raccolto abbondante. Ora, dopo la pioggia, le<br />

lunghe file di spighe neonate, malmenate e sconvolte dall’acqua,<br />

danno l’impressione di una processione di frati incappucciati, con<br />

le mani nascoste nelle maniche incamminati verso il coro al canto<br />

lugubre del miserere. Nelle terre più basse, peggio: nei campi inondati<br />

le piante del riso stanno annegando. Addio sogni di un raccolto<br />

eccezionale, sogni di autarchia o autosufficienza quotidianamente<br />

e stucchevolmente gridati dagli amministratori del regime militare.<br />

Tra inondazioni e siccità che si alternano nel corso dell’anno c’è<br />

poco da stare allegri in un paese così piccolo e così densamente<br />

popolato. Rimane sempre e sola la speranza ultima degli dei pagani,<br />

del buon Dio per i cristiani e la rassegnazione per i musulmani.<br />

E allora, la situazione politica si fa di giorno in giorno sempre più<br />

delicata. Qui vige la legge marziale del 24 marzo 1982, ma i cinquanta<br />

e più partiti registrati alzano la testa, gridano, protestano,<br />

promuovono scioperi e manifestazioni. Ogni tanto ci scappa il solito<br />

morto e il solito fuocherello divampa in qualche sede di partito<br />

o di club affiliato. Prima della fine dell’anno ci saranno le elezioni<br />

amministrative, poi l’anno venturo le elezioni generali, in cui l’attuale<br />

Capo militare farà il solito giochetto e diventerà presidente democratico.<br />

E allora tutto andrà bene come è andato fino ad oggi.<br />

Al tempo della prima colonizzazione inglese il Bengala veniva<br />

definito “la tomba degli uomini bianchi” e infatti nel secolo<br />

XIX la media di vita dei missionari del Pime in Bengala (vi lavoriamo<br />

dal 1855) era di appena 34 anni, ma quanti missionari<br />

1 Il “longhi” è il vestito dell’uomo, una lunga striscia di stoffa che si gira<br />

attorno alla vita e alle gambe. Le donne vestono il “sari”.<br />

153


morivano a 26-27-28 anni, dopo due-tre anni di Bengala! Altri<br />

erano urgentemente rimpatriati per salvare la loro vita. Anche le<br />

suore di Maria Bambina, andate in Bengala con i missionari del<br />

Pime nel 1860, pagarono un prezzo pesantissimo. Nel 1886 la<br />

superiora provinciale ritira le suore dalla missione di Jessore, a<br />

causa del clima “micidiale per eccellenza”: negli ultimi vent’anni<br />

erano morte a Jessore 14 giovani suore italiane!<br />

Oggi il Bangladesh è molto migliorato, ma le condizioni di<br />

vita, viste con occhi italiani, sono ancora povere e soprattutto<br />

difficili per la mancanza di spazi e la presenza continua di troppa<br />

gente. Non bisogna mai dimenticare che il Bangladesh, in un<br />

territorio che è poco meno della metà di quello italiano, ospita<br />

circa 130 milioni di bengalesi: si ha l’impressione di soffocare,<br />

manca la possibilità di stare soli, manca la libertà di muoversi<br />

senza essere sempre accompagnati e seguiti da nugoli di bambini:<br />

simpatici se presi uno per uno, ma quando sono tutti assieme…<br />

Questa la cornice, l’ambiente in cui viveva padre <strong>Cesare</strong><br />

<strong>Pesce</strong>, che ha lasciato di sé un ricordo molto bello in tutti i confratelli:<br />

proprio perché si era ambientato bene fino al punto di<br />

considerare il Bangladesh, non a parole ma in modo autentico e<br />

cordiale, sua nuova patria. Senza far pesare a nessuno il vivere in<br />

situazioni difficili, ma anzi mantenendo uno spirito gioioso e cordiale<br />

con tutti.<br />

Padre Angelo Canton, in Bengala dal 1951 (tre anni dopo l’arrivo<br />

di <strong>Pesce</strong>), mi dice:<br />

154<br />

Padre <strong>Pesce</strong> era sempre allegro, pieno di brio, di battute. Portava<br />

allegria dovunque andava. Per questo era gradito a tutti. Sapeva<br />

tirar su anche chi era depresso. In comunità era quello che aveva la<br />

parola giusta al momento giusto. E questo non solo per un bel carattere,<br />

ma perché era un uomo che viveva di fede, sentiva fortemente<br />

l’amore di Dio e la Provvidenza. Un altro aspetto importante del<br />

suo modo di essere è questo: era un uomo libero, non inscatolato o<br />

ingabbiato in nulla. Sapeva andare contro-corrente, se necessario.<br />

Ad esempio, amava una liturgia creativa, secondo le circostanze<br />

sapeva inventare gesti e parole nuove che attiravano la gente. Era un<br />

poeta e un creativo.


Perché <strong>Pesce</strong> era “sempre allegro”? Lo dice lui stesso in una<br />

lettera a mons. Francesco Giorgi (15 agosto 2000), ringraziando<br />

il Signore di finire la sua vita, a 80 anni compiuti, nel nuovo Santuario<br />

di Maria, circondato da “tutta questa magnifica gente che<br />

mi sta attorno. A volte mi rompono l’anima, ma nello stesso tempo<br />

mi rendono felice di vivere, nella gioia di avere qualcuno vicino<br />

a convincermi che non sono venuto al mondo inutilmente”.<br />

Chiedo a padre Adolfo L’Imperio che mi spieghi cosa vuol dire<br />

la “liturgia creativa” che celebrava padre <strong>Pesce</strong> (intervistato a<br />

Milano nell’aprile 2004):<br />

“Anche i ladri a Pasqua fanno festa”<br />

– Voleva che la liturgia fosse espressione di vita e che le cerimonie<br />

fossero fatte bene. Però era creativo, cioè libero, andava, veniva,<br />

dirigeva i chierichetti e i fedeli... Adattava le cose secondo il<br />

momento, sempre nello spirito della cerimonia che si stava compiendo<br />

e con il buon senso che aveva innato. Non celebrava la Messa<br />

come una stanca abitudine: la viveva, sapeva farla vivere anche<br />

con interventi originali ma autentici, che aveva il dono di saper<br />

comunicare. Questo era il suo modo di essere: era un tipo geniale,<br />

aveva sempre la battuta pronta al momento giusto. Quand’era parroco<br />

a Pathorgata, in una Pasqua sono andato ad aiutarlo e alla sera<br />

della vigilia abbiamo fatto la funzione solenne in chiesa, con molta<br />

commozione. Alla fine la gente esce di chiesa e nella notte incomincia<br />

a cantare e danzare, com’era solita fare. Dopo un po’ arrivano i<br />

due guardiani di notte della missione e dicono a padre <strong>Cesare</strong>: “I<br />

ladri hanno rubato quattro sacchi di riso”.<br />

Io rimango un po’ stupito, ma padre <strong>Cesare</strong> ferma le danze e i canti<br />

e al microfono dice a tutti: “Questa notte di Pasqua i ladri hanno<br />

rubato nel deposito della missione quattro sacchi di riso. Alleluja!<br />

Alleluja! Anche i ladri fanno festa e mangiano”. Poi ha continuato<br />

a cantare con la gente.<br />

– Che rapporti aveva con i musulmani e gli indù?<br />

– Nel Santuario di Rajarampur, in cui era al termine della vita, andavano<br />

a pregare anche musulmani e indù, portavano fiori, accendevano<br />

lumini alla Madonna... Nella zona ci sono una moschea e un<br />

155


tempio indù, ma la gente veniva a pregare anche nel Santuario della<br />

Madonna del Rosario di padre <strong>Cesare</strong>. Lui parlava con tutti, era<br />

amico di tutti, aveva un bel modo di trattare con la gente, si faceva<br />

voler bene. Poco prima che tornasse in Italia, dopo l’11 settembre<br />

2001, c’era tensione in Bangladesh contro i cristiani, gli occidentali.<br />

Sono andati da lui un gruppo di giovani estremisti musulmani e con<br />

aria minacciosa gli hanno detto: “Padre, noi facciamo saltare la tua<br />

chiesa”. Lui risponde calmo: “Va bene, e noi la ricostruiremo più<br />

grande”. Quella calma e cordialità ha sorpreso quei giovani. Non si<br />

sono più visti. Minacce di quel genere ne abbiamo ricevute tante, ma<br />

noi diamo poco peso ad esse: siamo nelle mani di Dio. In Bangladesh<br />

girano molti predicatori dell’estremismo islamico, girano molte<br />

armi che vengono dall’India, nel vicino Bengala indiano ci sono<br />

ancora i comunisti che commerciano in armi, fanno attentati, ecc.<br />

– Cosa ricordi di lui come uomo?<br />

– Era un poeta, un uomo di fede e un carattere felice; aveva la capacità<br />

di dialogare con tutti, non aveva barriere, era spontaneo e naturale.<br />

Sapeva affrontare qualsiasi situazione con la calma e la sicurezza<br />

che gli venivano dalla fede, dal bel carattere, dalla notevole intelligenza<br />

con cui giudicava le vicende della vita. Era un uomo con cui<br />

era piacevole stare assieme, discutere, perché lasciava parlare gli<br />

altri, ascoltava e poi esprimeva il suo parere in modo semplice, cordiale,<br />

chiaro.<br />

“Mamma, non senti che il tuo bambino ha fame?”<br />

Suor Anna Giudici è una Missionaria dell’Immacolata in Bengala<br />

dal 1955, ha avuto innumerevoli volte l’occasione di visitare<br />

i villaggi in varie missioni e anche con padre <strong>Pesce</strong>, visite chiamate<br />

“moffusil”: erano sempre due-tre suore con il missionario e il<br />

catechista. Stavano in giro un mese con il carro tirato dai buoi.<br />

Oltre agli oggetti del ministero sacerdotale e alle medicine, portavano<br />

con sé pochissimo: un cambio di biancheria, qualche pentola<br />

e piatto, posate e bicchieri, un po’ di riso con peperoncini<br />

piccanti e un po’ di lenticchie; qualcos’altro da mangiare lo trovavano<br />

nei mercati di villaggio. Per dormire, una coperta ciascuno,<br />

un lenzuolo e la zanzariera.<br />

156


Oggi il Bengala è molto cambiato, non è più quello di cinquant’anni<br />

fa: con le strade e le auto è difficile persino per i giovani<br />

missionari immaginare la vita che i loro predecessori conducevano<br />

mezzo secolo addietro. Padre <strong>Pesce</strong> e le suore stavano in<br />

giro un mese fra campi di riso e villaggi con capanne di fango e<br />

paglia, strade fangose o polverose, un cibo povero e sempre uguale,<br />

l’acqua da far bollire per poterla bere, i serpenti e la malaria<br />

in agguato (oltre a topi, scarafaggi, ecc.), il caldo umido e soffocante:<br />

questa l’immagine molto concreta dell’eroismo richiesto ai<br />

missionari che hanno fondato la Chiesa in Bengala (e in India) e<br />

della vita di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>. L’eroismo di resistere per anni e<br />

anni, mantenendo un’allegria di fondo che “Pesciolino” ha conservato<br />

fino alla morte. Ecco il racconto di suor Anna Giudici,<br />

intervistata da suor Franca Nava (nel febbraio 2004):<br />

Padre <strong>Pesce</strong> era un uomo vivace, allegro, un vero missionario con il<br />

solo desiderio di far conoscere Gesù. Nelle visite ai villaggi che a<br />

Ruhea facevamo con lui, ero accompagnata da una suora bengalese<br />

della congregazione diocesana di Dinajpur “Shanti Rani”, che parlava<br />

bene santal, oraon, bengalese. Oltre che visitare le famiglie,<br />

dovevamo preparare i catecumeni per il battesimo e i bambini grandicelli<br />

per la prima Comunione. A volte i battezzati erano molti e la<br />

famiglia preparava il nome da dare secondo la loro tradizione; ma<br />

padre <strong>Cesare</strong>, battezzando, aggiungeva un nome cristiano che io gli<br />

suggerivo uno alla volta. La scelta dei nomi era un problema perché<br />

la gente si fidava del nome che sceglieva il padre, per cui bisognava<br />

avere una lista sufficiente per evitare di dare nomi simili a bambini<br />

e bambine battezzati nello stesso tempo e luogo. Ogni nome andava<br />

segnato nel registro dei battesimi e la famiglia poi lo imparava a<br />

poco a poco.<br />

Una volta, mentre era in corso la cerimonia dei battesimi che erano<br />

tanti, mi è venuta in mente suor Ancilla che era anche lei in Bangladesh:<br />

padre <strong>Pesce</strong> l’aveva mandata dalle Missionarie dell’Immacolata<br />

quando era viceparroco ad Alzate Brianza (Como) durante gli<br />

anni di guerra e la considerava sua figlia spirituale. Il suo nome di<br />

battesimo era Elisa. Allora io, suggerendo il nome della bambina<br />

che stava per essere battezzata dico: “Elisa”. Padre <strong>Pesce</strong> incomincia<br />

con la formula del battesimo: “Elisa, io ti battezzo…” Poi si fer-<br />

157


158<br />

ma prima di versare l’acqua, guarda bene e dice: “Ma questo è un<br />

maschietto! Eliseo, io ti battezzo…”. Ridiamo di gusto tutti e due<br />

mentre la gente ci guarda sbalordita e padre <strong>Cesare</strong> mi dice: “Accià,<br />

dimmi il nome giusto!” (“Accià” equivale a “perbacco” in bengalese).<br />

Si visitavano parecchi villaggi, in media uno ogni due giorni: visita<br />

delle famiglie, regolarizzazione dei matrimoni, catechismo per bambini,<br />

donne e uomini, cura dei malati, distribuzione di medicine;<br />

soprattutto si pregava assieme alla gente mattino e sera. Per i bambini<br />

la catechesi avveniva durante il giorno, per gli adulti la sera,<br />

quando tornavano dal lavoro dei campi. Dormivamo nello stesso<br />

villaggio: il padre nella cappella (se c’era), noi suore all’altro estremo<br />

del villaggio, nella capanna di una famiglia di buona reputazione,<br />

oppure anche da sole. Fuori della nostra capanna c’erano sempre<br />

due uomini tutta la notte a proteggerci da eventuali male intenzionati,<br />

ma non abbiamo mai avuto problemi. Invece ricordo che<br />

qualche volta, svegliandoci di notte e guardando fuori, vedevamo i<br />

nostri due uomini che parlavano con uno o più musulmani, venuti<br />

a vedere dove dormivano le suore e ad assicurarsi che con noi non<br />

c’erano uomini. Per loro la verginità di donne giovani consacrate a<br />

Dio era un fatto incomprensibile e impossibile.<br />

Allora vi era molta giungla e spesso la tigre si faceva sentire nelle<br />

vicinanze, per rubare qualche vitello. Una sera, mentre noi suore<br />

eravamo ancora alzate e chiacchieravamo, sentiamo che le pareti<br />

della nostra capanna di bambù si scuotono e ondeggiano come se<br />

qualcuno o qualcosa strisciassero contro. Spegnamo la fiammella<br />

della lampada a petrolio e ci fermiamo in silenzio per un po’ di<br />

minuti. Sentiamo un respiro profondo proprio vicino a noi, che ci<br />

riempie di spavento. Poi più nulla. Quella notte abbiamo dormito<br />

male e al mattino la gente ci dice che era passata la tigre e si era fermata<br />

proprio vicino alla nostra capanna. Ma padre <strong>Pesce</strong> ci tranquillizza:<br />

“Non abbiate paura, nessun missionario o suora missionaria<br />

sono mai stati mangiati da una tigre…”. Era sempre ottimista e<br />

pieno di speranza perché confidava nella Provvidenza di Dio.<br />

Padre <strong>Cesare</strong> non viveva di rendita, amava trasmettere la Parola di<br />

Dio con metodi moderni che sapeva rinnovare. Il suo corso di insegnamento<br />

della Bibbia con domande e risposte che inviava ogni<br />

mese a più di mille iscritti, con premiazione finale, ebbe molto successo.<br />

Nella predicazione era un piacere ascoltarlo perché, parten-


do dal brano di Vangelo che si era letto, coinvolgeva gli ascoltatori<br />

con esempi e problemi che tutti sentivano perché si riferivano alla<br />

vita quotidiana; e inventava sempre qualcosa che rompeva il discorso<br />

e attirava l’attenzione. Una volta, mentre predicava durante la<br />

Messa in una di queste visite ai villaggi, un bambino piangeva e<br />

disturbava. Padre <strong>Cesare</strong> dice: “Mamma, non senti che il tuo bambino<br />

ha fame? Dagli il seno!”. Tutti si sono messi a ridere.<br />

“Sapeva ascoltare, lasciava parlare gli altri”<br />

Una qualità indispensabile nel missionario, specie nei tempi<br />

moderni quando i popoli prendono coscienza dei loro diritti e<br />

della loro identità anche religiosa, è l’umiltà, la capacità di ascoltare<br />

e di collaborare con Vescovi e clero locale in posizione subalterna.<br />

In passato, quando si trattava di fondare la Chiesa in regioni<br />

del tutto nuove, al missionario era richiesto di essere un capo.<br />

Oggi deve saper obbedire e lasciare spazio ad altri, parlare solo<br />

quando necessario e saper ascoltare. Suor Clotilde Brambilla,<br />

altra Missionaria dell’Immacolata (intervistata da suor Franca<br />

Nava nel febbraio 2004), è stata con padre <strong>Pesce</strong> a Kalisha, negli<br />

ultimi anni della sua vita (1995-1999) ed ha per lui una grande<br />

ammirazione.<br />

Posso dire che era arrivato a Kalisha in un momento molto difficile<br />

della missione. Anzi, il vescovo aveva mandato lui perché il suo<br />

carisma di saper portare la pace dove c’erano divisioni e lotte era<br />

proverbiale. A Kalisha vi erano pasticci fra i cristiani stessi, divisi in<br />

clan e fazioni: una storia che il parroco precedente non era riuscito<br />

a smontare. Quando arrivò padre <strong>Pesce</strong>, non passarono molti mesi<br />

e Kalisha aveva un volto nuovo: la pace era tornata, le tensioni<br />

scomparse, si riusciva a collaborare con tutti. Ma per sapere chi era<br />

veramente padre <strong>Pesce</strong> bisognerebbe interrogare i musulmani. Non<br />

conosco molti altri missionari del Bangladesh, ma credo che padre<br />

<strong>Cesare</strong> fosse fra i più capaci di stabilire buoni rapporti e dialogare<br />

con i seguaci di Maometto.<br />

Lui si interessava dei loro problemi e sapeva ascoltare. Quando era<br />

con i musulmani parlava poco, lasciava che parlassero loro. I suoi<br />

159


160<br />

colloqui con tutti, seduto su una stuoia o semplicemente per terra,<br />

si protraevano a volte fino a notte inoltrata. Sempre calmo, lasciava<br />

che si sfogassero, gridassero pure (e se la conversazione prendeva<br />

una certa piega questo era normale), ma il suo contegno sereno aveva<br />

presto il sopravvento. Con noi suore, e naturalmente anche con<br />

i laici cristiani, era sempre gentile e riconoscente per quello che si<br />

faceva per il Regno di Dio.<br />

Quando celebrò il 50° della sua venuta in Bengala come missionario<br />

(1998), andò in Italia e nella sua città di Novi Ligure venne premiato<br />

con la “Torre d’Oro”; poi tornò in Bangladesh e ci furono<br />

festeggiamenti in varie parti della diocesi di Dinajpur, con partecipazione<br />

anche di musulmani e hindù. A tutti mostrava con orgoglio<br />

la sua “Torre d’Oro” e noi dicevamo che lui era come una torre della<br />

Chiesa bengalese. Non mancarono nemmeno i pranzi solenni e<br />

fra gli invitati non pochi erano suoi amici di altre fedi religiose.<br />

Una delle sue caratteristiche come parroco era che seguiva i cristiani<br />

e gli alunni delle nostre scuole personalmente, era davvero un<br />

padre della fede e anche degli aiuti materiali dov’era necessario. Fra<br />

i suoi alunni e alunne sono nate parecchie vocazioni sacerdotali e<br />

religiose. Significativa quella di don Giuseppe Mardi, un santal che<br />

lui chiamava suo figlio: non solo sacerdote, ma laureato in legge. Un<br />

santal capite? Un fatto straordinario.<br />

A padre <strong>Pesce</strong> piacevano le cose fatte bene, godeva dei bei paramenti<br />

che egli teneva con cura per le feste solenni; era un bravo<br />

liturgista, per le domeniche e le feste preparava un foglietto ciclostilato<br />

con le letture, le preghiere, i canti e anche dei disegnini, per<br />

far sì che la Messa fosse seguita con attenzione e ben capita. Aveva<br />

pure attenzione per le scuole, dove andava lui stesso a controllare<br />

come si tenevano le lezioni e i compiti. Ma i suoi prediletti erano i<br />

vecchi e gli ammalati. Quanta cura, quante visite nelle loro povere<br />

capanne, quante rupie spese per i medicinali: in Bangladesh non c’è<br />

assistenza sanitaria gratuita; se non si è attenti alle persone, ci sono<br />

quelle che muoiono anche per mancanza di una medicina, di un<br />

intervento chirurgico. Nessuno poi andava in Paradiso senza i<br />

Sacramenti. Anche se la loro capanna era molto lontana ed eravamo<br />

nella stagione dei monsoni (cioè delle piogge a catinelle), padre<br />

<strong>Cesare</strong> affrontava ogni fatica per andarli a trovare e portar loro il<br />

Viatico e l’Olio degli Infermi. A volte si vedeva che era proprio stanco,<br />

ma ci andava lo stesso.


Insomma, in padre <strong>Pesce</strong> io ho conosciuto un uomo di grande fede.<br />

L’amore al prossimo e lo spirito di sacrificio per lui non erano solo<br />

parole, ma fatti quotidiani molto concreti.<br />

Padre Gianantonio Baio, per vent’anni missionario in Bangladesh<br />

e oggi superiore regionale del Pime a Milano, così lo ricorda:<br />

Quando penso a padre <strong>Pesce</strong> mi viene in mente una sua espressione<br />

caratteristica, che ripeteva spesso in varie circostanze: “Magnifico!”.<br />

Non si perdeva in lamenti, sapeva vedere gli aspetti positivi di<br />

tutte le situazioni, si entusiasmava delle cose buone che trovava. Lo<br />

ricordo come un confratello lucido nei giudizi, ma anche sempre<br />

sereno e allegro: il suo “Magnifico!” si applica anche a lui.<br />

Padre Giulio Berutti, che è stato con <strong>Pesce</strong> per alcuni anni,<br />

mi scrive (10 maggio 2004):<br />

Padre <strong>Cesare</strong> aveva una grande dote: non l’ho mai sentito parlare<br />

male di un confratello. Piuttosto faceva silenzio.<br />

Ancora padre Baio, presentando padre <strong>Cesare</strong> alla città di<br />

Novi Ligure il 4 ottobre 1998, in occasione dell’assegnazione del<br />

“Premio Torre d’Oro 1998”, diceva:<br />

Don <strong>Cesare</strong> è tra voi per pochi giorni, ha già fissato la data del ritorno<br />

in Bangladesh, anzi l’ha anticipata di una settimana. Di andare in<br />

pensione non vuol neppure sentirne parlare, anche se ha 79 anni suonati.<br />

Prete scugnizzo, come lo definisce un suo amico prevosto di Voghera,<br />

più bengalese che italiano. È vero! Ben 50 anni sulle strade del<br />

Bengala sono un vanto, un merito, un dono… e tanta gioia. Padre <strong>Cesare</strong><br />

è un testimone della missione alle genti. Resta concittadino vostro,<br />

certo, ma ancor più figlio di quel popolo di adozione che tanto<br />

ama e da cui si sente amato. Senza esitazione si è inculturato, immerso<br />

in quella terra e fra quel popolo, vivendo quotidianamente rapporti<br />

personali di vera amicizia come il grande Tagore, anima poetica e<br />

mistica, Premio Nobel per la letteratura e simbolo delle virtù del popolo<br />

bengalese, esprime in una preghiera: “Fa’, o Signore, che nell’insieme<br />

di molti non perda l’attenzione al singolo”.<br />

161


Don <strong>Cesare</strong> è disponibile al dialogo con tutti, senza esclusioni,<br />

anche se la sua preferenza è per i poveri, gli emarginati della società.<br />

In cammino con una varietà di amici che ascolta, stima, osserva<br />

con interesse e gioia, senza imporre nulla né tentare di imporsi. Ben<br />

cinquant’anni in cammino con loro, uno di loro, promuovendo la<br />

fratellanza universale nella concretezza e semplicità della vita, mosso<br />

da una profonda convinzione: Dio è Padre di tutti. Di Lui ha parlato<br />

con la vita, coi fatti prima che con le parole. Una convivenza<br />

pacifica ad ogni costo, sdrammatizzando situazioni difficili, magari<br />

in modo scanzonato.<br />

Amava molto il popolo bengalese<br />

Ho già raccontato di quando nel 1960, dopo dodici anni di<br />

Bengala, padre <strong>Pesce</strong> ritorna la prima volta in Italia e trova la sua<br />

patria così cambiata che gli pare di non trovarsi più a casa sua. Tra<br />

l’altro, in quel 1960 era iniziata la prima “Campagna contro la fame<br />

nel mondo” lanciata dalla Fao e ad un missionario reduce si chiedeva<br />

di parlare della fame nel mondo. <strong>Cesare</strong> scriveva 2 :<br />

Mi invitano a parlare dei miei dodici anni passati laggiù e io, dopo<br />

le prime battute, rimango impappinato, nel dubbio che mi prendano<br />

per uno che le sballa grosse. Mi invitano a fare qualche conferenza<br />

e alla fine gli organizzatori mi rimproverano: “Ma perchè non<br />

parli dell’infelicità, della miseria, dei morti di fame, dei sacrifici che<br />

fai laggiù?”. Sacrifici? Come se buttar giù tutti gli antipasti sofisticati<br />

e ‘sti piattoni di ogni ben di Dio, pesanti come il piombo, per<br />

poi ingoiare medicine amare come il tossico nel tentativo di combattere<br />

il colesterolo, non fossero sacrifici più grossi!<br />

Non voleva parlare della “miseria”, dei “morti di fame” e<br />

dell’”infelicità” del suo popolo che tanto amava: gli pareva di tradirlo!<br />

Infatti dice in una intervista 3 :<br />

162<br />

2 Le strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 65.<br />

3 In «Il Popolo di Novi», senza data.


Sono tornato volentieri, ma il mio pensiero è sempre là, alla missione...<br />

Mi fermo in Italia sei mesi, ma le dico che ho lasciato il cuore<br />

a Ruhea. E se è umana la gioia di ritrovarsi in questa breve parentesi<br />

coi parenti e gli amici, sento che la mia vita è laggiù, dove ho<br />

piantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensioni<br />

così sconfinate, che non saprei concepirlo né più bello, né più entusiasmante.<br />

<strong>Cesare</strong> era innamorato dei bengalesi, lo diceva spesso chiacchierando<br />

con gli amici. Vedeva anche i loro limiti e difetti, la miseria e<br />

gli aspetti negativi di società non cristiane. Ma, ottimista com’era,<br />

dei bengalesi aveva un’alta immagine. Ecco cosa dice di loro 4 :<br />

Eccoti il popolo bengalese: una massa enorme di poeti, di appassionati<br />

della musica. Le passioni esplodono violente dal cuore, incontenibili<br />

e indomabili. L’intelligenza vivida e brillante non riesce a<br />

incanalarle in un programma severo e matematico. Eccoti di conseguenza<br />

il famoso 21 febbraio con i suoi morti sulle strade, veri sacrifici<br />

umani in onore della lingua bengalese (si riferisce alle rivolte<br />

contro il Pakistan nel 1952, n.d.r.); eccoti la guerra civile contro il<br />

Pakistan orientale (del 1970-1971, n.d.r.)...<br />

La passione guida questo popolo meraviglioso, dignitoso nella sua<br />

povertà, orgoglioso nei suoi milioni di bambini, che guizzano come<br />

pesciolini nella fitta rete di fiumi, torrenti e pantani. La morte forse<br />

non tarda a venire. Che importa? La gioia di vivere è di oggi. Il<br />

domani è in mano ad Allah, che guida i destini dei popoli e del singolo.<br />

Il futuro è dei giovani. E il bengalese, inconsapevolmente veggente<br />

come un poeta, attende fiducioso e sicuro, pur in mezzo ai<br />

suoi limiti regalatigli dalla sua natura passionale, l’alba di un domani<br />

migliore... Noi europei invecchiamo e Roma si addormenta sui<br />

suoi colli dorati. A me piange il cuore quando penso, come italiano,<br />

all’ineluttabile corso di questa meravigliosa e gloriosa storia europea<br />

che va verso la foce. E d’altra parte mi consolo, come bengalizzato,<br />

di essere un sassolino portato dalla corrente verso il domani radioso<br />

di questo popolo.<br />

4 Intervista di don Meriggi a padre <strong>Pesce</strong>, in «Il Popolo di Novi», senza<br />

data (probabilmente del 1981).<br />

163


Padre <strong>Cesare</strong>, oltre che innamorato dei bengalesi, era anche<br />

un uomo con i piedi per terra, furbo e capace di dire la parola<br />

giusta al tempo giusto. Riusciva a sistemare situazioni conflittuali<br />

e a non essere nemico di nessuno perché era cordiale e sincero<br />

nello stesso tempo. Padre Livio Prete, missionario in Bangladesh,<br />

mi ha raccontato questo fatto. In una certa missione si erano creati<br />

contrasti fra due gruppi di cristiani nei quali era coinvolto<br />

anche il parroco. Uno dei motivi di contrasto era la presenza di<br />

una donna nella casa parrocchiale (cuoca e donna di casa), capace<br />

e onesta ma autoritaria, gradita agli uni e non agli altri per vari<br />

motivi, soprattutto di appartenenza etnica. Naturalmente, come<br />

sempre capita, quando nascono inimicizie per un motivo e non<br />

vengono sistemate, vanno avanti caricandosi sempre di nuovi<br />

motivi di contrasto.<br />

<strong>Pesce</strong> è mandato dal vescovo a sistemare la situazione. Nominato<br />

parroco, qualche giorno prima di fare l’entrata in parrocchia<br />

manda ad avvisare la cuoca di preparagli una bella cena per<br />

festeggiare la solennità con gli amici. La donna si impegna, gli<br />

prepara un cenone coi fiocchi. Padre <strong>Cesare</strong> mangia di gusto e<br />

ringrazia la cuoca. Il mattino dopo chiama la signora e le dice:<br />

“Ieri sera ho mangiato bene e la ringrazio, lei cucina veramente<br />

bene. Però questa notte non ho dormito, quel tipo di cibo mi ha<br />

fatto male. Io ho bisogno di un’altra cucina. Abbia pazienza, con<br />

le sue capacità troverà altri posti di lavoro”. E dandole anche più<br />

della giusta ricompensa, la licenzia.<br />

La donna protesta e grida, la sua famiglia interviene, la sua<br />

etnia minaccia. Ma <strong>Cesare</strong>, sempre cordiale e sorridente, mostra<br />

meraviglia per queste reazioni: è lui che deve mangiare e quindi<br />

se prende una cuoca diversa questo non deve meravigliare nessuno.<br />

Però aveva dato un segno preciso e forte a tutta la parrocchia<br />

e in breve tempo le cose si sistemano. Padre Livio mi racconta<br />

che <strong>Cesare</strong> amava, quando aveva tempo, andare nei mercatini di<br />

villaggio a fare la spesa. I negozianti, vedendo un bianco e ritenendolo<br />

uno sprovveduto, alzavano il prezzo. <strong>Cesare</strong>, quando se<br />

ne accorgeva, lo faceva notare, ma poi diceva: “Ti pago come tu<br />

mi hai chiesto perché voglio essere tuo amico, però non è un<br />

prezzo giusto”. Invece, se a volte capitava che gli indicavano il<br />

164


prezzo giusto, allora diceva: “Come, così poco? Mi pare che questo<br />

costi di più” e pagava il doppio. Erano piccole genialità per<br />

farsi degli amici e far parlare bene di sé fra i musulmani.<br />

Padre Luca Galimberti, che ha conosciuto padre <strong>Pesce</strong> quando<br />

era a Kalisha (vicino alla sua missione di Boldipukur), mi racconta<br />

(a Roma, 3 giugno 2004):<br />

È rimasta famosa una sua finta lite con un conduttore di “rikshow”<br />

a Dacca. Aveva preso il carretto tirato a mano e quando giunge a<br />

destinazione si mette a discutere col povero bengalese che faceva<br />

quel lavoro. Padre <strong>Cesare</strong> finge di scaldarsi e l’altro lo segue: alzano<br />

la voce, ma non parlavano del prezzo della corsa, sebbene di<br />

come si guida il “rikshow” nelle vie superaffollate di Dacca. Fatto<br />

sta che, come sempre succede in Bangladesh quando due discutono,<br />

si forma un folto gruppo di ascoltatori (e in questo caso di conduttori<br />

di “rikshow”) che vogliono vedere come va a finire. Quando<br />

ne ha avuti attorno a sé un buon numero, padre <strong>Cesare</strong> dice al<br />

poveraccio: “Insomma, non mi hai ancora detto quanto ti debbo<br />

dare per la corsa”. L’altro risponde: “Trenta take!”. <strong>Cesare</strong> chiede:<br />

“Ma tu sei sposato? Quanti figli hai?”. “Cinque figli”, risponde il<br />

conduttore. “Allora chiedi troppo poco. Come fai a vivere? Devi<br />

chiedere di più. Ti do cento take!” (circa un Euro). Glie le mette in<br />

mano e tutti applaudono.<br />

Questa sua generosità era famosa fra noi missionari; lo faceva anche<br />

perché era riconosciuto come prete cattolico e voleva lasciare nei<br />

musulmani una buona impressione. Alla sera poi diceva: “Quest’oggi,<br />

attraverso quei conduttori di “rikshow”, la notizia di un missionario<br />

cattolico molto generoso ha fatto il giro di Dacca”. A suo<br />

modo, anche quello era un annunzio del Vangelo.<br />

“Padre <strong>Cesare</strong> è un uomo solare”<br />

Nei 54 anni di Bengala, padre <strong>Pesce</strong> ricevette le visite di<br />

parecchi parenti e amici. «Il Popolo di Novi Ligure» ha pubblicato<br />

(24 febbraio 1991) la testimonianza di due visitatrici di Novi,<br />

Luciana Bisogni e Barbara Agosti, molto espressiva e significativa:<br />

165


166<br />

Siamo sul treno Roma-Alessandria che ci riporta a casa. Si sono conclusi<br />

i giorni trascorsi in Bangladesh “Paese d’acqua”. Vorremmo<br />

rivivere insieme a voi la nostra esperienza, farvi viaggiare tra i nostri<br />

ricordi, ripercorrere un tragitto tortuoso fra rickshow, bus stracolmi,<br />

in mezzo a persone che lottano per sopravvivere. Vorremmo riuscire<br />

a trasmettervi la simpatia di questo popolo, la spontaneità, il<br />

calore, la gioia dei loro sorrisi, la semplicità nei gesti, la serenità<br />

negli occhi che condizioni climatiche non sempre favorevoli, povertà,<br />

malattie, non sono riuscite a cancellare.<br />

Vivendo accanto a questo popolo abbiamo riscoperto valori che in<br />

occidente sembrano sfuggire: la corsa alla competizione per un fine<br />

prettamente economico ci allontana da quel clima di solidarietà e di<br />

festa che si gusta nelle cose più umili. Non esiste, forse, al mondo<br />

luogo più idoneo al carattere di p. <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, che da 12 anni, nella<br />

sua missione di Pathorgata, nostra meta, è maestro di risate e<br />

buon umore oltre che artefice di innumerevoli opere missionarie. È<br />

un uomo solare, vuoi per il sole immagazzinato nelle tante ore di<br />

lavoro nei campi, vuoi per le lunghe corse in motocicletta, suo cavallo<br />

di battaglia, che malgrado la sua non più tenera età, non si decide<br />

ancora a mettere a riposo. Grazie a padre <strong>Pesce</strong> siamo riuscite a<br />

concretizzare la nostra prima esperienza missionaria. Abbiamo trascorso<br />

in Bangladesh il nostro primo mese del nuovo anno.<br />

All’aeroporto di Dacca ci accoglie come se ci conoscesse da sempre.<br />

Siamo ospiti della casa del PIME; una breve sosta in attesa di<br />

riprendere il cammino per Pathorgata: respiriamo il primo impatto<br />

con la realtà orientale. Ci aspetta un lungo viaggio, in auto e traghetto<br />

per risalire il Bramaputhra; attraversiamo paesi e villaggi, l’atmosfera<br />

si rinnova nella consuetudine di questi luoghi: immense pianure<br />

paludose, baracche, bazar, bambini scalzi che giocano, sporcizia,<br />

miseria mentre il muezzin chiama alla preghiera. Nel tardo pomeriggio<br />

finalmente arriviamo alla missione; siamo esauste, abbiamo<br />

impiegato complessivamente tre giorni per raggiungere Pathorgata<br />

ed ora che siamo sedute a tavola con padre <strong>Cesare</strong> abbiamo la sensazione<br />

di vivere un sogno. Al mattino ci svegliano i canti delle donne<br />

della missione che ci attendono per salutarci e offrirci fiori di<br />

benvenuto. È un momento magico, siamo emozionatissime, nonostante<br />

le difficoltà della lingua esprimiamo la nostra gratitudine.<br />

Entriamo insieme in chiesa per partecipare alla messa, celebrata da<br />

padre <strong>Cesare</strong> in lingua santal. Numerosissimi i fedeli, siamo colpiti


da tanta devozione in un paese dalle antiche tradizioni musulmane.<br />

La chiesa è costruita di terra, con panche appena sollevate dal pavimento.<br />

I bambini prendono posto davanti all’altare, le donne a<br />

destra e gli uomini a sinistra. Padre <strong>Cesare</strong> ha ideato e spera di portare<br />

a termine il progetto per la costruzione della nuova chiesa,<br />

capace di accogliere i sempre più numerosi cristiani. Al momento è<br />

in costruzione la casa delle suore che padre <strong>Cesare</strong> spera di terminare<br />

per l’imminente Pasqua: in collaborazione con maestri locali,<br />

assicura l’istruzione elementare e media a circa 200 studenti provenienti<br />

dai villaggi limitrofi.<br />

Le giornate trascorrono serene, la missione è una grande famiglia.<br />

Tutti partecipano ai lavori dei campi nell’orto, le donne provvedono<br />

alla pulitura del riso: si nota un gran fervore per immagazzinare<br />

provviste necessarie nel lungo periodo delle piogge monsoniche. La<br />

missione di padre <strong>Cesare</strong> non dispone di un dispensario e di un<br />

ospedale che possano rispondere ai bisogni di assistenza degli abitanti<br />

dei villaggi. La notizia, presto diffusasi, dell’arrivo di una infermiera<br />

fa accorrere mamme con richiesta di cure e farmaci per i loro<br />

bambini. Con l’aiuto del padre cerchiamo di capire quanto ci chiedono<br />

e di fornire loro le cure di cui necessitano. Vorremmo poter<br />

disporre all’infinito di quanto abbiamo portato con noi dall’Italia:<br />

in pochi giorni i cassetti con i farmaci, i cerotti, le garze, sono vuoti;<br />

sono esaurite le caramelle e i palloncini dalle tasche dei nostri zaini.<br />

Ci sentiamo impotenti e proviamo un sentimento di vergogna e<br />

di imbarazzo di fronte a persone che sono come noi ma costrette ad<br />

una vita di rinuncia, di disagio, private dei beni di primaria necessità.<br />

Siamo ospiti di un paese nel quale la vita media è di 45 anni,<br />

c’è denutrizione, mortalità infantile elevata, analfabetismo, colera,<br />

lebbra, tubercolosi, tifo.<br />

Siamo ormai in Italia. Il Bangladesh per noi è stato un avvicinarsi<br />

alla spontaneità, alla semplicità, alla ricchezza di chi non ha nulla e<br />

riesce a donarti e trasmetterti gioia e serenità. È stato avvicinarsi al<br />

messaggio di Gesù, alla fratellanza, alla preghiera, a messaggi di<br />

pace e comunione. Ringraziamo il Pime dell’opportunità che ci ha<br />

dato di vivere questa esperienza e confidiamo nella possibilità di<br />

tornare per condividere e collaborare più concretamente all’attività<br />

dei missionari.<br />

167


“L’Italia è un paradiso, ma il Bangladesh la mia patria”<br />

Quando ritorna in Italia nell’estate 1989 padre <strong>Cesare</strong> ha<br />

ormai 41 anni di vita in Bengala. Rimane pochi mesi, visita tanti<br />

amici, raccoglie generosi aiuti per la sua missione di Pathorgata,<br />

ma soprattutto, quando riparte in ottobre, dice a se stesso che<br />

quella è l’ultima visita al paese natale. Avrebbe potuto fermarsi in<br />

Italia: fra i vari inviti ricevuti, anche quello dei superiori del Pime<br />

che gli hanno proposto di fare il direttore del mensile «Missionari<br />

del Pime». Ma lui dice che preferisce tornare in Bengala, dove<br />

ha “alcuni lavoretti in sospeso”; sostanzialmente il motivo è un<br />

altro e risulta da tutto quanto egli dice in questa intervista, pubblicata<br />

da «Il Popolo di Novi Ligure» nell’estate 1989. Ecco il<br />

testo quasi integrale:<br />

168<br />

Ben tornato in Italia dopo più di otto anni dall’ultima sua breve visita.<br />

Come le sembra l’Italia?<br />

– Bellissima, molto migliorata. Eccettuate le strade della vecchia<br />

Novi, non so più raccapezzarmi nella periferia diventata un angolino<br />

del famoso giardino europeo che si chiama Italia. Per chi viene<br />

dal Bangladesh è davvero un pezzo di Paradiso. I preti mi dicono<br />

che il Paradiso sarà più bello, ma qui mica male. Sarà forse l’anticamera<br />

del Paradiso.<br />

– Se parla così vuol dire che il Bangladesh è davvero brutto.<br />

– No, per carità. Non mi fraintenda. Il Bangladesh sarà povero, affamato,<br />

arretrato, disastrato quanto vuole, ma non mi faccia dire che<br />

è brutto. È ormai la mia patria d’adozione e chi è quello scemo che<br />

parla male della sua patria?<br />

Non si arrabbi, don <strong>Cesare</strong>, mi parli piuttosto della sua seconda<br />

patria.<br />

– Sembra davvero che tutto congiuri contro quel povero paese.<br />

Disastri su disastri. L’alluvione dell’anno scorso ha sommerso più di<br />

metà del territorio nazionale. E lei sa che il Bangladesh ha circa 120<br />

milioni di abitanti in un territorio vasto meno di metà dell’Italia.<br />

Può immaginare cosa vuol dire perdere quasi interamente il raccolto<br />

di un anno, in un paese che basa esclusivamente la sua economia<br />

sull’agricoltura. E poi la devastazione di strade, casa, ponti, silos. Il<br />

brutto è che siamo sempre sotto la minaccia di queste calamità.


Durante la stagione delle piogge nel Golfo del Bengala il livello del<br />

mare si alza di 3-4 metri. La corrente dei 53 fiumi che ricevono l’acqua<br />

dall’Himalaya e sfociano in quel mare è ributtata indietro,<br />

inquinata dalle acque salate. I fiumi ormai hanno il letto pieno di<br />

sabbia e non riescono più a fluire rapidamente. Oltre che alle inondazioni<br />

stagionali si è sempre sotto la minaccia di cicloni e tifoni che<br />

seminano rovine e morte. Per colmo di sventura non ci sono industrie,<br />

non c’è un sistema moderno commerciale per arginare questo<br />

mare di miseria. Altro che “Bengala dorato”, cantato dal nostro Premio<br />

Nobel Tagore! Purtroppo il Bangladesh è diventato una nazione<br />

annegata nella miseria.<br />

– Però leggo sui giornali che la Banca Mondiale, la F.A.O., l’America,<br />

l’Europa mandano un sacco di aiuti.<br />

– Sì, è vero. Il bilancio statale del giugno scorso mostra che l’80%<br />

dell’economia del paese è basata sugli aiuti esteri. Nel mio libro scrivevo<br />

che quella è la terra dei paradossi. Ed è vero: il denaro c’è ma<br />

non sanno come spenderlo bene. Oltre alla corruzione dilagante<br />

ovunque, manca una struttura manageriale degna di uno stato<br />

moderno. Conseguenza logica: il caos e la povertà. Non parliamo<br />

poi dell’infelice situazione politica , argomento proibito ai preti.<br />

– E gli aiuti privati?<br />

– Questi forse sono meglio utilizzati. Molte organizzazioni straniere<br />

conducono a termine progetti che portano grossi benefici sociali.<br />

Mi spiace parlare di me, ma per farle capire come stanno le cose,<br />

bando all’umiltà pelosa. Per quattro anni sono stato membro del<br />

comitato esecutivo della “Gonobiddaloy”, un progetto finanziato<br />

dal governo della Danimarca per scuole di economia domestica. E<br />

i frutti si stanno raccogliendo. Lavoro con la Caritas Bangladesh e<br />

la World Vision: oltre che aiutare in casi di emergenza, si costruiscono<br />

piccoli ponti, argini, strade secondarie, scuolette per gli aborigeni<br />

a tutto beneficio dei gruppi di gente più abbandonata. La mia<br />

piccola missione, con gli aiuti di amici italiani (soprattutto del Centro<br />

Missionario di Tortona), ha la possibilità di mantenere un boarding<br />

(pensionato) con 90 ragazzi orfani o poveri in canna, di condurre<br />

una scuola con oltre 500 scolaretti. Senza parlare poi di un<br />

piccolo progetto d’irrigazione che rende possibile ai contadini vicini<br />

di ottenere un secondo raccolto annuo.<br />

– Mi parli un po’ della situazione in cui si trova la Chiesa.<br />

– I cristiani, compresi i protestanti, saranno circa mezzo milione. Un<br />

169


170<br />

vaso di terracotta in mezzo a una caterva di vasi di ferro. E anche<br />

in Bangladesh – stato islamico – spira forte il vento di rinascita della<br />

rivoluzione panislamica scatenata da Khomeini. La Chiesa si salva<br />

in corner con le sue scuole efficientissime, necessarie come il<br />

pane in una nazione che ha circa l’80% di analfabeti. Si salva anche<br />

per quell’istinto atavico di tolleranza innato nell’animo bengalese.<br />

– Ci sono conversioni?<br />

– Nessuna tra i musulmani e gli hindu di alta casta. Possiamo ancora<br />

lavorare, con qualche successo, tra gli aborigeni.<br />

– I cristiani sono fedeli praticanti?<br />

– In generale sì. Nei villaggi che formano il centro-missione ho<br />

l’85% di praticanti (messa festiva, associazioni, ecc.).<br />

– Avete vocazioni religiose? Preti e suore del posto?<br />

– Sì, molti e molte. Anche i Vescovi delle cinque diocesi sono tutti<br />

bengalesi.<br />

– Gli ideali che hanno spinto lei ad una scelta così impegnativa pensa<br />

che possano ancora determinare la scelta di un giovane oggi?<br />

– Gli stessi, identici ideali con i loro corollari? Credo di no. Sostanzialmente<br />

uguali? Sì. Tento di spiegarmi. Quand’ero giovane si parlava<br />

di portare la civiltà cristiana (con le due “c” maiuscole) a popoli<br />

“immersi nelle tenebre e nell’ombra di morte”. Le riviste di allora,<br />

la «Civiltà Cattolica», «Le Missioni Cattoliche», persino i giornali<br />

di tinta fascista glorificavano Roma caput mundi, il faro di civiltà.<br />

Non credo davvero che quegli ideali possano albergare nell’animo<br />

dei giovani d’oggi. Il fascino antico di Roma cristiana ingiallisce<br />

sui libri di storia. Però sostanzialmente gli stessi ideali possono esistere<br />

e far fremere la gioventù moderna. È sempre Lui che chiama<br />

e manda: “Vieni e seguimi”. Gente come Matteo, Andrea, Maria<br />

Maddalena esiste ancor oggi e l’ideale di donarsi senza riserve a Cristo<br />

non è svanito.<br />

– Secondo la sua esperienza, come si potrebbe presentare l’ideale<br />

missionario ai giovani oggi preoccupati di star bene e godere la vita?<br />

– Sarà proprio la reazione naturale a questo star troppo bene, a<br />

godersi “la dolce vita” di fronte al dolore, alle sofferenze dei fratelli<br />

meno fortunati, a generare ideali nobili nel cuore del giovane. Egli<br />

aspira a qualche cosa di più alto, di più nobile. La difficoltà sta nel<br />

fargli intravedere questo qualcosa, fargli provare la gioia di aiutare<br />

chi ha bisogno del suo aiuto. Gesù è il prototipo del giovane che<br />

offre la sua vita per la salvezza del suo prossimo. L’anno scorso sono


venuti quattro giovanottoni italiani a visitare il Bangladesh. Li sistemai<br />

nel boarding della scuola. Durante la settimana di permanenza<br />

visitarono i villaggi vicini, si resero conto della miseria e della semplicità<br />

di quegli aborigeni. Si commossero. Al saluto di addio uno<br />

di loro, quasi segretamente, mi disse: “Questa gente ha bisogno di<br />

me, l’ho ben capito e Gesù mi chiama. Aspettami. Verrò”.<br />

– Se pensa agli anni in cui è maturata la sua vocazione nella Chiesa<br />

novese, quale religiosità trova oggi nella sua Novi?<br />

– È troppo breve il tempo della mia permanenza a Novi . Ho incontrato<br />

un gruppo di signore a S. Nicolò e un altro gruppo misto della<br />

parrocchia del Sacro Cuore. Posso dire sinceramente che sono<br />

stato ammirato, entusiasta dello spirito che anima quei gruppi missionari<br />

delle retrovie. Se penso agli anni in cui è maturata la mia<br />

vocazione missionaria posso dichiarare di aver ricevuto, a quel tempo,<br />

ben poco moralmente e spiritualmente dalla comunità di Novi.<br />

Oggi constato che l’atmosfera è cambiata. Forse la quantità di quelli<br />

che vanno a Messa la domenica è diminuita, ma la qualità è<br />

migliorata.<br />

– Quali sono stati i momenti più belli in cui ha sentito maggiormente<br />

la gioia di aver fatto una scelta giusta?<br />

– Lasci che ci pensi un attimo perché sono tanti, tanti, troppi. Facciamo<br />

così, scelgo a vanvera. Il giorno del battesimo degli abitanti<br />

di Cilarong, in quel di Ruhea nei miei primi anni di missione. La<br />

notte, disteso sulla paglia nella cappella di bambù e paglia, costruita<br />

poco prima, non riuscii a chiudere un occhio per la gioia di aver<br />

portato a Cristo una sessantina di poveracci Hari. Un’altra notte<br />

insonne per la gioia: al pomeriggio una mia giovane cristiana, angariata<br />

e costretta a sposare un pagano ricco ed influente, che l’avrebbe<br />

costretta poi ad adorare i suoi idoli, era venuta ad assicurarmi<br />

che avrebbe coraggiosamente detto “no” davanti ai capi-villaggio<br />

durante la cerimonia pagana del matrimonio. L’ultima grande gioia<br />

la provai l’anno scorso quando un mio giovane parrocchiano fu<br />

ordinato prete. Il mio sostituto è assicurato.<br />

– Dopo la lunga esperienza maturata sulle strade della vita, se<br />

dovesse riprendere il cammino, lo rifarebbe con altrettanto entusiasmo<br />

per tutto ciò che là ha realizzato?<br />

– Oh, sì, molto meglio. Bisognerebbe nascere due volte. Furbi i<br />

buddisti che credono nella reincarnazione. Purtroppo non c’è.<br />

– Un’ultima domanda. Dopo 40 anni di missione non pensa ora di<br />

rimanere in Italia?<br />

171


172<br />

– In confidenza le dico che il mio superiore di Milano mi prega di<br />

dirigere il giornaletto mensile «Missionari del Pime». Penso però di<br />

non esserne capace e poi ho lasciato là alcuni lavoretti in sospeso.<br />

La mia chiesa, per esempio, è uno stanzone con i muri di terra battuta<br />

e vorrei sostituirla con una bella chiesetta in muratura, sullo stile<br />

della parrocchiale del Sacro Cuore di Novi. Sarebbe la terza chiesa<br />

che costruisco: omne trinum est perfectum. Terminato quel lavoretto,<br />

penserei proprio di chiudere il capitolo “Strade della mia<br />

vita” con gli amici di don Beniamino e allora assalam aleikum.


7.<br />

PADRE PESCE RACCONTA<br />

Quest’ ultimo capitolo della biografia di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong><br />

è riservato ad alcuni suoi testi in cui egli stesso racconta la sua<br />

vita missionaria o fatti di cui è stato testimone in Bangladesh,<br />

tratti dai tre suoi volumi: Le strade della vita, Cooperativa<br />

Editoriale Oltrepò, Voghera (Pavia) 1989 (II edizione), pp. 132;<br />

e Bangladesh Jindabad, Gruppo Poligrafico Editoriale, Novi<br />

Ligure (Alessandria) 1995, pp. 122. Nell’ottobre 2000 ha pubblicato<br />

Pack up and go (Fai il tuo fagotto e va), Unique Press,<br />

Dinajpur 2000: ancora un testo sulla sua vita missionaria, che si<br />

ferma al 1972.<br />

Lo scopo di questo ultimo capitolo è di presentare al lettore le<br />

pagine più belle del nostro missionario, cioè i racconti meritevoli<br />

di essere letti perché aggiungono qualcosa alla biografia. All’inizio<br />

del capitolo pubblico la prefazione di Strade della Vita del francescano<br />

padre Nazareno Fabretti, grande amico di <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>; un<br />

estratto della prefazione alla II edizione di Strade della Vita del<br />

prof. Egidio Mascherini; e alcuni estratti delle due recensioni di<br />

Strade della Vita scritte da Antonio Airò, giornalista di<br />

«Avvenire», su «Il Giornale di Voghera». Seguono alcuni racconti<br />

originali di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>.<br />

“La perfetta letizia” di padre <strong>Cesare</strong><br />

Questo, per fortuna, non è un libro. È molto più e meglio di<br />

un libro. Fosse un libro, non mi interesserebbe, probabilmente<br />

non interesserebbe quasi a nessuno. Siamo stati sepolti, letteralmente,<br />

sotto piissimi libri che raccontavano - spesso in maniera<br />

intollerabilmente noiosa - l’eroismo reale di tanti generosi ed<br />

173


eccellenti missionari. I missionari sono quasi sempre di più e<br />

meglio dei libri che li celebrano, per quanto dolorosamente sinceri<br />

e vissuti. A leggere questi libri, senza conoscere i missionari che<br />

li hanno scritti, si rischia di non avere molta ammirazione nemmeno<br />

per i loro autori o protagonisti; e si rischia soprattutto di<br />

immaginare anche la vita del missionario come una routine sbadigliosa<br />

anche se sacrosanta, come la nostra vita di casa, d’ufficio, di<br />

fabbrica o di sacrestia.<br />

Questo libro, ripeto, per fortuna non è un libro. Questo libro<br />

è padre <strong>Cesare</strong>. È solo per caso anche un libro, in realtà è un<br />

uomo e, solo per “purissimo accidente", per dirla col Manzoni, è<br />

un racconto. In realtà è l’avventura imprevedibile, evangelicamente<br />

“salgariana" di un diavolo di prete che è riuscito ad inventarsi<br />

la vita con allegria e coraggio ogni giorno da capo, nelle situazioni<br />

più difficili, dissennate, comiche e patetiche. Sono “31 anni di<br />

vitaccia” che occupano poche pagine: non c’è tutto ma è il meglio.<br />

È il diario d’un gioco del buon Dio, giocato da un santo ragazzaccio<br />

un po’ piemontese un po’ lombardo che è riuscito a viverlo<br />

senza mai diluirlo in tragedia, sempre preferendo, anche per la<br />

nostra delizia, come prova la vivacità di queste pagine, la commedia<br />

o addirittura la farsa.<br />

Leggendo questi appunti, “sugo” della “storia” di un trentennio<br />

di corse e soste, soste e corse dall’Italia al Bangladesh, dal<br />

Bengala al Pakistan, ho scoperto con irrefrenabile felicità ora cacciando<br />

le lacrime del pianto per far posto a quelle del riso, e viceversa,<br />

che padre <strong>Cesare</strong> è un “giullare” di quelli veri, uno di quei<br />

“fra Ginepro” di cui San Francesco diceva che avrebbe voluto<br />

averne una selva.<br />

Non c’è, in questi quadretti di vita missionaria, neanche una<br />

pia maiuscola, nemmeno un baffo di retorica devozionale. Questo<br />

è il Vangelo del “te possino!”, una locuzione romanesca anche<br />

troppo nota, che padre <strong>Cesare</strong> ha fatto imparare, prima o meglio<br />

di ogni altra frase, alla povera gente alla quale, da più di un trentennio,<br />

ha regalato la vita. Un “te possino!" che non comporta<br />

“l’ammazzà”, ma bensí il suo esatto, festoso, burlone ed evangelico<br />

contrario; come ad un missionario inguaribilmente giovane si<br />

conviene.<br />

174


Padre <strong>Cesare</strong> (come l’ho conosciuto 30 anni fa, per subito<br />

perderlo in quanto stava proprio allora partendo per l’India) non<br />

è un eroe. Non è un santo. Spero con tutto il cuore che non finisca<br />

neanche martire, né per caso né di proposito. Non è, francamente,<br />

il tipo, per sua e nostra fortuna. È un uomo pieno di<br />

schiettezza, di fifa, di malinconia, di rimpianti. Gli dà fastidio il<br />

freddo, lo distrugge il caldo, lo fanno impazzire le zanzare.<br />

Ricorda spessissimo, con struggimenti umanissimi anche se<br />

non rimpiange nulla, tutto quello che ha lasciato, coloro che ama<br />

e non vede da anni, e qualche volta fa il conto di quanti mesi o<br />

anni mancano al suo prossimo viaggio per rivederli. È un vero<br />

uomo, insomma; e come un vero uomo i suoi poveri di ogni religione,<br />

razza o tribù, lo amano, lo divertono e si divertono con lui,<br />

col fiuto infallibile dei poveri che sanno sempre e subito distinguere<br />

un uomo fasullo da un uomo genuino.<br />

C’è in questi appunti tirati via, ma che lasciano sempre il<br />

segno della speranza, una semplice filosofia della vita: quella di un<br />

uomo che ha imparato fin da ragazzo a restare con i piedi per<br />

terra se voleva dar spazio allo Spirito, e che non ha mai rinunziato<br />

ad una battuta se doveva preferirla ad un predicozzo. Le prediche,<br />

invece, bisognerebbe poterle ascoltare là, in Bangladesh,<br />

dove le fa. Ma per quel che ne traspare da queste pagine, ce n’è<br />

d’avanzo per credere che questo strano missionario riuscirebbe a<br />

convertire anche noi, suoi vecchi, fedeli anche se pigri, distratti<br />

amici.<br />

E c’è, in questo libro, la filosofia di un uomo che si è impegnato<br />

a non contare mai pie frottole ai poveri, tanto meno in nome di<br />

Dio, e a non nominarlo mai invano, nemmeno per consolarli<br />

quando mancano tutti i mezzi e gli argomenti per consolarli e la<br />

fame, il dolore, la solitudine sono realtà intollerabili.<br />

Ma c’è anche in questo mazzetto di pagine, soprattutto, la<br />

festa delle cose e il coraggio delle situazioni più imprevedibili.<br />

Una sera, a p. <strong>Cesare</strong> si fora la gomma della bici; lui manda l’amico<br />

John in cerca di aiuti e si appoggia ad un albero: tre donne che<br />

gli si genuflettono davanti e non c’è verso di farle alzare. Solo<br />

dopo si renderà conto che quello è un albero sacro, che il luccichio<br />

delle cromature della bici è apparso a quelle donne come<br />

175


un’apparizione della divinità, e <strong>Cesare</strong>, ma sì, è sembrato loro un<br />

dio. Le risate! Ma lui in quel preciso momento, pensa a ben altro:<br />

Quella retata di stelle, lassù, mi fa venire la malinconia.... Non sono<br />

poi tanto lontane dall’Italia. Siamo sotto lo stesso tetto. Loro guarderanno<br />

forse le stesse stelle...oh, no, che pretesa! Là sono le tre del<br />

pomeriggio e altro che guardare le stelle. Saranno nelle ferriere e le<br />

donne presso le macchine da cucire. Mia sorella incomincerà a pelare<br />

le patate, a tagliuzzare il sedano per preparare il minestrone a suo<br />

marito. Che bontà! Sarà un secolo che non l’ho mangiato... se ne<br />

avessi qui un piatto... ah, l’acquolina in bocca.... Che appetito!<br />

La lezione cristiana, in padre <strong>Cesare</strong>, viene solo dai fatti, mai<br />

in astratto. Perché questo è “missione", per questo è “comunione",<br />

per questo è Vangelo vivo. E bastano queste poche pagine<br />

coraggiosamente, inguaribilmente allegre, piene di fede e di<br />

buon senso, per convincercene, per farci sentire di casa, con lui,<br />

in Bangladesh, nel Bengala, dovunque lui sia passato. È per questo<br />

che, dopo più di 30 anni che non lo vedo, ora leggendo,<br />

anch’io mi sento evangelizzato da lui, che trent’anni fa partendo<br />

mi regalò un brivido di rimorso e di invidia. Grazie, <strong>Cesare</strong>,<br />

testone del buon Dio. “Te possino!"...., caro <strong>Cesare</strong>, restare sempre<br />

intatti, nel cuore e nella missione, questi fermenti di “perfetta<br />

Letizia".<br />

Nazareno Fabbretti<br />

(Prefazione alla prima edizione di Strade della Vita, 1980)<br />

“Il Vangelo annunziato con humour”<br />

Scrivo volentieri brevi righe a mo’ di presentazione alla seconda<br />

edizione del libro di padre <strong>Cesare</strong>, mio concittadino e, in<br />

anni… astronomicamente lontani, chierico e giovane sacerdote<br />

amico e compagno di combattutissime partite di calcio. Padre<br />

<strong>Cesare</strong>, penna affascinante di vero scrittore, ha qui condensato la<br />

sua multiforme esperienza missionaria nel lontano e poverissimo<br />

suo Bangladesh.<br />

176


Missionario viene da “mittere”: colui che è mandato a portare<br />

la lieta novella, ma anche a sfamare, educare, curare spesso<br />

anche i corpi. A sentir l’Autore, il libro è un po’ il “romanzo”<br />

della sua vita in terre lontane. Multiformi vicende, esperienze e<br />

talune circostanze nelle quali s’è trovato a vivere ed operare<br />

hanno veramente della realtà romanzesca…<br />

Questo libro, mi sforzo di capire, ha la funzione di diffondere<br />

la mentalità missionaria in mezzo ai popoli del benessere. Non<br />

si può rimanere indifferenti dinanzi agli infiniti problemi che il<br />

missionario incontra sulla sua strada, con l’intento di realizzare “il<br />

regno di Dio”, un mondo di pace, giustizia ed amore. Chissà che<br />

qualcuno, leggendo queste pagine, ascolti come un’eco la chiamata<br />

del Signore a seguire questo strano scanzonato missionario. La<br />

bella pubblicazione si raccomanda da sola: per la bellezza di stile<br />

e per la scioltezza del racconto. Nessuno vi si addormenterà<br />

sopra.<br />

Egidio Mascherini<br />

(Dalla Prefazione alla seconda edizione di Strade della vita, 1989)<br />

Ecco un libro che raccomandiamo e consigliamo caldamente<br />

soprattutto ai giovani. Lo ha scritto un prete (salvo brevi e desiderate<br />

vacanze in Italia) missionario nel Pakistan prima, ora nel<br />

Bangladesh. Si chiama don <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>: è stato nell’immediato<br />

dopoguerra viceparroco a San Rocco e sono molti i vogheresi –<br />

oggi tra i quaranta e i cinquant’anni (allora ragazzi, giovani e<br />

signorine dell’oratorio) - che ricordano questo sacerdote dalla<br />

barba sale e pepe, sempre allegro e pronto allo scherzo e alla battuta<br />

piena di humour.<br />

Le Strade della vita come si intitola questo stupendo volumetto<br />

di vita vissuta (edito dalla Emi di Bologna) portano don <strong>Cesare</strong><br />

a camminare – il più delle volte proprio a piedi o in bicicletta – per<br />

le strade di una lontana missione. Ma sbaglierebbe chi volesse leggere<br />

in queste pagine, rievocative di tanti episodi e di tanti incontri,<br />

una agiografica esaltazione del lavoro missionario, o una “sdolcinata”<br />

e acritica approvazione di ciò che – con grandi fatiche e<br />

spesso pagando di persona – tanti missionari compiono.<br />

177


Non c’è nel libro la storia di alcuna conversione; c’è invece la<br />

pazienza gioiosa e umana di chi sa che c’è un tempo per seminare<br />

ed uno per raccogliere e che non sempre chi semina è colui che<br />

raccoglie. E c’è soprattutto il rispetto dell’uomo, hindu o musulmano<br />

che sia, ateo o religioso. Don <strong>Cesare</strong> si è accostato a lui da<br />

uomo, prima ancora che da sacerdote. Più che alla conversione<br />

formale al cristianesimo, in questi tanti anni “di vitaccia” in missione,<br />

come dice lui, don <strong>Cesare</strong> ha guardato all’uomo:<br />

Su una di quelle strade, una strada fangosa del Bengala, io ho incontrato<br />

un uomo. Era solo. Mi sono fatto suo compagno di viaggio e<br />

l’ho condotto tra quella folla immensa. Era pellegrino, sfinito dalla<br />

fame. Gli ho insegnato a liberarsi da quello spettro col lavoro onesto,<br />

umano, non massacrante. Era angariato dai potenti, dai ricchi.<br />

L’ho aiutato a liberarsi. Era in preda all’odio e gli ho dato l’amore.<br />

Era disperato e io, messaggero di gioia, gli ho donato la gioia di<br />

vivere. Davvero ho fatto così? almeno ho tentato? Se sì, sono<br />

anch’io nel numero dei facitori del regno dei giusti. Se no, ahimè,<br />

ho sbagliato tutto.<br />

Questo è padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>, un prete entusiasta e capace di<br />

entusiasmare, pieno di iniziative, con una dote rara in campo cattolico,<br />

quella dello humour. Il suo è un libro che fa ridere, con<br />

episodi pieni di equivoci e di vicende che ti mettono una sana allegria,<br />

ma anche un libro che lascia un segno, che fa piangere. Ma<br />

sono lacrime di felicità perché quello che don <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> racconta<br />

è vita di tutti i giorni. Nulla di eroico, nulla di esaltante,<br />

nulla di retorico. Don <strong>Cesare</strong> si rivela “uomo pieno di stanchezza,<br />

di fifa, di malinconia, di rimpianti. Gli dà fastidio il freddo, lo<br />

distrugge il caldo, lo fanno impazzire le zanzare”. Quando un suo<br />

confratello sceglie di andare in una parrocchia dove c’è un lebbrosario,<br />

don <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> non nasconde la sua gioia:<br />

178<br />

Splendido! soggiungo con tutto il cuore, perché a Dhanjuri c’è il<br />

lebbrosario e là necessitano gli eroi. Non che disprezzi o abbia<br />

ribrezzo dei lebbrosi, poveretti, prediletti del buon Dio. La faccenda<br />

è che io, davanti ad un comune ammalato rimango impappinato<br />

come un autentico scemo. Immaginarsi poi davanti a un viso in lenta<br />

decomposizione.


Potremmo continuare piluccando tra un episodio e un altro,<br />

ma preferiamo sia il lettore a scoprire e gustare in questo volumetto<br />

che si legge d’un fiato (ma poi quando si rilegge, si scopre<br />

quanto amore e quanto coraggio ci sia dietro una battuta, un ….<br />

“te possino”… di cui il libro è pieno). Sono – e non pensiamo di<br />

esagerare – pagine di un Vangelo vivo, “carnale” non spiritualista,<br />

pagine “piene di fede e di buon senso”, come le definisce padre<br />

Nazareno Fabretti; è il Vangelo di un cristiano, di un prete che ci<br />

crede veramente e che ritiene si possa annunciare la Parola che<br />

salva senza cipiglio, ma “in perfetta letizia”.<br />

Il Vangelo di don <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> non è sminuito da episodietti<br />

o dal rimpianto per il minestrone di sua sorella “Che bontà! Sarà<br />

un secolo che l’ho mangiato… se ne avessi qui un piatto… ah,<br />

l’acquolina in bocca… Che appetito”. Anzi, sono pagine che lo<br />

rendono ancora più vivo e vivace. Bisogna dire grazie a don<br />

<strong>Cesare</strong> per queste pagine. E grazie anche per quelle righe che<br />

richiamano Voghera. Mi pare di vederlo, nella sua missione<br />

(quante ne ha girate in questi trent’anni) mentre apre davanti ai<br />

ragazzi un atlante e il suo dito scorre lungo lo stivale italiano e<br />

ogni tanto si arresta. Prima Novi Ligure, la sua città natale, poi<br />

Tortona, dove è diventato prete. “E qui c’è scritto Voghera, per<br />

me la più cara città del mondo, dove uno stuolo di giovani, quando<br />

parlai loro di voi mi dissero: ‘Va pure in mezzo ai tuoi indiani.<br />

dove Iddio vuole’ – io venni e da quel giorno quei giovani sono<br />

diventati fratelli bianchi di tutti voi”. L’atlante si chiude. Ma il<br />

cuore dei Vogheresi si è chiuso anch’esso?<br />

Grazie don <strong>Cesare</strong> per questa ventata di Vangelo. Anche tu,<br />

come Cyril il giovane primo sacerdote di Pathorgata, continui a<br />

ripeterti: “E chi me lo fa fare sto mestiere di prete? Io? Dio?<br />

L’uno e l’Altro in combutta”. Che bello! Tieni duro don <strong>Cesare</strong>!<br />

Antonio Airò<br />

(Recensioni di Le Strade della vita su «Il Giornale di Voghera», 8<br />

ottobre 1981 e 24 agosto 1989)<br />

(Seguono alcuni racconti di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong>)<br />

179


L’ubriacone Moti non beve più<br />

Un bracciante cui piace soprattutto la birra. Ecco Moti di<br />

Thakurpara. Con la moglie non poteva proprio andare d’accordo,<br />

causa quel benedetto liquido che, tra gli aborigeni, si prepara in<br />

ogni casa, sebbene proibito dalle leggi dello stato. Fra i due, scenette<br />

gustose per chi parteggiava per Moti, ma disgustose per chi<br />

stava per Magdalen.<br />

Quella mattina era stato battezzato il quarto figlio del capovillaggio<br />

e alla sera, come al solito, festa in casa, con abbondanti<br />

libagioni affinché lo Spirito Santo scenda abbondantemente sul<br />

piccolo nuovo membro della Chiesa. Io stavo nella cappellina preparandomi<br />

il paglione per dormire, quando sento il Moti, pieno<br />

come un otre, tempestare la porta di casa sua. “Non ti apro” grida<br />

la donna dal di dentro. “Magdalen apri, altrimenti...”. “No, puoi<br />

dormire dove sei, ubriacone impenitente?”. “Altrimenti mi butto<br />

nel pozzo”... “Buttati, che m’importa?”. “Mi dici buttati? Ah,<br />

Magdalen....”.<br />

Nell’oscurità (e chi l’avrebbe studiata così bene?) Moti, afferrato<br />

un grosso vaso che serve per dare da bere alle bestie, lo lascia<br />

cadere nel pozzo e fugge, barcollando, nel campo vicino. A quel<br />

tonfo risponde il tuffo di sangue della povera donna. Mezzo vestita,<br />

scarmigliata, corre verso il luogo del disastro, gridando come<br />

un’aquila ferita i nomi più dolci e delicati al suo uomo e le invettive<br />

più sporche al capo-villaggio.<br />

Tutti noi, accorsi ben presto alle grida, cerchiamo di renderci<br />

utili in qualche modo: chi cerca un bambù, chi una corda, tutti<br />

danno consigli e fanno proposte. La scena diventa così pietosa e<br />

complicata da intenerire persino quel lavativo di Moti. Nel suo<br />

nascondiglio resiste fin che può, poi sbotta e fa la sua apparizione.<br />

Piange, ride, mugola, ripetendo: “È una gran donna, è una<br />

gran donna". Tenta persino di abbracciare la sua “gran donna"<br />

che scappa in casa e la commedia finisce.<br />

Quella sera Moti vinse con l’astuzia rimanendo vittima dell’amore.<br />

È passato un mese ormai. Tutti affermano che nessuno,<br />

fino ad oggi, è mai riuscito a far bere un goccio di birra al famoso<br />

beone di un tempo.<br />

180


Cacciare il “Bosonto” (vaiolo) col baccano<br />

Sera d’Oriente. Il cielo stempera il suo azzurro con striature di<br />

rosso allucinante, mentre i corvi, a migliaia appollaiati sui bambù<br />

che fiancheggiano la strada, gracchiano aspramente, dando un tono<br />

lugubre, una nota ferale, tutt’intorno. Che tristezza! Le zanzare<br />

negli angoli della camera, sugli armadi impolverati, accompagnano<br />

con monotono ronzio la loro orrida danza della malaria.<br />

Guardo fuori, vedo un mango che sta davanti alla finestra:<br />

nulla. Tutto è immobile, neppure una fogliolina si muove per dar<br />

segno di un soffio di vita. Si soffoca davvero, mentre il sudore<br />

brucia la schiena e le braccia. Scrivo un periodo e poi soffio a<br />

lungo, quasi a svuotare i polmoni dell’aria calda e cattiva, stando<br />

attento che le gocce di sudore non macchino questo foglio. Penso,<br />

ma anche il pensare è faticoso. Il sopravvivere è già fatica in quest’afa.<br />

Non so cos’abbia nell’animo questa sera. Melanconia?<br />

Al mattino ero rimasto impressionato alla vista di quel poveretto<br />

coperto di piaghe, seduto su foglie di banano, abbandonato<br />

da tutti, in quel tugurio presso il pantano, al di là del mio villaggio.<br />

Un giovane da qualche mese sposato ad una ragazzina quindicenne<br />

che, in preda alla paura, era scappata presso i propri genitori.<br />

Lui, colpito dal vaiolo, s’era trascinato là ad aspettare la probabilissima<br />

morte. I suoi parenti, in un ultimo atto d’amore, gli<br />

portavano un po’ di riso bollito, condito con latte cagliato. Come<br />

lui, quanti altri in simile misera condizione! Questo corpo umano,<br />

così bello, meraviglioso nei suoi minimi dettagli, ridotto in uno<br />

stato che incute disgusto, ripugnanza... È una ribellione pacata la<br />

mia, soffusa di tristezza, che ha assalito il mio cuore, nella coreografia<br />

dei corvi che continuano la loro canzone turpe e le zanzare<br />

la loro danza di morte.<br />

Sulla strada, all’improvviso, un grido umano, quasi bestiale.<br />

Più lontano un altro grido, un altro ancora e il rullo d’un tamburo,<br />

il rumore di una latta vuota battuta con forza. E grida, e tam<br />

tam, un finimondo. Corro fuori, sicuro di un disastro. Forse una<br />

grossa rapina, una rivoluzione, un colpo di stato, una tigre braccata...<br />

“Cosa succede?” domando al primo uomo che incontro e<br />

che mi pare abbastanza calmo.<br />

181


“Scacciamo via il “Bosonto” (vaiolo). Egli è entrato nel nostro<br />

villaggio per farne una strage. Se non stiamo in guardia, se non<br />

riusciamo a fargli paura con i nostri schiamazzi, in un mesetto ci<br />

liquida tutti. Viene di notte, quel lurido demonio, ad inquinare i<br />

pozzi, buttandovi dentro le uova dei vermi. L’ho visto pure io ...<br />

ora lasciami andare a dare man forte ai lottatori dell’urlo”.<br />

Rimango ai margini della strada, come intontito. Loro sanno<br />

le cose, le hanno vedute coi loro occhi... Contro l’evidenza che<br />

vale il ragionare? Oriente misterioso! A passi lenti scrollando la<br />

testa, più mesto di prima, ritorno nella mia stanza, al mio tavolino.<br />

Fuori è un vociare selvaggio, un baccano apocalittico. Vedo<br />

anch’io il Bosonto. Il volto paonazzo, bucherellato da milioni di<br />

pustole, gli occhi dilatati e spauriti. Un cencio fetido addosso. Là,<br />

dietro la siepe di bambù, in prossimità del villaggio... Oriente,<br />

Oriente misterioso!<br />

Un matrimonio al veleno<br />

Bellissimo il matrimonio qui, in Bengala, visto da destra: una<br />

capanna reale, fatta di paglia e bambù, e due cuori veri, fatti di<br />

carne e amore. Brutto affare visto da sinistra. E disgraziato, molto<br />

spesso, colui che si mette di mezzo. Questa volta disgraziato me e<br />

i miei aiutanti che, per necessità, vi abbiamo messo il naso.<br />

Sette-otto anni fa, non so come e perché, Golapi era capitata<br />

alla missione cattolica e da quel tempo mai nessuno s’era fatto<br />

vivo a cercarla, a dirle una parola d’affetto, a portarle un regalino<br />

da due soldi. Non è a dire che non avesse parenti. Non era caduta<br />

giù da Marte, né era stata trovata, in un fagottello, presso la<br />

porta di casa del parroco, mio predecessore. V’era un reggimento<br />

di zii che si tenevano nascosti, pronti a piombare sulla preda al<br />

tempo propizio.<br />

Qui da noi, quando una ragazza sta per essere venduta al promesso<br />

sposo, tutti i parenti possibili e immaginabili escono fuori<br />

a reclamare mille diritti e pochi doveri. Ed ora che la Golapi,<br />

tenuta e curata come un figlia adottiva in casa del catechista, s’era<br />

fatta una bella ragazzina, con tanto di diploma di quinta elemen-<br />

182


tare (cosa rara per una contadina bengalese): a Bamongaon i baffoni<br />

cominciavano a farsi venire l’acquolina in bocca... qualche<br />

centinaio di rupie in vista, da poter scroccare a ufo....<br />

Il catechista, da uomo di mondo, aveva cercato un buon giovane<br />

di un villaggio vicino e me l’aveva portato per le firme del<br />

fidanzamento ufficiale. La ragazza contenta, il giovanotto più che<br />

felice. Tutto a posto fin qui. Ma io, mentre affiggevo alle porte<br />

della chiesa le pubblicazioni per il matrimonio, mi sentivo già<br />

addosso tutta quella brava gente di Bamongaon. Le mie previsioni<br />

non erano infondate: stavo zappando nell’orto, quand’ecco, dal<br />

cancelletto, due uomini, con tanto di codino indù, entrano spavaldi<br />

e s’avvicinano. “La ragazza è nostra e quel matrimonio non s’ha<br />

da fare”, incominciano senza preamboli. La storia si ripete...<br />

“bravi” e Lucie e don Abbondi si presentano, in un baleno, alla<br />

mente, vivi e veri. La figura barbina di don Abbondio... Eh, no,<br />

cari bagarozzi... “Bene”, rispondo secco, più per darmi coraggio<br />

che per convinzione: “La strada che avete fatto per venire è lunga<br />

precisamente come quella che adesso dovete prendere per ritornare.<br />

E alla svelta”.<br />

E continuo il mio lavoro, La zappa s’affonda qualche pollice<br />

più profondamente nel terreno, aiutata dalla stizza che m’è entrata<br />

in corpo. I due, che di “bravi” avevano solo i baffi, rimangono<br />

come due statue di stucco ad osservare il su e giù della zappa. Il<br />

catechista più buono di me e miglior conoscitore dei costumi del<br />

paese, saputo del loro arrivo, li invita gentilmente a casa sua, offre<br />

loro la foglia di betel, li ammansisce per bene e infine propone<br />

loro un compromesso che viene accettato: il promesso sposo<br />

avrebbe comperato un capretto e pagato un pranzo da consumare<br />

nel paese dei parenti della sposa. Tutti noi, cristiani e pagani,<br />

avremmo accettato l’invito come segno di riconoscimento e di<br />

unione, rinsaldando così i legami di parentela tra le famiglie dei<br />

due sposi.<br />

Come stabilito, una settimana dopo, siamo a Bamongaon,<br />

festeggiati da quella gente. Al pomeriggio, dopo le abituali abluzioni<br />

di mani, piedi e bocca, in attesa del famoso pranzo, ci sediamo<br />

a gambe incrociate, in una lunga fila, davanti alle foglie di<br />

banano, che sostituiscono elegantemente i piatti. Lo sposo è sedu-<br />

183


to tra il catechista e un giovane cugino della Golapi. Una donnaccia<br />

brutta, con un largo sorriso poco rassicurante sulle labbra,<br />

presenta riso e curry agli invitati. I primi ad essere serviti, naturalmente<br />

siamo noi, gli ospiti d’onore, i più rispettabili. A noi, a differenza<br />

degli altri, porta il piatto già confezionato.<br />

Un piccolo fremito, un appena percettibile tentennamento<br />

della vecchia, al momento di servire lo sposo? Non so. Il catechista,<br />

senza una parola di commento, senza la minima messinscena,<br />

come se fosse una cosa di ordinaria amministrazione, scambia il<br />

piatto colmo, offerto allo sposo, con quello del vicino, il cugino<br />

della Golapi. Centro! La tragedia è scongiurata. Il cugino della<br />

Golapi sta ancora preparando la pallottola di riso condito per<br />

metterla in bocca, quando la donnaccia brutta, gli occhi fuori dall’orbita,<br />

ritorna di corsa. Con uno scatto felino ritira quel piatto<br />

incriminato, lasciandoci inebetiti per la sua azione fulminea, piena<br />

di loschi significati. “Assassini!” tuona il catechista, buttando lontano<br />

il suo piatto. Con una litania di esclamazioni e di insulti<br />

soverchia le vane spiegazioni e proteste della donna.<br />

I due del codino inseguono lo sposo che, ammutolito e pieno<br />

di paura davanti a tanta perfidia, aveva già preso il sentiero per<br />

ritornarsene a casa anche senza la fidanzata. Tentano di fargli<br />

accettare il denaro speso per il pranzo, di prendersi con sé la<br />

ragazza, purché non creda al tentato avvelenamento. Tutto invano.<br />

Mesto, avvilito se ne va. La Golapi intesa la faccenda, in<br />

mezzo a quello scompiglio, corre presso il catechista, piange, si<br />

dispera. S’inginocchia davanti a me, scongiura: “Portami via,<br />

andiamo via di qua”. Mi consulto col catechista e, perentorio,<br />

dichiaro: “Golapi si sposerà la settimana prossima con quel giovane<br />

cristiano che voi forse, dico forse, avete tentato di togliere di<br />

mezzo. Non si accennerà nulla di ciò che oggi è qui accaduto né<br />

con la polizia, né col sindaco. Però a scanso di altre eventuali<br />

grane, nessuno di Bamongaon si faccia vedere a Ruhea, il giorno<br />

del matrimonio”.<br />

La moglie del catechista, come una buona mamma, asciuga le<br />

lacrime sul viso della Golapi, la prende per mano e s’avvia verso<br />

casa. La ragazzina sorride felice, gli occhi splendenti, come un<br />

meriggio dopo un terribile temporale di aprile. A colui, che per<br />

184


suo amore ha rischiato la vita, saprà donare felicità, amore e la sua<br />

vita. I due dal codino non sono ancora usciti di scena. Insistono<br />

con me e col catechista perché mangiamo qualcosa: dicono che<br />

sarebbe un’offesa andarcene senza accettare un boccone. Non è<br />

per avvelenarci... Sciocchezze, fantasie... “No, grazie. Stiamo<br />

facendo la cura dimagrante. Sorry (ci spiace)”. Alla larga!<br />

L’ombra della croce che salva<br />

Un bel giovanotto, Pancrazio, e la mogliettina ancor più bella<br />

s’erano fabbricati il loro nido con amore e sacrificio, presto allietato<br />

dagli strilli di una nuova ospite-padroncina. Lui, con una<br />

patente di guida in mano, abbastanza rara da questi parti, faceva<br />

il camionista in una organizzazione cristiana in città. Lei doveva<br />

passare spesso le notti e le giornate sola, in casa nel villaggio. Le<br />

forzate, frequenti assenze del marito a poco a poco l’avevano fatta<br />

divenire svogliata, apatica.<br />

E il nibbio spiava da lontano la situazione. A volute larghe e<br />

lente studiava la direzione giusta, finché una sera piombò su quel<br />

nido. Fu lo sfacelo. Inconsueti, preziosi sari, orecchini d’oro, profumi<br />

costosi entrarono in quella capanna fatta di paglia e di<br />

bambù. Tutti sapevano. Le comari passavano ore a commentare la<br />

faccenda poco pulita con reciproche strizzatine d’occhi e strani<br />

storcimenti di bocca, contente di avere un argomento piccante di<br />

conversazione. I vecchi scrollavano la testa, mentre i giovani sposi<br />

minacciavano roteando il pugno come se fossero armati di un falcetto:<br />

“Se fosse la mia donna ...” mormoravano.<br />

Ma non c’era nulla da fare. L’uccellaccio di rapina era più<br />

potente di tutti i cristiani messi assieme. Con l’andar del tempo,<br />

lei aveva cambiato domicilio. La voce della campana della chiesa<br />

diventò troppo debole alle sue orecchie. Tolse il saluto, sdegnosa,<br />

ai suoi amici d’un tempo. La signora.<br />

Pancrazio, che dapprima difendeva la sua donna, si adirava<br />

con chi s’azzardava a parlar male di lei, rifiutava caparbiamente di<br />

cedere alla realtà, ora non voleva più mettere piede nella nuova<br />

casa, chiusa ai quattro lati da steccati di bambù, come una picco-<br />

185


la fortezza. Non era più la sua vecchia casa, povera di beni materiali,<br />

ma ricca d’amore e di serenità. Sapeva che quell’amore se<br />

n’era andato per sempre. Diventò cupo, misantropo, scontroso<br />

con tutti, un uomo finito, perché derubato della fede nell’uomo.<br />

Un giorno volle il caso che lo incontrassi per la strada, in città.<br />

I soliti convenevoli, i soliti consigli da prete, tentativi vani di ridonargli<br />

la pace dell’animo. “Se vuol farmi un favore, le dica di crepare<br />

presto con il suo drudo”, fu la risposta conclusiva. Mi sentivo<br />

colpevole di non aver saputo non solo lenire un tantino il suo<br />

dolore, ma d’aver forse acuito maggiormente la sua ferita. Non<br />

sapevo più che fare, che dire: “Pancrazio, non so che<br />

dirti...Tieni”, e gli misi in mano una coroncina del Rosario. Era<br />

l’unica cosa che avevo con me. Tentennò il capo, vide nei miei<br />

occhi la copia della sua tristezza, non volle aumentarla. Accettò<br />

gentilmente il piccolo dono, lo cacciò in tasca e si allontanò. Poco<br />

lontano accese una sigaretta, forse per scacciare, col fumo, l’impressione<br />

ricevuta.<br />

Quella notte era di servizio. Seduto al volante, alle scosse causate<br />

dalle innumerevoli buche della strada, stringeva i denti, come<br />

se avesse in corpo la febbre. “Cosa ho mai fatto di male io? Non<br />

c’è nulla di buono, di bello, di giusto in questo mondo. E quel<br />

prete mi viene a sorridere sul muso. Parole, parole... e Dio... e<br />

Madonne... e Rosari, grugnì. Mise la mano in tasca, cavò fuori<br />

quel Rosario e lo scagliò con rabbia innanzi a sé, nell’apertura del<br />

parabrezza. Uno strappo al volante, una schiacciata all’acceleratore<br />

e via, per miglia e miglia, sulla strada deserta, illuminata dai fari<br />

del camion.<br />

Poco dopo, un’ombra enorme, all’improvviso, si para davanti,<br />

l’ombra di una croce gigantesca, che balla la stessa danza della<br />

macchina. Rallenta di colpo, mette in seconda, in prima. Più<br />

nulla. Rimette le marce, accelera e l’ombra, obbediente, riprende<br />

la sua danza, selvaggiamente, più scura, paurosa, vicinissima.<br />

Terribile. Gocce di sudore imperlano la fronte del giovane<br />

autista. “Maledizione!”. È la febbre, è un’allucinazione, sospira.<br />

Passa la mano sugli occhi e via, più veloce. E l’ombra è là, nitida,<br />

nera. Allora schiaccia il pedale del freno, mette in folle e il freno<br />

a mano e scende dalla cabina. L’ombra ora tremola, dolcemente<br />

186


cullata dal ritmo del motore, adagiata sull’acqua torbida d’un torrente<br />

che attraversa la strada. Il ponticello di legno è crollato,<br />

sono rimaste alcune grosse assi, scardinate in più punti, sui pali<br />

inclinati. Ancora alcuni giri delle ruote e poi sarebbe seguito il<br />

tonfo fatale,<br />

Una scena da film: Pancrazio immobile, muto, dinnanzi a<br />

quella rovina, inquadrato nell’ombra enorme di una croce, tremolante<br />

sull’acqua. Lentamente ritorna verso il camion. Incredibile!<br />

Impigliata nella vite di sostegno della lente del faro, c’è la corona<br />

del Rosario, con la sua crocetta dondolante. Pancrazio capisce in<br />

un baleno, s’accosta incerto, la disimpiglia quasi con venerazione,<br />

la bacia ripetutamente: “Oh Dio, cosa ho mai fatto io di bene, per<br />

meritarmi di vivere, di sperare, di credere ancora nell’amore degli<br />

uomini?”. Il motore è spento. Silenzio nella notte.<br />

Il primo prete di Pathorgata<br />

Quarant’anni fa venni in Pakistan Orientale, ora Bangladesh.<br />

Ricordo che fra i primi villaggi visitati ci fu Jamtuli, formato da un<br />

centinaio di catecumeni oraon. Ancora fresco di teologia, alla<br />

sera, alla luce tremolante di uno stoppino imbevuto d’olio, mi<br />

metto a dar lezione di catechismo. Immaginarsi quali pretese le<br />

mie... In un “hindi” di prima elementare con gente che parla il<br />

“kuruk” e che sa discorrere soltanto di bufali e buoi, dissertare<br />

nientedimeno sulla Trinità di Dio. Missionario pivellino! Eppure<br />

in mezzo a quei pazienti ascoltatori c’era una giovane mamma<br />

che, dopo alcuni anni, avrebbe dato alla nascente comunità cristiana<br />

il primo futuro prete della parrocchia-missione di<br />

Pathorghata. I soliti imprevedibili e meravigliosi disegni di Dio.<br />

Così passarono gli anni e quel bambino “cresceva , si fortificava<br />

e la grazia di Dio era sopra di lui!”. Un giorno lo trovarono<br />

semi-annegato nel vicino acquitrino. Nessun segno di vita. Il maestro<br />

del villaggio gli traccia un segno di croce sulla fronte e sul<br />

petto e il bambino, aperto gli occhi, sorride alla folla come se<br />

volesse prendere in giro l’universo. Qualche anno dopo, eccolo di<br />

nuovo sott’acqua, freddo e duro come un sasso. I compagni lo<br />

187


tirano a riva e il vecchio maestro ripete l’operazione del segno di<br />

croce. Come se nulla fosse avvenuto, Cyril (questo è il nome del<br />

discoletto) si rianima e corre a casa. I due avvenimenti incidono<br />

un’impressione indelebile nel suo animo, un’impressione foriera<br />

di un avvenimento straordinario nella sua vita... “Se Dio mi ha salvato<br />

due volte da una morte da cretino, è chiaro che vuole da me<br />

qualcosa di più che non dagli altri…”.<br />

Con la caparbietà ereditaria della razza oraon, contro l’opposizione<br />

dei genitori e le difficoltà finanziarie della famiglia riesce,<br />

a lunga intermittenza tra scuola e campi, ad assicurarsi la maturità<br />

classica. Ormai ha passato la trentina: a questa età le decisioni<br />

diventano finali ed immutabili. Entra nel Seminario Teologico di<br />

Dhaka e anche là, lui introverso per natura, riesce per lunghi anni,<br />

con fatica e fortezza d’animo, a convivere coi bengalesi, estroversi<br />

e chiacchieroni, fino al sospirato traguardo.<br />

Eccolo finalmente, a 37 anni di età, prostrato dinanzi al<br />

Vescovo di Dinajpur nello splendido festoso cortile della missione<br />

di Pathorghata. Canti in diverse lingue, 35 preti bengalesi, italiani,<br />

americani insieme al Vescovo, impongono le mani sulla sua<br />

testa, invocando lo spirito divino sul suo difficile cammino.<br />

Migliaia di persone ..... la mamma, umile, schiacciata dall’emozione<br />

stenta a farsi avanti a ricevere la benedizione di suo figlio, la<br />

prima del suo incipiente ministero. Sorride, piange, non sa trattenersi...<br />

stringe forte, forte in un abbraccio d’amore quel suo figliolone<br />

disubbidiente, diventato dispensatore dei beni celesti.<br />

Una nota dolorosa: il papà non c’è più. Se ne è andato due<br />

anni fa a ricevere la ricompensa di Dio per avergli donato il suo<br />

figlio migliore.<br />

Caramelle: magica invenzione di amore<br />

Dirette ed animate dalla parrocchia ci sono alcune scuolette<br />

per i bambini aborigeni che, a sei sette anni di età, data la loro lingua<br />

diversa dalla lingua nazionale bengalese, non sono pronti ad<br />

entrare nelle scuole comunali, generalmente rette dai musulmani.<br />

La condizione in cui si trovano le sottocaste indù però non è<br />

188


migliore della loro. Non a causa della lingua, ma per un insieme<br />

disgraziato di fattori, che obbligano moralmente i bambini a non<br />

andare a scuola e rimanere così, per tutta la vita, analfabeti.<br />

Avevo pensato di invitare gli abitanti di un villaggetto a mandare<br />

i loro figli alla scuoletta del vicino villaggio aborigeno cristiano.<br />

E così, dopo aver combinato la faccenda col maestro, verso<br />

sera arriviamo, il John ed io, a Kistopur, un villaggio abitato dai<br />

“badia”, lontano una quindicina di Km. dal centro-missione. Un<br />

gruppetto di 9 capanne di paglia mal messe, cortiletti sporchi<br />

oltre ogni dire, un tanfo di carne putrida. Sei o sette ragazzetti,<br />

vestiti di sole, giocano con i ritagli della pelle di bue. Nulla di straordinario.<br />

Uno dei soliti villaggi “badia”, gemme poco fulgide del<br />

Bangladesh.<br />

I “badia” formano una delle sottocaste poste agli ultimi scalini<br />

del famigerato codice hindù. Da alcuni indologi essi sono accomunati<br />

con i “muci” per i mestieri che fanno. Infatti, mentre i<br />

“muci” tentano di fare e riparare scarpe e ciabatte, i “badia” procurano<br />

loro le pelli conciate. Secondo la mentalità e i costumi<br />

hindù, il toccare un morto è considerato un atto altamente impuro<br />

e il lavorare le pelli, resti di una bestia morta, rende perennemente<br />

impuri calzolai e pellai. E non pensano i signori criminali<br />

promulgatori della legge, fondatori e conservatori dei costumi<br />

hindù che, quando essi stanno calzando le scarpe, i loro piedi puzzolenti<br />

diventano impuri toccando la pelle di una capra morta;<br />

che, quando siedono sulla sella del cavallo, il loro sedere diventa<br />

“intoccabile”... E poi se lo vanno a lavare, com’è loro costume, nel<br />

fiume vicino, dove hanno gettato il cadavere abbrustolito di un<br />

loro parente.<br />

Ma tant’è, il povero “badia”, per guadagnarsi uno scarso piatto<br />

di riso, fa il faticoso, insalubre mestieraccio del pellaio, è<br />

l’emarginato della società, l’impuro, l’intoccabile. E il superbo<br />

bramino, che può permettersi il lusso di farsi allacciare le scarpe,<br />

è il reverendo, il puro, il santo. Beh, lasciamo perdere, altrimenti<br />

mi vien voglia di sbottare... Stavo dunque dicendo che il mio fedele<br />

John ed io siamo arrivati in un piccolo regno “badia”, regno di<br />

miseria materiale e morale. Una bruttona si avvicina con una stuoia,<br />

e dopo averci invitati a sedervici, se ne va per i fatti suoi, senza<br />

189


aggiungere parola. Obbediamo sperando che qualcuno venga<br />

almeno a domandarci cosa diavolo desideriamo. Macché, non se<br />

la danno neppure per inteso.<br />

Da buon bengalese, seduto su quella stuoia, a gambe incrociate,<br />

attendo, dando uno sguardo a John, come per implorare aiuto<br />

e ricevendo in risposta un’occhiata di compassione. Io, che non<br />

sopporto d’esser minimamente compatito, mi adiro e smanio.<br />

Attendo. Nessuno, niente. Intanto un prurito, non tanto insolito,<br />

sale dalle gambe alle cosce e dalle cosce alla schiena. Maledetta<br />

stuoia!... Anche il John ora si gratta ed ora è lui che, guardandomi,<br />

silenziosamente domanda pietà.<br />

Stanco dell’attesa e vinto il prurito resosi insopportabile,<br />

prendo il coraggio a due mani e m’avvio verso i ragazzi, che smesso<br />

di giocare, stanno raggruppati poco lontano osservandoci.<br />

Sorridendo domando loro: “Come ti chiami?”. Non avessi mai<br />

aperto bocca, spariscono come passerotti... Allora traggo dal<br />

tascapane alcune caramelle, ne metto una in bocca e ne offro una<br />

a John declamando ad alta voce: “Erano per quei ragazzi, ma vedo<br />

che scappano. Sarà meglio mangiarle noi”. Parole magiche: dieci,<br />

dodici occhietti s’illuminano, sorridono finalmente. La partita è<br />

vinta. In breve diventiamo amici. I loro papà, visto che tratto bene<br />

i loro bambini, vengono anch’essi e domandano chi sono, da dove<br />

vengo, perché sono venuto. Si discorre del bazar, dell’annata sempre<br />

cattiva, della capra morta comprata al mattino, ecc. Comincio<br />

a parlare della necessità di dare una istruzione elementare ai loro<br />

figli, della scuola. Essi dicono sempre di sì, sono così umili, così<br />

abituati ad essere oppressi dai più forti di loro da aver preso il<br />

vezzo di dire sempre: “Sì, è vero”.<br />

Sembra tutto avviato a meraviglia quando dall’Himalaya scendono<br />

a precipizio nuvoloni neri, accompagnati da un vento furioso<br />

e tuoni e lampi… “La si mette male” dico al buon uomo che<br />

mi sta vicino. “No, saheb, se piove, in breve l’uragano finisce: non<br />

aver paura”. “Speriamo!”. E me la piglio in santa pace, pensando<br />

che ‘sti badia, senza averlo mai sentito nominare, sono degni<br />

seguaci di S. Francesco. Come per incanto, dopo pochi minuti il<br />

vento cessa: e le nuvole lentamente lo seguono.<br />

Il John va a vedere la strada e ritorna scuotendo la testa:<br />

190


“Impossibile, è tutto un pantano”. La sera intanto scende veloce,<br />

una brutta sera, senza cena e senza tetto. Mentre distribuisco le<br />

ultime caramelle che, sotto l’acqua, si erano appiccicate al tascapane,<br />

una ragazzina, seria, seria, mi sussurra: “Vieni a casa mia<br />

stanotte, noi dormiamo dallo zio”. Il babbo, che ha ascoltato la<br />

proposta, l’asseconda, tutto timoroso di essere indegno di ricevere<br />

nella sua casa un personaggio così grande... Un metro e sessantacinque<br />

centimetri... Che roba!<br />

Non c’è altro da fare che accettare: il buon uomo corre a<br />

farsi dare una bracciata di paglia nel vicino villaggio musulmano<br />

e vengo sistemato nella capannuccia, tra la più povera, la più<br />

umile, forse la più buona gente del mondo. Disteso sulla paglia, a<br />

pancia vuota, faccio fatica a prendere sonno e nel dormiveglia<br />

vedo le ragazze della “Novi" che confezionano le caramelle magiche.<br />

Con quanto amore lavorano! Lavorano e non immaginano<br />

neppure di dare un attimo di gioia anche ai bambini del<br />

Bangladesh. Caramelle della “Novi", magica invenzione d’amore.<br />

Per un caprone quasi perdo una gamba<br />

“Romano coi romani, ebreo con gli ebrei”, diceva San Paolo.<br />

Giusto! Ma all’atto pratico tu rimani sempre il novese dalla testa<br />

dura, in mezzo agli indiani dalla testa di sasso. E la paghi.<br />

Sacrosanto! Non si poteva più continuare con quella fatiscente<br />

capanna di bambù che si pregiava col nome prestigioso di dispensario<br />

medico della missione. Fatti i calcoli, conclusi che mi conveniva,<br />

invece di comprare i mattoni bruciati nella fornace distante<br />

20 miglia, fare una “bata" (piccola fornace) privata vicina a casa<br />

mia. Comprai un pezzetto di terreno a basso prezzo, feci portare<br />

la sabbia e mi misi all’opera. Dalla confinante India vengono gli<br />

stagionali specializzati nel mestiere… Finalmente il lavoro sembra<br />

terminato, basta appiccare il fuoco. Il capo dei fornaciai indiano<br />

viene a domandarmi il denaro per comperare un caprone. “Un<br />

caprone?” domando. “Sì, un caprone che sarà offerto agli dei. È<br />

il costume. Una necessità, altrimenti i mattoni non cuoceranno<br />

bene”.<br />

191


“Se è soltanto per questo motivo, niente da fare. Io non credo<br />

ai tuoi dei e non posso partecipare ai sacrifici loro offerti. Prima<br />

date fuoco alla ‘bata’ e poi vi pagherò un cenone con carne di capra<br />

a volontà. Va bene?”. “No, non va bene. Niente da fare: noi, senza<br />

il sacrificio del caprone, non daremo fuoco alla ‘bata’. Capito?”.<br />

Testa dura la sua, più dura la mia. A sera inoltrata, con un<br />

gruppetto di cristiani, sono ai piedi della “bata”. Una lattina di<br />

petrolio, alcune fascinette di legna minuta secca pronte presso i<br />

forni. I fornaciai indiani se ne stanno seduti, muti, a breve distanza,<br />

su una piccola altura che segna i confini della proprietà di due<br />

amici musulmani.<br />

“Venite” grido: “Tutto è pronto”. Nessuno risponde, il capo<br />

si torce le mani. Mi avvicino a loro, ripetendo l’invito. Nulla... La<br />

tensione è al massimo. Un nervo sulla faccia del capo pulsa come<br />

se fosse mosso da un motorino elettrico. Finalmente il più anziano<br />

dei lavoratori rompe il silenzio: “E dacci sto caprone e sia finita<br />

la commedia”. Il capo incalza: “Te lo dico per l’ultima volta per<br />

il bene tuo e di noi tutti: se non aspergiamo quei forni col sangue<br />

propiziatorio di un capro, tutto andrà certissimamente male. Sei<br />

tu il padrone e tocca a te offrire il sacrificio. Capito?”.<br />

È ormai notte. Ritorno verso il gruppetto dei miei cristiani e<br />

m’accorgo che qualcuno è titubante. Do l’ordine di appiccare il<br />

fuoco e io stesso mi metto vicino ad un forno di una delle uscite.<br />

Alla luce della torcia elettrica scorgiamo un filo di fumo elevarsi<br />

dal tetto della “bata”, segno sicuro di riuscita. Tutto sembra procedere<br />

regolarmente quando, dal mio lato, il finimondo pone fine<br />

all’impresa. Una scossa tremenda, un boato spaventoso e la mia<br />

gamba è sepolta sotto le macerie. La “bata” è crollata.<br />

Un uomo messe le mani sotto le mie ascelle, tira con tutte le<br />

sue forze per liberarmi dal cumulo dei mattoni caduti. “Te possino...<br />

Non tirare, gli grido, vuoi che lasci la gamba sotto le macerie?<br />

Tira via i mattoni piuttosto”. Il buon uomo fa del suo meglio<br />

e la mia gamba è miracolosamente salva, perdo solo la scarpa...<br />

Sano e salvo, faccio subito l’appello dei miei uomini, manca il<br />

John. Chiamo, richiamo, nessuna risposta. Che sia rimasto sotto?<br />

“Oh Dio, io credo in Te, non agli dei fornaciai!". Corriamo a casa<br />

sua che dista tre-quattrocento metri, ed eccolo là, il mamalucco,<br />

seduto sui talloni, imbambolato, scioccato a domandarci: “Siete<br />

192


ancora vivi?”. E vergognosetto, umile, umile e soggiunge: “Padre<br />

con la rabbia in corpo per il caprone, ti sei dimenticato di benedire<br />

quel coso, vero?”...<br />

Una perdita non indifferente, un mese di lavoro massacrante,<br />

una figura meschina... Il castigo del caprone? Dei fornaciai infatti<br />

neppure l’odore. S’erano dileguati nella notte. I miserabili! Con<br />

la storia del caprone, al termine del lavoro non avevano alzato i<br />

quattro contrafforti di sicurezza ai lati dov’erano posti i forni. E<br />

noi, i caproni, non ci eravamo accorti di nulla.<br />

L’uragano: Oh Dio, ci sei?<br />

Stavolta siamo arrivati al superlativo assoluto di ogni aggettivo<br />

che possa convenientemente rafforzare la parola “Disastro”.<br />

Ma ci pensi? In poche ore dove c’era la vita s’è insediata la morte;<br />

dove si udivano le grida gioiose dei bambini inneggianti alla vita,<br />

ora silenzio di morte; dove le cime degli alberi e le piantine del<br />

riso ondulanti allo zefiro mormoravano la preghiera di ringraziamento<br />

al Signore, ora il fango limaccioso maleodorante velenoso<br />

fa da lugubre coltre a centinaia, migliaia di corpi umani e carcasse<br />

di animali. Duecentomila morti, forse di più, disseminati nel<br />

fango; un milione di superstiti, forse più, senza tetto.<br />

Gesù, perché? Purtroppo so la risposta: mistero. Spiegazione:<br />

non posso e non potrò mai sapere. Morte e vita, dolore e gioia:<br />

morte, assenza della vita; dolore, assenza della gioia. Oh, come lo<br />

sa quella sposina che ha visto il marito, colpito alla testa da un<br />

bambù staccatosi dal tetto della capanna, in un attimo portato via<br />

dall’acqua. Lei è viva sì, ma con la morte nel cuore. E che ci fa al<br />

mondo? Una capanna e due cuori... ieri la gioia nel sussurrarsi<br />

quotidiano la canzone bengalese: “Siamo poveri, non possediamo<br />

nulla, ma abbiamo tutto nel nostro amore. Tu sei mio e io sono<br />

tua!”. Ed ora la capanna se n’è andata lontano sulle onde del mare<br />

e tu che eri me non ci sei più. Io che ero te come posso ancora<br />

vivere? Perché, perché non mi hai portato via con te? La disperazione.<br />

La bestemmia: migliore la morte della vita.<br />

Oh, come lo sa quell’uomo ieri orgoglioso d’essere il papà di<br />

193


due aitanti giovanotti e d’una brillante ragazza studente<br />

all’Università di Chittagong: “I tempi cambieranno, gli stenti nella<br />

povertà proverbiale del Bangladesh svaniranno, se tutti, come me,<br />

saranno capaci di ‘tirar su’ figli intelligenti, intraprendenti”.<br />

Ahimè, tutto è finito: i figli sono morti nell’ultimo tentativo di salvare<br />

la mamma. Ora l’uomo è accovacciato ai confini del suo campetto<br />

allagato dall’acqua del mare. Il nulla davanti a sé. Spes ultima<br />

dea! Se n’è andata anche lei... Un groppo alla gola, una voglia<br />

di piangere, di farlo piangere con me. Mi avvicino... e che gli<br />

dico? Le labbra tremano: non riesco, non riesco a dire una parola.<br />

Oh, che razza di un debole, d’un codardo io sono! Nulla. Sono<br />

influenzato dal suo dolore, dalla sua sconfitta, sono anch’io preso<br />

nel vortice di quella sofferenza atroce.<br />

Mi scuoto. Un aereo da bassa altezza getta coi paracaduti sacchi<br />

di “cira” (riso cotto, seccato e pestato). Alcuni sacchi cadono<br />

nel fango, sui cadaveri di quelli che non hanno più bisogno di<br />

quegli aiuti. Alcuni superstiti tentano di arrivare sul luogo della<br />

caduta: procedono lentamente su quel putridume, troppo lenti,<br />

troppo tardi... il sacco è stato ormai inghiottito dal fango e dalla<br />

corrente. Poveretti da due giorni non mangiano e non s’azzardano<br />

a bere quell’acqua avvelenata. Riusciranno a vincere la fame?<br />

La furia del vento alla velocità di 200 km all’ora li ha sballottati<br />

terribilmente verso la morte. La sola voglia di vivere li ha salvati.<br />

Ma ora, indeboliti dalla fame e dalla sete, riusciranno ancora a<br />

mantenere quella speranza, l’ultima ancora della salvezza?<br />

Oh Dio, ci sei? Sì, io lo so, sei qui nel dolore dei tuoi figli.<br />

Copri col manto del tuo amore questo povero Paese colpito a<br />

morte. Donagli la forza della speranza.<br />

Io lo so, il seme se non marcisce, se non muore non può donare<br />

nuova vita. Il Bangladesh, questa mia patria d’adozione, sta<br />

morendo disperato sotto le raffiche micidiali dell’uragano, in un<br />

diluvio senza precedenti storici, ma un raggio di sole illumina già<br />

l’orizzonte. Tutti qui, dal più ricco al più povero, sono mobilitati<br />

al soccorso dei colpiti dalla calamità. Il male ha infuriato fisicamente<br />

sull’uomo, ma non riuscirà a sradicare l’innata sete di bene<br />

dall’animo umano. Il seme germoglierà, il Bangladesh risorgerà a<br />

nuova vita. Ci credo. Così sarà. Bangladesh Jindabad!<br />

194


Padre Enrico Assietti mi salva dal cobra<br />

Qualche giorno prima tre agricoltori, proprietari di alcuni terreni<br />

presso la missione, avevano ricevuto tre raccomandate (una<br />

per ciascuno) con terribili minacce: posare in quel preciso posto,<br />

sotto quel preciso cespuglio, la somma di tot taka in data x, altrimenti<br />

il motore pompa di vossignoria sarà distrutto. Khoda afez!<br />

Poveri diavoli, avevano fatto sacrifici enormi per raggranellare<br />

qualche decina di migliaia di take e comprarsi quei motori invidiati<br />

e bramati da tutti i contadini del luogo e ora debbono passare<br />

le notti in bianco, pieni di paura, a guardia del loro tesoro.<br />

Anch’io sono un coltivatore diretto e naturalmente possiedo un<br />

bel Yamaha giapponese, cosicché attendo, come i miei colleghi, la<br />

indesiderata missiva. Thank God, nulla. Tranquillo a dormire<br />

dunque.<br />

Verso l’una (l’ora dei ladri e dei rapinatori) il cane abbaia<br />

disperato, con rabbia. Svegliandomi di soprassalto penso subito<br />

logicamente ad un eventuale pericolo del motore. Prendo la torcia<br />

elettrica spenta, il mio bastonaccio fedele, sempre pronto vicino<br />

al letto (sono allergico alle armi da fuoco), ed esco nell’oscurità<br />

dal cancelletto del rustico. Fatti pochi passi, entro nel canaletto<br />

d’irrigazione quasi asciutto e m’avvio in direzione del motore.<br />

Dopo una cinquantina di passi mi assale un insopportabile tanfo<br />

di sterco: “Accidenti! Qui qualcuno ha trovato il posto ideale per<br />

posarla bell’e e fresca nel canale senza essere osservato da occhi<br />

indiscreti". Per non pestarla, tik, accendo la torcia elettrica e...<br />

mamma mia... il sangue mi va in acqua... Che spavento! A non più<br />

di mezzo metro dai miei piedi la testa a sventola di un cobra enorme...<br />

Vicinissima.<br />

Con un balzo sono sulla riva, butto via il bastone e quieto<br />

quieto, con la pelle uguale esatta a quella d’un cappone, me ne<br />

ritorno a casa. Mi siedo in veranda, prendo fiato. La testa fra le<br />

mani, mentre le pile della torcia si esauriscono.<br />

“Ma ci pensi?”, mi dico: “Il cobra non perdona. Altro che<br />

motori, altro che ladri e malfattori... Quello là non ti manda le lettere<br />

raccomandate... entro due ore ti manda al Creatore e chi s’è<br />

visto s’è visto! E quel benedetto sporcaccione, venuto a scegliere<br />

195


proprio quel posto là... Deus ex machina!”. Allora, un po’ più<br />

tardi, mi getto in ginocchio e in dialetto novese ringrazio, stavolta<br />

con tutto il cuore, il Signore per avermela fatta scampare bella.<br />

Chissà perché nei momenti più difficili, più angosciosi, le preghiere<br />

ti escono fuori in dialetto? Logico: quando sei a zero ridiventi<br />

bambino, bisognoso di tutto come quand’eri sulle ginocchia della<br />

mamma.<br />

Mi seggo di nuovo e me ne sto calmo al buio. I ricordi affiorano<br />

alla mente: decine di serpenti piccoli, grandi, gialli, grigi, di<br />

ogni qualità trovati presso la casa, nei campi, sui sentieri, uccisi o<br />

fatti fuggire durante la mia ormai lunga vita in Bengala, ma una<br />

circostanza come questa, in cui un cobra così orribile, così vicino,<br />

quasi sicuro di uccidermi non si era mai presentata... Eppure sono<br />

salvo.<br />

Ah, ora lo so, ora capisco perché non mi ha morsicato...<br />

Ricordo: molti anni fa, quando mi trovavo in San Rocco di<br />

Voghera, il Direttore del Centro Missionario Diocesano di<br />

Vigevano mi aveva invitato come rappresentante del Pontificio<br />

Istituto Missioni Estere ad una commemorazione del missionario<br />

padre Enrico Assietti di Vigevano (1886-1912), morto in Bengala.<br />

Non avevo mai sentito parlare di lui, e, per non far la figura del<br />

tonto, con qualche piccola ricerca storica al Pime di Milano, venni<br />

a sapere che era morto trentenne dopo solo due anni di missione<br />

a Krishnagar in Bengala per il morso di un serpente. Un uomo stimatissimo<br />

e amato da tutti per la sua bontà e la sua generosità. Era<br />

il tempo in cui il Bengala veniva chiamato “la tomba dell’uomo<br />

bianco”.<br />

Assietti era giunto in un villaggio sperduto nella giungla verso<br />

sera. Dopo la misera cena offertagli dai pochi catecumeni del<br />

luogo, stanco, solo, s’era buttato a riposare su una stuoia nella<br />

capanna-cappella. A notte inoltrata un serpentello non più lungo<br />

di un braccio, scattante come una molla, forse in cerca di qualche<br />

topolino, dal tetto di paglia si era lasciato cadere sulla testa del<br />

missionario. Alla sua improvvisa, instintiva mossa, la repentina<br />

risposta del serpente: un’iniezione velenosa all’orecchio. Un<br />

morso da cui, con un facile intervento, ci si può salvare. Ma forse,<br />

là nella giungla, nottetempo, non c’è nessuno che sappia interve-<br />

196


nire tempestivamente. I fedeli si prodigano per salvarlo, pregano,<br />

vanno in cerca di “sapari”, di “Kubirj”, ma nulla da fare.<br />

Cosciente, rassegnato ormai alla sua morte prossima, Padre<br />

Assietti scrive il suo testamento spirituale: “Io muoio contento nel<br />

Signore. Offro la mia vita affinché in Bengala nessun missionario<br />

venga mai più ucciso dai serpenti". Ora capisco. “Grazie, Signore,<br />

che hai esaudito la preghiera di quel tuo servo fedele. Grazie,<br />

Assietti, della tua meravigliosa preghiera. Grazie di cuore”.<br />

Riparare il “Ponte Vanzetti”<br />

Gli anni passano, ma il lavoro non diminuisce: una fortuna<br />

boia, sfacciata! Guai se non fosse così. Se fossi senza lavoro, io,<br />

pensionato, intristirei ben presto nel mio isolamento, m’incurverei<br />

in poco tempo, perché forzato a guardare soltanto a terra, mi<br />

consumerei velocemente come un mozzicone di candela, il cui<br />

stoppino fumigante con scoppietti funerei annuncia la fine vicina.<br />

Dunque, c’era una volta... No. Una volta c’ero io... che al mattino<br />

stavo lavorando nella scuola in costruzione presso la missione<br />

quando mi vengono a dire che tra i due piloni maestri del<br />

ponte s’era aperto un crack foriero di un possibile prossimo disastro.<br />

“Boro danger”, esclama un assessore. Il capo della delegazione,<br />

il sindaco Kinam Uddin, ammette a priori, cioè dà per scontato<br />

senza alcuna possibile obiezione, che i lavori di riparazione<br />

saranno architettati ed eseguiti da me.<br />

“Un momento, signori. Andrò a vedere cos’è successo e poi ne<br />

parleremo”. E dentro di me mormoro in buon italiano: “Togliti<br />

dai piedi, ragazzino, lasciami lavorare”. Ma la risposta è proprio<br />

quella prevista: lui si toglie dai piedi e noi restiamo a lavorare.<br />

Con il foreman e il manager vado a studiare la situazione. Per me<br />

non è una sorpresa la notizia: c’ero passato qualche giorno prima<br />

e avevo notato all’ovest una piccola incrinatura tra il secondo e il<br />

terzo pilone, ma non mi era sembrata così grave da far pensare ad<br />

un disastro imminente. Il manager, che è giovane e vede meglio di<br />

me, sostiene che il crack è grosso e quando i carri passano il ponte<br />

si muove. “Very dangerous!”, dice sfoggiando un pochino d’in-<br />

197


glese, molto pericoloso. “Te possino, smettila di bofonchiare. Non<br />

sai che se il ponte non balla cade?”.<br />

Il foreman, più furbo, tace, però non ride. Fissa quel punto,<br />

quella riga nera e la sua pensosità mi mette paura. Immediata<br />

prima decisione: consultare un ingegnere, un bravo ingegnere.<br />

Scrivo due righe, direi un telegramma: “Faustino, grave pericolo.<br />

Necessaria tua presenza. A domani”. E il manager s’incarica di<br />

recapitarlo subito al destinatario con la mia motocicletta: 90 km.<br />

Il buon Faustino (padre Faustino Cescato, n.d.r.) arriva, vede,<br />

scruta, studia, dice che non c’è immediato pericolo, però la situazione<br />

non è da prendersi alla leggera e mi consiglia di non dilazionare<br />

oltre. Mi dà le sue sapienti infallibili istruzioni sul come svolgere<br />

i lavori, sul materiale da impiegare e “buona fortuna”.<br />

Non c’è scampo. E allora: “Contrordine compagni.<br />

Emergenza”. Il lavoro viene trasferito a tre-quatttrocento metri ad<br />

Est, sotto il ponte del fiume Tulsiganga. Il nuovo edificio scolastico<br />

appena iniziato può attendere: sarebbe una sciocchezza non<br />

dare la preferenza all’urgenza di salvare un ponte su cui passano<br />

giornalmente migliaia di persone, gli alunni della scuola compresi.<br />

Era vicina la Pasqua, festa in cui i preti devono lavorare in<br />

chiesa un po’ più del solito. Ma mangia ‘sta minestra o salta il<br />

Tulsiganga! Un occhio alla chiesa e un occhio al ponte ammalato.<br />

Deciso: “Forza giovanotti! Forza muratori e mezze cazzuole: giù<br />

sacchi di cemento, giù sbarre di ferro grosse come un braccio, giù<br />

iniezioni nelle natiche di quei mastodontici bestioni sulle cui<br />

groppe s’allunga questa strada sospesa sul fiume per un’ottantina<br />

di metri. Forza amici: ce la faremo a salvare questo gioiello necessario<br />

come il pane quotidiano, regalato a questa brava gente da<br />

quel geniaccio di padre Giovanni Battista Vanzetti di Saluzzo.<br />

Sarebbe un delitto non tentare”. Dico ancora alla mia gente:<br />

“Quel calcestruzzo è stato bagnato dal sudore dei vostri padri, ora<br />

ha bisogno di essere rinfrescato dal vostro sudore. Per il bene e il<br />

progresso dei vostri figli, giù il gobbone”.<br />

Il lavoro prosegue alacre, ordinato, in armonia di intenti. La<br />

difficoltà maggiore trovata sul cammino è la mia: non mi ero mai<br />

cimentato in lavori del genere.... “O la va o la spacca”… In nomine<br />

Domini (Nel nome del Signore). Amen. Passa la Pasqua in<br />

198


osso, passa la domenica in bianco ed eccoti il “Ponte Vanzetti”,<br />

come tutti lo chiamano, gonfio di vitamine, pronto al servizio. Al<br />

martedì seguente, giorno del grosso bazar di Panchbibi, decine e<br />

decine di carri colmi di riso, di patate, di ogni ben di Dio, passano<br />

tra le grida gioiose d’incitamento ai buoi e bufali, mentre centinaia<br />

di biciclette fanno gimcana tra le corna. Uno spettacolo<br />

splendido.<br />

Che pacchia! Ce l’abbiamo fatta. Evviva noi! Eh, sì, amici, ci<br />

vuole un capretto innaffiato con una giara di birra nostrana. Una<br />

sola però, mi raccomando. Al grido: Bangladesh jindabad!!<br />

Allah ha l’orologio al polso?<br />

“Cosa ho mai fatto ad accettare?! Fare tutta questa strada,<br />

questa faticaccia per dire due frottole in predica alle monache...<br />

Sempre il solito sempliciotto burbero-benefico, che si lascia<br />

abbindolare da quel sorriso magico, inimitabile dell’indiana...”. E<br />

così farneticando, trattenendomi a mala pena dall’imprecare, con<br />

un rametto raccolto sulla strada libero la ruota e il parafango di<br />

quei grumi di fango che li saldano. Terra rossa, fango da costruzione<br />

più tenace del cemento! Uno o due km a 10 all’ora e giù di<br />

nuovo... accidenti alla Suzuki.<br />

Guarda caso, in quel punto della strada è stata costruita una<br />

cascina col proposito di accogliere e ospitare la mia “suzuchina”<br />

in caso di emergenza. La spingo sotto il portico presso una capretta<br />

meravigliata e spaventatissima alla vista di un animale così singolare.<br />

Sistemata la faccenda con il padrone del garage, mi avvio<br />

a piedi scalzi (impossibile l’uso dei sandali con quel fango) lungo<br />

la ferrovia. Incredibile: ancora una volta fortunatissimo. Arrivato<br />

nell’atrio della stazione, il suono della sbarretta di ferro, picchiata<br />

su un pezzo di rotaia, annuncia l’arrivo del treno. Eccolo là che<br />

arranca sbuffando in ritardo di un’ora e un quarto abbondante. Il<br />

mio Angelo custode si è messo d’accordo con l’Angelo di quel<br />

capo-treno. E il capo-stazione ammicca sorridendo. Prendo il<br />

biglietto, salgo. Mica male, un solo buco libero, l’ultimo sulla<br />

panca destra. Faccio per sedermi quando una vecchietta entra,<br />

199


smarrita, e tenta per non cadere di agganciarsi alla maniglia della<br />

porta. Mentre il treno inizia lentamente la sua corsa: “Prego” le<br />

dico, rinunciando all’unico posto vuoto: “segga”. E la poveretta,<br />

piena di vergogna e di paura, più che sedersi, s’appoggia su due o<br />

tre centimetri di sporgenza della panca, tira il suo rattrappito sari<br />

sulla testa, sugli occhi, e se ne sta là quieta quieta come un cagnolino<br />

obbediente al padrone. Tutto si svolge in silenzio finché un<br />

suono baritonale, come se venisse dalle corde di un contrabbasso,<br />

echeggia: “Keno?”.<br />

Non me n’ero accorto: sulla panca di mezzo un omaccione in<br />

divisa di poliziotto mi fissava storto come un cobra quando tenta<br />

di ammaliare un innocuo, innocente passero. "Keno?", ripete:<br />

“Perché hai fatto sedere quella mendicante che certamente non<br />

ha neppure il biglietto?”.<br />

Intuisco che una scarica elettrica di antipatia reciproca ci sta<br />

colpendo. “E che me la faccio cadere addosso? Non si regge in<br />

piedi: non vede?”. Alla mia risposta sarcastica la risatina generale<br />

dei passeggeri innervosisce il capo distaccamento di Polizia che<br />

prontamente si rifà: “Sui treni del Bangladesh non si può viaggiare<br />

senza biglietto, lo sa?”. “O.K. Non s’impressioni: nel caso che<br />

davvero la povera signora non potrà mostrare il suo biglietto al<br />

controllore, pagherò io. Non solo il biglietto, ma anche la multa.<br />

E tutto sarà rimediato”.<br />

Un ometto si alza e mi offre il suo posto a sedere portando la<br />

scusa banalissima di un nascosto male alla chiappa destra e il poliziotto<br />

ingoia saliva amara. Il treno sferrazza con pena fino alla fermata<br />

di Fulbari dove entrano altri tre passeggeri che, in piedi, si<br />

allineano al gentiluomo dalla chiappa ferita. Mentre il treno prende<br />

la sua lenta danza l’omaccione guarda al suo orologio. Passano<br />

5 minuti e di nuovo un attento sguardo all’orologio. Poco dopo,<br />

al terzo scrutinio, scatta, si alza ed intima ai due che gli siedono<br />

accanto di alzarsi in fretta e lasciar liberi i posti.<br />

“È l’ora del namaj”. Si toglie le scarpe, si copre il capo con un<br />

fazzoletto e, secondo il costume orientale s’inginocchia sulla<br />

panca occupando interamente per le sue prostrazioni e giravolte<br />

di capo i tre posti a sedere. “Allah! Allah... Assalam...” lui farfuglia<br />

ed io, stretto, stretto nel mio buco, me ne sto zitto, partecipe<br />

200


di malavoglia alle sue implorazioni. Pochi minuti e tutto ritorna<br />

come prima. Ma quell’elettricità, ora passata ad alto voltaggio, circola<br />

assassina nei nervi.<br />

“Signor O.C. (Officer in Change), scusi la mia impertinenza,<br />

per pregare non poteva attendere ancora una decina di minuti,<br />

fino alla prossima stazione, senza disturbare tutta la carovana in<br />

viaggio?”. Mi fa due occhi di gufo pieni di meraviglia mista a rabbia:<br />

“Come posso io mutare il comando di Allah? Cinque volte al<br />

giorno, al tempo giusto, esatto, Lui ci chiama alla preghiera e noi,<br />

suoi servi, cinque volte dobbiamo obbedire”.<br />

“Benissimo. Ma cinque minuti prima, cinque minuti dopo,<br />

Lui, il Rahaman, ci ascolterà ugualmente tanto più quando, per la<br />

pignoleria di scandire il tempo esatto, dobbiamo scomodare e dar<br />

fastidio al nostro prossimo. Non le pare?”. “No, non mi pare”. I<br />

passeggeri non sanno per chi parteggiare: soltanto due danno<br />

segni chiari di essere dalla mia parte, gli altri sembrano statue di<br />

cartapesta. Convinti o paurosi dell’O.C.? Non mi do per vinto e<br />

rincaro la dose: “D’altra parte Allah non ha orologio. Può immaginare<br />

Allah con un orologio al braccio? Però io so con certezza<br />

che Allah predilige chi dà meno fastidio al prossimo”.<br />

Nessuno fiata. L’omaccione scuote la testa. Mi dispiace: sono<br />

andato troppo oltre... i limiti della bestemmia... oltre i confini di<br />

uno stato teocratico-musulmano.<br />

201


INDICE<br />

Prefazione di Mons. Martino Canessa . . . . . . . . . . . . . Pag. 5<br />

Cronologia di padre <strong>Cesare</strong> <strong>Pesce</strong> tratta dai suoi testi . . » 7<br />

Introduzione dell’Autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13<br />

I – Da Novi Ligure al Bengala . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 21<br />

La vocazione da libri e riviste missionari, 21 – “Tutta la mia<br />

vita per Gesù”, 24 – Il 18 aprile 1948 a Voghera, 27 – Nel<br />

mitico Bengala delle foreste e delle tigri, 31 – Un furto definito<br />

“opera di carità”, 34 – Con un parroco così, bisogna<br />

rigare dritto, 38<br />

II – La prima missione a Ruhea . . . . . . . . . . . . . . . . . » 43<br />

“Ma come, non sai ancora il santal?”, 43 – A Mariampur per<br />

imparare il santal, 46 – “Ciatro Chai”: Vogliamo nuovi studenti,<br />

49 – “Avevo una casetta piccolina a Ruhea…”, 51 –<br />

L’incontro con “i pazzi di Dio”, 54 – Padre <strong>Pesce</strong> venerato<br />

come uno spirito, 58 – Massimo Teruzzi, il missionario lebbroso,<br />

60 – Mario Alvigini, il missionario delle pompe, 65<br />

III – Il primo ritorno in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71<br />

Sfuma il sogno di convertire i Khotryio, 72 – “Dopo tredici<br />

anni, per adesso può bastare”, 74 – Il pranzo di Natale fugge<br />

nella giungla, 76 – Inventa il “Concorso biblico per corrispondenza”,<br />

79 – Segretario di “Mani Tese” a Milano, 81 – La<br />

guerra per l’indipendenza del Bengala, 85 – Testimone allibito<br />

di atrocità e massacri, 89 – “Gesù è con noi, perché essere<br />

preoccupati?”, 91 – “I morti di fame non s’incontrano più per<br />

le strade”, 95<br />

203


IV – Parroco a Pathorgata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 101<br />

Espulso dal Bangladesh per una bottiglia di cognac?, 101 –<br />

“Ma i soldi arriveranno lo stesso”, 103 – Questa la vita missionaria:<br />

magnifica!, 109 – “Mi godo la povertà felice del<br />

Bangladesh”, 114 – Padre <strong>Cesare</strong> vive “in una girandola di<br />

fuochi artificiali”, 118<br />

V – Il tramonto nel Santuario di Maria . . . . . . . . . . . » 125<br />

Missione di pace tra due feudi oraon a Kalisha, 125 – Obak,<br />

in bengalese significa “senza parola”, 130 – 500-600 pellegrini<br />

alla domenica nel Santuario mariano, 133 – “Tento di<br />

portare la pace e di dare gioia”, 139 – L’ultimo saluto:<br />

“Grazie, padre <strong>Cesare</strong>!”, 142 – Il tramonto dietro<br />

l’Himalaya. Il mio, 144<br />

VI – Sempre allegro e gradito a tutti . . . . . . . . . . . . . » 151<br />

Il Bengala era la “La tomba dell’uomo bianco”, 152 –<br />

“Anche i ladri a Pasqua fanno festa”, 155 – “Mamma, non<br />

senti che il tuo bambino ha fame?”, 156 – “Sapeva ascoltare,<br />

lasciava parlare gli altri”, 159 – Amava molto il popolo<br />

bengalese, 162 – “Padre <strong>Cesare</strong> è un uomo solare”, 165 –<br />

“L’Italia è un paradiso, ma il Bangladesh la mia patria”, 168<br />

VII – Padre <strong>Pesce</strong> racconta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 173<br />

“La perfetta letizia” di Padre <strong>Cesare</strong>, 173 – “Il Vangelo<br />

annunziato con humour”, 176 – L’ubriacone Moti non beve<br />

più, 180 – Cacciare il “Bosonto” (vaiolo) col baccano, 181-<br />

Un matrimonio al veleno, 182 – L’ombra della croce che<br />

salva, 185 – Il primo prete di Pathorgata, 187 – Caramelle:<br />

magica invenzione di amore, 188 – Per un caprone quasi<br />

perdo una gamba, 191 – L’uragano: Oh Dio, ci sei?, 193 –<br />

Padre Enrico Assietti mi salva dal cobra, 195 – Riparare il<br />

“Ponte Vanzetti”, 197 – Allah ha l’orologio al polso?, 199<br />

204


PIERO GHEDDO<br />

PIME 1850-2000<br />

150 anni di missione<br />

Nel 2000 il Pontificio Istituto Missioni Estere ha compiuto 150<br />

anni. È nato nel 1850 dalla volontà di Pio IX e dei vescovi di<br />

Lombardia come “Seminario lombardo delle missioni estere”, per<br />

opera di padre Angelo Ramazzotti degli Oblati di Rho (poi vescovo<br />

di Pavia e patriarca di Venezia). Nel 1926 Pio XI, unendolo al<br />

“Pontificio seminario per le missioni estere” di Roma (nato per<br />

volere di Pio IX e per opera di mons. Pietro Avanzini nel 1871), ha<br />

fondato il P.I.M.E.<br />

«Andate in tutto il mondo» ha detto Gesù: il Pime c’è andato davvero<br />

ed oggi opera nei cinque continenti a servizio del Vangelo.<br />

Questo volume, seriamente documentato e giornalisticamente<br />

avvincente, percorre una duplice pista di lettura: attenzione scrupolosa<br />

ai fatti, senza nulla tacere, ma mettendo anche in evidenza<br />

le scelte coraggiose e a volte temerarie per andare “ai più lontani e<br />

ai più abbandonati”, l’amore appassionato ai popoli che caratterizza<br />

il mondo delle missioni.<br />

La storia diventa affascinante se illuminata da una lettura soprannaturale<br />

delle vicende umane, non per nascondere gli errori e i peccati<br />

commessi, ma per dare risalto anche ai buoni esempi che testimoniano<br />

ai posteri la forza dello Spirito presente in chi ci ha preceduto.<br />

pp. 1230 - € 25,82<br />

Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:<br />

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA<br />

via di Corticella, 181 – 40128 Bologna<br />

tel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52<br />

web:http/www.emi.it e-mail:ordini@emi.it


PIERO GHEDDO<br />

ALFREDO CREMONESI<br />

(1902 - 1953)<br />

Un martire per il nostro tempo<br />

Nel 2003 ricorrono cinquant’anni dal martirio di padre Alfredo<br />

Cremonesi, missionario del P.I.M.E. in Birmania (Myanmar), ucciso<br />

il 7 febbraio 1953 nel suo villaggio di Donokù. È stato subito<br />

invocato come “martire”, perché ha dato la vita per il suo gregge.<br />

Era stato invitato a ritirarsi da un posto molto pericoloso: è rimasto<br />

con la sua gente pagando con la vita.<br />

“Martire del nostro tempo” perché? Tre motivi:<br />

1) Cremonesi era un missionario santo. Il martirio è stato il dono<br />

di Dio a un uomo che era già tutto suo: preghiera, mortificazioni,<br />

donazione totale al prossimo più povero e abbandonato. I santi non<br />

invecchiano mai.<br />

2) Padre Alfredo era un missionario moderno. Aveva un concetto<br />

avanzato della missione (per quei tempi): ci dice che dobbiamo<br />

sempre guardare avanti, essere aperti alle novità che lo Spirito<br />

suscita nella Chiesa, anche se disturbano la nostra pigrizia.<br />

3) Infine, era un missionario autentico, proiettato verso le tribù non<br />

cristiane per annunziare Cristo. Grande viaggiatore, percorreva<br />

lunghe distanze quasi sempre a piedi, fra guerriglieri e briganti, e<br />

si adattava a vivere come i locali, con grande spirito di sacrificio.<br />

pp. 240 - € 12,00<br />

Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:<br />

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA<br />

via di Corticella, 181 – 40128 Bologna<br />

tel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52<br />

web:http/www.emi.it e-mail:ordini@emi.it


DOMENICO COLOMBO<br />

(a cura)<br />

UN PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIO<br />

Lettere del Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti<br />

(1850 - 1861)<br />

Le lettere di mons. Ramazzotti riempono otto volumi per un totale di 1.600 scritti<br />

e 2.600 pagine. Per la grandissima parte, almeno quelle giunte a noi, coprono il<br />

periodo del suo ministero pastorale, a cui sono strettamente legate. Benché uomo di<br />

cultura, Ramazzotti dedicò tutta la sua vita e le sue energie al bene delle anime. Non<br />

avendo tempo per scrivere libri, la sua corrispondenza fu parte essenziale della missione<br />

del Pastore che si prodiga con inesauribile carità verso tutti, specialmente i<br />

poveri. Questa selezione necessariamente limitata, vuole offrire uno spaccato dell’azione<br />

pastorale di Ramazzotti a Pavia e Venezia.<br />

pp. 590 - € 20,00<br />

DOMENICO COLOMBO<br />

(a cura)<br />

UN PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIO<br />

Testimonianze sul Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti<br />

(1850 - 1861)<br />

Dopo il volume “Un pastore secondo il cuore di Dio”, che contiene le Lettere del<br />

Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, fondatore del P.I.M.E., esce con lo stesso<br />

titolo questa raccolta di Testimonianze su di lui. Essa abbraccia un ampio arco di<br />

tempo, dalla sua gioventù al 1961, centenario della sua morte. La fama del “santo<br />

Pastore” perdurò anche dopo la sua prematura scomparsa, ma col tempo andò<br />

restringendosi agli ambienti più legati alla sua memoria. Quando nel 1958 le spoglie<br />

di mons. Ramazzotti furono portate a Milano per essere tumulate nella chiesa<br />

di San Francesco Saverio nella Casa Madre del P.I.M.E., il patriarca Angelo card.<br />

Roncalli fece risplendere di luce nuova la figura e l’opera del suo predecessore. Fu<br />

l’inizio di una riscoperta, che andò crescendo con le solenni manifestazioni di onore<br />

e di studio celebrate in varie città d’Italia.<br />

Questo volume di testimonianze è un completamento indispensabile di quello delle<br />

lettere.<br />

pp. 416 - € 16,00<br />

Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:<br />

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA<br />

via di Corticella, 181 – 40128 Bologna<br />

tel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52<br />

web:http/www.emi.it e-mail:ordini@emi.it

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