Sufjan S teven S - Sentireascoltare
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naPoLi CaPut Mundi<br />
Weltraum, a Spirale, Zero Centigrade<br />
Le luci della centrale elettrica<br />
umberto Palazzo<br />
digital magazine novembre 2010 n.73<br />
<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>S
2<br />
tuRn on<br />
p. 4 Small Black<br />
tune in<br />
Rubriche<br />
5 Andreya Triana<br />
6 Kelley Stoltz<br />
8 Phantom Band<br />
p. 10 Le Luci della Centrale Elettrica<br />
14 Umberto Palazzo<br />
18 Deerhunter<br />
DRop out<br />
22 <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s<br />
32 Napoli Caput Mundi<br />
Recensioni<br />
40 Blind Jesus, Antolini, Dark Star, Onorato, Traoré....<br />
Rearview Mirror<br />
92 The Manhattan Transfer<br />
84 Gimme Some Inches<br />
86 Re-boot<br />
88 China Underground<br />
98 Giant Steps<br />
99 Classic Album<br />
Di r e t t o r e : Edoardo Bridda<br />
Di r e t t o r e re s p o n s a b i l e : Antonello Comunale<br />
Uf f i c i o st a m pa : Teresa Greco<br />
co o r D i n a m e n t o : Gaspare Caliri<br />
pr o g e t t o gr a f i c o e im pa g i n a z i o n e : Nicolas Campagnari<br />
re D a z i o n e : Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi,<br />
Stefano Solventi, Teresa Greco.<br />
SentireAscoltare online music magazine<br />
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05<br />
Editore: Edoardo Bridda<br />
Direttore responsabile: Antonello Comunale<br />
Provider NGI S.p.A.<br />
Copyright © 2009 Edoardo Bridda.<br />
Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale,<br />
in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,<br />
è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare<br />
sta f f : Stefano Solventi, , Salvatore Borrelli, Diego Ballani, Marco Boscolo, Stefano Pifferi, Filippo Bordignon,<br />
Giancarlo Turra, Teresa Greco, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti, Andrea Napoli, Fabrizio Zampighi,<br />
Marco Braggion<br />
gU i D a s p i r i t Ua l e : Adriano Trauber (1966-2004)<br />
in c o p e r t i n a : sufjan s<strong>teven</strong>s
Giusto un anno fa pubblicavamo un articolo (Candeggina<br />
Pop) che passava in rassegna i nomi<br />
più interessanti della sensazione del momento: il glofi.<br />
Dietro l’ etichetta - sempre opinabile – personaggi<br />
come Toro Y Moi, Neon Indian e Washed Out recuperavano<br />
gli umori più esotici della wave di fine Ottanta,<br />
dai beat delle prima acid house alle suggestioni di<br />
un’Ibiza più immaginata che vissuta.<br />
Della partita (hypnagogica) erano anche gli Small<br />
Black, lasciati in panchina in attesa dei primi risultati.<br />
Di lì a poco quartetto di Brooklyn avrebbe rilasciato un<br />
7 pollici split con il sodale Washed Out - in cui ciascun<br />
act remixava un brano dell’altro – e un singolo di debutto<br />
raramente così azzeccato. Nei brevi solchi di Despicable<br />
Dogs (trecento copie per l’inglese Trasparent)<br />
due inni glo-pop che, per chi ebbe la fortuna di far propri,<br />
non si toglievano più dalla testa. Inutile dire che la<br />
tiratura andò bruciata in pochi mesi, portando i nostri<br />
a includere i brani del 7 pollici anche sull’EP omonimo<br />
Small Black<br />
—Glo-fi newbies—<br />
Arrivano all'album di debutto gli<br />
ultimi affiliati dell'hypna-pop<br />
turn on<br />
che a breve avrebbe visto la luce su Cass Club prima (e<br />
Jagjaguwar subito dopo). Peccato che i pezzi del nuovo<br />
vinile non vantassero il piglio irresistibile del primo<br />
singolo, lasciando i fan in attesa di un’uscita che gli restituisse<br />
le melodie da poco assaporate e già irrinunciabili.<br />
Per questo si è dovuto aspettare New Chain, album<br />
con cui i newyorkesi tornano a sfornare le piccole hit di<br />
pop fuori fuoco che gli sono proprie. Camouflage, Photojurnalist<br />
e la title-track dicono di come il sound femmineo<br />
ed etereo, spostato sull’asse più smaccatamente<br />
indie-rock da Wild Nothing e Beach Fossils, possa<br />
essere ancora appannaggio di gente che alle chitarre<br />
preferisce i synth e i campionamenti. Anche se di tempo<br />
ne è passato da Causers Of This e Psychic Chasms<br />
e, si sa, le mode musicali fanno presto ad accusare i segni<br />
dell’invecchiamento.<br />
AndreA nApoli<br />
Andreya<br />
Triana<br />
—Nu-Soul Queen—<br />
Esordio promettente su Ninja<br />
Tune per la nuova sensation del<br />
soul UK<br />
Le nuove reginette del blues inglese si fanno introdurre<br />
nel gotha da nomi alternativi, che producono<br />
con il cuore sapiente dei bluesman più scafati. Cresciuta<br />
nell'ambiente artistico di Leeds con la band funk<br />
Bootis, Andreya Triana si fa notare da Flying Lotus alla<br />
Red Bull Music Academy australiana del 2006: da lì nascerà<br />
un featuring (Tea Leaf Dancers) pubblicato nell'EP<br />
Reset dello stesso FlyLo. Oggi esce su Ninja Tune con<br />
Lost Where I Belong, album prodotto dall'amico Bonobo,<br />
con cui aveva già collaborato nelle parti vocali<br />
di Black Sands. L'incontro “è avvenuto in maniera naturale”,<br />
ci dice la giovane e bella cantante di South London<br />
“ci siamo conosciuti nel 2006. Lui stava cercando una<br />
cantante. Mi piaceva molto la sua musica e sapevo che<br />
avrebbe voluto collaborare con una persona sola nell'album,<br />
non con troppi produttori. Così gli ho chiesto se c'era<br />
spazio per me e lui ha detto di sì. Il resto è venuto da sè”.<br />
Un appoggio totale anche da parte della grande<br />
famiglia Ninja, che quest'anno compie vent'anni, ma<br />
che già nella supercompila riassuntiva dell'anniversario<br />
considera Andreya come un piccolo classico: “penso<br />
che lavorare con una label indipendente sia eccitante,<br />
dato che loro vogliono poprio far emergere il meglio<br />
di me. Mi sento libera a lavorare con loro”. L'etichetta<br />
inglese è la patria delle contaminazioni hop: il mesh<br />
non può che essere anche per Andreya un passaggio<br />
obbligato: è stata infatti recentemente remixata dalla<br />
next big thing del dubstep Mount Kimbie, anche se<br />
non prevede collaborazioni ulteriori su questo versante.<br />
Fra le sue coordinate cita ovviamente la soul music,<br />
ma ci dice di essere attratta dalla musica che “non<br />
definisce bene i confini. Tipo Jamie Lidell, che è soul, ma<br />
sperimentale ed elettronico. E anche Björk, che mi ha influenzato<br />
molto. Questi artisti non si incasellano in una<br />
scatola. Creano, tentano di esprimersi e basta. Dovrebbe<br />
essere così”.<br />
E' bello poi vedere che la ragazza non ha un'educazione<br />
formale: “non ho avuto un training musicale e mi<br />
considero un po' dislessica per quanto riguarda la teoria<br />
musicale. Sono sempre stata un po' maniaca della musica,<br />
ho passato giorni e giorni a sezionare voci, melodie,<br />
armonie e a sviluppare il mio stile personale”. Una tipa tosta,<br />
che ha già in mente numerosi progetti per il futuro:<br />
“Uno è The Dreamscape Soul Session, una collaborazione<br />
live con la mia amica illustratrice Sri McKinnon. Riprenderò<br />
le mie sperimentazioni con la voce e Sri disegnerà sul<br />
palco dei grandi dipinti quando canto. L'altro progetto è<br />
una band di rock psichedelico che si chiamerà Annie &<br />
the Duke. Il nostro EP dovrebbe uscire fra qualche mese”.<br />
Buon lavoro Andreya!<br />
MArco BrAggion<br />
4 5<br />
turn on
Kelley Stoltz<br />
—L'arte del sogno—<br />
Brian Wilson fai-da-te o bricolage<br />
retrofurista? Andata e ritorno nello<br />
scombintato mondo dell’ultimo<br />
folletto pop "made in USA".<br />
turn on<br />
Ci sono artisti che piombano sulla scena musicale come fulmini a ciel sereno e la rivoluzionano da capo a fondo,<br />
forti di un'ineguagliabile carica innovativa. Ecco, Kelley Stoltz non è uno di questi.<br />
Il trentanovenne del Michigan, trapiantato a New York, è uno di quei songwriters innamorati della bella calligrafia<br />
applicata alla pop song, obbiettivo che negli anni ha perseguito con dovizia certosina, in barba alla povertà<br />
dei mezzi a disposizione. Kelley, che abbiamo contattato in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro To Dreamers,<br />
è il classico genietto che adora trastullarsi con giocattoli lo-fi e chincaglieria vintage, cosa che gli ha fatto<br />
perfezionare uno stile immediatamente riconoscibile ed estremente personale, dal mood intimamente psichedelico,<br />
fatto di suggestioni 60s e rumori della modernità.<br />
"Effettivamente penso che nei miei brani ci sia una particolare sensibilità costruita su riverberi, twang chitarristici,<br />
beat pesanti, suoni di synth… mi piace creare un collage sonoro integrato con il pop dei 60s. Passo molto tempo a lavorare<br />
sul feeling di ciascun brano, molto più che sulle liriche delle canzoni. Generalmente la melodia è la prima cosa<br />
che prende forma e quando questa è pronta ci do dentro<br />
a manipolare i suoni di ogni strumento".<br />
Stoltz, è uno dei segreti meglio custoditi del panorama<br />
indipendente americano: appartiene al roster<br />
della Sub Pop già da qualche anno, anche se pochi<br />
fino ad ora se ne sono accorti. To Dreamers potrebbe<br />
essere il "turning point" di una carriera poliedrica,<br />
iniziata come curatore della “fan mail” di Jeff Buckley<br />
e proseguita con la realizzazione di ben otto album,<br />
per lo più suonati, registrati e prodotti in maniera autonoma,<br />
e fra i quali spicca una rivisitazione integrale<br />
di Crocodiles degli Echo & The Bunnymen.<br />
"E’ vero. Gli Echo & The Bunnymen sono sempre stata<br />
la mia band preferita, sin da quand’ero appena un<br />
ragazzino, ancora prima che iniziassi ad ascoltare David<br />
Bowie e Leonard Cohen e che decidessi di mettere in<br />
piedi la mia band. Sono i miei eroi, ho registrato tre dei<br />
loro primi quattro album. Spesso cerco di cantare come<br />
Ian McCulloch o di copiare le linee di chitarra di Will Sergeant,<br />
ma ogni volta mi accorgo che il risultato suona<br />
differente da come vorrei. A volte, musicalmente, credo<br />
di esser loro debitore, salvo poi accorgermi che sono altri<br />
interessi che indirizzano il mio stile".<br />
Nella sua bizzarra storia, tuttavia, ci sono elementi<br />
che ne fanno qualcosa di diverso del loser romantico e<br />
spiantato. Questo grazie ad alcuni brani utilizzati per<br />
spot televisivi e come colonne sonore di serie televisive.<br />
A tal proposito Kelley chiosa ironico:<br />
"Non ho nessun problema a tal proposito, anzi penso<br />
che sia una grande cosa! Mia madre poi si emoziona<br />
quando sente le mie canzoni in TV. A parte gli scherzi,<br />
questa cosa mi ha permesso di guadagnare abbastanza<br />
denaro per dedicarmi a tempo pieno alle mie canzoni.<br />
Ora lavoro per un paio di giorni alla settimana in un negozio<br />
di dischi, per il resto posso permettermi di mangiare<br />
e dormire grazie ai soldi di quelle pubblicità. Il bello è<br />
che negli spot le mie canzoni si riescono appena a sentire.<br />
Trovo incredibile che paghino così tanto per qualcosa<br />
che rimane così nascosto in sottofondo.<br />
Sub Pop, oggi nuova Mecca per ferventi spiriti DIY,<br />
sembra aver riposto in lui illimitata fiducia, dotandolo<br />
dei mezzi necessari per esprimere al meglio quell’aspirazione<br />
ad una grandiosità compositiva dal tiro wilsoniano,<br />
che si nutre di vecchi espedienti e di nuove<br />
tecnologie. Il risultato è che To Dreamers suona assai<br />
denso e stratificato, a dispetto della leggerezza delle<br />
melodie e dell'emotività frizzante che lo pervade.<br />
"Ci è voluto circa un anno e mezzo dal suo concepimento<br />
al risultato finale. Io per lo più registro a casa<br />
mia e suono personalmente tutti gli strumenti, per cui<br />
è naturale che a terminarlo ci abbia impiegato un pò di<br />
tempo. In questo senso non è cambiato molto rispetto<br />
alle mie prime produzioni, a parte il fatto che ora ho a<br />
disposizione microfoni migliori e, in generale, penso che<br />
tutto suoni meglio che in passato. In occasione del nuovo<br />
disco ho anche comprato un Mellotron".<br />
Il vizio del DIY dunque è duro a morire: "Sul disco la<br />
mia band suona solo in due occasioni - "Baby I got news<br />
for you" e "I Like, i like" - le abbiamo suonate dal vivo per<br />
un pò di mesi e ho pensato di far partecipare anche gli<br />
altri alle registrazioni. Mi sembra giusto che anche loro<br />
sentano di avere avuto un ruolo sull’album, in modo che<br />
possano andare in tour e suonare quei brani col cuore,<br />
come se fossero un pò anche loro".<br />
Tuttavia è inevitabile che la resa live dei brani dell’album<br />
sia differente rispetto alla loro genesi in studio:<br />
"Certo, è difficile replicare tutti i più piccoli rumori e gli<br />
effetti che si sentono sul disco, mi occorrerebbe un gruppo<br />
di 7 o 8 elementi per riprodurre tutte le percussioni e<br />
le armonie vocali. In effetti per me è fonte di frustrazione,<br />
ma non posso certo permettermi di portare tutte quelle<br />
persone con me, così lascio che le canzoni dal vivo prendano<br />
la loro strada. Mi sembra che generalmente i brani<br />
suonino più rock e meno sinfonici. Più Highway 61 Revisited<br />
che Pet Sounds".<br />
Recentemente Stoltz e la sua band sono stati visti<br />
di supporto ai Raconteurs, cosa che gli ha permesso<br />
di esibirsi di fronte a grandi platee e maturare quel<br />
genere di ambizione che porta songwriter come lui a<br />
confrontarsi con i più grandi.<br />
"È divertente suonare per un gran numero di persone.<br />
Cosa ho imparato andando in tour con i Raconteurs?<br />
Credo che mi abbia fatto venir voglia di scrivere canzoni<br />
più ambiziose che possano arrivare a più persone. Penso<br />
che il nuovo album risponda a questa esigenza. Inoltre i<br />
miei set precedenti avevano un po’ troppi mid tempo, ora<br />
ci sono rock song dal ritmo decisamente più sostenuto".<br />
Intanto il tour promozionale è già partito e il calendario<br />
dei concerti promette di portarlo in giro per il<br />
mondo.<br />
"Sarò in tour in Europa a novembre. Mi piacerebbe<br />
molto venire a suonare anche in Italia. In passato ci sono<br />
stato con i Dirtbombs, nel 2008, con cui abbiamo realizzato<br />
alcuni ottimi show. Ho suonato anche con i Father<br />
Murphy da qualche parte nelle vicinanze di Venezia. E’ lì<br />
che ho conosciuto Marco dei Jennifer Gentle, ottimo ingegnere<br />
del suono e incredibile songwriter. Spero proprio<br />
di tornare ad esibirmi nel vostro Paese".<br />
Un auspicio, questo, di cui ci facciamo convinti portavoce.<br />
diego BAllAni<br />
6 7
The<br />
Phantom<br />
Band<br />
—Sono pazzi questi<br />
scozzesi!—<br />
Da quanto aspettavamo un gruppo<br />
che osasse sbatacchiare il passato<br />
dentro a un frullatore di memoria<br />
pop e cavandone qualcosa di fresco<br />
e spontaneo? The Phantom Band, da<br />
Glasgow, per servirvi.<br />
turn on<br />
"L ’amicizia in questo gruppo risale all’epoca della scuola. Siamo grandi fan di musica e, in quanto tali, non avevamo<br />
interesse alcuno a pubblicare un disco che non ci trovasse soddisfatti.." Così affermava con unanime<br />
e benvenuta modestia la Phantom Band un annetto fa, allorché l’esordio Checkmate Savage vedeva la luce per<br />
Chemikal Underground. Era stata nondimeno lunga per quest’era distratta e frettolosa la loro gavetta, intrapresa<br />
grossomodo un lustro prima in quel di Glasgow da Duncan Marquiss e Greg Sinclair (chitarra), la sezione ritmica<br />
di Gerry Hart (basso) più Damien Tonner (batteria), il tastierista Andy Wake (tastiere, ultimo ad aggregarsi in<br />
ordine di tempo) e il cantante Rick Anthony. Ognuno “trenta-e-qualcosa” con lavori cui badare alla faccia degli<br />
sbarbatelli da cameretta con velleità arty, forti del disincanto cinico ma umoristico che si ha a quell’età. Quando<br />
puoi ancora giocarti delle carte ma un po’ di vita e di musica le hai masticate; quando ragioni prima di aprire bocca<br />
e, nello specifico, di scrivere canzoni. Si potrebbe partire anche da qui per provare a spiegare i motivi che stanno<br />
alla base di The Wants, replica datata 2010 che ci ha stregato; da come un disco buttato lì dentro una copertina<br />
banalmente low-fi (l’unico suo difetto…) ci abbia scombussolato nei primi ascolti e sia cresciuto man mano alla<br />
luce dei suoi pregi. Che sono un raro senso sincretico,<br />
una tela sonora dettagliata, il mostrare i propri modelli<br />
smontati e ricomposti in qualcosa d’altro.<br />
Sarebbero però i diretti interessati per primi a buttarla<br />
non troppo sul serio, seppur astenendosi dalla<br />
caciara e prendendo seriamente quel che merita. Un<br />
atteggiamento evidente sin dai primi anni di esistenza<br />
spesi a cambiare nome senza sosta (NRA, Les Crazy<br />
Boyz, Tower Of Girls, Wooden Trees, Robert Redford,<br />
Robert Louis S<strong>teven</strong>son: “Se non riuscivamo a tirare fuori<br />
un nome decente, dicevamo a quelli del locale di scrivere<br />
quel che gli pareva sul cartellone”.) e lasciarsi dietro<br />
un CD-R andato a ruba e una Crocodile ripescata nel<br />
debutto. Nel frattempo ecco la scelta di affidarsi all’attuale<br />
ragione sociale, a sottolineare l’assenza di protagonismo<br />
in un Regno Unito costantemente pronto a<br />
inventarsi sensazioni presto dimenticate e prono sotto<br />
vacuità sensazionaliste. Piace pensare che chiamarsi<br />
“il gruppo fantasma” indichi un volersi liberare del<br />
contorno per focalizzare l’attenzione sulla musica. E,<br />
magari, sul gusto per il tagliente nonsense dadaista comune<br />
nella cultura d’oltremanica (Monty Phython e<br />
Bonzo Dog Band, Television Personalities e gli stessi<br />
Beatles), che emerge da concerti in maschera (assecondando<br />
l’atavico senso di ritualità pagana che in<br />
Albione è retaggi e che ripropongono nell’approccio<br />
percussivo al ritmo) o dove si issa sul paco un’attrezzatura<br />
da body building invitando il pubblico a usarla.<br />
Colore e basta, se non vi fosse una sostanza sgusciante<br />
e spremuta da tanti differenti frutti: “Esiste un<br />
terreno comune composto da Led Zeppelin, Stooges, Bo<br />
Diddley, Capitan Beefheart, Beta Band e una bella dose<br />
di soul e blues, tuttavia i nostri gusti personali sono più<br />
influenti di quanto ci unisce, così tanti nomi che la lista<br />
diventerebbe una faccenda noiosa. Siamo testardi e<br />
questo si riflette nel modo in cui scriviamo e suoniamo<br />
assieme. Inoltre siamo appassionati di cinema, così che il<br />
tentativo di creare un’atmosfera caratterizza da sempre<br />
quel che facciamo. Abbiamo anche interessi più ampi nel<br />
campo dell’arte, dei videogiochi, della letteratura e della<br />
pornografia. Le solite cose, insomma. E a tutti piace il<br />
caffé."<br />
La quotidianità e lo sforzo di riderci sopra, di trascenderla<br />
inventandosi un linguaggio che esca dalle<br />
pastoie di una Scozia - ma vale per qualsiasi altra nazione<br />
- adagiata su fotocopie trash-pop e post-punk<br />
(“Prima tutti andavano in giro conciati come gli Strokes<br />
e poi come i Franz Ferdinand. Questa città ha un ‘giro’<br />
chiuso e non piacevamo a nessuno, così ci siamo ritrovati<br />
assieme. Essendo soprattutto amici, la faccenda s’è<br />
evoluta organicamente e alcolicamente. Tutti i venerdì<br />
sera lasciavamo gli amici al pub e suonavamo fino a tarda<br />
ora: dalla jam settimanale siamo giunti a un singolo<br />
e agli album.”<br />
A un certo punto toccava decidersi per un nome:<br />
da lì, nel 2007 si stampa il 7" Throwing Bones per la londinese<br />
Trial & Error che attrae l’attenzione della concittadina<br />
Chemikal Underground. Ne risultava un primo<br />
lp acerbo, dove l’ex Delgados Paul Savage cercava di<br />
ordinare produttivamente l’eccesso di carne sulla brace.<br />
Non sfuggiva però il talento dei ragazzi ad allestire<br />
una fitta rete di rimandi che prometteva bene; i più<br />
attenti, anche alla luce della presenza dei Fantasmi ad<br />
alcuni prestigiosi festival, un asso se lo sarebbero attesi.<br />
Non della portata di The Wants, però, dove la scrittura<br />
gode di una naturalezza di sviluppo evidente solo<br />
dopo ripetuti ascolti, quando cioè si varca una complessità<br />
che attrae e anzi avvince in luogo di respingere.<br />
Danno dipendenza, queste canzoni che respirano:<br />
è folk che cavalca krauto (The None Of One) o sorge da<br />
un alveo limpido (Come Away In The Dark); è new wave<br />
che si rivolta in varchi spazio-temporali (Into The Corn,<br />
Everybody Knows It’s True); sono pugnalate all’ultimo<br />
grido da New York e da Londra (Mr. Natural, Walls). Il<br />
resto ce lo mettono una voce che, indecisa tra David<br />
Sylvian e Ian McCulloch, tra Ian Curtis e Bill Callahan,<br />
li lascia confluire nel fiume in piena di arrangiamenti<br />
calorosi e policromi. Si osa con trasporto emotivo,<br />
ripudiando la frigidità sin troppo smaliziata oggi<br />
di moda.<br />
Sperimentazione pop col sorriso e lo scudiscio: da<br />
quanto ne attendevamo la ricomparsa? “Siamo pieni<br />
di passione: il gruppo è una famiglia disfunzionale in cui<br />
discutiamo molto ma che tende a lavorare in maniera<br />
fluida. Le canzoni sono tirate in direzioni diverse finché<br />
non si tramutano in qualcosa che possiamo utilizzare,<br />
l’ispirazione arriva dagli ascolti passati e dalla voglia di<br />
migliorarsi. Cambiare nome ci permetteva di metterci ed<br />
era divertente. A lungo andare, però, ci siamo resi conto<br />
di come fosse un po’ perfido e potesse infastidire la gente,<br />
così ci siamo fermati a ‘The Phantom Band’. Avendo raggiunto<br />
un qualche obiettivo artistico, era tempo che ci<br />
legassimo a qualcosa. Per ora non abbiamo in mente di<br />
cambiare di nuovo nome: nel caso, ve lo faremo sapere.“<br />
Quel che conta è che costoro rimangano tra chi<br />
conta, ora che un nuovo decennio è alle porte e qualche<br />
certezza servirà. Tra genio e sregolatezza, sanno<br />
cosa scegliere.<br />
giAncArlo TurrA<br />
8 9
Tu n e-In<br />
Le luci della<br />
centrale elettrica<br />
—Gli anni zero sono finiti?—<br />
Testo: Marco Boscolo<br />
Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi<br />
Due anni che lo hanno trasformato in un'icona<br />
generazionale, ma a Ferrara "non mi caga nessuno"<br />
Il successo trasversale di Canzoni da spiaggia deturpata<br />
ha spinto Vasco Brondi nella casella delle<br />
icone, almeno sociologicamente parlando. Nell'era della<br />
comunicazione per memi sempre più brevi e di stampo<br />
sloganistico, i flussi di coscienza infarciti di immagini<br />
da sinistra storica che si reincarnano nella “gigantesca<br />
scritta COOP” hanno una forza tale da diventare punti<br />
di riferimento per una generazione indie cresciuta a Facebook.<br />
Una generazione che per certa parte ha visto<br />
in lui il menestrello di "questi cazzo di anni zero".<br />
Del fenomeno si è accorto il mainstream, che ha voluto<br />
il libro di Brondi, che lo ha fatto entrare nel mondo<br />
paludato del Premio Tenco, che in qualche modo si è<br />
interessato ai potenziali aspetti di marketing che ne<br />
scaturivano. Si potrebbe addirittura vedere in Brondi<br />
lo spettro di un altro Vasco, quello da Zocca che cantava<br />
la vita spericolata. O una vicinanza all'esaltazione<br />
di certa provincia che ha aperto le porte degli stadi a<br />
Ligabue. Come se i ventenni di oggi avessero trovato<br />
il proprio faro, come ai loro coetanei di trenta, venti o<br />
dieci anni fa era successo con Vasco Rossi e Luciano<br />
Ligabue<br />
Il secondo disco, Per ora noi la chiameremo felicità,<br />
non sposta la barra del timone e ripropone lo stesso<br />
immaginario raccontato “viscere sul tavolo” fornendo<br />
nuova linfa al fenomeno. Dietro all'icona, però, c'è un<br />
ragazzo schietto che questi ragionamenti sul marketing,<br />
sulla sociologia e sulla fenomenologia – forse –<br />
non li ha fatti mai. Dalle sue stesse parole, la sua sembra<br />
più una navigazione a vista, in un perfetto stile punk, in<br />
cui il dire e il fare coincidono. Se al momento il fenomeno<br />
susciterà ancora innamoramento e identificazione<br />
in una fetta importante del pubblico, e non mancherà<br />
di far uscire gli inevitabili “te l'avevo detto”, dove stia<br />
andando il progetto Luci della centrale elettrica lo<br />
può sapere solo Vasco Brondi. E per cercare di capirlo,<br />
non vi è altra via che leggere le sue stesse parole<br />
Com'è stato fare questo secondo disco dopo un<br />
esordio così visibile e accolto così positivamente da<br />
pubblico e critica?<br />
In realtà ho cominciato a farlo mentre stavo ancora finendo<br />
di mixare il disco precedente. Le canzoni sono<br />
venute fuori in giro per i concerti in questi due anni. In<br />
generale quando è stato il momento mi sono rimesso<br />
nella situazione di non avere niente da perdere perché<br />
effettivamente è così. Fortunatamente ho anche altre<br />
cose e altre pensieri, dovere portare avanti una carriera<br />
è una cosa che non mi pongo e che mi ripugna anche<br />
un po'.<br />
In cabina di regia non c'è più Giorgio Canali. Chi ha<br />
prodotto il disco? Come sono nate queste scelte?<br />
Il disco se parliamo di produzione artistica direi che ho<br />
fatto molta roba io da solo. Con Giorgio c'è un rapporto<br />
di confronto continuo, ha sentito tra i primi i provini<br />
delle canzoni chitarra e voce, mi ha dato una mano a<br />
registrare le voci qui a casa e molti consigli. Le Luci della<br />
centrale elettrica è una sorta di collettivo e cambia<br />
sempre, cambia con me. È venuto da solo fare cose diverse.<br />
In generale cambio tutto quello che posso: ho<br />
traslocato quattro volte in un anno. Mi sentivo anche<br />
tranquillo da solo, ho ricostruito il momento di solitudine<br />
che ho quando faccio le canzoni, ma in studio,<br />
ho fatto io i premix che sono stati sostanzialmente un<br />
momento di arrangiamento. Poi Paolo Mauri, sempre<br />
a casa, ha mixato il disco dando un grande apporto.<br />
Le scelte di produzione sono state le uniche possibili,<br />
le più immediate e le più sincere. Non mi sono voluto<br />
inventare un suono in una settimana di studio, le canzoni<br />
anche questa volta nascevano chitarra e voce e ci<br />
sono rimaste. Le abbiamo suonate tutte in un giorno in<br />
presa diretta e quello che doveva essere un provino è<br />
diventata la base del disco perché andava bene così.<br />
I testi nuovi arrivano sull'onda del successo del primo<br />
disco e della pubblicazione del libro: questi fattori<br />
hanno cambiato il tuo processo creativo?<br />
Non credo. Quando scrivo, scrivo. E si crea una dimensione<br />
diversa. Poi devo dire che tutto questo supposto<br />
successo è per gran parte autosuggestione degli addetti<br />
ai lavori del micromondo indipendente musicale.<br />
10 11
Mi sono ritrasferito a Ferrara e posso assicurarvi che<br />
nella realtà non mi caga nessuno.<br />
Dopo essere riuscito a costruire un immaginario coerente<br />
e riconoscibile, avevi paura di cadere nella<br />
tentazione di rifare lo stesso disco? Hai preso delle<br />
precauzioni in questo senso?<br />
Non mi sono posto il problema. Non avevo nessuna<br />
tentazione di rifare lo stesso disco, anzi, allo stesso tempo<br />
non avevo nessuna intenzione neanche di fare una<br />
cosa completamente diversa da quello che sono adesso<br />
solo per stupire o per sorprendere qualcuno. Non ho<br />
preso precauzioni di nessun tipo, se non di rispondere<br />
all'unica regola che vale in queste cose: viscere sul tavolo.<br />
Come diceva Pazienza.<br />
Nei testi nuovi ci sono molte citazioni più o meno<br />
esplicite. Ma quali sono le tue fonti di ispirazione?<br />
Sono maggiormente cantautori o scrittori?<br />
Sono sempre in difficoltà davanti a questa domanda<br />
rituale. Non è che mi ispiro a uno o ad un altro, non capisco<br />
neanche come si possa fare. Sicuramente ci sono<br />
cose fatte da altri che mi colpiscono a morte ma che<br />
magari non entrano in nessun modo in quello che faccio.<br />
Forse mi viene da mischiare tutto, i palazzi che ho<br />
di fronte ad una canzone di Fausto Rossi, una frase di<br />
Gianni Celati e la faccia di una passante, allo schermo<br />
del computer, una conversazione con mia madre e un<br />
film di Wim Venders. Tutte queste cose probabilmente.<br />
Non ti viene mai voglia di lasciare da parte la musica<br />
e dedicarti completamente alla scrittura?<br />
A volte penso che sarebbe più comodo che sarei più<br />
tranquillo. La parte pubblica della questione devo dire<br />
che un po' di rotture di cazzo me le ha procurate e per<br />
quasi un anno non ho fatto concerti perché non ne<br />
avevo più voglia. Però credo che non riuscirei, che mi<br />
mancherebbe la parte della condivisione, dell'immediatezza<br />
delle canzoni.<br />
Scrivo molto ma forse è solo un laboratorio per le canzoni,<br />
anche per questi testi a volte partivo da storie di<br />
quaranta pagine che diventavano una canzone, come<br />
per Una guerra fredda. Anche Cosa racconteremo di<br />
questi cazzo di anni zero è stato in questo senso un<br />
laboratorio, l'ultima parte di quel libro l'ho scritta mentre<br />
venivano fuori anche le canzoni di questo disco e si<br />
sono parlati a vicenda.<br />
Che effetto ti fa essere considerato il cantore di una<br />
certa fetta del mondo indie, non dico generaziona-<br />
le, ma che effetto ti fa sentire la gente che canta a<br />
squarciagola le tue canzoni?<br />
La frase dei C.S.I. "trasformami in un megafono e mi<br />
incepperò" mi sembra perfetta. Facendo questa cosa<br />
a volte sono finito in questa dimensione dell'irrealtà<br />
dove ogni cosa diventa possibile e da questa dimensione<br />
dell'irrealtà però non è che provi grandi soddisfazioni:<br />
è come se non succedesse a te, banalmente. Gli<br />
unici momenti di gioia sconfinata è quando ti accorgi<br />
che dopo un bel po' di settimane che stai sopra una<br />
canzone, all'improvviso capisci che è finita.<br />
Come pensi che verranno accolte le nuove composizioni,<br />
o come vorresti che venissero accolte?<br />
Vorrei che fossero ascoltate, è un disco fuori tempo e<br />
fuori moda perché credo che per entrarci devi ascoltarlo<br />
un po' di volte. Sono tranquillo perché è proprio<br />
come lo volevo e può andare in qualsiasi modo: non<br />
ci sono recriminazioni. Credo che molti non le ascolteranno<br />
neanche e diranno la solita cosa che si dicono<br />
per i secondi dischi di chiunque o per i dischi di<br />
chiunque prima non aveva seguito e adesso ne ha un<br />
minimo. Dai CCCP ai Marlene Kuntz, agli Afterhours,<br />
ai Baustelle adesso. Il solito gioco di ruolo. Credo che<br />
ci siano anche tante persone con cui mi capisco e che<br />
capiranno le canzoni e che ci troveremo ai concerti e<br />
dopo i concerti e che ci accompagneremo a vicenda<br />
ancora per un po'.<br />
Com'è cambiata la tua vita privata? Com'è andare al<br />
bar a Ferrara oggi?<br />
Come ti dicevo, a Ferrara non mi caga nessuno, solo<br />
ogni tanto se viene qualcuno da fuori c'è questo cortocircuito<br />
che qualcuno mi ferma per strada e addirittura<br />
si stupisce che cammino così tranquillamente per<br />
la città, e poi mi chiede di fare una foto assieme e io mi<br />
vergogno gli dico di no per favore, che se vuole parliamo<br />
finché vuole ci abbracciamo o quello che vuole<br />
ma la foto mi vergogno, ci ho provato ma mi vergogno<br />
e allora questa persona se ne va presa male e probabilmente<br />
va poi su Facebook a scrivere che me la tiro.<br />
In generale la mia vita privata non è cambiata, ho gli<br />
stessi quattro amici di prima, gli unici che sono rimasti<br />
a Ferrara, frequento strettamente le stesse persone e<br />
gli stessi posti, solo che ogni tanto parto e vado a fare<br />
dei concerti e alcuni giornali e siti mettono delle mie<br />
foto brutte con la bocca aperta mentre urlo e alcuni<br />
che non conosco parlano di me quando non hanno di<br />
meglio da fare.<br />
Come hai vissuto il Premio Tenco?<br />
Questa è un'altra domanda ricorrente che mi mette in<br />
difficoltà. Il Premio Tenco sono stati due giorni in cui<br />
io, Giorgio, Enrico Molteni e Daniela che suonava il violoncello<br />
siamo andati a Sanremo a suonare e a bere la<br />
sera e ha sempre piovuto, ma ci siamo divertiti molto.<br />
Eravamo così disorganizzati e fuori dal mondo che nessuno<br />
di noi sapeva neanche che il disco era in finale<br />
al premio Tenco. Così una mattina che de Angelis mi<br />
ha chiamato per dirmi che Canzoni da spiaggia deturpata<br />
aveva vinto io stavo dormendo e quando mi ha<br />
richiamato che ero sveglio sono caduto dalle nuvole e<br />
lui c'è rimasto un po' male. È stata poi una cosa importante,<br />
un mondo diverso che si accorge di una cosa che<br />
viene da un'altra parte, una produzione da zero euro<br />
che vince davanti a produzioni da centomila.<br />
Programmi per il futuro?<br />
Stiamo preparando i concerti e non vedo l'ora di inizia-<br />
re, dopo tutto questo tempo in casa e in studio, di fare<br />
uscire le canzoni e incrociare gli occhi di un po' di persone<br />
mentre suoniamo e pensare cosa faranno delle<br />
loro serate e delle loro vite. Appena finito di registrare<br />
il disco ho ricominciato a scrivere e suonare in modo<br />
compulsivo direi, non so cosa succederà. Credo che andrò<br />
in qualche altra direzione e con qualcun altro. Poi<br />
ci sono alcune canzoni di altri che mi stanno accompagnando<br />
da tantissimo e mi piacerebbe registrarle ma<br />
forse le faremo solo dal vivo. Poi ho preso una batteria<br />
elettronica che fa un po' cagare, ma che passata negli<br />
effetti della chitarra e poi dentro l'ampli diventa una<br />
figata!<br />
12 13
Tu n e-In<br />
Umberto<br />
Palazzo<br />
—Ciò che è più vicino—<br />
Passato e presente, psichedelia<br />
e sesso, globale e locale,<br />
social network e testate surriscaldate.<br />
Lo stato delle cose<br />
rock di Umberto Palazzo.<br />
Testo: Stefano Solventi<br />
U mberto Palazzo si aggira dove in<br />
Italia c'è rock da un bel pezzo. Narra<br />
la cronaca, almeno dagli anni ottanta,<br />
quando circa ventenne suonò garage negli<br />
Ugly Things, prima di condividere un<br />
pezzo di strada assieme ad Amerigo Verardi<br />
nei molto psichedelici Allison Run. Il<br />
colpo grosso lo stava per fare coi Massimo<br />
Volume, però li mollò un attimo prima che<br />
esordissero. A quel punto erano già gli anni<br />
novanta, e Umberto Palazzo aveva maturato<br />
un'idea rock precisa, piuttosto sintonizzata<br />
sulle frequenze di Seattle. Raccolse<br />
all'uopo una band attorno a sé, la chiamò Il<br />
Santo Niente ed esordì - 1995 - con La vita<br />
è facile per il Consorzio Suonatori Indipendenti.<br />
Una formula adulta come nel nostro<br />
paese non capita spesso di udire guadagnò<br />
al gruppo gli apprezzamenti del caso. Il re-<br />
sto è storia: un altro album per il CSI, la soundtrack di<br />
Jack Frusciante è uscito dal gruppo, la crisi psicofisica<br />
del leader che preferisce investire energie nell'attività<br />
di DJ, quindi il ritorno - a dieci anni dal debutto - con lo<br />
stupendo Il fiore dell'agave su etichetta Black Candy. Il<br />
Santo Niente è cambiato nei suoi membri e nell'anima,<br />
ma continua a far perno sull'abruzzese - di Pescara - Palazzo,<br />
dalla calligrafia sempre più densa e incendiaria.<br />
E' passato un lustro da allora, e il destino non ha smesso<br />
un istante di scozzare le carte. Umberto è, tra le altre<br />
cose, uno dei rocker-dj più attivi sul grande social network<br />
blu, nel quale sembra trovarsi straordinariamente<br />
a proprio agio. Ma non ha smesso il vizio del fare musica.<br />
Ho avuto il piacere – stavo per scrivere il privilegio<br />
– di ascoltare una pre-release del debutto solista di<br />
Palazzo, Canzoni della controra. Un disco molto bello,<br />
nato quasi per caso durante la lavorazione di un altro<br />
album, Tuco (vedi in spazio recensioni), anch’esso un<br />
debutto per El Santo Nada, sorta di incarnazione texmex<br />
del Santo Niente. Canzoni della controra avrebbe<br />
dovuto uscire questo settembre, ma c’è stato un contrattempo<br />
piuttosto… prosaico.<br />
Canzoni della notte e della controra uscirà tra<br />
qualche mese, uno slittamento dovuto a strategie<br />
commerciali/promozionali o che altro?<br />
Lo slittamento è dovuto principalmente al diodo che<br />
comandava la ventola del radiatore della mia vecchia<br />
macchina e che la faceva entrare in funzione quando il<br />
motore raggiungeva una certa temperatura. Si è rotto,<br />
la ventola non è più partita e così la testata si è surriscaldata<br />
e deformata. Ho dovuto farla rettificare e nel<br />
frattempo ho anche comprato una Toyota Corolla un<br />
po' più giovane, ma di poco e il budget promozionale<br />
che avevo accantonato andrà via in gomme, cinghie,<br />
olio, filtri e passaggio di proprietà. Quindi per coprire il<br />
buco che si è creato devo vendere le edizioni, cosa che<br />
non volevo fare e che richiede una trattativa paziente.<br />
Nel frattempo abbiamo finito Tuco, il disco del Santo<br />
Nada e la band, che è in forma smagliante, scalpita per<br />
suonare.<br />
E allora avanti con El Santo Nada, roba da mariachi<br />
muti, da cugini malinconici dei Calexico. Ma anche<br />
qualcosa di più, un quid periferico irriducibile<br />
che torna ad ammiccare dalle parti dei balcani...<br />
Per la gente dell'adriatico le frontiere sono due: il<br />
sud e l'est. Il messico fantastico del Santo Nada è un<br />
allegoria del nostro sud. L'est è solo un altro tipo di sud<br />
ed El Santo Nada è gente di frontiera che non appartiene<br />
né a un mondo, né all'altro. San Severo, patria di<br />
Andrea Pazienza, è la nostra Ciudad Juarez. Da lì in poi<br />
inizia una terra incognita senza regole o con regole dif-<br />
ficilmente comprensibili ai non indigeni o iniziati. Un<br />
universo magico e selvaggio, ma soprattutto una terra<br />
di feroce sfruttamento e prepotenza. Tuco è un'allegoria<br />
dei problematici rapporti tra i nord e i sud del mondo<br />
sempre a vantaggio ovviamente dei più ricchi. Tuco<br />
non è solo l'erede bastardo del personaggio reso immortale<br />
da Eli Wallach e Sergio Leone. Tuco è qualsiasi<br />
persona che cerchi di sottrarsi ad una situazione svantaggiata<br />
tramite la forza di volontà. Tuco è un messicano<br />
che guada il Rio Bravo. E' un africano che attraversa<br />
il Ténéré su camion stracarico. E' un meridionale che si<br />
sottrae alla mafia. Tuco è un viaggio di emancipazione<br />
ed un romanzo di formazione.<br />
Quando e in quanti avete suonato su Tuco?<br />
Siamo partiti col progetto a maggio del 2007. All'inizio<br />
era semplice musica di circostanza per essere ugualmente<br />
presenti in una situazione in cui non ci saremmo<br />
potuti esibire come Santo Niente. Buona parte del<br />
repertorio, non tutto presente sul disco, è stato scritto<br />
nel primo mese di attività. La cosa ha preso a vivere di<br />
vita propria e ci ha fatto completamente trascurare il<br />
Santo Niente. Ci ha entusiasmato da subito. Poi abbiamo<br />
fatto due distinte sedute di registrazione, a distanza<br />
di un anno ed una terza sessione per il missaggio.<br />
Siamo stati rallentati dai molti impegni dei componenti<br />
la band che alla fine si è scissa in due e a quel punto la<br />
situazione si è sbloccata. La sezione ritmica ha fondato<br />
una nuova band che si chiama Caja Sonora ed è più<br />
operativa in Spagna che in Italia. Io, Alessio D'Onofrio<br />
e Christian Carano abbiamo continuato a suonare sia<br />
nel Santo Niente che nel Santo Nada, ma ora ci sono<br />
due sezioni ritmiche diverse. Nel Santo Nada ci sono<br />
Fabrizio Crecchio e Alberto La Torre, musicisti completi<br />
e veramente ottimi. Nel Santo Niente ci sono i giovani e<br />
agguerritissimi Tonino Bosco e Federico Sergente, che<br />
suonano anche negli Zippo e nei Death Mantra For Lazarus,<br />
due grandissime band. Sono perfetti per il Santo<br />
Niente e gli hanno restituito una grinta che solo dei<br />
ventenni possono avere.<br />
Con quali modalità uscirà Tuco? Ci sono state difficoltà<br />
per la distribuzione?<br />
Per Tuco sogno la pubblicazione all'estero. Dopotutto<br />
è la sua natura di emigrante che lo esige. E se non<br />
si dovesse trovare una distribuzione lo venderemo ai<br />
concerti e on line.<br />
Tornando a Canzoni della controra, hai definito<br />
una specie di "popolare profondo", un narrare ad altezza<br />
d'uomo, simbolico e carnale, che svela le ombre,<br />
le magie, i mostri del quotidiano. E' un modo - il<br />
tuo modo - di fare musica "impegnata"?<br />
Sì, il mio impegno è sempre stato quello di guarda-<br />
14 15
e ciò che più mi è vicino. Da molti anni ho adottato<br />
il motto The reality of my surroundings, dal titolo di<br />
un album dei Fishbone. Penso che il modo migliore<br />
di parlare delle questioni generali, che sono sempre<br />
enormi e lontanissime, sia descrivere fatti minuscoli e<br />
vicinissimi. In questo particolare album si parla di sesso<br />
e quindi può sembrare che ci sia meno impegno, ma la<br />
politica dei sessi è importante. Fondamentale.<br />
Come è nata l'idea, come si è realizzata?<br />
Essendo Tuco un disco strumentale ed un lavoro<br />
collettivo, mi sono trovato con meno impegni a livello<br />
compositivo e soprattutto con il mio studio casalingo<br />
finalmente pronto. Quindi mentre lavoravamo a Tuco,<br />
io scrivevo e registravo altri pezzi. Nel frattempo insegnavo<br />
anche Storia della Popular Music al conservatorio<br />
e avevo voglia di mescolare linguaggi musicali antichi<br />
ed esotici che non avevo mai usato, ma di cui ho<br />
una conoscenza profonda, a quelli che uso da sempre.<br />
Suonare tutto da solo mi ha facilitato il lavoro perché in<br />
questo caso avevo bisogno di avere il controllo totale<br />
dell'arrangiamento e della produzione perché era tutta<br />
una questione di giustezza della miscela. E poi non<br />
sapevo dove stavo andando e lo scoprivo minuto per<br />
minuto. E' stata una bellissima avventura intellettuale.<br />
Mi hanno dato una mano Sandra Ippoliti che canta in<br />
tre pezzi, Tying Tiffany che canta in uno, Luca D'Alberto<br />
che suona la violectra in un pezzo e poi ho sfruttato<br />
un'antica drum track di Gianluca Schiavon, che non sa<br />
ancora di aver suonato in questo disco. Contiene nove<br />
pezzi per trentotto minuti di durata. Ne sono molto, ma<br />
molto fiero. E' un gran disco d'esordio secondo me. Se<br />
potessi scrivere degli emoticon qui andrebbe la faccina<br />
sorridente.<br />
Il rebetico come una bussola formale ed emotiva.<br />
Musica per anime in conflitto, voce di outsider<br />
senza possibilità di remissione. In effetti il rebetico<br />
potrebbe essere per l'Europa quello che il blues è<br />
(stato) per gli USA... No?<br />
Per la Grecia lo è certamente. Il rebetico nasce<br />
dall'esilio delle popolazioni greche che abitavano la<br />
costa turca. I greci di Smirne persero tutto e si ritrovarono<br />
a vivere in una terra che non li desiderava e l'unica<br />
cosa che riuscirono a portare con loro fu la musica di<br />
un altro continente. Nel rebetico c'è nostalgia, disperazione,<br />
senso di perdita, persecuzione, sensualità, droga<br />
e carcerazione, come nel blues e come nel blues c'è un<br />
contenuto musicale alieno che ha finito per colonizzare<br />
la musica del paese ospite. La discendente attuale<br />
del rebetico, la neo kyma, è una forma musicale molto<br />
interessante nel suo integrare presente e tradizione e<br />
andrebbe seguita con più attenzione di quanto non<br />
succeda. In effetti è una delle poche forme di popular<br />
music moderne completamente autonome esistenti in<br />
Europa.<br />
C'è un elemento psichedelico che non demorde,<br />
anch'esso però terrigno, verrebbe da dire mediterraneo.<br />
Che pure innesca legami intensi col fare<br />
musica angloamericano. Il risultato è a mio parere<br />
apprezzabilissimo, è come trovare una base comune<br />
da premesse diverse, dribblando la tipica sudditanza<br />
del nostro rock. Sei d'accordo?<br />
Assolutamente sì. La sudditanza del nostro rock mi<br />
sembra un problema sottovalutato, quando non affrontato<br />
nella maniera più sbagliata. Mi lasciano perplesso<br />
le recensioni che dicono "questo è un disco italiano, ma<br />
sembra americano o inglese al 100%". In genere, lingua<br />
a parte, vuol dire che si tratta di musica totalmente assimilabile<br />
e assolutamente indistinguibile dall'ultima<br />
moda arrivata da oltremanica o oltreoceano. Mi viene<br />
da pensare: e allora? Come può essere questa una cosa<br />
buona? Come può essere buono che non trapeli nulla<br />
della vera personalità delle persone che hanno fatto<br />
questo disco? Che questa musica non appartenga<br />
a nessun luogo e a nessuna cultura se non ai cascami<br />
della globalizzazione e del consumismo? Che questi<br />
musicisti si siano talmente immedesimati nei panni di<br />
qualcun altro da risultare personalmente invisibili? Mi<br />
sembra che tutto ciò superi i confini del rock per entrare<br />
in quelli della pantomima, genere rispettabile e pure<br />
impegnativo, ma che non m'interessa.<br />
Sei molto presente su Facebook, hai un considerevole<br />
numero di amici (quanti?). Al di là delle ovvie<br />
e per certi versi inevitabili ragioni di carattere promozionale,<br />
pensi che ci sia un rapporto più profondo<br />
tra le tue attività artistiche e quelle di "social networking"?<br />
Ovvero: non hai la sensazione che i codici del<br />
web stiano rendendo il "momento" promozionale in<br />
qualche modo complementare a quello artistico?<br />
Ho 4477 amici su Facebook in questo momento e<br />
300 richieste in attesa. Ho il terrore di arrivare a 5000<br />
che è il limite. A me piace il fatto che possa prendere un<br />
pezzo inedito che ho sull'hard disc e in un click metterlo<br />
a disposizione di migliaia di persone. Ho reso disponibili<br />
i miei vecchi album e ho invitato i miei contatti a<br />
scaricarli e i blog a condividere i link e ho avuto 2000<br />
download finora. Questa cosa non rende nulla (costa<br />
pure qualche euro in realtà), ma mi piace tantissimo,<br />
del resto faccio musica perché venga ascoltata il più<br />
possibile e quindi penso che il momento della condivisione<br />
sia importante quanto se non di più di quello<br />
della creazione. E poi ho conosciuto la mia innamorata<br />
grazie a Facebook.<br />
16 17
Tu n e-In<br />
Deerhunter<br />
—Prove da rock star—<br />
Testo: Marco Boscolo<br />
Bradford Cox dentro e fuori i Deerhunter,<br />
una figura essenziale per il pop anni zero<br />
Nel mondo del rock esistono topoi che a volte si<br />
avvicinano pericolosamente ai luoghi comuni,<br />
perdendo qualsiasi sfumatura leggendaria, mitologica<br />
o – semplicemente – di coolness per trasformarsi in<br />
parodie, spesso involontarie (e quindi più gravi) della<br />
figura dell'indie-rocker. Per fare un esempio, un conto<br />
è l'estetica da slacker o da nerd che ha fatto la fortuna<br />
di molti gruppi e musicisti, capaci di prendersi in giro<br />
e prendere in giro con l'arma dell'ironia, spesso accompagnata<br />
da canzoni di ottima fattura come nel caso<br />
dei redivivi Pavement. Altra cosa è, invece, continuare<br />
a prendersi sul serio quando si è persa qualsiasi credibilità,<br />
quando il proprio mondo di riferimenti culturali<br />
è diventato un teatrino di plastica nemmeno più così<br />
luccicante. Guardando solo in casa, basti ricordare due<br />
nomi e si capisce a cosa ci si riferisce: Vasco Rossi e<br />
Luciano Ligabue.<br />
Anche per Bradford Cox c'era questo rischio, per lui<br />
nato nell'America che potremmo definire di provincia<br />
(Atlanta, Georgia) e cresciuto in una famiglia non propriamente<br />
coesa. Affetto dalla sindrome di Marfan, una<br />
rara condizione genetica ereditaria che oltre a presentare<br />
rischi gravi per la salute, fa allungare a dismisura<br />
arti e dita di mani e piedi (e sembra aver affetto, tra gli<br />
altri, personaggi storici come Charles de Gaulle e Abraham<br />
Lincoln, Niccolò Paganini e Sergei Rachmaninov,<br />
oltre a Joey Ramone), Bradford Cox non deve avere<br />
avuto un'infanzia e un'adolescenza particolarmente<br />
semplici, soprattutto perché conditi da un dubbio gusto<br />
per l'abbigliamento di Cobainiana memoria. La sua<br />
eccessiva magrezza è spesso stata confusa per anoressia<br />
(o forse c'è stato davvero anche qualche disturbo<br />
alimentare?) e la sua vita è stata segnata da un karaoke<br />
scovato in un sottoscala di casa. Insomma, c'erano tutti<br />
gli ingredienti per una classica mitologia americana da<br />
underground indie, invece Bradford se ne frega un po'<br />
di tutto e si concentra sui suoi esperimenti sull'Atlas<br />
Sound (il nome della marca che aveva prodotto il karaoke)<br />
che saranno la base della sua inclinazione musicale.<br />
Comincia così l'avventura sonora di Cox, con i Deerhunter<br />
ancora lì da venire e un progetto solista già<br />
pensato e immaginato nella propria cameretta. Ma è<br />
con altri quattro amici, anche loro figli della stessa marginale<br />
Atlanta che si ficca in garage, calcando l'eterna<br />
storia di sogni del rock: suonare, incidere un disco,<br />
andare in tour per il mondo. Una storia che potrebbe<br />
essere stata scritta nel 1965 o nel 1980, e invece è del<br />
2001. La formula di quel consesso di “cacciatori di cervi”<br />
è una mutevole variazione di garage-indie-pop con<br />
forti inserti shoegaze e qualche accenno d'ambient, un<br />
tocco che diverrà via via più importante nel corso della<br />
vicenda Deerhunter.<br />
Il disco di debutto, omonimo o noto anche con il<br />
titolo di Turn It Up, Faggot, arriva quattro anni più tardi<br />
per la piccola Stickfigure. Le chitarre possenti fanno<br />
pensare a un misto di Dinosaur Jr. e Jesus & Mary<br />
Chain adagiato su una ritmica robotica, forse figlia di<br />
quel giocare di Cox con le macchine fin dalla più tenera<br />
età. Due sono i santini che si sentono pervadere<br />
molti anfratti di questi primi Deerhunter: uno è Mark<br />
E. Smith, l'altro il sound abrasivo anni '80 dei Gang of<br />
Four. Dopo la pubblicazione dell'esordio la leggenda<br />
entra davvero nel suo vivo. Pare che sia stata Karen<br />
O degli Yeah Yeah Yeahs a vedere dal vivo la band<br />
all'epoca e a descrivere il live set come “un'esperienza<br />
religiosa”. Scintilla d'amore musicale scaturita al primo<br />
impatto e il nome dei Deerhunter arriva alle orecchie<br />
giuste, facendoli andare in tour con i Liars e vedendosi<br />
spalancate le porte della Kranky.<br />
Ma il periodo che separa l'episodio dall'uscita di<br />
Cryptograms nel 2007 non è facile per la band, che<br />
registra una parte del disco già nel 2005, con le session<br />
rovinate da problemi tecnici e psicologici (attacchi<br />
di panico compresi). La prima parte del disco viene<br />
quindi registrata nuovamente nello studio che li aveva<br />
ospitati per il primo disco e le cose sembrano andare<br />
meglio. Per la seconda metà entrano in studio qualche<br />
mese dopo e finalmente il disco viene alla luce all'inizio<br />
del 2007 e fa mostra di sé nei negozi di tutto il mondo.<br />
L'impatto sugli addetti ai lavori, soprattutto dall'altra<br />
parte dell'Atlantico, è molto positivo, nonostante<br />
la doppia registrazione abbia fatto dare alle stampe<br />
un disco non del tutto omogeneo e sostanzialmente<br />
diviso praticamente in due parti (essendo lo spartiacque<br />
Red Ink). Più garage e spigolosa la prima, sebbene<br />
18 19
aperta da una traccia intrisa di ambient, più melodica la<br />
seconda, che sembra raccontare un equilibrio cercato<br />
e finalmente trovato. Cryptograms non è in realtà quel<br />
gran capolavoro che ci voleva far credere Pitchfork, ma<br />
due cose sono innegabili. La prima è che Bradford Cox<br />
e soci sono una delle realtà più interessanti a emergere<br />
a metà del decennio, in quel periodo di post-tutto<br />
che sembra non trovare più quadrature del cerchio. I<br />
Deerhunter si sollevano sopra la media grazie a una<br />
capacità di creare atmosfere fuori dal comune, mandando<br />
a memoria la lezione di Ride e Slowdive, inbastardendola<br />
con il garage e la psichedelia, sporcandola<br />
di krautrock e aggiornando lo iato wave. La seconda<br />
è che nonostante tutte le ingenuità e qualche caduta,<br />
il disco fa pensare che quella dei Deerhunter sia una<br />
storia solo appena accennata.<br />
E così è, a partire da un 2008 denso di buona musica<br />
firmata Bradford Cox. La prima tappa è l'esordio<br />
ufficiale del progetto Atlas Sound, quello iniziato sul<br />
piccolo apparecchio domestico per il karaoke. Let The<br />
Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel, definito<br />
ambient punk dal suo ideatore, è una summa pop<br />
fortemente sì screziata di ambient, ma dal sapore decisamente<br />
shoegaze. Rispetto alla band maggiore, qui<br />
Cox preferisce rallentare i ritmi e lasciare che la musica<br />
stessa trasogni in liquidi feedback, prendendo a prestito<br />
atmosfere da Sigur Rós e Postal Service, ma sempre<br />
riuscendo a conferire al tutto una connotazione<br />
poppeggiante. Ecco allora che i drone non allontanano<br />
i meno abituati a certe sonorità più underground, ma<br />
servono a introdurli a paesaggi sonori atmosferici capaci<br />
di far viaggiare lontano. O forse vicinissimo, dentro<br />
di sé.<br />
Qualche mese più tardi arriva il secondo episodio<br />
adulto a sigla Deerhunter. In Microcastle le alchimie<br />
sonore della band sono messe a fuoco come mai prima<br />
di allora, in equilibrio delicato che sembra costantemente<br />
sull'orlo di scivolare verso la wave o l'ambient di<br />
krankyana fattura, ma riuscendo quasi sempre a mantenere<br />
la barra dritta per una dozzina di tracce che entrano<br />
in molte classifiche di fine anno. Rispetto al passato,<br />
l'attitudine pop ha vinto, regalando canzoni facilmente<br />
fruibili, infarciti di pastelli acidi e qualche tocco 4AD<br />
che letto in prospettiva sembra una premonizione. Il<br />
definitivo approdo a un pop più ampio è sancito dal<br />
singolo Never Stops, una sorta di aggiornamento 2.0<br />
del Darklands dei fratelli William e Jim Reid, mentre<br />
nella titletrack fanno capolino echi surf da revival<br />
Sixties di fine duemila e non mancano gli irremovibili<br />
riferimenti a Ride e Slowdive. In Microcastle le citazioni<br />
ambient, psichedeliche, garage, wave, punk, post,<br />
kraut e quant'altro sono sostenute dalla felicità della<br />
vena compositiva di Cox e compagni che sembrano<br />
riuscire a interpretare un decennio di totale assenza di<br />
riferimenti definiti frullando tutto in una pietra filosofale<br />
dell'indie attuale che sa di miracoloso e ha il pregio<br />
di suonare personale in ogni sua incarnazione.<br />
Quando nel 2009 dà alle stampe la seconda opera<br />
a nome Atlas Sound, oramai Bradford Cox è una stella<br />
del firmamento indie e i suoi Deerhunter sono pronti<br />
per un salto definitivo nell'empireo. La loro storia assomiglia<br />
a quella dei canadesi Arcade Fire, band di<br />
provincia che dall'indie sembrano in grado di approdare<br />
a palchi mainstream senza perdere in coerenza e<br />
personalità. Nel frattempo l'allampanato cross-dresser<br />
di Atlanta mette insieme un pungo di canzoni da nuggets-delia<br />
che vanno a comporre Logos: un lavoro retrò,<br />
raffinato e impalpabile come organza nera.<br />
In un'intervista rilasciata a Pitchfork in quel periodo,<br />
Cox dichiara che laddove le canzoni del primo Atlas<br />
Sound erano essenzialmente una cosa da laptop e<br />
cameretta e “davvero introverse”, quelle finite su Logos<br />
sono invece frutto di collaborazioni e di una maggior<br />
apertura verso l'altro. L'atmosfera di condivisione si<br />
percepisce dalle ospitate, dal mezzo furto Panda Bear<br />
/ Animal Collective di Walkabout a Laetitia Sadier<br />
che tinge di Stereolab una Quick Canal altrimenti interamente<br />
shoegaze, fino al violino di Sasha Vine dei<br />
Sian Alice Group in Attic Lights: Cox sembra quasi un<br />
vampiro, capace di succhiare ogni buona idea dall'ambiente<br />
che lo circonda, ma sempre restituendola in<br />
qualcosa che suona al cento per cento come suo. Il<br />
secondo disco solista di Cox segna anche il passaggio<br />
dalla Kranky alla 4AD, a completamento di un'evoluzione<br />
già parzialmente segnalatasi con Microcastle.<br />
Come scrivevamo all'epoca dell'uscita del disco, Cox<br />
preferisce addentrarsi in una forma impalpabile di pop,<br />
quasi una sublimazione di una memoria sonora collettiva<br />
che lo rende potenzialmente il demiurgo di una<br />
generazione di musicisti indie pop.<br />
Il passo successivo, anch'esso uscito per 4AD è il<br />
recente Halcyon Digest, probabilmente l'album più<br />
matura a sigla Deerhunter, ma anche il disco più solido<br />
sotto il profilo delle canzoni tra quelli su cui Bradford<br />
Cox ha messo la firma. Più ancora che nel passato,<br />
però, è fondamentale l'apporto del sodale si sempre,<br />
quel Lockett Pundt che divide con Cox la stanza in<br />
tour, l'affitto, le scelte musicali e che con la sua chitarra<br />
elettrica ha determinato sin qui molte delle atmosfere<br />
dark e ambient di tutta vicenda musicale dell'amico.<br />
Si vedano le citazioni byrdsiane di Memory Boy o le reminiscenze<br />
di altri georgiani come i R.E.M. in Revival,<br />
ma anche la capacità di prendere un attacco tipicamente<br />
Arcade Fire e springsteeniano (Desire Lines) e<br />
trasformarlo progressivamente in qualcosa di diverso,<br />
personale e retro-modernista. Anche qui è innegabile<br />
l'amore di Cox per The Jesus & Mary Chain e per le<br />
loro terre oscure che pervadono tutte le composizioni<br />
come fossero uno spirito che dal passato continua a<br />
bussare alle porte dell'immaginario musicale dell'indie<br />
contemporaneo. Quando gli spazi si dilatano e si amplificano<br />
l'inclinazione 4AD del disco, esce anche tutto<br />
il potenziale dream pop della band.<br />
La grande capacità di Cox e soci è far apparire tutto<br />
questo come semplice, naturale, quando in realtà si<br />
tratta del frutto di un percorso lungo, che ha le sue radici<br />
nella cameretta di Atlanta, ma che adesso ha i muscoli<br />
e lo spessore per essere lanciato non solo all'interno<br />
del ristretto mondo dell'indie, ma per conquistare<br />
anche palchi più visibili, come se il processo di maturazione<br />
della band sia stato quello della psicanalisi di un<br />
mondo per poi poterlo piegare alle proprie atmosfere<br />
e visioni.<br />
20 21
<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>S<br />
—All Along The Watchtower—<br />
Dr o p ou t<br />
Uno sguardo alla carriera di <strong>Sufjan</strong><br />
S<strong>teven</strong>s, ovvero un tentativo di<br />
decifrare e ridefinire il ruolo del<br />
cantautore. Scampato, forse, al giro<br />
di ruota degli anni zero.<br />
Testo: Stefano Solventi<br />
22 23
"La disgregazione, e quindi l'incertezza, è propria di quest'epoca. Nulla poggia su<br />
una solida base e su una fede dura. Si vive per il domani, perché il posdomani è dubbio.<br />
Tuttto è sdrucciolevole e pericoloso sul nostro cammino. Il ghiaccio che ancora<br />
ci sostiene è diventato così sottile e noi tutti sentiamo il caldo soffio del vento del<br />
disgelo: qui dove noi camminiamo, fra poco più nessuno potrà camminare." (F. W.<br />
Nietzsche)<br />
Fare il cantautore all'alba degli anni zero non è una prospettiva semplice.<br />
Anzi. Nasconde svolte e insidie tutte da esplorare. Se sei un debuttante,<br />
è un po' come pescare la paperella fortunata: ti affidi alla buona mira, provi<br />
a sbirciare, ma è la fortuna che rimette i conti. Ecco: ci chiediamo oggi,<br />
dopo un primo scorcio di carriera che convenzionalmente abbraccia una<br />
decade - ovvero questo decennio critico e formidabile che ancora dobbiamo<br />
finire di decifrare - com'è andata la pesca per <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s. Non lo<br />
avremmo fatto, forse, se le ultime recenti prove discografiche (l'ep All Delighted<br />
People e l'album The Age Of Adz, usciti a stretto giro di posta nel<br />
ventre caldo del 2010) non avessero suggerito una sorta di resa dei conti,<br />
un raccolto, una disamina. La chiusura di un ciclo che, a partire dall'attitudine<br />
già espansa di <strong>Sufjan</strong>, mira ad un orizzonte sempre più affollato, caotico,<br />
imprevedibile.<br />
C'è insomma la sensazione che Mr. S<strong>teven</strong>s con questi ultimi lavori abbia<br />
voluto marcare un segno forte rispetto al senso del suo percorso espressivo,<br />
maturato infine come sguardo sulla contemporaneità, oltre gli argini di<br />
un repertorio che da sempre, ad onor del vero, ha coltivato aperture che ne<br />
scompaginavano qualsivoglia solco personalistico. Con risultati non sempre<br />
straordinari, talvolta neanche convincenti, come è del resto normale da<br />
parte di chi si prende il rischio di esplorare, di esplorarsi. Inseguendo nel<br />
farlo frequenze anche improbabili, augurandosi di azzeccare la rivelazione<br />
come una sintonia improvvisa, come un segreto geografico e sentimentale.<br />
Canzoni quindi come uno scherzo del destino, lo struggente collasso della<br />
cultura nella memoria, della società nella cronaca, del sogno nel racconto.<br />
Un de s t i n o ne l no m e<br />
<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s: cognome standard che più standard non si può, nome esotico<br />
causato dall'infatuazione (passeggera) dei genitori per la comunità<br />
sincretistica islamico-cristiana dei Subud, il cui capo spirituale suggerì loro<br />
di ispirarsi alla figura di Abu Sufyan - figura cardine dell'Islam primigenio -<br />
per battezzare il nascituro (per la cronaca, <strong>Sufjan</strong> significa: "viene con una<br />
spada"). Oggi che possiamo individuare nella polarizzazione e globalizzazione<br />
dello scontro tra modello liberista (o occidentale tout court) e neointegralismi<br />
islamici uno degli argomenti portanti di questo primo scorcio<br />
di millennio, determinando uno stato di tensione permanente tra posizioni<br />
ideologiche sempre più distorte, è lecito vedere in quell'accostamento<br />
anagrafico il marchio di una predestinazione: allo sguardo mai meno che<br />
duplice, alla inevitabile ricomposizione di ogni conflitto in una "crisi" che ti<br />
porti addosso come un altro strato di pelle. Nella sua musica, fin dai primi<br />
lavori, accade una specie di lotta subliminale tra domini formali estranei<br />
ma sovrapponibili, tra la dimensione tradizionale sedimentata in manufatto<br />
pop e l'elemento esotico/alieno, tra le istanze indie-folk e le trame sintetiche,<br />
tra la definizione di un solco espressivo ed il suo scompaginarsi in<br />
dieci, cento, mille rivoli.<br />
24 25
Nato a Detroit il 1 luglio del 1975, <strong>Sufjan</strong> si spostò ancora bambino a<br />
Petoskey, 6000 anime adagiate sulla sponda nord est del Lago Michigan,<br />
dove frequenta prima la Harbor Light Christian School e quindi la rinomata<br />
Interlochen Arts Academy, abbozzando un percorso formativo senza indugi<br />
che lo vedrà poi studente del prestigioso Hope College di Holland, istituto<br />
privato di belle arti. E' in questo scenario che compose e incise A Sun<br />
Came. Già in possesso di una buona pratica con una pletora di strumenti<br />
quali banjo, pianoforte, chitarra, oboe e batteria, da qualche tempo - metà<br />
anni novanta - aveva allestito un'etichetta - la Ashtmatic Kitty Records - e<br />
messo in piedi una folk band, i Marzuki (dal nome di suo fratello, maratoneta<br />
professionista), che vedeva nel ruolo di chitarrista e cantante la brava<br />
Shannon Stephens. Nello stesso periodo <strong>Sufjan</strong> iniziò a collaborare con<br />
la Danielson Famile, band del New Jersey capitanata da Daniel Smith e<br />
dedita ad una interessante contaminazione tra pop alternativo e gospel,<br />
tra arguzie freak e misticismo bucolico. Entrambe le situazioni vedevano<br />
già il Nostro alle prese con un'idea di spiritualità composita e informale,<br />
annidata nelle manifestazioni pop del quotidiano, il cui portato di meraviglia<br />
è solo dissimulato - e non estinto - dalla sua banalizzazione. In altre<br />
parole, è il caso di sottolineare, sembra che l'avventura sonora di S<strong>teven</strong>s<br />
inizi come un tentativo di recuperare la meraviglia pop malgrado la sua<br />
banalizzazione.<br />
Esaurita l'esperienza Marzuki, era dunque tempo di avventura solista: al<br />
già citato A Sun Came (Asthmatic Kitty Records, 6.5/10), segue pochi mesi<br />
dopo Enjoy Your Rabbit (Asthmatic Kitty Records, 6.8/10). Il primo venne<br />
inciso ad Holland, il secondo a New York, dove <strong>Sufjan</strong> si recò per seguire<br />
un master di scrittura creativa alla New School for Social Research. Tra i<br />
due lavori passa un intero universo espressivo. A Sun Came è un autentico<br />
zibaldone lo-fi con escursioni esotiche, è il benedetto eccesso di vita di uno<br />
studente con fregole etniche ma pur sempre cresciuto ascoltando Beck,<br />
Sebadoh e Pavement con qualche deviazione più marcatamente psych<br />
dalla fibra anche sixties. Un album in cui le intenzioni eccedono i risultati, a<br />
partire dal numero dei pezzi (ventuno), però non privo di ottime intuizioni<br />
e già una certa personalità.<br />
La scaletta di Enjoy Your Rabbit mette invece in fila quattrodici pezzi<br />
sintetici dedicati ai dodici segni zodiacali cinesi, al cui bestiario si aggiungono<br />
un gatto asmatico e un non meglio precisato "Nostro Signore". Un<br />
po' Matmos e un po' Oval, con un estro post che ricorda dei Gastr Del<br />
Sol giocosi o una preveggenza degli imminenti The Books, la calligrafia<br />
digitale di <strong>Sufjan</strong> dimostra una disinvoltura stupefacente, si disimpegna in<br />
un immaginario da ludoteca di marzapane, carte da parati manga e squarci<br />
di vaporoso misticismo. Se pure è plausibile interpretarlo come esercizio<br />
di stile o divertissement, è a suo modo un punto di non ritorno. Assieme al<br />
predecessore segna gli estremi di un ventaglio stilistico che aveva appena<br />
iniziato a svolgersi. Ad indagarsi.<br />
Ca r t o l i n e da l C e n t r o de l mo n d o<br />
Quelle due prime prove non bastarono a proiettare il nome di <strong>Sufjan</strong><br />
S<strong>teven</strong>s nel giro importante del pop-rock alternativo, ma era solo questione<br />
di tempo. Il terzo lavoro Greetings From Michigan, The Great Lake State<br />
(Asthmatic Kitty Records, 7.7/10) piovve nel bel mezzo del 2003 con le<br />
stimmate del disco-fenomeno, quello di cui non puoi non parlare. Le note<br />
di presentazione lo indicavano come il primo capitolo di un progetto che<br />
avrebbe dovuto prevedere un album per ogni stato dell'Unione, uno per<br />
ogni stellina della bandiera. A partire, ovviamente, dal suolo natio. Molti,<br />
come il sottoscritto, la considerarono una sparata un po' furba e un po'<br />
spaccona, o in alternativa il proclama velleitario di un autore più ruspante<br />
che realista. In pochi, forse nessuno, gli concessero pieno credito. In realtà<br />
non era stato messo a fuoco il vero punto della questione: perché un autore<br />
tanto capace e profilico sentiva il bisogno di fornire un pretesto ed un<br />
contesto così forti, per non dire debordanti, alla propria musica? Solo gli<br />
sviluppi futuri avrebbero abbozzato una spiegazione, una specie di risposta.<br />
All'epoca potevamo al più prendere atto di un album straordinariamente<br />
ispirato, eclettico, fluviale. E appassionato. <strong>Sufjan</strong> fa vagare il suo sguardo<br />
26 27
sulla quotidianità ad altezza d'uomo, spedisce cartoline affettuose che si<br />
rivelano il lato scintillante di una commossa e a tratti cupa elegia del quieto<br />
vivere. La tavolozza dei colori è una sarabanda ammaliante di easy listening<br />
e jazz, intrecci vaudeville e Tin Pan Alley sfumati post-rock, memorie prog<br />
e fregole latine, il folk come una trama che sostiene e avvolge, il gospel la<br />
dissolvenza che stempera i margini. Chitarre e pianoforti, xilofoni e banjo,<br />
fiati e percussioni, il controcanto etereo e dolciastro di Megan Smith della<br />
Danielson Famile: ingredienti dosati con garbo inquieto (Holland, Say Yes!<br />
to M!ch!gan!), con frugale trasporto (Sleeping Bear, Sault Saint Marie, la magnifica<br />
Vito's Ordination Song), con incontenibile frenesia (Detroit, Lift Up<br />
Your Weary Head!), come a definire una classicità scossa, la cifra vibrante<br />
di un autore sospeso in una molteplicità di memorie, prospettive e aggetti<br />
poetici.<br />
E' un disco gradevole e toccante, un po' bizzarro e vagamente eccessivo,<br />
che proprio in questo eccedersi nutre una garanzia di autenticità: è la testimonianza<br />
del coinvolgimento di <strong>Sufjan</strong>, interprete dolcemente flemmatico,<br />
per la terra che ha rappresentato lo sfondo reale della sua esistenza,<br />
divenuta ormai location sentimentale - virtuale - di un'espressività poliedrica.<br />
Il quadro della situazione a quel punto era già chiaro: avevamo a che<br />
fare con un giovane talentuoso dalle attitudini balzane, un genio dispersivo<br />
con tante idee ma bizzarre e a tratti imbizzarrite.<br />
Stante questa anomalia, l'uscita a distanza di un anno del quarto album<br />
Seven Swans (Asthmatic Kitty Records, 7.2/10) lasciò oltremodo interdetti,<br />
visto che si trattava di un album "normale". Una raccolta di canzoni folk<br />
asperse psych e condite con un pizzico di elettronica (colta nel solco tra<br />
valvolare e sintetico): nient'altro. L'unica bizzarria, se così la si vuol vedere,<br />
stava nel sogno che avrebbe ispirato lo S<strong>teven</strong>s, sette cigni indimenticabili<br />
e sconcertanti ai quali l'album - al di là del titolo - era in un certo senso dedicato,<br />
anche se non per questo sembra il caso di definirlo un concept. Prodotto<br />
da Daniel Smith, è disco dal suono assieme frugale ed etereo, il banjo<br />
ingrediente principale assieme alla voce, sempre più levigata e inquieta, in<br />
cerca di un intimismo tra il mistico ed il malinconico.<br />
Non per questo smetti di avvertire cortocircuiti di passato nel presente,<br />
da una parte le palpitazioni crosbyane di Abraham e dall'altra il collage ciberacustico<br />
vagamente Califone di The Devil's Territory, e ancora i languori<br />
seventies nella strumentale Sister o una The Transfiguration che fa rimbalzare<br />
particelle melodiche Xtc in un teatrino mutante M.Ward. La tempra<br />
crepuscolare già apprezzata in Michigan trova nuovi notevoli esemplari in<br />
tracce come Size Too Small e We Won't Need Legs To Stand, la voce un tappeto<br />
d'ombre su cui germogliano arpeggi che sembrano possedere una felicità<br />
segreta. E' disco insomma di quelli che sanciscono statura e maturità.<br />
Paradossalmente anomalo, nella sua sostanziale convenzionalità, rispetto<br />
ad un repertorio precedente (e futuro) ben poco convenzionale. Un futuro<br />
che non ne voleva sapere di attendere.<br />
lo ts U n a m i ip e r p o p de l r a g a z z o invisibile<br />
Tempo pochi mesi, anno 2005 ormai, ed ecco arrivare sugli scaffali<br />
<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s Invites You To: Come On Feel The Illinoise (Asthmatic Kitty<br />
Records, 8.0/10), seconda tappa del viaggio musicale attraverso gli stati<br />
dell'Unione. Il canovaccio ricalca quello del Michigan, un'escursione tra<br />
immaginario e Storia, sogno e miseria, tragedia e memoria, ora frenetico<br />
zibaldone e ora ritratto affettuoso, ironia e lirismo come due frequenze armoniche<br />
che s'intrecciano in un accordo talvolta incantevole, talaltra sconcertante<br />
(a partire dai titoli, spesso vere e proprie dichiarazioni d'intenti).<br />
Le ventidue tracce, compresi gli intermezzi strumentali, lasciano intendere<br />
una prolificità notevole che diventa sbalorditiva sommando le altre ventu-<br />
28 29
no di The Avalanche: Outtakes and Extras from the Illinois Album (Asthmatic<br />
Kitty Records, 6.8/10), raccolta quest'ultima che a dire il vero probabilmente<br />
non avrebbe neanche visto la luce senza i favorevoli riscontri di<br />
critica e vendite di Illinois.<br />
Riscontri meritatissimi per quello che apparve subito come un istant<br />
classic, con la sua capacità di proporre una trama complessa ma avvincente,<br />
il punto di vista che galleggia tra intimità dolorosa e febbrile appartenenza,<br />
toponimi e personaggi (poeti e serial killer, presidenti e jazzisti...) nominati<br />
come un mantra gelatinoso con l'obiettivo preciso di far vibrare il cuore<br />
infranto dell'American Dream. A partire da una sensibilità giovane, dall'arguzia<br />
fragile di uno studente (o ex studente) che vive il proprio territorio<br />
come una promessa sul punto di tradire, un carosello di segni didascalici ed<br />
esistenze smarrite, un groviglio formidabile di radici sfilacciate nelle quali<br />
malgrado tutto pulsa ancora vita.<br />
La "location" musicale è una forma pop carpita al cantautorato country<br />
e ad una certa coolness cameristica, passando dal folk più pacato alla psych<br />
contagiata vaudeville, dalla rumba al minimalismo con persino qualche innesco<br />
power pop, in modo da abbozzare una formula assieme tradizionale<br />
ed eversiva, integrata ed apocalittica. Canzoni come Chicago possiedono<br />
enfasi Paul Simon stemperata in un'epica che diverrà tipica Arcade Fire,<br />
Jacksonville è un distillato leggero Neil Young, The Man Of Metropolis Steals<br />
Our Hearts è una mini suite che centrifuga il neo power dei New Pornographers<br />
e il bucolico deliquio Polyphonic Spree, The Black Hawk War un<br />
orchestrale discendente da visioni Brian Wilson e Beatles, Out Of Egypt<br />
una fatamorgana seriale tra Stereolab e Gastr Del Sol, mentre John Wayne<br />
Gacy, Jr. sembra proprio la madre di tutte le ballad tenere e crudeli. <strong>Sufjan</strong><br />
è dentro e fuori l'alveo conformista, è l'istrione magniloquente e il ragazzo<br />
invisibile della porta accanto, è lo sperimentatore un po' folle, il credente<br />
allibito ed il busker che ti accarezza la malinconia.<br />
Nel caso di Illinois parliamo di capolavoro anche perché definisce, probabilmente<br />
in termini assoluti, il ruolo e la funzione di S<strong>teven</strong>s cantautore:<br />
un'intelligenza polimorfa e disallineata come testimone dello tsunami semantico<br />
e culturale contemporaneo, dell'implosione sincretistica (e relativistica)<br />
della spiritualità, della contraddizione permanente tra identità territoriale<br />
e accessibilità del mondo. Infine - ma importantissimo - della crisi<br />
dell'idea di Stati Uniti come faro egemonico, una crisi profonda che investe<br />
i macro sistemi economico/militari ed il microcosmo morale del cittadino,<br />
scuotendo fino nell'intimo le basi stesse dell'esistenza civile e individuale.<br />
Ecco spiegata quella specie di rassegna del DNA storico/culturale statunitense,<br />
la rievocazione di un Frank Lloyd Wright e del killer John Wayne Gacy<br />
Jr, dell'icona pop Superman (che la DC Comics gli contesterà per la copertina<br />
dell'album) e di Abraham Lincoln, senza scordare anonimi protagonisti<br />
del quotidiano come i lavoratori della Rock River Valley.<br />
Cr i s i mistiChe, ap o C a l i s s i sp e t t a C o l a r i<br />
Come intimorito da tanta impresa e dal conseguente successo di pubblico<br />
e critica, <strong>Sufjan</strong> vivrà negli anni successivi una fase di crisi creativa.<br />
L'uscita di Song For Christmas (Asthmatic Kitty Records, 7.2/10) nel 2006<br />
non deve ingannare: trattasi della raccolta di ben cinque album dedicati al<br />
tema del Natale a partire dal 2001, in sostanza una collezione di cover (da<br />
Silent Night a O Come O Come Emmanuel) e inediti a tema per un totale di<br />
42 pezzi in una confezione deliziosamente ipertrofica (stickers, illustrazioni,<br />
piccoli racconti scritti dallo stesso <strong>Sufjan</strong>, video e persino un saggio natalizio<br />
ad opera dello scrittore Rick Moody. Un'operazione un po' alla Phil<br />
Spector in nuce, una chicca per fan ma anche il necessario complemento<br />
dell'aspetto traditional-kitch - con aspersioni mistiche - del Nostro, la cui<br />
meditazione sul lato spirituale del pop è più sostanza che forma, vera e<br />
propria bussola poetica.<br />
Tuttavia, per i successivi tre anni non si sentirà parlare di <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s<br />
se non in occasione di qualche collaborazione di sponda (con la Danielson<br />
Familie, Rosie Thomas, The National e DM Stith tra gli altri) e per certe<br />
dichiarazioni concernenti la crisi d'ispirazione che lo avrebbe colto. Occorre<br />
attendere il 2009 per un nuovo album a suo nome, e si tratterà di un lavoro<br />
svolto su commissione per la Brooklyn Academy of Music. The BQE (Asthmatic<br />
Kitty Records, 6.0/10) è una faccenda di pop orchestrale che travalica<br />
se stessa, un esercizio di stile che cade nel pacchiano giusto un attimo prima<br />
di affascinare, un po' il nipotino ironico e arty di Atom Heart Mother.<br />
Possibile vederlo come un pretesto per tornare a fare musica, perché forse<br />
senza un pretesto così pervadente sarebbe stato impossibile, e comunque<br />
pur sempre tentando di battere nuove strade, qualcosa di molto diverso,<br />
che segnasse uno strappo da Illinois. Ma <strong>Sufjan</strong> è chiaramente fuori contesto,<br />
gioca con gli elementi di un gioco più grande di lui, azzeccando tuttavia<br />
una chiave creativa quasi goliardica che non spiace. Da qui al presente<br />
è quasi un attimo.<br />
L'ispirazione lo coglie di nuovo di lì a poco, tanto che il 2010 vedrà due<br />
uscite del Nostro: quel All Delighted People EP (Asthmatic Kitty Records,<br />
7.4/10) che in realtà copre un'ora di musica per otto tracce a rotta di collo in<br />
un immaginario seventies condito di sostanze psicotrope, tremori esistenzial/sentimentali,<br />
incenso e timor d'apocalisse; infine l'ipertrofico The Age<br />
Of Adz (Asthmatic Kitty Records, 7.4/10), praticamente un frullato generoso<br />
del <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s passato e presente con qualche soncertante prospettiva<br />
di futuro. Entrambi i lavori sembrano suggellare quel senso di missione<br />
cantautorale che già abbiamo delineato, ovvero adeguata alle istanze del<br />
decennio che va a concudersi. Anni (zero) che hanno messo il musicista<br />
con le spalle al muro, hanno squadernato tutti i trucchi, determinando un<br />
disincanto totale ma anche un ventaglio formidabile di possibilità.<br />
<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s fa di se stesso un cantautore onnicomprensivo, pratica<br />
una versatilità incontenibile (stilistica e poetica) perché - suggerisce - non<br />
gli è possibile fare altrimenti. E' il testimone di un'epoca, della sua abbondanza<br />
tragica e sterile, dell'accalcarsi di segni come scorie di una comunicazione<br />
in cortocircuito, dell'intersecarsi slevaggio di testimonianze e<br />
progetti. Un'epoca incapace di un discorso lineare, condannata alla logica<br />
della rete in ogni aspetto del suo procedere. E' questa insomma l'epoca<br />
della grande alluvione, ed il cantautore è una torre di guardia tra i flutti.<br />
Si aggrappa al suolo (alla propria terra) con la foza disperata della sensibilità,<br />
a quel che resta della fede e dell'amore per il passato (la Storia),<br />
all'ironia perché la battaglia si gioca pur sempre in una dimensione che<br />
non fa morti né feriti (non tangibili, almeno). Ma non può fare a meno di<br />
venire scosso e spazzato dalla corrente. In un certo senso lo desidera, perché<br />
vi riconosce il proprio destino. Ed è uno spettacolo (nuovamente) meraviglioso.<br />
30 31
napoli<br />
caput<br />
mundi<br />
Dr o p ou t<br />
Tre rizomatiche figure dell'avant tra<br />
interconnessioni, pars destruens e<br />
Napoli, tangente invisibile.<br />
Testo: Salvatore Borrelli<br />
—Weltraum,<br />
A Spirale,<br />
Zero Centigrade—<br />
C ittà scissionista, Napoli. Caotica, affamata, zeppa di contraddizioni<br />
al punto da essere essa stessa sinfonia noise, psicotropi geografica.<br />
Napoli non è metropoli, quanto grumo di vicoli, stradine, cunicoli differenziati<br />
con ognuno una sua musica interna: quella delle sovvenzioni<br />
spropositate per Piedigrotta, le suburbane Piazza Mercato, Forcella, Sanità,<br />
con le feste di piazza per banditi locali su banchetti neo-neomelodici,<br />
fino alle inaccessibili sfilate di posillipini del Teatro Sancarlo, avamposto<br />
e ultima rappresentazione del baronato monarchico.<br />
Napoli è tutta riversa nelle sue antichissime distinzioni vassallatiche<br />
tra zona alta e zona bassa. Città parassitaria divisa tra San Gennaro, Pulcinella<br />
e pizzerie che spuntano come funghi. Luciano Cilio, ed erano gli<br />
32 33
anni Ottanta, già sentiva la morte in atto: il suo suicidio fu la resa del dialogo.<br />
Tuttavia l’anarchia è portatrice di libertà, di caos. Di desiderio rizomatico,<br />
trasfigurativo, performativo, che sono i tre elementi principali di questa<br />
microfetta avant, che, passando a Napoli, potrebbe capitarvi di vedere.<br />
Sia chiaro: Napoli e il suo immaginario sociale hanno poco da spartire<br />
con questa particolare fenomenologia della disconnessione avant, tuttavia<br />
non è un caso che si sia formato un groviglio di collaborazioni, partecipazioni,<br />
microfestival, tutti all’interno di questa città-inferno. L’esiguo numero<br />
di locali adatti e la pressapochezza gestionale hanno fatto in modo che il<br />
discorso avant si focalizzasse in due piccoli ma importanti luoghi-crocevia:<br />
Oblomova, ovvero ex-Demos, storico nei dischi, e Perditempo, libreriabar.<br />
Non si tratta di posti pensati per concertare quanto i soli due luoghi ad<br />
avere accolto scelte di musica altra. Con un’ospitalità che non raggiunge le<br />
60 unità, hanno fornito uno spazio affinchè artisti di diversa estrazione potessero<br />
organizzarsi pubblicamente. Perditempo ed Oblomova non hanno<br />
condiviso il formato dell’associazione culturale, né quello più sinistro delle<br />
sovvenzioni pubbliche. I concerti, da queste parti, si organizzano gratis<br />
con piccoli rimborsi per i musicisti coinvolti. Da questa de-localizzazione<br />
canonica degli spazi sonori agibili, è nata, prima sotterraneamente, poi in<br />
maniera sempre più collaborativa, una piccola scena musicale, che ruota<br />
intorno agli A Spirale. Tutto si muove sotto il segno di poche persone, che<br />
nemmeno si considerano addette ai lavori, che se organizzano qualcosa<br />
lo fanno per pura filantropia: lo staff di Perditempo (Luca Marini, particolarmente),<br />
Fabio e Claire di Oblomova, Francesco “Limone”Tignola che<br />
tiene in vita edizioni Ammagar e il suo gruppo Ne Travaillez Jamais. E poi i<br />
gruppi stessi, ovvero gli A Spirale, i Weltraum, e, in maniera differente, ma<br />
altrettanto incisiva, Zero Centigrade.<br />
a spirale<br />
A Spirale nascono dalle ceneri di Missselfdestrrruction, nel 2002,<br />
ma è di due anni più tardi la formazione a tre, composta da Argenziano,<br />
Gabola, Spazzaferro, chitarra, fiati, spazzole. Da quel momento, sia le<br />
collaborazioni (Bellatalla, Chadbourne, Taxonomy, Psychofagist, Cris<br />
X,Anatrofobia, Jealousy Party, etc..), sia i tentativi di collettivi live, da<br />
Tempia ed @ltera, sono state innumerevoli. E’ il gruppo stesso a spiegarci in<br />
concatenamenti successivi i propri obiettivi: “A Spirale non è una pluralità, è<br />
un morbo, un’ansia, una psicosi, qualcosa che si getta continuamente nell’indifferenziato,<br />
fa musica a partire dal non suonare, dal blocco, dall’incapacità.<br />
Allo stesso tempo nella sua musica non c’è niente che rappresenti tutto questo,<br />
una pratica che è un continuo eccedersi, un evitarsi, evita lo strumento, evita<br />
la musicalità, evita l’arte, evita di pensare a come rappresentarsi. E' una goffa<br />
e pesante relazione, un’intesa mancata, un disturbo autistico ben nascosto,<br />
un discorso muto ma allo stesso tempo un rimorso, una rabbia, una strategia<br />
che uccide, un piano d’attacco, una bomba che lentamente diffonde il suo gas<br />
mortale; un’incapacità agli affetti ma una morbosità al contatto fisico, un raziocinio<br />
snervante, un radere al suolo un territorio, un blocco massivo ad un<br />
piano di sviluppo…”.<br />
Né loro, né le diverse trasfigurazioni interne che hanno dato vita a formazioni<br />
onomatopeiche con intrecci sempre variegati - Asp, ASp/SEC_,<br />
Aspec(t), Tuner+ (tra i due chitarristi Argenziano e Taiuti dei Zero Centigrade),<br />
Strongly Imploded, Agaspastik, Razoj - amano sentir parlare di<br />
napoletanità o scene: “Non so cosa intendi per scena; l’unica cosa che vedo è<br />
un campo di battaglia e quando penso alla gente che si muove in queste fila mi<br />
viene da associarla al MEND in Nigeria, gruppi di guerriglia diffusi, una “leadership<br />
sfuggente”quasi assente. Si agisce nell’ombra, non solo per sottrarsi a una<br />
repressione. Un continuo smarcarsi, un qualcosa di fluido, inclusivo, non proprio<br />
una clandestinità/underground, passa ovunque: città, provincia, centri,<br />
periferia… Si costruiscono pratiche e le si smantellano, si fabbricano armi, le si<br />
fanno esplodere, la cosa più bella è che faccio difficoltà a pensare che questo<br />
cosa possa avere un centro in Napoli; le relazioni, da qui, sono intessute tutte<br />
al fuori. Non ci sono più mappature ma linee di fuga, campi vettoriali, direzioni,<br />
intensità, geografie dinamiche, aggregati di forze, distribuzioni di potenziali.<br />
Oblomova e Perditempo, ma anche il BlackHouseBlues di Avellino, sono<br />
i luoghi in cui si pianificano e avvengono le più efferate battaglie: le bombe si<br />
costruiscono lì. Non è Napoli. Sono i luoghi che hanno assicurato, nel deserto<br />
del reale, nella difficoltà di stringere relazioni al di fuori dalla loro stessa mercificazione,<br />
un modo per far emergere le affinità non solo di tipo musicale”.<br />
Dei dischi pubblicati finora, tra collaborazioni, cd-r ed ufficiali, si supera<br />
la dozzina. Fino all’ultimo importante cofanetto Viande su Die Schachtel,<br />
che racchiude 10 dischi, uno per improvvisatore, e che dovrebbe rappresentare<br />
ciò che di più valido c’è nella musica impro italiana. “A parte il primo<br />
disco, un vagito neonatale, il percorso che unisce Gariga, Agaspastik e porta<br />
fino all’imminente Viande non ha la linearità che sembra emergere dallo<br />
scandire delle uscite; alcuni pezzi di Agaspastik sono nati prima di Gariga, ma<br />
per la loro natura meno improvvisativa hanno avuto bisogno di ripetute “scremature”.<br />
Di de-arrangiamenti, potremmo dire. I due lavori si sono sviluppati<br />
contemporaneamente, per poi condensarsi poi in due uscite molto diverse tra<br />
di loro, una più spinosa, urticante, lirica a modo nostro, l’altra più scura e di<br />
impatto”.<br />
Gli A Spirale sono noti ai più, e con banale analogia, come la pars de-<br />
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struens degli Zu. Eppure siamo su altre coordinate: flussi amniotico-cerebrali<br />
che slittano tra momenti di raccoglimento energetico come nella<br />
AMM, e talvolta in vere e proprie sfuriate ossessive. Si è spesso parlato di<br />
avanguardie storiche per desrivere le loro piste ferrate, ma dell’avanguardia<br />
hanno solo il pensiero di un limite. Altrettanto poco spartiscono col freejazz,<br />
almeno con quello canonico/accademico tutto centrato sul prestigio<br />
tecnico e la velocità. Piuttosto gli A Spirale potrebbero somigliare ad un<br />
trait d’union tra due teorie opposte ma affini: minimalismo (inteso come<br />
ricerca del vuoto) e decostruzionismo (inteso come de-programmazione).<br />
“Ascoltiamo veramente tanta musica, crediamo ci abbia influenzata tutta,<br />
dall’impro radicale inglese - Evan Parker, Derek Bailey, AMM, Jack Wrigh - a<br />
certe cose dell’impro australiana - Anthony Pateras, Jim Denley -, da certa<br />
scena free form neozelandese - Bruce Russel e gli A Handfull of Dust - al noise<br />
“aktionista” svizzero - Rudolf Eb.er, Dave Phillips, Joke Lanz -, ai Voice<br />
Crack, Gunter Muller, NMPERIGN, Borbetomagus, Karkowsky. Gente che<br />
ci ha fatto pensare che con la musica si può fare tutto, una rivoluzione, un massacro,<br />
un’operazione chirurgica, cambiare le geografie…”.<br />
Una musica fatta di micro-interventi senza anestesia, tessuto per tessuto,<br />
quasi si trattasse di origami o di chimiche allo stato grezzo che s’infrangono<br />
su specchi galoppanti. Materiali stellari di termo durata, di collassi<br />
interpaziali e rigurgiti e rimbrottamenti. Vederli dal vivo è uno spettacolo:<br />
ognuno dietro lo strumento dell’altro scompare per riapparire, quasi si trattasse<br />
di un nascondino, in cui batteria, chitarra e sax preannunciano delle<br />
metafore di vuoto, ed imitano fraseggi incomparabili col flusso amniotico a<br />
cui siamo abituati dal jazz-avanguardia masticato fino ai nostri giorni.<br />
Dei Weltraum, come degli Endorgan, segnalammo i corrispettivi esordi<br />
(per quanto i primi avessero inciso un 3” che però andava in tutt’altra direzione).<br />
Nel frattempo, le attività collaterali di _Sec con Aspec(t) (insieme<br />
agli A Spirale) e Strongly Imploded, con una fitta attività live per tutta la<br />
penisola, hanno dilatato ulteriormente il logo della loro causa: il Rizoma. Se<br />
c’è un termine programmatico per i materiali qui presi in considerazione è<br />
proprio quello di Deleuze & Guattari: una sorta di rizomatica sonora. Rizoma<br />
distillato nella Napoli della resistenza invisibile, quella che non ha dialetti<br />
quanto una lingua minoritaria che sbuca come un vulcano e le sue lave<br />
mobili, i suoi lapilli scompaginati. La musica dei Weltraum, appaiata attorno<br />
ad un plasma germinativo, vibra e crea macchine illogiche, come i suoi tre<br />
strumentisti, tutti discombaciati nella forza triangolare di distruggere i loro<br />
strumenti per decodificarli con istanze decomponibili, labili. “Weltraum è<br />
una parola tedesca che significa spazio siderale, cosmo. Come puoi facilmente<br />
immaginare non è il suo significato a rappresentarci in alcun modo. Un nome<br />
si sceglie per molti motivi, spesso per caso o perché ha un suono interessante,<br />
ma dopo poco ciò che rimane è soltanto la sua referenzialità, l’indicazione di<br />
qualcosa che accade”.<br />
La chitarra di P’ex è un oggetto plastico, tra delays, oscillazioni occulte e<br />
corde residuate, così come la para-elettronica cerebrale di _Sec. Se non è un<br />
Rizoma è William Burroughs, se non sono macchine sono miniature dentro<br />
macrocosmi per uno spassionato Abracadabra. Il sound di Weltraum, che in<br />
linea genealogica potrebbe essere l’ereditiere dei This Heat, o forse una versione<br />
rock di Hotel Parallel di Fennesz, è studiato con sconvolgente beltà<br />
per fare buchi nel terreno, e fuoriuscire dall’altra parte dei subwoofer. Più che<br />
gesticolare attorno alla materia improvvisativa radicale, erompe verso la di-<br />
weltraum<br />
mensione elettroacustica. “Ascoltando il disco si direbbe che non c’è quasi per<br />
niente. In realtà l’avvicinamento all’elettroacustica e a tutto il vastissimo mondo<br />
di sperimentatori e improvvisatori in quel campo ha avuto un’importanza decisiva<br />
per il disco. E’ attraverso queste esperienze che si è consolidato in noi l’interesse<br />
per il suono e il timbro, piuttosto che per l’armonia; per il ritmo e il taglio, piuttosto<br />
che per la melodia. In una parola, per la materia piuttosto che per il concetto.<br />
La materia non ha rimandi, non ha significati reconditi, non ha interpretazione.<br />
Non è nient’altro che quello che è, quello che ti tocca o ti ferisce. Sensazione e<br />
nient’altro. L’improvvisazione, comunque, per noi è un punto fermo. L’interesse<br />
nasce dall’ascolto e dall’amore per alcuni musicisti del free jazz come Albert Ayler,<br />
Sun Ra, Giuseppi Logan, ecc. L’improvvisazione non è, non esiste, in quanto<br />
cambia in continuazione e questa è la sua condizione assoluta. I Weltraum<br />
sono il miscuglio di una sensibilità industriale (Swans, Godflesh, Techno Animal,<br />
This Heat), di un fascino rock o math-rock (Don Caballero, Laddio Bolocko)<br />
e di una pratica noise e improvvisativa (Sightings, Moha, Starfuckers, Lasse<br />
Mahraug, Otomo Yoshide)”. Una versione poco italiana e molto giapponese<br />
(gli Endorgan sono assai similari a Merzbow) di una elettroacustica-postrock<br />
dove pedali, computer e batteria trovano un accordo come in pochi e<br />
rari casi. “In "Sy" c'è molto ferro: barre metalliche con piezoelettrico, lattine, campane,<br />
ferraglia in genere. La chitarra è spesso preparata con inserimenti di molle<br />
e altri oggetti tra le corde. La batteria ha due timpani. L'elettronica è un ibrido di<br />
analogico e digitale: il sintetizzatore analogico è spesso processato attraverso il<br />
computer, e l'uso "suonato" di campioni e manipolazioni dà al tutto un'impronta<br />
molto noise e materica”.<br />
Due esordi profondamente alienanti, dall’impianto ferroso e vulcanico,<br />
che si smaterializzano su cristalli e orientamenti incerti, ribadendo quell’in-<br />
36 37
quieto equilibrio tra materia ed antimateria. Non rock quanto microorganismi<br />
autoriproduttivi, particelle di DNA, direzioni che si sbranano lungo il<br />
tragitto che sembra un concorde impazzito per una guerra futura, un’irruzione<br />
elettrostatica, giocata tutta sul modo in cui gli strumenti smettono<br />
di suonare come li conosciamo e diventano qualcosa di flessibile, amorfo.<br />
“Similitudini molte: siamo io e P’ex, ossia due terzi dei Weltraum, abbiamo una<br />
consapevolezza abbastanza forte del nostro percorso musicale e la riportiamo<br />
in entrambi i progetti. Differenze evidenti: manca la batteria, c’è molta percussione<br />
elettronica rigorosamente suonata live e molto noise di quello sporco, i<br />
pezzi sono molto più basati sull’improvvisazione. Sy è il frutto di più di due anni<br />
di lavoro. La sua realizzazione è il prodotto di un lungo processo di maturazione<br />
e di sperimentazione, dove hanno influito molto sia le precedente esperienze,<br />
sia i nuovi incontri musicali e personali. La decisione di aprire un’etichetta<br />
nasce dall’esigenza di pubblicare Sy e di farlo esattamente come volevamo noi,<br />
curando ogni singolo passaggio della produzione, dalla registrazione, al mixaggio,<br />
al packaging, alla distribuzione. Noi non facciamo dischi per vendere o<br />
per fare soldi, ma il disco è tutt’uno con la nostra attività di musicisti, ci aiuta a<br />
entrare in contatto con altre persone, a instaurare relazioni, a trovare dei concerti.<br />
Non avrebbe senso che qualcuno si occupasse di questo al posto nostro”.<br />
Tonino Taiuti e Vincenzo De Luce, in arte Zero Centigrade, sono una di<br />
quelle constellazioni di difficile collocazione. Prima che musicisti, si presentano<br />
come accaniti ascoltatori e collezionisti di musiche altre, e l’approdo<br />
al tardivo esordio è avvenuto in un’età in cui si è soliti considerare la musica<br />
un'esperienza lontana e superata. “Zero Centigrade è un duo acustico nato<br />
per sperimentare con chitarra e tromba, suoni e rumori che a tratti avessero dei<br />
passaggi armonici quasi a sfiorare la forma canzone. Una musica impossibile<br />
nella sua semplicità: corde sfiorate, stridori atonali, contrappunti frastagliati<br />
e timbri di una tromba acida, uno sbuffo tanto umano quanto animale. Zero<br />
Centigrade nasce da una proposta di Vincenzo, ma anni prima avevo portato in<br />
teatro uno spettacolo che si chiamava Zero e che completai, successivamente,<br />
con altri due lavori che s’intitolavano “Tò con Zero” e “Zerovatt”, tutti scritti per<br />
me da Antonio Fiore. Dietro il nostro moniker non c’è nessun riferimento particolare.<br />
A zero gradi centigradi, l’acqua ghiaccia, diventa immobile generando<br />
forme affascinanti e mutevoli. Generalmente all’immobilità non si associa mai<br />
un atto creativo e questa idea mi intrigava” Anche la natura Napoli-centrica è<br />
più interiore, basata com'è sulla musicalità dei rari interventi vocali di Taiuti:<br />
“Innanzitutto da un’esigenza personale e poi dalla necessità di avere del materiale<br />
da poter far ascoltare agli amici, in quanto siamo due persone fuori da giri<br />
organizzativi e suoniamo raramente dal vivo. Hanno entrambi un’atmosfera<br />
molto “live”, un suono ruvido e saturo e la cosa ci piace”.<br />
Il Taiuti è un attore teatrale e cinematografico (Morte di un matematico<br />
napoletano, Rasoi, I Vesuviani), sceneggiatore (suo lo script di Polvere di<br />
Napoli di Antonio Capuano) e rappresenta quella Napoletanità che non<br />
ritroverete mai e poi mai in nessuna volgarizzazione propagandistica o<br />
pubblicitaria di Napoli. Il De Duce è architetto, e ha imbracciato la tromba,<br />
nella stessa maniera con cui di solito un ateo, improvvisamente, decide di<br />
diventare fervente cattolico. “Napoli è una maledetta città ma è anche una<br />
maledetta fonte d’ispirazione. D’altronde, quale artista non vorrebbe vivere a<br />
Napoli? C’è un rapporto di odio amore tra noi e lei. Vorresti scappare ed invece<br />
resti, trattenuto da una mortificata bellezza. Se si pensa solo alla sua ricchezza<br />
letteraria, quella favolistica del Basile, il lirismo dell’antica canzone, la drammaturgia<br />
di Viviani, Eduardo ecc…E non è un caso se, attualmente, a Napoli<br />
c’è una delle scene “impro” più vive ed interessanti d’Italia”.<br />
Ciò che separa Mississipi John Hurt o Robert Johnson dai Zero Centigrade,<br />
più che un secolo passato, è forse Napoli. Se certe musiche dell’anima<br />
fossero partite qui, in una città in bilico tra frammentazione e pienezza,<br />
brutalità e poesia, non si sarebbero distanziate troppo dall’essere delle forme<br />
sonore così complesse, contraddittorie eppure così nudamente semplici.<br />
Non a caso, quella che chiamiamo Pre-War Folk Music è l’epicentro strutturale<br />
di un casuale e stranissimo modo d’inventare il blues, di far parlare<br />
l’animo, senza che tecnicismi o teorie subentrassero nel suono.<br />
I Zero Centigrade partono quasi da zero in un limbo assai dilatato, ma<br />
profondamente similare, che collega l’avant al blues. Non si considerano<br />
musicisti, non si presentano come intenzionati a costruire discografie perfette,<br />
ma semplicemente estendono i vuoti del loro lavoro, gli spazi architettonici<br />
vuoti e quelli teatrali, ancora più tombali, in un suono dall'ostica<br />
praticabilità. “Abbiamo un’idea di improvvisazione abbastanza personale,<br />
non legata né alla classica jam, né all’improvvisazione radicale alla AMM. L’improvvisazione<br />
per noi è un punto fermo. L’interesse per l’improvvisazione nasce<br />
dall’ascolto e dall’amore per alcuni musicisti del free jazz come Albert Ayler,<br />
Sun Ra, Giuseppi Logan, ecc. L’improvvisazione non è, non esiste, in quanto<br />
cambia in continuazione e questa è la sua condizione assoluto. Il vuoto in teatro<br />
è l’oscuro oggetto del desidero. Ci vuole un vuoto per riempirlo in un pieno,<br />
bisogna sospendere il tragico e far nascere la causa sul nulla, sul vuoto. Il vuoto<br />
è la rappresentazione del cosmo. Noi ci nutriamo di luce e di buio, come di suono<br />
e di silenzio, il vuoto serve nel teatro come nella musica per parlare di un al<br />
di là, o un al di qua. Il vuoto è qualcosa di molto soggettivo, acquista senso solo<br />
in relazione a colui che lo percepisce. Il vuoto, tra le sue tante accezioni, può<br />
essere inteso anche come risultato di un lavoro di sottrazione, di scavo. Uno<br />
scavo che in musica si traduce nella ricerca di semplicità che richiede grande<br />
attenzione e fatica”<br />
A differenza di tutta la scena avantgarde, amano solcare la differenza<br />
prediligendo effetti poco speciali, ovvero gli strumenti (tromba e chitarra)<br />
nudi e crudi, come madre natura li ha inventati. Del blues c’è il pathos, e<br />
del minimalismo c’è il mare magma della ricerca sonora più estrema. E poi<br />
troverete l’harsh-noise (fatto senza pedali), la microtimbrica di fiati di Nmperign,<br />
i fraseggi nostalgici di Loren Connors, il no-input–signal di Sachiko<br />
M, l’aleatoria di Tetuzi Akiyama. Su tutto aleggia il teatro dell’assurdo,<br />
dove non sai mai quel che accadrà. Tra l'altro è appena fresco di stampa<br />
il loro terzo lavoro, licenziato dall'italiana Ripples, insieme al giapponese<br />
Former_Airline, disco di sbalzi dinamici, ossessivo, che ricorda i primi timidi<br />
tentativi di associare la freddezza sferica dell’elettronica modulare del<br />
Giapponese, con le criptiche conversazioni duettate dei Zero Centigrade.<br />
Napoli è un crocevia, il crocevia. Dentro ogni crocevia c'è la fretta del<br />
movimento, l'oscillazione del viaggio. L'Avant ai nostri giorni è un porto<br />
franco, ha più bisogno di velocità e forze centrifughe che di luoghi solidi.<br />
La ricerca in Italia trova qui un luogo baricentrico, ma anche una via di fuga<br />
da cui diramarsi come un rizoma, senza creare alberi, ma solo connessione,<br />
luce e vita?<br />
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Recensioni — cd&lp<br />
AA. VV. - fünf (oSTguT Ton, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: ho u s e, Te c h n o<br />
La Ostgut Ton, è la label personale del giro Berghain/<br />
Panorama Bar, un club berlinese che sta facendo sempre<br />
di più sentire la sua presenza (e potenza) nel panorama<br />
techno e house europeo. La riprova è in queste<br />
fascinose tracce contenute in un doppio cd celebrativo<br />
compilato per i primi cinque anni di attività del locale.<br />
Protagonisti i dj resident e altri personaggi UK di tutto<br />
rispetto quali Luke Slater, Emika e il noto SCB aka<br />
Scuba (trasferitosi nella capitale da circa un anno) tutti<br />
impegnati a comporre tracce ad hoc per la compila.<br />
L'interessante espediente era che ogni brano doveva<br />
partire da - e magari costruirsi solamente attorno a -<br />
field recording catturati nel locale (una vecchia centrale<br />
elettrica).<br />
Il risultato è affascinante. Un affresco post-Berlino con<br />
richiami all’industrial e al post-punk storici che ogni<br />
DJ ha declinato in uno spettro che va dai clangori Einsturzende<br />
ai grigiori Cabaret Voltaire, passando naturalmente<br />
per l’epopea dei Throbbing Gristle, Chris e<br />
Cosey.<br />
Beninteso, l’approccio ha comunque in sè il nerbo<br />
technoide Ostgut, e giusto un pizzico di house, magari<br />
caratterizzato dalla minimal+groove al ralenti che<br />
ricorda il recente esordio di Magda (From The Fallen<br />
Page), come accade nella splendida Down Moment del<br />
citato progetto techno di Scuba (senz’altro uno dei killer<br />
beat di Fünf), oppure nel thriller da sottomarino del<br />
fresco di firma Ryan Elliott, Abatis. In più innumerevoli<br />
flavours: prezioso il contributo Marcel Fengler che al<br />
Berghain è uno dei dj di punta: Shiraz è un incubo deep<br />
su cassa morse, lontane visioni ardkore e un frastaglio<br />
ritmico decisamente tech (quasi una versione auf Berlin<br />
degli Autechre); egregio Daybreak con il groove<br />
house d’antan à la Omniverse calato attorno alla cassa<br />
4 e claps old skool.<br />
Buoni anche coloro che si sono maggiormente attenuti<br />
ai field recording per creare le loro tracce, come Marcel<br />
Dettmann la cui Shelter è un incubo Gristle in piena<br />
regola. Sul lato house c’è, invece, Murat Tepeli con Elif<br />
Biçer, tra Roland e groove ’90 stretchati; e la Chicago al<br />
distorsore di Soundstream con Wenn Meine Mutti Wüs-<br />
ste; mentre sulla techno più vicina alla Minus troviamo<br />
Boris con Rem, degna del miglior Plastikman (ma senza<br />
sbotto), e l’attacco di Cassy in Never Give Up A Mood<br />
Swing (che poi virerà house).<br />
La conferma dell’altissima qualità della Ostgut Ton.<br />
Una compila indispensabile anche per tutti gli amanti<br />
del cielo sopra Berlino.<br />
(7.2/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
AA. VV./AppArAT - dj KicKS (!K7, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: el e T T r o n i c a, d a n c e<br />
Torna pesissimo Sasha Ring sul nuovo corso del DJ<br />
Kicks. E sforna un mix di tutto rispetto dal flavor multidisciplinare,<br />
come già le sue collaborazioni con Ellen<br />
Allien e Moderat ci avevano testimoniato. Che il ragazzo<br />
scapigliato possa fare di tutto con tutto l’avevamo<br />
già capito da mo’: il suono da club nel suo show<br />
sull’etichetta berlinese la fa da padrone, ma viene modulato<br />
con crescendi di intensità che addolciscono la<br />
pillola anche per i non addetti.<br />
Maestoso nell’incipit (stupendo il pezzo di 69), diretto<br />
nel proseguio con le malinconie Telefon Tel Aviv,<br />
squadrato e ossessivo al punto giusto (Luke Abbot in<br />
visibilio Basic Channel), ossessivo in salsa now (Martyn<br />
e il remix di Four Tet per i Born Ruffians), tribalista con<br />
l’ausilio di Ramadanman, ambientale su Thom Yorke e<br />
clubbissimo nel suo inedito Sayulita in esclusiva per la<br />
compila.<br />
L’esito conferma la dichiarazione rilasciata alla stampa:<br />
"Ho bisogno di mixare cose differenti per mantenermi<br />
motivato". Senza stile e per questo con più stile degli<br />
altri. Passaggi morbidi e indolori per uno dei migliori<br />
personaggi che distillano dolcezza dal tunel oscuro<br />
della techno (vedi la stupenda chiusa finale con Tim<br />
Hecker) che rimanda comunque ad una matrice sottostante<br />
dreamy, da sempre caratteristica del ragazzo<br />
apparato. Il comeback della melodia: lacrime e pelle<br />
d’oca per noi.<br />
(7.2/10)<br />
MArco BrAggion<br />
highlight<br />
AfrirAMpo - We Are uchu on Ko (rocK AcTion, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: j a p a p s y c h n o i s e<br />
Se la madre terra vorrà, o il cielo, o chi per essi, suoneranno ancora insieme. Così dicono le Afrirampo,<br />
dopo aver annunciato lo scioglimento, e pubblicato il testamento, oggi a disposizione, dopo sei mesi,<br />
anche alle nostre coordinate sul geoide. A noi non rimane che ascoltare il sapore energico/nostalgico<br />
di We Are Uchu On Ko, capitolo finale del duo japanoisepunk, meteora o sottobosco costante dal 2002<br />
a oggi.<br />
Il pensiero va ovviamente a OOIOO, ma da Occidente si rischia spesso di non godersi le sottigliezze.<br />
E We Are Uchu On Ko è un doppio album pieno di omaggi al cultore rock, di quello che ama tanto<br />
i Grateful Dead quanto i Boredoms. Strepitoso il secondo CD, cavalcata dietro cavalcata, calumè<br />
sopra calumè, freccia dietro freccia di un arco indiano che semplicemente<br />
diremmo acid psych (Sunwave Dance). Hoshi No Uta, divisa in cinque<br />
tracce, è una composizione psichedelica che articola pause e ripartenze,<br />
la tradizione dei Red Crayola e quella dei rumoristi giapponesi. E, ancora,<br />
rarefazioni acide e acidissime galoppate, che vanno a lambire i Lightning<br />
Bolt, pur mantenendo come universo di riferimento il rock americano degli<br />
anni Sessanta, il dolce calore pastorale che si apre all’alba di una notte<br />
piena di funghi.<br />
Sore Ga Afrirampo, tornando al primo CD, ha una chitarra garage esplicita,<br />
ma di fatto la stessa linea d’onda. Più catchy dell’altra metà del cielo di We Are Uchu Ok No (ma sempre<br />
meno degli altri album), le sette tracce del disco uno mantengono un respiro che cortocircuita un tutto<br />
tondo Sixties USA - MC5 compresi (Tou Zai Nan Boku) - con i caratteri del Sol Levante. Paradigmatica<br />
Umi, capolavoro a parer di chi scrive, fatto di trance, porte della percezione, ma anche africanismo<br />
fake - certo, le Nostre sono perdonate, memori dell’esperienza camerunense, a stretto contatto con<br />
tribù pigmee - e chiusura sardo-zen. Altrettanto esemplare Egolo Island, zappiana ed eccessivamente<br />
nipponica, ma garagissima nei riff e nelle strutture che si susseguono; praticamente l’equivalente di<br />
un disco della In The Red. Ecco una buona descrizione di We Are Uchu On Ko: un doppio concentrato<br />
qualiquantitativo di brani che potrebbero fare ognuno da esempio per altrettanti dischi. Speriamo<br />
nella madre terra.<br />
(7.4/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
AA. VV./friendly fireS - Bugged ouT!<br />
preSenTS SucK My decK Mixed By friendly<br />
fireS (!K7, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p-f u n k h o u s e<br />
I principini del crossover indie/dancefloor si misurano<br />
con un mix eclettico su Bugged Out! che sorprende per<br />
lo stile sopraffino dell’innesto. Non si sfora nel baraccone<br />
truzzo, signori: qui house è sinonimo di chicness<br />
che titilla i timpani dei clubbers più esigenti, ma anche<br />
di chi non ha più l’età per sopportare gli afterhours del<br />
cornetto e cappuccio all’alba e si consola con del sano<br />
savoir faire speziato rock.<br />
Il bilanciatissimo trattato dell’arte di mixare dei tre ragazzi<br />
di St Albans - nell’Hertfordshire inglese - va di<br />
lusso su coordinate prog (la stupenda rivisitazione di<br />
Aeroplane per Linsdtrøm & Christabelle), ossessioni<br />
40 41
deep (Rebotini), inni disco (la bella collaborazione giocattolosa<br />
con gli Azari & III da Toronto), il soul di The 2<br />
Bears, esplosioni al laser Novanta (BDI), tocchi che accennano<br />
al fidget (Boo Williams) e cantabilità dei sempre<br />
validi Phenomenal Handclap Band. Come a dire<br />
che si possono ancora coniugare i sapori del ritmo con<br />
un certo sentimento live, che smuove il sangue nelle<br />
vene e fa ballare anche senza l’ausilio di droghe più o<br />
meno pesanti.<br />
Una presa di posizione in sordina che piace per il dosaggio<br />
di elementi altri rispetto al mondo da club (la<br />
stupenda visione/sogno post-balearico di Tom Trago<br />
per dirne una). Regalate un’oretta del vostro prezioso<br />
tempo ai Friendly Fires. Non sia mai che poi anche a voi<br />
scatti il repeat in automatico. Contagioso e seducente.<br />
(7.2/10)<br />
MArco BrAggion<br />
AA. VV./gui BorATTo/Kreidler - differenT<br />
(Boxer, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: am b i e n T , d u b, T e c h n o<br />
La boxer recordings è un'etichetta di Colonia attiva dal<br />
2002 che si occupa, anche attraverso sotto marchi quali<br />
Kickboxer e Boxer Sports, di produzioni techno e minimal.<br />
Different è una compilation inedita che, già dal<br />
titolo, preannuncia una tracklist alternativa alla dance:<br />
tra le produzioni di molti giovani artisti che la label recluta<br />
costantemente (e alcuni nomi noti) troviamo produzioni<br />
ambient, world, down tempo e una manciata<br />
di pop song. In pratica, è una compila chill out ma con<br />
rigore e taglio krauto dove alla psichedelia si preferisce<br />
il taglio tech con ritmi esotico-etnici conditi da smalti e<br />
echi dub in gran spolvero.<br />
Ne viene un caleidoscopio elegante e risaputo per gli<br />
aficionados IDM: Patrick Chardronnet mescola Orb, predicatori<br />
Eno Byrne e Miles Davies (Seeing In The Dark), Extrawelt<br />
rimette in pista i primi Autechre (Yummi), Airbus<br />
Modular rallenta la deep e condisce con ricordi pop (Assembly<br />
Notegram), Stephan Hinz ripesca alcune atmosfere<br />
dei Tarwater (Dry Toast And Half A Grapefruit), mentre<br />
Matzak, con &lz, punta dritto al cantato r’n’b sempre su<br />
basi post-IDM (e questa volta umori Thom Yorke).<br />
Tra i guest famosi: Gui Boratto (deep techno girata<br />
Kraftwerk e eighties per Half Life) e Kreidler (l’etno seventies<br />
e gli attacchi chamber di Venusia) non a caso<br />
messi a inizio scaletta.<br />
Mettiamola così: potrebbe essere vista come l’equivalente<br />
di Nuggets per l’ambient tronica tedesca dei duemila.<br />
Nel bene e nel male. Eleganza soprattutto.<br />
(6.8/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
AdAM frAnKlin - i could Sleep for A<br />
ThouSAnd yeArS (Second MoTion recordS,<br />
SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o s T s h o e G a z e<br />
Album numero tre come solista per Adam Franklin,<br />
coadiuvato stavolta - anche nella ragione sociale -<br />
dalla propria live band Bolts Of Melody. Il chitarrista e<br />
cantante dei Swervedriver ed ex-Toshack Highway,<br />
insiste con la formula del non troppo convincente<br />
predecessore Spent Bullets ma coglie un punto di fusione<br />
più intenso e definito. Il languore onirico figlio<br />
dello shoegaze di ritorno e già debitore del mai troppo<br />
rimpianto Elliott Smith, si arricchisce oggi di torpori<br />
obliqui Big Star (conclamati in Carousel City, striscianti<br />
in She's Closer Than I've Ever Been) e più solenni inquietudini<br />
Tom Petty, mentre una rinnovata verve elettrica<br />
scomoda foschi scenari Jesus & Mary Chain e fregole<br />
Folk Implosion, spingendosi persino ad ammiccare<br />
l'impeto dei Sonic Youth più friendly (I'll Be Yr Mechanic).<br />
Manca un centro di gravità cui saldamente aggrapparsi,<br />
quindi non resta che cogliere al volo le canzoni che<br />
scorrono piuttosto gradevoli, cogliendo il climax con<br />
la trepida I Want You Right Now e riscattando una fin<br />
troppo brumosa Lord Help Me Jesus, I've Wasted A Soul<br />
(misticanza spacey, gospel e desertica) con lo spurgo<br />
power pop conclusivo di Take Me To My Leader.<br />
(6.8/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
AdMirAl rAdley - i heArT cAliforniA (The<br />
Ship, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: l o w-f i p o p<br />
Non che avessimo dubbi su chi, tra i "nonnetti" californiani,<br />
fosse il più dotato. A Jason Lytle lo scorso anno<br />
bastò la bellezza di Yours Truly, The Commuter per convincerci<br />
che, dopo lo scioglimento dei Grandaddy, ci<br />
fosse una vita oltre la semplice dignità. Frattanto, l’iperattivo<br />
ragazzo metteva in cantiere gli Admiral Radley<br />
con l’ex compagno di squadra Aaron Burtch e gli amici<br />
Aaron Espinoza e Ariana Murray degliEarlimart.<br />
Oggi, accantonato il rischio di recensire un lavoro intestato<br />
a Grandimart o Earlidaddy (quella l’idea originale...),<br />
l’ascolto invoglia dapprima al sorriso e poi induce<br />
a collocare il dischetto sotto la lettera "G".<br />
Poiché dove Lytle ricorda il passato prossimo - su tutto<br />
I Heart California, Lonesome Co. e il valzer cantato dalla<br />
Murray The Thread - riemerge la sognante melanconia<br />
che non abbiamo mai dimenticato negli anni. Miscela<br />
di Pavement ed E.L.O. con ombre di Guided By Voices<br />
ancora intatta, benché - com’è logico che sia - quel<br />
tot meno fresca; tuttavia, l’integrità artistica produce<br />
azzeccate variazioni di rotta come chitarre più del solito<br />
aspre in Red Curbs, una stratificata GNDN, l’articolato<br />
omaggio lennoniano Ending Of Me. Il problema è<br />
l’uscita dal seminato di un elettro-rock abborracciato<br />
(orrida I'm All Fucked On Beer; inutile Sunburn Kids) di<br />
cui avremmo fatto a meno. I fan avranno comunque di<br />
che dilettarsi: gli altri assaggino e chissà che il cuore<br />
non gli si sciolga nell’amarezza scintillante di Chingas<br />
In The West e I Left U Cuz I Luft U.<br />
(6.9/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
Alcool eTilico - Alcool eTilico (enzone<br />
recordS, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: r o c k d'a u T o r e<br />
Ci si lamenta spesso di quanto poco passi fra la nascita<br />
di un gruppo e la pubblicazione di un demo o di una<br />
prima uscita ufficiale. Però prendete l'esempio degli<br />
Alcool Etilico da Lipari: inizio nel 1996, diversi cambi<br />
di formazione, ora l'esordio. Dieci tracce di rock d'autore,<br />
arrangiate anonimamente quando non proprio<br />
male (certe scelte di suoni...), cantate con una pronuncia<br />
da strapaese e parecchie incertezze d'intonazione,<br />
dotate di liriche come spesso accade troppo ermetiche<br />
o autoreferenziali. Lì in mezzo da qualche parte nella<br />
landa sconfinata che separa i Marlene Kuntz dai Negramaro,<br />
con l'aggravante delle zavorre appena elencate.<br />
A metà tracklist Nala prova addirittura un mezzo<br />
tango e, a parte che sembra di sentire Le Vibrazioni, è<br />
la conferma di una specie di circolo vizioso tra inutilità<br />
e bruttezza.<br />
(4.8/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
AlVA noTo/BlixA BArgeld - MiMiKry<br />
(rASTer noTon de, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: e l e T T r o n i c a<br />
Il grido strozzato di Blixa Bargeld, tratto distintivo e<br />
tic linguistico del suo codice, usato come campione,<br />
materia su cui sviluppare layer elettronici e glitch. Così<br />
inizia Mimikry, attesissimo debutto sulla lunga durata<br />
della sigla ANBB: alzando la posta, con un quasi-manifesto<br />
programmatico, una dichiarazione di potenziale<br />
tra mr. Bargeld e mr. Nicolai.<br />
La iniziale Fall è in realtà una suite, così come la maggior<br />
parte dei brani. Nascono su alcuni temi e terminano su<br />
altri, lavorano di cesellature raffinate e trovano spesso<br />
un collante molto forte - e tensivo - nella percussività<br />
(Mimikry, o l’ipertensione e le extrasistole di Berghain),<br />
grande matrice ancestrale che bilancia l’algida preci-<br />
sione dell’elettronica e dei concretismi astratti di Alva<br />
e il borborigmo vocale di Blixa. Once Again riprende un<br />
processo ritmico traslato da Zeichnungen Des Patienten<br />
OT, su un refrain inedito per entrambi. Il suono è più<br />
sanguigno degli ultimi Einsturzende, e l’elettronica di<br />
Alva Noto si dimostra vivida, meno algida del previsto.<br />
Il più delle volte l’ascolto si teatralizza - e qui BB è decisivo<br />
- senza che questo sia sempre un bene. Ci si immagina<br />
la performatività della coppia, la presenza scenica<br />
di Bargeld, l’affilatissima elettronica di Carsten. Blixa si<br />
mette in gioco, tenta tutto lo spettro espressivo dei registri<br />
che la sua voce può produrre, e ce ne dà prova in<br />
I Wish I Was A Mole In The Ground (in versione estesa rispetto<br />
all’EP), peraltro infiorettata di mestiere da Noto,<br />
così come nei miagolii di Katze. Red Marut Handshake<br />
- mutuata anch’essa dall’EP che ha dato il via alle pubblicazioni<br />
congiunte del duo - se ne va con un down<br />
tempo accelerato e perturbato da elettroniche in chiaro<br />
e l’onnipresente para-declamazione del Bargeld.<br />
Bersteinzimmer (long version) colpisce con struggenti<br />
ambientazioni e atmosfere da canzone teutonico-mitteleuropea.<br />
Mimikry è un calendario di colpi da maestro, da parte<br />
di due posizioni tangenti ma non ancora sovrapposte.<br />
AN e BB sono due penne e due teste distinte, e questo<br />
rimane, così come il giudizio che avevamo dato al<br />
precedente EP, di cui questo album non è di fatto che<br />
un’estensione. Le aspettative create nei primi due minuti<br />
dell’album sono, se non ridimensionate, virate in<br />
attenzione alla statura, al mestiere, alla bravura dei<br />
comprimari. Bene così, ma a questo punto ci aspettiamo<br />
un passo in più<br />
(6.9/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
AMiinA - puzzle (AMiinAMuSiK, SeTTeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: ch a m b e r f o l k-r o c k<br />
A tre anni dal precedente long playing, Kurr, le quattro<br />
Amiina non sono più quattro ma una piccola comunità.<br />
Già un eppì in tiratura limitata aveva indicato il<br />
nuovo corso: un emancipato ensemble allargato a sei<br />
elementi dal sound più corposo, organico, variegato, e,<br />
se vogliamo, anche maggiormente rock.<br />
Con Birgir Jón Birgisson al desk, le islandesi hanno riavvolto<br />
il nastro post-rock tanto caro all’Islanda e sono<br />
ripartite daccapo, ridisegnando cioè il chamber folk<br />
degli esordi in una faccenda concreta di ragazzi (i due<br />
nuovi membri Vignir e Maggi) e ragazze raccolti attorno<br />
al focolare. Puzzle ci racconta così di viaggi con la<br />
42 43
mente, epopee (In The Sun), sapori giapponesi (Púsl),<br />
ovvie passeggiate con Mùm e Sigur Rós (Mambo), film<br />
in bianco e nero (Thoka) e a colori (Sicsak).<br />
Coordinate già note a chi aveva acquistato il citato EP<br />
del 2009 (Re Minore), caratterizzato però da tagli più<br />
elettronici e dark rispetto a Ásinn, Púsl e Sicsak. In Puzzle<br />
domina l'approccio suonato, la casa è più grande e le ragazze<br />
intime e sincere come ce le ricordavamo. Le voglie<br />
Mogwai di un brano come Sicsak aprono poi altre prospettive.<br />
E chissà quale sarà la prossima mossa...<br />
(7/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
AppleS (The) - KingS (freeSTyle recordS,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: c r o s s o v e r e d f u n k<br />
Piacciono sia la musica che l’attitudine, negli Apples.<br />
Nel senso che ti affezioni subito al loro funk fumigante<br />
e appropriatamente groovy eseguito insieme al leggendario<br />
Fred Wesley (su tutto James Brown e l’asse<br />
Parliament/Funkadelic: meglio specificare, che non si<br />
può mai sapere ); addirittura applaudi allorché - nel poker<br />
di brani che ospitano Shlomo Bar, eminente figura<br />
della musica popolare d’Israele - ci si affaccia su scenari<br />
mediorientali. Stanno in un desiderio di con-fusione<br />
totale e in una voglia di costruttiva ambivalenza, segreto<br />
e magia del risultato, ottenuti da questo nutrito<br />
ensemble di nove elementi varcando la porta dello<br />
studio di registrazione con due mostri sacri e interagire<br />
con loro senza timori reverenziali.<br />
Catturando in tal modo una visione sonora e culturale<br />
genuinamente a 360°, che - in una scaletta salomonicamente<br />
spartita - racchiude i due poli del loro mondo<br />
sonoro solo per mostrare quanto sia possibile mescolarli<br />
e cavarne freschezza. Accade con costanza in trentotto<br />
minuti di esuberante funk urbano rigoglioso di<br />
fiati e scratching (Howlin’ With Fred, In The Air), di favoloso<br />
dub un momento sinuoso e quello successivo dolente<br />
(Walking To The Palace), di oscillazioni tra oriente<br />
e occidente che respirano l’attualità (una title-track<br />
riassuntiva e divertita; il suono "totale" di Batash e Banana<br />
Jam). Meticciato consapevole, energico e stiloso,<br />
alla faccia di chi ancora vuole erigere muri e steccati in<br />
un pianeta sempre più globale.<br />
(7.2/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
Ariel pinK - WiTh Added pizzAzz (free dope<br />
And fucKing in The STreeTS, luglio 2010)<br />
Ge n e r e: p s y c h l o u n G e<br />
Questo ep in edizione limitata si poteva acquistare<br />
esclusivamente ai concerti americani dell'ultimo tour<br />
degli Ariel Pink's Haunted Graffiti, eccentrico souvenir<br />
dalla grafica rivelatrice. Sono cinque pezzettini in collaborazione<br />
con gli Added Pizzaz, fantomatico combo<br />
avant-jazz di Dallas (ma sul disco troviamo in realtà la<br />
stessa formazione b/vintage che suona su Before Today,<br />
guidata dai fiati dei fratelli Gonzalez).<br />
Lounge disturbata, drogata e onirica, un po' Madlib<br />
in vena psych un po' Mothers of Invention di America<br />
Drinks and Goes Home, il tutto, ovviamente, abbastanza<br />
cazzeggio pseudo-avant, compreso il cut lungo della<br />
già nota Hot Body Rub. Spicca soltanto il bel gioco di<br />
estremo zapping pop-deformato - zappiano rundgreniano<br />
fowleyano residentsiano - di 4 I M NN7. Cool fuffa.<br />
(6/10)<br />
gABriele MArino<br />
ArTuro fieSTA circo - e lo chiAMerAi<br />
gioVAnni (ViA Audio, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: c a n T a u T o r a T o -f o l k<br />
"I sarti che vestono le mie storie sono musicisti attivi in<br />
diversi contesti musicali. Questo è un sistema che mi piace<br />
perché è una finestra aperta sul mondo e mi obbliga<br />
a stare sveglio. Il Circo non è una band. Assomiglia di più<br />
ad un "cantiere" o a una "palestra" per i giovani musicisti<br />
che lo compongono." A parlare è Sergio Arturo Calonego,<br />
titolare della ragione sociale e deus ex machina<br />
del progetto. Tanto per chiarire che tutto quello che<br />
ruota attorno a questo secondo disco della formazione<br />
è materiale vario ed eventuale nel genere, nella forma<br />
e nelle atmosfere. Un folk-jazz-chanson-cantautoratorock<br />
nomade e difficilmente etichettabile, un po' figlio<br />
dei tempi in cui viviamo e un po' consapevole esercizio<br />
di stile per una band di strumentisti virtuosi.<br />
Ce n'è per tutti i gusti, dal valzer spazzolato de La Ballerina<br />
alle chitarre elettriche de L'idiota, dal Tenco de<br />
L'acrobata al jazz confidenziale de Il domatore, dal ragtime-folk<br />
di Le Royal al blues virato Sud America de La<br />
regina del circo. Brani suonati da dei Raymond Queneau<br />
in note che vanno a comporre un'opera esemplare,<br />
inaspettatamente coerente e malinconica al punto<br />
giusto.<br />
(6.9/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
AVey TAre - doWn There (pAW TrAcKS,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: a v a n T p o p<br />
Mentre Panda Bear in solitaria si è preso soddisfazioni<br />
anche pari a quelle del gruppo madre, David Port-<br />
highlight<br />
BAchi dA pieTrA - QuArzo (WAllAce recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: m i n i m a l-r o c k<br />
Il ritorno dei Bachi Da Pietra dopo l’ottimo live Insect Tracks ha di nuovo un titolo materico, in cui l’allusione<br />
alla pietra, al tempo, ad una forma primigenia di elettronica, prelude allo spostamento dei paletti<br />
del sentire lirico-musicale della coppia Dorella-Succi. A far da humus, al<br />
solito, un minimalismo sofferto e angoscioso, vibrante e reiterato, fatto di<br />
corde percosse e percussioni risicate all’osso che stazionano sempre sul<br />
crinale di una personale forma di blues desertificato e un sentire rock irregolare<br />
e unico. Gli intarsi di chitarra di Dragamine o l’incedere claudicante<br />
e trance-inducing di Niente Come La Pelle ne sono perfetta esecuzione.<br />
Accanto o sottotraccia, però, c’è ben vivo il gusto per la sperimentazione,<br />
per il superamento dei confini di una musica troppo riconoscibilmente<br />
"classica". Ecco allora la rarefazione elettroniconcreta di Zuppa Di Pietre, il<br />
rumorismo di matrice technoide di Pietra Per Pane, i carsici disturbi elettrostatici di Non È Vero Quel Che<br />
Dicono o il frammento hayesiano reso famoso da Tricky e Portishead che traina l’intera Orologeria:<br />
tutto sempre rigorosamente suonato col solo ausilio degli strumenti d’ordinanza. Dimostrazione del<br />
saper magistralmente giocare con dinamiche "altre" e prestiti (rielaborati, rivisitati, ripensati) da generi<br />
"distanti".<br />
Un procedere quasi di svelamento di fonti, di apertura al mondo che tocca anche le liriche succiane,<br />
altro punto fermo dei Bachi. Mai come ora intelligibili, dotate di un taglio tra l’ironico e il sarcastico, beffarde<br />
nella esplicita Bignami (noi vi amiamo vi adoriamo vi benediciamo / noi cantiamo (zitti cantiamo) / il<br />
vasto mondo aperto / nel nostro trovar chiuso / al vostro orecchio duro ottuso illuso / che non sente giustamente<br />
(e me ne scuso) / il nostro tessere) o nell’amarezza senza respiro di Fine Pena, sembrano smorzare<br />
i toni dello sguardo lucido e tragico sull’esistente dei Bachi. Una indagine nel sottosuolo letterario che<br />
riabilita il senso del termine songwriting, scegliendo vie metriche e melodiche personali e mai banali.<br />
Un ottimo ritorno, dimostrazione di personalità e capacità oltre che di volontà di superare se stessi<br />
giocando sul terreno di casa.<br />
(7.5/10)<br />
STefAno pifferi<br />
ner, che ne è paradossalmente la penna più prolifica,<br />
come solista doveva ancora fare la sua comparsa. Prima<br />
di quest'esordio, è vero, c'era stato Pullhair Rubeye, ma<br />
era un album registrato in estemporanea con la moglie<br />
Kria Brekkan (ex Mùm) e non un canzoniere privato da<br />
opporre al compagno di cordata.<br />
Prima regola è trovare un percorso, un tratto distintivo.<br />
E così, se Panda si è più volte dimostrato a proprio agio<br />
nel confrontarsi con la psichedelia, Avey ha scelto il decennio<br />
del post-punk e - soprattutto - del synth pop per<br />
trovare una valvola di sfogo. Il risultato è forse meno<br />
disinvolto e quando la ricerca individuale s’interrompe,<br />
il tutto confluisce amabilmente nei codici e nelle modalità<br />
della band madre di cui Porter è il co-motore creativo.<br />
Proprio sulle mode si gioca l’ambiguità di Down There.<br />
Da una parte, regna l’immaginario doppio zero, che gli<br />
Animal Collective hanno contribuito in maniera determinante<br />
a creare, e che qui si riconfigura con assonanze<br />
Indian Jewelry (per oscurità di esercizio), Ruby Suns<br />
(Heads Hammock) e persino Xiu Xiu (Lucky 1 è a metà<br />
tra gli Animal e il progetto di Jamie Stewart); dall’altra<br />
questo si va a sposare con quegli Ottanta che fanno<br />
un occhiolino ipnagogico (Oliver Twist) certamente furbesco,<br />
anche se qualitativamente una spanna sopra la<br />
media delle produzioni in questo senso (Heather In The<br />
Hospital).<br />
Dimenticandoci della sbornia glo, è lecito guardare a<br />
dischi come Down There come una nuova possibilità<br />
di cantautorato post-’00 (e post-revival ’80), con tutti i<br />
crismi e strati compositivi a cui ci dobbiamo abituare al<br />
voltar del decennio.<br />
(7/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
44 45
BAd religion - The diSSenT of A MAn<br />
(epiTAph, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p u n k l e G e n d s<br />
Dei Bad Religion impressiona non tanto il fatto che siano<br />
in piedi da trent’anni. E’ la forma in cui sono giunti<br />
al fatidico appuntamento a guadagnarsi la nostra ammirazione;<br />
l’evidenza che, al quindicesimo lp in studio,<br />
Greg Graffin e Brett Gurewitz impugnino ancora saldamente<br />
il timone e che rimangano essenzialmente<br />
immutati i motivi che li hanno resi esemplari. Fuor di<br />
retorica: la loro è una ricetta semplice ma che come<br />
tale vanta infiniti tentativi di imitazione e ognuno inferiore.<br />
Che, se combinata con mano sapiente, può<br />
offrire canzoni di rango tipo la cavalcata The Day The<br />
Earth Stalled e l’amara innodia di Only Rain che aprono<br />
questo disco.<br />
Degne di Maestri che le loro rivoluzioni sonore già le<br />
hanno inscenate epperò non mollano, consci di come<br />
sarebbe impossibile proporne nel canone hardcore<br />
punk da loro stessi forgiato a meno di assurde o ridicole<br />
modernizzazioni. Si tratta di tradizione, per cui se<br />
assaggi la torta della nonna da un forno industriale il<br />
gusto non è uguale e idem se il cuoco non ci mette<br />
cuore e testa. Così che, anche nel lavoro meno azzeccato<br />
da che a inizio decennio i californiani risorsero con<br />
The Process Of Belief, i brani eccessivamente formulaici<br />
vengono spazzati via dal pugno di nuovi classici che<br />
fondono aggressività, melodia e testi intelligenti: una<br />
scintillante Cyanide e una fenomenale The Resist Stance,<br />
l’epidermica Won’t Somebody e le eleganti però possenti<br />
Avalon e Meeting Of The Minds. Punk di mezza età<br />
senza patetismi: si può.<br />
(6.9/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
BArn oWl - AnceSTrAl STAr (Thrill jocKey,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: d o o m<br />
Austerità, ampiezza, doom, passo mantrico, chitarre,<br />
rarefazione del blues, droni. Le parole chiave di Ancestral<br />
Star sono le stesse di The Conjurer. La concentrazione<br />
e l’ossessione della ricerca dei Barn Owl non<br />
può che rimanere autentica. Perché, al di là delle parole<br />
chiave, il nocciolo della musica di Caminiti e Porras è<br />
proprio l’autenticità, la purezza della formula, della materia<br />
musicale e del messaggio che ne consegue. Ogni<br />
brano (la title-track, che monta dronicamente, ridiscende,<br />
lascia spazio a un lamento al ralenti di chitarra,<br />
in secondo piano, si rarefa) è un esemplare raro, eppure<br />
estremamente familiare. È un tutt’uno che vive del<br />
proprio respiro, a cui non si può aggiungere nulla né<br />
togliere alcunché. E ciò valga per tutta la psichedelia<br />
siderale che il duo è capace di esprimere (un deserto di<br />
stelle in Vision In Dust, con accompagnamento vocale<br />
alla Ummagumma Live), per tutte le ascensioni e gli<br />
atterraggi nel deserto.<br />
Ripetizione è un altro nome per quella purezza che<br />
quando si svolge in strutture ha bisogno di riprodurle<br />
in continuazione. Night’s Shroud sembra essere l’unico<br />
tema possibile per il loro universo desolato, un tema<br />
reiterato senza fretta, anzi con la calma di chi ha la consapevolezza<br />
che la fine dei tempi è una realtà, e chiuso<br />
in un paio di minuti. L’eccezione - neanche troppo<br />
distante dalla regola, però - è il pianoforte di Twilight,<br />
crepuscolare ma anche vitale, nella sua progressione<br />
infinitesima e impercettibile. Il culmine è probabilmente<br />
la finale Light From The Mesa, ma solo perché deve<br />
procrastinare l’atmosfera apocalittica fino alla prossima<br />
prova dei Barn Owl. Ci sembra, nell’attesa, di essere<br />
tenuti a rimanere immobili, ma nel frattempo sposteremo<br />
i nostri giudizi e le nostre facoltà. Come questa musica,<br />
che sembra immobile e identica a se stessa, eppur<br />
si muove, procede, vedendo l’orizzonte - e l’agognata<br />
fine - che a ogni passo di sposta sempre più in là.<br />
(7.3/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
BenoiT pioulArd - lASTed (KrAnKy, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: fo l k, d r o n e<br />
A quattro anni dall'esordio Précis e due dal sophomore<br />
Temper, il femmineo Thomas Meluch non ha cambiato<br />
metodo e intenzioni. Lasted è stato inciso e missato<br />
in completo isolamento domestico, intinto nel folk/pop<br />
di Drake-iana memoria e inframezzato di droni e brevi<br />
strumentali avant-folk. L'ispirazione è sempre lì, tiepida<br />
e delicata, pastorale e astratta. Il terzo album di Meluch<br />
è un canzoniere della memoria pronto a indirizzarsi<br />
verso un songwriting immerso nei field recording, che<br />
in alcuni casi pare maturato (le inflessioni folk-rock e i<br />
tocchi eighties di Lasted) e in altri ripetuto all'infinito<br />
(Tie, A Coin On The Tongue).<br />
Camminare, ogni due anni, in questo piovoso giardino<br />
è un po' come tornare a casa in autunno. Ci ritrovi un<br />
ragazzo chiuso in sé stesso ripetere la stessa, suggestiva,<br />
incantevole canzone. E' un tutt'uno con il fascino<br />
della decadenza.<br />
(6.7/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
highlight<br />
BeATrice AnTolini - Bioy (urToVox, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: f u n k-p s i c h e d e l i a<br />
L'arte di Beatrice Antolini risiede nel saper decontestualizzare e riconvertire particolari musicali diversissimi<br />
tra loro. Un dipingere immaginari weird con accostamenti che vanno oltre la coerenza ortodossa<br />
di un genere, sfociando in una musica centrifuga che è prima di tutto attenzione per la ricchezza del<br />
suono. Un Sud America piroettato sui tasti del pianoforte, certa psichedelia vaporosa, una classica da<br />
fondale dipinto, qualche drappeggio pop: di questo è fatta la sostanza del<br />
verbo antoliniano. Di volta in volta rielaborata, ricombinata, contaminata,<br />
alla luce di una maturità stilistica che parrebbe dietro l'angolo ma che in<br />
realtà sposta coscientemente il proprio punto di arrivo sempre un po' più<br />
in alto.<br />
Bioy recupera le tematiche che avevano reso il precedente A Due un deciso<br />
passo in avanti rispetto all'irruento Big Saloon (complesse aperture<br />
strumentali, cambi di registro inaspettati, progettualità unitaria) arrivando<br />
a una sintesi ormai lontana anni luce dagli esordi. Con un funk-wave coeso<br />
e pseudo-futuristico - "I riferimenti agli anni '70 sono più che altro cromatici e credo che un certo funk di<br />
quel periodo sia stato molto importante per me. Ma la mia musica è la mia musica e assomiglia a me, nel<br />
bene e nel male" - che è soprattutto arte dell'incastro in una spessa coltre ritmica focalizzata sul groove,<br />
sulla stratificazione. Come dimostrano gli Ottanta di una Madonna distesa sul tappeto di fiati di We're<br />
Gonna Live o il tribale sottomesso e spacey di Eastern Sun, i droni di synth di Night SHD o una Bioy in<br />
bilico tra percussioni in stile Joy Division e certe tastiere in levare filo-reggae.<br />
E' l'organizzazione a far la differenza. Il saper trovare il giusto equilibrio per ogni dettaglio nell'ottica<br />
di un progetto che per la prima volta nella storia discografica di Beatrice sembra possedere radici profonde<br />
(gli Eightes). Grazie a un'inedita quadratura e a un rigore da session man capaci di conciliare la<br />
strumentazione di cui è diretta responsabile la padrona di casa (batteria, percussioni, sax, moog, piano,<br />
basso, chitarra, clavinet) con i contributi alla tromba/violoncello/sax (anch'essi trattati, decontestualizzati,<br />
alieni) degli ospiti Mattia Boschi / Enrico Pasini / Andy (Bluvertigo). Per un disco che ha tutto<br />
l'aspetto di un punto di arrivo. O per meglio dire, di uno dei tanti possibili.<br />
(7.5/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
BlAnK dogS - lAnd And fixed (cApTured<br />
TrAcKS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: s y n T h -p o p<br />
Perde molto dell’abrasività lo-fi che ne caratterizzava<br />
gli esodi, mr. Mike Sniper, qui alle prese col terzo fulllength<br />
sotto la sigla Blank Dogs. Nella naturale evoluzione<br />
delle cose, penseranno i bendisposti, mentre i<br />
critici vedranno nella pulizia del suono la prima avvisaglia<br />
dell’abbandono di un underground che ormai non<br />
ha più quasi senso di esistere come categoria.<br />
Limitandosi alla musica, questi 12 pezzi nuovi di pacca<br />
restano legati all’ormai classico suono Blank Dogs:<br />
musica post-punk spettrale e al limite del catatonico in<br />
grado di frullare e riproporre i primi vagiti wavish dei<br />
Cure (Insides, Longlights), l’angoscia claustrofobica dei<br />
Joy Division (Out The Door), la straniante accessibilità<br />
pop targata C86, il synth-pop più trasversale di matrice<br />
New Order (Collides, Elevens) e quant’altro d’ordinanza.<br />
Però sulla falsariga dell’ultima manifestazione del<br />
progetto, l’ep Phrases della primavera scorsa, l’accento<br />
sembra posto su soluzioni non solo segnate da un appeal<br />
più marcatamente e melodicamente pop (Blurred<br />
Tonight, Northern Islands, Another Language), ma anche<br />
da un sound più pulito e cristallino. Un procedimento<br />
simile a quello messo in atto da Zola Jesus e da altri<br />
frequentatori del sottobosco lo-fi: mano a mano intenti,<br />
cioè, a sgrossare quel manto di grezzo lo-fi che<br />
ne aveva segnato le proposte agli esordi e che a questo<br />
punto si può definitivamente considerare più una<br />
necessità legata agli scarsi mezzi che una intenzione<br />
46 47
stilistica ben definita. Insomma, svanito già da un pezzo<br />
l’effetto sorpresa, rimosso praticamente del tutto il<br />
pulviscolo a bassa fedeltà, non restano che le canzoni.<br />
Troppo omogenee e monocordi per attestarsi sui livelli<br />
dei precedenti passi di Blank Dogs, seppur sempre di<br />
ottima fattura.<br />
(6.8/10)<br />
STefAno pifferi<br />
Boduf SongS - ThiS Alone ABoVe All elSe in<br />
SpiTe of eVeryThing (KrAnKy, SeTTeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: s o n G w r i T i n G, f o l k<br />
Mathew Sweet, l’enigmatico cantautore che si cela<br />
sotto lo pseudonimo di Boduf Songs, torna con un<br />
quarto album. Humming sofferto, testi cupi, atmosfere<br />
minimali: gli ingredienti di base non cambiano, ma<br />
l’inglese evita la ricetta della ripetitività aggiungendo<br />
qualcosa in più, ossia degli arrangiamenti più complessi<br />
e articolati, che fanno di This Alone Above All Else<br />
In Spite Of Everything un vero passo avanti nella crescita<br />
artistica di Sweet.<br />
Una parte delle novità è immediatamente percepibile<br />
nell’introduzione, Bought myself a cat o nine tails, sofferta<br />
composizione per voce e pianoforte: se prima<br />
Boduf Songs affidava l’espressione della sua intimità<br />
a una scarna chitarra e a qualche casalingo intervento<br />
elettronico, adesso, ferma restando la base di poche<br />
note e colpi di martelletto sulle corde del piano,<br />
il range è decisamente più ampio; e così Decapitation<br />
Blues: da un loop di vibrafono si sviluppa un'avvolgente<br />
ambient song tanto rock quanto folk, tanto goth<br />
quanto post. In I Have Decided To Pass Through Things i<br />
sussurri si evolvono in una splendida melodia cantata a<br />
piena voce, confermando ai maligni che Sweet sa cantare<br />
in altri registri e che l’humming è una scelta. Altri<br />
arrangiamenti degni di nota sono la batteria, basso e<br />
tastiere à la 4AD di They Get On Slowly e la splendida<br />
The Giant Umbilical Cord That Connects The Brain che ci<br />
porta indietro ai sussurri e ai pizzichi di chitarra degli<br />
Slint (versante David Pajo).<br />
E' il migliore album Boduf Songs fin'ora. Il primo a tirare<br />
le fila di una personale vena "heavy metal acustica".<br />
(7/10)<br />
geMMA ghelArdi<br />
BoriS/iAn ASTBury - Bxi (SouThern lord,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: h a r d -r o c k<br />
In un mercato affollato come quello attuale ci sono<br />
dischi di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Già di<br />
per sé, i nippos non sono proprio parchi di uscite ma<br />
spesso e volentieri abusano di collaborazioni e release.<br />
Questo mini-album con alla voce l’ex leader dei Cult<br />
appartiene alla seconda categoria, ovvero a quei dischi<br />
di cui proprio non si sentiva la mancanza. Soprattutto<br />
perché la voce di quest’ultimo catalizza il tutto,<br />
prendendo il sopravvento e riducendo i sodali heavydroners<br />
giapponesi ad abbassare la guardia accontentandosi<br />
di un rock hard dai sapori old-fashioned, iperimpostato<br />
(Teeth And Claws) e a volte anche pacchiano<br />
(We Are Witches).<br />
Una cover di Rain cantata dalla voce eterea di Wata - apprezzabile<br />
più sull’onda della nostalgia che altro - non<br />
può da sola risollevare le sorti di questo mini, sorprendentemente<br />
targato Southern Lord.<br />
(5/10)<br />
STefAno pifferi<br />
BrAinKiller - The infilTrATion (rArenoiSe,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: j a z z-f u s i o n<br />
Impro su basi sudamericane (Spider), marcette in bilico<br />
tra Mingus e Coltrane (U Can't Stop Z Train), fusion<br />
in chiave funk all'ombra di Cannonball Adderley (Casketch),<br />
pianoforti crepuscolari orfani di un Chet Baker<br />
qualunque (Ice Fishing), free analgesico (Michaelsketch),<br />
balbettii in stile Monk (Unfiltered).<br />
Sembra il menù di un disco di Improvvisatore Involontario<br />
e invece stiamo parlando di una produzione Rare<br />
Noise. Ad agitare le acque di una tracklist veloce e easy<br />
- anche per chi non mastica abitualmente certe cadenze<br />
-, Brian Allen, Jacob Koller e Hernan Hecht, rispettivamente<br />
al trombone, alle tastiere e alla batteria. Colti<br />
in un non-luogo musicale misurato e pulitissimo, capace<br />
di sperimentare nuovi colori e forme - come dimostrano<br />
anche le svisate orientaleggianti di Eepy - senza<br />
stravolgere i canoni di un jazz riflessivo, riconoscibile e<br />
tutto sommato familiare.<br />
(7/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
BriAn eno - SMAll crAfT on A MilK SeA<br />
(WArp recordS, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: a m b i e n T , i d m<br />
Il debutto su Warp di Brian Eno, tardiva chiusura di un<br />
cerchio, è una bolla di sapone, elegante, fragile, vuota.<br />
Fuori, cofanetto, vinili e stampe in edizione limitata;<br />
dentro, retroguardia elettronica da salotto, apparentemente<br />
varia nelle declinazioni, in realtà monocroma<br />
come la satinatissima immagine di copertina.<br />
Titoli evocativi-descrittivi per una parata di esercizi di<br />
stile irrisolti registrati tra 2009 e 2010 nei ritagli di tempo<br />
da altri progetti (sono incluse alcune selezioni scartate<br />
dalla colonna sonora di Amabili Resti), in collaborazione<br />
con i giovani discepoli Jon Hopkins ("programming")<br />
e Leo Abrahams (chitarre trattate). Se il tocco del primo<br />
è a tratti anche troppo caratterizzante e invadente (Flint<br />
March), gli interventi del secondo sono omeopatici e tutto<br />
sommato trascurabili. Small Craft Over A Milk Sea è<br />
una lussuosa vetrina di spunti incolori - non audaci, non<br />
classici, non così manieristici da giustificarsi come ricerche<br />
o giochi da scienziati del suono (Autechre) - che<br />
pescano nel solito bacino eniano ma senza guizzi, tra<br />
romantica ambient pianistica, intermezzi cinematici ora<br />
sinistri ora severamente contemplativi, morbida elettronica<br />
condita di concreta e tentativi di aggiornamento<br />
electro (e addirittura big beat, Dust Shuffle). Salviamo il<br />
grip del motorik 2 Forms Of Anger e il giocoso disimpegno<br />
per tastiere-basso, molto naïveté Ottanta, di Bone<br />
Jump. Per il resto, vuoto.<br />
(5/10)<br />
gABriele MArino<br />
BriAn WilSon - reiMAgineS gerShWin (eM<br />
recordS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o p<br />
Custodi di sogni, codici d'immaginario riassunti in un<br />
nome. In due nomi: George Gershwin e Brian Wilson.<br />
Lontanissimi e uguali. Assimilabili, in qualche modo,<br />
quali ridanciani sacerdoti di meraviglie in forma di canzone<br />
e oltre. Ecco, qui si entra nel mondo del sacro. Per<br />
questo forse la notizia che Wilson avrebbe dedicato un<br />
disco al canzoniere di Gershwin - inventandosi peraltro<br />
due pezzi inediti a partire da altrettanti canovacci<br />
incompiuti - mi lasciò una piuttosto indefinibile sensazione<br />
di blasfemia. Come un sincretismo possibile - non<br />
ne esistono di impossibili, credo - ma inopportuno. Un<br />
facile sillogismo chiamato a gettare luce su due misteri<br />
tanto scoperti quanto insondabili.<br />
A disco uscito, m'accorgo che l'esito è forse l'unico possibile<br />
(e auspicabile): entrambi i misteri rimangono al<br />
loro posto. Le dimensioni non s'incontrano mai davvero.<br />
Gershwin sembra un tema accidentale (avrebbe<br />
potuto essere Bacharach o i Beatles, e non è detto che<br />
non accadrà), l'acchito che incita Wilson a dar fondo a<br />
trucchi e vezzi del mestiere. L'ex-Beach Boys ci mette<br />
la tipica calligrafia posterizzata, è crooner impalpabile<br />
e giocoso, rinuncia volentieri all'effettistica 3D per il<br />
fascino vintage d'un cartoon tutto colori e dinamismo,<br />
infarcito di boogie e bossa, doo wop e - naturalmente<br />
- fregole surf. Sospeso tra un palco di Broadway, la<br />
spiaggia di Santa Monica e una sequenza del disneya-<br />
no I tre caballeros, si rivela per così dire un buon additivo<br />
per brani già resisi abbondantemente immortali<br />
negli ultimi ottanta anni o giù di lì. Ma non ne coglie<br />
il cuore. Più che reimmaginarli, li contabilizza. Col mestiere<br />
patinato, un po' bolso ma inesorabile d'una star<br />
a Las Vegas.<br />
E poi non tutto va per il verso giusto: c'è nel suo approccio<br />
una leggerezza quasi soprannaturale che se<br />
esalta il setoso languore di I Love You Porgy o la verve di<br />
They Can’t Take That Away From Me, si rivela incompatibile<br />
con l'inquietudine infinita di Summertime e rende<br />
banalotta l'euforia di I Got Rhythm. Quanto ai due inediti<br />
- The Like In I love You e Nothing But Love - si lasciano<br />
gradevolmente ascoltare e dimenticare. Come tutto il<br />
disco.<br />
(5.5/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
cArricK - nASTy AffAir (enzone recordS,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: indie-G a r a G e<br />
Un tre più uno - almeno così pare di capire dai crediti<br />
del disco - dedito a un indie-rock testosteronico (nonostante<br />
la batterista donna) in bilico tra garage e punk. Il<br />
cantato è rubacchiato al duo Libertines / Clash, sdrucito<br />
e sboccato come prevede la scuola inglese, con la<br />
strumentazione ridotta a un incrocio di chitarra elettrica,<br />
batteria e basso che non va per il sottile.<br />
Anche se la formazione milanese è tutt'altro che una<br />
congrega di sprovveduti con la mano pesante, almeno<br />
a giudicare da una tracklist che sa come trattare<br />
la melodia (Back One Step, la title track) e da richiami<br />
strumentali sparsi un po' ovunque - qualche assolo ricorda<br />
addirittura certi Oasis d'antàn - utili a garantire<br />
al suono un' apertura insolita per prodotti sul genere.<br />
Pur nell'ottica di un disco d'esordio con qualche difetto,<br />
nello specifico troppe idee a cui dar forma e poca<br />
esperienza per focalizzarle nella giusta maniera.<br />
(6.2/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
cindyTAlK - up here in The cloudS (Mego,<br />
SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: indusTrial<br />
Gordon Sharp sembra vivere una seconda giovinezza,<br />
ammesso che abbia mai vissuto la prima. Una nuova<br />
incarnazione sonora segna infatti il ritorno del progetto<br />
dello scozzese dopo un’assenza ultradecennale che<br />
sapeva tanto di ritiro dalle scene: prima con The Crackle<br />
Of My Soul dello scorso anno e ora con Up Here In The<br />
Clouds (prossimi alla ristampa in box vinilico con ag-<br />
48 49
giunta di un 7"). Più dilatato e visionario, il suono del<br />
nuovo corso di Cindytalk sfrutta tutto l’armamentario<br />
post-industrial per disegnare trame di largo respiro tra<br />
elettronica sporca, grumi di sinfonie microrumoriste e<br />
ambient textures mefitiche. Ne esce un disco sulla scia<br />
di The Crackle , pervaso da una densa caligine, brumosa<br />
e ottundente, rotta da qualche sparuta vocals loopata<br />
di matrice haunted, da sibili disturbanti che si sciolgono<br />
in folate al limite dell’harsh o da deturpati field recordings.<br />
Da quella coltre spessa e a tratti apparentemente invalicabile,<br />
emerge però un taglio visionario ed evocativo,<br />
astratto e destrutturato. The Eighth Sea (liquido fluire<br />
magmatico in modalità field-recordings), Guts Of London<br />
(sbuffi da rumorismo cubista), Hollow Stare (microrumorismo<br />
e white noise senza soluzione di continuità),<br />
We Are Without Words (droning evanescente e<br />
chiesastico) sono solo alcune delle frecce nell’arco di<br />
Sharp, ormai maturo sound-artist in grado di manipolare<br />
uno spettro sonoro ampio e screziato. Up Here In<br />
The Clouds è un album sfiancante, monolitico, densissimo<br />
di suggestioni, variazioni e rimandi e che non si<br />
smette di ascoltare.<br />
(7/10)<br />
STefAno pifferi<br />
coMMix - re:cAll To Mind (MeTAlheAdz,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: ho u s e, a m b i e n T<br />
La premessa è quasi d’obbligo. Parliamo di un remix album<br />
di uno degli album d’n’b più esaltati degli ultimi<br />
anni assieme all’esordio di Utah Jazz ed è inutile ribadire<br />
ancora una volta la quantità di riflettori e inserti<br />
nei mix che il genere più dimenticato dalla critica ha<br />
avuto negli ultimi tre anni. Il 2010 doveva essere l’anno<br />
del ritorno vero e proprio ed eccoci qui attorno ai Commix<br />
pronti a scattare la foto della nuova scena cassarullante<br />
in una decina di remix tra cui troviamo nuovi<br />
rampolli e superstar diversissime per estrazione quali<br />
Burial e gli Underground Resistance. Ebbene?<br />
RE:Call To Mind non è un album che rimescola le carte:<br />
prende un nuovo mazzo e ce lo mette accanto. Il<br />
già piuttosto contaminato lavoro originale è ora una<br />
bestia completamente nuova che si muove attraverso<br />
ritmi e scenari anche molto distanti. Troviamo il duo<br />
Instra:mental rimette le mani su Japanise Electronics<br />
ripensando alla chill out ibizenca, aggiungendo effetti<br />
glitch e tocchi jap à la Sakamoto; Panagea piroettare<br />
dub e interventi tech decisamente quadrati trasformando<br />
l’estate’92 di Steve Spacek in un tunnel di speed<br />
e keta da pieni anni zero (How You Gonna Feel); A Made<br />
Up Sound (ovvero Dave Huismans, noto ai più come<br />
2562) purgare la blackness di Change (con Nextmen)<br />
cavandone asettici ritmi tech-house, folate dubstep e<br />
visioni a raggi infrarossi.<br />
In pratica, in tanta avventurosità e ricerca, e un'unica<br />
traccia a conservare i fondamenti d’n’b (il remix di Belleview<br />
da parte di DBridge) è quasi un peccato che le<br />
due citate star rivestano semplicemente di se stessi le<br />
rispettive tracce (Be True di Burial ne esce haunted 2<br />
step, Satellite Song si trasforma in una traccia techno<br />
detroit); molto più interessante il trittico house della<br />
raccolta a base di stilemi deep (grandioso Kassem Mosse<br />
in Stricktly), classic (Two Armadillos in Spectacle) e<br />
glitch house (Sigha She in Emilys Smile), nonché l'intervento<br />
techno di Marcel Dettmann (Satellite Type 2).<br />
Pensando alla chiusura del mondo d'n'b fino al 2007,<br />
Re:CAll To Mind è un remix album doppiamente importante:<br />
si arrende alla contaminazione a 360° come<br />
unica base per una rinascita ed è basato su uno streaming<br />
coeso, ovvero con una logica da album. Morale:<br />
il d’n’b, nel 2010, anche grazie al successo dell'ultimo<br />
Prodigy e a commecialoni quali i Pendulum, sarà anche<br />
tornato. Eppure, over-come-under-ground, è soltanto<br />
facendosi ibridare di nuovo che possiamo auspicarne<br />
una rinascita vera.<br />
(7.2/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
curV - BeTWeen here And noWhere (Vinyl<br />
ViBeS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: sp a c e d i s c o<br />
Rainer Düring è un veterano del suono electro berlinese.<br />
Partito alla fine degli anni Novanta come metà<br />
di Thrust & !Pez, ha pubblicato numerosi singoli su etichette<br />
culto del calibro di Vienna Scientists, Stereo Deluxe<br />
e Ministry of Sound. Come Curv è attivo dal 2001 e<br />
questo disco è il primo full length col nuovo moniker.<br />
Infatuato del suono spacey di Daniele Baldelli e di<br />
Prins Thomas, il ragazzo ci fa volare su pianeti e cosmi<br />
seducenti, facendoci passare per spiagge tribali, ricordi<br />
in odore del baffo di Moroder e tanta tanta progressività,<br />
che il più delle volte non si accosta tanto al verbo<br />
house, bensì lascia nell’aria un sapore chill, che ricorda<br />
vagamente le proposte dei primi Orb.<br />
Ascoltabilissimo da chiunque viaggi sulle onde cosmiche<br />
di Lindstrøm e compagnia cantante. Da viaggio.<br />
(7/10)<br />
MArco BrAggion<br />
highlight<br />
Bjørn TorSKe - KoKning (SMAllToWn, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: d o w n T e m p o , k r a u T<br />
Bjørn Torske non è solo uno degli artefici della scena di Bergen, ma probabilmente l’animatore principale<br />
che ne ha fatto il place to be lungo tutti gli anni Zero. Da sonnacchioso dormitorio universitario<br />
a Nord della Norvegia, la cittadina è diventata, grazie a gente come lui, Erol, Annie, Mikal Telle e i Röyksopp,<br />
il posto dove fare girare elettronica e folk (vedi alla voce Kings Of<br />
Convenience), dove ballare e sballare, divertirsi e ogni tanto aprire qualche<br />
libro. Torske, da vero capobanda, s’è pure inventato uno stile di house,<br />
la skrangle-house, per alzare la temperatura dei club. I singoli di allora erano<br />
Disco Members (2000, Tellé) e Aerosoles (2000, SVEK), mentre oggi sentiamo<br />
quel sound in brani come Furu o Bergensere, cassa in quattro, dub/<br />
deep, remember disco, percussioni magrebine. C'è pure qualche segnale<br />
dallo spazio che rimanda diritto a Baldelli e alla space disco, materia di cui<br />
quest’uomo, classe '71, è maestro, ancor prima di Lindstrøm e Prins Thomas<br />
(che sono chiaramente figli suoi).<br />
Kokning è un disco che sembra chiudere un cerchio e aprirne un altro. Kokning è il gesto che i norvegesi<br />
fanno quando mettono le patate a cuocere e vanno a pescare, per poi ritornare e cucinare il pasto. Vuol<br />
dire farlo alla loro maniera, in modo leggero. Torske ha un modo unico d’inserire i kraut tedeschi o l’ambient<br />
di Brian Eno-iana memoria nella disco music o in qualche landscape che non bisogna temere<br />
di chiamare folk (Kokning, Slitte Sko). L’album è stato concepito tra Feil Knapp (2007) e l’inizio del 2010<br />
e, rispetto alla prova precedente, suona decisamente più acustico e concreto. Troske sa esattamente a<br />
che punto dello stream inserire certi dettagli del reale e del quotidiano, che siano sopra gli smalti dei<br />
synth, i jingle jangle della chitarra o i theremin (Kokning, Bryggesjau). Non solo, la bravura si riconferma<br />
anche nei groove dove, partendo da un battito e un clapping disco, il Nostro imbastisce un brano<br />
space-deep-cosmico della madonna come Bergensere. Oppure ancora, quando narra senza parole una<br />
di quelle storie ambientate a Düsseldorf (i Kraftwerk all’ananas di Slitte Sko) che i compagni Röyksopp<br />
non raccontano più (notare ancora l’innesto concreto che fa la qualità della produzione).<br />
Troske chiude il decennio (e l’epopea Bergen) iniziandone una propria, a Tromsø, in mezzo al niente, nel<br />
luogo da dove è partito. Registrando in un semiterrato di cemento, senza finestre, sfruttando il riverbero<br />
creato dal lungo corridoio adiacente. La sua musica non è ambient né folk, space disco, dub, psych o<br />
balearica. E’ tutta roba sua. Disco down-tempo dell’anno.<br />
(7.4/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
cuT in The hill gAng - MeAn BlAcK cAT<br />
(STAg-o-lee, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: p u n k r o o T s<br />
Johnny Walker, già nei modesti Soledad Brothers,<br />
giunge al secondo lp con gli amichetti Lance Kaufman<br />
e Reuben Glaser convocando John Wesley, organista e<br />
cantante dei Black Diamond Heavies. Aggiunta che<br />
trova motivo nella natura del lavoro, interamente dedicato<br />
a brani altrui e preceduto la scorsa primavera da<br />
un 7" che omaggiava i bluesmen preferiti dalla cricca.<br />
Da lì è stato un gioco confezionare un 33 pescando<br />
oculatamente dentro a un pozzo infinito. Diversamente<br />
dall’operazione condotta dai Morlocks, però, le do-<br />
dici battute lasciando spazio a una più ampia indagine<br />
punk-roots e pure la trascendono, consentendo a una<br />
livida Serves Me The Right To Suffer (John Lee Hooker)<br />
di affiancarsi all’energica resa del "traditional" Help Me;<br />
al disinvolto medley tra Kills/Spacemen 3 di fare bel<br />
paio col gemello che unifica Hound Dog Taylor ed<br />
MC5.<br />
Ne desumi un’apertura mentale superiore alla media,<br />
una concezione delle "radici" che adatta l’esempio prezioso<br />
offerto tre decenni fa da quei Gun Club dei quali<br />
è presente la struggente Promise Me. Assai più vigoroso<br />
il resto della scaletta (Please Give Somethin' di Bill<br />
Allen suona come i Jesus & Mary Chain che incidono<br />
50 51
Automatic ai Sun Studios; la ripresa di Gary US Bonds<br />
I Wanna Holder tambureggia crudo errebì; The Right To<br />
Love You di Mighty Hannibal è soul con nerbo) quando<br />
non semplicemente deragliante, come può solo chi<br />
conosce a menadito la materia per esserci cresciuto<br />
dentro. Abilità che non è sfuggita a Jack White, pronto<br />
a pubblicare la prossima fatica dei ragazzi su Third<br />
Man. Nell’attesa tiratevi questo calcio in fronte più volte,<br />
visto come rinvigorisce senza lasciare ematomi.<br />
(7.2/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
dAnuel TATe - MexicAn hoTBox (WAgon<br />
repAir, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: e l e c T r o, n u -j a z z<br />
Il tastierista dei Cobblestone Jazz parte in solitaria e<br />
si cimenta con l’esordio sulla lunga distanza su Wagon<br />
Repair. L’etichetta canadese - che ha già pubblicato singoli<br />
del trio da cui Danuel proviene - ha nel suo roaster<br />
gente eterogenea nel panorama elettronico mondiale,<br />
nomi che vanno dalla pesanteza del quattro sghembo<br />
di Seth Troxler, al minimalismo di Dinky, al dub di Deadbeat<br />
e alle uscite in singolo dell’altro Cobblestone<br />
Mathew Jonson.<br />
L’ampiezza di visioni e di esperienze dell’etichetta sembra<br />
fittare a fagiolo con la proposta del buon Tate. La<br />
scatola messicana è un prodottino da consigliare chiavi<br />
in mano a chi ama l’elettronica non troppo intrusiva,<br />
i party che vanno su e giù di bpm senza sconvolgere<br />
troppo gli ospiti. In una parola coolness distillata<br />
sapientemente, attraversando ere e stili disparati (lo<br />
swing, il latin, il funk e l’electro per dirne quattro) che si<br />
riconducono sì al lavoro di composizione con il trio, ma<br />
che allo stesso tempo se ne discostano con un guizzo<br />
più chic.<br />
Qui verrebbe da fare un paragone con un’altro mago<br />
del ritmo e della riscoperta delle tastierine analogiche<br />
di cui ci siamo infatuati molte volte: Danuel è uno Luke<br />
Vibert che guarda alla lounge da una prospettiva nuova,<br />
filtrata di esperienze live e di set in acidità behind<br />
the console. Senti il riffetto a 8 bit di Populatio e non<br />
potrai che memorizzarlo istantaneamente, sorseggiando<br />
un Martini; prova la coolness di Big Spender, la strizzatina<br />
ai privé Ottanta di California Can Can e ti accorgerai<br />
che Danuel ci sa fare di brutto. Anche da solo.<br />
(7.3/10)<br />
MArco BrAggion<br />
dArren hAyMAn - dArren hAyMAn & The<br />
SecondAry Modern - eSSex ArMS (forTunA<br />
pop!, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: s o n G w r i T i n G<br />
Seconda parte di una trilogia, di cui il penultimo Pram<br />
Town (2009) costituisce la parte iniziale, Essex Arms<br />
riporta il songwriter Darren Hayman su atmosfere<br />
prettamente acustiche ed essenziali rispetto all’abituale<br />
pienezza di suono. Ricordiamo che Hayman è autore<br />
assai prolifico e con una carriera ormai piuttosto lunga,<br />
essendo stato coinvolto negli ultimi dieci anni in una<br />
serie di formazioni (tra cui gli Hefner poi diventati il<br />
suo progetto in solitaria).<br />
La vita in campagna e i suoi lati più nascosti, amore<br />
compreso, fanno da tema a quest’ultimo album ambientato<br />
nel natale Essex, dopo la celebrazione della<br />
vita nelle piccole città del precedente Pram Town e i<br />
racconti cittadini dei primi due dischi. Atmosfere acustiche<br />
si diceva, piuttosto spoglie, per canzoni ridotte<br />
all’essenziale, che lo riconducono al consueto revival<br />
byrdsiano alla Robyn Hitchcock e R.E.M, misto al songwriting<br />
di marca UK (Elvis Costello e affini), e una<br />
buona fluidità nei testi; il Nostro è infatti un ottimo<br />
scrittore e un accorto songwriter e si sente.<br />
Una conferma quindi.<br />
(7/10)<br />
TereSA greco<br />
dj nATe - dA TrAK geniouS (plAneT Mu<br />
recordS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: u r b a n b r e a k/f o o T w o r k<br />
Pare che Mike Paradinas abbia scoperto questo microcosmo<br />
urban su Youtube. E giustamente non se lo<br />
lascia scappare. Ecco allora il bollo Planet Mu su due<br />
dischi usciti praticamente in contemporanea con i quali<br />
intende sdoganare il (sotto)genere fuori dal ghetto. I<br />
dischi del giovanissimo Dj Nate (vent'anni) e di Dj Roc,<br />
entrambi di Chicago, sono due gemelli diversi, figli dello<br />
stesso mo(n)do dance a tinte forti chiamato footwork<br />
distinguibili grazie ad alcune piccole significative differenze.<br />
Se in sintesi il footwork - il nome dice già tutto - è<br />
un tappeto di breakbeat (non di matrice d'n'b, ma costruiti<br />
su bolle techno-rave) doppiato da un taglia&cuci<br />
ossessivo di voci trip hop (o di voci da trick/trip djistici<br />
usate con funzione strutturale e non semplicemente<br />
effettistica) che agisce decostruendo sfondi di house<br />
superaccelerata e di tastiere grime, ecco che Roc risulta<br />
più barocco, colorato e legato al suo retroterra house e<br />
Nate più stilizzato, minimalista, videogameistico. I due<br />
album comunque dialogano, lo dimostra il fatto che<br />
Roc cita Nate a inizio tracklist campionando alcuni mi-<br />
croframmenti da un suo pezzo. Insomma, avete capito,<br />
ascoltateli insieme questi due dischi.<br />
Per Nate, parafrasando Aphex Twin, Da Trak Genious<br />
è una specie di "Selected Footworks 2005-2010" che<br />
raccoglie trax uscite su cd-r e messe in giro per il web<br />
prodotte quando il ragazzo aveva anche 15 anni. Come<br />
Roc, anche Nate mette in evidenza il sapore artigianale<br />
della produzione (si sentono tutti i tagli), la componente<br />
- spesso anche spintamente - giocosa e deformante<br />
(vocine pitchatissime, tra il divertente e l'irritante, a<br />
due passi dai Chipmunk) di questa che in fondo è una<br />
musica da ballo street, e puntate che ne scoprono le<br />
radici assolutamente nere attraverso numeri più marcatamente<br />
rappusi e loop vintage di matrice funksoul<br />
(quindi, ancora e sempre rappusi). Senza dimenticare<br />
la melodia: note di piano (trip hop enfatico), ricordi di<br />
colonne sonore Ottanta (Halloween), citazionismo pop<br />
(Lady Ga Ga).<br />
Nate e Roc ci introducono a un'estetica molto interessante<br />
e dalle grandi potenzialità, veicolata da ottimi<br />
episodi singoli e forte dell'impatto massiccio di un suono<br />
- paradossalmente - monolitico. Estetica però che<br />
non sembra ancora reggere benissimo il formato lungo:<br />
non tutti i pezzi hanno lo stesso appeal; non tutte<br />
le trovate hanno la stessa efficacia; accanto a pezzi che<br />
suonano inequivocabilmente come nuovi, ce ne sono<br />
molti che non si discostano troppo dalla koiné grime/ghettohouse.<br />
Insomma, ancora da affinare, come<br />
si dice. Esperimento: prendete Wind It Up di Mark<br />
Pritchard/Om'Mas Keith, acceleratela e infarcitela di<br />
breaks, e vedete un po' se non è footwork quello lì.<br />
(7/10)<br />
gABriele MArino<br />
dj roc - The crAcK cApone (plAneT Mu<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: ch i c a G o ju k e<br />
Il ghettotech evoluto di DJ Roc si chiama Juke. E viene<br />
da Chicago. Insieme al Jit di Detroit è la nuova sensation<br />
del ballo nero americano, denominato da molti<br />
con l’appellativo omncomprensivo di footwork. Una<br />
cosa da strada e profondamente urban che investe<br />
da anni la cultura post-breakdance e di cui solo oggi<br />
ci accorgiamo grazie all’interessamento di Paradinas<br />
della Planet Mu. In questo disco appaiono tracce che<br />
viaggiano sui 150-160 bpm, battiti utili per far saltare le<br />
gambe e i piedi in modo spastico. E come spastica era la<br />
musica dei rave del 92, anche in questo caso ci sono le<br />
ripetizioni ossessive (Fuck Dat), le vocine (Let’s Get This<br />
Started) e gli altri tools, ma il tutto viene integrato con<br />
delle atmosfere gloomy ereditate dal miglior Terror<br />
Danjah (il coro post-operistico e rituale nell’ostinato di<br />
Phantom Call), quelle cose oscure che mai si sarebbe<br />
pensato potessero arrivare ad essere applicate al ballo<br />
o con una sensibilità soul blackissima (splendido il<br />
meshing di voce ispirata e di ritmi à la Four Tet in Lost<br />
Without U).<br />
Questo disco è un segnale americano che gioca a ping<br />
pong con le più recenti evoluzioni del suono UK bass<br />
(vedi le ottime compilation Elevator Music e Future<br />
Bass). Lo stile dei cugini inglesi Ramadanman e Toddla<br />
T viene trapassato in due con passi velocissimi e<br />
figurazioni nuove, la voglia di segnalare un mondo che<br />
prende il rave, lo attualizza e lo sdogana alle generazioni<br />
post-00 apparentemente senza l’ausilio di droghe<br />
(provate a guardare su youtube qualche video di footwork<br />
e capirete perché).<br />
Ballate su questi ritmi spezzati, dedicatevi a perfezionare<br />
il vostro passo su questi singoli da tre minuti. La<br />
proposta di Clarence Johnson definisce un’ortodossia<br />
pesante, sia sulle scelte ritmiche che su quelle melodiche:<br />
ma è così che di solito si costruisce qualcosa<br />
di duraturo (vedi l’eredità Underground Resistance).<br />
Il wonky per definizione aveva un range amplissimo;<br />
qui si restringe la variabilità a pochi mattoni squadrati<br />
ma più che mai distinguibili, già testati sulle streets di<br />
Chicago. DJ Roc è il padrino dello spezzettamento del<br />
ritmo. Baciamo le mani.<br />
(7.3/10)<br />
MArco BrAggion<br />
druM eyeS - girA girA (upSeT The rhyThM,<br />
SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: n e o -k r a u T<br />
Un nome che racchiude due dei termini più in voga nel<br />
sottobosco mondiale non può che portare buone cose.<br />
La drum thunder worship gang di DJ Scotch Egg aka<br />
Shigeru Ishihara (uno con uscite su Load, tanto per capirsi)<br />
raccoglie gentaglia del giro Boredoms e Trencher,<br />
condivide stage con Omar Souleyman e Damo Suzuki e<br />
si mostra eclettica e disturbata in questo suo esordio.<br />
Evidente matrice neo-krauta e attitudine free-noise<br />
percussiva, Gira Gira è uno di quei dischi bastardi che<br />
entrano in circolo al primo ascolto e non fanno prigionieri:<br />
space-rock alla Can/Neu! rotto da schizofreniche<br />
aperture casio-oriented e tribalismo acceso (50-50),<br />
passaggi limitrofi ai Laibach più pacchianamente marziali<br />
che suonano Moroder sotto acido (Future Police), i<br />
Neurosis di Enemy Of The Sun catapultati in una quarta<br />
dimensione in cui a farla da padrone è l’elettronica per<br />
come possono intenderla i Fuck Buttons (Future Yakuza).<br />
Di carne al fuoco ce n’è tantissima e ce ne sarebbe-<br />
52 53
highlight li, procedono allo stesso modo per venti minuti e poi<br />
prendono direzioni diverse, per poi convergere di nuo-<br />
Blind jeSuS - Blind jeSuS (Von, Aprile 2010)<br />
vo alla fine, intorno al cinquantesimo minuto. Ogni<br />
Ge n e r e: a v a n T r o c k<br />
tanto l’ascolto sale in primo piano, poi ritorna come<br />
C’è tutto un gotha, in Blind Jesus, a partire dal packaging del vinile. Immagine coordinata di Carlos<br />
accompagnamento dei nostri pensieri. E si legano le<br />
Casas (imparentata con quella dell’ultimo Netmage), label Von - recente creatura discografica di Nico<br />
somiglianze, i punti che di un disco ci ricordano l’altro,<br />
Vascellari - e poi quei nomi presenti in calce. C’è Stefano Pilia, la mente principale del progetto, che<br />
in un circolo in cui è difficile risalire all’origine. Chi asso-<br />
ormai potremmo chiamare l’artigiano della musica sperimentale nostrana di più alto livello, una figura<br />
miglia a chi, in una coppia di gemelli?<br />
costante, laboriosa, fortemente duttile, un artigiano, appunto. C’è Giusep-<br />
Due versioni lasciate a disposizione persino di chi al CD<br />
pe Ielasi al mastering. Ci sono i nastri e i delay di Andrew L. Hooker, artista<br />
preferisce il video (in DVD) realizzato in collaborazione<br />
multimediale che con Pilia ha condiviso live e performance, producendo il<br />
con Andrew Schenker e Angel Oloshove. Finalmente<br />
sostrato per l’esordio a nome Blind Jesus.<br />
un album con un concept dietro, un’idea forte che non<br />
Ci sarebbero anche le avvisaglie per un progetto di raffinata caducità. La<br />
ci fa parlare di carriera solista, ma di sviluppo delle pos-<br />
musica di Blind Jesus deriva dall’arrangiamento produttivo di Stefano di<br />
sibilità di un’idea in musica. Che cosa scegliere? Prefe-<br />
quel materiale per lo più improvvisativo derivante dalle sessioni live con<br />
risco il primo o il secondo? E ogni volta siamo costretti<br />
Andrew. Ma Pilia è maestro nell’usare studio, voci, strumenti, materia prima<br />
ad ascoltarlo tutto Premiamo la stranezza, e la com-<br />
e livelli di fuoco. Usa spostamenti cognitivi e armonici alla Jandek, lamenti<br />
piutezza con la quale è stata perseguita.<br />
alla Genesis P-Orridge, chiude il lato A con urla strozzate di Kubrick. Riprende con tensioni ambientali<br />
(7/10)<br />
non distanti dagli Excepter, solitudini chitarristiche, e mantiene sempre una capacità espressiva e una<br />
lucidità compositiva, pur nello sfilacciamento dei brani, impeccabili. Il gotha non strombazza i propri<br />
gASpAre cAliri<br />
nomi senza aggiungere peculiarità e spendere personalità. Pilia e Hooker alzano la posta dell’ambien-<br />
edWood - godSpeed (A cup in The gArden,<br />
te, confezionano timbriche e architettano sviluppi con un’impressionante facilità di comunicare sensa-<br />
oTToBre 2010)<br />
zioni, stati d’animo, e di tenere incollato l’ascoltatore.<br />
Ge n e r e: indie w a v e<br />
Blind Jesus è uno dei parti migliori della Von (è il numero 6 del catalogo), e si adegua peraltro perfetta-<br />
Tornano gli Edwood dopo l'excursus in italiano sotto<br />
mente al concept dell’etichetta: sposare musica (di improvvisazione, spesso) e media art (nelle vesti di<br />
l'egida Intercity, solito il senso di apprensione futuristi-<br />
Andrew). Ma ciò che preme dire è che qui accade una cosa molto rara: questa musica è spendibile, legca,<br />
la dietrologia onirica che rende palpabile il timore di<br />
gibile, abile a circolare anche fuori dal circuito avant. Sarebbe perfetta ambasciatrice, pur essendo per<br />
vivere in un oggi sbalzato dallo ieri. La cifra melodica e<br />
nulla commerciale o popolare. Il gotha ha lavorato con una sensibilità rara, e ha dato gambe proprie a<br />
sonora dei cinque bresciani è un impasto assieme den-<br />
un progetto che speriamo davvero di veder camminare a lungo.<br />
so e aereo di trepidazioni hardcore-pop à la Grandad-<br />
(7.5/10)<br />
dy, sussulti post/wave Notwist, indie mutante Broken<br />
gASpAre cAliri<br />
Social Scene e una spruzzatina di nostalgia shoegaze.<br />
Non ti regala scossoni inauditi, ma funziona.<br />
Tanto le ballate più soft (i languori spacey della title<br />
track, la sognante Millions arricchita dalla presenza di<br />
ro ancora tante di band e suggestioni da tirare in ballo<br />
Sara Mazo, indimenticata vocalist degli Scisma) che gli<br />
- Black Dice, Wolf Eyes, Test Department, avant-rock,<br />
episodi più mossi (The Pianist, Happy Togheter) sembra-<br />
sludge-metal, tribalismo industrial - a dimostrazione di<br />
no immerse in una stessa glassa, in quella scenografia<br />
eclettismo e coraggio nel percorrere strade nuove. Gira<br />
pervadente e permanente che è assieme punto di for-<br />
Gira è una gran bella sorpresa suggerita ad ascoltatori<br />
za e di debolezza. Però, giusto un attimo prima di sem-<br />
open-minded e a curiosi indagatori delle estremità più<br />
brarti monotono, Godspeed mette in gioco arguzia,<br />
free delle musiche contemporanee.<br />
eleganza e la più concisa delle trepidazioni. E sa farsi<br />
(7.1/10)<br />
voler bene.<br />
STefAno pifferi<br />
(6.7/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
duSTing Wong - infiniTe loVe (Thrill<br />
jocKey, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: G u i T a r-minimalism<br />
"Tutto nacque quando il mio amico Andrew mi chiese di<br />
fare un concerto solista la scorsa estate": così, Dustin<br />
Wong, chitarrista e bassista dei Ponytail, descrive i primi<br />
passi di Infinite Love, primo atto solista, dopo che<br />
per anni suonare in solitaria era stato per lui un training<br />
autogeno senza pubblico.<br />
La scuola, a compiti fatti, è chiara, le discendenze anche:<br />
entrambe portano i segni di un minimalismo progressivo<br />
per sola chitarra (e batteria, per i minuti finali)<br />
che risale la genealogia - o ridiscende l’albero genealogico<br />
- da Don Caballero e Dave Pajo a Robert Fripp.<br />
Quest’ultimo è presentissimo con le sue tecniche chitarristiche<br />
e compositive, che alternano momenti di intensità<br />
a momenti di distensione ambientale. Niente di<br />
originale, eppure, nonostante la gran quantità di questa<br />
musica che è passata dalle nostre orecchie, Infinite<br />
Love non va a noia. Si sente la leggerezza, aldilà dell’ingombro<br />
dei riferimenti.<br />
Il segreto è anche nascosto anche nella trovata che<br />
sta alla base della pubblicazione. Infinite Love è fatto<br />
di due composizioni (una per CD) che iniziano ugua-<br />
el SAnTo nAdA - Tuco (AuToprodoTTo,<br />
noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: d e s e r T f o l k r o c k<br />
Impressioni di un album di debutto che - al momento<br />
in cui scriviamo - ancora non c'è. Di Tuco, esordio per<br />
El Santo Nada ovvero il Santo Niente in tenuta tex-<br />
mex, abbiamo ascoltato una pre-release. Non è chiaro<br />
il quando e il come verrà distribuito. Forse, nella peggiore<br />
(?) delle ipotesi, anche solo ai concerti della band.<br />
In ogni caso, ci sembra giusto mettervene a conoscenza<br />
adesso: si tratta di nove pezzi inediti, strumentali,<br />
frammenti di deserto trapiantati in un immaginario di<br />
frontiera sempre più apolide, globale, collettivo. Magari<br />
qualcuno si ricorderà di Tuco, il "brutto" del celebre<br />
film di Sergio Leone interpretato da un indimenticabile<br />
Eli Wallach: personaggio emblematico ieri e ancor più<br />
oggi, incarnazione della rivalsa individuale che nessun<br />
muro, check point o foglio di via potrà mai realmente<br />
sopprimere.<br />
Un clandestino della Storia nella Storia, un uomo e la<br />
semplice feroce brama di vivere, un evento naturale interpretato<br />
dal sistema come un'anomalia, il granello di<br />
polvere che può inceppare il meccanismo. Questa - al<br />
di là delle splendide suggestioni mariachi, dei miraggi<br />
desert rock, delle fregole surf e delle brume balcaniche<br />
- è l'anima del disco. La soundtrack di un film invisibile<br />
che sta accadendo davvero.<br />
(7.4/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
elecTric SixTy nine - corneliuS The<br />
colonel & The hoT Air BAloon cluB (fAce<br />
liKe A frog recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: ro c k<br />
Una piacevole sorpresa quella che arriva dal novarese,<br />
anche se non stiamo certo parlando di una band di novizi.<br />
Gli Eletric Sixty Nine sono una compagine formata<br />
da ex militanti della scena hardcore-punk di Novara.<br />
Da anni sono dediti ad un rock senza additivi, prefissi<br />
e suffissi, con Who, Mc5, Hendrix come numi tutelari<br />
anche se riletti con la freschezza della band scandinave<br />
post Hellacopters.<br />
Cornelius The Colonel & The Hot Air Baloon Club<br />
è il loro terzo album, è stato registrato agli Electrical<br />
Studios di Steve Albini ed è uno di quei dischi che ti<br />
riavvicina alla muscolarità del rock, alla sua passione e<br />
al sudore che ne traspira, tenendo fuori gli aspetti più<br />
retorici e deteriori. Il tutto grazie al fluire di energia positiva<br />
che dall'opener Magnolia (wah wah a piede libero<br />
e chorus liberatorio) irrora l'album da cima a fondo,<br />
donandogli momenti di intenso lirismo.<br />
Brani come Bone Ambitious Times e Whoohee si ricollegano<br />
a quel neo tradizionalismo rilanciato dai Pearl<br />
Jam e da quelle band che nei primi 90s inserivano nelle<br />
loro partiture southern buone dosi di psichedelia,<br />
il che ne fa qualcosa di lontano da tanto pessimo neo<br />
grunge che intasa l'etere delle stazioni americane. Nel<br />
54 55
highlight piatto il portato lisergico del kraut-rock più intenso<br />
(Can e Neu! su tutti) così come la devastante prova di<br />
dArKSTAr - norTh (hyperduB recordS, oTToBre 2010)<br />
forza che fu Sheets Of Easter degli Oneida.<br />
Ge n e r e: p o p w a v e<br />
Un solo giro di organo su base percussiva si protrae<br />
Leggi Hyperdub e ti aspetti il solito clone di Kode9 o Burial. Invece questo nuovo Darkstar spinge su<br />
per gli oltre 12 minuti dell’opener creando sfilaccia-<br />
una pista non ancora battuta (per lo meno dai music makers del suono now UK) e per questo degna<br />
menti nella percezione dell’ascoltatore. Quando ormai<br />
di essere praticata a ripetizione. La proposta del trio britannico viaggia su un territorio che mescola la<br />
la trance sembra prendere il sopravvento, ecco la voce<br />
wave al glo, le ritmiche squadrate del pop alla melodia che dall'estate scor-<br />
di Nisa: mantrica e perversa come una Nico sciamanisa<br />
ci travolge con fiumi di lacrime ipnagogiche che mai avremmo pensato<br />
ca, non spezza l’incanto, ma stende definitivamente al<br />
di poter versare ancora, noi post-adolescenti invecchiati a pane e melan-<br />
tappeto. Nello stesso modo, la traccia conclusiva - altri<br />
conia My Bloody Valentine.<br />
abbondanti undici minuti - si snoda come un raga os-<br />
Sarà merito delle vocals del nuovo arrivato James Buttery (il gruppo era<br />
sianico, maligno, parossistico proprio alla maniera dei<br />
fino a qualche tempo fa un duo dubstep formato da James Young ed Ai-<br />
citati Oneida, intenti però a rielaborare il drone-rock<br />
den Whalley), saranno i riferimenti agli onnipresenti Four Tet, Apparat<br />
della Vibracathedral Orchestra.<br />
e Morr Music, sarà che la techno da dancefloor l'avevano già esplorata a<br />
Robotici come i Suicide e minimali come discepoli anti-<br />
fondo altri maestri. Possibilità di riferimenti incrociati che si aggiungono<br />
accademici e sfrontati di Terry Riley, i due dimostrano<br />
al pianismo Ottanta semplice ma intriso di midi e 8-bit in Gold, alle chitarre dei Cure e allo spleen del<br />
di saper giostrare col free-rock anche nei restanti 3 pez-<br />
dark in Deadness, al minimalismo nel singolo (già noto ai fan di Harmonic 313 e osannato nel 2009 da<br />
zi, dal minutaggio più umano: paranoici sing-a-long e<br />
Pitchfork) Aidy's Girl Is a Computer e agli stupendi rimandi kraut nei synth di Two Chords e Ostkreuz.<br />
ipnotiche influenze velvetiane, esoterici richiami orien-<br />
Che Londra e l'oscurità siano definitivamente da riporre nel diario dei ricordi? Passeggiando per i vicoli<br />
tali e trance strumentale si alternano senza soluzione<br />
bui dello sprawl britannico restiamo abbagliati da un retrogusto di malinconia che si apre al pop tout<br />
di continuità, dando la misura di un disco-bomba. Spi-<br />
court e che preannuncia rivoluzioni. Quando un piccolo disco promette universi e deviazioni, quando<br />
ritualmente pagano, musicalmente trascendentale.<br />
una manciata di tracce accadono alla fine di un decennio, qualcosa di profetico ci sarà. Segnatevelo. Già<br />
(7.5/10)<br />
in top ten di fine anno per chi scrive.<br />
(7.8/10)<br />
STefAno pifferi<br />
MArco BrAggion<br />
fArABruTTo - eSTreMorienTe Mediocre<br />
occidenTe (freecoM, oTToBre 2010)<br />
sound degli Electric Sixty Nine la vena radiofonica c'è,<br />
ma viene direttamente dai 70s e suona come una ventata<br />
d'aria fresca.<br />
(6.5/10)<br />
diego BAllAni<br />
elio p(e)Tri - non è MorTo neSSuno<br />
(MATTeiTe, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: c a n T a u T o r a T o indie<br />
Emiliano Angelelli è giornalista e cantautore di origini<br />
umbre ma stanziato a Roma, la fama di bizzarro confermata<br />
dalla scelta d'imporre al suo progetto solista<br />
il nome di un grande regista morto troppo presto, fatto<br />
salvo un uso non convenzionale delle parentesi. Ma<br />
Elio P(e)tri non esisterebbe senza il decisivo contributo<br />
di Matteo Dainese, batterista in primis (già Ulan Bator<br />
e Jitterbugs) e in questo caso anche produttore. I<br />
due si sono conosciuti nel 2009, intesa fruttuosa che,<br />
a partire da demo casalinghi risalenti all'ultimo lustro,<br />
confeziona oggi un album di debutto degno di considerazione.<br />
Dieci tracce in italiano, testi come haiku in loop a cele-<br />
brare una travagliata ricerca (e riscoperta, e smarrimento)<br />
di sé, trame sonore elettroacustiche che rammentano<br />
dei Blur in fregola zen, certo camerismo corrucciato<br />
dEUS, angolosità poetiche Marco Parente, lirismo<br />
rappreso La Crus oppure un Paolo Benvegnù robottizzato<br />
Warp. Non spiace l'aria grave continuamente<br />
stemperata tra disillusione e autoironia, come un'intensità<br />
spacciata per scherzo. Infine, giusto mettere in<br />
rilievo due pezzi come Rachmaninov e Bradipo, che nel<br />
fantomatico mondo dei giusti avrebbero i numeri per<br />
farsi largo nelle migliori playlist.<br />
(7/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
fABulouS diAMondS - fABulouS diAMondS<br />
ii (SilTBreeze recordS, giugno 2010)<br />
Ge n e r e: f r e e-r o c k<br />
Cinque tracce untitled per una mezzora abbondante<br />
di reiterato, ossessivo e circolare free-rock. Così si presenta<br />
il ritorno dell’accoppiata australiana Nisa Venerosa<br />
(batteria/voce) e Jarrod Zlatic (voce/tastiere) dopo<br />
l’eponimo esordio di un paio di anni fa: mettendo sul<br />
Ge n e r e: c a n T a u T o r a T o r o c k<br />
Un trio da verona sbocciato allo scoccare degli anni<br />
zero, al debutto nel 2004 con Alzare la voce che si<br />
guadagnò attenzioni al Tenco (terza piazza categoria<br />
opere prime). Quanto al successore, dovevamo riparlarne<br />
solo sei anni più tardi, ovvero oggi. Estremoriente<br />
Mediocre Occidente mette in fila undici tracce di<br />
cantautorato (folk) rock, il piglio intenso e disturbante,<br />
lo strano contrasto tra la flemma quasi garbata, gli spasmi<br />
acidi e le sferzate post-punk, tra il sostrato acustico<br />
e i watt in derapage.<br />
Potremmo collocarli da qualche parte tra la passionalità<br />
obliqua di Paolo Benvegnù e i Perturbazione più<br />
pensosi, con memorie Eugenio Finardi, particelle Andrea<br />
Chimenti e un più che palpabile retroterra artwave.<br />
La triangolazione sonora è comunque inedita,<br />
che io ricordi: chitarra acustica, mandolino elettrico<br />
e "ground drums". Ed efficace. Molto buono il singolo<br />
Vivere, ottime intuizioni in Retorica, climax degno del<br />
miglior Ivano Fossati in Contenimento. Unica pecca il<br />
canto un po' monocorde, ma sospetto si tratti di una<br />
scelta precisa.<br />
(7/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
forMer ghoSTS - neW loVe (upSeT The<br />
rhyThM, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: s y n T h -p o p<br />
Il nuovo amore dei Former Ghosts non si discosta da<br />
quello vecchio. A brillare nel firmamento della band di<br />
Freddy Ruppert - al solito coadiuvato da mr. Xiu Xiu<br />
Jamie Stewart e Nika Zola Jesus Roza e dalla new entry<br />
Yasmine Kittles dei Tearist - brillano synth-pop Ottanta<br />
(quello più dark e alienato) e soprattutto la stella nera<br />
dei Joy Division.<br />
Quelle create dalla formazione losangelina sono infatti<br />
claustrofobiche atmosfere synth-oriented messe<br />
al servizio di una poetica struggente, pregne di un<br />
romanticismo decadente e spaccacuori che trasuda<br />
disperazione e smarrimento nel narrare storie di cuori<br />
infranti, gelosie e ossessioni personali proprio nella migliore<br />
tradizione JD.<br />
È un continuo vortice spazio-temporale tra l’here&now<br />
e un passato introiettato alla grande, New Love. Un<br />
omaggio, un plagio, una rielaborazione e riedizione<br />
continua degli stilemi più evidentemente e marcatamente<br />
propri della storica formazione di Manchester<br />
(And When You Kiss Me e Bare Bones sono puro JD<br />
sound, con un baritonale e melodrammatico Ruppert<br />
in pieno mega-trip Curtisiano). Ma anche una maniera,<br />
troppo evidente per sembrare artefatta, per smarcarsi<br />
dall’emul-rock che in questi anni ’00 ha usato e abusato<br />
di quel sound, di quell’immaginario, di quelle cicatrici<br />
dal lato più commercialmente spendibile (vedi Interpol<br />
et similia).<br />
New Love è indubbiamente più "pop" rispetto al predecessore<br />
Fleurs, ma resta sempre in filigrana una sensazione<br />
di imminente tragedia, di tocco al cuore, di ferita<br />
non rimarginata. Sempre in tensione, sempre emotivamente<br />
instabile. Che a ben vedere è proprio ciò che si<br />
chiede ad un certo tipo di musica.<br />
(7.2/10)<br />
STefAno pifferi<br />
friSVold & lindBæK - diSKoSM (BeATSerVice<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: eT n o, a m b i e n T , d a n c e<br />
Rune Lindbaek e Kare Frisvold, sono due dei numerosi<br />
personaggi di culto della cricca space disco di Oslo,<br />
gravitante attorno a Prins Thomas, Lindstrøm e Bjørn<br />
Torske. La loro specialità consiste nel mescolare dub,<br />
ambient balearico e sample bleepy in una serie di traiettorie<br />
etno - come piacerebbero a Bill Laswell ma<br />
soprattutto ai Future Sound Of London - aggiornando<br />
il tutto al clubbing odierno. Niente di nuovo per i<br />
movimenti di un personaggio come Torske: la coppia<br />
56 57
punta infatti a un'analoga zona di confine tra house e<br />
decompressione in Diskosm, una compila di remix che<br />
è sin’ora il loro unico disco lungo.<br />
Nella proposta di accostamento troviamo i newyorchesi<br />
Phenomenal Handclap Band opportunamente<br />
cocktalizzati e sparati su una spaggia su marte (All<br />
Of The Above), oscuri norvegesi che si abbeverano alla<br />
techno pop Kraftwerk-iana (The New Wine The Bridge),<br />
sanfranciscoani IDM fine ’80 (Lemonade, Bliss Out) e fischiettate<br />
cinematiche (Kohib, Tales from a Nomad). Ma<br />
soprattutto una manciata di track 4/4 belle bombate e<br />
tagliate funk house (Holy Heckler, I Wish for You), deep<br />
(Kurt Maloo, Afterglow) e jazz (Skatebård, Vuelo).<br />
Quando calcano sui bpm, Frisvold & Lindbæk hanno<br />
i numeri per spaccare, eppure a tradirli spesso è una<br />
voglia di mesh di scuola francese che andrebbe tenuta<br />
a bada (Mungolian Jetset, Moon Jocks). Calibrando la<br />
generosità dell'offerta scopriamo un gusto già solido<br />
su ritmi caldi, senza distinguo tra Est e Ovest del mondo.<br />
Godibile.<br />
(6.5/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
giAnT SAnd - Blurry Blue MounTAin (fire<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: a m e r i c a n a<br />
Parafrasando Forrest Gump, ascoltare un album di<br />
Howe Gelb equivale ad aprire una scatola di cioccolatini.<br />
Non sai mai bene cosa farà costui e come lo farà: un<br />
pregio proprio dell'indole arruffata e spontanea di chi<br />
sa sfruttare il momento e porge gemme che scavano<br />
come formiche nella terra: calme, tenaci e figlie del genio.<br />
E anche di un caso piegato splendidamente dentro<br />
rock turgidi (Thin Line Man) oppure aciduli (Monk’s<br />
Mountain), dentro serafiche istantanee (Better Man<br />
Than Me) e ballate da deliquio (Fields Of Green), dentro<br />
un jazz come lo suonerebbero Thelonious Monk da<br />
un lounge-bar di provincia (Chunk Of Coal) o un giovane<br />
Waits già "out" (Time Flies). Se non che talvolta l’approssimazione<br />
butta lì robetta che confonde e addirittura<br />
irrita: se Howe rifinisse e scartasse, rischieremmo<br />
però di perdere personalità e magia.<br />
Così è trascorso un quarto di secolo, oggi festeggiato<br />
con l’accasarsi alla Fire avviando un interessante piano<br />
di ristampe e questo album nuovo di zecca. Che manco<br />
a dirlo è amorevolmente sconclusionato, svolto tra canzoni<br />
odorose di nottate spese a guardare le stelle e levare<br />
sabbia dai cardini con qualche amico - la band danese<br />
che lo ha accompagnato dal vivo di recente - e poco che<br />
soccombe alla svagatezza (il girare a vuoto di Brand New<br />
Swamp Thing, una Spell Bound col pilota automatico). Per<br />
il resto, solo assi di cremosa narcolessia che diresti scritti<br />
ed eseguiti da visionari assonnati (The Last One, No Tellin’)<br />
e che mai scambieresti con belle forme senz’anima.<br />
Sommate a quanto sopra, a una sublime Ride The Rail più<br />
realista di Re Johnny Cash e allo struggente commiato<br />
Love A Loser, danno una sostanza che non gusti spesso.<br />
Altri venticinque anni come questi, Mr. Gelb.<br />
(7.2/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
gooSe - SynriSe (!K7, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: n u -r a v e<br />
Anche se la copertina è di Storm Thorgerson, il designer<br />
che ha creato il monolite dei Pink Floyd Dark Side<br />
of the Moon, il disco dei belgi Goose non può essere<br />
propriamente definito un classico. Impantanato su vaghe<br />
coordinate nu-rave e qualche progressività Ottanta,<br />
il sophomore (dopo l’esordio del 2006 Bring It On)<br />
replica un sentire ormai fatiscente, impolverato e autoreferenziale,<br />
che ha già dato e/o detto tutto.<br />
Non serve chiamare Peaches a cantare i cori della traccia<br />
che da il nome all’album, scimmiottare i Depeche<br />
Mode di Speak & Spell (After, Like You, Words) o i Duran<br />
Duran (Can’t Stop Me Now). Questi Goose, come molte<br />
band che cavalcano l’onda del retrofuturismo spicciolo<br />
durano il tempo di un veloce skip. Meglio riprendere<br />
in mano quei vecchi dischi con il baffo di Moroder che<br />
traguardava utopie eurodisco. Un’inutile tamarrata.<br />
(3.5/10)<br />
MArco BrAggion<br />
hArMoniouS TheloniouS - TAlKing (iTAlic,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o l i-minimalism<br />
Si descrive facilmente, la musica di Harmonious Thelonoius.<br />
È sufficiente leggere la mission del combo,<br />
dichiarata su sito ufficiale: american minimalists VS<br />
african drumming VS european sequencing. Talking<br />
è costruito come un flusso indefesso di percussioni<br />
africane sposate a tecniche di ripetizione minimalista,<br />
con innesti di beat elettronici e sequenze percussive di<br />
macchine. Un para-live infinito, che assume a principesco<br />
riferimento la cricca Konono N°1 (Makeshift, Primitive,<br />
Persuasive, Provocative Percussion), soprattutto per<br />
le armonie minime scaturite dalla jam e dai tamburi<br />
(senza pelli, nel caso degli africani, come sappiamo).<br />
Dietro al progetto c’è Stefan Schwander, maggiormente<br />
noto come Antonelli o Antonelli Electr. La provenienza<br />
del Nostro è flebile giustificazione dei sentori<br />
di motorizzazioni kraute dietro al sound di HT, ma non<br />
dice nulla sulla evidente intenzione (dentro alla musi-<br />
ca, non all’autore) di nascondere la propria penna, di<br />
sottrarsi dal ruolo di scrivere musica, per godere del<br />
risultato di un tipo musicale, anzi di un intreccio di tipi<br />
oggi molto in voga. Per adagiarsi su quella che in effetti,<br />
sulla carta, sembra a formula perfetta.<br />
È molto furbo, Stefan, ma lo sarebbe stato di più un<br />
paio di anni fa, quando l’ondata dei tribalisti metropolitani<br />
surfava ancora sulla maggior vivacità della propria<br />
cresta. L’effetto di Talking è un appagamento completo<br />
dell’orecchio ma un annebbiamento dell’attenzione<br />
cognitiva. Nonostante i beat, i poliritmi e le ripetizioni<br />
minimaliste, resta in mente un vuoto ipnotico, una<br />
sospensione immobile, pur martellata di percussioni.<br />
Non siamo lontanissimi dal trip indotto dai Konono,<br />
ma onestamente neanche vicini.<br />
(6/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
heliogABAle - Blood (leS diSQueS du<br />
hAngAr 221, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: indie-n o i s e -r o c k<br />
Con un nome di artaudiana memoria e un suono spigoloso<br />
e distorto, i francesi Heliogabale rappresentavano<br />
nella seconda metà dei ’90 uno dei vertici della<br />
ventata rumorosa proveniente d’oltralpe. Ora, dopo<br />
uno iato più che quinquennale (Diving Rooms del 2004<br />
l’ultimo passo conosciuto) tornano con un album che<br />
lima le asperità e le peripezie da funamboli del mathrock<br />
noise che ne segnavano la proposta per adagiarsi<br />
su un rock corposo, rotondo e accessibile.<br />
Molto nel suono del quintetto parigino ruota intorno<br />
alla personalità della vocalist Sasha Andrés, debordante<br />
e fin troppo catalizzatrice degli umori di un disco<br />
che invece ha nelle soluzioni strumentali varie e non<br />
noiose una buona lezione di indie-rock "della maturità".<br />
I Come di Thalia Zedek, alcuni passaggi shellacchiani<br />
nelle parti di chitarra, un andamento noise-blues<br />
sottotraccia, una spruzzata di Sonic Youth del medio<br />
periodo, una buona tenuta indie sono messe al servizio<br />
della chanteuse francese e dei suoi toni chiaroscurali e<br />
ondivaghi, ora da Joplin indemoniata, ora sensuale e<br />
roca come una Kim Gordon ventenne. Trovare il giusto<br />
equilibrio è possibile e potrebbe essere la mossa giusta<br />
per rilanciare un'onesta carriera.<br />
(6.2/10)<br />
STefAno pifferi<br />
hjAlTAlín - TerMinAl (Borgin, SeTTeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: c h a m b e r p o p<br />
Facilità melodica e leggerezza, si diceva l’anno scorso<br />
a proposito del bel debutto (Sleepdrunk Seasons)<br />
del collettivo islandese Hjaltalín - guidato da Hogni<br />
Egilsson - che si ripropone ora a distanza di un anno e<br />
mezzo circa con Terminal (già uscito nel 2009 in patria<br />
e ora distribuito).<br />
Chamber pop cantato spesso a due voci, maschile e<br />
femminile, con massime variazioni in tempi e mood: le<br />
caratteristiche fondamentali del gruppo sono rimaste<br />
inalterate per questo sophomore album, in cui la cifra<br />
lirica è sempre presente, così come il talento compositivo<br />
e l’alchimia di gruppo, che avevamo già rilevato.<br />
Degli Arcade Fire meno impetuosi, o meglio dei Broken<br />
Social Scene, con un amore per Burt Bacharach,<br />
Lee Hazlewood, Beach Boys, così come per la musica<br />
colta.<br />
Di nuovo in Terminal c’è un maggiore senso della<br />
coralità e un avvicinamento ad atmosfere da musical<br />
(Antony sembra essere dietro l’angolo) e in generale<br />
al pop sixties che prima era meno evidente - si prenda<br />
per esempio un pezzo come la mini suite Feels Like<br />
Sugar, che ricorda i duetti di Bacharach e certe cose<br />
di Dusty Springfield - per evidenziare questa piccola<br />
svolta. Non mancano anche piccoli richiami soul funk<br />
e disco assenti finora (la mutevole Seven Years con tentazioni<br />
Abba e Water Poured In Rain) e omaggi neanche<br />
troppo celati al maestro Robert Wyatt (la variabile<br />
Song From Incidental Music).<br />
Talento confermato.<br />
(7.2/10)<br />
TereSA greco<br />
hugo rAce - fATAliSTS (inTerBAng recordS,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: indie-f o l k-r o c k<br />
A livello superficiale, il mondo sonoro di Hugo Race<br />
appare come certi film di fantascienza sociale degli<br />
anni Settanta: una situazione normale, ordinaria che<br />
nasconde piccoli scarti verso il nero, il disperato, l'indicibile,<br />
ma senza che tutto ciò sembri turbare gli abitanti<br />
di quel mondo. Una musica, quindi, che se ascoltata<br />
distrattamente potrebbe scorrere nelle nostre cuffie<br />
come l'ennesimo disco di rock che affonda nelle radici<br />
più sanguigne della tradizione, similmente al Mark Lanegan<br />
onnipresente di oggi, con o senza Greg Dulli,<br />
con o senza la biondina scozzese.<br />
Ma se gli intarsi vocali di Will You Wake Up possono ricordare<br />
le fatiche dell'ex Screaming Trees in compagnia<br />
di Isobel Campbell, l'iniziale Call Her Name mette<br />
su altri binari queste otto tracce di Hugo Race: i pochi<br />
squarci di luce nel cielo nuvoloso vengono ricacciati indietro<br />
a suon di disperate mutazioni di slideguitar, at-<br />
58 59
mosfere esiziali e una tendenza all'assoluto che lascia<br />
senza fiato. Lo stesso si deve dire di Coming Over, che<br />
sa di marcia funebre, contornata di corvi in volo sopra<br />
la bara, o della corsa a fari spenti nella notte di Nightvision.<br />
D'altra parte, questo disco incentrato sul concetto di<br />
morte, è stato registrato mentre lo stesso Hugo superava<br />
la polmonite in una villa nella campagna italiana<br />
(Italia che deve proprio piacere a Race, tanto che per<br />
qualche tempo ha vissuto a Catania) durante lo scorso<br />
autunno: "faceva freddo e per tutto il tempo della produzione<br />
me ne sono dovuto stare a guardare e ascoltare<br />
a causa della febbre". Più fatalista di così...<br />
Non tutto è allo stesso livello, a partire da una poco<br />
convinta In The Pines già resa nota dall'Unplugged dei<br />
Nirvana, e una Serpent Egg che sembra proprio un outtake<br />
di Here Comes That Weird Chill proprio di Lanegan.<br />
Detto questo, il resto fa scendere più di qualche brivido<br />
lungo la schiena. Di disturbante piacere.<br />
(6.8/10)<br />
MArco BoScolo<br />
iSlAjA - KerAAMinen pää (fonAl, noVeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: f o l k, e l e T T r o n i c a<br />
Se n'è parlato tanto della freakerie finlandese: terra di<br />
folletti lo-fi, registratori magici, strumenti scordati che<br />
somigliano ad incantesimi pagani. Islaja ne è stata<br />
l'indiscussa regina e ora con Keraaminen Pää, abbandonati<br />
balalaika, orpelli e plaid boschivi, tenta la svolta<br />
vestendosi di un suono di disincantata inattualità poggiato<br />
su elettroniche e calore vocale inedito.<br />
E' infatti l'Occidente di Soap & Skin (così come<br />
quest'ultima riscrive la mitteleuropa di Nico) l'ambito<br />
che la folkster guarda con interesse rinunciando alle<br />
corde per liberarsi in sarabande corali (Joku Tai Roden),<br />
reggae per organetto (Dadahuulet), monologhi solitari<br />
da sirena oceanica (Pimeyttä kohti), loop etno-tribali<br />
(Rakkauden palvelija 14), trasfigurazioni eighties similbjorchiane<br />
(Ajanlaskun Aatto).<br />
Testimoni del salto avvenuto, i saliscendi di pianoforte<br />
nell'avveniristica cornice barocca, la preziosità di certi<br />
arrangiamenti che hanno un sapore lirico e certi accostamenti<br />
elettronico-orchestrali dall'impatto luminescente<br />
e disinvolto. Proprio sul versante laptop - come<br />
anche con Es, ed i conterranei Paavoharju - il passaggio<br />
al suono algoritmico ha fornito ulteriori elementi di<br />
arricchimento e trasversalità.<br />
(7/10)<br />
SAlVATore Borrelli<br />
jocelyn pulSAr - il gruppo SpAllA non fA<br />
il SoundchecK (i diSchi dellA lAVATrice,<br />
Aprile 2010)<br />
Ge n e r e: indie-p o p<br />
Ormai è un fatto assodato: nell'indie nostrano esiste<br />
una scuola "romagnola". Una via leggera e scazzata al<br />
pop capace di riassumere in sé tutti quelli che sono i<br />
caratteri fondanti di chi nella terra del cappelletto è<br />
nato: indifferenza nei confronti del mercato, ironia che<br />
ammicca al demenziale, flagello di "c" e di "z" in una<br />
pronuncia che è carta di identità in tutto e per tutto (e<br />
credetemi, so di cosa parlo). Agli ultimi Granturismo<br />
e Nobraino si aggiungono ora i Jocelyn Pulsar - anzi<br />
si sono aggiunti già da un po', visto che parliamo del<br />
quinto disco della formazione -, al secolo Francesco<br />
Pizzinelli da Forlì. Con un tripudio di chitarre acustiche<br />
e melodie appiccicose orgogliosamente provinciali,<br />
autobiografiche, irrimediabilmente nerd ma anche<br />
"modaiole", almeno nell'accezione del termine tipica di<br />
una Romagna estiva e fin troppo easy.<br />
I proverbiali Mr. Brace stavano su un altro livello, è<br />
vero, sia dal punto di vista del suono - qui è un po' tutto<br />
uniforme, senza picchi né particolari cadute di tono<br />
- che dei testi. Tuttavia il pop disimpegnato da sabato<br />
pomeriggio in centro dei Jocelyn Pulsar lo si ascolta<br />
volentieri, una volta spenti gli interruttori del pensiero<br />
critico più impegnato.<br />
(6.7/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
john roBerTS - glASS eighTS (diAl, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: de e p<br />
Se da una parte la deep spopola ancora sul dancefloor,<br />
a Berlino la voglia di IDM non è passata, anzi c'è pure<br />
molta spinta a portarla nei teatri, questa house oramai<br />
istituzionalizzata. Dopo la dream di Apparat, i ghiacci<br />
di Pantha Du Prince, le atmosfere di Efdemin e Lawrence<br />
e il pianoforte in cassa di Francesco Tristano<br />
arriva John Roberts. Lui è un giovane produttore proveniente<br />
da Cleveland attualmente residente a Berlino<br />
già fattosi apprezzare da Resident Advisor per un paio<br />
di uscite su Dial Records (dove tutt'ora è l'unico artista<br />
non krauto del roaster).<br />
A parte Pruned apparsa su Mirror EP della scorsa estate,<br />
quest'esordio sulla lunga distanza è interamente formato<br />
da materiale inedito e parla la lingua della deep<br />
house classica e della Warp primi Novanta. Di suo Roberts,<br />
oltre a claps e drum machine Roland, un basso<br />
avvolgente e synth analogici, ci mette il pianoforte<br />
classico proprio come Tristano, ma con finalità in tutto<br />
e per tutto ambient, attingendo per costruire la sua tavola<br />
da tipici paesaggi germanici tra pioggia e finestrini<br />
appannati, cementi diroccati e cieli color piombo.<br />
C'è tanto cuore nell'house dell'americano ma anche<br />
capacità di sceneggiatura come si nota in August (note<br />
uggiose, tocchi ironici delle vocals, i synth e la linea melodica<br />
appena accennata) e Went (solo piano e gracchi<br />
del giradischi in remember glitch). Da avere.<br />
(7/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
joSephine foSTer - & The VicTor herrero<br />
BAnd - AndA jAleo (fire recordS,<br />
noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: m u s i c a l p o e T r y<br />
Ancora una scelta sui generis, in questo caso di natura<br />
politica e autoriale, è alla base del nuovo album di<br />
Josephine Foster realizzato con The Victor Herrero<br />
Band: si tratta di una serie di canzoni popolari scritte<br />
da Federico Garcia Lorca e contenute nel libro Las<br />
Canciones Populares Espanolas, le quali hanno rappresentato<br />
la dissidenza contro il regime spagnolo franchista.<br />
Bandite all’epoca in Spagna durante gli anni della dittatura,<br />
sono state un importante veicolo culturale e<br />
vengono oggi riscoperte grazie all’autrice americana e<br />
al suo compagno Victor Herrero. Già testimone coraggiosa<br />
di scelte altre, si veda il recentissimo Graphic As<br />
A Star (Emily Dickinson in musica), nonché la rivisitazione<br />
di una serie di lieder tedeschi di Shubert, Brahms<br />
e Schumann (A Wolf In Sheep's Clothing, 2006), la Foster<br />
qui riduce all’osso la sua musica, che diventa performance<br />
a due prettamente acustica, accompagnata<br />
un ristretto numero di musicisti; registrato dal vivo<br />
Anda Jaleo ripercorre con vigore le canzoni del poeta<br />
spagnolo, rispettandone tempi e modi in una riproposizione<br />
appassionata e filologicamente impeccabile. Al<br />
solito la voce della Nostra si snoda tra tentazioni folk e<br />
personalità da vendere, e fa perciò la differenza in queste<br />
cover sghembe e fascinosissime. Grande musica<br />
d’autore.<br />
(7.3/10)<br />
TereSA greco<br />
juleS noT jude - All AppleS Are red, excepT<br />
for ThoSe Which Are noT red (produzioni<br />
dAdA, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p s y c h p o p<br />
L'ep Clouds Of Fish col quale li ho conosciuti, vi dirò,<br />
mi è rimasto incastrato da qualche parte tra l'anima e<br />
il cuore. Una di quelle cose che ti capitano e dici che<br />
bello, il refolo d'aria fragrante in mezzo a troppi respiri<br />
affannosi. Ai tempi - pochi mesi fa - i Jules Not Jude<br />
erano un duo. Oggi, in occasione dell'album d'esordio,<br />
diventano quartetto: ai fondatori Simone Ferrari e Mirza<br />
Shaman si sono aggiunti il bassista Mauro Parolini e<br />
la drummer Marzia Savoldi. Il suono ne esce più sbrigliato<br />
e definito, perdendo un po' di quell'alone caliginoso<br />
sui cui - a mò di cortina fumogena - si proiettavano<br />
aspettative e dolci misteri psych-pop.Peccato? Ok,<br />
peccato. Ma è un prezzo congruo se sul piatto della bilancia<br />
ci metti una disinvoltura che somiglia parecchio<br />
alla piena consapevolezza di mezzi e obiettivi.<br />
Gli undici pezzi caracollano tra gli Samshing Pumpkins<br />
più soft (il canto di Ferrari strizza spesso l'occhio<br />
a quello di Corgan), i Belle And Sebastian e tutto un<br />
poppeggiar bucolico che pesca suggestioni sixties<br />
(Zombies, i primi Small Faces) e contemporanee (Delgados,<br />
Super Furry Animals), per non dire nostrane<br />
come Annie Hall e Le Man Avec Les Lunettes (entrambi<br />
a vario titolo presenti nei credits). Buon disco,<br />
col valore aggiunto di un potenziale hit come Caramel<br />
Lovelypop.<br />
(7/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
KeiTh fullerTon WhiTMAn - diSingenuiTy<br />
B/W diSingenuouSneSS (pASTA BASe,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: c l a s s i c T r o n i c a<br />
Keith Fullerton Whitman aka Hrvatski torna al full<br />
lenght vinilico dopo quattro lunghi anni passati a diffondere<br />
il verbo dell’avanguardia elettronica classica in<br />
serate live, split, mini 12’’, edizioni limitate, nastri e attivismo<br />
culturale. Due facce del disco per due pezzi che<br />
riprendono registrazioni dal vivo degli ultimi anni, passati<br />
tra Cambridge (il ragazzo ha studiato alla Berklee),<br />
New York e Toronto e li rielaborano seguendo un approccio<br />
anticommerciale senza nessun compromesso<br />
o pelo sulla lingua.<br />
La mezz’ora complessiva delle tracce è una selezione<br />
da una più lunga improvvisazione, basata su field<br />
sounds di elicotteri (e qui ritorna il fantasma del quartetto<br />
di Karlheinz Stockhausen), passeggiate nella<br />
neve e voci di bambini riversati su una macchina Nagra<br />
a nastro, che non registra solo il suono degli speakers,<br />
ma anche i rumori dei chip interni. Il risultato è distante<br />
dalle prove di musica informatica (costruita cioé solo<br />
con l’elaboratore o con le macchine), cui ci ha abituati il<br />
ragazzo Whitman: oggi ci si confronta con le sperimentazioni<br />
live dei francesi, passando per lo Studio di Fonologia<br />
milanese di Nono, Berio, Maderna e Zuccheri.<br />
60 61
highlight lo-fi psichedelico, piuttosto romantico, l'aria matura e<br />
indolenzita di chi ormai ha masticato parecchia disillu-<br />
frAnceSco TriSTAno SchliMé - idioSynKrASiA (infiné, noVeMBre 2010)<br />
sione ma non rinuncia alle fatamorgane rock. Li senti<br />
Ge n e r e: de T r o i T p i a n o<br />
muoversi tra dissonanze My Bloody Valentine ed in-<br />
Prima la collaborazione con Murcof (sua la produzione di Not For Piano), poi con Moritz Von Oswald<br />
cubi psicoattivi Flaming Lips (Gimme Lies), tra melodie<br />
in Auricle Bio On e infine oggi con Carl Craig su questo nuovo full length. La parabola di Tristano si<br />
deragliate Daniel Johnston e post-glam sfrigolante<br />
aggancia alle visioni di un ambient/classica ormai sempre più a portata di club, tanto che la prova ge-<br />
Brian Eno (Red Eyes), spiegazzando dolcezze malmonerale<br />
di queste nove tracce si è tenuta proprio in una delle mecche del clubbismo europeo. Lo scorso<br />
stose Magnetic Fields in salsa Sparklehorse (You<br />
luglio allo Space ibizenco, gli increduli spettatori hanno infatti assistito alla prova generale preludio di<br />
Should Wear A Dress) o Radiohead (Raged Nights), per-<br />
questo bel disco: un pianoforte gran coda immerso nel buio nel tempio della house e un Cark Craig che<br />
mettendosi di sdolcinare Beck in un brodo Polypho-<br />
comanda l’iPad per modificare dal vivo il suono del ragazzo, aggiungendo<br />
nic Spree (Motor Fear) oppure d'incendiare languori da<br />
i suoi tocchi magico-estatici. Da quella serata il duo ha tratto la forza e la<br />
camera Nick Cave con un tripudio di svalvolate spacey<br />
consapevolezza di essere sulla giusta strada per un progetto definitivo.<br />
(Away And Still Cold).<br />
Ai confini con una visione che distilla il sentire soul di Detroit (le registra-<br />
Ogni pezzo azzecca un equilibrio prodigioso sulla prozioni<br />
sono state effettuate negli studi Planet E di Craig, impiantati nel supria<br />
obliqua congiuntura sonica: come una trottola che<br />
burbio della Motor City della techno), le nove tracce che abbiamo l’onore<br />
traballa ma non smette di girare, come una generosa<br />
di ascoltare oggi si adattano all’ascolto per palati sopraffini, delineano toc-<br />
problematica ostinazione, come un rammarico che<br />
chi ritmici che vanno ad ampliare il suono del gran coda senza sovrastarlo,<br />
non rassegna a spegnersi. Disco che vibra vivo dalla<br />
quasi dei piccoli incantesimi che elevano l’antesignano acustico di tutte le<br />
prima all'ultima nota.<br />
consolle a culto. Idiosincrasia appunto, che si adagia sui territori ambient: un viaggio, dice Francesco,<br />
(7.5/10)<br />
"in qualche modo tra l’acustico e l’elettronico. La mia ambizione è quella di conferire al pianoforte una nuova<br />
identità, poiché è spesso associato con la musica classica ed è visto come uno strumento del passato. Io<br />
STefAno SolVenTi<br />
lo vedo invece come uno strumento proiettato nel futuro".<br />
KingS of leon - coMe Around SundoWn<br />
Ben vengano quindi gli intagli con la tradizione techno, purché dosati con parsimonia e savoir faire da<br />
(rcA, oTToBre 2010)<br />
rodati arrangiatori: il sapore sudamericano di Fragrance De Fraga, i sogni che ricordano l’ultimo David<br />
Ge n e r e: in d i e r o c k<br />
Sylvian in Lastdays, le visioni post-jazz cubiste con gli echi dei migliori Underworld (Mambo), i silenzi<br />
Il precedente Only By The Night è stato un vero e pro-<br />
di Vladislav Delay mescolati al minimalismo classico di Philip Glass in Nach Wasser Nor Erde, la proprio<br />
nuovo inizio per i Followill. Dopo il classico esordio<br />
gressione à la Steve Reich contaminata con l’anima black in Idiosynkrasia, il ricordo easy listening con<br />
da next big thing e l'inevitabile parabola discendente<br />
i clap uptempo di Eastern Market, Single And Doppio che potrebbe essere l’unica traccia destinata a un<br />
tipica di chi ha invaso per mesi le pagine dell'NME, i<br />
DJ set dei più ispirati e per finire la lunghissima chiusa psych con i synth di Craig nei dieci minuti e più<br />
quattro del Tennessee hanno saputo ricalibrare il pro-<br />
di Hello-Inner Space Dub. Tristano e Craig: grandissima abbinata. Puntate tutto su di loro.<br />
prio sound su un alt rock decisamente più edulcorato<br />
(7.6/10)<br />
rispetto al garage degli esordi, tuttavia non privo di<br />
MArco BrAggion<br />
spunti.<br />
I maligni li hanno già ribattezzati i "Southern U2", per<br />
l'attitudine da "stadium song" di brani come Sex On<br />
Fire. Ecco allora che questo Come Around Sundown<br />
Il viaggio attraverso le tecniche classiche di elabora- vedere nuovi mondi di cui non conoscevamo l’esisten-<br />
funge cartina di tornasole per testarne la reale consizione<br />
del suono in Disingenuity sembra non avere un za. Non è di immediato appealing come Lisbon, ma in<br />
stenza, anche alla luce dell'imponente dispiegamento<br />
punto di riferimento, è un collage di sperimentazioni qualche modo scovatelo questo vinile, anche se è già<br />
di mezzi che presumibilmente l'etichetta avrà conces-<br />
adatte per un trip acido che ricorda le infatuazioni per esaurito su tutti i siti. Non ne uscirete vivi.<br />
so loro.<br />
il concretismo di Parmegiani o del primo Xenakis. Se (7.2/10)<br />
La cosa che colpisce, infatti, non appena partono le<br />
il lato A si confina ad un eremitaggio per pochi eletti,<br />
MArco BrAggion<br />
prime note dell'opener The End (!), è l'imponenza della<br />
la seconda faccia (Disingenuousness) parte invece con<br />
produzione. Col precedente lavoro, hanno assaporato i<br />
una progressività minimal glitch che richiama la mitica King Me - TheM BrAWlerS (A cup in The<br />
grandi spazi, ma i nuovi brani gettano lo sguardo anco-<br />
serie Octagon della Hard Wax, il sogno Basic Channel gArden, oTToBre 2010)<br />
ra più lontano, rallentando il ritmo, facendo respirare le<br />
che entra nelle classi di musica elettronica e ne esce Ge n e r e: l o -f i p s y c h<br />
armonie e aprendosi a suggestive soluzioni shoegaze,<br />
ancora più spaced out di quanto già non fosse di suo I King Me sono un sestetto olandese con undici anni<br />
affermazione quest'ultima su cui è necessario aprire un<br />
all’origine.<br />
di carriera alle spalle e, col qui presente Them Braw-<br />
inciso.<br />
Keith ci porta con ostinata e certosina pazienza a toclers, ormai sei album all'attivo. Non so voi, io non ne<br />
Quello che siamo soliti descrivere come "shoegaze", incare<br />
ancora una volta con mano la potenza del suono avevo mai sentito parlare. Ma, ad occhio e croce, sono<br />
fatti, è un mix di chitarre psichedeliche nebulizzate che<br />
sperimentale, che se sapientemente costruito, può farci una grande band. Con un'idea non precisa ma forte di<br />
baluginano all'orizzonte; un espediente sonoro che, al<br />
pari del tipico chitarrismo effettato "alla The Edge" o di<br />
certe soluzioni ritmiche introdotte da band new wave,<br />
sono diventate patrimonio comune di qualunque pop<br />
band voglia apparire anche solo minimamente up to<br />
date. Il languore psichedelico di canzoni come The Face<br />
è qualcosa che si inserisce agevolmente in questo solco;<br />
eppure, con la voce impastata di Caleb Followill a<br />
fare da contrappunto, l'effetto è estremamente affascinante.<br />
Ecco dunque la chiave di lettura dell'album e la peculiarità<br />
che rende questi Kings Of Leon ancora degni di<br />
considerazione. I Followill sono come quei redneck che<br />
si vestono da damerini per una notte brava da spendersi<br />
fra le luci della città: hanno abiti firmati ma quando<br />
parlano d'amore, come nella ballata Mary, si portano<br />
dietro lo spleen della campagna. Quando poi accelerano<br />
e irrobustiscono le trame (come nel moderno boogie<br />
di No Money) la sporcizia è ancora lì, sotto le unghie,<br />
e non importa quanto si cerchi di nasconderla.<br />
(6.8/10)<br />
diego BAllAni<br />
KiT doWneS - KiT doWneS Trio - golden<br />
(BASho recordS, noVeMBre 2009)<br />
Ge n e r e: j a z z<br />
Arriva solo ora in Italia questo esordio del Kit Downes<br />
Trio. In realtà il disco risale a fine 2009 e dal momento<br />
della sua uscita non ha raccolto che elogi da stampa<br />
specializzata e non. Comprensibile, dal momento che il<br />
jazz del diretto interessato - pianista britannico con un<br />
curriculum di tutto rispetto alle spalle - sa gravitare con<br />
stile tra modernità e classicismo. Nello specifico, tra un<br />
approccio piuttosto elastico e per nulla intimidito nel<br />
mescolare cambi di registro repentini (l'ottima Jump<br />
Minzi Jump in cui si passa da un suono crepuscolare a<br />
un Sud America appena abbozzato a un'esplosione di<br />
note quasi in sbornia free) e una formazione "tipo" (col<br />
contrabbasso di Calum Gourlay e la batteria di James<br />
Maddren) legata a filo doppio alla golden age del jazz.<br />
Keith Jarrett benedice i fraseggi elaborati ai limiti della<br />
classica, Bill Evans è chiamato in causa dalla raffinatezza<br />
di certe atmosfere (Homely), Thelonious Monk<br />
è il nume tutelare di alcune soluzioni armoniche non<br />
troppo rotonde. Racchiusi in un'opera forse poco rivoluzionaria<br />
ma assai godibile, in cui spiccano oltre all'ottimo<br />
interplay tra gli strumenti anche le buone doti di<br />
compositore del titolare del progetto.<br />
(7.1/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
62 63
KongroSiAn Trio - BooTSTrAp pArAdox (AuT<br />
recordS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: i m p r o j a z z<br />
I Kongrosian sono un trio, diciamo così, trevigiano, che<br />
come il (giustamente) celeberrimo radicchio si esalta<br />
espandendosi, apparentando sapore e consistenze con<br />
altri sapori altre consistenze. Tendono naturalmente al<br />
quartetto, e infatti vantano collaborazioni col notevole<br />
sassofonista Beppe Scardino e col drummer Stefano<br />
Giust tra gli altri. Di base, i tre combinano una misticanza<br />
insolita: clarinetto (alto e basso), sax (contralto e<br />
soprano) e un altro sax (baritono), quest'ultimo spesso<br />
e volentieri barattato con un mellofono.<br />
Coadiuvati in questo album d'esordio dal clarinettista<br />
Oreste Sabadin, sfornano impro con piglio dadaista e<br />
patafisico ma sanno metterci sotto (e sopra, e di lato)<br />
qualche batuffolo di mistero e un pizzico di serietà, così<br />
da sembrare una brass band ebbra sul ponte sospeso<br />
tra l'Apocalisse e il Paese dei Balocchi. Sedici tracce<br />
folgoranti (durata media sui due minuti) come micro<br />
massaggi neuronali o sketch ora garruli ora enigmatici,<br />
col jazz (passato, presente, futuro?) ridotto in coaguli<br />
scarmigliati e fragorosi, insospettabilmente lucidi.<br />
(7.1/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
le luci dellA cenTrAle eleTTricA - per orA<br />
noi lA chiAMereMo feliciTà (lA TeMpeSTA<br />
diSchi, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />
Recensire il secondo disco di Vasco Brondi è un po'<br />
come giocare alla roulette russa. Con il revolver puntato<br />
alla tempia e il colpo in canna. E non tanto per<br />
un discorso legato al giudizio sulla qualità effettiva<br />
dell'opera, quanto per quello che il Brondi-pensiero<br />
rappresenta per una buona fetta di ascoltatori. Specchio<br />
di una generazione, oltre che modello musicale di<br />
riferimento, abbastanza diretto e disperato da assurgere<br />
al ruolo di vera e propria icona con tutti i pro e i<br />
contro del caso. Tra questi ultimi, un'aura da intoccabile<br />
cucitagli addosso da un seguito fin troppo acritico<br />
con il proprio paladino in virtù di un'onestà artistica<br />
evidente ma, a nostro avviso, ancora tutta da formare.<br />
E' un intercettare involontario il momento storico, l'arte<br />
del Brondi, unito alla capacità di scrivere testi "universali",<br />
frammentari, comunque profondi, in linea con la<br />
velocità di assimilazione che richiede il nuovo millennio.<br />
Con la chitarra acustica al centro e brani da un paio<br />
di accordi a fare da cavallo di Troia. Come se si unisse<br />
l'immediatezza DIY del punk - con tutto il meccanismo<br />
di identificazione che ne deriva - alla profondità della<br />
canzone d'autore, in una convergenza tra il pubblico<br />
giovanile e quella critica "adulta" che non ha esitato<br />
un attimo a gratificarlo, la scorsa stagione, col Premio<br />
Tenco.<br />
In Per ora noi la chiameremo felicità Brondi scrive per<br />
loro. Non per chi non lo conosce ancora, non per far<br />
cambiare opinione a chi lo ha già catalogato come un<br />
"difetto" del sistema indie e nemmeno per dimostrare<br />
di aver compiuto un percorso. Soltanto per ritrovare<br />
quell'unità di intenti che ha reso il suo esordio un caso<br />
discografico e i suoi concerti degli happening in pieno<br />
stile. Tanto che non ci si muove di un millimetro dall'approccio<br />
che aveva reso Canzoni da spiaggia deturpata<br />
quello che era, replicando estetica, forma e immaginario.<br />
Stesso stile, stessa poetica e soprattutto nessun accenno<br />
a tematiche inedite o a cambi di direzione. Nella<br />
pratica, tutto si riduce al solito cut up che trita paesaggi<br />
urbani e storie lungo i bordi, legate a filo doppio ad<br />
una sfera individuale claustrofobica, omnicomprensiva<br />
ma, in qualche caso, anche fin troppo vaga. Dal fiume<br />
in piena si salvano due o tre brani particolarmente riusciti<br />
(Quando tornerai dall'estero, Una guerra fredda,<br />
L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici) e<br />
gli arrangiamenti, questi ultimi giocati su una musica<br />
"atmosferica", stratificata e più varia rispetto al passato,<br />
frutto del buon lavoro di Giorgio Canali, Stefano Pilia,<br />
Rodrigo D'Erasmo e Enrico Gabrielli.<br />
Per una continuità che rasenta il vicolo cieco. Anche<br />
perchè le scritte sui muri, le case inagibili o le polveri sottili<br />
che rendevano riconoscibile il Brondi degli esordi<br />
guadagnano qui un'immobilità quasi dannosa, come<br />
se consolidare significasse ripetersi ad libitum e non rielaborare<br />
un esordio a cui si perdonava molto in virtù<br />
di una vis comunicativa enorme. E che almeno possedeva<br />
"inni generazionali" come Per combattere l'acne.<br />
(6.2/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
leo zero - diSconnecT (STruT recordS,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: dj f a v o u r i T e s<br />
Bella partenza per la nuova serie di mix della Strut Disconnect,<br />
che affida ad alcuni tra i migliori DJ del globo<br />
un CD da stipare con stranezze, rarità e gioielli dimenticati<br />
delle proprie collezioni di dischi. Si parte col<br />
britannico Leo Zero, nella vita di tutti i giorni (?) Leo<br />
Elstob, noto da tre lustri e impegnato in diverse situazioni,<br />
dal figurare come "resident" allo Shrink2Fit durante<br />
il boom della techno detroitiana dei ’90 all’aver<br />
inventato serate deep house con Stuart Patterson e<br />
aver partecipato al collettivo Faith. Non contento, a un<br />
highlight<br />
giAncArlo onorATo - SAngue BiAnco (liliuM produzioni, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />
Per parlare di Giancarlo Onorato occorre parlare di un cantautore come ce ne sono ormai pochi. Non<br />
tanto e non solo per la qualità di una produzione diradata nel tempo ma<br />
fondamentale negli esiti (quattro dischi dal 1996 ad oggi, dopo la fine<br />
dell'esperienza con gli Underground Life), quanto per la peculiarità di<br />
una scrittura da sempre differente rispetto alle tendenze in circolo. Come<br />
altri inestimabili outsider prima di lui (Flavio Giurato, Juri Camisasca, il Fausto<br />
Rossi degli anni novanta) Onorato ha sempre cercato la massima potenza<br />
espressiva delle sue canzoni attraverso un lavoro sulla densità della<br />
parola, proprio intesa letterariamente, e nel suo caso poeticamente. E di<br />
poeticità per una volta è bene parlare quando siamo dinanzi ad un autore<br />
che non teme la nudità estrema (eccolo probabilmente il maggior punto di contatto con gli outsider di<br />
cui sopra), l'imprevedibile e inconsueto utilizzo lessicale, in ultimo lo zenit comunicativo intercostale e<br />
sovrumano.<br />
Sangue bianco, a sei anni di distanza dal precedente Falene, schiera le sue canzoni al bivio tra nascita<br />
e nulla, lungo un orizzonte lirico che mischia dolcezza essenziale ed erotismo radicato, laddove la carne<br />
si confonde con la purezza in un lascito di fecondità e misticismo. Sono per lo più ballad, arrangiate<br />
classicamente ma con lievi dettagli a determinare ogni singolo brano, in cui la grande gamma strumentale<br />
e i venticinque musicisti coinvolti (fra di essi un nugolo di nomi nuovi da tenere d'occhio ognuno<br />
nei propri campi: Christian Alati, Mario Congiu, Attila Faravelli, Christian Rainer, Davide Tosches)<br />
non mettono a repentaglio la compattezza di un lavoro che pulsa grazie alla forza dei propri spunti<br />
originari.<br />

Ascoltate tracce come Else lied (dove i versi della poetessa tedesca Else Lasker-Schüler vengono<br />
immersi di una soffusa luce d'alba), Il tuo venire, Io ti battezzo (intrinsecamente religiosa, seppur in un<br />
senso del tutto anti-dottrinale) e la conclusiva Reginebambine, un'autentica preghiera d'amore generativo<br />
distante anni luce dalle lagne camerettarde di questi anni, e diteci se non è vero che di canzoni<br />
così ce ne sono sempre meno, se chi scrive non dovrebbe tornare con più frequenza - e soprattutto<br />
urgenza - al sangue, alle lacrime, alle ossa. In una parola alla vita: "passo e ripasso la lingua gentile sulla<br />
ferita / immaginandola colma di bellezza traboccata / fonte segreta, bocca di un nulla dimenticato".<br />
(7.5/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
certo punto ha preso a produrre e remixare senza posa<br />
(benché non sempre a ragion veduta: sua la porcata<br />
su Satellite Of Love di qualche anno fa) e ricoperto un<br />
ruolo fondamentale nel progetto A Mountain Of One.<br />
Come remixer lo hanno preteso Paul Weller, Florence<br />
& The Machine, Bryan Ferry.<br />
Quanto c’è di tale molteplicità di gusti e interessi in<br />
questo mix? Tantissimo, giacché si passa con "cut" eleganti<br />
e raffinati da afro-pop a disco e reggae tramite<br />
le contaminazioni new-wave di Basement 5 (un possente<br />
"extended" di Silicon Chip) ed Essential Logic;<br />
successivamente planando sugli Ottanta di Chris &<br />
Cosey (Exotica) e Propaganda per rapirsi il cervello in<br />
un frammento di Halleluwah dei Can senza perdere di<br />
vista l’Africa e le morbidezze da dancefloor, chiudendo<br />
con la dolcezza di Spinning Away (Eno/Cale) e la marpiona<br />
My Oasis di The Countach. Saliscendi brillante a<br />
medio livello di BPM e bello sfoggio di apertura mentale.<br />
(7/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
leS SAVy fAV - rooT for ruin (frenchKiSS<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: in d i e ro c k<br />
Appena tre anni fa Let's Stay Friend mieteva consensi<br />
unanimi da parte di critica e pubblico, mentre oggi il<br />
quinto lavoro dei newyorchesi esce quasi in sordina.<br />
64 65
highlight<br />
loBi TrAorè - rAiny SeASon BlueS (gliTTerhouSe, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: ba m b a r a b l u e s<br />
Chissà che costa stavate facendo il 9 agosto del 2008. Lobi Traorè era ai Bogolan Studio di Bamako,<br />
Mali. Stava registrando l'ultimo disco della sua vita. Poco meno di due anni dopo, lo scorso giugno,<br />
sarebbe morto, improvvisamente e senza tante spiegazioni di contorno. In studio con lui c'era l'ex<br />
Walkabouts Chris Eckman e se ci avete seguito negli scorsi mesi durante<br />
le nostre peregrinazioni sulle ultime novità in fatto di musica dalle parti<br />
del delta del Niger sapete già che ci stiamo nuovamente inoltrando in un<br />
qualcosa che va ben oltre la semplice uscita discografica ma riguarda gli<br />
incontri intesi come le vite che s'incrociano e rifioriscono.<br />
In pratica Traorè conosce Eckman durante le registrazioni del secondo disco<br />
dei Dirtmusic, sul quale il chitarrista maliano mette il proprio strumento<br />
in un paio di pezzi. Eckman aveva ascoltato di Traorè, innamorandosene<br />
perdutamente, The Lobi Traorè Group, ovvero il lato elettrico del<br />
musicista, ovviamente figlio di Ali Farka Tourè ma anche grande ascoltatore del blues di questa parte<br />
di mondo, John Lee Hooker su tutti. Da lì nasce una vicenda di demo registrati alla buona per una<br />
nuova pubblicazione di Lobi che fatica a trovare un'etichetta in grado di sostenerlo - nonostante una<br />
carriera più che ventennale - e poi scambi di mail, fraintendimenti dovuti alle differenze linguistiche<br />
(Traorè parla soprattutto il Bambara, lingua a cui corrisponde una tradizione musicale di cui il suono<br />
della sua chitarra è profondamente intriso) e infine questo disco benedetto.<br />
Registrato tutto dal vivo, senza una setlist prestabilita, durante una session di quattro ore, Rainy Season<br />
Blues illustra il Traorè acustico, solo chitarra, voce e storytelling. Le canzoni sono legnose di un<br />
legno brulicante di vita, la chitarra brucia di un'inquietudine ritmica figlia dei primi passi da percussionista<br />
del titolare (suonava le maracas in una banda di quartiere e le timbalas in un gruppo per matrimoni).<br />
La voce è vigorosa, muscolare, eppure straordinariamente lirica. Oltre ai nomi citati nell'aria c'è<br />
anche Howlin' Wolf e insomma Traorè è un altro di quegli alvei provenienti dal Mali e non solo al quale<br />
è impossibile per noi occidentali non andare a dissetarsi come ci si disseterebbe ad una fonte capace di<br />
farci conoscere l'unica vera nostra origine, il grande Ritorno.<br />
La storia completa di come sia nata un'opera come questa la trovate raccontata dallo stesso Eckman<br />
nel booklet del disco. Vi anticipiamo solo che ha tutta l'epica, la purezza e la tragicità della musica di<br />
quelle parti. Lobi Traorè è morto a quarantanove anni, non sappiamo cosa avrebbe potuto suonare ancora<br />
ma, credeteci, questa decina di canzoni scompaginano quella sublime indifferenza in cui la morte<br />
farà cadere tutti noi e la memoria del nostro transito qui: per Lobi non sarà esattamente la stessa cosa.<br />
(7.4/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
La smania di novità rischia di farci perdere uno degli<br />
album più focalizzati e maturi di Tim Harrington e soci,<br />
un inarrestabile fluire di elettricità policroma, che si<br />
apre con il riff dissonante di Appetite e prosegue con<br />
una serie di brani carichi di adrenalina: geometrie post<br />
punk per chi, artisticamente, è cresciuto col melodismo<br />
schizofrenico di Pixies e Superchunk.<br />
I LSF non hanno intenzione di cedere di un millimetro<br />
di fronte all’età che avanza anche se oggi a colpire, più<br />
che la follia del barbuto singer, è un chitarrismo sugge-<br />
stivo e coloratissimo, ricco di riverberi ed effetti assortiti<br />
che avvicinano Dirty Knails e Lips’n Stuff al surf spaziale<br />
dei Man Or Astroman? e che illuminano di bagliori<br />
psichedelici la filastrocca di Sleepless In Silverlake.<br />
Root For Ruin è la somma algebrica delle esperienze<br />
di una band nata 90s, ma che continua ad elaborare<br />
con gusto ed originalità le sonorità contemporanee.<br />
(6.7/10)<br />
diego BAllAni<br />
lonerS - i reMeMBer A dreAM (BooM deVil<br />
recordS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: f o l k r o c k<br />
Che c'azzeccano due siracusani con un blues rock<br />
asperso di umori southern, dalle venature contry-psych<br />
luccicose come ne intarsiavano i Grateful Dead del<br />
periodo Arista, il cuore ora in piena e ora in ambasce<br />
- conteso tra palpitazioni ruspanti e spasmi angolosi<br />
- come una disputa tra Wilco e Black Crowes? Abbastanza,<br />
perché Sante Barbagallo e Salvo Rizzuto iniziarono<br />
a staccare il biglietto per il loro sogno di rock'n'roll<br />
trent'anni orsono, abbozzando un sodalizio mai approdato<br />
ad alcunché di concreto. Un cerchio che si aprì<br />
quando Salvo abbandonò la terra natìa per l'ambita<br />
Londra, dove ebbe modo di farsi apprezzare come cantante<br />
lavorando con Trevor Horn e Stephen Duffy tra<br />
gli altri.<br />
Sante invece è rimasto a Siracusa dove ha aperto un<br />
negozio (di dischi, of course) senza però smettere il vizio<br />
di fare musica, suonando in diverse band della scena<br />
cittadina e organizzando eventi. Tre decadi dopo,<br />
cioè oggi, quel cerchio si è chiuso, ovvero l'intesa tra<br />
i due ha potuto finalmente compiersi, col non piccolo<br />
aiuto di Carlo Barbagallo (già Albanopower) in fase<br />
di arrangiamento e produzione. Al netto di qualche eccesso<br />
melodico, è un disco di ballate calde, intense, generose,<br />
capace di languori power pop (la notevole So<br />
Wrong) così come di abbozzare ombre Mark Lanegan<br />
in Brand New Day. Mai dimenticarsi di ricordare i sogni<br />
migliori. Vero?<br />
(7/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
loVe in eleVATor - il giorno dell'ASSenzA<br />
(go doWn recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: no i s e r o c k<br />
Siamo un popolo di navigatori, di santi e, forse, di eroi,<br />
ma di sicuro non di shoegazers. Poi arriva un gruppo<br />
come i Love In Elevator, che non solo sfoggia la liquidità<br />
psichedelica del dream pop, ma dimostra di saperla<br />
coniugare con i costrutti più fisici del noise a stelle e<br />
strisce e del post punk.<br />
Il gruppo, fra vari cambi di formazione, esiste dal 2001<br />
e giunge al terzo album con uno stile personale che fagocita<br />
trent'anni di rumorismo per creare il proprio magniloquente<br />
affresco psichedelico. Magari non sempre<br />
equilibrato: gli otto minuti della monolitica Dune, maelstrom<br />
sonico con contrappunto di violini, richiedono<br />
più di qualche ascolto per essere metabolizzati. Di certo<br />
non fa difetto una sana ambizione che li porta a trattare<br />
con maestria una materia estremamente urticante<br />
e variegata, a base di sfuriate punk e deliqui noise, e a<br />
cui la voce eterea della brava Anna Carazzai concede<br />
sempre una raffinata gentilezza pop.<br />
A fine ascolto resta ancora il fiatone per il tour de force<br />
de I Cieli Di Munch e il piacevole perdersi nelle suggestioni<br />
de Il Sesso Delle Ciliegie e Mata Hari, fra le cui<br />
complesse trame risuonano gli echi dei mai dimenticati<br />
Scisma.<br />
(6.8/10)<br />
diego BAllAni<br />
loW freQuency cluB - WeST coAST (foolicA,<br />
noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: e l e c T r o f u n k<br />
Una chitarra che graffia nervosetta l'estro funk, tastiere<br />
(tastierine, tastierone, tastieracce) a pennellare frizzi<br />
e lazzi disco anni ottanta più o meno italo, traslati poi<br />
nelle aciderie club dei nineties con tutto il sovraccarico<br />
di tensione febbricitante e liberatoria, il tutto attualizzato<br />
per gli anni zero con piglio DFA. Due anni (quasi<br />
tre) dopo l'omonimo debutto, a pochi mesi dalla cover<br />
di Johnny Come Home (pezzone targato Fine Young<br />
Cannibals) che annunciava il nuovo corso su Foolica<br />
Records, i tre Low Frequency Club tornano con questo<br />
West Coast per ragguagliarci sulla loro frizzante<br />
ossessione.<br />
Traccia via traccia, cogli entusiasmo, impudenza, energia,<br />
la cura ludica dei dettagli, la saldezza affilata degli<br />
intenti. Una scrittura capace di sfornare potenziali craque<br />
come Disturbed Dancer o la feroce We Are Wolves.<br />
Roba felice e facile col ghigno nel taschino, attenta<br />
(giustamente) solo al qui e ora, tuffandosi dal trampolino<br />
di un passato ancora turgido. Capiterà ai bradipi<br />
come il sottoscritto di chiedersi: ma perché? Solo per<br />
sentirsi rispondere: perché no?<br />
(6.6/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
M.o.f. 5TeT - eMBArrASSing dAyS (MArco<br />
forieri edizioni MuSicAli, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: a v a n T j a z z<br />
Cinque ragazzi freschi di conservatorio (il Frescobaldi di<br />
Ferrara) portatori sani di disparità geografica (Veneto,<br />
Abruzzo e Sicilia) diventano un combo jazz con licenza<br />
di evadere. Condiscono la misticanza di trombone, sax,<br />
chitarra, basso e batteria con effetti sintetici e un diffuso<br />
estro avant-rock. E' tutto un giocare col fuoco, lo spirito<br />
lieve e serioso di chi sa le regole ma non può fare a<br />
meno di pasticciarle. Un processo irreversibile che produce<br />
imbastardimenti arguti, frutto d'istinto ma anche<br />
di evidente premeditazione.<br />
66 67
Tengono le porte aperte anzi non ce ne sono proprio, e<br />
non a caso nella ragione sociale hanno messo l'acronimo<br />
del Mercato Orto Frutticolo, un parcheggio gratuito<br />
del centro, luogo di passaggi e incroci e guarda un po'<br />
chi si rivede. L'esordio Embarassing Days mette in fila<br />
otto pezzi originali che spaziano tra post-bop allucinato<br />
e disinvolta pensosità (la fascinosa Giù lì a Portobello),<br />
tra Blue Note ed E.S.T. (la title track), tra eleganza e<br />
sconcerto (Via delle Belle Arti). Più una cover genialoide,<br />
No One Knows dei Queens Of The Stone Age, virata in<br />
uno swing tra il maligno e lo sbarazzino. Disco che diverte<br />
e sbalordisce. Bravi ma bravi davvero.<br />
(7.4/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
MAciSTe - MAciSTe (deVil'S ruin recordS,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: e T n o b l u e s f o l k<br />
Neanche il tempo di segnalarli sul Re-boot che i Maciste<br />
esordiscono con un album tutto intero e "ufficiale".<br />
Ribadiamo la bella impressione ricavata dal demo:<br />
il loro teatrino da folk-rock tarantolato, balcanico, circense,<br />
portatore insano di febbre garage e vintagismi<br />
psych, riesce a stare in piedi anzi a zompare come un<br />
bucaniere elettrificato. Ogni canzone una baracconata<br />
di trombe, tromboni, theremin, hammond, farfisa, chitarre,<br />
pelli sbatacchiate con soverchiante foga.<br />
La bombetta ben calata sul cranio, i cinque non fanno<br />
sconti alla loro voglia di ghigni, visioni alcoliche e sudori<br />
polverosi. Scomodano Tom Waits e Cramps, Jon<br />
Spencer ed Emir Kusturica, Sonics e Gogol Bordello,<br />
per un bailamme che diverte travolgendo (e viceversa).<br />
La multicefala God Is My Klaxon, la truce Callaghan<br />
Is Dead ed il folle barnum di B.B.B. sono forse i momenti<br />
migliori di una scaletta che non conosce tregua.<br />
(7.2/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
MAdAMe lingerie - d'AMore, Soldi e<br />
VendeTTA (, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: ro c k<br />
Una sorta di riuscita versione italiana degli Interpol, così<br />
si definiscono i Madame Lingerie, band romana che<br />
con l'esordio D'amore, soldi e vendetta sforna dodici valide<br />
tracce di noise rock filo americano in bilico tra un<br />
crooning à la Interpol e un declamato letterario firmato<br />
Pierpaolo Capovilla.<br />
La prima traccia, Piu' niente, ha le carte in regola per<br />
una degna apertura: ritornello martellante su disilluse<br />
parole d'amore; ma nell'album quel che colpisce sono i<br />
cambi calcolati, i netti tagli ritmici, lo stile oscuro delle<br />
liriche che declinano sentimenti persi in meandri dark.<br />
Ponciarello immerge le proprie radici nell'hardcore<br />
evoluto dei '90, quello del milieu Touch'n'Go per intenderci,<br />
Titanioc e E R R E macinano un grumoso basso Big<br />
Black, quando altrove un'altra strategia vincente sta nel<br />
dosare l'urgenza col taglio wave e il respiro maestoso<br />
dei cugini di Banks e co, ovvero gli Editors.<br />
Il quartetto, disincanto da false promesse e coscienza<br />
di ogni sfumatura dei propri riferimenti musicali, ha<br />
un impatto sonico egregiamente autoprodotto. Anzi,<br />
per dirla tutta, questo è uno dei casi in cui autoproduzione<br />
fa rima con qualità in missaggio e produzione,<br />
con l'unico difetto - che non andrebbe troppo stigmatizzato<br />
- dei testi di Alessandro, certamente ancora<br />
troppo succubi del frontman del Teatro degli Orrori<br />
sia quando s'affrontano temi di lucida rassegnazione<br />
(L'abbiamo pagata cara noi la nostra ingenuità / ma<br />
quanto ancora? Così seducente ed affascinante / ma l'oro<br />
che hai non brillerà mai da Titanioc), sia quando conducono<br />
l'amore al limite (Voglio una vita di stenti e che tu<br />
ti accontenti soltanto di me sempre da Titanioc), oppure<br />
ancora quando, pensando a Manuel Agnelli, cacciano i<br />
sentimenti in faccia (Ti regalo un po' della mia giovinezza<br />
per avere l'incubo nel cuore di non farcela / non ce la<br />
fai più ad amare / non ce la fai più a sentire quella voce<br />
che diceva 'tutto cambierà da La cartomante).<br />
Lavorando in personalità, sulla padronanza dell'articolazione<br />
lirica e limando certe cadenze à la Banks, dai<br />
Madame Lingerie possiamo aspettarci grandi cose. Per<br />
il momento abbiamo un esordio potente e coeso, dalle<br />
dinamiche chitarristiche e ritmiche notevoli.<br />
(6.9/10)<br />
giulio BArToloMei<br />
MAgdA - froM The fAllen pAge (MinuS<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: minimal<br />
Nonostante sia accanto a Richie Hawtin sin dai tempi<br />
di Detroit, ovvero dai primordi di Plastikman, Magda,<br />
che nella scuderia ora berlinese del maestro è probabilmente<br />
la migliore scoperta, arriva soltanto oggi a<br />
pubblicare l'esordio sulla lunga distanza.<br />
From The Fallen Page è una bestia scura che ti cattura<br />
lentamente: ritmi minimal a basso contenuto di bpm,<br />
groove bituminosi che grondano dalle pareti dei club<br />
techno di mezza Europa di cui la ragazza conosce ogni<br />
segreto e tocchi di fantomatiche soundtrack operistiche<br />
o sci-fi (Lost In Time) che se, da una parte, sciorinano<br />
l'industrial danzereccia, dall'altra mandano a memoria<br />
i Kraftwerk amati dalla città dei Motori (Music<br />
Box) e persino il post-punk newyorchese accarezzato<br />
dalla cricca Gigolo (Little Bad Habits). A Detroit, Magda<br />
c'ha abitato dai nove ai trent'anni. Ora che sta a Berlino,<br />
quest'album sembra un dedica alla culla della mitteltechno<br />
delineata attraverso originali e preziosi toni di<br />
grigio, chiaroscuri '80/'90 e quell'amore viscerale per le<br />
Roland più scrause e nerdy. La polacca poi, ci aggiunge<br />
l'inquietudine fast inguaiata con la keta, che è un po' il<br />
sign o' the times 00, dosandola egregiamente dall'inizio<br />
alla fine; proprio nel finale Japan rilascia l'adrenalina<br />
sotto forma di cocktail Ottanta, sempre e comunque<br />
guidato dall'implacabile beat che borbotta, gorgoglia,<br />
gracchia. Ti prende.<br />
(7.2/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
MAgneTic MAn - MAgneTic MAn (coluMBiA<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: du b a l l s T a r s T e p<br />
Sembrava dovesse venir giù il mondo con lo sbarco degli<br />
uomini magnetici, tre ragazzi stanziati a Croydon,<br />
South London, che un lustro abbondante fa contribuirono<br />
a creare la miscela esplosiva che dette origine al suono<br />
elettronico più famoso degli anni Zero, il dubstep.<br />
Abbiamo invece un debutto diviso tra una noiosa parte<br />
strumentale e un’altalena di potenziali singoli dal taglio<br />
pop (e un tocco di grime) che flirtano con l’immaginario<br />
rave e cercano spasmodicamente di incunearsi nei gusti<br />
allargati di due generazioni ravetroniche. Per i catastrofisti<br />
e i puristi, il 2010 sarà l’Altamont del dubstep, più concretamente<br />
il debutto di Magnetic Man lo banalizza togliendogli<br />
quasi ovunque la carica anthemica e offrendo<br />
in cambio al massimo due canzoni di futile appeal.<br />
Provenienti da un genere pop per eccellenza come il<br />
2step e da pionieri quali gli Horsepower Production<br />
(primi destinatari dell’etichetta nel 2002 che le canzoni<br />
le sapevano fare), i tre supereroi del dubstep, Benga,<br />
Skream e Artwork, più vicini al grime (hip hop e ragga)<br />
che allo stepping e all'immaginario di un Burial,<br />
faticano a trovare le soluzioni melodico-ritmiche per<br />
reinventarsi mainstream (Boiling Water con Sam Frank<br />
è imbarazzante), mentre trovano alcune suggestive<br />
soluzioni sul lato black della scaletta dove il tocco di<br />
Benga è evidente e la consolle libera dai compromessi<br />
(Fire, The Bug).<br />
Di fatto più che su un discorso di strofe, il grande successo<br />
del singolo apripista I Need Air è un gioco sul bliss<br />
da rave ed è un peccato che l’album punti proprio su<br />
quelle, fallendo inesorabilmente la sua riuscita (Crossover).<br />
La parte strumentale, dicevamo, è spesso inutile:<br />
Anthemic e Mad mescolano edulcorati gracchi Terror<br />
Danjah con noiosi interventi di synth cinematici e me-<br />
morabilia IDM, Ping Pong si butta soltanto su questi ultimi<br />
con risultati ancora più inconsistenti.<br />
Verso il finale, Skream si cimenta in territori Aphex<br />
Twin con la discreta ambient psych di Box Of Ghosts<br />
e un attacco d’ouverture (Karma Crazy) che convertirà<br />
nelle vecchie maniere. E’ troppo tardi però. Il pasticcio<br />
è già fatto. "Getting Nowhere" canta in toni soul John<br />
Legend nell’omonima track, ed è l'unico episodio veramente<br />
degno di nota.<br />
(5/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
MAMBASSA - lp (eMi, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o p d'a u T o r e<br />
Compito non facile quello di tornare dopo sei anni<br />
- che alla voce pop italiano hanno significato molto:<br />
fatela voi una lista dei dischi importanti usciti nel mentre.<br />
Eppure i Mambassa ci riprovano, con l'orgoglio di<br />
aver rappresentato un bel capitolo della nuova musica<br />
italiana a cavallo tra la fine del secolo scorso e l'inizio<br />
del nuovo e con la forza di tante esperienze musicali e<br />
non solo (vedasi il libro e il film realizzati nel frattempo<br />
dal leader Stefano Sardo). A ciò aggiungete anche due<br />
cambi di formazione (dentro il tastierista Fu, fuori durante<br />
la lavorazione il chitarrista Ninotosh) e i predicati<br />
ci sono tutti: LP, ovvero Lonely Planet, è il racconto di<br />
una contemporaneità affollata ma carica di solitudine<br />
da parte di chi, superati i trenta, traccia bilanci, riparte,<br />
si disillude. Il tutto vergato in una serie di pop-ballad<br />
che definiamo manualistiche per parlarne bene, tra i<br />
canonici climax a gradoni d'intensità de La costruzione<br />
della notte, le voci di cuori digitali in zona Subsonica<br />
via Air di Immolando e la presa rapida di un singolo<br />
tutt'altro che ruffiano ma gravido di buone idee (in primis<br />
la chiusura tranchant) come Casting.<br />
Tuttavia viene difficile non pensare ai Mambassa come<br />
ad un gruppo che da qui in poi dovrà inseguire. Vuoi<br />
perché gli anni intanto sono passati e i novanta non<br />
hanno più quella fortuna, vuoi per qualche lirica un po'<br />
semplicistica, vuoi per i rimandi continui che rallentano<br />
qualche traccia (a realtà anche contigue: i Perturbazione<br />
qua e là, oltre ai già citati torinesi), alla fine succede<br />
che Lonely Planet decolla, sì, ma rimane a mezz'aria o<br />
poco più su. E dire che ci piacerebbe trovarli in radio<br />
al posto dei Negramaro è un complimento che non<br />
basta. Meglio concentrarsi sul fiore all'occhiello delle<br />
coloriture de La pioggia di settembre o sull'ossatura vintage<br />
da Pregherò di Ora che non ci sei più tu. Segnali non<br />
tanto piccoli di un gruppo comunque ancora in gara.<br />
(6.5/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
68 69
MArK chAdWicK - All The pieceS (STAy By,<br />
SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: fo l k biopic<br />
Chi seguiva le vicende della terra d'Albione a cavallo tra<br />
Ottanta e Novanta, ricorderà come Mark Chadwick e i<br />
suoi Levellers fossero qualcosa di molto vicino a rock<br />
star. Il loro folk-punk era riuscito ad infilarsi nelle posiozioni<br />
alte delle classifiche e il loro culto era cresciuto un<br />
po' ovunque nel biennio successivo al debutto A Weapon<br />
Called the Word nel 1990. In seguito le cose non<br />
sono andate tanto bene, decretando un primo stop<br />
all'attività già nel 1998. Gli anni zero li hanno rivisti in<br />
azione, con due album che non hanno spostato di una<br />
virgola la loro storia e che hanno solo soddisfatto i nostalgici.<br />
Oggi il loro leader e frontman esordisce in solitaria, con<br />
dodici brani che rappresentano una sorta di piccola autobiografia<br />
in musica e che ce lo restituiscono in una<br />
forma notevole. Non che All The Pieces faccia gridare<br />
al miracolo, ma è sicuramente il miglior lotto di canzoni<br />
che il cantautore di Brighton scrive da almeno un decennio.<br />
Rispetto al gruppo-madre, qui si spinge il tutto<br />
in territori più pop, senza rinunciare a qualche messaggio<br />
tra l'ironico e l'impegnato ("stop the war/and all of<br />
that/just keep drinking/perhaps we're better at that"<br />
canta in Indians). Gli episodi migliori sono quelli più solari<br />
e corali, oltre alla già citata Indians, la titletrack (tra<br />
le cose più appiccicose dell'anno), Havens, Empty Now.<br />
Non sarà l'evento dell'anno, ma la freschezza delle melodie,<br />
la semplicità degli hook e una maturità serena<br />
dicono di un musicista con il quale fare ancora i conti.<br />
(6.7/10)<br />
MArco BoScolo<br />
MArnie STern - MArnie STern (Kill rocK<br />
STArS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: ma T h r o c k<br />
Non è eccessivo affermare che i due precendenti lavori<br />
di Marnie Stern avevano lasciato sbigottiti anche<br />
i recensori più smaliziati. Quel brutale cozzare di stili<br />
(rock, metal, prog, noise, psichedelia e chissà quant'altro)<br />
lasciava sul campo un'installazione surreale che<br />
proprio non si sapeva da che parte iniziarla ad ascoltare:<br />
affascinante, come tutte le cose di cui ancora non<br />
si comprende bene la portata, ma solo per i primi minuti.<br />
Superato lo stupore iniziale iniziava a subentrare<br />
un certo senso di irritazione destinato a protrarsi per il<br />
resto dell'ascolto.<br />
L'effetto viene in parte lenito in questo terzo e omonimo<br />
album, infarcito di un math rock metallifero senza<br />
posa, con batteria in assolo perenne, chitarra tormen-<br />
tata e una vocalità portata a raggiungere note impossibili.<br />
Il problema di fronte ad un tour de force sonoro<br />
così deliberato è capire fino a che punto arriva la spontaneità,<br />
non tanto perché sia interessante sapere se la<br />
Stern soffra realmente di qualche sindrome isterica,<br />
quanto perché, a tratti, tutto ha il sapore un pò artefatto<br />
dell'esercizio di stile.<br />
L'euforia declinata nel febbrile finger picking è un'idea<br />
interessante, ma quando se ne fa un uso così sistematico,<br />
finisce per inficiare sul risultato finale. Basterebbe<br />
poco, magari solo un piccolo aggiustamento, tipo ripiegare<br />
su formule più contenute, come accade nella<br />
più rilassata e focalizzata Tranparency Is The New Mistery,<br />
in cui l'irruenza della bionda chitarrista viene disciplinata<br />
in geometrie più intellegibili, consentendole di<br />
trasmetterci un pò di quel fuoco sacro che da tempo<br />
sembra essersi impossessato di lei.<br />
(6.3/10)<br />
diego BAllAni<br />
MATTheW herBerT - one cluB (AccidenTAl,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: m i n i m a l, c o n c r e T e<br />
"Dai free party siamo finiti nei Club e da lì il discorso non<br />
si è spostato, anzi, nei Club c’è la vita reale, ci sono le compagnie<br />
di tabacco, telefonia, alcol. Insomma c’è la pubblicità,<br />
gli sponsor e cose così. Invece di aprire la mente alla<br />
gente, il Club gli ha fatto accettare una realtà corporativa.<br />
Con la mia musica sto cercando rendere chiari questi<br />
link".<br />
Lo scorso giugno Matthew Herbert, in un misto di<br />
nostalgia e rabbia, ce la dipingeva così la vita nei Club<br />
odierni, dal punto di vista di un uomo che dopo essersi<br />
vissuto il meglio dell'epopea free party, si ritrova<br />
di fronte a una realtà di contenitori sociali totalmente<br />
controllati da multinazionali lecite e illecite. Da lì One<br />
Club, il disco di musica da ballo imballabile, la telecronaca<br />
del weekend sballone dove tutto è meccanizzato<br />
fin nei più minimi bit, dal ritmo all’accensione di una<br />
sigaretta, dal blin blin della cassa, al succhio della cannuccia<br />
del cocktail.<br />
L’ex Dr. Rockit che in passato pionierizzò la microhouse<br />
ritorna sulla dance per parlarci dei legami subdoli che<br />
ora la alimentano. Le sorgenti dell’album sono state<br />
prese in un’unica serata al Robert Johnson, un nightclub<br />
di Francoforte. Herbert li ha successivamente tagliati,<br />
cuciti e messi in battute industrialeggianti (Jalal Malekidoost),<br />
rotonde o robotiche con il preciso scopo di<br />
generare nell’ascoltatore un rise da pasticca marcio e<br />
distante, inebriantemente guastato o disumano tout<br />
court (Robert Johnson). L'unico tocco uber alienazione<br />
che apre alla cosiddetta creatività - completamente assente<br />
nella minimal di molti set - è un coro che è poi<br />
il leitmotiv del disco: ballerini di musical (?) che sporadicamente<br />
rompono la monotonia, come se dal cubo<br />
club si passasse al teatro, dove tutto è più gruppale e<br />
umano.<br />
One Club è un lavoro tanto sociologicamente riuscito<br />
quanto sonicamente controverso. Da un lato ricorda<br />
alcuni lavori giovanili dei Matmos o i Residents di Diskomo<br />
(Marlies Hoeniges); dall’altro, resistendo alle ipotesi<br />
gigione o sarcastiche, costringe l’ascoltatore a una<br />
seduta musicalmente anomica e monodimensionale.<br />
Forse al Sonar chi ha fischiato Herbert non aveva tutti i<br />
torti questa volta. Aspettiamo One Pig. Finale della trilogia<br />
nonché l'episodio più atteso.<br />
(6/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
MAxiMuM BAlloon - MAxiMuM BAlloon<br />
(inTerScope recordS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: f u n k p o p<br />
David Andrew Sitek risponde al coming out solista di<br />
Tunde Adebimpe - sotto le spoglie dei Rain Machine<br />
- gettando ulteriore luce sulla ricetta Tv On The Radio.<br />
Come dire: se Adebimpe costituisce il portato black con<br />
tutte le rifrazioni psych, soul, hip-hop e gospel, Sitek è<br />
l'emisfero sinistro synth-pop impegnato a razionalizzare<br />
il virus funk. C'ha la stoffa, il passo, la vena del produttore,<br />
quello che tiene il suono nei ranghi, come ha<br />
già dimostrato lavorando per Yeah Yeah Yeah's, Foals<br />
e Scarlett Johansson. Per questo debutto del se stesso<br />
cammuffato da Maximum Balloon, intendeva confezionare<br />
tracce da ascoltarsi "in auto, in banca, uscendo con<br />
la ragazza, in qualsiasi circostanza". Elogio del medium<br />
freddo, coinvolgimento epidermico, understatement<br />
emotivo: in effetti, c'è riuscito.<br />
La scaletta celebra un intrattenimento agile e arguto,<br />
ingredienti e dosaggi azzeccati, interpreti compresi.<br />
C'è soprattutto un'anima talkingheadsiana che pompa<br />
funky in Tiger (affidata all'ottimo Aku, singer dei Dragons<br />
of Zynth), s'imbizzarrisce d'umori Prince in Groove<br />
Me (per la voce del rapper newyorkese Theophilus<br />
London) e ciondola etniche ironie in Apartment Wrestling<br />
(a cura del maestro David Byrne). C'è poi la verve<br />
Gorillaz diluita Bob Sinclair di If You Return (ospiti gli<br />
svedesi Little Dragon) e tanta voglia di eighties in guisa<br />
Human League e David Bowie che zampilla in Young<br />
Love (per la voce equivoca di Katrina Ford). Sono episodi<br />
gradevoli e intensi come caramelline di zucchero ed<br />
altrettanto effimeri, alla pari di Communion (feauturing<br />
Karen O) e delle pur vagamente eniane Pink Bricks (can-<br />
ta Ambrosia Parsley) e The Lesson (per una interessante<br />
Holly Miranda).<br />
Lo pseudo ricongiungimento della band madre in Absence<br />
Of Light non esalta, però serve a ricordarci che<br />
spesso il totale supera la somma delle parti. E neanche<br />
di poco.<br />
(6/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
MeThod of defiAnce - nihon (rArenoiSe,<br />
SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: f u s i o n i m p r o<br />
I Method Of Defiance sono il considerevole sfizio allestito<br />
da Bill Laswell per esplorare ed escogitare una sua<br />
certa idea di fusion contemporanea. Che prevede inneschi<br />
e incroci dub, electro-hardcore, improv jazz, drum<br />
& bass e spurghi noise. Una formula a tratti incendiaria,<br />
soprattutto quando in Method Plan One e Black Rain<br />
preme sull'acceleratore e scioglie le briglie alla tromba<br />
di Toshinori Kondo, col suo lirismo vetrificato e luciferino<br />
che si sposa assai bene coi vocalizzi mutanti di Dr.<br />
Israel.<br />
Bei momenti, una strana dimensione da rave espanso,<br />
brodo di cagna nel drink energetico, hammond (a cura<br />
del leggendario Bernie Worrell) che gronda sudori antichi<br />
per estasi nuove. La fase dub è invece più scontata e<br />
dispersiva, insegue suggestioni che - soprattutto negli<br />
assolo del bassista - non vanno oltre una maniera cortocircuitata,<br />
e la band finisce per sembrare un manipolo<br />
di virtuosi al guinzaglio di un'idea bolsa e un po' dispotica.<br />
Disco comunque zeppo di spunti interessanti,<br />
esaltati dall'incisione live (due set giapponesi del 2007)<br />
giustamente testimoniata dal DVD allegato.<br />
(6.3/10)<br />
STefAno SolVenTi<br />
MidnighT juggernAuTS - The crySTAl AxiS<br />
(SiBeriA recordS, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: s y n T h p o p<br />
The Crystal Axis lavora su un contesto estremamente<br />
definito: synth pop alla Ultravox con ambientazioni<br />
Kraftwerk-iane. Pop e "canzoni" per androidi d’antan.<br />
Nonostante la formula assodata, però - e forse proprio<br />
con un peso così grande sulle spalle - è proprio ciò che<br />
porta tale retroterra nel "popolare" a evidenziare delle<br />
pecche. Ossia, detto semplicemente, l’avvicendamento<br />
strofe / refrain.<br />
Sono proprio i ritornelli, quei momenti che dovrebbero<br />
imperniare attorno a sé l’efficacia di una canzone, nello<br />
schema scimmiottato del rondò, che finiscono per rovinare<br />
i brani (Lifebllod Flow), laddove nella costruzione<br />
70 71
delle parti restanti dei brani si nota una certa abilità a<br />
gestire gli strumenti pop-androidi dei già citati Kraftwerk,<br />
Ultravox, oppure Jean Michel Jarre, delle volte<br />
Roxy Music (This New Technology) Anche quando<br />
l’architettura della canzone sta in piedi e mostra delle<br />
buone "solette" (il riff di Lara Versus The Savage Pack), le<br />
melodie - e la voce che canta - non si distinguono per<br />
personalità, eppure risultano evidentissime, perché in<br />
primo piano (eclatanti in Dynasty).<br />
I Midnight Juggernauts hanno sicuramente ascoltato<br />
e interiorizzato le cose migliori del genere. Epperò<br />
gli australiani, pur essendo attivi da cinque anni, non<br />
sembrano aver trovato una buona penna con la quale<br />
scrivere, solo un set per fare miniature e disegnare<br />
paesaggi siderali. Rispettabile compito. E lo faremmo<br />
volentieri un viaggio, nella galassia stereotipata degli<br />
uomini macchina. E invece dobbiamo starcene a guardare<br />
l’astronauta partire, dal pianeta Terra.<br />
(5/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
MilVA - non conoSco neSSun pATrizio!<br />
(uniVerSAl, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o p d'a u T o r e<br />
Questi due insieme hanno fatto faville. Milva e Franco<br />
Battiato, negli anni Ottanta, lei già consacrata qualche<br />
interprete brechtiana, lui eccentrico re mida del pop di<br />
casa nostra, due dischi insieme (Milva e dintorni, 1982,<br />
Svegliando l'amante che dorme, 1989) da avere assolutamente<br />
quali gioielli laterali di un decennio che<br />
cambiava le regole dello scrivere canzoni in italiano - e<br />
a cambiarle c'era proprio lui, che per la Rossa scriveva<br />
la celebre Alexander Platz, ma anche Poggibonsi, Atmosfera:<br />
cercateli in rete (visto che la discografia langue) e<br />
fateli vostri.<br />
Proprio da due canzoni di quel periodo (Una storia inventata<br />
e I processi del pensiero, entrambe dal secondo<br />
disco) riparte oggi la collaborazione. E fa strano ritrovarli<br />
insieme in quella che fu una partnership mitologica,<br />
se non altro perché se là di oro si trattava qui è<br />
di bigiotteria che parliamo, di quella d'artigianato vero<br />
però, certo non così inarrivabile eppure di tutto rispetto<br />
visti anche gli anni passati (Milva ha annunciato la<br />
fine della propria carriera dal vivo) e le situazioni differenti.<br />
Il repertorio scelto è di quello che non t'immagini del<br />
tutto, ed è forse questa imprevedibilità senza troppo<br />
clamore il quid di Non conosco nessun Patrizio!.<br />
Come a dire che la coppia si voleva divertire, trovarsi<br />
insieme ancora una volta a fare musica e niente di più.<br />
Oltre ai ripescaggi dai dischi precedenti, debitamente<br />
riarrangiati (splendida I processi del pensiero), troviamo<br />
due canzoni da Il vuoto (non fra i momenti memorabili<br />
della produzione di Battiato) rinvigorite da lei con<br />
la giusta dose di ieraticità per I giorni della monotonia<br />
e uno slancio vitale per Io chi sono, l'episodio migliore<br />
dell'intero lotto, trasformata da meditazione sintetica<br />
alla Eno in illuminazione pop su un lago calmo di synth.<br />
Poi l'inedito, una title-track immalinconita, lì a metà tra<br />
le ultime cose del siciliano e L'ombrello e la macchina<br />
da cucire. Infine una serie di recuperi anche coraggiosi<br />
(Il ballo del potere, un vestito insolito addosso a Milva<br />
ma portato con dignità), a volte condotti tramite eccessiva<br />
verbosità (Le aquile, Bis Du Bei Mir) altre volte<br />
con la giusta dose di dramma vista l'apoteosi d'archi di<br />
contorno (Segnali di vita).<br />
Certo, lo dicevamo, negli anni ottanta era tutt'altra storia.<br />
Oggi Battiato pare in preda ad un'ansia da lavoro su<br />
materiale già esistente (suo e di altri) che non ha però<br />
portato a chissà quale exploit. Milva invece saluta lasciando<br />
un filo di rimpianto: potrà piacere o meno, ma<br />
scorrete la sua discografia e diteci il nome di un'altra<br />
interprete, anche oltreconfine, che ha cantato così tanti<br />
autori e così diversi.<br />
(6.8/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
MiniSTri - fuori (uniVerSAl, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: r o c k i T a l i a n o<br />
Giunti alla quarta uscita in quattro anni (tre dischi sulla<br />
lunga distanza e un ep) i Ministri deviano sensibilmente<br />
verso un songwriting meno furente, più concentrato<br />
nei dettagli e nella rotondità di forme. Non è tanto il<br />
marchio Universal a guidarli - siamo pur sempre distanti<br />
da una qualsivoglia possibilità radiofonica - ma l'esigenza<br />
di un cambiamento che li salvaguardi da ogni<br />
manierismo in agguato.<br />
Se Fuori lascerà piuttosto tiepidi i fan della prima (e<br />
della seconda) ora non sarà solo per l'introduzione di<br />
un pianoforte qua o di un banjo là, per qualche cascame<br />
new-wave che si profila non così inaspettato<br />
all'orizzonte o per una manciata di interventi elettronici<br />
tutt'altro che invasivi. A mancare semmai è l'impeto<br />
delle prove precedenti, volutamente calmierato in favore<br />
di un mood più interiore, personale.<br />
Nessuno slogan, nessuna citazione di nomi e cognomi;<br />
piuttosto un'indole cantautorale che racconta storie<br />
attraverso frame fotografici o visioni vagamente surreali<br />
su linee melodiche anche seduttive. Funziona? Non<br />
troppo. I testi di Federico Dragogna non reggono per<br />
dodici tracce e a volte faticano a scorrere lungo l'incedere<br />
più sciolto di un tempo dei brani; la voce di Davi-<br />
de Autelitano compensa con le solite eccellenti parti<br />
urlate (al limite dello screaming più puro) un'interpretazione<br />
che nei momenti meno concitati fatica a trovare<br />
una sua espressività.<br />
Innegabile dunque il gap tra intenzione e attuali capacità:<br />
nonostante ciò Fuori strappa una sufficienza risicata<br />
grazie un'urgenza che, seppur oggi più sottocutanea,<br />
a differenza di altri nomi-simbolo degli anni zero<br />
italici non è venuta a mancare.<br />
(6.2/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
MT. deSolATion - MT. deSolATion<br />
(cooperATiVe MuSic, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o p s u p e r G r o u p<br />
Raccontata così sembra una barzelletta: ci sono due<br />
Keane (Tim Rice-Oxley, Jesse Quin), uno dei Killers<br />
(Ronnie Vannucci) e un tizio di Noah And The Whale<br />
(Tom Hobden) che hanno deciso di formare un supergruppo<br />
con Winston Marshall dei Mumford And<br />
Sons. Uno dal discreto talento, quest’ultimo, che messo<br />
a confronto con gli altri nomi coinvolti passa per<br />
genio e comunque non impedisce il naufragio di uno<br />
scontato country-folk che degenera in irritante banalità<br />
da FM. Salviamo giusto il brio dell’iniziale Departure,<br />
la morbida efficacia di Bridal Gown e la malinconica My<br />
My My da cinquanta minuti che svelano subito la natura<br />
di passatempo allestito da mezze tacche più un onesto<br />
musicista, giocati tra pulite esecuzioni buone per la<br />
radio di un centro commerciale, belle forme senza un<br />
filo d’ironia e qualche pallido esercizio di stile.<br />
Roba priva di un perché, quando di dischi ne escono<br />
cento e anzi mille in un mese e un pubblico che li acquisti<br />
non esiste praticamente più, ma figurarsi se costoro<br />
si sono posti il problema. Siccome la pubblicità è<br />
l’anima del commercio (e in questo caso de li mortacci<br />
loro), il comunicato stampa informa che il progetto è<br />
nato dopo una colossale sbronza al pub. Ripensarci<br />
la mattina seguente dopo un bel caffé forte e un paio<br />
d’aspirine pareva brutto, eh?<br />
(4.5/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
orB (The)/dAVid gilMour - MeTAllic<br />
SphereS (coluMBiA recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: am b i e n T , p s y c h<br />
L’egregio David Gilmour è uno vecchio stile. Alla politica<br />
ci guarda e ai charity event - come li chiamano in Inghilterra<br />
- è sempre in prima linea. Lo scorso 11 luglio ha<br />
nuovamente condiviso il palco con il non troppo amico<br />
Roger Waters per dare speranza alla prossima genera-<br />
zione di palestinesi che cresceranno nella famigerata<br />
striscia di Gaza, mentre lo scorso anno aveva registrato<br />
un contributo così così (Chicago) per una canzone pro<br />
Gary Kinnon, il famoso hacker reo di aver operato la più<br />
grande intrusione informatica di tutti i tempi. Il ritornello<br />
lo potete ancora ascoltare: si trova nella seconda<br />
delle due suite di questa improbabile collaborazione.<br />
Ci sentite Gilmour, nel classico registro alto e roco, intonare<br />
"do you believe in justice / do you believe in freedom"<br />
e in sottofondo - pare ancora di sentirceli - i due vecchi<br />
amici Alex Paterson e Martin "Youth" Glover farsela sotto<br />
dal ridere.<br />
Mille anni fa il primo iniziò la carriera musicale come<br />
roadie dei Killing Joke - e per lui galeotto fu l’ascolto<br />
del Brian Eno di Music For Films sotto LSD - mentre<br />
il secondo, bassista di quella stessa band, fu l’artefice,<br />
assieme ai compagni, di quella fusione tra post-punk e<br />
metal che sarà poi la base per dozzine di gruppi vampironi<br />
d’oggi e nu metal di ieri.<br />
Quei due oggi sono persone diverse. Youth, ad esempio,<br />
è un produttore di grido nonché cofirmatario di un<br />
progetto con Paul McCartney. Eppure il credo punk e il<br />
disprezzo hippy non sono cose che si cambiano facilmente,<br />
specie se cresci a pane e sound system e ti trovi<br />
dietro al vetro non più un Steve Hillage qualsiasi, ma il<br />
chitarrista più odiato dalla tua generazione. Negli anni<br />
d’oro gli Orb confezionavano alcuni singoli dal minutaggio<br />
impegnativo (Blue Room), prendevano in giro i<br />
Pink Floyd di Animals nella copertina di un loro album<br />
live (Live 93) e soprattutto davano alle stampe un monolite<br />
come The Orb's Adventures Beyond The Ultraworld<br />
che altro non era se non una grande truffa di visioni<br />
pastorali, campioni rubati a gente famosa tipo Steve<br />
Reich, robusti reggae dub e spruzzate psichedeliche<br />
tutt’altro che serie ma funzionali alle amplificazioni<br />
emotive della generazione E.<br />
Oggi ritroviamo quelle suggestioni, un po' rabbonite<br />
ma non senza la proverbiale ironia, in un viaggio psych<br />
che è come ce lo si aspetta: due lunghe suite (divise al<br />
loro interno in cinque parti) d’ambient house primissimi<br />
Novanta, tra accordi blues, folk e new age (à la Wish<br />
You Were Here, per intenderci) con il chitarrista inglese<br />
più presente nella prima e qualche cedimento narrativo<br />
sulla seconda. Ad ogni modo, un tassello indispensabile<br />
nella discografia orbiana.<br />
(7/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
72 73
oWen pAlleTT - A SWediSh loVe STory ep<br />
(doMino, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: c h a m b e r p o p<br />
EP di inediti che segue di alcuni mesi Heartland uscito<br />
a inizio 2010, A Swedish Love Story EP ripercorre da<br />
abbastanza vicino per mood l’album concept che lo ha<br />
preceduto: chamber e synth pop, indie e songwriting<br />
classico, analogico e digitale, con il consueto rimescolamento<br />
che il Nostro fa ormai con padronanza e maturità.<br />
Van Dyke Parks, Brian Wilson e chamber pop: insomma<br />
ritroviamo qui gli elementi basici della sua musica.<br />
Ma a differenza di Heartland, Pallett ha registrato<br />
i quattro pezzi dell’EP molto velocemente a New York,<br />
usando il violino, il Moog, il basso e una batteria elettronica.<br />
Una semplificazione forse necessaria dopo<br />
l’elaborato parto precedente. Essenziale.<br />
(6.8/10)<br />
TereSA greco<br />
pAolo conTe - nelSon (uniVerSAl, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />
Paolo Conte è di quella genia di songwriters la cui imitazione<br />
non è solo impossibile, ma vana. Troppo personale<br />
e rigorosa una poetica che dal 1974 (anno d'esordio<br />
come titolare, dopo un decennio come autore per<br />
altri) lo ha visto costruirsi un mondo suo proprio, d'immaginazione<br />
unica eppure così solidamente legata ad<br />
alcune immancabili influenze (il jazz fino ai cinquanta,<br />
la canzone francese, il tango e poco altro). Negli anni<br />
è diventato un classico vivente ed è dunque normale<br />
che gli ultimi dischi della sua produzione ripassino un<br />
repertorio di soluzioni prestabilite, giocando sul filo<br />
sottile di variazioni minime e ritorni.<br />
Per chi scrive l'ultimo grande capolavoro contiano è<br />
Una faccia in prestito (1995), da lì in poi una produzione<br />
sempre sopra la media, con qualche grande momento<br />
e tanto (buon) mestiere. Così è per Nelson, titolo-dedica<br />
ad un suo cane, un pastore francese «dal carattere<br />
difficile ma con orecchie musicali», e quindici tracce<br />
che smentiscono l'annunciata crisi creativa di qualche<br />
anno fa.<br />
L'iniziale Tra le tue braccia ripropone una classica ballad<br />
tra il malinconico e il dolorante-dondolante; Jeeves<br />
omaggia Woodhouse con uno swing brioso e elegante;<br />
Enfant prodige è languideria in francese; Clown una Max<br />
ripassata Nino Rota; Nina vorrebbe osare di più sul versante<br />
carioca ma si sa che l'Avvocato il fiume di gennaio<br />
l'ha visto solo dall'aereo. Dopo Galosce selvagge (sequel<br />
podistico di quell'inno alla due ruote che fu Silenziosa<br />
velocità nel precedente Psiche), Storia minima è il primo<br />
dei tre apici del disco, un piano-voce teatrale sull'onda di<br />
Dal loggione seppur più moderato nei toni.<br />
Da lì in poi Nelson riprende quell'invaghimento per i<br />
suoni sintetici già comune in alcuni dischi degli anni<br />
ottanta e che era anche la maggior novità di Psiche.<br />
C'est beau, ancora in francese, gioca su un quadratissimo<br />
pop modernista; Massaggiatrice è puro e pudico<br />
relax in forma canzonettara con sonnacchiosa batteria<br />
elettronica sullo sfondo; Sarah, secondo apice, è quasi<br />
downtempo con synth aeriformi luminosi e testo in<br />
inglese lamentativo. Le cineserie di Sotto la luna bruna<br />
anticipano poi il terzo apice, una Suonno è tutt'o suonno<br />
intrisa in synth subcoscienziali con violino solitario<br />
e versi onirici, mentre il trittico finale (Los amantes del<br />
mambo in spagnolo, il gustoso singolo L'orchestrina e<br />
Bodyguard for myself) chiude un disco la cui dedica a<br />
Renzo Fantini è un sigillo di memoria e commozione.<br />
(6.8/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
pAul SMiTh - MArginS (V2 MuSic, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: so n G w r i T i n G<br />
Mentre i Maxïmo Park si leccano ancora le ferite per<br />
non essere stati in grado di dare un degno erede a<br />
Our Earthly Pleasures, Paul Smith, che ne è il fulgido<br />
frontman e songwriter, si prende due dei migliori pop<br />
maker in circolazione, i Field Music, e sforna un side<br />
project a proprio nome, Margins.<br />
Messa così sembra promettente, ma già dopo la prima<br />
passata, il risultato è la solita minestra: come accadeva<br />
in Quicken The Heart, dove a latitare erano proprio<br />
le canzoni, anche qui mancano i numeri per catturare<br />
davvero l’attenzione dell’ascoltatore. Smith para<br />
sul confidenziale nel classico registro cristallino che lo<br />
contraddistingue sin dagli esordi, piega le strofe del<br />
suo gruppo in una faccenda folk (This Heat) o in qualcosa<br />
di Morrissey-iano (I Drew You Sleeping), magari con<br />
l’aiuto degli ospiti (Strange Fiction è un brano dei Field<br />
Music?), eppure non riesce mai a darci l’impressione<br />
di crederci davvero. Brani dal crooning accorato come<br />
Alone, I Would’ve Dropped, oppure episodi sul lato più<br />
emozionale/rockista del disco (il remember anni ’90 di<br />
Dare Not Dive) sono la dimostrazione di quanto piacevolmente<br />
inutile sia un’operazione del genere. O quanto<br />
sia inadeguato Smith quando pretende d'arrangiare<br />
un brano à la Micah P. Hinson, con chitarrini e archi<br />
(Pinball). Si può salvare The Tingles, il resto alle ortiche.<br />
(5.5/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
peppe VolTArelli - ulTiMA noTTe A MAlá<br />
STrAnA (on The roAd, Aprile 2010)<br />
Ge n e r e: e T n o -f o l k<br />
Non è world la musica di Peppe Voltarelli, ma di scorribande<br />
in giro per il mondo certamente si nutre. Quelle<br />
dell'ex frontman de Il Parto delle Nuvole Pesanti,<br />
come anomalo ambasciatore italiano in terra straniera<br />
con le sue canzoni, e quelle di un'indole che raccorda<br />
radici diverse, proprie ed altrui. Così in questo secondo<br />
disco in solitaria, complice la buona produzione di Finaz<br />
della Bandabardò, gli arrangiamenti smagriscono<br />
e a giovarne è l'interpretazione - da parte di un cantante<br />
dalla voce salina e potente, che è anche attore e performer<br />
imprevedibile - fermo restando che le canzoni<br />
raggiungono una qualità media inedita prima d'ora.<br />
Facile allora, fatte queste premesse, immaginarsi cosa<br />
contenga Ultima notte a Malá Strana: strizzate d'occhio<br />
al folk globalista di Manu Chao, fragranze manouche<br />
e profluvi di mandolini, lo spirito sarcastico<br />
e rabbioso di Matteo Salvatore come quello volto<br />
a nobilitare la tradizione di Domenico Modugno. In<br />
mezzo anche una cover PartoBanda de Gli anarchici<br />
di Leo Ferré cantata con Enrico "Enriquez" Greppi.<br />
Meritata la vittoria al Tenco nella categoria dialetto -<br />
dei cinque finalisti era il migliore - certo è che su disco<br />
Voltarelli non riesce ancora a convogliare tutta l'energia<br />
dei live.<br />
(6.6/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
peTe SWAnSon - feelingS in AMericA (rooT<br />
STrATA, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p s y c h-n o i s e<br />
Lo aveva già annunciato lo scorso anno in occasione<br />
di un'intervista, che la sua attività di musicista non si<br />
sarebbe interrotta con i Yellow Swans, ed ecco ora per<br />
Root Strata l'esordio da solista di Pete Swanson. Con<br />
300 copie in vinile non si tratta di certo di un'operazione<br />
in grande stile, ma considerata la rapidità con cui il<br />
disco è andato sold-out si può immaginare che c'era<br />
una certa attesa per il lavoro del musicista di Portland.<br />
E sicuramente i vecchi fans di Yellow Swans non saranno<br />
delusi: Feelings in America non si allontana molto dai<br />
tragitti percorsi dalla vecchia band, se non per dei toni<br />
meno aggressivi ed una maggiore predilezione per scivolate<br />
droniche, mentre la totale assenza di parti percussive<br />
e scarti improvvisi lascia intuire che dei due era<br />
Gabriel Saloman a costituire il versante tecnoide. Delle<br />
due lunghe tracce, migliore sicuramente The Fermata,<br />
dove sparse note di chitarra tracimano inesorabilmente<br />
verso un wall of sound da annebbiare l'udito, mentre<br />
senza che ci si renda conto di niente, accade di tutto.<br />
Da manuale delle musiche immobili.<br />
(6.9/10)<br />
leonArdo AMico<br />
philip jecK - An ArK for The liSTer (Touch<br />
MuSic uK, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: sp i r a l-ac u s m a T i c a<br />
An Ark of the listener prende spunto dagli oscuri sonetti<br />
di "The Wreck of the Deutschland" del gesuita<br />
Gerard Manley Hopkins, ordigno di mistica negativa la<br />
cui visioni apocalittiche pare abbiano stregato l'inconsolabile<br />
Philip Jeck, sempre alla ricerca di un equilibrio<br />
spirituale.<br />
All'appuntamento l'artista inglese si presenta armato<br />
dei soliti attrezzi e fini: una casio da mercatino, vecchi<br />
fonografi modificati, un delay della boss e un DAT mandati<br />
più o meno in random con l'aggiunta di riverberi<br />
parasinfonici. Che tradotto significa: i loop disintegrati<br />
di William Basinski e i rigurgiti memoriali di Janek<br />
Shaefer, con l'unica differenza che qui i suoni non collimano<br />
più, non s'infrangono più come onde.<br />
A parte The all of water e The pilot, dove affiora un<br />
po' della stralunata ricchezza dei debordanti esordi,<br />
il resto pare ripiegato su se stesso, privo di ricami.<br />
La mistica del gesuita si traduce così in un b-horror<br />
monotimbrico e avviluppato nel disagio isolazionista<br />
dell'artista inglese che pare essersi lasciato alle spalle<br />
la vena maledetta ed essenziale dei suoi importanti<br />
inizi.<br />
(6/10)<br />
SAlVATore Borrelli<br />
pQ - you'll neVer find uS here (expAnding<br />
recordS, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: a m b i e n T<br />
Furbi sono furbi, i Pq. Interessati a dare un immagine<br />
dell'ambient quanto più friendly e malinconica possibile,<br />
tra accenni post-rock su arpeggi di chitarre acustiche<br />
(Somebody Should Repeat My Summer) e archi in<br />
deriva cinematica (The Cairo Truth), elettronica minimal<br />
e crepitante (Jocelyn) e intimità soffuse in stile Yann<br />
Tiersen condite da un retrogusto psichedelico (A Taste<br />
Of Diminished Expectation).<br />
Il duo belga (Samir Bekaert e Maarten Vanderwalle<br />
dietro alle macchine) dimostra comunque un gusto<br />
sopraffino nell'assemblare i suoni di You'll Never Find<br />
Us Here, un misurare maniacale influenze, sfumature e<br />
ceselli strumentali da cui traspare evidente la matrice<br />
nord-europea/francofona del progetto.<br />
Per un disco sospeso tra melodia e costumer care, in un<br />
74 75
gioco di atmosfere che va per sottrazione riuscendo<br />
nel contempo a suonare cool.<br />
(6.9/10)<br />
fABrizio zAMpighi<br />
QueST for fire - lighTS froM pArAdiSe (Tee<br />
pee, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: p s y c h-s T o n e r<br />
La Tee Pee, label americana che si muove in ambito<br />
psichedelico con piacevoli invasioni di campo sul versante<br />
hard & heavy, ultimamente non perde un colpo.<br />
L’ultimo colpaccio è il sophomore dei Quest For Fire,<br />
quartetto canadese formato dagli ex Deadly Snakes<br />
Chad Ross e Andrew Moszynski con Josh Barman e<br />
Mike Maxymuik che aveva già sorpreso due anni fa con<br />
l'omonimo esordio Quest For Fire. Costretti a bissare<br />
una prova ben accolta ovunque, i quattro allargano la<br />
prospettiva introducendo di elementi apparentemente<br />
estranei al contesto stoner/sludge monolitico che li<br />
contraddistingueva.<br />
Light From Paradise è infatti legato a doppia mandata<br />
con una psichedelia dilatata, visionaria, pinkfloydiana<br />
che predilige emotivi slanci semi-orchestrali, scarti<br />
desert-rock o grunge alla maniera di Skin Yard o Meat<br />
Puppets e una vocalità che abbraccia l’ampio spettro<br />
circoscritto tra gli Om meno salmodianti e gli Alice In<br />
Chains più corposi e afflitti. Non solo hard-rock in overdrive<br />
alla Hawkwind come in Set Out Alone o In The Place<br />
Of A Storm ma lande drogatissime e più contemplative<br />
con soluzioni personali e varie (il mantra acustico di<br />
Psychic Seasons, gli archi di The Greatest Hits By God, le<br />
afasie umorali della esemplare Sessions Of Light). Pura<br />
gioia per chi ama il versante più diluito e liquido della<br />
psichedelia dura del terzo millennio.<br />
(7/10)<br />
STefAno pifferi<br />
roBerT WyATT - for The ghoSTS WiThin<br />
(doMino, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: j a z z<br />
Sin dall’inizio l’uomo di Canterbury ci ha abituato<br />
all’anticonvenzionalità. Benissimo, giacché un mondo<br />
senza Rock Bottom o i Soft Machine è duro da immaginare<br />
e sarebbe in ogni caso più banale. Mente pronta<br />
allo scambio e ad adattarsi, lo trovi a fianco di Cristina<br />
Donà e di musicisti africani, intendo a sfumare surrealismi<br />
e indignarsi con un’invettiva. Oggi eccolo a ricordarci<br />
la sua passione per gli standard jazz in compagnia<br />
di Gilad Atzmon (sassofonista abile e misurato già in<br />
Cuckooland e Comicopera) e Ros Stephen agi archi.<br />
Sfrondate da ogni calligrafismo e ridotte all’osso di gra-<br />
na vocale, fiati e quartetto d’archi (con gli occasionali<br />
piano e ritmica in punta di dita), le celeberrime Lush<br />
Life e In A Sentimental Mood, una fischiettata Round<br />
Midnight e lo struggimento di What A Wonderful World<br />
perdono la banalità accumulata negli anni aprendosi a<br />
quella inconfondibile voce.<br />
Che potrebbe cavar poesia anche dal menu di un ristorante,<br />
dunque figuratevi se alle prese con brani dal<br />
cuore melanconico e mai nostalgico per gli inusuali arrangiamenti<br />
cui sono sottoposte. Trattasi di autentiche<br />
interpretazioni, insomma, come allorquando Robert<br />
torna sulla sua meraviglia Maryan o ripesca At Last I<br />
Am Free - degli Chic, già riletta negli ’80 - con esito coerente<br />
all’atmosfera. Organica e piacevolissima, spezzata<br />
soltanto dall’inutile etno-rap Where Are They Now,<br />
comunque redento da quanto sopra, dall’accorata Lullaby<br />
For Irena e dall’autografa title-track. Divertissement<br />
d’autore esteso a chi ascolta: rarità che con Wyatt diviene<br />
norma.<br />
(7/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
roBerTA di lorenzo - l'occhio dellA lunA<br />
(rAiSer, feBBrAio 2010)<br />
Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />
Se quella del songwriting (in) italiano è una piazza affollatissima,<br />
qualche anfratto libero (forse) c'è ancora<br />
nel settore cantautorato al femminile. Cade a puntino<br />
dunque questo esordio di Roberta Di Lorenzo prodotto<br />
da una vecchia conoscenza in ottimo stato di salute<br />
come Eugenio Finardi. Di Lorenzo è cantautrice<br />
ancora in via di formazione, lo testimoniamo una serie<br />
di tracce gradevoli ma senza l'effettivo mordente per<br />
rimanere - ad eccezione di Circe, piccolo gioiello di pop<br />
nobile con liriche efficaci ad intrufolare nel mito un po'<br />
di biografismo. Nonostante ciò L'occhio della luna si<br />
lascia riascoltare per il lavoro d'artigianato degli arrangiamenti,<br />
rimescolati senza stravolgimenti brano dopo<br />
brano e calibrati sulla direzione di ogni singolo episodio.<br />
Intrecci di acustiche e mandolini per Anima dolce liquida,<br />
con bouzouki in Antigone (cofirmata dallo stesso<br />
Finardi). Rhodes lunare per Corollario, folate d'archi per<br />
Vento di costiera. Retrogusto country-folk su Faccia e<br />
speziatura di sitar ne L'attesa. Visti i tre episodi con la<br />
titolare solitaria alla chitarra (Luna) e al pianoforte (La<br />
ballerina e il clown, Doloroso istinto), occorre una scrittura<br />
con la schiena più dritta, che cerchi l'epidermide di<br />
chi ascolta più che la corteccia cerebrale.<br />
(6.2/10)<br />
lucA BArAcheTTi<br />
royAl BAThS - liTAnieS (WoodSiST, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: a r T-p o p sixTies<br />
Siete in astinenza da Crystal Stilts et similia? Non riuscite<br />
a uscire dalle sabbie mobili del revival sixties più<br />
arty? Fiondatevi su questi californiani Royal Baths, freschi<br />
di cambio di ragione sociale e all’esordio lungo,<br />
dopo non più di un paio di 7".<br />
Stessa forza affabulatoria del citato quartetto newyorchese<br />
e del sound più artistoide di Williamsburg,<br />
in generale, nel rivedere le spinte sixties-pop alla<br />
luce dell’avanguardia velvetiana, Litanies lascia da<br />
subito a bocca aperta per maestria e equilibrio nel<br />
gestire una materia iper-abusata. Mezzi pochi - doppia<br />
voce maschile per un terzetto dalla strumentazione<br />
classica - ma soluzioni non banali che conquistano<br />
dai primi secondi dell’opener After Death.<br />
Obliquo e groovey, ossessivo senza essere claustrofobico<br />
Litanies è pieno zeppo di piccoli tesori tanto<br />
minimali quanto perfettamente dosati, capace di tirare<br />
in ballo l’ovvio pop dei sessanta, il rock inacidito<br />
dei Velvet, la psichedelia più corposa e visionaria e<br />
un tocco di weirdismo arty che li cala non a caso nel<br />
catalogo Woodsist.<br />
Psych-pop oscuro e gloomy, ritmica scheletrica e chi-<br />
tarrismo in modalità garage/lo-fi per tanti pezzi al di<br />
sopra della già alta media di casa, e con almeno un<br />
capolavoro: Sitting In My Room, 5 minuti di dolce, fluttuante<br />
e ossessiva paranoia, che culla verso la California<br />
della Summer Of Love e, contemporaneamente,<br />
verso lontani mondi orientali. Consigliatissimo.<br />
(7.3/10)<br />
STefAno pifferi<br />
SAcri cuori - douglAS & dAWn (inTerBAng<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: d e s e r T-r o c k<br />
Partiamo dai nomi coinvolti per dare la misura di questo<br />
progetto estemporaneo dal nome evocativo. Su<br />
Douglas & Dawn appaiono a vario titolo John Convertino,<br />
Jacob Valenzuela e Nick Luca dei Calexico, Howe<br />
Gelb, Anders Pedersen e Thøger Lund dei Giant Sand,<br />
Bill Elm (Friend of Dean Martinez), Marc Ribot, James<br />
Chance, John Parish (responsabile dietro al mixer) quale<br />
rappresentanza internazionale cui si unisce quella<br />
nostrana formata dai vari Massimo Sbaragli, Christian<br />
Ravaglioli, Rico Farnedi, Denis Valentini, Mirko Monduzzi<br />
e Andrea Costa.<br />
Un firmamento di brillanti stelle che ruota indubbiamente<br />
intorno al "cuore" di Sacri Cuori: Antonio Gra-<br />
76 77
mentieri, deus-ex-machina del festival ferrarese Strade<br />
Blu e apprezzato chitarrista di base bluesy, e Diego Sapignoli,<br />
sono infatti un apprezzato duo protagonista di<br />
molti progetti nazionali e internazionali (da Hugo Race<br />
al recente Saluti da Saturno di Mirco Mariani).<br />
L’amore per una musica soundtrack-oriented, evocativa<br />
e visionaria in quanto pensata come sostrato sonoro<br />
per performances varie, si manifesta in questo esordio<br />
vinilico sempre sul crinale tra forme avant-folk minimale,<br />
psichedelica desertica e polverosa, blues atavico e<br />
passionale, slow-core romantico. Musica prevalentemente<br />
strumentale, se si eccettua la Dylaniana Shelter<br />
From The Storm cantata da Howe Gelb, che trascina<br />
l’ascoltatore verso paesaggi jorodowskiani, polverosi<br />
e mistici, ora delicatamente traditional, ora ossessivamente<br />
reiterati.<br />
Disco particolare che stuzzicherà l’appetito di chi apprezza<br />
i nomi coinvolti, ma non solo.<br />
(7/10)<br />
STefAno pifferi<br />
ShAnnon WrighT - SecreT Blood (ViciouS<br />
circle, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: p o s T c a n T a u T o r a T o<br />
Basta poco a Shannon Wright per ammaliare: una voce<br />
intensa nel porgersi, una ritmica secca e precisa, qualche<br />
tastiera e corda elettrica ma d’acustico sentire (e<br />
viceversa ). Grossomodo come se PJ Harvey si domiciliasse<br />
nella Chicago del decennio scorso, per quanto il<br />
paragone sia in ogni caso riduttivo verso chi possiede<br />
una cifra autoriale propria. Che sa alternare rabbia (Violent<br />
Colors) e sperimentazione (Palomino) tanto quanto<br />
rinvigorire in modo esperto le strutture della forma<br />
canzone (Dim Reader) oppure concedersi suggestioni<br />
cameristiche (Chair To Room).<br />
Messo da parte quel poco d'elettronica casalinga che<br />
faceva capolino nel precedente Honeybee Girls, Shannon<br />
torna a cacciare la testa fuori della camera e guardare<br />
giù in strada, declinando post il verbo folk-rock<br />
con furore più (Commoners Saint) o meno (Fractured)<br />
meditativo.<br />
Trovando - lei e noi - requie in un pugno di ballate dalla<br />
pienezza autoriale non comune come il capolavoro On<br />
The Riverside, oppure come le Satellites, Merciful Secret<br />
Blood Of A Noble Man e Under The Luminaries capaci di<br />
dipanare con mano ferma incantesimi di semioscurità<br />
e deboli chiarori. Ci si addentra nel disco per nulla respinti<br />
dalle sue forme, osservando anzi l’intimismo farsi<br />
pian piano largo tra le maglie della tensione, come se<br />
Shannon volesse riassumere in trentatré minuti un intero<br />
percorso decennale. Fino ad oggi sempre persua-<br />
sivo e appassionato, come le gocce di questo "sangue<br />
segreto".<br />
(7.2/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
ShAron VAn eTTen - epic (BA-dA-Bing,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: f o l k<br />
Sharon Van Etten è una vagabonda che nel tragitto<br />
New Jersey/Tennessee/Brooklyn s’è fatta espellere da<br />
scuola, ha lavorato da sommelier, poi in un non meglio<br />
specificato "locale per tutte le età" e per un’etichetta<br />
discografica. Già che c’era, si è incasinata la vita con<br />
qualche ragazzaccio che le ha spezzato il cuore. Questo<br />
se presti fede a quei moderni racconti mitologici<br />
che sono i comunicati stampa. Che si premurano di<br />
informarci inoltre che Sharon non è "una cantante che<br />
predilige prospettive femminili e non è una provocatrice"<br />
e che risulterà gradita a chi "è stufo del provincialismo di<br />
altre artiste" per le sue "osservazioni incisive e universali<br />
su perdita e amore".<br />
Al netto di tutto ciò, chi scrive ha incontrato una versione<br />
- logico, data la residenza - più urbana ma pure scolorita<br />
di Alela Diane (buone Save Yourself e la minimale<br />
Love More; Don’t Do It si agghinda e si piace troppo),<br />
che accelera il passo con discreto esito (A Crime, Peace<br />
Signs) e inciampa nel deplorevole FM anni ’70 One Day<br />
(a giustificazione della dedica ai Fleetwood Mac nel<br />
booklet). Chi scrive ha incontrato una volenterosa che,<br />
nello stanzone strapieno di colleghe, siede in fondo e<br />
raramente parla con autorità. Quando succede, le esce<br />
il sensazionale traslucido bordone da Kendra Smith<br />
terrena Dsharpg. Sulla base del quale chi scrive spera<br />
di incontrarla, infine matura, per il terzo album.<br />
(6.7/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
SiSKiyou - SiSKiyou (conSTellATion<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: indie f o l k<br />
L'ennesima band di area Constallation arriva al debutto.<br />
Si tratta di un duo canadese formato dall'ex Great<br />
Lake Swimmers Colin Huebert e di Erik Arnesen, che<br />
nella band madre, invece, c'è rimasto. Rispetto alle altre<br />
incarnazioni di Huebert, qui il sound è più lo-fi, caratterizzato<br />
quasi esclusivamente dalla sua vena di songwriter<br />
malinconico e crepuscolare. Pare che le dodici tracce<br />
che compongono il disco siano state registrate un<br />
po' qua e un po' là, "sulle scale, in stanze d'albergo" e<br />
altrove, semplicemente per mettere su cd un eccesso di<br />
brani che Huebert aveva scritto per il suo progetto soli-<br />
sta. Diciamo che si sente: non c'è nulla che non vada in<br />
queste canzoni che lasciano intravvedere una spiccata<br />
facilità alla coralità che tanto va di moda in ambienti<br />
indie, ma che sembrano non essere state digerite a dovere.<br />
L'impressione è di un notebook di appunti, con<br />
canzoni che superano raramente i due minuti e mezzo,<br />
come di quei taccuini di viaggio di prima della fotografia.<br />
la domanda è se abbiano ancora spazio, oggi che<br />
siamo abituati alle foto, ai video, a Internet.<br />
(6/10)<br />
MArco BoScolo<br />
SMAll BlAcK - neW chAin (jAgjAguWAr,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: Gl o -fi<br />
Gli ultimi della nidiata hypnagogica che un anno fa<br />
riempiva colonne e copertine dei magazine musicali<br />
di mezzo mondo sono un quartetto proveniente da<br />
Brooklyn. Dopo un singolo passato immeritatamente<br />
sottotraccia (Despicable Dogs su Trasparent) e un<br />
omonimo EP non altrettanto riuscito, i nostri arrivano<br />
al primo full-lenght proprio mentre la versione nera del<br />
glo-fi (leggi witch-house) comincia a scalzare dalle prime<br />
pagine i padrini Neon Indian e Washed Out.<br />
Fa uno strano effetto risentire i toni solari e sfuocati<br />
propri di questa progenie mentre le nenie doloranti dei<br />
Salem rubano l’attenzione dei media di genere. New<br />
Chain non è un cattivo lavoro, raccoglie dieci tracce di<br />
beat riverberati d’ordinanza, aperture synth e cantato<br />
dilatato che ci riporta a un paio d'estati fa come se nulla<br />
fosse; le melodie annacquate di Camouflage e quelle<br />
più "elastiche" di Photojurnalist, assieme alle sincopi<br />
electro della title-track, reggono una tensostruttura<br />
che se pur non brilla risulta decisamente godibile.<br />
(7/10)<br />
AndreA nApoli<br />
SonneTS (The) - WeSTern hArBour Blue<br />
(deSpoTz, SeTTeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: s m o o T h p o p, s o u l<br />
Perché ci vuole stile. Avete presente quando Paul Weller<br />
ha dato un calcio ai Jam, ha afferrato per un braccio<br />
Mick Talbot, si è messo un maglioncino sulle spalle ed<br />
è andato a farsi fotografare sotto la Tour Eiffel? Quello<br />
stile. Niente può batterlo, sarai sempre più cool degli<br />
altri. Questo, i Sonnets, lo hanno capito benissimo - e,<br />
soprattutto, prima degli altri. Magari il loro nu blueeyed<br />
soul non arriverà a diventare una tendenza del<br />
pop mondiale, ma nel "nostro" panorama costituisce la<br />
proverbiale boccata d'aria fresca, e non importa quanto<br />
sappia di già sentito. Non importa certo quando<br />
scegli consapevolmente di aprire un disco con la più<br />
smaccata delle citazioni, il rapidissimo crescendo di archi<br />
del Love Theme della Love Unlimited Orchestra: la<br />
dichiarazione d'intenti è infatti palese sin dall'incipit<br />
di No Hollywood Ending, romanticissimo giro in barca<br />
accompagnato dal crooning soffice, fragile ed emotivo<br />
di un Roddy Frame o un Edwyn Collins, o ancor di<br />
più nelle affettuose riprese di Shout To The Top, My Ever<br />
Changing Moods e Long Hot Summer chiamate rispettivamente<br />
Sebastian Said, The Blue Train e Everybody's<br />
On a High. C'è però una freschezza innegabile lungo<br />
gli appena trenta minuti di Western Harbour Blue - durassero<br />
tutti così, i dischi pop! - che fa perdonare ogni<br />
indulgenza di questo tipo: non c'è niente di male nel<br />
rievocare precisamente gli '80 di Style Council, Prefab<br />
Sprout e (perché no?) Wham! quando si possiede un<br />
gusto tanto raffinato, e pazienza se probabilmente si<br />
tratterà di un dischetto in fondo splendidamente effimero,<br />
di quelli di cui fra tre o cinque anni ci ricorderemo<br />
in pochi. Eccome se ce ne ricorderemo, però (a<br />
proposito, chissà dov'è finita quella vecchia copia masterizzata<br />
di Lesser Matters...).<br />
Ultima considerazione: che un disco così venga da Malmoe<br />
e non da Londra, la dice lunga sull'aria non propriamente<br />
salubre che da un po' tira ad Albione, ahilei<br />
non più culla di fenomeni pop realmente genuini (sarà<br />
mica un caso se i Belle And Sebastian sono ormai di<br />
casa a L.A.?). Ma tutto questo finisce per interessarci<br />
davvero poco, non appena rimettiamo su il disco per<br />
l'ennesimo, piacevole ascolto. E l'inverno sembrerà<br />
sempre lontano, anche con la pioggia che batte sui vetri.<br />
(7.1/10)<br />
AnTonio pugliA<br />
SpiriTuAl fronT - roTTen roMA cASino<br />
(TriSol, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: nihilisT suicide-p o p<br />
Eccolo il disco della maturità "pop" per la formazione<br />
romana. Lo auspicavamo al tempo di Armageddon Gigolo,<br />
quando utilizzavamo la formula - suggerita dalla<br />
band stessa - di "suicide-pop" per riassumere un suono<br />
decadente, viscerale, drammatico eppure accessibile<br />
ed aperto. Ora Rotten Roma Casino conferma e amplifica<br />
quella sensazione, anche grazie al supporto visivo (e<br />
visionario) affidato al dvd accluso che, tra video, corti e<br />
interviste, rievoca le stelle più oscure del firmamento<br />
maudit della band: dal lato filmico, Fassbinder e Lynch,<br />
da quello letterario Pavese, Majakovskji e Pasolini.<br />
Sul versante musicale, il retroterra da folk noir e apocalittico<br />
da cui il progetto prendeva le mosse agli esor-<br />
78 79
di è sempre presente, seppur relegato a semplice eco<br />
sottotraccia. A farla da padrone è una forma noir-cabarettistica<br />
di moderna canzone pop, finalmente compiuta<br />
e matura, raffinata ed elegante e che stupisce per<br />
sfumature, soluzioni e accessibilità. Musica struggente<br />
e passionale che alterna ballads dal sapore mitteleuropeo<br />
a orchestrazioni da western morriconiano, torchsongs<br />
oscure alla Black Heart Procession a passaggi<br />
alla Nick Cave più lirico ed intimista. Solo vaghi punti<br />
di riferimento, perché si potrebbero tranquillamente tirare<br />
in ballo gli Ostara di Secret Homeland, i claudicanti<br />
bozzetti di Kurt Weill, desertici echi di solitudine e disperazione,<br />
l’esistenzialismo più marcatamente nichilista<br />
e mitteleuropeo e altro ancora.<br />
Ad accompagnare Simone Hellvis Salvatori, c'è una rodata<br />
e affidabile band (il basso di Federico Amorosi, la<br />
batteria di Andrea Freda e la chitarra elettrica di Giorgio<br />
Maria Condemi) più una infinità di ospiti. Tra corde,<br />
piano e trombe, le trame sonore di Rotten Roma Casino<br />
si ispessiscono senza però perdere in espressività e accessibilità.<br />
Una soluzione che ne aumenta l’appeal, fornendo<br />
una buona (unica?) via per uscire dal pantano<br />
spesso autoreferenziale del milieu neo-folk.<br />
(7.1/10)<br />
STefAno pifferi<br />
SQuArepuSher - ShoBAleAder one:<br />
d'deMonSTrATor (WArp recordS, noVeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: vo c o d e r p o p<br />
Cosa sarà mai preso a Squarepusher? Un disco di canzoni<br />
easy listening a base di pop, nu soul, r'n'b, eighties<br />
cantate rigorosamente al vocoder e arrangiate con<br />
chitarra, drum machine, basso e synth? Shobaleader<br />
One: d'Demonstrator è senz'altro l'album più smaccatamente<br />
ruffiano dell'anno. Ci puoi sentire gli arrangiamenti<br />
sfarzosi da fantasilandia kitsch (Frisco Wave),<br />
una tonnellata di Moroder passato al colino del french<br />
touch di chi sapete bene (Megazine), fino a una sorta di<br />
risposta al culto glo-pop di Neon Indian e soci. In più,<br />
oltre a proverbiali arrangiamenti slap e funk, ci si respira<br />
pure quel gusto (che una volta chiamavamo) fusion che<br />
tanto piace a mister Jenkins, decorato con gli scacchi<br />
colorati al neon delle vecchie disco coi pattini.<br />
Bello? Dipende da quanto a fondo andiamo nella faccenda.<br />
Mr spaccino non si è purgato d'anni d'accelerazioni<br />
abbandonandosi semplicemente a un'innocua<br />
e spiazzante easy listening. A primo acchito l'album<br />
sembra un'enorme truffa, poi capisci che il Leonardo<br />
della situazione gioca nell'inserirti trame e riferimenti<br />
praticamente in ogni canzone. A fine scaletta la scatola<br />
si apre e tiri le fila, trovi un'overture prog-metal di dieci<br />
minuti che parte con dei King Crimson borchiati, passa<br />
al grind e conclude con un giro d'arpeggi e pomp-metal<br />
rallentati. La verità, dissimulata sotto a un chirurgico<br />
clashing di epoche, culture e continenti, è che l'electrohead<br />
britannico ammette la superiorità francese in fatto<br />
di pop al silicio.<br />
Questa confessione porta alla catarsi intrisa di Daft<br />
Punk, Sébastien Tellier, Air (e prima il sempreverde<br />
Giorgio Moroder): Squarepusher non potrà mettere<br />
piede al pub per un po', ma la sua versione d'elettro pop<br />
nerd modificata (micro inserti metal e sensibilità prog<br />
seventies a tutto tondo) è pienamente riuscita.<br />
(7/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
STAn ridgWAy - neon MirAge (A440, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: w a v e f o l k s i n G e r<br />
Sin dai Wall Of Voodoo questa voce inconfondibile<br />
intrattiene con le radici un rapporto ambivalente. Nel<br />
senso che, nell’attraversare la new wave per approdare<br />
a una forma splendidamente attuale di cantautorato,<br />
le ha trasfigurate e omaggiate. Se dunque l’epoca delle<br />
rivoluzioni arriva una volta sola e accadde trent’anni<br />
fa con Ring Of Fire, di Johnny Cash Stan oggi può dirsi<br />
erede spirituale. Canzoni come storie, le sue, che danno<br />
corpo a hard bolied da bassifondi, a mini-sceneggiature,<br />
a inquietudini future da uomo metropolitano del duemila,<br />
e la differenza sta lì.<br />
Che, a questo giro, veste di abiti talvolta tradizionalisti<br />
riflessioni frutto di recenti disgrazie (la dipartita del padre<br />
e di uno zio; il suicidio della strumentista e amica<br />
Amy Farris, qui presente) e si riallaccia - com’è stato<br />
giustamente notato da altri - al suo Black Diamond del<br />
’95. Lo fa tramite la bella ripresa di una ballata colà inclusa<br />
(Underneath The Big Green Tree), un’altra cover di<br />
Bob Dylan (la vibrante Lenny Bruce) e il tono malinconico<br />
che la versatilità degli arrangiamenti rende avvolgente<br />
e non cupo. Un disco di mezza età, se vi pare, sia<br />
in termini di classe che di occasionale fiatone, sicché<br />
al maldestro rock latineggiante Scavenger Hunt e alla<br />
piatta Wandering Star rispondono una Halfway There<br />
tra tex-mex e Irlanda e lo struggente crepuscolo Behind<br />
The Mask.<br />
Tra le due estremità un poco di mestiere e parecchia<br />
bontà a piene mani: dal reggae della prateria (Flag Up On<br />
A Pole) alle tipiche atmosfere morriconiane (This Town<br />
They Call Fate), da una sarcastica bossanova (Desert Of<br />
Dreams) a ipotesi di Blonde On Blonde se fosse appartenuto<br />
a Van Morrison (Day Up In The Sun). Gemme che<br />
al sottoscritto bastano per garantire a Neon Mirage un<br />
posto nel cuore e negli scaffali. Avanzano, perfino.<br />
(7.1/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
STyrofoAM - diSco SynTheSizerS & dAily<br />
TrAnQuilizerS (neTTWerK MuSic group,<br />
oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: sy n T h p o p<br />
Styrofoam alle mode c'è sempre stato attento. Molto attento.<br />
All'inizio, a tiro Duemila, cavalcava perfettamente<br />
l'ondata Morr con glitch e melanconie mittel, poi lestissimo<br />
è salito sul cavallone Anticon mettendo un po' di<br />
hop bianco dentro l’impasto indietronico, poi è arrivato<br />
il boom degli '80 e s’è dato una bella spalmata di ottimismo<br />
e synth pop mascherandosi sempre meno europeo<br />
e sempre più filo britannico, tra uggia e tanti raggi<br />
di sole pop. In tutto ciò, featuring rap a parte, il senso<br />
melodico lo ha sempre salvato. A Arne Van Petegem<br />
non è mai mancato e i suoi testi piacevoli, automatici<br />
il più delle volte, hanno sempre conservato quell'intoccabile<br />
aura indie pop, hanno cioé sempre avuto il taglio<br />
melodico al momento giusto.<br />
Oggi, a due anni da A Thousand Words con Disco Synthesizers<br />
& Daily Tranquilizers il Belga s'è rotto anche<br />
di quest'abito: basta indie-genza, basta quel suono per<br />
pochi.<br />
Il nuovo Styrofoam non si vergogna di cantare con il<br />
vocoder, di prendersi al missaggio uno come grosso<br />
come Wally Gagel (Eels, Folk Implosion, Muse), d’incidere<br />
in uno studio ancor più famoso come il TTG/WAX e di<br />
puntare diritto al pop da classifica con il suono che va<br />
oggi, un misto di luccicanti synth un po’ techy, aperture<br />
chitarristiche à la New Order, folate da soundtrack scura<br />
à la Depeche Mode e in generale quell’approccio tra<br />
suonato live e synth in remember Ottanta.<br />
Ma i numeri killer ci sono? Get Smarter e Extra Careful ci<br />
provano e funzionano senza uscire dai soliti seminati.<br />
Il resto è prodotto molto bene senza che la sensazione<br />
di già sentito abbandoni mail l'ascoltatore. In pratica<br />
Styrofoam è neither Fish Nor Fles, il pubblico di massa<br />
non lo raggiungerà, e gli indie kid gli volteranno le<br />
spalle.<br />
(6/10)<br />
edoArdo BriddA<br />
Sun AirWAy - nocTurne of exploded<br />
crySTAl chAndelier (deAd oceAnS, oTToBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: po p<br />
L'album di debutto del duo di Philadelphia è un omag-<br />
gio al synth pop, ma con le dovute differenze che l'era di<br />
Ableton ha portato all'elettronica. I Sun Airway cercano<br />
di creare un punto d'incontro fra tentativi sperimentali<br />
più ricercati e l'influenza del mainstream pop degli<br />
inglesi Coldplay: a volte ci riescono, a volte meno come<br />
nel caso dell'intro Infinity (dove l'interpretazione vocale<br />
di John Barthmus è fin troppo simile a Chris Martin) o<br />
Shared Piano (la cui spumeggiante esplosione electropop<br />
è incredibilmente somigliante a Viva La Vida). Più<br />
personali tracce come American West, con le festive tastiere<br />
svolazzanti bliss-pop, e Put The Days Away, il cui<br />
crescendo ci conduce fino a una rilettura indie-pop priva<br />
delle chitarre sporche degli Strokes. Come in ogni<br />
disco pop che si rispetti arrivano anche la ballata malinconica<br />
e lenta, Swallowed By The Night, e il dance-pop<br />
oriented di Waiting on you: entrambe rimangono tentativi<br />
non proprio brillanti dalle melodie vocali insipide e<br />
dagli arrangiamenti scontati. Un esordio piacevole ma<br />
non del tutto convincente.<br />
(6.3/10)<br />
geMMA ghelArdi<br />
Third eye foundATion - The dArK (fire<br />
recordS, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: a m e r i c a n a<br />
Da un decennio Matt Elliott non comunicava col mondo<br />
tramite la Fondazione. Soltanto remix da un Little<br />
Lost Soul che usciva per l’appunto nel 2000 ed era delle<br />
sue la missiva a più alto tasso melodico, che così preparava<br />
il terreno allo splendido cantautorato "modernista"<br />
della trilogia Songs. Proveniente da una Bristol<br />
lontana dai riflettori, il ragazzo aveva sin lì assemblato<br />
col giusto distacco il dub e le stratificazioni sonore, le<br />
chitarre trasfigurate e il ritmo dilatato senza troppo riguardo<br />
per la forma canzone. Degli abiti appena smessi<br />
- non si sa per quanto tempo - da chansonnier notturno,<br />
The Dark non può però esimersi dal tenere conto, visto<br />
il loro peso emotivo e artistico che cogli anche qui, al di<br />
là della copertina, delle prese di posizione politiche o<br />
della visione del mondo.<br />
In un’attenzione allo svolgimento del suono, semmai;<br />
al mescolarlo affinché gli elementi compositivi risultino<br />
indistinguibili e divengano il messaggio sostituendosi<br />
alle parole. Avrete così in mano un gomitolo spinoso<br />
composto da cinque movimenti, risolti in grigiori ambientali<br />
che raccontano un approccio sulfureo a triphop<br />
e drum n’ bass, suggestioni etniche e orchestrazioni<br />
sottratte al minimalismo colto, stordimento e rabbia<br />
sotto pelle. Non fatevi però depistare da ipotesi di revival<br />
post-rock, ché qui - con Chapelier Fou e Chris Cole<br />
a gestire diversi strumenti e leggere la mente di Matt - si<br />
80 81
espira un’aria contemporanea e, com'è giusto, spinta al<br />
di là delle definizioni. Malsana e ad alto tasso di personalità,<br />
anche, e dunque bentornato, Terzo Occhio.<br />
(7.2/10)<br />
giAncArlo TurrA<br />
TriSTe colore roSA - ScoMpArire in 11<br />
SeMplici MoSSe (AuToprodoTTo, SeTTeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: s o n G w r i T i n G<br />
Giocano sulle atmosfere i Triste Colore Rosa con il disco<br />
di esordio Scomparire in 11 semplici mosse, frutto<br />
della collaborazione e la partecipazione di diversi musicisti<br />
su cui il progetto musicale della band si basa nella<br />
sua ultima incarnazione.<br />
Atmosfere si diceva, sin dal nome in attenuazione di colore<br />
scelto, per musica cantata in italiano, che passa con<br />
disinvoltura dall’elettronica al pop rock all’indie, sospesa<br />
tra momenti più acustici e momenti più tirati. Essendo<br />
essenzialmente creatori di effetti soffusi, i Triste Colore<br />
Rosa riescono meglio in pezzi tenui dove mostrano una<br />
buona padronanza dei mezzi, anche in una formazione<br />
variabile. Nel resto ci sembrano meno a fuoco. La personalità<br />
di gruppo è comunque ben strutturata e questo<br />
esordio fa ben sperare per le mosse successive.<br />
(6.8/10)<br />
TereSA greco<br />
TriViSion - MuoVerSi nel liQuido (indeed!<br />
recordS, noVeMBre 2010)<br />
Ge n e r e: n u -m e T a l /r o c k<br />
I Trivision sono una band di Casalpusterlengo (provincia<br />
di Lodi) che approcciano il rock pesante con metodo<br />
molto connotato (e poche e piccole variazioni sul tema).<br />
Fanno nu-metal senza ibridazioni, una versione normalizzata<br />
dei System Of A Dawn in pratica, faro principale<br />
ma non esclusivo dei lombardi che si nota soprattutto<br />
nei primi brani (Involucro, Negativa, Dentro la crisi).<br />
Muoversi nel liquido, prima fatica del combo, prova<br />
anche ballate (Cronotopo I) ma soprattutto rock mainstream<br />
(Ore riflesse) o metal tout-court (Zanapra, con<br />
evidenti difficoltà nell’incastro tra liriche - dionisiache<br />
- e musica).<br />
La formula è sostanzialmente sempre la stessa: uso di<br />
testi (e vocalità) struggenti e romantici sopra a riff pesanti.<br />
Un disco di genere. Forse troppo di genere.<br />
(5/10)<br />
gASpAre cAliri<br />
WorKing for A nucleAr free ciTy - jojo<br />
Burger TeMpeST (Melodic uK, SeTTeMBre<br />
2010)<br />
Ge n e r e: pr o G/el e c T r o<br />
Bastano tre parole per descrivere tutto quello che<br />
manca a Jojo Burger Tempest: selezione, coerenza,<br />
moderazione. Il resto del vocabolario è tutto nel disco<br />
a partire da Do A Stunt: esemplare introduzione delle<br />
schizofreniche trame prog-folk imbastite dal quintetto<br />
di Manchester, una perfetta premessa per chiarire<br />
cosa accadrà nell'oretta e mezzo a seguire, ovvero un<br />
potpourri d'elettronica e psichedelia su basi prog che<br />
lasciano il tempo che trovano.<br />
Non è tutto da buttare, qualcosa riesce a salvarsi dalla<br />
furia compositiva in Alphaville dove il canto del bassista<br />
Ed Hulme riesce a trovare una giusta collocazione, e<br />
Low con i suoi volumi maggiormente equilibrati. Del resto,<br />
i ragazzi amano la briglia sciolta e in un secondo cd<br />
monotraccia (i trenta minuti di Jojo Burger Tempest) sfogheranno<br />
ogni velleità indie, psichedelica, elettro, funk,<br />
dai Genesis ai Gong passando per gli Yes e mezzo prog<br />
degli anni '70 (notare la lunghissima lista di influenze<br />
dichiarate sul myspace).<br />
Il male di Jojo Burger Tempest è proprio questo: l'aver<br />
voluto il disco monstre. Ed aver fallito.<br />
(5/10)<br />
geMMA ghelArdi<br />
zeuS! - zeuS! (BAr lA MuerTe/off-SeT/<br />
SMArTz/eScApe froM TodAy/ShoVe/<br />
SAnguediSchi, oTToBre 2010)<br />
Ge n e r e: f r e e-n o i s e<br />
Scende dall’Olimpo del rumore per punire noi poveri<br />
mortali, Zeus!, progetto a due di nomi noti della musica<br />
italiana. Luca Cavina (bassista per Calibro 35) e Paolo<br />
Mongardi (ex Jennifer Gentle e ora Il Genio) si smarcano<br />
però dalle coordinate dei gruppi madre per innalzare<br />
un muro di noise strumentale basso-batteria che<br />
nulla invidia ai più famosi ed efferati progetti dall’approccio<br />
simile.<br />
Ora sul versante più tribale alla Lightning Bolt, ora più<br />
su quello prog-noise alla Ruins, ma di norma su velocità<br />
made in Locust e scelleratezza zorniana altezza Naked<br />
City, il sound del duo è sempre sfrenato e sfrontato,<br />
irrequieto e sporco, sempre al limitare tra sconquasso<br />
strumentale e follia ritmica. Gli occasionali e prestigiosi<br />
ospiti (Giulio Ragno Favero, Enrico Der Maurer Gabrielli,<br />
Valerio Canè di Mariposa e Andrea Mosconi) forniscono<br />
poi digressioni a margine del compatto suono originario<br />
arricchendone lo spettro: Koprofiev con le sue volute<br />
sci-fi da theremin rimanda ad ipotesi di grind alieno e<br />
la conclusiva Golden Metal Shower, manifesto via rifferama<br />
cosmico del duo, sono dimostrazioni di una band<br />
dinamica e non fossilizzata sul canone di genere.<br />
Non è prog, non è metal, non è grind né tanto meno<br />
noise o math: Zeus! è tutto questo frullato insieme. Deliranti<br />
e ironici il giusto (titoli come Grindmaster Flesh,<br />
Cowboia o Suckertorte sono a dir poco geniali), violenti<br />
e spregiudicati, Zeus! portano sulla terra la via degli dei<br />
al culto del rumore. Noi, sinceramente, non possiamo<br />
che sottometterci.<br />
(7.2/10)<br />
STefAno pifferi<br />
82 83<br />
.com
Gimme Some<br />
Inches #10<br />
Vinili e cassette inondano il nostro<br />
spazio dedicato questo mese. Ritorni<br />
ed esordi come al solito, in uno spettro<br />
sonoro sempre più ampio: Zola<br />
Jesus, Holidays, Movie Star Junkies<br />
and many more.<br />
Anche realtà apparentemente<br />
distanti dalla filiera produttiva del<br />
disco come promoter e organizzatori<br />
sembrano non poter rinunciare<br />
al supporto vinilico, vero e proprio<br />
must di questo terzo millennio. Alla<br />
faccia di chi lo voleva morto già da<br />
qualche decennio.<br />
Ci riferiamo a Keep It Yours, collettivo<br />
romano responsabile del<br />
“worst club nite in Rome” e traghettatore<br />
di suoni hype come quelli di<br />
The XX, Crystal Castles, Telepathe,<br />
These New Puritans, Toro Y Moi.<br />
Ora in attesa della celebrazione<br />
di Unknown Pleasures per mano<br />
di Peter Hook e di sdoganare sul<br />
territorio italiano i precursori della<br />
scena witchy, quei Salem da noi indagati<br />
il mese scorso, KIY aggiunge<br />
il suffisso Records alla propria ragione<br />
sociale e produce i primi due<br />
vinili piccoli.<br />
Too Young To Love e Holidays,<br />
volti diafani e sintomatici del nuovo<br />
trend degli indie-kids, tra colorito<br />
emaciato e vestiario skinny, tracciano<br />
le linee su cui si muove l’orizzonte<br />
musicale della neo-label. I primi,<br />
terzetto da Torino, vanno di electropop<br />
capace di tirare in ballo il synthpop<br />
alla maniera dei Pet Shop Boys<br />
cristallizzandolo in uno scenario al<br />
limite dello shoegaze più etereo e<br />
poppy (Frozen Fields) o come dei<br />
MGMT meets These New Puritans<br />
dopo una sbornia notturna a base<br />
di electro-rock inglese: Mytria è<br />
pura wave fredda-ma-non-troppo.<br />
I secondi pur provenendo da zone<br />
musicalmente depresse (Viterbo)<br />
mostrano ottima capacità di introiezione<br />
dei trend del momento,<br />
muovendosi con scioltezza nella<br />
nuova onda british affrontata senza<br />
timori reverenziali. Believe è un<br />
bel sing-a-long che strizza l’occhio<br />
al versante più orecchiabile e accessibile<br />
della nuova wave inglese<br />
senza suonare troppo ossequioso<br />
dei modelli di riferimento, ma spingendo<br />
sul versante dancey. Non un<br />
caso che sul lato b si trovi un remix<br />
a firma Andrea Esu che apre totalmente<br />
al dancefloor più poliritmico<br />
e eterogeneo.<br />
Su tutt’altri orizzonti si muove<br />
una vecchia conoscenza di SA.<br />
Matteo Bernacchia aka Above The<br />
Tree, dopo la release su Boring Machines<br />
e lo split 12” con Musica Da<br />
Cucina, arriva ad un altro live su<br />
cassetta. Live A Ca’ Blasè, edito in<br />
cassetta dalla benemerita Bloody<br />
Sound Fucktory, è un vero e proprio<br />
album per durata e omogeneità<br />
di fondo che mette in evidenza<br />
lo spessore del progetto mascherato.<br />
Una forma di blues intimo e disidratato,<br />
ossessivo e reiterato che<br />
parte da suggestioni à la Fahey per<br />
arrivare a lambire territori da musica<br />
concreta, in cui la chitarra è strumento<br />
anche non convenzionale.<br />
Giri ipnotici di chitarra che attualizzano<br />
il blues del delta alle weirdità<br />
più astruse degli anni ’00. Sempre<br />
con gran classe.<br />
Un’altra cassetta proviene invece<br />
dalla Winged Sun, etichetta di Max<br />
aka High Wolf. Di L’Amazon RAM<br />
Arkestra poco si sa, nella miglior<br />
tradizione del francese, se non che<br />
nelle due lunghe tracce untitled riesce<br />
ad unire le istanze più free del<br />
raga-rock (altezza Vibracathedral<br />
Orchestra, per intendersi) con il tropicalismo<br />
più droning e ritualistico.<br />
Biotope psychedelic music la definisce<br />
l’etichetta e il concetto non è<br />
poi così astruso.<br />
Scivolando su territori più aspri,<br />
ecco tornare i temibili Robedoor<br />
con un nuovo 7 pollici sulla label<br />
di casa, la Not Not Fun. Pacific Drift<br />
offre tre brani in cui il combo californiano<br />
continua la strada già battuta<br />
con gli ultimi due album (Raiders<br />
e soprattutto Burners). Quindi<br />
ancora oscuri terremoti drone incalzati<br />
da giri di basso apocalittici<br />
e grevi litanie a recitare l’ultimo<br />
sabba. Nota di merito per l’artwork<br />
stile sci-fi anni Cinquanta finto vintage.<br />
Sempre negli USA, a breve distanza<br />
da Stridulum II torna anche<br />
Zola Jesus con quattro brani raccolti<br />
sotto l’oscura marca di Valusia,<br />
regno fantastico nato da penna<br />
di Robert E. Howard (inventore, tra<br />
gli altri, di Conan il barbaro). Sull’EP<br />
Nika recupera i tre brani precedentemente<br />
inclusi come bonus tracks<br />
nella ristampa europea di Stridulum<br />
(Tower, Sea Talk e Lightsick),<br />
rilasciando un solo inedito (Poor<br />
Animal) con cui conferma la svolta<br />
new wave/new age delle ultime<br />
uscite. Niente di nuovo sotto il sole,<br />
ma sempre il grande pathos della<br />
beniamina degli odierni romantici.<br />
Prima di concludere torniamo in<br />
patria con la seconda tape di Heinz<br />
Hopf, dopo una prima autoprodotta,<br />
per la Joy De Vivre di Napoli. Il<br />
duo di ultra noise spacca timpani<br />
formato da Dan Johansson (Sewer<br />
Election) e Matthias Andersson<br />
(tenutario della RTB e membro dei<br />
Källarbarnen) rilascia due pezzi che<br />
dire harsh è un eufemismo: titoli geniali<br />
quali We vote Incapacitants! e F<br />
is for Femi Benussi per venti minuti<br />
di puro rumore assordante. Presto<br />
anche un 12 pollici per la rinomata<br />
A Dear Girl Called Wendy. Infine<br />
nuovo EP per i garage-rockers più<br />
infuocati d’Italia. In A Night Like<br />
This viene rilasciato in solo vinile<br />
10” in joint-venture tra la nostrana<br />
Ghost (per il mercato europeo)<br />
e la californiana Kill Shaman (per<br />
quello d’oltre oceano) e suona un<br />
po’ come la metà nascosta di A Poison<br />
Tree. Due pezzi di scuola ormai<br />
classicamente Movie Star Junkies<br />
cui fanno da contraltare le vertigini<br />
di Odyseey Of Jason, che ci riportano<br />
agli esordi documentati dal<br />
mini-LP Junkyears, e il voodoobilly<br />
di Death Sleep and Silence che pare<br />
rubato ai Cramps degli anni d’oro.<br />
STefAno pifferi<br />
AndreA nApoli<br />
84 85
Re-Boot #9<br />
Sempre più schizoide è la scena, discontinua<br />
per intensità e direzioni,<br />
ma generosa. Sempre.<br />
Che strane sensazioni regala<br />
l'ascolto di Marie Antoinette, al<br />
secolo Letizia Cesarini da Pesaro:<br />
una rabbia "riot" tenuta al guinzaglio<br />
di una vena cantautorale tesa,<br />
voce che s'incapriccia d'inquietudini<br />
Beth Gibbons e guizzi Billie<br />
Holiday un attimo prima di pagare<br />
pegno a Nina Nastasia o PJ<br />
Harvey, la chitarra come mitraglia<br />
ritmicoarmonica, il glockenspiel a<br />
sgocciolare incantesimi, canzoni<br />
come battaglie ormai spente che<br />
non smettono di gridare dolore.<br />
L'album Marie Antoinette Wants<br />
To Suck Your Young Blood (Picicca<br />
Studio, 7.4/10) sembra la tipica<br />
istantanea d'artista nella sua fase<br />
iniziale, con quella grazia ruvida e<br />
grezza, l'entusiasmo sanguigno e<br />
un po' disperato. Teniamola d'occhio.<br />
I Luther Blisset da Bologna<br />
iniziarono nel 2007 come un duo<br />
basso + batteria, poi l'espansione a<br />
quintetto con l'innesto di contrabbasso,<br />
chitarra elettrica e sax. For-<br />
mula inconsueta sì, però è naturale<br />
quando l'improv chiama a raccolta<br />
istinti e volontà. Eccoci quindi<br />
al disco omonimo (Eclectic Polpo<br />
Record, 7.2/10) che sgrana groove<br />
tosti e spasmodici incrociando le<br />
due linee di basso come binari del<br />
rollercoaster. Tensione e vitalismo,<br />
urlo primordiale e discesa in folle,<br />
ciak si gira un noir spietato e ridanciano.<br />
Sono appena al secondo<br />
lavoro, sembra che di strada ne abbiano<br />
fatta già tanta, e tanta ancora<br />
ne faranno.<br />
Tolta la retorica obsoleta di alcuni<br />
testi (citiamo un “leccare il mondo<br />
con l'anima / sentirlo sulla pelle”<br />
che sa tanto di Manuel Agnelli fuori<br />
tempo massimo) e il solito dubbio<br />
del “ci è o ci fa?” legato a un'onestà<br />
artistica un po' facciata (e che facciata!)<br />
e un po' reale esigenza comunicativa,<br />
A volte capita (6.1/10,<br />
Dcave) della torinese Monica P<br />
rimane un esordio musicalmente<br />
non disprezzabile. Anzi, con qualche<br />
ottima idea, visto che si viaggia<br />
tra il blues contaminato della<br />
P.J.Harvey di Rid Of Me e una<br />
concezione di pop all'italiana trasversale<br />
e piena di spigoli. Piace<br />
Un mese di ascolti<br />
emergenti italiani<br />
soprattutto, oltre a una voce ruvida<br />
quanto basta, il sapersi muovere<br />
con agilità tra arrangiamenti affatto<br />
banali (chitarre acustiche, accenni<br />
noise, registrazioni in reverse,<br />
synth). Merito, crediamo, dell'ottimo<br />
lavoro in fase di produzione<br />
di un Daniele Grasso già collaboratore<br />
di Cesare Basile, Afterhours,<br />
Hugo Race e John Parish.<br />
Una solida preparazione accademica<br />
alle spalle (diploma al<br />
Conservatorio in musica jazz), un<br />
background da polistrumentista<br />
(tromba, basso, synth, ukulele,<br />
banjolele, batteria e chissà cos'altro)<br />
e una versatilità musicale che<br />
non fa sconti (turnista per il liscio di<br />
Castellina Pasi e lo swing dei Good<br />
Fellas, oltre che co-fondatore con i<br />
Quintorigo Andrea e Gionata Costa<br />
del progetto Big!Bam!Boo!). Lui è il<br />
romagnolo Enrico Farnedi e il suo<br />
esordio solista Ho lasciato tutto<br />
acceso (6.9/10, Sidecar) è l'ennesimo<br />
esempio di un cantautorato<br />
ironico e di basso profilo. A far da<br />
mattatore, l'ukulele, riciclato un po'<br />
in tutte le salse, siano esse il valzer<br />
in odore di Messico di Quanto<br />
piangere o il Ben Harper allo strut-<br />
to di Lonely Planet, il blues-country<br />
della title track o i caraibi del trip<br />
demenzial-gastronomico Salsa di<br />
lumaca. Spicca l'ottima scrittura,<br />
capace con pochi suoni essenziali<br />
di tratteggiare un universo affezionato<br />
a un localismo sentimentale e<br />
accogliente.<br />
I Kozminski sono un quartetto<br />
milanese dedito ad un folk-rock<br />
psichedelico in italiano assieme<br />
ruspante e sghembo, squarci su<br />
atmosfere acidule e tentazioni di<br />
cantautorato più o meno indiepop<br />
(Lettera dall'Etna), su cui talora<br />
tepori di tastiere e fiati (sax, diamonica)<br />
arrivano a pennellare trepidazione.<br />
L'omonimo album d'esordio<br />
(autoprodotto, 7.0/10) riallaccia legami<br />
che credevo perduti tra il presente<br />
ed il miglior pop rock italiano<br />
a cavallo tra settanta e ottanta<br />
(Dalla, Fortis...), più per attitudine<br />
che altro, ovvero per quella volontà<br />
generosa e cocciuta di raccontare<br />
visioni ora pungenti e ora accorate.<br />
Ben venga poi che essi stessi<br />
dichiarino d'ispirarsi a Wilco o Arcade<br />
Fire tra gli altri.<br />
Stessa citta ma diverso il fronte<br />
sonoro. Un trio con la ragione so-<br />
ciale tra il goliardico e il blasfemo:<br />
Black Wojtyla. Batteria, tromba,<br />
basso. Effetti elettronici e distorsioni.<br />
Funk, rock e dance in una più<br />
vasta fregola jazz. Una visione post<br />
senza l'angoscia del post, neanche<br />
una briciola. Sei tracce che fanno<br />
un ep omonimo (autoprodotto,<br />
7.0/10) dove l'estro scorre, guizza,<br />
zompa come più il momento<br />
gli aggrada. Semplicità metodica,<br />
trame acattivanti e fragore impro.<br />
Visioni di celluloide e brume noir.<br />
Frenesia e fragore. E la sensazione<br />
di un linguaggio che ancora deve<br />
sperimentare il proprio estremo. I<br />
nostri più cari auguri.<br />
Dal post-rock degli A New Silent<br />
Corporation provengono i quattro<br />
quinti de Il Buio, ma le coordinate<br />
ora sono del tutto diverse. L'hcpunk<br />
d'autore con testi in italiano<br />
del loro primo ep disponibile solo<br />
in vinile (autoprodotto, 7.2) ha tutta<br />
l'intensità d'asfalto e la densità<br />
elettrica di pelli e corde degli ultimi<br />
Fine Before You Came, seppur più<br />
compatti. Vengono da Thiene, ed è<br />
da qui che si origina quella mescola<br />
di esistenzialismo e sguardo critico<br />
sulla provincia potenziati da un'ur-<br />
genza rara, essenziale, ossea. La<br />
dedica a Georg Elser (vano attentatore<br />
di Hitler) e versi basilari come<br />
“un nulla eravamo e siamo ancora e<br />
resteremo fiorendo nessuno ci impasta<br />
dalla terra e dal fango nessuno<br />
dà parola alla nostra polvere” ce li<br />
rendono cari per il futuro, li seguiremo.<br />
Infine, perderebbe d'interesse e<br />
presa il rock variegato (pop, stoner,<br />
canzone d'autore, disco) dei messinesi<br />
SansPapier senza il ripieno<br />
di liriche sfacciate e sardoniche del<br />
loro esordio Manuale d'uso per<br />
giovani inesperti (Imago Sound,<br />
6.4). Un bignami per sopravvivere<br />
a “paure atmosferiche, ubiquitarie,<br />
fumose, anticipatorie”, come recita<br />
la prefazione nel booklet, ad anticipare<br />
le voci di Valeria e Già, eccentriche<br />
quanto basta (in Vodka con<br />
ghiaccio c'è un po' di Battiato) per<br />
emergere dal suono robusto del resto<br />
della banda. Al mese prossimo.<br />
STefAno SolVenTi, TereSA greco,<br />
fABrizio zAMpighi, lucA BArAcheTTi<br />
86 87
incapacità, da parte degli uomini, a<br />
comprendere; l’impossibilità di conoscere...<br />
di capire veramente la vita.<br />
La possibilità di coglierne solo un<br />
aspetto come nel cinema per ciechi<br />
dove non puoi vedere le immagini<br />
ma puoi ascoltare le voci per capire<br />
un film. Ma questa comprensione in<br />
realtà non potrà mai essere corretta,<br />
o meglio, completa. D’altronde<br />
anche i fraintendimenti della realtà<br />
sono una cosa positiva. Voglio dire<br />
che tutte le forme di comprensione<br />
sono estremamente interessanti.<br />
Quello che voglio esprimere è un<br />
qualcosa di simbolico: ogni persona<br />
può anche capire la vita nella maniera<br />
piu sbagliata, ma può far leva<br />
su se stesso, sulla sua visualizzazione<br />
per dare un senso alle cose.”<br />
Ad ogni concerto Comprare casa<br />
e Bambino cinese sono i due titoli<br />
più invocati dal pubblico. Il primo<br />
pezzo rievoca ironicamente il suicidio<br />
economico di molte famiglie<br />
cinesi, disposte a rinunciare a tutto<br />
pur di avere una casa, il che oggi in<br />
Cina corrisponde ad una affermazione<br />
sociale senza eguali per la gente<br />
comune, una questione di reputazione.<br />
La seconda canzone è ancora<br />
più coraggiosa; si tratta di un pezzo<br />
di pura denuncia, che rievoca una<br />
ad una le sfortune di bambini nati in<br />
diversi punti della Cina e colpiti da<br />
disgrazie per incuria politica e del<br />
potere. Fino all’esplosione finale in<br />
cui l’autore canta:<br />
“Non voglio essere un bambino<br />
cinese, madri e padri sono entrambi<br />
dei codardi<br />
che per dimostrare la loro risolutezza,<br />
di fronte alla morte danno<br />
priorità ai loro leader.”<br />
Il riferimento è ad un fatto di cronaca<br />
avvenuto in Xinjiang nel 1994,<br />
quando scoppiò un incendio in un<br />
teatro dove alcuni leader politici sta-<br />
vano assistendo ad uno spettacolo<br />
con i giovani del posto. In quell’occasione<br />
ai dirigenti fu data la precedenza<br />
per uscire in salvo mentre<br />
nella sala bruciarono quasi trecento<br />
ragazzi.<br />
Zhou Yunpeng non ama essere<br />
ricordato per queste canzoni, che<br />
sono racconti di denuncia, problemi<br />
reali. Preferirebbe non dovere scrivere<br />
né cantare certi pezzi. Durante<br />
una sua esibizione ha ripreso una<br />
celebre melodia di Micheal Jackson<br />
sostituendo le parole con un testo<br />
molto toccante, ancora una volta<br />
di denuncia, La cenere di Wenchuan<br />
in memoria delle vittime colpite da<br />
uno dei più grandi disastri della storia<br />
recente della Cina (Wenchuan è<br />
l’epicentro del devastante teremoto<br />
che ha colpito la provincia cinese<br />
del Sichuan nel 2008, n.d.r.). Quando<br />
gli chiedo se ritiene possibile che<br />
un disastro naturale di quella portata<br />
possa aver contribuito allo sviluppo<br />
di una coscienza sociale tra<br />
la gente comune, replica con una<br />
risposta stizzita e sostiene di non<br />
potere accettare che l’avanzamento<br />
sociale debba nutrirsi della morte e<br />
della sofferenza delle persone. Dice<br />
di amare l’atmosfera che si respira<br />
nei festival musicali, come quello in<br />
cui ci troviamo a parlare:<br />
“La Cina oggi ha bisogno di festival<br />
come quello di oggi perché i giovani<br />
possano ritrovarsi in un luogo<br />
di festa, tutti insieme ad ascoltare<br />
la musica felici. I cinesi hanno bisogno<br />
di essere felici, hanno bisogno<br />
di una qualsiasi felicità, hanno bisogno<br />
di esprimere felicità. Il terremoto...<br />
È stata detta una frase, non so<br />
se la conosci: «Dopo Auschwitz gli<br />
uomini non potranno più scrivere<br />
liriche». Poiché ad Auschwitz furono<br />
uccise così tante persone, morirono<br />
tante persone, in seguito non sarebbe<br />
stato possibile scrivere altre<br />
poesie e canzoni... ma in realtà l’uo-<br />
mo deve continuare a vivere. Anche<br />
per le canzoni è così. Da un lato non<br />
puoi dimenticarti di questi disastri,<br />
da un altro devi continuare a cantare<br />
la felicità della vita o almeno<br />
a continuare a vivere. Ma non puoi<br />
dimenticare, voglio solo dire di non<br />
dimenticare.”<br />
Problemi sociali, denuncia delle<br />
ingiustizie dei potenti e cantore<br />
della gente comune. Eppure Zhou<br />
Yunpeng sembra non aspirare a<br />
quello che in altri tempi sarebbe<br />
stato definito il ruolo del cantante<br />
di protesta, o almeno non solo. Apprezza<br />
Calvino perché pur suggerendo<br />
percorsi sognanti, alternativi<br />
ai problemi della società, non può<br />
per questo essere considerato un<br />
attivista. In Zhou Yunpeng a prevalere<br />
è la coscienza della componente<br />
artistica all’interno delle opere.<br />
Ammira Dante perché pur avendo<br />
compilato un’opera, la Divina Commedia,<br />
“socialmente all’avanguardia,”<br />
essa non sarebbe pervenuta a<br />
noi se non avesse posseduto uno<br />
spessore artistico letterario:<br />
“Quella degli artisti è la stessa<br />
la responsabilità sociale che hanno<br />
tutte le persone: quando c’è qualcosa<br />
di ingiusto devi parlare. La<br />
differenza è solo che l’artista probabilmente<br />
attraverso una propria<br />
forma, attraverso delle parole molto<br />
belle riesce a creare un’opera.”<br />
Sia nella sua produzione musicale<br />
che in quella poetica i riferimenti<br />
alla Cina e ai suoi problemi<br />
sono tanti: poesie volte alla demistificazione<br />
della retorica socialista<br />
a servizio del popolo, provocazioni<br />
accennate (“pensava all’inerzia di Lu<br />
Xun e dei cinesi”) o interi pezzi. Ma<br />
Zhou Yunpeng non è un dissidente,<br />
almeno non nella forma in cui ce lo<br />
immagineremmo in Italia. Lontano<br />
da impeti rivoluzionari, e da aperta<br />
ostilità verso il partito, preferisce<br />
muovere le sue riflessioni dalla gente,<br />
ne fa una questione sociale ancor<br />
prima che politica. Le sue canzoni<br />
nascono dall’interpretazione, dalla<br />
rielaborazione con parole e musica<br />
di bisogni primari degli individui<br />
all’interno della società:<br />
“La cosa piu importante è la voce<br />
degli individui. In Cina abbiamo a<br />
lungo dato importanza alla voce<br />
collettiva, a partire da una forma di<br />
coscienza fino alla considerazione<br />
dello stato. Io penso che la dimensione<br />
piu importante sia quella del<br />
pensiero individuale, della coscienza<br />
individuale e della possibilità per<br />
ognuno di esprimere il proprio pensiero,<br />
o il proprio percorso. Quando<br />
si parla di società cinese in termini<br />
generali, credo che essa sia in condizioni<br />
simili a quella occidentale.<br />
C’è bisogno di una trasformazione<br />
graduale e lenta, non quel tipo di<br />
sconvolgimento improvviso come<br />
le rivoluzioni violente. Di persone<br />
in grado di ricevere un’educazione e<br />
avere diritto di parola e non improvvisamente<br />
diventare un qualcos’altro,<br />
in prima analisi perché sarebbe<br />
irrealistico e poi perché avrebbe<br />
effetti disastrosi. Le mie riflessioni<br />
muovono verso lo sviluppo di una<br />
società civile, intendo il potere decisionale<br />
dei cittadini, la libertà individuale<br />
per esprimere una propria<br />
scelta, la possibilità per ogni persona<br />
di esprimere se stessa. Questo<br />
per me è un buon obiettivo, se ogni<br />
persona si impegnasse sempre di<br />
più in questo senso allora le cose<br />
andrebbero sempre un po’ meglio.<br />
Non serve quel tipo di eroe o un<br />
agitatore di folle, non serve passare<br />
per la violenza, ma un cambiamento<br />
lento, naturale. Una società che<br />
possa procedere naturalmente verso<br />
un miglioramento, non si tratta<br />
di un balzo ma di un miglioramento<br />
progressivo.”<br />
Una società che sa crescere con<br />
pazienza attraverso la coscienza di<br />
se stessa, barlumi di società civile,<br />
contro la facile condanna e speculazioni<br />
spicciole sui diritti umani.<br />
Con la musica come parte di questo<br />
movimento; una delle tante storie<br />
ancora da cantare, sospesa tra coscienza<br />
sociale ed arte, in un ideale<br />
di poesia che può arrivare dritto alla<br />
Ascolti:<br />
Myspace: http://www.myspace.cn/yunyunyunyunyun<br />
Douban: http://www.douban.com/artist/zhouyunpeng/<br />
Xiami: http://www.xiami.com/artist/1270<br />
opere:<br />
Il respiro silente del mistero (CD, 2004)<br />
Critiche di primavera (raccolta poetica, 2004)<br />
Bambino cinese (CD, 2007)<br />
Melone amaro saltato in padella (CD, raccolta di demo 2008)<br />
Mucche e capre scendono dalla montagna (CD, 2010)<br />
vita della gente comune pur mantenendo<br />
sensibilità e perfezione<br />
estetica. Come fosse un frammento<br />
dell’ispirazione di un cammino verso<br />
un mondo migliore:<br />
“La forza della musica in realtà è<br />
infinitamente sottile, microscopica<br />
e lenta. Si manifesta poco per volta.<br />
Proprio come la pioggia. Non sai<br />
che forza ha la pioggia che cade. Ma<br />
la pioggia può intervenire sui semi,<br />
può far sì che la terra diventi umida<br />
e permettere al frumento di crescere<br />
e dare i suoi frutti. Ma forse non<br />
puoi assistere a quel giorno, perché<br />
il frumento ha bisogno di un anno<br />
o di quanto per crescere. La musica<br />
ha una forza del tutto simile: sa<br />
penetrare poco a poco nell’animo<br />
degli uomini, sa renderli più morbidi,<br />
buoni, li cambia aggiungendo<br />
calore, proccupazione per gli altri,<br />
facendo capire cosa sia giusto. Ma<br />
tutto questo avviene in un processo<br />
lento, non è quel tipo di piacere di<br />
cui puoi godere sul posto, è un qualcosa<br />
che penetra lentamente.”<br />
Il blog di Zhou Yunpeng (in lingua cinese) è all’indirizzo: http://zhouyunpengblog.blog.163.com/<br />
90 91
Rearview Mirror<br />
—speciale Vocalese: stile di jazz canoro nel quale le lyrics vengono<br />
composte in base alle melodie eseguite nella<br />
composizione o nell’improvvisazione originale di riferimento;<br />
a differenza della tecnica scat perciò questo<br />
fraseggio adopera, per il proprio assolo, una versificazione<br />
scritta e di senso compiuto.<br />
In ambito solista la voce più nominata nell’ambiente<br />
è senza dubbio quella polverosa di Eddie Jefferson,<br />
Manhattan Transfer<br />
Nati per armonizzare<br />
Attraverso la testimonianza del suo fondatore, Tim Hauser,<br />
viaggio nel mondo dei Manhattan Transfer, il più<br />
famoso gruppo vocale nella storia del jazz.<br />
Testo: Filippo Bordignon<br />
pioniere del genere con la sua versione della celebre So<br />
What di Miles Davis. Tra i gruppi invece, è doveroso citare<br />
il trio Lambert, Hendricks e Ross, il quale contribuì<br />
a complicare la faccenda grazie alle armonizzazioni<br />
delle tre voci e a uno stile che, sfruttando a piene mani<br />
versi sillabici pesantemente influenzati dal bebop, riversa<br />
sull’ascoltatore una cascata di parole dalla stordente<br />
bellezza (si ascolti il loro album omonimo del 1960).<br />
I Manhattan Transfer, attraverso una carriera di<br />
oltre trentacinque anni, si confermano il gruppo di vocalese<br />
più famoso e premiato nella storia, avendo contribuito<br />
all'elevazione di uno stile altrimenti ristretto<br />
alla cerchia dei suoi fedelissimi. Ciò che va riconosciuto<br />
all’opera della band, letta nella sua totalità, è una predisposizione<br />
al conio della canzone popolare perfetta,<br />
summa di generi e influenze la cui base di riferimento<br />
resta il jazz degli anni d’oro, ma solo per convenzione.<br />
Lavorando a partire dal proprio innegabile talento,<br />
i Manhattan hanno sperimentato, nel disinteresse<br />
dell’intellighenzia musicale, contaminazioni e soluzioni<br />
che ne hanno arricchito la discografia al punto da trasformarla<br />
in un iperbolico affresco studiato (ahinoi) sistematicamente<br />
per sommi capi.<br />
Rapace collezionista di 78 giri oggi introvabili, il<br />
cantante Tim Hauser (New York, classe 1941) sognava<br />
un proprio gruppo vocale che attraversasse le tante<br />
diramazioni del jazz per portarle al grande pubblico,<br />
reinventando brani più o meno noti ma pure omaggiando<br />
episodi 'minori' di compositori noti solo ai<br />
propri aficionados. Il nome scelto omaggia un celebre<br />
romanzo di John Dos Passos ambientato nella New<br />
York Anni '20, metropoli di febbricitante modernismo<br />
e inesauribili contraddizioni. Un'embrionale formazione<br />
Manhattan Transfer muove i primi passi a partire dal<br />
’69 e comprende, oltre a Tim, Erin Dickens, Marty Nelson,<br />
Gene Pistilli, e Pat Rosalia. L’esordio è dunque in<br />
quintetto con Jukin’ (1971, Capital), episodio di ardua<br />
reperibilità per fan della primissima ora, liquidato dallo<br />
stesso Hauser come una prova generale quasi subito<br />
interrotta dalla defezione di Pistilli, il quale lascia per<br />
divergenze sulla direzione artistica, appassionato più<br />
di country & western che di sonorità affini all’universo<br />
jazzistico.<br />
L’anno successivo Tim ci riprova tentando un nuovo<br />
organico in quartetto: vi prendono parte Laurel Massé,<br />
Janis Siegel e Alan Paul (distintosi a Broadway nel<br />
primo allestimento del musical Grease).<br />
La soluzione con due voci femminili e due maschili<br />
si rivelerà nel tempo asciutta ma capace di coprire una<br />
gamma cromatica praticamente illimitata; dopo tre<br />
anni di gavetta giunge finalmente una ghiotta proposta<br />
dalla storica etichetta Atlantic Records (bastino i<br />
nomi di Ray Charles, John Coltrane e Aretha Franklin)<br />
che lancia sul mercato l’esordio ufficialmente riconosciuto<br />
The Manhattan Transfer (’75). Pur non essendo<br />
una pietra miliare per il genere l’album getta il seme<br />
di una carriera eclettica e godibilissima, bilanciata con<br />
sapienza e mestiere tra easy jazz pronto a conquistare<br />
i mercati esteri (il 24simo posto nelle classifiche inglesi<br />
di Tuxedo Junction, il successo di critica Operator), prelibatezze<br />
pop (la Sweet Talking Guy che fu delle Chiffons)<br />
e tentazioni contemporanee (il funky bianco di<br />
Occapella).<br />
Rispedite al mittente le accuse di certa critica che<br />
attribuiscono al gruppo un atteggiamento eccessivamente<br />
nostalgico (accentuato spesso da costumi di<br />
scena che ripropongono con ironia le mode di tempi<br />
evidentemente trascorsi), il successivo Coming Out<br />
(’76, Atlantic) sembra investigare scelte relativamente<br />
più attuali con l’aiuto di qualche cameo (la batteria di<br />
Ringo Starr e il piano di Dr. John in Zindy Lou, il sax<br />
dell’oggi glorificato Michael Brecker nella delicata<br />
Poinciana). L’inaspettato successo del singolo Chanson<br />
d’Amour – un motivetto di fine Anni ’50 – consacra definitivamente<br />
i Manhattan in Europa (primo posto in<br />
Francia e Inghilterra) grazie all’intuizione dell’istrionica<br />
Massè la quale, al primo take, registra la propria linea<br />
vocale utilizzando un’inflessione ‘francese’ omaggiante<br />
Edith Piaf. Con Pastiche (’78, Atlantic) Hauser produce<br />
una delle opere preferite della band, spaziando tra<br />
arrangiamenti per big band (Four Brothers, cavallo di<br />
battaglia in ambito concertistico), atmosfere country &<br />
western (Love For Sale) e ritagliando occasioni soliste<br />
cucite apposta per la predisposizione melodica di Paul<br />
e l’abilità ‘scat’ della Siegel.<br />
Intenzionato a evocare le atmosfere della Berlino<br />
nel primo dopoguerra mondiale, il regista inglese David<br />
Hemmings contatta i nostri affinché registrino una<br />
manciata di brani da inserire nel suo Gigolò, pellicola<br />
senza infamia e senza lode, nota per tenere David<br />
Bowie come protagonista oltre a una fugace (l’ultima)<br />
apparizione di Marlene Dietrich sul grande schermo.<br />
Tratto da alcune date londinesi, The Manhattan<br />
Transfer Live (’78, Atlantic) è il primo live ufficiale del<br />
92 93
gruppo e l’ultima uscita discografica con la Massè, di lì<br />
a poco vittima di un incidente automobilistico che la<br />
costrinse lontana dalle scene per quasi due anni. Decisa<br />
ad abbandonare il mondo della musica la cantante<br />
optò poi per un ripensamento, inaugurando una discreta<br />
attività solista con Alone Together nell’84. Al suo<br />
posto venne ingaggiata Cheryl Bentyne, pervenendo<br />
così alla formazione definitiva nota al grande pubblico.<br />
La Bentyne arriva in tempo per prendere parte al<br />
primo indiscusso capolavoro, quell’Extentions (’79,<br />
Atlantic) con in copertina i disegni degli abiti di scena<br />
creati da Jean Paul Gautier per il quartetto. L’opera è<br />
raccolta esemplare di fusion(e) tra generi: c’è spazio per<br />
la new wave disumanizzata in Coo Coo U (senza mai rinunciare<br />
a un pizzico di ironia), il pop magnificamente<br />
arrangianto degli Airplay di Nothin' You Can Do About It<br />
(merito della produzione di Jay Graydon) e il sentimentalismo<br />
a cappella in Foreign Affair (Tom Waits). Una<br />
menzione a parte merita l’arcinota Birdland, tratta dal<br />
repertorio degli Weather Reaport o, più precisamente,<br />
dall’unione artistica dei fuoriclasse Joe Zawinul + Jaco<br />
Pastorius. Il brano sarà il più ascoltato in ambito jazz<br />
di tutto il 1980 in virtù di tre elementi imprescindibili:<br />
validità della linea melodica (accattivante e originale<br />
al contempo), prestazione vocale (la Siegel si aggiudicò<br />
un Grammy per la propria interpretazione) e intelligenza<br />
del testo. Quest’ultimo fu originalmente affidato<br />
nientemeno che a Eddie Jefferson, il quale però verrà<br />
ucciso prima di portarlo a termine (l’album è dedicato<br />
alla sua memoria). L'ingrato compito di sostituirlo fu affidato<br />
a Jon Hendricks. Il risultato è una spassosa declamazione<br />
dei principali frequentatori del leggendario<br />
jazz club newyorkese: sfruttando nomi e nomignoli dei<br />
celebri jazzisti (“Bird would cook/ Max would look/ Miles<br />
came through/ ‘Trane came too”) il paroliere fornisce<br />
all’interprete versi ritmici ideali per un’interpretazione<br />
swingante e ‘catchy’, soluzione questa qui abbracciata<br />
magnificamente negli ambiti solisti e coristi.<br />
Il successivo Mecca For Moderns (’81, Atlantic) strizza<br />
l’occhio alla classifica una volta di troppo, col risultato<br />
di incoronare i Manhattan il primo gruppo a vincere<br />
un Grammy lo stesso anno sia nella categoria pop che<br />
jazz. La piacioneria alla base della hit Boy From New York<br />
City sbilancia la credibilità di una band che, per capacità<br />
tecniche e stile, avrebbe potuto azzardare un ulteriore<br />
passo in avanti nella propria crescita artistica. Ma premi<br />
e riconoscimenti piovono in abbondanza e i nostri non<br />
sembrano crucciarsene. La sola eccezione di rilievo è<br />
Kafka del polacco Bernard Kafka, efficace esempio di<br />
frizzantura fusion contemporanea e ricca di mordente.<br />
Il processo di commercializzazione avanza su Bo-<br />
dies And Souls (’83, Atlantic), producendo un pop<br />
sintetico amplificato dalla partecipazione di Stevie<br />
Wonder all’armonica (Spice Of Life), sdoganando così<br />
i Manhattan nelle classifiche r’n’b e concedendo l’ennesimo<br />
Grammy per l’interpretazione di Why Not!. Al<br />
di là dai clamori della stampa l’album suona come una<br />
raccolta oggi datata di canzoni ben arrangiate, adatte<br />
per un film sentimentale da cassetta e poco di più. Leggerino<br />
e svagato, Bop Doo-Wop (’85, Atlantic) mischia<br />
sei canzoni dal tour giapponese a materiale di studio,<br />
sfornando comunque quella Route 66 di Nat King Cole<br />
per il filmetto di Burt Reynolds Pelle di sbirro che, guarda<br />
un po’, frutta l’ennesimo Grammy come ‘Miglior prestazione<br />
vocale in ambito jazz’. Il materiale live verrà<br />
ripreso e ampliato dieci anni più tardi con la pubblicazione<br />
del discreto Man-Tora! ('96, Rhino).<br />
Sfumata la possibilità di una collaborazione con<br />
Count Basie a causa della morte di quest’ultimo, il bandolo<br />
della matassa viene ripigliato col monumentale<br />
Vocalese (’85, Atlantic), summa delle tante influenze<br />
dei suoi protagonisti e quindi vaudeville, swing, r’n’b,<br />
soul, doo-wop, r'n'r e jazz nelle sue tante sfaccettature.<br />
Il prevedibilie omaggio a Basie riguarda le trascurabili<br />
Rambo e Blee Blop Blues, per le quali ci si avvalse della<br />
sua orchestra ufficiale. Ben più meritoria Another Night<br />
In Tunisia, sorniona versione della A Night In Tunisia di<br />
Dizzy Gillespie, la quale si aggiudica altri due Grammy<br />
(gli ultimi che, per ragioni di spazio, segnaleremo). Il<br />
registro melodrammatico viene rispolverato invece con<br />
Oh Yes, I remember Clifford e con la struggente To You.<br />
Il successo è ormai planetario: le dodici nomination ai<br />
Grammy di Vocalese per poco non battono Thriller<br />
di Michael Jackson. La motivazione, oltre alle assodate<br />
capacità del quartetto e a impeccabili esecuzioni<br />
strumentali, sta nella scelta di un repertorio particolarmente<br />
azzeccato che concede episodi appassionanti e<br />
mozzafiato (basterebbe l’ascolto di Airegin o That’s Killer<br />
Joe), nuovamente impreziositi dai testi di Hendricks.<br />
Live (Atlantic, ’87) contiene la selezione da un concerto<br />
a Tokyo del 1986: secondo album live e primo con la<br />
Bentyne a sostituzione della Massé è il ritratto perfetto<br />
del gruppo al suo apice; si consiglia la versione dvd<br />
Vocalese Live, con una tracklist estesa a 80 minuti e la<br />
possibilità di gustare i nostri in gigionesche coreografie<br />
e stravaganti costumi.<br />
Le influenze sudamericane derivate dalla preziosa<br />
collaborazione col cantante e compositore brasiliano<br />
Djavan in Brasil (’87, Atlantic) danno vita a uno degli<br />
album più riusciti nel sottogenere Aor, al pari di masterpiece<br />
quali The Nightfly di Donald Fagen o dell’esordio<br />
omonimo di Christopher Cross. Dall’arcinota Soul<br />
Food To Go passando per l’easy-rock Metropolis fino a<br />
certe complicazioni melodico/armoniche evidenti nel<br />
finale Notes From the Underground, l'opera è gioiello<br />
per un pubblico adulto, capace di riconoscerne le tante<br />
finezze ma pure l'indubbia fruibilità. Unica puntualizzazione,<br />
per onor di franchezza: la versione di Agua<br />
suona decisamente inferiore a quella di Loredana Berté<br />
(Acqua), la quale aveva già collaborato con Djavan in<br />
Carioca, nel 1985.<br />
L’ingresso nel nuovo decennio stimola i Manhattan<br />
a testarsi in veste di compositori: ne risulta il transitorio<br />
The Offbeat Of Avenues (’92) che, col successivo The<br />
Christmas Album, esaurisce la breve esperienza per la<br />
Columbia Records. Si segnalano alcune bizzarre tentazioni<br />
di hip-hop sui generis nel primo e la beatlesiana<br />
Goodnight nel secondo. Sorvolando il trascurabile<br />
The Manhattan Transfer Meets Tubby The Tuba (’94,<br />
Summit) – sorta di Pierino E Il Lupo americano – Tonin’<br />
(’95) rappresenta il felice ritorno in casa Atlantic, con<br />
una mirabile raccolta di classics Anni '50-'60 in duetto<br />
con artisti del calibro di James Taylor (nella sognante<br />
Dream Lover) e con la leggenda della Motown Smokey<br />
Robinson (I Second That Emotion).<br />
Le fatiche discografiche dei quattro proseguono<br />
con una reimmersione nel passato in Swing (’97, Atlantic)<br />
e con l’omaggio al repertorio di Louis Armstrong<br />
The Spirit Of St. Louis (2000, Atlantic), da sempre influenza<br />
imprescindibile per Tim.<br />
A riprova di una primavera artistica che sembra non<br />
aver mai fine Couldn't Be Hotter (’03, Telarc) è forse il<br />
live migliore pubblicato a oggi, forte di esecuzioni effervescenti<br />
e di una carica emotiva sapientemente miscelata<br />
a un controllo vocale in grado di far scuola e<br />
intrattenimento al prezzo di un solo biglietto. Vibrate<br />
(’04, Telarc) intende aggiornare il repertorio, iniettando<br />
le composizioni melò del giovane cantautore Rufus<br />
Wainwright e tentando il Miles Davis di Tutu (ma se<br />
ne esce con un occhio pesto). Dopo un secondo album<br />
natalizio (An Acapella Christmas Album, ’04, King Rec)<br />
la nuova sfida è con una vera e propria orchestra sinfonica<br />
in The Symphony Sessions (’06, King Rec). Ne<br />
deriva un album di straordinario impatto emotivo, certamente<br />
uno dei più sottovalutati nell’intero repertorio<br />
(si ascoltino To You, Clouds o The Offbeat Of Avenues).<br />
L’ultimo sorprendente guizzo di vitalità, alla faccia<br />
di chi da sempre taccia i Manhattan come un barbershop<br />
group spintosi troppo in là, è titolato The Chick<br />
Corea Songbook (’09, Four Quarters Entertainment).<br />
Cimentandosi col repertorio del famoso jazzista americano,<br />
l’occasione è buona per approfondire lo studio<br />
sulle sonorità latine, come pure per interpretare un<br />
approccio compositivo contemporaneo e certamente<br />
meno fruibile rispetto agli episodi più acclamati.<br />
Il futuro dei Manhattan Transfer a quanto sembra,<br />
oltre all’instancabile attività live, riserverà per l’ascoltatore<br />
disponibile sorprese pronte a deliziarne le orecchie<br />
e, al contempo, a educarle.<br />
l' i n t e r v i s t a<br />
Tim, iniziamo dal presente: in che stato versa il vocalese<br />
oggidì?<br />
Devo ammettere, non senza una certa sorpresa, che<br />
attualmente sto scoprendo un nuovo pubblico nei giovani,<br />
specialmente quelli che magari cantano nel coro<br />
jazz della propria università.<br />
A dispetto di chi vi etichetta come ‘easy listening’<br />
l’anno scorso siete tornati con un progetto assolutamente<br />
ambizioso, reinterpretando Corea…<br />
Già, un progetto davvero interessante. Letto nella sua<br />
interezza, l’album si distingue dal resto della nostra discografia<br />
per la sua spiccata complessità; era la prima<br />
volta che interpretavamo il repertorio di Chick e credimi<br />
se ti dico che si è trattato forse del lavoro più impegnativo<br />
della nostra carriera, sia in termini di comprensione<br />
che di riproduzione armonica del cantato.<br />
Non solo: in Another Roadside Attraction, a esempio,<br />
emerge una componente sperimentale che aggiunge<br />
un importante tassello alla vostra biografia.<br />
Mi fa molto piacere che tu abbia notato proprio quella<br />
canzone. La penso come te e ti devo confessare che<br />
Another Roadside Attraction può vantare l’arrangiamento<br />
di mio figlio, Basie. Il risultato è ancor più sorprendente<br />
se consideri che ha ventun'anni.<br />
Lo show biz è orribile come lo si dipinge?<br />
Sai com'è, ci sono sempre stati e sempre ci saranno<br />
gruppi di persone, all’interno di questo settore, animati<br />
da uno spirito 'predatorio'. Purtroppo è così che va il<br />
mondo: alcuni individui si arricchiscono sulle spalle di<br />
talenti giovani e inesperti.<br />
Svariati i lavori che hai abbracciato per sostentarti<br />
durante la gavetta musicale; ne ricordi qualcuno<br />
con particolare affetto?<br />
Ho fatto veramente di tutto e ti assicuro che ogni impiego<br />
mi ha insegnato cose importanti a livello umano<br />
e non solo. Non mi vergogno di nessuna mansione<br />
svolta: tra quelle che mi tornano alla mente ora…<br />
vediamo… sono stato analista marketing, caddie per<br />
un golf club, cuoco in un diner (una specie di tavola<br />
calda molto diffusa qui negli States) e tassista. Una notte<br />
stavo guidando il mio taxi quando ho caricato questa<br />
ragazza dai capelli rossi. Al tempo lavorava come<br />
94 95
cameriera ma la sua passione era il canto. Fu così che<br />
incontrai Laurel Massé!<br />
Elemento spesso trascurato dalla critica riguardo<br />
ai vostri album: la straordinaria qualità degli arrangiamenti<br />
strumentali…<br />
Avrai notato che, fin dagli esordi, abbiamo sempre tentato<br />
di procurarci la crema tra i session men sul mercato<br />
anche se, ovviamente, questo comportava per<br />
noi un maggiore investimento economico. Una volta<br />
in studio non seguiamo un modus particolare: ci diamo<br />
dentro mettendo sul tavolo intuizioni, mestiere ed<br />
esperienze, cercando di pianificare gli arrangiamenti<br />
e il ruolo da conferire a ogni strumento all’interno dei<br />
brani selezionati.<br />
Quali sono le qualità imprescindibili per un cantante?<br />
A costo di sembrarti banale, tutti questi anni nel mondo<br />
della musica mi hanno insegnato che, in ultima analisi,<br />
l’unico requisito fondamentale è l’abilità di arrivare<br />
dritti al cuore dell’ascoltatore e lasciarci dentro un po’<br />
di se stessi.<br />
Un gruppo vocale ingiustamente sottostimato?<br />
Tra i tanti nomi che mi vengono in mente scelgo<br />
senz’ombra di dubbio il quartetto degli Hi-Lo’s. Loro<br />
non sono mai riusciti a sfondare veramente e avrebbero<br />
meritato molto; la ragione sta forse nel fatto che, sotto<br />
un profilo musicale, avevano un non so che di 'esoterico'.<br />
Ma credimi se ti dico che erano grandissimi.<br />
Magari mi riesce di estorcerti il nome del musicista<br />
più sopravvalutato nella storia del jazz?<br />
Anche se ti dicessi chi ho in mente non vorrei che venisse<br />
pubblicato, perciò…<br />
Il tuo stile lascia pensare che non ti sia andata a genio<br />
la ‘new thing’ esplosa negli Anni ’60…<br />
Beh, oltre al free quel periodo ha elargito be-bopper del<br />
calibro del tenorsassofonista Benny Golson, del quale<br />
reinterpretammo Killer Joe su Vocalese. In questi giorni<br />
invece stiamo lavorando su Sidewinder, altro pezzo interessante<br />
di un trombettista dei ’60, Lee Morgan.<br />
Qualcuno ti avrà certamente accusato di essere<br />
nient’altro che un nostalgico…<br />
Quelli che sollevano questa critica mancano spesso di<br />
una conoscenza musicale approfondita.<br />
Igor Stravinsky: "La mia musica la capiscono sopratutto<br />
bimbi e animali". Riesci a tratteggiare il profilo<br />
del tuo ascoltatore tipo?<br />
Non saprei; non sono mai riuscito a delineare un filo<br />
conduttore tra i nostri fan. Credo si tratti di un’inspiegabile<br />
qualità percettiva, che porta una persona a scegliere<br />
un filone musicale piuttosto che un altro.<br />
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare la<br />
dimensione live è un aspetto molto importante nei<br />
Manhattan. Le tournée non ti snervano?<br />
Alla gente dico sempre: “Canto a gratis, vengo pagato<br />
per dover viaggiare”.<br />
Tutti furono d’accordo nel decretare un enorme<br />
successo a Extentions; da cosa credi sia dipeso?<br />
Extentions ha rappresentato un vero e proprio punto<br />
di svolta, sia per la qualità del materiale che per le<br />
scelte di Jay Graydon in veste di produttore (da allora<br />
in avanti è stato richiesto da artisti del calibro di Al Jarreau,<br />
Art Garfunkel e Dionne Warwick). Jay è stato<br />
determinante per la formulazione di un sound ibrido<br />
che in definitiva attualizzò il nostro stile, avvicinandoci<br />
così a un pubblico ancor più vasto. Va poi evidenziato il<br />
contributo creativo delle voci di Alan (ascoltalo in Twilight<br />
Tone) e di Janis, la cui interpretazione di Birdland<br />
le valse un Grammy.<br />
Spesso i vostri album ricevono un'accoglienza più<br />
calda in Europa rispetto agli States...<br />
Sono convinto che gli europei in genere riescono ad<br />
apprezzare il jazz americano molto più degli americani<br />
stessi. Triste a dirsi, ma è la pura verità.<br />
Riascoltando Tonin’ riflettevo sul fatto che quell’album<br />
contiene con tutta probabilità l’ultima registrazione<br />
da studio di Laura Nyro, prima della sua<br />
morte a soli cinquant’anni.<br />
Ecco appunto, a proposito di gusti musicali: la Nyro, fin<br />
dal suo esordio, è stata una delle mie cantanti preferite,<br />
in assoluto. Ricordo ancora l’impressione che mi fece il<br />
suo primo album per la Verve Forecast More Than A<br />
New Discovery. Ho ascoltato quel vinile tante di quelle<br />
volte che ora è completamente consumato. Ho anche<br />
avuto il privilegio di lavorarle a fianco una volta, ai tempi<br />
dei primi Manhattan, nel 1970, se ben ricordo. Pensa<br />
che siamo l’unico gruppo con cui ha accettato di registrare<br />
un duetto, fatta eccezione per il brano Promenade<br />
in coppia col compositore Kenny Rankin, anche se<br />
non mi risulta che il pezzo sia mai stato pubblicato.<br />
Comparando il jazz nella sua età dell’oro (Anni '30<br />
e '40) con la scena attuale, quali sono le tue conclusioni?<br />
Bisogna tener presente che in quegli anni il jazz veniva<br />
considerato la musica popolare del momento. Trascorso<br />
quel periodo è innegabile che, generalizzando, la<br />
sua diffusione rispetto alle grandi masse si sia abbassata<br />
significativamente in favore di altri generi ben più<br />
immediati.<br />
Bando agli intellettualismi: non trovi che arrangiare<br />
una canzone sia molto simile a cucinare una pietanza?<br />
Hai assolutamente ragione. Tra l’altro devo confessar-<br />
ti che adoro far da mangiare e mi capita spesso di cimentarmi<br />
con qualche ricetta italiana. Cucinare è veramente<br />
simile a quando ti stai approcciando a un brano<br />
ancora grezzo e decidi come sagomarlo, cosa aggiungere,<br />
quali sono le modifiche che ne determineranno<br />
un feeling specifico.<br />
Nell’ambiente è nota la tua passione per il collezionismo<br />
di vinili rari: qual è il titolo della tua discoteca<br />
a cui ti senti più attaccato?<br />
Questa è dura… spero di poter scegliere, in blocco, tutta<br />
la parte dedicate ai gruppi vocali di r’n’b, dagli Anni<br />
'30 e fino ai ’50 compresi.<br />
A proposito di collezionismi: pare che anche le auto<br />
d’epoca facciano parte delle tue debolezze…<br />
Oh sì! Attualmente mi sto godendo una Mercedes Benz<br />
190 Sl del 1961, che restauro pazientemente da una<br />
vita. E tra un paio di settimane sarà finalmente pronta<br />
la mia Coupé-Cabriolet Mercury del ‘41. Sto anche<br />
modificando una Ford Coupé del ’50: ho recentemente<br />
sostituito il tettuccio con uno del ’51 e mi sono procurato<br />
una calandra proveniente da una Pontiac datata<br />
1954. Voglio anche cambiarle il colore con un bel blu<br />
metallo.<br />
Com’è la tua giornata ideale?<br />
Ti sembrerò scontato ma direi la giornata in cui riesco<br />
a sbrigare tutto quello che mi sono prefissato senza alcun<br />
tipo di intoppo esterno.<br />
Louis Armstrong dichiarò: "Un musicista non si ritira<br />
mai: smette solo quando non c’è più musica<br />
dentro di lui". Mai avuto la tentazione di mollare la<br />
carriera per un'esistenza meno movimentata?<br />
Naaa, non sono il tipo che molla. Anche perché, riflettendoci,<br />
non saprei che altro fare della mia vita.<br />
Nonostante trentacinque anni nel mondo della musica<br />
sei l’ultimo dei Manhattan ad aver registrato<br />
un album solista, nel 2007. Quale necessità hai soddisfatto<br />
con Love Stories?<br />
Avevo bisogno di esprimere un particolare aspetto della<br />
mia personalità, un lato 'intimista', diciamo, che coi<br />
Manhattan non era mai veramente emerso. Mi sono<br />
limitato a scegliere quelle canzoni del passato che mi<br />
affascinavano profondamente, quei pezzi in grado di<br />
emozionarmi ancor oggi.<br />
Un consiglio che t'ha illuminato?<br />
Agli inizi lavorammo con Baby Lawrence e sua moglie<br />
Dorothy Bradley. Baby era noto nell'ambiente come<br />
il 'Charlie Parker del tip-tap' e Dorothy era la vedova<br />
di Buddy Bradley, coreografo attivo nel cinema per<br />
star come Fred Astaire. In sostanza dovevano insegnarci<br />
le basi per muoverci sul palco, oltre a certi passi<br />
tipici del jazz ballato (tipo il 'camel walk', lo 'shorty george'<br />
ecc.). Mi resterà sempre impressa la volta in cui<br />
Baby mi disse: "Tienilo bene a mente Tim; solo due cose<br />
sono fondamentali nello show business: atteggiamento<br />
e portamento, sta tutto lì". Non me lo sono più scordato,<br />
anche perché con gli anni ho scoperto quanto<br />
avesse ragione.<br />
Dopo una carriera costellata di premi e riconoscimenti<br />
resta da chiedersi quali siano i tuoi prossimi<br />
traguardi…<br />
In realtà ci sono ancora una serie di progetti di cui da<br />
anni discutiamo la fattibilità, in ambito Manhattan. Il<br />
mio intento è perciò quello di adoperarmi affinché presto<br />
o tardi si riesca a concretizzarli, come nel caso di<br />
The Chick Corea Songbook, album che gravitava nella<br />
mia mente dagli Anni ‘70.<br />
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?<br />
Essere in grado di sostenere me e la mia famiglia: questo<br />
è un vero e proprio dono, un privilegio che non<br />
darò mai per scontato. E poi ho sempre pensato che<br />
questa mia professione, per quanto complessa, sia pur<br />
sempre preferibile a una vita in ufficio.<br />
96 97
(GI)Ant Steps #43<br />
Louis Armstrong The Charlatans<br />
The ulTiMATe collecTion (VerVe MuSic group, luglio 2000)<br />
Le antologie di solito le evitiamo. Eppure il fine che si<br />
pone questo formato quando si parla di jazz, blues,<br />
folk e in generale di una musica lontana nel tempo e<br />
registrata su supporti dispersivi come il settantotto<br />
o il quarantacinque giri, è assai nobile. Testimoniare,<br />
in primis, e poi creare ponti ideali che permettano di<br />
apprezzare il concetto di evoluzione. Discorso banale,<br />
ma che vale soprattutto per Louis Armstrong. Uno<br />
che la sua storia l'ha scritta attraversando tutto il jazz<br />
che conta. Tre CD per cinquantanove brani incisi tra il<br />
1924 e il 1968. Quarant'anni di musica suonata da un<br />
tromba a suo modo rivoluzionaria, in un periodo in cui<br />
esserlo non significava destrutturare all'estremo come<br />
farà il free-jazz ma personalizzare nei limiti imposti<br />
dalla metrica dei tempi. Con un vibrato allusivo,<br />
un'impro inscatolata nella melodia, lo swing".<br />
Tre i Louis Armstrong che emrgono da The Ultimate<br />
Collection. Il primo è il giovane musicista di inizio<br />
anni Venti con alle spalle il riformatorio (dove impara<br />
a suonar la cornetta), le orchestrine da strada, un matrimonio<br />
fallito e una serie di impieghi temporanei tra<br />
Storyville (il quartiere dei bordelli di New Orleans),<br />
i battelli del Mississipi e la Creole Jazz Band di King<br />
Oliver. Lo stile ricalca a grandi linee quello dell'Oliver<br />
padre putativo, virtuoso e rotondo, in un misto di ragtime<br />
e blues (Copenhagen) disciplinato e rafforzato dal<br />
lavoro di big band tradizionali (tromba, trombone, clarinetto,<br />
sax, banjo, tuba, batteria). Un Armstrong rigoroso<br />
ma anche versatile, capace di passare senza batter<br />
ciglio dalla Fletcher Henderson Orchestra alla Erskine<br />
Tate's Vendome Orchestra della sua seconda moglie,<br />
dai Johnny Dodds's Black Bottom Stompers ai Jimmy<br />
Bertrand's Washboard Wizards. In una girandola di<br />
esperienze che a fine anni Trenta lo ha già consacrato<br />
al pubblico dei grandi numeri.<br />
Del resto siamo nel periodo di When The Saints Go<br />
Marching In e di un Louis dal suono pulito, nitido, squillante<br />
e assai meno incartato rispetto agli esordi, fuori<br />
dal purismo nero e sempre più vicino ai palcoscenici<br />
bianchi ed europei. Quelli che il Nostro calca portando<br />
in dote classici come Rockin' Chair, West End Blues,<br />
Savoy Blues (raccolti sul secondo disco), in una inseguimento<br />
dei gusti degli ascoltatori che sarà una costante<br />
della vita artistica del trombettista americano. Lo standard,<br />
allo scoccare degli anni Quaranta, sono i tempi<br />
lenti, un cantato ruffiano e una tromba piaciona che<br />
sostiene le note, improvvisando in maniera più strutturata<br />
rispetto al passato tra blues (la Blueberry Hill che<br />
Fats Domino farà sua negli anni Cinquanta) e classici.<br />
Inesorabilmente alla ricerca di un jazz elegante e al<br />
tempo stesso estremamente popolare.<br />
Come testimonia anche la terna Dream A Little Dream<br />
Of Me / Hello Dolly / What A Wonderful World di un<br />
terzo supporto che non si scandalizza per gli archi di<br />
It's All In The Day, puo' contare sui duetti con Ella Fitzgerald<br />
(Stompin' At The Savoy) e Oscar Peterson (Sweet<br />
Lorraine), scopre il gusto dello scat. Nel momento<br />
di massima notorietà Armstrong non è più un jazzista<br />
classico ma un intrattenitore a tutto tondo, con tanto<br />
di mimica ad effetto e trucchetti da avanspettacolo<br />
da usare sul palcoscenico. Gli stessi che con la musica<br />
suonata e una carriera decennale alle spalle gli garantiranno<br />
lo status di ambasciatore del jazz in giro per il<br />
mondo e un'onestà artistica tutta sua. Fino alla morte,<br />
avvenuta nel 1971.<br />
fABrizio zAMpighi<br />
classic album rev<br />
SoMe friendly (BeggArS BAnQueT, SeTTeMBre 1990)<br />
Fateli i conti, che male non è e - specialmente in retrospettiva<br />
- senza dubbio aiuta. Meraviglie del distacco<br />
che permette di rileggere serenamente e (ri)contestualizzare<br />
fenomeni e tendenze. Chissà che diremo<br />
tra vent’anni del glo-fi, tanto per dirne una: seccature<br />
delle generazioni che saranno, se un giornalismo musicale<br />
esisterà ancora e soprattutto un mondo a contenerlo.<br />
Prendete ad esempio la fulminea stagione di<br />
Madchester: scaduta l’Ecstasy, cosa resta? Un Capolavoro<br />
assoluto nell’ultimo anno dei Capolavori assoluti<br />
(Screamadelica); un disco splendido ma che c’entrava<br />
nulla, semmai era tra gli ultimi esempi di chitarrismo<br />
anni ’80 britannico (The Stone Roses); i borgatari Happy<br />
Mondays, che condussero accidia e cinismo in classifica;<br />
qualche singolo di Inspiral Carpets a rendere<br />
meno tristi le spente ceneri. Gli elettronici 808 State,<br />
ma anche lì era un’altra storia.<br />
Aggiungete pure un altro lp, che al tempo fece tremare<br />
la stampa nazionale in virtù del physique du role<br />
di Tim Burgess, cantante della band che ne era autrice.<br />
Dei Charlatans di Some Friendly, oggi, colpisce il porsi<br />
in una nicchia dalla quale osserva i coetanei e quanto<br />
seguì - sfortune e tragedie incluse - il suo fiorire appassionato<br />
e caldo. Se nessuno dei tanti lavori successivi<br />
dei Ciarlatani lo vale, rimane faccenda notevole che<br />
ricorda come, da sempre, il miglior pop d’oltremanica<br />
paghi pegno alla musica nera. Dal suono sensuale<br />
tuttavia sostenuto dei mancuniani (Northwich, per la<br />
precisione) risali a Brian Auger, alla Graham Bond<br />
Organization, allo Spencer Davis Group (il tastieri-<br />
sta Rob Collins esemplare e idem lo scintillante traino<br />
nelle charts The Only One I Know). E anche, in versione<br />
light, a quei Prisoners da dove sbucava il traghettatore<br />
dell’organo Hammond, James Taylor. Non fosse che<br />
quanto era ruvido errebì in buccia d’orecchiabilità si<br />
era col senno di poi venato di jingle-jangle (l’innodica<br />
Sproston Green vicina ai R.E.M. di Green) pur seguitando<br />
a voler la pelle nera con Believe You Me e Polar Bear (i<br />
ragazzi collezionavano anche 12" di house chicagoana;<br />
anni dopo, Burgess avrebbe cantato con i Chemical<br />
Brothers, pronti a ricambiare tramite un remix) e ricordare<br />
i ’60 (White Shirt).<br />
Erano baggy come Elvis Costello era punk - cioè<br />
poco o nulla: l’errore era prospettico - e semmai preferivano<br />
sapevano incupirsi (Then) e lanciarsi in una<br />
neo-psichedelia morbida tipicamente albionica (You're<br />
Not Very Well, Sonic). Cercavano il groove cautamente<br />
danzabile mentre erano in "viaggio" e viceversa: ecco<br />
l’alchimia che qui funziona con costanza e sarà per<br />
loro l’unica volta. Prova ne sia che, a fine estate 2010,<br />
ne è stata pubblicata una doppia versione "deluxe" su<br />
cd con session radiofoniche e varie chicche aggiunte;<br />
e che, più di ogni altra cosa, riascoltarlo non abbia offerto<br />
semplice nostalgia. Melting Pot si intitolava una<br />
ben compilata raccolta del '98 che consigliamo a integrazione,<br />
ed era vero: confuso e forse involontario, ma<br />
lo era.<br />
giAncArlo TurrA<br />
98 99
www.sentireascoltare.com