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Sufjan S teven S - Sentireascoltare

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naPoLi CaPut Mundi<br />

Weltraum, a Spirale, Zero Centigrade<br />

Le luci della centrale elettrica<br />

umberto Palazzo<br />

digital magazine novembre 2010 n.73<br />

<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>S


2<br />

tuRn on<br />

p. 4 Small Black<br />

tune in<br />

Rubriche<br />

5 Andreya Triana<br />

6 Kelley Stoltz<br />

8 Phantom Band<br />

p. 10 Le Luci della Centrale Elettrica<br />

14 Umberto Palazzo<br />

18 Deerhunter<br />

DRop out<br />

22 <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s<br />

32 Napoli Caput Mundi<br />

Recensioni<br />

40 Blind Jesus, Antolini, Dark Star, Onorato, Traoré....<br />

Rearview Mirror<br />

92 The Manhattan Transfer<br />

84 Gimme Some Inches<br />

86 Re-boot<br />

88 China Underground<br />

98 Giant Steps<br />

99 Classic Album<br />

Di r e t t o r e : Edoardo Bridda<br />

Di r e t t o r e re s p o n s a b i l e : Antonello Comunale<br />

Uf f i c i o st a m pa : Teresa Greco<br />

co o r D i n a m e n t o : Gaspare Caliri<br />

pr o g e t t o gr a f i c o e im pa g i n a z i o n e : Nicolas Campagnari<br />

re D a z i o n e : Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi,<br />

Stefano Solventi, Teresa Greco.<br />

SentireAscoltare online music magazine<br />

Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05<br />

Editore: Edoardo Bridda<br />

Direttore responsabile: Antonello Comunale<br />

Provider NGI S.p.A.<br />

Copyright © 2009 Edoardo Bridda.<br />

Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale,<br />

in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,<br />

è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare<br />

sta f f : Stefano Solventi, , Salvatore Borrelli, Diego Ballani, Marco Boscolo, Stefano Pifferi, Filippo Bordignon,<br />

Giancarlo Turra, Teresa Greco, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti, Andrea Napoli, Fabrizio Zampighi,<br />

Marco Braggion<br />

gU i D a s p i r i t Ua l e : Adriano Trauber (1966-2004)<br />

in c o p e r t i n a : sufjan s<strong>teven</strong>s


Giusto un anno fa pubblicavamo un articolo (Candeggina<br />

Pop) che passava in rassegna i nomi<br />

più interessanti della sensazione del momento: il glofi.<br />

Dietro l’ etichetta - sempre opinabile – personaggi<br />

come Toro Y Moi, Neon Indian e Washed Out recuperavano<br />

gli umori più esotici della wave di fine Ottanta,<br />

dai beat delle prima acid house alle suggestioni di<br />

un’Ibiza più immaginata che vissuta.<br />

Della partita (hypnagogica) erano anche gli Small<br />

Black, lasciati in panchina in attesa dei primi risultati.<br />

Di lì a poco quartetto di Brooklyn avrebbe rilasciato un<br />

7 pollici split con il sodale Washed Out - in cui ciascun<br />

act remixava un brano dell’altro – e un singolo di debutto<br />

raramente così azzeccato. Nei brevi solchi di Despicable<br />

Dogs (trecento copie per l’inglese Trasparent)<br />

due inni glo-pop che, per chi ebbe la fortuna di far propri,<br />

non si toglievano più dalla testa. Inutile dire che la<br />

tiratura andò bruciata in pochi mesi, portando i nostri<br />

a includere i brani del 7 pollici anche sull’EP omonimo<br />

Small Black<br />

—Glo-fi newbies—<br />

Arrivano all'album di debutto gli<br />

ultimi affiliati dell'hypna-pop<br />

turn on<br />

che a breve avrebbe visto la luce su Cass Club prima (e<br />

Jagjaguwar subito dopo). Peccato che i pezzi del nuovo<br />

vinile non vantassero il piglio irresistibile del primo<br />

singolo, lasciando i fan in attesa di un’uscita che gli restituisse<br />

le melodie da poco assaporate e già irrinunciabili.<br />

Per questo si è dovuto aspettare New Chain, album<br />

con cui i newyorkesi tornano a sfornare le piccole hit di<br />

pop fuori fuoco che gli sono proprie. Camouflage, Photojurnalist<br />

e la title-track dicono di come il sound femmineo<br />

ed etereo, spostato sull’asse più smaccatamente<br />

indie-rock da Wild Nothing e Beach Fossils, possa<br />

essere ancora appannaggio di gente che alle chitarre<br />

preferisce i synth e i campionamenti. Anche se di tempo<br />

ne è passato da Causers Of This e Psychic Chasms<br />

e, si sa, le mode musicali fanno presto ad accusare i segni<br />

dell’invecchiamento.<br />

AndreA nApoli<br />

Andreya<br />

Triana<br />

—Nu-Soul Queen—<br />

Esordio promettente su Ninja<br />

Tune per la nuova sensation del<br />

soul UK<br />

Le nuove reginette del blues inglese si fanno introdurre<br />

nel gotha da nomi alternativi, che producono<br />

con il cuore sapiente dei bluesman più scafati. Cresciuta<br />

nell'ambiente artistico di Leeds con la band funk<br />

Bootis, Andreya Triana si fa notare da Flying Lotus alla<br />

Red Bull Music Academy australiana del 2006: da lì nascerà<br />

un featuring (Tea Leaf Dancers) pubblicato nell'EP<br />

Reset dello stesso FlyLo. Oggi esce su Ninja Tune con<br />

Lost Where I Belong, album prodotto dall'amico Bonobo,<br />

con cui aveva già collaborato nelle parti vocali<br />

di Black Sands. L'incontro “è avvenuto in maniera naturale”,<br />

ci dice la giovane e bella cantante di South London<br />

“ci siamo conosciuti nel 2006. Lui stava cercando una<br />

cantante. Mi piaceva molto la sua musica e sapevo che<br />

avrebbe voluto collaborare con una persona sola nell'album,<br />

non con troppi produttori. Così gli ho chiesto se c'era<br />

spazio per me e lui ha detto di sì. Il resto è venuto da sè”.<br />

Un appoggio totale anche da parte della grande<br />

famiglia Ninja, che quest'anno compie vent'anni, ma<br />

che già nella supercompila riassuntiva dell'anniversario<br />

considera Andreya come un piccolo classico: “penso<br />

che lavorare con una label indipendente sia eccitante,<br />

dato che loro vogliono poprio far emergere il meglio<br />

di me. Mi sento libera a lavorare con loro”. L'etichetta<br />

inglese è la patria delle contaminazioni hop: il mesh<br />

non può che essere anche per Andreya un passaggio<br />

obbligato: è stata infatti recentemente remixata dalla<br />

next big thing del dubstep Mount Kimbie, anche se<br />

non prevede collaborazioni ulteriori su questo versante.<br />

Fra le sue coordinate cita ovviamente la soul music,<br />

ma ci dice di essere attratta dalla musica che “non<br />

definisce bene i confini. Tipo Jamie Lidell, che è soul, ma<br />

sperimentale ed elettronico. E anche Björk, che mi ha influenzato<br />

molto. Questi artisti non si incasellano in una<br />

scatola. Creano, tentano di esprimersi e basta. Dovrebbe<br />

essere così”.<br />

E' bello poi vedere che la ragazza non ha un'educazione<br />

formale: “non ho avuto un training musicale e mi<br />

considero un po' dislessica per quanto riguarda la teoria<br />

musicale. Sono sempre stata un po' maniaca della musica,<br />

ho passato giorni e giorni a sezionare voci, melodie,<br />

armonie e a sviluppare il mio stile personale”. Una tipa tosta,<br />

che ha già in mente numerosi progetti per il futuro:<br />

“Uno è The Dreamscape Soul Session, una collaborazione<br />

live con la mia amica illustratrice Sri McKinnon. Riprenderò<br />

le mie sperimentazioni con la voce e Sri disegnerà sul<br />

palco dei grandi dipinti quando canto. L'altro progetto è<br />

una band di rock psichedelico che si chiamerà Annie &<br />

the Duke. Il nostro EP dovrebbe uscire fra qualche mese”.<br />

Buon lavoro Andreya!<br />

MArco BrAggion<br />

4 5<br />

turn on


Kelley Stoltz<br />

—L'arte del sogno—<br />

Brian Wilson fai-da-te o bricolage<br />

retrofurista? Andata e ritorno nello<br />

scombintato mondo dell’ultimo<br />

folletto pop "made in USA".<br />

turn on<br />

Ci sono artisti che piombano sulla scena musicale come fulmini a ciel sereno e la rivoluzionano da capo a fondo,<br />

forti di un'ineguagliabile carica innovativa. Ecco, Kelley Stoltz non è uno di questi.<br />

Il trentanovenne del Michigan, trapiantato a New York, è uno di quei songwriters innamorati della bella calligrafia<br />

applicata alla pop song, obbiettivo che negli anni ha perseguito con dovizia certosina, in barba alla povertà<br />

dei mezzi a disposizione. Kelley, che abbiamo contattato in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro To Dreamers,<br />

è il classico genietto che adora trastullarsi con giocattoli lo-fi e chincaglieria vintage, cosa che gli ha fatto<br />

perfezionare uno stile immediatamente riconoscibile ed estremente personale, dal mood intimamente psichedelico,<br />

fatto di suggestioni 60s e rumori della modernità.<br />

"Effettivamente penso che nei miei brani ci sia una particolare sensibilità costruita su riverberi, twang chitarristici,<br />

beat pesanti, suoni di synth… mi piace creare un collage sonoro integrato con il pop dei 60s. Passo molto tempo a lavorare<br />

sul feeling di ciascun brano, molto più che sulle liriche delle canzoni. Generalmente la melodia è la prima cosa<br />

che prende forma e quando questa è pronta ci do dentro<br />

a manipolare i suoni di ogni strumento".<br />

Stoltz, è uno dei segreti meglio custoditi del panorama<br />

indipendente americano: appartiene al roster<br />

della Sub Pop già da qualche anno, anche se pochi<br />

fino ad ora se ne sono accorti. To Dreamers potrebbe<br />

essere il "turning point" di una carriera poliedrica,<br />

iniziata come curatore della “fan mail” di Jeff Buckley<br />

e proseguita con la realizzazione di ben otto album,<br />

per lo più suonati, registrati e prodotti in maniera autonoma,<br />

e fra i quali spicca una rivisitazione integrale<br />

di Crocodiles degli Echo & The Bunnymen.<br />

"E’ vero. Gli Echo & The Bunnymen sono sempre stata<br />

la mia band preferita, sin da quand’ero appena un<br />

ragazzino, ancora prima che iniziassi ad ascoltare David<br />

Bowie e Leonard Cohen e che decidessi di mettere in<br />

piedi la mia band. Sono i miei eroi, ho registrato tre dei<br />

loro primi quattro album. Spesso cerco di cantare come<br />

Ian McCulloch o di copiare le linee di chitarra di Will Sergeant,<br />

ma ogni volta mi accorgo che il risultato suona<br />

differente da come vorrei. A volte, musicalmente, credo<br />

di esser loro debitore, salvo poi accorgermi che sono altri<br />

interessi che indirizzano il mio stile".<br />

Nella sua bizzarra storia, tuttavia, ci sono elementi<br />

che ne fanno qualcosa di diverso del loser romantico e<br />

spiantato. Questo grazie ad alcuni brani utilizzati per<br />

spot televisivi e come colonne sonore di serie televisive.<br />

A tal proposito Kelley chiosa ironico:<br />

"Non ho nessun problema a tal proposito, anzi penso<br />

che sia una grande cosa! Mia madre poi si emoziona<br />

quando sente le mie canzoni in TV. A parte gli scherzi,<br />

questa cosa mi ha permesso di guadagnare abbastanza<br />

denaro per dedicarmi a tempo pieno alle mie canzoni.<br />

Ora lavoro per un paio di giorni alla settimana in un negozio<br />

di dischi, per il resto posso permettermi di mangiare<br />

e dormire grazie ai soldi di quelle pubblicità. Il bello è<br />

che negli spot le mie canzoni si riescono appena a sentire.<br />

Trovo incredibile che paghino così tanto per qualcosa<br />

che rimane così nascosto in sottofondo.<br />

Sub Pop, oggi nuova Mecca per ferventi spiriti DIY,<br />

sembra aver riposto in lui illimitata fiducia, dotandolo<br />

dei mezzi necessari per esprimere al meglio quell’aspirazione<br />

ad una grandiosità compositiva dal tiro wilsoniano,<br />

che si nutre di vecchi espedienti e di nuove<br />

tecnologie. Il risultato è che To Dreamers suona assai<br />

denso e stratificato, a dispetto della leggerezza delle<br />

melodie e dell'emotività frizzante che lo pervade.<br />

"Ci è voluto circa un anno e mezzo dal suo concepimento<br />

al risultato finale. Io per lo più registro a casa<br />

mia e suono personalmente tutti gli strumenti, per cui<br />

è naturale che a terminarlo ci abbia impiegato un pò di<br />

tempo. In questo senso non è cambiato molto rispetto<br />

alle mie prime produzioni, a parte il fatto che ora ho a<br />

disposizione microfoni migliori e, in generale, penso che<br />

tutto suoni meglio che in passato. In occasione del nuovo<br />

disco ho anche comprato un Mellotron".<br />

Il vizio del DIY dunque è duro a morire: "Sul disco la<br />

mia band suona solo in due occasioni - "Baby I got news<br />

for you" e "I Like, i like" - le abbiamo suonate dal vivo per<br />

un pò di mesi e ho pensato di far partecipare anche gli<br />

altri alle registrazioni. Mi sembra giusto che anche loro<br />

sentano di avere avuto un ruolo sull’album, in modo che<br />

possano andare in tour e suonare quei brani col cuore,<br />

come se fossero un pò anche loro".<br />

Tuttavia è inevitabile che la resa live dei brani dell’album<br />

sia differente rispetto alla loro genesi in studio:<br />

"Certo, è difficile replicare tutti i più piccoli rumori e gli<br />

effetti che si sentono sul disco, mi occorrerebbe un gruppo<br />

di 7 o 8 elementi per riprodurre tutte le percussioni e<br />

le armonie vocali. In effetti per me è fonte di frustrazione,<br />

ma non posso certo permettermi di portare tutte quelle<br />

persone con me, così lascio che le canzoni dal vivo prendano<br />

la loro strada. Mi sembra che generalmente i brani<br />

suonino più rock e meno sinfonici. Più Highway 61 Revisited<br />

che Pet Sounds".<br />

Recentemente Stoltz e la sua band sono stati visti<br />

di supporto ai Raconteurs, cosa che gli ha permesso<br />

di esibirsi di fronte a grandi platee e maturare quel<br />

genere di ambizione che porta songwriter come lui a<br />

confrontarsi con i più grandi.<br />

"È divertente suonare per un gran numero di persone.<br />

Cosa ho imparato andando in tour con i Raconteurs?<br />

Credo che mi abbia fatto venir voglia di scrivere canzoni<br />

più ambiziose che possano arrivare a più persone. Penso<br />

che il nuovo album risponda a questa esigenza. Inoltre i<br />

miei set precedenti avevano un po’ troppi mid tempo, ora<br />

ci sono rock song dal ritmo decisamente più sostenuto".<br />

Intanto il tour promozionale è già partito e il calendario<br />

dei concerti promette di portarlo in giro per il<br />

mondo.<br />

"Sarò in tour in Europa a novembre. Mi piacerebbe<br />

molto venire a suonare anche in Italia. In passato ci sono<br />

stato con i Dirtbombs, nel 2008, con cui abbiamo realizzato<br />

alcuni ottimi show. Ho suonato anche con i Father<br />

Murphy da qualche parte nelle vicinanze di Venezia. E’ lì<br />

che ho conosciuto Marco dei Jennifer Gentle, ottimo ingegnere<br />

del suono e incredibile songwriter. Spero proprio<br />

di tornare ad esibirmi nel vostro Paese".<br />

Un auspicio, questo, di cui ci facciamo convinti portavoce.<br />

diego BAllAni<br />

6 7


The<br />

Phantom<br />

Band<br />

—Sono pazzi questi<br />

scozzesi!—<br />

Da quanto aspettavamo un gruppo<br />

che osasse sbatacchiare il passato<br />

dentro a un frullatore di memoria<br />

pop e cavandone qualcosa di fresco<br />

e spontaneo? The Phantom Band, da<br />

Glasgow, per servirvi.<br />

turn on<br />

"L ’amicizia in questo gruppo risale all’epoca della scuola. Siamo grandi fan di musica e, in quanto tali, non avevamo<br />

interesse alcuno a pubblicare un disco che non ci trovasse soddisfatti.." Così affermava con unanime<br />

e benvenuta modestia la Phantom Band un annetto fa, allorché l’esordio Checkmate Savage vedeva la luce per<br />

Chemikal Underground. Era stata nondimeno lunga per quest’era distratta e frettolosa la loro gavetta, intrapresa<br />

grossomodo un lustro prima in quel di Glasgow da Duncan Marquiss e Greg Sinclair (chitarra), la sezione ritmica<br />

di Gerry Hart (basso) più Damien Tonner (batteria), il tastierista Andy Wake (tastiere, ultimo ad aggregarsi in<br />

ordine di tempo) e il cantante Rick Anthony. Ognuno “trenta-e-qualcosa” con lavori cui badare alla faccia degli<br />

sbarbatelli da cameretta con velleità arty, forti del disincanto cinico ma umoristico che si ha a quell’età. Quando<br />

puoi ancora giocarti delle carte ma un po’ di vita e di musica le hai masticate; quando ragioni prima di aprire bocca<br />

e, nello specifico, di scrivere canzoni. Si potrebbe partire anche da qui per provare a spiegare i motivi che stanno<br />

alla base di The Wants, replica datata 2010 che ci ha stregato; da come un disco buttato lì dentro una copertina<br />

banalmente low-fi (l’unico suo difetto…) ci abbia scombussolato nei primi ascolti e sia cresciuto man mano alla<br />

luce dei suoi pregi. Che sono un raro senso sincretico,<br />

una tela sonora dettagliata, il mostrare i propri modelli<br />

smontati e ricomposti in qualcosa d’altro.<br />

Sarebbero però i diretti interessati per primi a buttarla<br />

non troppo sul serio, seppur astenendosi dalla<br />

caciara e prendendo seriamente quel che merita. Un<br />

atteggiamento evidente sin dai primi anni di esistenza<br />

spesi a cambiare nome senza sosta (NRA, Les Crazy<br />

Boyz, Tower Of Girls, Wooden Trees, Robert Redford,<br />

Robert Louis S<strong>teven</strong>son: “Se non riuscivamo a tirare fuori<br />

un nome decente, dicevamo a quelli del locale di scrivere<br />

quel che gli pareva sul cartellone”.) e lasciarsi dietro<br />

un CD-R andato a ruba e una Crocodile ripescata nel<br />

debutto. Nel frattempo ecco la scelta di affidarsi all’attuale<br />

ragione sociale, a sottolineare l’assenza di protagonismo<br />

in un Regno Unito costantemente pronto a<br />

inventarsi sensazioni presto dimenticate e prono sotto<br />

vacuità sensazionaliste. Piace pensare che chiamarsi<br />

“il gruppo fantasma” indichi un volersi liberare del<br />

contorno per focalizzare l’attenzione sulla musica. E,<br />

magari, sul gusto per il tagliente nonsense dadaista comune<br />

nella cultura d’oltremanica (Monty Phython e<br />

Bonzo Dog Band, Television Personalities e gli stessi<br />

Beatles), che emerge da concerti in maschera (assecondando<br />

l’atavico senso di ritualità pagana che in<br />

Albione è retaggi e che ripropongono nell’approccio<br />

percussivo al ritmo) o dove si issa sul paco un’attrezzatura<br />

da body building invitando il pubblico a usarla.<br />

Colore e basta, se non vi fosse una sostanza sgusciante<br />

e spremuta da tanti differenti frutti: “Esiste un<br />

terreno comune composto da Led Zeppelin, Stooges, Bo<br />

Diddley, Capitan Beefheart, Beta Band e una bella dose<br />

di soul e blues, tuttavia i nostri gusti personali sono più<br />

influenti di quanto ci unisce, così tanti nomi che la lista<br />

diventerebbe una faccenda noiosa. Siamo testardi e<br />

questo si riflette nel modo in cui scriviamo e suoniamo<br />

assieme. Inoltre siamo appassionati di cinema, così che il<br />

tentativo di creare un’atmosfera caratterizza da sempre<br />

quel che facciamo. Abbiamo anche interessi più ampi nel<br />

campo dell’arte, dei videogiochi, della letteratura e della<br />

pornografia. Le solite cose, insomma. E a tutti piace il<br />

caffé."<br />

La quotidianità e lo sforzo di riderci sopra, di trascenderla<br />

inventandosi un linguaggio che esca dalle<br />

pastoie di una Scozia - ma vale per qualsiasi altra nazione<br />

- adagiata su fotocopie trash-pop e post-punk<br />

(“Prima tutti andavano in giro conciati come gli Strokes<br />

e poi come i Franz Ferdinand. Questa città ha un ‘giro’<br />

chiuso e non piacevamo a nessuno, così ci siamo ritrovati<br />

assieme. Essendo soprattutto amici, la faccenda s’è<br />

evoluta organicamente e alcolicamente. Tutti i venerdì<br />

sera lasciavamo gli amici al pub e suonavamo fino a tarda<br />

ora: dalla jam settimanale siamo giunti a un singolo<br />

e agli album.”<br />

A un certo punto toccava decidersi per un nome:<br />

da lì, nel 2007 si stampa il 7" Throwing Bones per la londinese<br />

Trial & Error che attrae l’attenzione della concittadina<br />

Chemikal Underground. Ne risultava un primo<br />

lp acerbo, dove l’ex Delgados Paul Savage cercava di<br />

ordinare produttivamente l’eccesso di carne sulla brace.<br />

Non sfuggiva però il talento dei ragazzi ad allestire<br />

una fitta rete di rimandi che prometteva bene; i più<br />

attenti, anche alla luce della presenza dei Fantasmi ad<br />

alcuni prestigiosi festival, un asso se lo sarebbero attesi.<br />

Non della portata di The Wants, però, dove la scrittura<br />

gode di una naturalezza di sviluppo evidente solo<br />

dopo ripetuti ascolti, quando cioè si varca una complessità<br />

che attrae e anzi avvince in luogo di respingere.<br />

Danno dipendenza, queste canzoni che respirano:<br />

è folk che cavalca krauto (The None Of One) o sorge da<br />

un alveo limpido (Come Away In The Dark); è new wave<br />

che si rivolta in varchi spazio-temporali (Into The Corn,<br />

Everybody Knows It’s True); sono pugnalate all’ultimo<br />

grido da New York e da Londra (Mr. Natural, Walls). Il<br />

resto ce lo mettono una voce che, indecisa tra David<br />

Sylvian e Ian McCulloch, tra Ian Curtis e Bill Callahan,<br />

li lascia confluire nel fiume in piena di arrangiamenti<br />

calorosi e policromi. Si osa con trasporto emotivo,<br />

ripudiando la frigidità sin troppo smaliziata oggi<br />

di moda.<br />

Sperimentazione pop col sorriso e lo scudiscio: da<br />

quanto ne attendevamo la ricomparsa? “Siamo pieni<br />

di passione: il gruppo è una famiglia disfunzionale in cui<br />

discutiamo molto ma che tende a lavorare in maniera<br />

fluida. Le canzoni sono tirate in direzioni diverse finché<br />

non si tramutano in qualcosa che possiamo utilizzare,<br />

l’ispirazione arriva dagli ascolti passati e dalla voglia di<br />

migliorarsi. Cambiare nome ci permetteva di metterci ed<br />

era divertente. A lungo andare, però, ci siamo resi conto<br />

di come fosse un po’ perfido e potesse infastidire la gente,<br />

così ci siamo fermati a ‘The Phantom Band’. Avendo raggiunto<br />

un qualche obiettivo artistico, era tempo che ci<br />

legassimo a qualcosa. Per ora non abbiamo in mente di<br />

cambiare di nuovo nome: nel caso, ve lo faremo sapere.“<br />

Quel che conta è che costoro rimangano tra chi<br />

conta, ora che un nuovo decennio è alle porte e qualche<br />

certezza servirà. Tra genio e sregolatezza, sanno<br />

cosa scegliere.<br />

giAncArlo TurrA<br />

8 9


Tu n e-In<br />

Le luci della<br />

centrale elettrica<br />

—Gli anni zero sono finiti?—<br />

Testo: Marco Boscolo<br />

Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi<br />

Due anni che lo hanno trasformato in un'icona<br />

generazionale, ma a Ferrara "non mi caga nessuno"<br />

Il successo trasversale di Canzoni da spiaggia deturpata<br />

ha spinto Vasco Brondi nella casella delle<br />

icone, almeno sociologicamente parlando. Nell'era della<br />

comunicazione per memi sempre più brevi e di stampo<br />

sloganistico, i flussi di coscienza infarciti di immagini<br />

da sinistra storica che si reincarnano nella “gigantesca<br />

scritta COOP” hanno una forza tale da diventare punti<br />

di riferimento per una generazione indie cresciuta a Facebook.<br />

Una generazione che per certa parte ha visto<br />

in lui il menestrello di "questi cazzo di anni zero".<br />

Del fenomeno si è accorto il mainstream, che ha voluto<br />

il libro di Brondi, che lo ha fatto entrare nel mondo<br />

paludato del Premio Tenco, che in qualche modo si è<br />

interessato ai potenziali aspetti di marketing che ne<br />

scaturivano. Si potrebbe addirittura vedere in Brondi<br />

lo spettro di un altro Vasco, quello da Zocca che cantava<br />

la vita spericolata. O una vicinanza all'esaltazione<br />

di certa provincia che ha aperto le porte degli stadi a<br />

Ligabue. Come se i ventenni di oggi avessero trovato<br />

il proprio faro, come ai loro coetanei di trenta, venti o<br />

dieci anni fa era successo con Vasco Rossi e Luciano<br />

Ligabue<br />

Il secondo disco, Per ora noi la chiameremo felicità,<br />

non sposta la barra del timone e ripropone lo stesso<br />

immaginario raccontato “viscere sul tavolo” fornendo<br />

nuova linfa al fenomeno. Dietro all'icona, però, c'è un<br />

ragazzo schietto che questi ragionamenti sul marketing,<br />

sulla sociologia e sulla fenomenologia – forse –<br />

non li ha fatti mai. Dalle sue stesse parole, la sua sembra<br />

più una navigazione a vista, in un perfetto stile punk, in<br />

cui il dire e il fare coincidono. Se al momento il fenomeno<br />

susciterà ancora innamoramento e identificazione<br />

in una fetta importante del pubblico, e non mancherà<br />

di far uscire gli inevitabili “te l'avevo detto”, dove stia<br />

andando il progetto Luci della centrale elettrica lo<br />

può sapere solo Vasco Brondi. E per cercare di capirlo,<br />

non vi è altra via che leggere le sue stesse parole<br />

Com'è stato fare questo secondo disco dopo un<br />

esordio così visibile e accolto così positivamente da<br />

pubblico e critica?<br />

In realtà ho cominciato a farlo mentre stavo ancora finendo<br />

di mixare il disco precedente. Le canzoni sono<br />

venute fuori in giro per i concerti in questi due anni. In<br />

generale quando è stato il momento mi sono rimesso<br />

nella situazione di non avere niente da perdere perché<br />

effettivamente è così. Fortunatamente ho anche altre<br />

cose e altre pensieri, dovere portare avanti una carriera<br />

è una cosa che non mi pongo e che mi ripugna anche<br />

un po'.<br />

In cabina di regia non c'è più Giorgio Canali. Chi ha<br />

prodotto il disco? Come sono nate queste scelte?<br />

Il disco se parliamo di produzione artistica direi che ho<br />

fatto molta roba io da solo. Con Giorgio c'è un rapporto<br />

di confronto continuo, ha sentito tra i primi i provini<br />

delle canzoni chitarra e voce, mi ha dato una mano a<br />

registrare le voci qui a casa e molti consigli. Le Luci della<br />

centrale elettrica è una sorta di collettivo e cambia<br />

sempre, cambia con me. È venuto da solo fare cose diverse.<br />

In generale cambio tutto quello che posso: ho<br />

traslocato quattro volte in un anno. Mi sentivo anche<br />

tranquillo da solo, ho ricostruito il momento di solitudine<br />

che ho quando faccio le canzoni, ma in studio,<br />

ho fatto io i premix che sono stati sostanzialmente un<br />

momento di arrangiamento. Poi Paolo Mauri, sempre<br />

a casa, ha mixato il disco dando un grande apporto.<br />

Le scelte di produzione sono state le uniche possibili,<br />

le più immediate e le più sincere. Non mi sono voluto<br />

inventare un suono in una settimana di studio, le canzoni<br />

anche questa volta nascevano chitarra e voce e ci<br />

sono rimaste. Le abbiamo suonate tutte in un giorno in<br />

presa diretta e quello che doveva essere un provino è<br />

diventata la base del disco perché andava bene così.<br />

I testi nuovi arrivano sull'onda del successo del primo<br />

disco e della pubblicazione del libro: questi fattori<br />

hanno cambiato il tuo processo creativo?<br />

Non credo. Quando scrivo, scrivo. E si crea una dimensione<br />

diversa. Poi devo dire che tutto questo supposto<br />

successo è per gran parte autosuggestione degli addetti<br />

ai lavori del micromondo indipendente musicale.<br />

10 11


Mi sono ritrasferito a Ferrara e posso assicurarvi che<br />

nella realtà non mi caga nessuno.<br />

Dopo essere riuscito a costruire un immaginario coerente<br />

e riconoscibile, avevi paura di cadere nella<br />

tentazione di rifare lo stesso disco? Hai preso delle<br />

precauzioni in questo senso?<br />

Non mi sono posto il problema. Non avevo nessuna<br />

tentazione di rifare lo stesso disco, anzi, allo stesso tempo<br />

non avevo nessuna intenzione neanche di fare una<br />

cosa completamente diversa da quello che sono adesso<br />

solo per stupire o per sorprendere qualcuno. Non ho<br />

preso precauzioni di nessun tipo, se non di rispondere<br />

all'unica regola che vale in queste cose: viscere sul tavolo.<br />

Come diceva Pazienza.<br />

Nei testi nuovi ci sono molte citazioni più o meno<br />

esplicite. Ma quali sono le tue fonti di ispirazione?<br />

Sono maggiormente cantautori o scrittori?<br />

Sono sempre in difficoltà davanti a questa domanda<br />

rituale. Non è che mi ispiro a uno o ad un altro, non capisco<br />

neanche come si possa fare. Sicuramente ci sono<br />

cose fatte da altri che mi colpiscono a morte ma che<br />

magari non entrano in nessun modo in quello che faccio.<br />

Forse mi viene da mischiare tutto, i palazzi che ho<br />

di fronte ad una canzone di Fausto Rossi, una frase di<br />

Gianni Celati e la faccia di una passante, allo schermo<br />

del computer, una conversazione con mia madre e un<br />

film di Wim Venders. Tutte queste cose probabilmente.<br />

Non ti viene mai voglia di lasciare da parte la musica<br />

e dedicarti completamente alla scrittura?<br />

A volte penso che sarebbe più comodo che sarei più<br />

tranquillo. La parte pubblica della questione devo dire<br />

che un po' di rotture di cazzo me le ha procurate e per<br />

quasi un anno non ho fatto concerti perché non ne<br />

avevo più voglia. Però credo che non riuscirei, che mi<br />

mancherebbe la parte della condivisione, dell'immediatezza<br />

delle canzoni.<br />

Scrivo molto ma forse è solo un laboratorio per le canzoni,<br />

anche per questi testi a volte partivo da storie di<br />

quaranta pagine che diventavano una canzone, come<br />

per Una guerra fredda. Anche Cosa racconteremo di<br />

questi cazzo di anni zero è stato in questo senso un<br />

laboratorio, l'ultima parte di quel libro l'ho scritta mentre<br />

venivano fuori anche le canzoni di questo disco e si<br />

sono parlati a vicenda.<br />

Che effetto ti fa essere considerato il cantore di una<br />

certa fetta del mondo indie, non dico generaziona-<br />

le, ma che effetto ti fa sentire la gente che canta a<br />

squarciagola le tue canzoni?<br />

La frase dei C.S.I. "trasformami in un megafono e mi<br />

incepperò" mi sembra perfetta. Facendo questa cosa<br />

a volte sono finito in questa dimensione dell'irrealtà<br />

dove ogni cosa diventa possibile e da questa dimensione<br />

dell'irrealtà però non è che provi grandi soddisfazioni:<br />

è come se non succedesse a te, banalmente. Gli<br />

unici momenti di gioia sconfinata è quando ti accorgi<br />

che dopo un bel po' di settimane che stai sopra una<br />

canzone, all'improvviso capisci che è finita.<br />

Come pensi che verranno accolte le nuove composizioni,<br />

o come vorresti che venissero accolte?<br />

Vorrei che fossero ascoltate, è un disco fuori tempo e<br />

fuori moda perché credo che per entrarci devi ascoltarlo<br />

un po' di volte. Sono tranquillo perché è proprio<br />

come lo volevo e può andare in qualsiasi modo: non<br />

ci sono recriminazioni. Credo che molti non le ascolteranno<br />

neanche e diranno la solita cosa che si dicono<br />

per i secondi dischi di chiunque o per i dischi di<br />

chiunque prima non aveva seguito e adesso ne ha un<br />

minimo. Dai CCCP ai Marlene Kuntz, agli Afterhours,<br />

ai Baustelle adesso. Il solito gioco di ruolo. Credo che<br />

ci siano anche tante persone con cui mi capisco e che<br />

capiranno le canzoni e che ci troveremo ai concerti e<br />

dopo i concerti e che ci accompagneremo a vicenda<br />

ancora per un po'.<br />

Com'è cambiata la tua vita privata? Com'è andare al<br />

bar a Ferrara oggi?<br />

Come ti dicevo, a Ferrara non mi caga nessuno, solo<br />

ogni tanto se viene qualcuno da fuori c'è questo cortocircuito<br />

che qualcuno mi ferma per strada e addirittura<br />

si stupisce che cammino così tranquillamente per<br />

la città, e poi mi chiede di fare una foto assieme e io mi<br />

vergogno gli dico di no per favore, che se vuole parliamo<br />

finché vuole ci abbracciamo o quello che vuole<br />

ma la foto mi vergogno, ci ho provato ma mi vergogno<br />

e allora questa persona se ne va presa male e probabilmente<br />

va poi su Facebook a scrivere che me la tiro.<br />

In generale la mia vita privata non è cambiata, ho gli<br />

stessi quattro amici di prima, gli unici che sono rimasti<br />

a Ferrara, frequento strettamente le stesse persone e<br />

gli stessi posti, solo che ogni tanto parto e vado a fare<br />

dei concerti e alcuni giornali e siti mettono delle mie<br />

foto brutte con la bocca aperta mentre urlo e alcuni<br />

che non conosco parlano di me quando non hanno di<br />

meglio da fare.<br />

Come hai vissuto il Premio Tenco?<br />

Questa è un'altra domanda ricorrente che mi mette in<br />

difficoltà. Il Premio Tenco sono stati due giorni in cui<br />

io, Giorgio, Enrico Molteni e Daniela che suonava il violoncello<br />

siamo andati a Sanremo a suonare e a bere la<br />

sera e ha sempre piovuto, ma ci siamo divertiti molto.<br />

Eravamo così disorganizzati e fuori dal mondo che nessuno<br />

di noi sapeva neanche che il disco era in finale<br />

al premio Tenco. Così una mattina che de Angelis mi<br />

ha chiamato per dirmi che Canzoni da spiaggia deturpata<br />

aveva vinto io stavo dormendo e quando mi ha<br />

richiamato che ero sveglio sono caduto dalle nuvole e<br />

lui c'è rimasto un po' male. È stata poi una cosa importante,<br />

un mondo diverso che si accorge di una cosa che<br />

viene da un'altra parte, una produzione da zero euro<br />

che vince davanti a produzioni da centomila.<br />

Programmi per il futuro?<br />

Stiamo preparando i concerti e non vedo l'ora di inizia-<br />

re, dopo tutto questo tempo in casa e in studio, di fare<br />

uscire le canzoni e incrociare gli occhi di un po' di persone<br />

mentre suoniamo e pensare cosa faranno delle<br />

loro serate e delle loro vite. Appena finito di registrare<br />

il disco ho ricominciato a scrivere e suonare in modo<br />

compulsivo direi, non so cosa succederà. Credo che andrò<br />

in qualche altra direzione e con qualcun altro. Poi<br />

ci sono alcune canzoni di altri che mi stanno accompagnando<br />

da tantissimo e mi piacerebbe registrarle ma<br />

forse le faremo solo dal vivo. Poi ho preso una batteria<br />

elettronica che fa un po' cagare, ma che passata negli<br />

effetti della chitarra e poi dentro l'ampli diventa una<br />

figata!<br />

12 13


Tu n e-In<br />

Umberto<br />

Palazzo<br />

—Ciò che è più vicino—<br />

Passato e presente, psichedelia<br />

e sesso, globale e locale,<br />

social network e testate surriscaldate.<br />

Lo stato delle cose<br />

rock di Umberto Palazzo.<br />

Testo: Stefano Solventi<br />

U mberto Palazzo si aggira dove in<br />

Italia c'è rock da un bel pezzo. Narra<br />

la cronaca, almeno dagli anni ottanta,<br />

quando circa ventenne suonò garage negli<br />

Ugly Things, prima di condividere un<br />

pezzo di strada assieme ad Amerigo Verardi<br />

nei molto psichedelici Allison Run. Il<br />

colpo grosso lo stava per fare coi Massimo<br />

Volume, però li mollò un attimo prima che<br />

esordissero. A quel punto erano già gli anni<br />

novanta, e Umberto Palazzo aveva maturato<br />

un'idea rock precisa, piuttosto sintonizzata<br />

sulle frequenze di Seattle. Raccolse<br />

all'uopo una band attorno a sé, la chiamò Il<br />

Santo Niente ed esordì - 1995 - con La vita<br />

è facile per il Consorzio Suonatori Indipendenti.<br />

Una formula adulta come nel nostro<br />

paese non capita spesso di udire guadagnò<br />

al gruppo gli apprezzamenti del caso. Il re-<br />

sto è storia: un altro album per il CSI, la soundtrack di<br />

Jack Frusciante è uscito dal gruppo, la crisi psicofisica<br />

del leader che preferisce investire energie nell'attività<br />

di DJ, quindi il ritorno - a dieci anni dal debutto - con lo<br />

stupendo Il fiore dell'agave su etichetta Black Candy. Il<br />

Santo Niente è cambiato nei suoi membri e nell'anima,<br />

ma continua a far perno sull'abruzzese - di Pescara - Palazzo,<br />

dalla calligrafia sempre più densa e incendiaria.<br />

E' passato un lustro da allora, e il destino non ha smesso<br />

un istante di scozzare le carte. Umberto è, tra le altre<br />

cose, uno dei rocker-dj più attivi sul grande social network<br />

blu, nel quale sembra trovarsi straordinariamente<br />

a proprio agio. Ma non ha smesso il vizio del fare musica.<br />

Ho avuto il piacere – stavo per scrivere il privilegio<br />

– di ascoltare una pre-release del debutto solista di<br />

Palazzo, Canzoni della controra. Un disco molto bello,<br />

nato quasi per caso durante la lavorazione di un altro<br />

album, Tuco (vedi in spazio recensioni), anch’esso un<br />

debutto per El Santo Nada, sorta di incarnazione texmex<br />

del Santo Niente. Canzoni della controra avrebbe<br />

dovuto uscire questo settembre, ma c’è stato un contrattempo<br />

piuttosto… prosaico.<br />

Canzoni della notte e della controra uscirà tra<br />

qualche mese, uno slittamento dovuto a strategie<br />

commerciali/promozionali o che altro?<br />

Lo slittamento è dovuto principalmente al diodo che<br />

comandava la ventola del radiatore della mia vecchia<br />

macchina e che la faceva entrare in funzione quando il<br />

motore raggiungeva una certa temperatura. Si è rotto,<br />

la ventola non è più partita e così la testata si è surriscaldata<br />

e deformata. Ho dovuto farla rettificare e nel<br />

frattempo ho anche comprato una Toyota Corolla un<br />

po' più giovane, ma di poco e il budget promozionale<br />

che avevo accantonato andrà via in gomme, cinghie,<br />

olio, filtri e passaggio di proprietà. Quindi per coprire il<br />

buco che si è creato devo vendere le edizioni, cosa che<br />

non volevo fare e che richiede una trattativa paziente.<br />

Nel frattempo abbiamo finito Tuco, il disco del Santo<br />

Nada e la band, che è in forma smagliante, scalpita per<br />

suonare.<br />

E allora avanti con El Santo Nada, roba da mariachi<br />

muti, da cugini malinconici dei Calexico. Ma anche<br />

qualcosa di più, un quid periferico irriducibile<br />

che torna ad ammiccare dalle parti dei balcani...<br />

Per la gente dell'adriatico le frontiere sono due: il<br />

sud e l'est. Il messico fantastico del Santo Nada è un<br />

allegoria del nostro sud. L'est è solo un altro tipo di sud<br />

ed El Santo Nada è gente di frontiera che non appartiene<br />

né a un mondo, né all'altro. San Severo, patria di<br />

Andrea Pazienza, è la nostra Ciudad Juarez. Da lì in poi<br />

inizia una terra incognita senza regole o con regole dif-<br />

ficilmente comprensibili ai non indigeni o iniziati. Un<br />

universo magico e selvaggio, ma soprattutto una terra<br />

di feroce sfruttamento e prepotenza. Tuco è un'allegoria<br />

dei problematici rapporti tra i nord e i sud del mondo<br />

sempre a vantaggio ovviamente dei più ricchi. Tuco<br />

non è solo l'erede bastardo del personaggio reso immortale<br />

da Eli Wallach e Sergio Leone. Tuco è qualsiasi<br />

persona che cerchi di sottrarsi ad una situazione svantaggiata<br />

tramite la forza di volontà. Tuco è un messicano<br />

che guada il Rio Bravo. E' un africano che attraversa<br />

il Ténéré su camion stracarico. E' un meridionale che si<br />

sottrae alla mafia. Tuco è un viaggio di emancipazione<br />

ed un romanzo di formazione.<br />

Quando e in quanti avete suonato su Tuco?<br />

Siamo partiti col progetto a maggio del 2007. All'inizio<br />

era semplice musica di circostanza per essere ugualmente<br />

presenti in una situazione in cui non ci saremmo<br />

potuti esibire come Santo Niente. Buona parte del<br />

repertorio, non tutto presente sul disco, è stato scritto<br />

nel primo mese di attività. La cosa ha preso a vivere di<br />

vita propria e ci ha fatto completamente trascurare il<br />

Santo Niente. Ci ha entusiasmato da subito. Poi abbiamo<br />

fatto due distinte sedute di registrazione, a distanza<br />

di un anno ed una terza sessione per il missaggio.<br />

Siamo stati rallentati dai molti impegni dei componenti<br />

la band che alla fine si è scissa in due e a quel punto la<br />

situazione si è sbloccata. La sezione ritmica ha fondato<br />

una nuova band che si chiama Caja Sonora ed è più<br />

operativa in Spagna che in Italia. Io, Alessio D'Onofrio<br />

e Christian Carano abbiamo continuato a suonare sia<br />

nel Santo Niente che nel Santo Nada, ma ora ci sono<br />

due sezioni ritmiche diverse. Nel Santo Nada ci sono<br />

Fabrizio Crecchio e Alberto La Torre, musicisti completi<br />

e veramente ottimi. Nel Santo Niente ci sono i giovani e<br />

agguerritissimi Tonino Bosco e Federico Sergente, che<br />

suonano anche negli Zippo e nei Death Mantra For Lazarus,<br />

due grandissime band. Sono perfetti per il Santo<br />

Niente e gli hanno restituito una grinta che solo dei<br />

ventenni possono avere.<br />

Con quali modalità uscirà Tuco? Ci sono state difficoltà<br />

per la distribuzione?<br />

Per Tuco sogno la pubblicazione all'estero. Dopotutto<br />

è la sua natura di emigrante che lo esige. E se non<br />

si dovesse trovare una distribuzione lo venderemo ai<br />

concerti e on line.<br />

Tornando a Canzoni della controra, hai definito<br />

una specie di "popolare profondo", un narrare ad altezza<br />

d'uomo, simbolico e carnale, che svela le ombre,<br />

le magie, i mostri del quotidiano. E' un modo - il<br />

tuo modo - di fare musica "impegnata"?<br />

Sì, il mio impegno è sempre stato quello di guarda-<br />

14 15


e ciò che più mi è vicino. Da molti anni ho adottato<br />

il motto The reality of my surroundings, dal titolo di<br />

un album dei Fishbone. Penso che il modo migliore<br />

di parlare delle questioni generali, che sono sempre<br />

enormi e lontanissime, sia descrivere fatti minuscoli e<br />

vicinissimi. In questo particolare album si parla di sesso<br />

e quindi può sembrare che ci sia meno impegno, ma la<br />

politica dei sessi è importante. Fondamentale.<br />

Come è nata l'idea, come si è realizzata?<br />

Essendo Tuco un disco strumentale ed un lavoro<br />

collettivo, mi sono trovato con meno impegni a livello<br />

compositivo e soprattutto con il mio studio casalingo<br />

finalmente pronto. Quindi mentre lavoravamo a Tuco,<br />

io scrivevo e registravo altri pezzi. Nel frattempo insegnavo<br />

anche Storia della Popular Music al conservatorio<br />

e avevo voglia di mescolare linguaggi musicali antichi<br />

ed esotici che non avevo mai usato, ma di cui ho<br />

una conoscenza profonda, a quelli che uso da sempre.<br />

Suonare tutto da solo mi ha facilitato il lavoro perché in<br />

questo caso avevo bisogno di avere il controllo totale<br />

dell'arrangiamento e della produzione perché era tutta<br />

una questione di giustezza della miscela. E poi non<br />

sapevo dove stavo andando e lo scoprivo minuto per<br />

minuto. E' stata una bellissima avventura intellettuale.<br />

Mi hanno dato una mano Sandra Ippoliti che canta in<br />

tre pezzi, Tying Tiffany che canta in uno, Luca D'Alberto<br />

che suona la violectra in un pezzo e poi ho sfruttato<br />

un'antica drum track di Gianluca Schiavon, che non sa<br />

ancora di aver suonato in questo disco. Contiene nove<br />

pezzi per trentotto minuti di durata. Ne sono molto, ma<br />

molto fiero. E' un gran disco d'esordio secondo me. Se<br />

potessi scrivere degli emoticon qui andrebbe la faccina<br />

sorridente.<br />

Il rebetico come una bussola formale ed emotiva.<br />

Musica per anime in conflitto, voce di outsider<br />

senza possibilità di remissione. In effetti il rebetico<br />

potrebbe essere per l'Europa quello che il blues è<br />

(stato) per gli USA... No?<br />

Per la Grecia lo è certamente. Il rebetico nasce<br />

dall'esilio delle popolazioni greche che abitavano la<br />

costa turca. I greci di Smirne persero tutto e si ritrovarono<br />

a vivere in una terra che non li desiderava e l'unica<br />

cosa che riuscirono a portare con loro fu la musica di<br />

un altro continente. Nel rebetico c'è nostalgia, disperazione,<br />

senso di perdita, persecuzione, sensualità, droga<br />

e carcerazione, come nel blues e come nel blues c'è un<br />

contenuto musicale alieno che ha finito per colonizzare<br />

la musica del paese ospite. La discendente attuale<br />

del rebetico, la neo kyma, è una forma musicale molto<br />

interessante nel suo integrare presente e tradizione e<br />

andrebbe seguita con più attenzione di quanto non<br />

succeda. In effetti è una delle poche forme di popular<br />

music moderne completamente autonome esistenti in<br />

Europa.<br />

C'è un elemento psichedelico che non demorde,<br />

anch'esso però terrigno, verrebbe da dire mediterraneo.<br />

Che pure innesca legami intensi col fare<br />

musica angloamericano. Il risultato è a mio parere<br />

apprezzabilissimo, è come trovare una base comune<br />

da premesse diverse, dribblando la tipica sudditanza<br />

del nostro rock. Sei d'accordo?<br />

Assolutamente sì. La sudditanza del nostro rock mi<br />

sembra un problema sottovalutato, quando non affrontato<br />

nella maniera più sbagliata. Mi lasciano perplesso<br />

le recensioni che dicono "questo è un disco italiano, ma<br />

sembra americano o inglese al 100%". In genere, lingua<br />

a parte, vuol dire che si tratta di musica totalmente assimilabile<br />

e assolutamente indistinguibile dall'ultima<br />

moda arrivata da oltremanica o oltreoceano. Mi viene<br />

da pensare: e allora? Come può essere questa una cosa<br />

buona? Come può essere buono che non trapeli nulla<br />

della vera personalità delle persone che hanno fatto<br />

questo disco? Che questa musica non appartenga<br />

a nessun luogo e a nessuna cultura se non ai cascami<br />

della globalizzazione e del consumismo? Che questi<br />

musicisti si siano talmente immedesimati nei panni di<br />

qualcun altro da risultare personalmente invisibili? Mi<br />

sembra che tutto ciò superi i confini del rock per entrare<br />

in quelli della pantomima, genere rispettabile e pure<br />

impegnativo, ma che non m'interessa.<br />

Sei molto presente su Facebook, hai un considerevole<br />

numero di amici (quanti?). Al di là delle ovvie<br />

e per certi versi inevitabili ragioni di carattere promozionale,<br />

pensi che ci sia un rapporto più profondo<br />

tra le tue attività artistiche e quelle di "social networking"?<br />

Ovvero: non hai la sensazione che i codici del<br />

web stiano rendendo il "momento" promozionale in<br />

qualche modo complementare a quello artistico?<br />

Ho 4477 amici su Facebook in questo momento e<br />

300 richieste in attesa. Ho il terrore di arrivare a 5000<br />

che è il limite. A me piace il fatto che possa prendere un<br />

pezzo inedito che ho sull'hard disc e in un click metterlo<br />

a disposizione di migliaia di persone. Ho reso disponibili<br />

i miei vecchi album e ho invitato i miei contatti a<br />

scaricarli e i blog a condividere i link e ho avuto 2000<br />

download finora. Questa cosa non rende nulla (costa<br />

pure qualche euro in realtà), ma mi piace tantissimo,<br />

del resto faccio musica perché venga ascoltata il più<br />

possibile e quindi penso che il momento della condivisione<br />

sia importante quanto se non di più di quello<br />

della creazione. E poi ho conosciuto la mia innamorata<br />

grazie a Facebook.<br />

16 17


Tu n e-In<br />

Deerhunter<br />

—Prove da rock star—<br />

Testo: Marco Boscolo<br />

Bradford Cox dentro e fuori i Deerhunter,<br />

una figura essenziale per il pop anni zero<br />

Nel mondo del rock esistono topoi che a volte si<br />

avvicinano pericolosamente ai luoghi comuni,<br />

perdendo qualsiasi sfumatura leggendaria, mitologica<br />

o – semplicemente – di coolness per trasformarsi in<br />

parodie, spesso involontarie (e quindi più gravi) della<br />

figura dell'indie-rocker. Per fare un esempio, un conto<br />

è l'estetica da slacker o da nerd che ha fatto la fortuna<br />

di molti gruppi e musicisti, capaci di prendersi in giro<br />

e prendere in giro con l'arma dell'ironia, spesso accompagnata<br />

da canzoni di ottima fattura come nel caso<br />

dei redivivi Pavement. Altra cosa è, invece, continuare<br />

a prendersi sul serio quando si è persa qualsiasi credibilità,<br />

quando il proprio mondo di riferimenti culturali<br />

è diventato un teatrino di plastica nemmeno più così<br />

luccicante. Guardando solo in casa, basti ricordare due<br />

nomi e si capisce a cosa ci si riferisce: Vasco Rossi e<br />

Luciano Ligabue.<br />

Anche per Bradford Cox c'era questo rischio, per lui<br />

nato nell'America che potremmo definire di provincia<br />

(Atlanta, Georgia) e cresciuto in una famiglia non propriamente<br />

coesa. Affetto dalla sindrome di Marfan, una<br />

rara condizione genetica ereditaria che oltre a presentare<br />

rischi gravi per la salute, fa allungare a dismisura<br />

arti e dita di mani e piedi (e sembra aver affetto, tra gli<br />

altri, personaggi storici come Charles de Gaulle e Abraham<br />

Lincoln, Niccolò Paganini e Sergei Rachmaninov,<br />

oltre a Joey Ramone), Bradford Cox non deve avere<br />

avuto un'infanzia e un'adolescenza particolarmente<br />

semplici, soprattutto perché conditi da un dubbio gusto<br />

per l'abbigliamento di Cobainiana memoria. La sua<br />

eccessiva magrezza è spesso stata confusa per anoressia<br />

(o forse c'è stato davvero anche qualche disturbo<br />

alimentare?) e la sua vita è stata segnata da un karaoke<br />

scovato in un sottoscala di casa. Insomma, c'erano tutti<br />

gli ingredienti per una classica mitologia americana da<br />

underground indie, invece Bradford se ne frega un po'<br />

di tutto e si concentra sui suoi esperimenti sull'Atlas<br />

Sound (il nome della marca che aveva prodotto il karaoke)<br />

che saranno la base della sua inclinazione musicale.<br />

Comincia così l'avventura sonora di Cox, con i Deerhunter<br />

ancora lì da venire e un progetto solista già<br />

pensato e immaginato nella propria cameretta. Ma è<br />

con altri quattro amici, anche loro figli della stessa marginale<br />

Atlanta che si ficca in garage, calcando l'eterna<br />

storia di sogni del rock: suonare, incidere un disco,<br />

andare in tour per il mondo. Una storia che potrebbe<br />

essere stata scritta nel 1965 o nel 1980, e invece è del<br />

2001. La formula di quel consesso di “cacciatori di cervi”<br />

è una mutevole variazione di garage-indie-pop con<br />

forti inserti shoegaze e qualche accenno d'ambient, un<br />

tocco che diverrà via via più importante nel corso della<br />

vicenda Deerhunter.<br />

Il disco di debutto, omonimo o noto anche con il<br />

titolo di Turn It Up, Faggot, arriva quattro anni più tardi<br />

per la piccola Stickfigure. Le chitarre possenti fanno<br />

pensare a un misto di Dinosaur Jr. e Jesus & Mary<br />

Chain adagiato su una ritmica robotica, forse figlia di<br />

quel giocare di Cox con le macchine fin dalla più tenera<br />

età. Due sono i santini che si sentono pervadere<br />

molti anfratti di questi primi Deerhunter: uno è Mark<br />

E. Smith, l'altro il sound abrasivo anni '80 dei Gang of<br />

Four. Dopo la pubblicazione dell'esordio la leggenda<br />

entra davvero nel suo vivo. Pare che sia stata Karen<br />

O degli Yeah Yeah Yeahs a vedere dal vivo la band<br />

all'epoca e a descrivere il live set come “un'esperienza<br />

religiosa”. Scintilla d'amore musicale scaturita al primo<br />

impatto e il nome dei Deerhunter arriva alle orecchie<br />

giuste, facendoli andare in tour con i Liars e vedendosi<br />

spalancate le porte della Kranky.<br />

Ma il periodo che separa l'episodio dall'uscita di<br />

Cryptograms nel 2007 non è facile per la band, che<br />

registra una parte del disco già nel 2005, con le session<br />

rovinate da problemi tecnici e psicologici (attacchi<br />

di panico compresi). La prima parte del disco viene<br />

quindi registrata nuovamente nello studio che li aveva<br />

ospitati per il primo disco e le cose sembrano andare<br />

meglio. Per la seconda metà entrano in studio qualche<br />

mese dopo e finalmente il disco viene alla luce all'inizio<br />

del 2007 e fa mostra di sé nei negozi di tutto il mondo.<br />

L'impatto sugli addetti ai lavori, soprattutto dall'altra<br />

parte dell'Atlantico, è molto positivo, nonostante<br />

la doppia registrazione abbia fatto dare alle stampe<br />

un disco non del tutto omogeneo e sostanzialmente<br />

diviso praticamente in due parti (essendo lo spartiacque<br />

Red Ink). Più garage e spigolosa la prima, sebbene<br />

18 19


aperta da una traccia intrisa di ambient, più melodica la<br />

seconda, che sembra raccontare un equilibrio cercato<br />

e finalmente trovato. Cryptograms non è in realtà quel<br />

gran capolavoro che ci voleva far credere Pitchfork, ma<br />

due cose sono innegabili. La prima è che Bradford Cox<br />

e soci sono una delle realtà più interessanti a emergere<br />

a metà del decennio, in quel periodo di post-tutto<br />

che sembra non trovare più quadrature del cerchio. I<br />

Deerhunter si sollevano sopra la media grazie a una<br />

capacità di creare atmosfere fuori dal comune, mandando<br />

a memoria la lezione di Ride e Slowdive, inbastardendola<br />

con il garage e la psichedelia, sporcandola<br />

di krautrock e aggiornando lo iato wave. La seconda<br />

è che nonostante tutte le ingenuità e qualche caduta,<br />

il disco fa pensare che quella dei Deerhunter sia una<br />

storia solo appena accennata.<br />

E così è, a partire da un 2008 denso di buona musica<br />

firmata Bradford Cox. La prima tappa è l'esordio<br />

ufficiale del progetto Atlas Sound, quello iniziato sul<br />

piccolo apparecchio domestico per il karaoke. Let The<br />

Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel, definito<br />

ambient punk dal suo ideatore, è una summa pop<br />

fortemente sì screziata di ambient, ma dal sapore decisamente<br />

shoegaze. Rispetto alla band maggiore, qui<br />

Cox preferisce rallentare i ritmi e lasciare che la musica<br />

stessa trasogni in liquidi feedback, prendendo a prestito<br />

atmosfere da Sigur Rós e Postal Service, ma sempre<br />

riuscendo a conferire al tutto una connotazione<br />

poppeggiante. Ecco allora che i drone non allontanano<br />

i meno abituati a certe sonorità più underground, ma<br />

servono a introdurli a paesaggi sonori atmosferici capaci<br />

di far viaggiare lontano. O forse vicinissimo, dentro<br />

di sé.<br />

Qualche mese più tardi arriva il secondo episodio<br />

adulto a sigla Deerhunter. In Microcastle le alchimie<br />

sonore della band sono messe a fuoco come mai prima<br />

di allora, in equilibrio delicato che sembra costantemente<br />

sull'orlo di scivolare verso la wave o l'ambient di<br />

krankyana fattura, ma riuscendo quasi sempre a mantenere<br />

la barra dritta per una dozzina di tracce che entrano<br />

in molte classifiche di fine anno. Rispetto al passato,<br />

l'attitudine pop ha vinto, regalando canzoni facilmente<br />

fruibili, infarciti di pastelli acidi e qualche tocco 4AD<br />

che letto in prospettiva sembra una premonizione. Il<br />

definitivo approdo a un pop più ampio è sancito dal<br />

singolo Never Stops, una sorta di aggiornamento 2.0<br />

del Darklands dei fratelli William e Jim Reid, mentre<br />

nella titletrack fanno capolino echi surf da revival<br />

Sixties di fine duemila e non mancano gli irremovibili<br />

riferimenti a Ride e Slowdive. In Microcastle le citazioni<br />

ambient, psichedeliche, garage, wave, punk, post,<br />

kraut e quant'altro sono sostenute dalla felicità della<br />

vena compositiva di Cox e compagni che sembrano<br />

riuscire a interpretare un decennio di totale assenza di<br />

riferimenti definiti frullando tutto in una pietra filosofale<br />

dell'indie attuale che sa di miracoloso e ha il pregio<br />

di suonare personale in ogni sua incarnazione.<br />

Quando nel 2009 dà alle stampe la seconda opera<br />

a nome Atlas Sound, oramai Bradford Cox è una stella<br />

del firmamento indie e i suoi Deerhunter sono pronti<br />

per un salto definitivo nell'empireo. La loro storia assomiglia<br />

a quella dei canadesi Arcade Fire, band di<br />

provincia che dall'indie sembrano in grado di approdare<br />

a palchi mainstream senza perdere in coerenza e<br />

personalità. Nel frattempo l'allampanato cross-dresser<br />

di Atlanta mette insieme un pungo di canzoni da nuggets-delia<br />

che vanno a comporre Logos: un lavoro retrò,<br />

raffinato e impalpabile come organza nera.<br />

In un'intervista rilasciata a Pitchfork in quel periodo,<br />

Cox dichiara che laddove le canzoni del primo Atlas<br />

Sound erano essenzialmente una cosa da laptop e<br />

cameretta e “davvero introverse”, quelle finite su Logos<br />

sono invece frutto di collaborazioni e di una maggior<br />

apertura verso l'altro. L'atmosfera di condivisione si<br />

percepisce dalle ospitate, dal mezzo furto Panda Bear<br />

/ Animal Collective di Walkabout a Laetitia Sadier<br />

che tinge di Stereolab una Quick Canal altrimenti interamente<br />

shoegaze, fino al violino di Sasha Vine dei<br />

Sian Alice Group in Attic Lights: Cox sembra quasi un<br />

vampiro, capace di succhiare ogni buona idea dall'ambiente<br />

che lo circonda, ma sempre restituendola in<br />

qualcosa che suona al cento per cento come suo. Il<br />

secondo disco solista di Cox segna anche il passaggio<br />

dalla Kranky alla 4AD, a completamento di un'evoluzione<br />

già parzialmente segnalatasi con Microcastle.<br />

Come scrivevamo all'epoca dell'uscita del disco, Cox<br />

preferisce addentrarsi in una forma impalpabile di pop,<br />

quasi una sublimazione di una memoria sonora collettiva<br />

che lo rende potenzialmente il demiurgo di una<br />

generazione di musicisti indie pop.<br />

Il passo successivo, anch'esso uscito per 4AD è il<br />

recente Halcyon Digest, probabilmente l'album più<br />

matura a sigla Deerhunter, ma anche il disco più solido<br />

sotto il profilo delle canzoni tra quelli su cui Bradford<br />

Cox ha messo la firma. Più ancora che nel passato,<br />

però, è fondamentale l'apporto del sodale si sempre,<br />

quel Lockett Pundt che divide con Cox la stanza in<br />

tour, l'affitto, le scelte musicali e che con la sua chitarra<br />

elettrica ha determinato sin qui molte delle atmosfere<br />

dark e ambient di tutta vicenda musicale dell'amico.<br />

Si vedano le citazioni byrdsiane di Memory Boy o le reminiscenze<br />

di altri georgiani come i R.E.M. in Revival,<br />

ma anche la capacità di prendere un attacco tipicamente<br />

Arcade Fire e springsteeniano (Desire Lines) e<br />

trasformarlo progressivamente in qualcosa di diverso,<br />

personale e retro-modernista. Anche qui è innegabile<br />

l'amore di Cox per The Jesus & Mary Chain e per le<br />

loro terre oscure che pervadono tutte le composizioni<br />

come fossero uno spirito che dal passato continua a<br />

bussare alle porte dell'immaginario musicale dell'indie<br />

contemporaneo. Quando gli spazi si dilatano e si amplificano<br />

l'inclinazione 4AD del disco, esce anche tutto<br />

il potenziale dream pop della band.<br />

La grande capacità di Cox e soci è far apparire tutto<br />

questo come semplice, naturale, quando in realtà si<br />

tratta del frutto di un percorso lungo, che ha le sue radici<br />

nella cameretta di Atlanta, ma che adesso ha i muscoli<br />

e lo spessore per essere lanciato non solo all'interno<br />

del ristretto mondo dell'indie, ma per conquistare<br />

anche palchi più visibili, come se il processo di maturazione<br />

della band sia stato quello della psicanalisi di un<br />

mondo per poi poterlo piegare alle proprie atmosfere<br />

e visioni.<br />

20 21


<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>S<br />

—All Along The Watchtower—<br />

Dr o p ou t<br />

Uno sguardo alla carriera di <strong>Sufjan</strong><br />

S<strong>teven</strong>s, ovvero un tentativo di<br />

decifrare e ridefinire il ruolo del<br />

cantautore. Scampato, forse, al giro<br />

di ruota degli anni zero.<br />

Testo: Stefano Solventi<br />

22 23


"La disgregazione, e quindi l'incertezza, è propria di quest'epoca. Nulla poggia su<br />

una solida base e su una fede dura. Si vive per il domani, perché il posdomani è dubbio.<br />

Tuttto è sdrucciolevole e pericoloso sul nostro cammino. Il ghiaccio che ancora<br />

ci sostiene è diventato così sottile e noi tutti sentiamo il caldo soffio del vento del<br />

disgelo: qui dove noi camminiamo, fra poco più nessuno potrà camminare." (F. W.<br />

Nietzsche)<br />

Fare il cantautore all'alba degli anni zero non è una prospettiva semplice.<br />

Anzi. Nasconde svolte e insidie tutte da esplorare. Se sei un debuttante,<br />

è un po' come pescare la paperella fortunata: ti affidi alla buona mira, provi<br />

a sbirciare, ma è la fortuna che rimette i conti. Ecco: ci chiediamo oggi,<br />

dopo un primo scorcio di carriera che convenzionalmente abbraccia una<br />

decade - ovvero questo decennio critico e formidabile che ancora dobbiamo<br />

finire di decifrare - com'è andata la pesca per <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s. Non lo<br />

avremmo fatto, forse, se le ultime recenti prove discografiche (l'ep All Delighted<br />

People e l'album The Age Of Adz, usciti a stretto giro di posta nel<br />

ventre caldo del 2010) non avessero suggerito una sorta di resa dei conti,<br />

un raccolto, una disamina. La chiusura di un ciclo che, a partire dall'attitudine<br />

già espansa di <strong>Sufjan</strong>, mira ad un orizzonte sempre più affollato, caotico,<br />

imprevedibile.<br />

C'è insomma la sensazione che Mr. S<strong>teven</strong>s con questi ultimi lavori abbia<br />

voluto marcare un segno forte rispetto al senso del suo percorso espressivo,<br />

maturato infine come sguardo sulla contemporaneità, oltre gli argini di<br />

un repertorio che da sempre, ad onor del vero, ha coltivato aperture che ne<br />

scompaginavano qualsivoglia solco personalistico. Con risultati non sempre<br />

straordinari, talvolta neanche convincenti, come è del resto normale da<br />

parte di chi si prende il rischio di esplorare, di esplorarsi. Inseguendo nel<br />

farlo frequenze anche improbabili, augurandosi di azzeccare la rivelazione<br />

come una sintonia improvvisa, come un segreto geografico e sentimentale.<br />

Canzoni quindi come uno scherzo del destino, lo struggente collasso della<br />

cultura nella memoria, della società nella cronaca, del sogno nel racconto.<br />

Un de s t i n o ne l no m e<br />

<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s: cognome standard che più standard non si può, nome esotico<br />

causato dall'infatuazione (passeggera) dei genitori per la comunità<br />

sincretistica islamico-cristiana dei Subud, il cui capo spirituale suggerì loro<br />

di ispirarsi alla figura di Abu Sufyan - figura cardine dell'Islam primigenio -<br />

per battezzare il nascituro (per la cronaca, <strong>Sufjan</strong> significa: "viene con una<br />

spada"). Oggi che possiamo individuare nella polarizzazione e globalizzazione<br />

dello scontro tra modello liberista (o occidentale tout court) e neointegralismi<br />

islamici uno degli argomenti portanti di questo primo scorcio<br />

di millennio, determinando uno stato di tensione permanente tra posizioni<br />

ideologiche sempre più distorte, è lecito vedere in quell'accostamento<br />

anagrafico il marchio di una predestinazione: allo sguardo mai meno che<br />

duplice, alla inevitabile ricomposizione di ogni conflitto in una "crisi" che ti<br />

porti addosso come un altro strato di pelle. Nella sua musica, fin dai primi<br />

lavori, accade una specie di lotta subliminale tra domini formali estranei<br />

ma sovrapponibili, tra la dimensione tradizionale sedimentata in manufatto<br />

pop e l'elemento esotico/alieno, tra le istanze indie-folk e le trame sintetiche,<br />

tra la definizione di un solco espressivo ed il suo scompaginarsi in<br />

dieci, cento, mille rivoli.<br />

24 25


Nato a Detroit il 1 luglio del 1975, <strong>Sufjan</strong> si spostò ancora bambino a<br />

Petoskey, 6000 anime adagiate sulla sponda nord est del Lago Michigan,<br />

dove frequenta prima la Harbor Light Christian School e quindi la rinomata<br />

Interlochen Arts Academy, abbozzando un percorso formativo senza indugi<br />

che lo vedrà poi studente del prestigioso Hope College di Holland, istituto<br />

privato di belle arti. E' in questo scenario che compose e incise A Sun<br />

Came. Già in possesso di una buona pratica con una pletora di strumenti<br />

quali banjo, pianoforte, chitarra, oboe e batteria, da qualche tempo - metà<br />

anni novanta - aveva allestito un'etichetta - la Ashtmatic Kitty Records - e<br />

messo in piedi una folk band, i Marzuki (dal nome di suo fratello, maratoneta<br />

professionista), che vedeva nel ruolo di chitarrista e cantante la brava<br />

Shannon Stephens. Nello stesso periodo <strong>Sufjan</strong> iniziò a collaborare con<br />

la Danielson Famile, band del New Jersey capitanata da Daniel Smith e<br />

dedita ad una interessante contaminazione tra pop alternativo e gospel,<br />

tra arguzie freak e misticismo bucolico. Entrambe le situazioni vedevano<br />

già il Nostro alle prese con un'idea di spiritualità composita e informale,<br />

annidata nelle manifestazioni pop del quotidiano, il cui portato di meraviglia<br />

è solo dissimulato - e non estinto - dalla sua banalizzazione. In altre<br />

parole, è il caso di sottolineare, sembra che l'avventura sonora di S<strong>teven</strong>s<br />

inizi come un tentativo di recuperare la meraviglia pop malgrado la sua<br />

banalizzazione.<br />

Esaurita l'esperienza Marzuki, era dunque tempo di avventura solista: al<br />

già citato A Sun Came (Asthmatic Kitty Records, 6.5/10), segue pochi mesi<br />

dopo Enjoy Your Rabbit (Asthmatic Kitty Records, 6.8/10). Il primo venne<br />

inciso ad Holland, il secondo a New York, dove <strong>Sufjan</strong> si recò per seguire<br />

un master di scrittura creativa alla New School for Social Research. Tra i<br />

due lavori passa un intero universo espressivo. A Sun Came è un autentico<br />

zibaldone lo-fi con escursioni esotiche, è il benedetto eccesso di vita di uno<br />

studente con fregole etniche ma pur sempre cresciuto ascoltando Beck,<br />

Sebadoh e Pavement con qualche deviazione più marcatamente psych<br />

dalla fibra anche sixties. Un album in cui le intenzioni eccedono i risultati, a<br />

partire dal numero dei pezzi (ventuno), però non privo di ottime intuizioni<br />

e già una certa personalità.<br />

La scaletta di Enjoy Your Rabbit mette invece in fila quattrodici pezzi<br />

sintetici dedicati ai dodici segni zodiacali cinesi, al cui bestiario si aggiungono<br />

un gatto asmatico e un non meglio precisato "Nostro Signore". Un<br />

po' Matmos e un po' Oval, con un estro post che ricorda dei Gastr Del<br />

Sol giocosi o una preveggenza degli imminenti The Books, la calligrafia<br />

digitale di <strong>Sufjan</strong> dimostra una disinvoltura stupefacente, si disimpegna in<br />

un immaginario da ludoteca di marzapane, carte da parati manga e squarci<br />

di vaporoso misticismo. Se pure è plausibile interpretarlo come esercizio<br />

di stile o divertissement, è a suo modo un punto di non ritorno. Assieme al<br />

predecessore segna gli estremi di un ventaglio stilistico che aveva appena<br />

iniziato a svolgersi. Ad indagarsi.<br />

Ca r t o l i n e da l C e n t r o de l mo n d o<br />

Quelle due prime prove non bastarono a proiettare il nome di <strong>Sufjan</strong><br />

S<strong>teven</strong>s nel giro importante del pop-rock alternativo, ma era solo questione<br />

di tempo. Il terzo lavoro Greetings From Michigan, The Great Lake State<br />

(Asthmatic Kitty Records, 7.7/10) piovve nel bel mezzo del 2003 con le<br />

stimmate del disco-fenomeno, quello di cui non puoi non parlare. Le note<br />

di presentazione lo indicavano come il primo capitolo di un progetto che<br />

avrebbe dovuto prevedere un album per ogni stato dell'Unione, uno per<br />

ogni stellina della bandiera. A partire, ovviamente, dal suolo natio. Molti,<br />

come il sottoscritto, la considerarono una sparata un po' furba e un po'<br />

spaccona, o in alternativa il proclama velleitario di un autore più ruspante<br />

che realista. In pochi, forse nessuno, gli concessero pieno credito. In realtà<br />

non era stato messo a fuoco il vero punto della questione: perché un autore<br />

tanto capace e profilico sentiva il bisogno di fornire un pretesto ed un<br />

contesto così forti, per non dire debordanti, alla propria musica? Solo gli<br />

sviluppi futuri avrebbero abbozzato una spiegazione, una specie di risposta.<br />

All'epoca potevamo al più prendere atto di un album straordinariamente<br />

ispirato, eclettico, fluviale. E appassionato. <strong>Sufjan</strong> fa vagare il suo sguardo<br />

26 27


sulla quotidianità ad altezza d'uomo, spedisce cartoline affettuose che si<br />

rivelano il lato scintillante di una commossa e a tratti cupa elegia del quieto<br />

vivere. La tavolozza dei colori è una sarabanda ammaliante di easy listening<br />

e jazz, intrecci vaudeville e Tin Pan Alley sfumati post-rock, memorie prog<br />

e fregole latine, il folk come una trama che sostiene e avvolge, il gospel la<br />

dissolvenza che stempera i margini. Chitarre e pianoforti, xilofoni e banjo,<br />

fiati e percussioni, il controcanto etereo e dolciastro di Megan Smith della<br />

Danielson Famile: ingredienti dosati con garbo inquieto (Holland, Say Yes!<br />

to M!ch!gan!), con frugale trasporto (Sleeping Bear, Sault Saint Marie, la magnifica<br />

Vito's Ordination Song), con incontenibile frenesia (Detroit, Lift Up<br />

Your Weary Head!), come a definire una classicità scossa, la cifra vibrante<br />

di un autore sospeso in una molteplicità di memorie, prospettive e aggetti<br />

poetici.<br />

E' un disco gradevole e toccante, un po' bizzarro e vagamente eccessivo,<br />

che proprio in questo eccedersi nutre una garanzia di autenticità: è la testimonianza<br />

del coinvolgimento di <strong>Sufjan</strong>, interprete dolcemente flemmatico,<br />

per la terra che ha rappresentato lo sfondo reale della sua esistenza,<br />

divenuta ormai location sentimentale - virtuale - di un'espressività poliedrica.<br />

Il quadro della situazione a quel punto era già chiaro: avevamo a che<br />

fare con un giovane talentuoso dalle attitudini balzane, un genio dispersivo<br />

con tante idee ma bizzarre e a tratti imbizzarrite.<br />

Stante questa anomalia, l'uscita a distanza di un anno del quarto album<br />

Seven Swans (Asthmatic Kitty Records, 7.2/10) lasciò oltremodo interdetti,<br />

visto che si trattava di un album "normale". Una raccolta di canzoni folk<br />

asperse psych e condite con un pizzico di elettronica (colta nel solco tra<br />

valvolare e sintetico): nient'altro. L'unica bizzarria, se così la si vuol vedere,<br />

stava nel sogno che avrebbe ispirato lo S<strong>teven</strong>s, sette cigni indimenticabili<br />

e sconcertanti ai quali l'album - al di là del titolo - era in un certo senso dedicato,<br />

anche se non per questo sembra il caso di definirlo un concept. Prodotto<br />

da Daniel Smith, è disco dal suono assieme frugale ed etereo, il banjo<br />

ingrediente principale assieme alla voce, sempre più levigata e inquieta, in<br />

cerca di un intimismo tra il mistico ed il malinconico.<br />

Non per questo smetti di avvertire cortocircuiti di passato nel presente,<br />

da una parte le palpitazioni crosbyane di Abraham e dall'altra il collage ciberacustico<br />

vagamente Califone di The Devil's Territory, e ancora i languori<br />

seventies nella strumentale Sister o una The Transfiguration che fa rimbalzare<br />

particelle melodiche Xtc in un teatrino mutante M.Ward. La tempra<br />

crepuscolare già apprezzata in Michigan trova nuovi notevoli esemplari in<br />

tracce come Size Too Small e We Won't Need Legs To Stand, la voce un tappeto<br />

d'ombre su cui germogliano arpeggi che sembrano possedere una felicità<br />

segreta. E' disco insomma di quelli che sanciscono statura e maturità.<br />

Paradossalmente anomalo, nella sua sostanziale convenzionalità, rispetto<br />

ad un repertorio precedente (e futuro) ben poco convenzionale. Un futuro<br />

che non ne voleva sapere di attendere.<br />

lo ts U n a m i ip e r p o p de l r a g a z z o invisibile<br />

Tempo pochi mesi, anno 2005 ormai, ed ecco arrivare sugli scaffali<br />

<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s Invites You To: Come On Feel The Illinoise (Asthmatic Kitty<br />

Records, 8.0/10), seconda tappa del viaggio musicale attraverso gli stati<br />

dell'Unione. Il canovaccio ricalca quello del Michigan, un'escursione tra<br />

immaginario e Storia, sogno e miseria, tragedia e memoria, ora frenetico<br />

zibaldone e ora ritratto affettuoso, ironia e lirismo come due frequenze armoniche<br />

che s'intrecciano in un accordo talvolta incantevole, talaltra sconcertante<br />

(a partire dai titoli, spesso vere e proprie dichiarazioni d'intenti).<br />

Le ventidue tracce, compresi gli intermezzi strumentali, lasciano intendere<br />

una prolificità notevole che diventa sbalorditiva sommando le altre ventu-<br />

28 29


no di The Avalanche: Outtakes and Extras from the Illinois Album (Asthmatic<br />

Kitty Records, 6.8/10), raccolta quest'ultima che a dire il vero probabilmente<br />

non avrebbe neanche visto la luce senza i favorevoli riscontri di<br />

critica e vendite di Illinois.<br />

Riscontri meritatissimi per quello che apparve subito come un istant<br />

classic, con la sua capacità di proporre una trama complessa ma avvincente,<br />

il punto di vista che galleggia tra intimità dolorosa e febbrile appartenenza,<br />

toponimi e personaggi (poeti e serial killer, presidenti e jazzisti...) nominati<br />

come un mantra gelatinoso con l'obiettivo preciso di far vibrare il cuore<br />

infranto dell'American Dream. A partire da una sensibilità giovane, dall'arguzia<br />

fragile di uno studente (o ex studente) che vive il proprio territorio<br />

come una promessa sul punto di tradire, un carosello di segni didascalici ed<br />

esistenze smarrite, un groviglio formidabile di radici sfilacciate nelle quali<br />

malgrado tutto pulsa ancora vita.<br />

La "location" musicale è una forma pop carpita al cantautorato country<br />

e ad una certa coolness cameristica, passando dal folk più pacato alla psych<br />

contagiata vaudeville, dalla rumba al minimalismo con persino qualche innesco<br />

power pop, in modo da abbozzare una formula assieme tradizionale<br />

ed eversiva, integrata ed apocalittica. Canzoni come Chicago possiedono<br />

enfasi Paul Simon stemperata in un'epica che diverrà tipica Arcade Fire,<br />

Jacksonville è un distillato leggero Neil Young, The Man Of Metropolis Steals<br />

Our Hearts è una mini suite che centrifuga il neo power dei New Pornographers<br />

e il bucolico deliquio Polyphonic Spree, The Black Hawk War un<br />

orchestrale discendente da visioni Brian Wilson e Beatles, Out Of Egypt<br />

una fatamorgana seriale tra Stereolab e Gastr Del Sol, mentre John Wayne<br />

Gacy, Jr. sembra proprio la madre di tutte le ballad tenere e crudeli. <strong>Sufjan</strong><br />

è dentro e fuori l'alveo conformista, è l'istrione magniloquente e il ragazzo<br />

invisibile della porta accanto, è lo sperimentatore un po' folle, il credente<br />

allibito ed il busker che ti accarezza la malinconia.<br />

Nel caso di Illinois parliamo di capolavoro anche perché definisce, probabilmente<br />

in termini assoluti, il ruolo e la funzione di S<strong>teven</strong>s cantautore:<br />

un'intelligenza polimorfa e disallineata come testimone dello tsunami semantico<br />

e culturale contemporaneo, dell'implosione sincretistica (e relativistica)<br />

della spiritualità, della contraddizione permanente tra identità territoriale<br />

e accessibilità del mondo. Infine - ma importantissimo - della crisi<br />

dell'idea di Stati Uniti come faro egemonico, una crisi profonda che investe<br />

i macro sistemi economico/militari ed il microcosmo morale del cittadino,<br />

scuotendo fino nell'intimo le basi stesse dell'esistenza civile e individuale.<br />

Ecco spiegata quella specie di rassegna del DNA storico/culturale statunitense,<br />

la rievocazione di un Frank Lloyd Wright e del killer John Wayne Gacy<br />

Jr, dell'icona pop Superman (che la DC Comics gli contesterà per la copertina<br />

dell'album) e di Abraham Lincoln, senza scordare anonimi protagonisti<br />

del quotidiano come i lavoratori della Rock River Valley.<br />

Cr i s i mistiChe, ap o C a l i s s i sp e t t a C o l a r i<br />

Come intimorito da tanta impresa e dal conseguente successo di pubblico<br />

e critica, <strong>Sufjan</strong> vivrà negli anni successivi una fase di crisi creativa.<br />

L'uscita di Song For Christmas (Asthmatic Kitty Records, 7.2/10) nel 2006<br />

non deve ingannare: trattasi della raccolta di ben cinque album dedicati al<br />

tema del Natale a partire dal 2001, in sostanza una collezione di cover (da<br />

Silent Night a O Come O Come Emmanuel) e inediti a tema per un totale di<br />

42 pezzi in una confezione deliziosamente ipertrofica (stickers, illustrazioni,<br />

piccoli racconti scritti dallo stesso <strong>Sufjan</strong>, video e persino un saggio natalizio<br />

ad opera dello scrittore Rick Moody. Un'operazione un po' alla Phil<br />

Spector in nuce, una chicca per fan ma anche il necessario complemento<br />

dell'aspetto traditional-kitch - con aspersioni mistiche - del Nostro, la cui<br />

meditazione sul lato spirituale del pop è più sostanza che forma, vera e<br />

propria bussola poetica.<br />

Tuttavia, per i successivi tre anni non si sentirà parlare di <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s<br />

se non in occasione di qualche collaborazione di sponda (con la Danielson<br />

Familie, Rosie Thomas, The National e DM Stith tra gli altri) e per certe<br />

dichiarazioni concernenti la crisi d'ispirazione che lo avrebbe colto. Occorre<br />

attendere il 2009 per un nuovo album a suo nome, e si tratterà di un lavoro<br />

svolto su commissione per la Brooklyn Academy of Music. The BQE (Asthmatic<br />

Kitty Records, 6.0/10) è una faccenda di pop orchestrale che travalica<br />

se stessa, un esercizio di stile che cade nel pacchiano giusto un attimo prima<br />

di affascinare, un po' il nipotino ironico e arty di Atom Heart Mother.<br />

Possibile vederlo come un pretesto per tornare a fare musica, perché forse<br />

senza un pretesto così pervadente sarebbe stato impossibile, e comunque<br />

pur sempre tentando di battere nuove strade, qualcosa di molto diverso,<br />

che segnasse uno strappo da Illinois. Ma <strong>Sufjan</strong> è chiaramente fuori contesto,<br />

gioca con gli elementi di un gioco più grande di lui, azzeccando tuttavia<br />

una chiave creativa quasi goliardica che non spiace. Da qui al presente<br />

è quasi un attimo.<br />

L'ispirazione lo coglie di nuovo di lì a poco, tanto che il 2010 vedrà due<br />

uscite del Nostro: quel All Delighted People EP (Asthmatic Kitty Records,<br />

7.4/10) che in realtà copre un'ora di musica per otto tracce a rotta di collo in<br />

un immaginario seventies condito di sostanze psicotrope, tremori esistenzial/sentimentali,<br />

incenso e timor d'apocalisse; infine l'ipertrofico The Age<br />

Of Adz (Asthmatic Kitty Records, 7.4/10), praticamente un frullato generoso<br />

del <strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s passato e presente con qualche soncertante prospettiva<br />

di futuro. Entrambi i lavori sembrano suggellare quel senso di missione<br />

cantautorale che già abbiamo delineato, ovvero adeguata alle istanze del<br />

decennio che va a concudersi. Anni (zero) che hanno messo il musicista<br />

con le spalle al muro, hanno squadernato tutti i trucchi, determinando un<br />

disincanto totale ma anche un ventaglio formidabile di possibilità.<br />

<strong>Sufjan</strong> S<strong>teven</strong>s fa di se stesso un cantautore onnicomprensivo, pratica<br />

una versatilità incontenibile (stilistica e poetica) perché - suggerisce - non<br />

gli è possibile fare altrimenti. E' il testimone di un'epoca, della sua abbondanza<br />

tragica e sterile, dell'accalcarsi di segni come scorie di una comunicazione<br />

in cortocircuito, dell'intersecarsi slevaggio di testimonianze e<br />

progetti. Un'epoca incapace di un discorso lineare, condannata alla logica<br />

della rete in ogni aspetto del suo procedere. E' questa insomma l'epoca<br />

della grande alluvione, ed il cantautore è una torre di guardia tra i flutti.<br />

Si aggrappa al suolo (alla propria terra) con la foza disperata della sensibilità,<br />

a quel che resta della fede e dell'amore per il passato (la Storia),<br />

all'ironia perché la battaglia si gioca pur sempre in una dimensione che<br />

non fa morti né feriti (non tangibili, almeno). Ma non può fare a meno di<br />

venire scosso e spazzato dalla corrente. In un certo senso lo desidera, perché<br />

vi riconosce il proprio destino. Ed è uno spettacolo (nuovamente) meraviglioso.<br />

30 31


napoli<br />

caput<br />

mundi<br />

Dr o p ou t<br />

Tre rizomatiche figure dell'avant tra<br />

interconnessioni, pars destruens e<br />

Napoli, tangente invisibile.<br />

Testo: Salvatore Borrelli<br />

—Weltraum,<br />

A Spirale,<br />

Zero Centigrade—<br />

C ittà scissionista, Napoli. Caotica, affamata, zeppa di contraddizioni<br />

al punto da essere essa stessa sinfonia noise, psicotropi geografica.<br />

Napoli non è metropoli, quanto grumo di vicoli, stradine, cunicoli differenziati<br />

con ognuno una sua musica interna: quella delle sovvenzioni<br />

spropositate per Piedigrotta, le suburbane Piazza Mercato, Forcella, Sanità,<br />

con le feste di piazza per banditi locali su banchetti neo-neomelodici,<br />

fino alle inaccessibili sfilate di posillipini del Teatro Sancarlo, avamposto<br />

e ultima rappresentazione del baronato monarchico.<br />

Napoli è tutta riversa nelle sue antichissime distinzioni vassallatiche<br />

tra zona alta e zona bassa. Città parassitaria divisa tra San Gennaro, Pulcinella<br />

e pizzerie che spuntano come funghi. Luciano Cilio, ed erano gli<br />

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anni Ottanta, già sentiva la morte in atto: il suo suicidio fu la resa del dialogo.<br />

Tuttavia l’anarchia è portatrice di libertà, di caos. Di desiderio rizomatico,<br />

trasfigurativo, performativo, che sono i tre elementi principali di questa<br />

microfetta avant, che, passando a Napoli, potrebbe capitarvi di vedere.<br />

Sia chiaro: Napoli e il suo immaginario sociale hanno poco da spartire<br />

con questa particolare fenomenologia della disconnessione avant, tuttavia<br />

non è un caso che si sia formato un groviglio di collaborazioni, partecipazioni,<br />

microfestival, tutti all’interno di questa città-inferno. L’esiguo numero<br />

di locali adatti e la pressapochezza gestionale hanno fatto in modo che il<br />

discorso avant si focalizzasse in due piccoli ma importanti luoghi-crocevia:<br />

Oblomova, ovvero ex-Demos, storico nei dischi, e Perditempo, libreriabar.<br />

Non si tratta di posti pensati per concertare quanto i soli due luoghi ad<br />

avere accolto scelte di musica altra. Con un’ospitalità che non raggiunge le<br />

60 unità, hanno fornito uno spazio affinchè artisti di diversa estrazione potessero<br />

organizzarsi pubblicamente. Perditempo ed Oblomova non hanno<br />

condiviso il formato dell’associazione culturale, né quello più sinistro delle<br />

sovvenzioni pubbliche. I concerti, da queste parti, si organizzano gratis<br />

con piccoli rimborsi per i musicisti coinvolti. Da questa de-localizzazione<br />

canonica degli spazi sonori agibili, è nata, prima sotterraneamente, poi in<br />

maniera sempre più collaborativa, una piccola scena musicale, che ruota<br />

intorno agli A Spirale. Tutto si muove sotto il segno di poche persone, che<br />

nemmeno si considerano addette ai lavori, che se organizzano qualcosa<br />

lo fanno per pura filantropia: lo staff di Perditempo (Luca Marini, particolarmente),<br />

Fabio e Claire di Oblomova, Francesco “Limone”Tignola che<br />

tiene in vita edizioni Ammagar e il suo gruppo Ne Travaillez Jamais. E poi i<br />

gruppi stessi, ovvero gli A Spirale, i Weltraum, e, in maniera differente, ma<br />

altrettanto incisiva, Zero Centigrade.<br />

a spirale<br />

A Spirale nascono dalle ceneri di Missselfdestrrruction, nel 2002,<br />

ma è di due anni più tardi la formazione a tre, composta da Argenziano,<br />

Gabola, Spazzaferro, chitarra, fiati, spazzole. Da quel momento, sia le<br />

collaborazioni (Bellatalla, Chadbourne, Taxonomy, Psychofagist, Cris<br />

X,Anatrofobia, Jealousy Party, etc..), sia i tentativi di collettivi live, da<br />

Tempia ed @ltera, sono state innumerevoli. E’ il gruppo stesso a spiegarci in<br />

concatenamenti successivi i propri obiettivi: “A Spirale non è una pluralità, è<br />

un morbo, un’ansia, una psicosi, qualcosa che si getta continuamente nell’indifferenziato,<br />

fa musica a partire dal non suonare, dal blocco, dall’incapacità.<br />

Allo stesso tempo nella sua musica non c’è niente che rappresenti tutto questo,<br />

una pratica che è un continuo eccedersi, un evitarsi, evita lo strumento, evita<br />

la musicalità, evita l’arte, evita di pensare a come rappresentarsi. E' una goffa<br />

e pesante relazione, un’intesa mancata, un disturbo autistico ben nascosto,<br />

un discorso muto ma allo stesso tempo un rimorso, una rabbia, una strategia<br />

che uccide, un piano d’attacco, una bomba che lentamente diffonde il suo gas<br />

mortale; un’incapacità agli affetti ma una morbosità al contatto fisico, un raziocinio<br />

snervante, un radere al suolo un territorio, un blocco massivo ad un<br />

piano di sviluppo…”.<br />

Né loro, né le diverse trasfigurazioni interne che hanno dato vita a formazioni<br />

onomatopeiche con intrecci sempre variegati - Asp, ASp/SEC_,<br />

Aspec(t), Tuner+ (tra i due chitarristi Argenziano e Taiuti dei Zero Centigrade),<br />

Strongly Imploded, Agaspastik, Razoj - amano sentir parlare di<br />

napoletanità o scene: “Non so cosa intendi per scena; l’unica cosa che vedo è<br />

un campo di battaglia e quando penso alla gente che si muove in queste fila mi<br />

viene da associarla al MEND in Nigeria, gruppi di guerriglia diffusi, una “leadership<br />

sfuggente”quasi assente. Si agisce nell’ombra, non solo per sottrarsi a una<br />

repressione. Un continuo smarcarsi, un qualcosa di fluido, inclusivo, non proprio<br />

una clandestinità/underground, passa ovunque: città, provincia, centri,<br />

periferia… Si costruiscono pratiche e le si smantellano, si fabbricano armi, le si<br />

fanno esplodere, la cosa più bella è che faccio difficoltà a pensare che questo<br />

cosa possa avere un centro in Napoli; le relazioni, da qui, sono intessute tutte<br />

al fuori. Non ci sono più mappature ma linee di fuga, campi vettoriali, direzioni,<br />

intensità, geografie dinamiche, aggregati di forze, distribuzioni di potenziali.<br />

Oblomova e Perditempo, ma anche il BlackHouseBlues di Avellino, sono<br />

i luoghi in cui si pianificano e avvengono le più efferate battaglie: le bombe si<br />

costruiscono lì. Non è Napoli. Sono i luoghi che hanno assicurato, nel deserto<br />

del reale, nella difficoltà di stringere relazioni al di fuori dalla loro stessa mercificazione,<br />

un modo per far emergere le affinità non solo di tipo musicale”.<br />

Dei dischi pubblicati finora, tra collaborazioni, cd-r ed ufficiali, si supera<br />

la dozzina. Fino all’ultimo importante cofanetto Viande su Die Schachtel,<br />

che racchiude 10 dischi, uno per improvvisatore, e che dovrebbe rappresentare<br />

ciò che di più valido c’è nella musica impro italiana. “A parte il primo<br />

disco, un vagito neonatale, il percorso che unisce Gariga, Agaspastik e porta<br />

fino all’imminente Viande non ha la linearità che sembra emergere dallo<br />

scandire delle uscite; alcuni pezzi di Agaspastik sono nati prima di Gariga, ma<br />

per la loro natura meno improvvisativa hanno avuto bisogno di ripetute “scremature”.<br />

Di de-arrangiamenti, potremmo dire. I due lavori si sono sviluppati<br />

contemporaneamente, per poi condensarsi poi in due uscite molto diverse tra<br />

di loro, una più spinosa, urticante, lirica a modo nostro, l’altra più scura e di<br />

impatto”.<br />

Gli A Spirale sono noti ai più, e con banale analogia, come la pars de-<br />

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struens degli Zu. Eppure siamo su altre coordinate: flussi amniotico-cerebrali<br />

che slittano tra momenti di raccoglimento energetico come nella<br />

AMM, e talvolta in vere e proprie sfuriate ossessive. Si è spesso parlato di<br />

avanguardie storiche per desrivere le loro piste ferrate, ma dell’avanguardia<br />

hanno solo il pensiero di un limite. Altrettanto poco spartiscono col freejazz,<br />

almeno con quello canonico/accademico tutto centrato sul prestigio<br />

tecnico e la velocità. Piuttosto gli A Spirale potrebbero somigliare ad un<br />

trait d’union tra due teorie opposte ma affini: minimalismo (inteso come<br />

ricerca del vuoto) e decostruzionismo (inteso come de-programmazione).<br />

“Ascoltiamo veramente tanta musica, crediamo ci abbia influenzata tutta,<br />

dall’impro radicale inglese - Evan Parker, Derek Bailey, AMM, Jack Wrigh - a<br />

certe cose dell’impro australiana - Anthony Pateras, Jim Denley -, da certa<br />

scena free form neozelandese - Bruce Russel e gli A Handfull of Dust - al noise<br />

“aktionista” svizzero - Rudolf Eb.er, Dave Phillips, Joke Lanz -, ai Voice<br />

Crack, Gunter Muller, NMPERIGN, Borbetomagus, Karkowsky. Gente che<br />

ci ha fatto pensare che con la musica si può fare tutto, una rivoluzione, un massacro,<br />

un’operazione chirurgica, cambiare le geografie…”.<br />

Una musica fatta di micro-interventi senza anestesia, tessuto per tessuto,<br />

quasi si trattasse di origami o di chimiche allo stato grezzo che s’infrangono<br />

su specchi galoppanti. Materiali stellari di termo durata, di collassi<br />

interpaziali e rigurgiti e rimbrottamenti. Vederli dal vivo è uno spettacolo:<br />

ognuno dietro lo strumento dell’altro scompare per riapparire, quasi si trattasse<br />

di un nascondino, in cui batteria, chitarra e sax preannunciano delle<br />

metafore di vuoto, ed imitano fraseggi incomparabili col flusso amniotico a<br />

cui siamo abituati dal jazz-avanguardia masticato fino ai nostri giorni.<br />

Dei Weltraum, come degli Endorgan, segnalammo i corrispettivi esordi<br />

(per quanto i primi avessero inciso un 3” che però andava in tutt’altra direzione).<br />

Nel frattempo, le attività collaterali di _Sec con Aspec(t) (insieme<br />

agli A Spirale) e Strongly Imploded, con una fitta attività live per tutta la<br />

penisola, hanno dilatato ulteriormente il logo della loro causa: il Rizoma. Se<br />

c’è un termine programmatico per i materiali qui presi in considerazione è<br />

proprio quello di Deleuze & Guattari: una sorta di rizomatica sonora. Rizoma<br />

distillato nella Napoli della resistenza invisibile, quella che non ha dialetti<br />

quanto una lingua minoritaria che sbuca come un vulcano e le sue lave<br />

mobili, i suoi lapilli scompaginati. La musica dei Weltraum, appaiata attorno<br />

ad un plasma germinativo, vibra e crea macchine illogiche, come i suoi tre<br />

strumentisti, tutti discombaciati nella forza triangolare di distruggere i loro<br />

strumenti per decodificarli con istanze decomponibili, labili. “Weltraum è<br />

una parola tedesca che significa spazio siderale, cosmo. Come puoi facilmente<br />

immaginare non è il suo significato a rappresentarci in alcun modo. Un nome<br />

si sceglie per molti motivi, spesso per caso o perché ha un suono interessante,<br />

ma dopo poco ciò che rimane è soltanto la sua referenzialità, l’indicazione di<br />

qualcosa che accade”.<br />

La chitarra di P’ex è un oggetto plastico, tra delays, oscillazioni occulte e<br />

corde residuate, così come la para-elettronica cerebrale di _Sec. Se non è un<br />

Rizoma è William Burroughs, se non sono macchine sono miniature dentro<br />

macrocosmi per uno spassionato Abracadabra. Il sound di Weltraum, che in<br />

linea genealogica potrebbe essere l’ereditiere dei This Heat, o forse una versione<br />

rock di Hotel Parallel di Fennesz, è studiato con sconvolgente beltà<br />

per fare buchi nel terreno, e fuoriuscire dall’altra parte dei subwoofer. Più che<br />

gesticolare attorno alla materia improvvisativa radicale, erompe verso la di-<br />

weltraum<br />

mensione elettroacustica. “Ascoltando il disco si direbbe che non c’è quasi per<br />

niente. In realtà l’avvicinamento all’elettroacustica e a tutto il vastissimo mondo<br />

di sperimentatori e improvvisatori in quel campo ha avuto un’importanza decisiva<br />

per il disco. E’ attraverso queste esperienze che si è consolidato in noi l’interesse<br />

per il suono e il timbro, piuttosto che per l’armonia; per il ritmo e il taglio, piuttosto<br />

che per la melodia. In una parola, per la materia piuttosto che per il concetto.<br />

La materia non ha rimandi, non ha significati reconditi, non ha interpretazione.<br />

Non è nient’altro che quello che è, quello che ti tocca o ti ferisce. Sensazione e<br />

nient’altro. L’improvvisazione, comunque, per noi è un punto fermo. L’interesse<br />

nasce dall’ascolto e dall’amore per alcuni musicisti del free jazz come Albert Ayler,<br />

Sun Ra, Giuseppi Logan, ecc. L’improvvisazione non è, non esiste, in quanto<br />

cambia in continuazione e questa è la sua condizione assoluta. I Weltraum<br />

sono il miscuglio di una sensibilità industriale (Swans, Godflesh, Techno Animal,<br />

This Heat), di un fascino rock o math-rock (Don Caballero, Laddio Bolocko)<br />

e di una pratica noise e improvvisativa (Sightings, Moha, Starfuckers, Lasse<br />

Mahraug, Otomo Yoshide)”. Una versione poco italiana e molto giapponese<br />

(gli Endorgan sono assai similari a Merzbow) di una elettroacustica-postrock<br />

dove pedali, computer e batteria trovano un accordo come in pochi e<br />

rari casi. “In "Sy" c'è molto ferro: barre metalliche con piezoelettrico, lattine, campane,<br />

ferraglia in genere. La chitarra è spesso preparata con inserimenti di molle<br />

e altri oggetti tra le corde. La batteria ha due timpani. L'elettronica è un ibrido di<br />

analogico e digitale: il sintetizzatore analogico è spesso processato attraverso il<br />

computer, e l'uso "suonato" di campioni e manipolazioni dà al tutto un'impronta<br />

molto noise e materica”.<br />

Due esordi profondamente alienanti, dall’impianto ferroso e vulcanico,<br />

che si smaterializzano su cristalli e orientamenti incerti, ribadendo quell’in-<br />

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quieto equilibrio tra materia ed antimateria. Non rock quanto microorganismi<br />

autoriproduttivi, particelle di DNA, direzioni che si sbranano lungo il<br />

tragitto che sembra un concorde impazzito per una guerra futura, un’irruzione<br />

elettrostatica, giocata tutta sul modo in cui gli strumenti smettono<br />

di suonare come li conosciamo e diventano qualcosa di flessibile, amorfo.<br />

“Similitudini molte: siamo io e P’ex, ossia due terzi dei Weltraum, abbiamo una<br />

consapevolezza abbastanza forte del nostro percorso musicale e la riportiamo<br />

in entrambi i progetti. Differenze evidenti: manca la batteria, c’è molta percussione<br />

elettronica rigorosamente suonata live e molto noise di quello sporco, i<br />

pezzi sono molto più basati sull’improvvisazione. Sy è il frutto di più di due anni<br />

di lavoro. La sua realizzazione è il prodotto di un lungo processo di maturazione<br />

e di sperimentazione, dove hanno influito molto sia le precedente esperienze,<br />

sia i nuovi incontri musicali e personali. La decisione di aprire un’etichetta<br />

nasce dall’esigenza di pubblicare Sy e di farlo esattamente come volevamo noi,<br />

curando ogni singolo passaggio della produzione, dalla registrazione, al mixaggio,<br />

al packaging, alla distribuzione. Noi non facciamo dischi per vendere o<br />

per fare soldi, ma il disco è tutt’uno con la nostra attività di musicisti, ci aiuta a<br />

entrare in contatto con altre persone, a instaurare relazioni, a trovare dei concerti.<br />

Non avrebbe senso che qualcuno si occupasse di questo al posto nostro”.<br />

Tonino Taiuti e Vincenzo De Luce, in arte Zero Centigrade, sono una di<br />

quelle constellazioni di difficile collocazione. Prima che musicisti, si presentano<br />

come accaniti ascoltatori e collezionisti di musiche altre, e l’approdo<br />

al tardivo esordio è avvenuto in un’età in cui si è soliti considerare la musica<br />

un'esperienza lontana e superata. “Zero Centigrade è un duo acustico nato<br />

per sperimentare con chitarra e tromba, suoni e rumori che a tratti avessero dei<br />

passaggi armonici quasi a sfiorare la forma canzone. Una musica impossibile<br />

nella sua semplicità: corde sfiorate, stridori atonali, contrappunti frastagliati<br />

e timbri di una tromba acida, uno sbuffo tanto umano quanto animale. Zero<br />

Centigrade nasce da una proposta di Vincenzo, ma anni prima avevo portato in<br />

teatro uno spettacolo che si chiamava Zero e che completai, successivamente,<br />

con altri due lavori che s’intitolavano “Tò con Zero” e “Zerovatt”, tutti scritti per<br />

me da Antonio Fiore. Dietro il nostro moniker non c’è nessun riferimento particolare.<br />

A zero gradi centigradi, l’acqua ghiaccia, diventa immobile generando<br />

forme affascinanti e mutevoli. Generalmente all’immobilità non si associa mai<br />

un atto creativo e questa idea mi intrigava” Anche la natura Napoli-centrica è<br />

più interiore, basata com'è sulla musicalità dei rari interventi vocali di Taiuti:<br />

“Innanzitutto da un’esigenza personale e poi dalla necessità di avere del materiale<br />

da poter far ascoltare agli amici, in quanto siamo due persone fuori da giri<br />

organizzativi e suoniamo raramente dal vivo. Hanno entrambi un’atmosfera<br />

molto “live”, un suono ruvido e saturo e la cosa ci piace”.<br />

Il Taiuti è un attore teatrale e cinematografico (Morte di un matematico<br />

napoletano, Rasoi, I Vesuviani), sceneggiatore (suo lo script di Polvere di<br />

Napoli di Antonio Capuano) e rappresenta quella Napoletanità che non<br />

ritroverete mai e poi mai in nessuna volgarizzazione propagandistica o<br />

pubblicitaria di Napoli. Il De Duce è architetto, e ha imbracciato la tromba,<br />

nella stessa maniera con cui di solito un ateo, improvvisamente, decide di<br />

diventare fervente cattolico. “Napoli è una maledetta città ma è anche una<br />

maledetta fonte d’ispirazione. D’altronde, quale artista non vorrebbe vivere a<br />

Napoli? C’è un rapporto di odio amore tra noi e lei. Vorresti scappare ed invece<br />

resti, trattenuto da una mortificata bellezza. Se si pensa solo alla sua ricchezza<br />

letteraria, quella favolistica del Basile, il lirismo dell’antica canzone, la drammaturgia<br />

di Viviani, Eduardo ecc…E non è un caso se, attualmente, a Napoli<br />

c’è una delle scene “impro” più vive ed interessanti d’Italia”.<br />

Ciò che separa Mississipi John Hurt o Robert Johnson dai Zero Centigrade,<br />

più che un secolo passato, è forse Napoli. Se certe musiche dell’anima<br />

fossero partite qui, in una città in bilico tra frammentazione e pienezza,<br />

brutalità e poesia, non si sarebbero distanziate troppo dall’essere delle forme<br />

sonore così complesse, contraddittorie eppure così nudamente semplici.<br />

Non a caso, quella che chiamiamo Pre-War Folk Music è l’epicentro strutturale<br />

di un casuale e stranissimo modo d’inventare il blues, di far parlare<br />

l’animo, senza che tecnicismi o teorie subentrassero nel suono.<br />

I Zero Centigrade partono quasi da zero in un limbo assai dilatato, ma<br />

profondamente similare, che collega l’avant al blues. Non si considerano<br />

musicisti, non si presentano come intenzionati a costruire discografie perfette,<br />

ma semplicemente estendono i vuoti del loro lavoro, gli spazi architettonici<br />

vuoti e quelli teatrali, ancora più tombali, in un suono dall'ostica<br />

praticabilità. “Abbiamo un’idea di improvvisazione abbastanza personale,<br />

non legata né alla classica jam, né all’improvvisazione radicale alla AMM. L’improvvisazione<br />

per noi è un punto fermo. L’interesse per l’improvvisazione nasce<br />

dall’ascolto e dall’amore per alcuni musicisti del free jazz come Albert Ayler,<br />

Sun Ra, Giuseppi Logan, ecc. L’improvvisazione non è, non esiste, in quanto<br />

cambia in continuazione e questa è la sua condizione assoluto. Il vuoto in teatro<br />

è l’oscuro oggetto del desidero. Ci vuole un vuoto per riempirlo in un pieno,<br />

bisogna sospendere il tragico e far nascere la causa sul nulla, sul vuoto. Il vuoto<br />

è la rappresentazione del cosmo. Noi ci nutriamo di luce e di buio, come di suono<br />

e di silenzio, il vuoto serve nel teatro come nella musica per parlare di un al<br />

di là, o un al di qua. Il vuoto è qualcosa di molto soggettivo, acquista senso solo<br />

in relazione a colui che lo percepisce. Il vuoto, tra le sue tante accezioni, può<br />

essere inteso anche come risultato di un lavoro di sottrazione, di scavo. Uno<br />

scavo che in musica si traduce nella ricerca di semplicità che richiede grande<br />

attenzione e fatica”<br />

A differenza di tutta la scena avantgarde, amano solcare la differenza<br />

prediligendo effetti poco speciali, ovvero gli strumenti (tromba e chitarra)<br />

nudi e crudi, come madre natura li ha inventati. Del blues c’è il pathos, e<br />

del minimalismo c’è il mare magma della ricerca sonora più estrema. E poi<br />

troverete l’harsh-noise (fatto senza pedali), la microtimbrica di fiati di Nmperign,<br />

i fraseggi nostalgici di Loren Connors, il no-input–signal di Sachiko<br />

M, l’aleatoria di Tetuzi Akiyama. Su tutto aleggia il teatro dell’assurdo,<br />

dove non sai mai quel che accadrà. Tra l'altro è appena fresco di stampa<br />

il loro terzo lavoro, licenziato dall'italiana Ripples, insieme al giapponese<br />

Former_Airline, disco di sbalzi dinamici, ossessivo, che ricorda i primi timidi<br />

tentativi di associare la freddezza sferica dell’elettronica modulare del<br />

Giapponese, con le criptiche conversazioni duettate dei Zero Centigrade.<br />

Napoli è un crocevia, il crocevia. Dentro ogni crocevia c'è la fretta del<br />

movimento, l'oscillazione del viaggio. L'Avant ai nostri giorni è un porto<br />

franco, ha più bisogno di velocità e forze centrifughe che di luoghi solidi.<br />

La ricerca in Italia trova qui un luogo baricentrico, ma anche una via di fuga<br />

da cui diramarsi come un rizoma, senza creare alberi, ma solo connessione,<br />

luce e vita?<br />

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Recensioni — cd&lp<br />

AA. VV. - fünf (oSTguT Ton, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: ho u s e, Te c h n o<br />

La Ostgut Ton, è la label personale del giro Berghain/<br />

Panorama Bar, un club berlinese che sta facendo sempre<br />

di più sentire la sua presenza (e potenza) nel panorama<br />

techno e house europeo. La riprova è in queste<br />

fascinose tracce contenute in un doppio cd celebrativo<br />

compilato per i primi cinque anni di attività del locale.<br />

Protagonisti i dj resident e altri personaggi UK di tutto<br />

rispetto quali Luke Slater, Emika e il noto SCB aka<br />

Scuba (trasferitosi nella capitale da circa un anno) tutti<br />

impegnati a comporre tracce ad hoc per la compila.<br />

L'interessante espediente era che ogni brano doveva<br />

partire da - e magari costruirsi solamente attorno a -<br />

field recording catturati nel locale (una vecchia centrale<br />

elettrica).<br />

Il risultato è affascinante. Un affresco post-Berlino con<br />

richiami all’industrial e al post-punk storici che ogni<br />

DJ ha declinato in uno spettro che va dai clangori Einsturzende<br />

ai grigiori Cabaret Voltaire, passando naturalmente<br />

per l’epopea dei Throbbing Gristle, Chris e<br />

Cosey.<br />

Beninteso, l’approccio ha comunque in sè il nerbo<br />

technoide Ostgut, e giusto un pizzico di house, magari<br />

caratterizzato dalla minimal+groove al ralenti che<br />

ricorda il recente esordio di Magda (From The Fallen<br />

Page), come accade nella splendida Down Moment del<br />

citato progetto techno di Scuba (senz’altro uno dei killer<br />

beat di Fünf), oppure nel thriller da sottomarino del<br />

fresco di firma Ryan Elliott, Abatis. In più innumerevoli<br />

flavours: prezioso il contributo Marcel Fengler che al<br />

Berghain è uno dei dj di punta: Shiraz è un incubo deep<br />

su cassa morse, lontane visioni ardkore e un frastaglio<br />

ritmico decisamente tech (quasi una versione auf Berlin<br />

degli Autechre); egregio Daybreak con il groove<br />

house d’antan à la Omniverse calato attorno alla cassa<br />

4 e claps old skool.<br />

Buoni anche coloro che si sono maggiormente attenuti<br />

ai field recording per creare le loro tracce, come Marcel<br />

Dettmann la cui Shelter è un incubo Gristle in piena<br />

regola. Sul lato house c’è, invece, Murat Tepeli con Elif<br />

Biçer, tra Roland e groove ’90 stretchati; e la Chicago al<br />

distorsore di Soundstream con Wenn Meine Mutti Wüs-<br />

ste; mentre sulla techno più vicina alla Minus troviamo<br />

Boris con Rem, degna del miglior Plastikman (ma senza<br />

sbotto), e l’attacco di Cassy in Never Give Up A Mood<br />

Swing (che poi virerà house).<br />

La conferma dell’altissima qualità della Ostgut Ton.<br />

Una compila indispensabile anche per tutti gli amanti<br />

del cielo sopra Berlino.<br />

(7.2/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

AA. VV./AppArAT - dj KicKS (!K7, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: el e T T r o n i c a, d a n c e<br />

Torna pesissimo Sasha Ring sul nuovo corso del DJ<br />

Kicks. E sforna un mix di tutto rispetto dal flavor multidisciplinare,<br />

come già le sue collaborazioni con Ellen<br />

Allien e Moderat ci avevano testimoniato. Che il ragazzo<br />

scapigliato possa fare di tutto con tutto l’avevamo<br />

già capito da mo’: il suono da club nel suo show<br />

sull’etichetta berlinese la fa da padrone, ma viene modulato<br />

con crescendi di intensità che addolciscono la<br />

pillola anche per i non addetti.<br />

Maestoso nell’incipit (stupendo il pezzo di 69), diretto<br />

nel proseguio con le malinconie Telefon Tel Aviv,<br />

squadrato e ossessivo al punto giusto (Luke Abbot in<br />

visibilio Basic Channel), ossessivo in salsa now (Martyn<br />

e il remix di Four Tet per i Born Ruffians), tribalista con<br />

l’ausilio di Ramadanman, ambientale su Thom Yorke e<br />

clubbissimo nel suo inedito Sayulita in esclusiva per la<br />

compila.<br />

L’esito conferma la dichiarazione rilasciata alla stampa:<br />

"Ho bisogno di mixare cose differenti per mantenermi<br />

motivato". Senza stile e per questo con più stile degli<br />

altri. Passaggi morbidi e indolori per uno dei migliori<br />

personaggi che distillano dolcezza dal tunel oscuro<br />

della techno (vedi la stupenda chiusa finale con Tim<br />

Hecker) che rimanda comunque ad una matrice sottostante<br />

dreamy, da sempre caratteristica del ragazzo<br />

apparato. Il comeback della melodia: lacrime e pelle<br />

d’oca per noi.<br />

(7.2/10)<br />

MArco BrAggion<br />

highlight<br />

AfrirAMpo - We Are uchu on Ko (rocK AcTion, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: j a p a p s y c h n o i s e<br />

Se la madre terra vorrà, o il cielo, o chi per essi, suoneranno ancora insieme. Così dicono le Afrirampo,<br />

dopo aver annunciato lo scioglimento, e pubblicato il testamento, oggi a disposizione, dopo sei mesi,<br />

anche alle nostre coordinate sul geoide. A noi non rimane che ascoltare il sapore energico/nostalgico<br />

di We Are Uchu On Ko, capitolo finale del duo japanoisepunk, meteora o sottobosco costante dal 2002<br />

a oggi.<br />

Il pensiero va ovviamente a OOIOO, ma da Occidente si rischia spesso di non godersi le sottigliezze.<br />

E We Are Uchu On Ko è un doppio album pieno di omaggi al cultore rock, di quello che ama tanto<br />

i Grateful Dead quanto i Boredoms. Strepitoso il secondo CD, cavalcata dietro cavalcata, calumè<br />

sopra calumè, freccia dietro freccia di un arco indiano che semplicemente<br />

diremmo acid psych (Sunwave Dance). Hoshi No Uta, divisa in cinque<br />

tracce, è una composizione psichedelica che articola pause e ripartenze,<br />

la tradizione dei Red Crayola e quella dei rumoristi giapponesi. E, ancora,<br />

rarefazioni acide e acidissime galoppate, che vanno a lambire i Lightning<br />

Bolt, pur mantenendo come universo di riferimento il rock americano degli<br />

anni Sessanta, il dolce calore pastorale che si apre all’alba di una notte<br />

piena di funghi.<br />

Sore Ga Afrirampo, tornando al primo CD, ha una chitarra garage esplicita,<br />

ma di fatto la stessa linea d’onda. Più catchy dell’altra metà del cielo di We Are Uchu Ok No (ma sempre<br />

meno degli altri album), le sette tracce del disco uno mantengono un respiro che cortocircuita un tutto<br />

tondo Sixties USA - MC5 compresi (Tou Zai Nan Boku) - con i caratteri del Sol Levante. Paradigmatica<br />

Umi, capolavoro a parer di chi scrive, fatto di trance, porte della percezione, ma anche africanismo<br />

fake - certo, le Nostre sono perdonate, memori dell’esperienza camerunense, a stretto contatto con<br />

tribù pigmee - e chiusura sardo-zen. Altrettanto esemplare Egolo Island, zappiana ed eccessivamente<br />

nipponica, ma garagissima nei riff e nelle strutture che si susseguono; praticamente l’equivalente di<br />

un disco della In The Red. Ecco una buona descrizione di We Are Uchu On Ko: un doppio concentrato<br />

qualiquantitativo di brani che potrebbero fare ognuno da esempio per altrettanti dischi. Speriamo<br />

nella madre terra.<br />

(7.4/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

AA. VV./friendly fireS - Bugged ouT!<br />

preSenTS SucK My decK Mixed By friendly<br />

fireS (!K7, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p-f u n k h o u s e<br />

I principini del crossover indie/dancefloor si misurano<br />

con un mix eclettico su Bugged Out! che sorprende per<br />

lo stile sopraffino dell’innesto. Non si sfora nel baraccone<br />

truzzo, signori: qui house è sinonimo di chicness<br />

che titilla i timpani dei clubbers più esigenti, ma anche<br />

di chi non ha più l’età per sopportare gli afterhours del<br />

cornetto e cappuccio all’alba e si consola con del sano<br />

savoir faire speziato rock.<br />

Il bilanciatissimo trattato dell’arte di mixare dei tre ragazzi<br />

di St Albans - nell’Hertfordshire inglese - va di<br />

lusso su coordinate prog (la stupenda rivisitazione di<br />

Aeroplane per Linsdtrøm & Christabelle), ossessioni<br />

40 41


deep (Rebotini), inni disco (la bella collaborazione giocattolosa<br />

con gli Azari & III da Toronto), il soul di The 2<br />

Bears, esplosioni al laser Novanta (BDI), tocchi che accennano<br />

al fidget (Boo Williams) e cantabilità dei sempre<br />

validi Phenomenal Handclap Band. Come a dire<br />

che si possono ancora coniugare i sapori del ritmo con<br />

un certo sentimento live, che smuove il sangue nelle<br />

vene e fa ballare anche senza l’ausilio di droghe più o<br />

meno pesanti.<br />

Una presa di posizione in sordina che piace per il dosaggio<br />

di elementi altri rispetto al mondo da club (la<br />

stupenda visione/sogno post-balearico di Tom Trago<br />

per dirne una). Regalate un’oretta del vostro prezioso<br />

tempo ai Friendly Fires. Non sia mai che poi anche a voi<br />

scatti il repeat in automatico. Contagioso e seducente.<br />

(7.2/10)<br />

MArco BrAggion<br />

AA. VV./gui BorATTo/Kreidler - differenT<br />

(Boxer, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: am b i e n T , d u b, T e c h n o<br />

La boxer recordings è un'etichetta di Colonia attiva dal<br />

2002 che si occupa, anche attraverso sotto marchi quali<br />

Kickboxer e Boxer Sports, di produzioni techno e minimal.<br />

Different è una compilation inedita che, già dal<br />

titolo, preannuncia una tracklist alternativa alla dance:<br />

tra le produzioni di molti giovani artisti che la label recluta<br />

costantemente (e alcuni nomi noti) troviamo produzioni<br />

ambient, world, down tempo e una manciata<br />

di pop song. In pratica, è una compila chill out ma con<br />

rigore e taglio krauto dove alla psichedelia si preferisce<br />

il taglio tech con ritmi esotico-etnici conditi da smalti e<br />

echi dub in gran spolvero.<br />

Ne viene un caleidoscopio elegante e risaputo per gli<br />

aficionados IDM: Patrick Chardronnet mescola Orb, predicatori<br />

Eno Byrne e Miles Davies (Seeing In The Dark), Extrawelt<br />

rimette in pista i primi Autechre (Yummi), Airbus<br />

Modular rallenta la deep e condisce con ricordi pop (Assembly<br />

Notegram), Stephan Hinz ripesca alcune atmosfere<br />

dei Tarwater (Dry Toast And Half A Grapefruit), mentre<br />

Matzak, con &lz, punta dritto al cantato r’n’b sempre su<br />

basi post-IDM (e questa volta umori Thom Yorke).<br />

Tra i guest famosi: Gui Boratto (deep techno girata<br />

Kraftwerk e eighties per Half Life) e Kreidler (l’etno seventies<br />

e gli attacchi chamber di Venusia) non a caso<br />

messi a inizio scaletta.<br />

Mettiamola così: potrebbe essere vista come l’equivalente<br />

di Nuggets per l’ambient tronica tedesca dei duemila.<br />

Nel bene e nel male. Eleganza soprattutto.<br />

(6.8/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

AdAM frAnKlin - i could Sleep for A<br />

ThouSAnd yeArS (Second MoTion recordS,<br />

SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o s T s h o e G a z e<br />

Album numero tre come solista per Adam Franklin,<br />

coadiuvato stavolta - anche nella ragione sociale -<br />

dalla propria live band Bolts Of Melody. Il chitarrista e<br />

cantante dei Swervedriver ed ex-Toshack Highway,<br />

insiste con la formula del non troppo convincente<br />

predecessore Spent Bullets ma coglie un punto di fusione<br />

più intenso e definito. Il languore onirico figlio<br />

dello shoegaze di ritorno e già debitore del mai troppo<br />

rimpianto Elliott Smith, si arricchisce oggi di torpori<br />

obliqui Big Star (conclamati in Carousel City, striscianti<br />

in She's Closer Than I've Ever Been) e più solenni inquietudini<br />

Tom Petty, mentre una rinnovata verve elettrica<br />

scomoda foschi scenari Jesus & Mary Chain e fregole<br />

Folk Implosion, spingendosi persino ad ammiccare<br />

l'impeto dei Sonic Youth più friendly (I'll Be Yr Mechanic).<br />

Manca un centro di gravità cui saldamente aggrapparsi,<br />

quindi non resta che cogliere al volo le canzoni che<br />

scorrono piuttosto gradevoli, cogliendo il climax con<br />

la trepida I Want You Right Now e riscattando una fin<br />

troppo brumosa Lord Help Me Jesus, I've Wasted A Soul<br />

(misticanza spacey, gospel e desertica) con lo spurgo<br />

power pop conclusivo di Take Me To My Leader.<br />

(6.8/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

AdMirAl rAdley - i heArT cAliforniA (The<br />

Ship, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: l o w-f i p o p<br />

Non che avessimo dubbi su chi, tra i "nonnetti" californiani,<br />

fosse il più dotato. A Jason Lytle lo scorso anno<br />

bastò la bellezza di Yours Truly, The Commuter per convincerci<br />

che, dopo lo scioglimento dei Grandaddy, ci<br />

fosse una vita oltre la semplice dignità. Frattanto, l’iperattivo<br />

ragazzo metteva in cantiere gli Admiral Radley<br />

con l’ex compagno di squadra Aaron Burtch e gli amici<br />

Aaron Espinoza e Ariana Murray degliEarlimart.<br />

Oggi, accantonato il rischio di recensire un lavoro intestato<br />

a Grandimart o Earlidaddy (quella l’idea originale...),<br />

l’ascolto invoglia dapprima al sorriso e poi induce<br />

a collocare il dischetto sotto la lettera "G".<br />

Poiché dove Lytle ricorda il passato prossimo - su tutto<br />

I Heart California, Lonesome Co. e il valzer cantato dalla<br />

Murray The Thread - riemerge la sognante melanconia<br />

che non abbiamo mai dimenticato negli anni. Miscela<br />

di Pavement ed E.L.O. con ombre di Guided By Voices<br />

ancora intatta, benché - com’è logico che sia - quel<br />

tot meno fresca; tuttavia, l’integrità artistica produce<br />

azzeccate variazioni di rotta come chitarre più del solito<br />

aspre in Red Curbs, una stratificata GNDN, l’articolato<br />

omaggio lennoniano Ending Of Me. Il problema è<br />

l’uscita dal seminato di un elettro-rock abborracciato<br />

(orrida I'm All Fucked On Beer; inutile Sunburn Kids) di<br />

cui avremmo fatto a meno. I fan avranno comunque di<br />

che dilettarsi: gli altri assaggino e chissà che il cuore<br />

non gli si sciolga nell’amarezza scintillante di Chingas<br />

In The West e I Left U Cuz I Luft U.<br />

(6.9/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

Alcool eTilico - Alcool eTilico (enzone<br />

recordS, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: r o c k d'a u T o r e<br />

Ci si lamenta spesso di quanto poco passi fra la nascita<br />

di un gruppo e la pubblicazione di un demo o di una<br />

prima uscita ufficiale. Però prendete l'esempio degli<br />

Alcool Etilico da Lipari: inizio nel 1996, diversi cambi<br />

di formazione, ora l'esordio. Dieci tracce di rock d'autore,<br />

arrangiate anonimamente quando non proprio<br />

male (certe scelte di suoni...), cantate con una pronuncia<br />

da strapaese e parecchie incertezze d'intonazione,<br />

dotate di liriche come spesso accade troppo ermetiche<br />

o autoreferenziali. Lì in mezzo da qualche parte nella<br />

landa sconfinata che separa i Marlene Kuntz dai Negramaro,<br />

con l'aggravante delle zavorre appena elencate.<br />

A metà tracklist Nala prova addirittura un mezzo<br />

tango e, a parte che sembra di sentire Le Vibrazioni, è<br />

la conferma di una specie di circolo vizioso tra inutilità<br />

e bruttezza.<br />

(4.8/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

AlVA noTo/BlixA BArgeld - MiMiKry<br />

(rASTer noTon de, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: e l e T T r o n i c a<br />

Il grido strozzato di Blixa Bargeld, tratto distintivo e<br />

tic linguistico del suo codice, usato come campione,<br />

materia su cui sviluppare layer elettronici e glitch. Così<br />

inizia Mimikry, attesissimo debutto sulla lunga durata<br />

della sigla ANBB: alzando la posta, con un quasi-manifesto<br />

programmatico, una dichiarazione di potenziale<br />

tra mr. Bargeld e mr. Nicolai.<br />

La iniziale Fall è in realtà una suite, così come la maggior<br />

parte dei brani. Nascono su alcuni temi e terminano su<br />

altri, lavorano di cesellature raffinate e trovano spesso<br />

un collante molto forte - e tensivo - nella percussività<br />

(Mimikry, o l’ipertensione e le extrasistole di Berghain),<br />

grande matrice ancestrale che bilancia l’algida preci-<br />

sione dell’elettronica e dei concretismi astratti di Alva<br />

e il borborigmo vocale di Blixa. Once Again riprende un<br />

processo ritmico traslato da Zeichnungen Des Patienten<br />

OT, su un refrain inedito per entrambi. Il suono è più<br />

sanguigno degli ultimi Einsturzende, e l’elettronica di<br />

Alva Noto si dimostra vivida, meno algida del previsto.<br />

Il più delle volte l’ascolto si teatralizza - e qui BB è decisivo<br />

- senza che questo sia sempre un bene. Ci si immagina<br />

la performatività della coppia, la presenza scenica<br />

di Bargeld, l’affilatissima elettronica di Carsten. Blixa si<br />

mette in gioco, tenta tutto lo spettro espressivo dei registri<br />

che la sua voce può produrre, e ce ne dà prova in<br />

I Wish I Was A Mole In The Ground (in versione estesa rispetto<br />

all’EP), peraltro infiorettata di mestiere da Noto,<br />

così come nei miagolii di Katze. Red Marut Handshake<br />

- mutuata anch’essa dall’EP che ha dato il via alle pubblicazioni<br />

congiunte del duo - se ne va con un down<br />

tempo accelerato e perturbato da elettroniche in chiaro<br />

e l’onnipresente para-declamazione del Bargeld.<br />

Bersteinzimmer (long version) colpisce con struggenti<br />

ambientazioni e atmosfere da canzone teutonico-mitteleuropea.<br />

Mimikry è un calendario di colpi da maestro, da parte<br />

di due posizioni tangenti ma non ancora sovrapposte.<br />

AN e BB sono due penne e due teste distinte, e questo<br />

rimane, così come il giudizio che avevamo dato al<br />

precedente EP, di cui questo album non è di fatto che<br />

un’estensione. Le aspettative create nei primi due minuti<br />

dell’album sono, se non ridimensionate, virate in<br />

attenzione alla statura, al mestiere, alla bravura dei<br />

comprimari. Bene così, ma a questo punto ci aspettiamo<br />

un passo in più<br />

(6.9/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

AMiinA - puzzle (AMiinAMuSiK, SeTTeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: ch a m b e r f o l k-r o c k<br />

A tre anni dal precedente long playing, Kurr, le quattro<br />

Amiina non sono più quattro ma una piccola comunità.<br />

Già un eppì in tiratura limitata aveva indicato il<br />

nuovo corso: un emancipato ensemble allargato a sei<br />

elementi dal sound più corposo, organico, variegato, e,<br />

se vogliamo, anche maggiormente rock.<br />

Con Birgir Jón Birgisson al desk, le islandesi hanno riavvolto<br />

il nastro post-rock tanto caro all’Islanda e sono<br />

ripartite daccapo, ridisegnando cioè il chamber folk<br />

degli esordi in una faccenda concreta di ragazzi (i due<br />

nuovi membri Vignir e Maggi) e ragazze raccolti attorno<br />

al focolare. Puzzle ci racconta così di viaggi con la<br />

42 43


mente, epopee (In The Sun), sapori giapponesi (Púsl),<br />

ovvie passeggiate con Mùm e Sigur Rós (Mambo), film<br />

in bianco e nero (Thoka) e a colori (Sicsak).<br />

Coordinate già note a chi aveva acquistato il citato EP<br />

del 2009 (Re Minore), caratterizzato però da tagli più<br />

elettronici e dark rispetto a Ásinn, Púsl e Sicsak. In Puzzle<br />

domina l'approccio suonato, la casa è più grande e le ragazze<br />

intime e sincere come ce le ricordavamo. Le voglie<br />

Mogwai di un brano come Sicsak aprono poi altre prospettive.<br />

E chissà quale sarà la prossima mossa...<br />

(7/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

AppleS (The) - KingS (freeSTyle recordS,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: c r o s s o v e r e d f u n k<br />

Piacciono sia la musica che l’attitudine, negli Apples.<br />

Nel senso che ti affezioni subito al loro funk fumigante<br />

e appropriatamente groovy eseguito insieme al leggendario<br />

Fred Wesley (su tutto James Brown e l’asse<br />

Parliament/Funkadelic: meglio specificare, che non si<br />

può mai sapere ); addirittura applaudi allorché - nel poker<br />

di brani che ospitano Shlomo Bar, eminente figura<br />

della musica popolare d’Israele - ci si affaccia su scenari<br />

mediorientali. Stanno in un desiderio di con-fusione<br />

totale e in una voglia di costruttiva ambivalenza, segreto<br />

e magia del risultato, ottenuti da questo nutrito<br />

ensemble di nove elementi varcando la porta dello<br />

studio di registrazione con due mostri sacri e interagire<br />

con loro senza timori reverenziali.<br />

Catturando in tal modo una visione sonora e culturale<br />

genuinamente a 360°, che - in una scaletta salomonicamente<br />

spartita - racchiude i due poli del loro mondo<br />

sonoro solo per mostrare quanto sia possibile mescolarli<br />

e cavarne freschezza. Accade con costanza in trentotto<br />

minuti di esuberante funk urbano rigoglioso di<br />

fiati e scratching (Howlin’ With Fred, In The Air), di favoloso<br />

dub un momento sinuoso e quello successivo dolente<br />

(Walking To The Palace), di oscillazioni tra oriente<br />

e occidente che respirano l’attualità (una title-track<br />

riassuntiva e divertita; il suono "totale" di Batash e Banana<br />

Jam). Meticciato consapevole, energico e stiloso,<br />

alla faccia di chi ancora vuole erigere muri e steccati in<br />

un pianeta sempre più globale.<br />

(7.2/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

Ariel pinK - WiTh Added pizzAzz (free dope<br />

And fucKing in The STreeTS, luglio 2010)<br />

Ge n e r e: p s y c h l o u n G e<br />

Questo ep in edizione limitata si poteva acquistare<br />

esclusivamente ai concerti americani dell'ultimo tour<br />

degli Ariel Pink's Haunted Graffiti, eccentrico souvenir<br />

dalla grafica rivelatrice. Sono cinque pezzettini in collaborazione<br />

con gli Added Pizzaz, fantomatico combo<br />

avant-jazz di Dallas (ma sul disco troviamo in realtà la<br />

stessa formazione b/vintage che suona su Before Today,<br />

guidata dai fiati dei fratelli Gonzalez).<br />

Lounge disturbata, drogata e onirica, un po' Madlib<br />

in vena psych un po' Mothers of Invention di America<br />

Drinks and Goes Home, il tutto, ovviamente, abbastanza<br />

cazzeggio pseudo-avant, compreso il cut lungo della<br />

già nota Hot Body Rub. Spicca soltanto il bel gioco di<br />

estremo zapping pop-deformato - zappiano rundgreniano<br />

fowleyano residentsiano - di 4 I M NN7. Cool fuffa.<br />

(6/10)<br />

gABriele MArino<br />

ArTuro fieSTA circo - e lo chiAMerAi<br />

gioVAnni (ViA Audio, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: c a n T a u T o r a T o -f o l k<br />

"I sarti che vestono le mie storie sono musicisti attivi in<br />

diversi contesti musicali. Questo è un sistema che mi piace<br />

perché è una finestra aperta sul mondo e mi obbliga<br />

a stare sveglio. Il Circo non è una band. Assomiglia di più<br />

ad un "cantiere" o a una "palestra" per i giovani musicisti<br />

che lo compongono." A parlare è Sergio Arturo Calonego,<br />

titolare della ragione sociale e deus ex machina<br />

del progetto. Tanto per chiarire che tutto quello che<br />

ruota attorno a questo secondo disco della formazione<br />

è materiale vario ed eventuale nel genere, nella forma<br />

e nelle atmosfere. Un folk-jazz-chanson-cantautoratorock<br />

nomade e difficilmente etichettabile, un po' figlio<br />

dei tempi in cui viviamo e un po' consapevole esercizio<br />

di stile per una band di strumentisti virtuosi.<br />

Ce n'è per tutti i gusti, dal valzer spazzolato de La Ballerina<br />

alle chitarre elettriche de L'idiota, dal Tenco de<br />

L'acrobata al jazz confidenziale de Il domatore, dal ragtime-folk<br />

di Le Royal al blues virato Sud America de La<br />

regina del circo. Brani suonati da dei Raymond Queneau<br />

in note che vanno a comporre un'opera esemplare,<br />

inaspettatamente coerente e malinconica al punto<br />

giusto.<br />

(6.9/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

AVey TAre - doWn There (pAW TrAcKS,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: a v a n T p o p<br />

Mentre Panda Bear in solitaria si è preso soddisfazioni<br />

anche pari a quelle del gruppo madre, David Port-<br />

highlight<br />

BAchi dA pieTrA - QuArzo (WAllAce recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: m i n i m a l-r o c k<br />

Il ritorno dei Bachi Da Pietra dopo l’ottimo live Insect Tracks ha di nuovo un titolo materico, in cui l’allusione<br />

alla pietra, al tempo, ad una forma primigenia di elettronica, prelude allo spostamento dei paletti<br />

del sentire lirico-musicale della coppia Dorella-Succi. A far da humus, al<br />

solito, un minimalismo sofferto e angoscioso, vibrante e reiterato, fatto di<br />

corde percosse e percussioni risicate all’osso che stazionano sempre sul<br />

crinale di una personale forma di blues desertificato e un sentire rock irregolare<br />

e unico. Gli intarsi di chitarra di Dragamine o l’incedere claudicante<br />

e trance-inducing di Niente Come La Pelle ne sono perfetta esecuzione.<br />

Accanto o sottotraccia, però, c’è ben vivo il gusto per la sperimentazione,<br />

per il superamento dei confini di una musica troppo riconoscibilmente<br />

"classica". Ecco allora la rarefazione elettroniconcreta di Zuppa Di Pietre, il<br />

rumorismo di matrice technoide di Pietra Per Pane, i carsici disturbi elettrostatici di Non È Vero Quel Che<br />

Dicono o il frammento hayesiano reso famoso da Tricky e Portishead che traina l’intera Orologeria:<br />

tutto sempre rigorosamente suonato col solo ausilio degli strumenti d’ordinanza. Dimostrazione del<br />

saper magistralmente giocare con dinamiche "altre" e prestiti (rielaborati, rivisitati, ripensati) da generi<br />

"distanti".<br />

Un procedere quasi di svelamento di fonti, di apertura al mondo che tocca anche le liriche succiane,<br />

altro punto fermo dei Bachi. Mai come ora intelligibili, dotate di un taglio tra l’ironico e il sarcastico, beffarde<br />

nella esplicita Bignami (noi vi amiamo vi adoriamo vi benediciamo / noi cantiamo (zitti cantiamo) / il<br />

vasto mondo aperto / nel nostro trovar chiuso / al vostro orecchio duro ottuso illuso / che non sente giustamente<br />

(e me ne scuso) / il nostro tessere) o nell’amarezza senza respiro di Fine Pena, sembrano smorzare<br />

i toni dello sguardo lucido e tragico sull’esistente dei Bachi. Una indagine nel sottosuolo letterario che<br />

riabilita il senso del termine songwriting, scegliendo vie metriche e melodiche personali e mai banali.<br />

Un ottimo ritorno, dimostrazione di personalità e capacità oltre che di volontà di superare se stessi<br />

giocando sul terreno di casa.<br />

(7.5/10)<br />

STefAno pifferi<br />

ner, che ne è paradossalmente la penna più prolifica,<br />

come solista doveva ancora fare la sua comparsa. Prima<br />

di quest'esordio, è vero, c'era stato Pullhair Rubeye, ma<br />

era un album registrato in estemporanea con la moglie<br />

Kria Brekkan (ex Mùm) e non un canzoniere privato da<br />

opporre al compagno di cordata.<br />

Prima regola è trovare un percorso, un tratto distintivo.<br />

E così, se Panda si è più volte dimostrato a proprio agio<br />

nel confrontarsi con la psichedelia, Avey ha scelto il decennio<br />

del post-punk e - soprattutto - del synth pop per<br />

trovare una valvola di sfogo. Il risultato è forse meno<br />

disinvolto e quando la ricerca individuale s’interrompe,<br />

il tutto confluisce amabilmente nei codici e nelle modalità<br />

della band madre di cui Porter è il co-motore creativo.<br />

Proprio sulle mode si gioca l’ambiguità di Down There.<br />

Da una parte, regna l’immaginario doppio zero, che gli<br />

Animal Collective hanno contribuito in maniera determinante<br />

a creare, e che qui si riconfigura con assonanze<br />

Indian Jewelry (per oscurità di esercizio), Ruby Suns<br />

(Heads Hammock) e persino Xiu Xiu (Lucky 1 è a metà<br />

tra gli Animal e il progetto di Jamie Stewart); dall’altra<br />

questo si va a sposare con quegli Ottanta che fanno<br />

un occhiolino ipnagogico (Oliver Twist) certamente furbesco,<br />

anche se qualitativamente una spanna sopra la<br />

media delle produzioni in questo senso (Heather In The<br />

Hospital).<br />

Dimenticandoci della sbornia glo, è lecito guardare a<br />

dischi come Down There come una nuova possibilità<br />

di cantautorato post-’00 (e post-revival ’80), con tutti i<br />

crismi e strati compositivi a cui ci dobbiamo abituare al<br />

voltar del decennio.<br />

(7/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

44 45


BAd religion - The diSSenT of A MAn<br />

(epiTAph, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p u n k l e G e n d s<br />

Dei Bad Religion impressiona non tanto il fatto che siano<br />

in piedi da trent’anni. E’ la forma in cui sono giunti<br />

al fatidico appuntamento a guadagnarsi la nostra ammirazione;<br />

l’evidenza che, al quindicesimo lp in studio,<br />

Greg Graffin e Brett Gurewitz impugnino ancora saldamente<br />

il timone e che rimangano essenzialmente<br />

immutati i motivi che li hanno resi esemplari. Fuor di<br />

retorica: la loro è una ricetta semplice ma che come<br />

tale vanta infiniti tentativi di imitazione e ognuno inferiore.<br />

Che, se combinata con mano sapiente, può<br />

offrire canzoni di rango tipo la cavalcata The Day The<br />

Earth Stalled e l’amara innodia di Only Rain che aprono<br />

questo disco.<br />

Degne di Maestri che le loro rivoluzioni sonore già le<br />

hanno inscenate epperò non mollano, consci di come<br />

sarebbe impossibile proporne nel canone hardcore<br />

punk da loro stessi forgiato a meno di assurde o ridicole<br />

modernizzazioni. Si tratta di tradizione, per cui se<br />

assaggi la torta della nonna da un forno industriale il<br />

gusto non è uguale e idem se il cuoco non ci mette<br />

cuore e testa. Così che, anche nel lavoro meno azzeccato<br />

da che a inizio decennio i californiani risorsero con<br />

The Process Of Belief, i brani eccessivamente formulaici<br />

vengono spazzati via dal pugno di nuovi classici che<br />

fondono aggressività, melodia e testi intelligenti: una<br />

scintillante Cyanide e una fenomenale The Resist Stance,<br />

l’epidermica Won’t Somebody e le eleganti però possenti<br />

Avalon e Meeting Of The Minds. Punk di mezza età<br />

senza patetismi: si può.<br />

(6.9/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

BArn oWl - AnceSTrAl STAr (Thrill jocKey,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: d o o m<br />

Austerità, ampiezza, doom, passo mantrico, chitarre,<br />

rarefazione del blues, droni. Le parole chiave di Ancestral<br />

Star sono le stesse di The Conjurer. La concentrazione<br />

e l’ossessione della ricerca dei Barn Owl non<br />

può che rimanere autentica. Perché, al di là delle parole<br />

chiave, il nocciolo della musica di Caminiti e Porras è<br />

proprio l’autenticità, la purezza della formula, della materia<br />

musicale e del messaggio che ne consegue. Ogni<br />

brano (la title-track, che monta dronicamente, ridiscende,<br />

lascia spazio a un lamento al ralenti di chitarra,<br />

in secondo piano, si rarefa) è un esemplare raro, eppure<br />

estremamente familiare. È un tutt’uno che vive del<br />

proprio respiro, a cui non si può aggiungere nulla né<br />

togliere alcunché. E ciò valga per tutta la psichedelia<br />

siderale che il duo è capace di esprimere (un deserto di<br />

stelle in Vision In Dust, con accompagnamento vocale<br />

alla Ummagumma Live), per tutte le ascensioni e gli<br />

atterraggi nel deserto.<br />

Ripetizione è un altro nome per quella purezza che<br />

quando si svolge in strutture ha bisogno di riprodurle<br />

in continuazione. Night’s Shroud sembra essere l’unico<br />

tema possibile per il loro universo desolato, un tema<br />

reiterato senza fretta, anzi con la calma di chi ha la consapevolezza<br />

che la fine dei tempi è una realtà, e chiuso<br />

in un paio di minuti. L’eccezione - neanche troppo<br />

distante dalla regola, però - è il pianoforte di Twilight,<br />

crepuscolare ma anche vitale, nella sua progressione<br />

infinitesima e impercettibile. Il culmine è probabilmente<br />

la finale Light From The Mesa, ma solo perché deve<br />

procrastinare l’atmosfera apocalittica fino alla prossima<br />

prova dei Barn Owl. Ci sembra, nell’attesa, di essere<br />

tenuti a rimanere immobili, ma nel frattempo sposteremo<br />

i nostri giudizi e le nostre facoltà. Come questa musica,<br />

che sembra immobile e identica a se stessa, eppur<br />

si muove, procede, vedendo l’orizzonte - e l’agognata<br />

fine - che a ogni passo di sposta sempre più in là.<br />

(7.3/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

BenoiT pioulArd - lASTed (KrAnKy, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: fo l k, d r o n e<br />

A quattro anni dall'esordio Précis e due dal sophomore<br />

Temper, il femmineo Thomas Meluch non ha cambiato<br />

metodo e intenzioni. Lasted è stato inciso e missato<br />

in completo isolamento domestico, intinto nel folk/pop<br />

di Drake-iana memoria e inframezzato di droni e brevi<br />

strumentali avant-folk. L'ispirazione è sempre lì, tiepida<br />

e delicata, pastorale e astratta. Il terzo album di Meluch<br />

è un canzoniere della memoria pronto a indirizzarsi<br />

verso un songwriting immerso nei field recording, che<br />

in alcuni casi pare maturato (le inflessioni folk-rock e i<br />

tocchi eighties di Lasted) e in altri ripetuto all'infinito<br />

(Tie, A Coin On The Tongue).<br />

Camminare, ogni due anni, in questo piovoso giardino<br />

è un po' come tornare a casa in autunno. Ci ritrovi un<br />

ragazzo chiuso in sé stesso ripetere la stessa, suggestiva,<br />

incantevole canzone. E' un tutt'uno con il fascino<br />

della decadenza.<br />

(6.7/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

highlight<br />

BeATrice AnTolini - Bioy (urToVox, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: f u n k-p s i c h e d e l i a<br />

L'arte di Beatrice Antolini risiede nel saper decontestualizzare e riconvertire particolari musicali diversissimi<br />

tra loro. Un dipingere immaginari weird con accostamenti che vanno oltre la coerenza ortodossa<br />

di un genere, sfociando in una musica centrifuga che è prima di tutto attenzione per la ricchezza del<br />

suono. Un Sud America piroettato sui tasti del pianoforte, certa psichedelia vaporosa, una classica da<br />

fondale dipinto, qualche drappeggio pop: di questo è fatta la sostanza del<br />

verbo antoliniano. Di volta in volta rielaborata, ricombinata, contaminata,<br />

alla luce di una maturità stilistica che parrebbe dietro l'angolo ma che in<br />

realtà sposta coscientemente il proprio punto di arrivo sempre un po' più<br />

in alto.<br />

Bioy recupera le tematiche che avevano reso il precedente A Due un deciso<br />

passo in avanti rispetto all'irruento Big Saloon (complesse aperture<br />

strumentali, cambi di registro inaspettati, progettualità unitaria) arrivando<br />

a una sintesi ormai lontana anni luce dagli esordi. Con un funk-wave coeso<br />

e pseudo-futuristico - "I riferimenti agli anni '70 sono più che altro cromatici e credo che un certo funk di<br />

quel periodo sia stato molto importante per me. Ma la mia musica è la mia musica e assomiglia a me, nel<br />

bene e nel male" - che è soprattutto arte dell'incastro in una spessa coltre ritmica focalizzata sul groove,<br />

sulla stratificazione. Come dimostrano gli Ottanta di una Madonna distesa sul tappeto di fiati di We're<br />

Gonna Live o il tribale sottomesso e spacey di Eastern Sun, i droni di synth di Night SHD o una Bioy in<br />

bilico tra percussioni in stile Joy Division e certe tastiere in levare filo-reggae.<br />

E' l'organizzazione a far la differenza. Il saper trovare il giusto equilibrio per ogni dettaglio nell'ottica<br />

di un progetto che per la prima volta nella storia discografica di Beatrice sembra possedere radici profonde<br />

(gli Eightes). Grazie a un'inedita quadratura e a un rigore da session man capaci di conciliare la<br />

strumentazione di cui è diretta responsabile la padrona di casa (batteria, percussioni, sax, moog, piano,<br />

basso, chitarra, clavinet) con i contributi alla tromba/violoncello/sax (anch'essi trattati, decontestualizzati,<br />

alieni) degli ospiti Mattia Boschi / Enrico Pasini / Andy (Bluvertigo). Per un disco che ha tutto<br />

l'aspetto di un punto di arrivo. O per meglio dire, di uno dei tanti possibili.<br />

(7.5/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

BlAnK dogS - lAnd And fixed (cApTured<br />

TrAcKS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: s y n T h -p o p<br />

Perde molto dell’abrasività lo-fi che ne caratterizzava<br />

gli esodi, mr. Mike Sniper, qui alle prese col terzo fulllength<br />

sotto la sigla Blank Dogs. Nella naturale evoluzione<br />

delle cose, penseranno i bendisposti, mentre i<br />

critici vedranno nella pulizia del suono la prima avvisaglia<br />

dell’abbandono di un underground che ormai non<br />

ha più quasi senso di esistere come categoria.<br />

Limitandosi alla musica, questi 12 pezzi nuovi di pacca<br />

restano legati all’ormai classico suono Blank Dogs:<br />

musica post-punk spettrale e al limite del catatonico in<br />

grado di frullare e riproporre i primi vagiti wavish dei<br />

Cure (Insides, Longlights), l’angoscia claustrofobica dei<br />

Joy Division (Out The Door), la straniante accessibilità<br />

pop targata C86, il synth-pop più trasversale di matrice<br />

New Order (Collides, Elevens) e quant’altro d’ordinanza.<br />

Però sulla falsariga dell’ultima manifestazione del<br />

progetto, l’ep Phrases della primavera scorsa, l’accento<br />

sembra posto su soluzioni non solo segnate da un appeal<br />

più marcatamente e melodicamente pop (Blurred<br />

Tonight, Northern Islands, Another Language), ma anche<br />

da un sound più pulito e cristallino. Un procedimento<br />

simile a quello messo in atto da Zola Jesus e da altri<br />

frequentatori del sottobosco lo-fi: mano a mano intenti,<br />

cioè, a sgrossare quel manto di grezzo lo-fi che<br />

ne aveva segnato le proposte agli esordi e che a questo<br />

punto si può definitivamente considerare più una<br />

necessità legata agli scarsi mezzi che una intenzione<br />

46 47


stilistica ben definita. Insomma, svanito già da un pezzo<br />

l’effetto sorpresa, rimosso praticamente del tutto il<br />

pulviscolo a bassa fedeltà, non restano che le canzoni.<br />

Troppo omogenee e monocordi per attestarsi sui livelli<br />

dei precedenti passi di Blank Dogs, seppur sempre di<br />

ottima fattura.<br />

(6.8/10)<br />

STefAno pifferi<br />

Boduf SongS - ThiS Alone ABoVe All elSe in<br />

SpiTe of eVeryThing (KrAnKy, SeTTeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: s o n G w r i T i n G, f o l k<br />

Mathew Sweet, l’enigmatico cantautore che si cela<br />

sotto lo pseudonimo di Boduf Songs, torna con un<br />

quarto album. Humming sofferto, testi cupi, atmosfere<br />

minimali: gli ingredienti di base non cambiano, ma<br />

l’inglese evita la ricetta della ripetitività aggiungendo<br />

qualcosa in più, ossia degli arrangiamenti più complessi<br />

e articolati, che fanno di This Alone Above All Else<br />

In Spite Of Everything un vero passo avanti nella crescita<br />

artistica di Sweet.<br />

Una parte delle novità è immediatamente percepibile<br />

nell’introduzione, Bought myself a cat o nine tails, sofferta<br />

composizione per voce e pianoforte: se prima<br />

Boduf Songs affidava l’espressione della sua intimità<br />

a una scarna chitarra e a qualche casalingo intervento<br />

elettronico, adesso, ferma restando la base di poche<br />

note e colpi di martelletto sulle corde del piano,<br />

il range è decisamente più ampio; e così Decapitation<br />

Blues: da un loop di vibrafono si sviluppa un'avvolgente<br />

ambient song tanto rock quanto folk, tanto goth<br />

quanto post. In I Have Decided To Pass Through Things i<br />

sussurri si evolvono in una splendida melodia cantata a<br />

piena voce, confermando ai maligni che Sweet sa cantare<br />

in altri registri e che l’humming è una scelta. Altri<br />

arrangiamenti degni di nota sono la batteria, basso e<br />

tastiere à la 4AD di They Get On Slowly e la splendida<br />

The Giant Umbilical Cord That Connects The Brain che ci<br />

porta indietro ai sussurri e ai pizzichi di chitarra degli<br />

Slint (versante David Pajo).<br />

E' il migliore album Boduf Songs fin'ora. Il primo a tirare<br />

le fila di una personale vena "heavy metal acustica".<br />

(7/10)<br />

geMMA ghelArdi<br />

BoriS/iAn ASTBury - Bxi (SouThern lord,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: h a r d -r o c k<br />

In un mercato affollato come quello attuale ci sono<br />

dischi di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Già di<br />

per sé, i nippos non sono proprio parchi di uscite ma<br />

spesso e volentieri abusano di collaborazioni e release.<br />

Questo mini-album con alla voce l’ex leader dei Cult<br />

appartiene alla seconda categoria, ovvero a quei dischi<br />

di cui proprio non si sentiva la mancanza. Soprattutto<br />

perché la voce di quest’ultimo catalizza il tutto,<br />

prendendo il sopravvento e riducendo i sodali heavydroners<br />

giapponesi ad abbassare la guardia accontentandosi<br />

di un rock hard dai sapori old-fashioned, iperimpostato<br />

(Teeth And Claws) e a volte anche pacchiano<br />

(We Are Witches).<br />

Una cover di Rain cantata dalla voce eterea di Wata - apprezzabile<br />

più sull’onda della nostalgia che altro - non<br />

può da sola risollevare le sorti di questo mini, sorprendentemente<br />

targato Southern Lord.<br />

(5/10)<br />

STefAno pifferi<br />

BrAinKiller - The infilTrATion (rArenoiSe,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: j a z z-f u s i o n<br />

Impro su basi sudamericane (Spider), marcette in bilico<br />

tra Mingus e Coltrane (U Can't Stop Z Train), fusion<br />

in chiave funk all'ombra di Cannonball Adderley (Casketch),<br />

pianoforti crepuscolari orfani di un Chet Baker<br />

qualunque (Ice Fishing), free analgesico (Michaelsketch),<br />

balbettii in stile Monk (Unfiltered).<br />

Sembra il menù di un disco di Improvvisatore Involontario<br />

e invece stiamo parlando di una produzione Rare<br />

Noise. Ad agitare le acque di una tracklist veloce e easy<br />

- anche per chi non mastica abitualmente certe cadenze<br />

-, Brian Allen, Jacob Koller e Hernan Hecht, rispettivamente<br />

al trombone, alle tastiere e alla batteria. Colti<br />

in un non-luogo musicale misurato e pulitissimo, capace<br />

di sperimentare nuovi colori e forme - come dimostrano<br />

anche le svisate orientaleggianti di Eepy - senza<br />

stravolgere i canoni di un jazz riflessivo, riconoscibile e<br />

tutto sommato familiare.<br />

(7/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

BriAn eno - SMAll crAfT on A MilK SeA<br />

(WArp recordS, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: a m b i e n T , i d m<br />

Il debutto su Warp di Brian Eno, tardiva chiusura di un<br />

cerchio, è una bolla di sapone, elegante, fragile, vuota.<br />

Fuori, cofanetto, vinili e stampe in edizione limitata;<br />

dentro, retroguardia elettronica da salotto, apparentemente<br />

varia nelle declinazioni, in realtà monocroma<br />

come la satinatissima immagine di copertina.<br />

Titoli evocativi-descrittivi per una parata di esercizi di<br />

stile irrisolti registrati tra 2009 e 2010 nei ritagli di tempo<br />

da altri progetti (sono incluse alcune selezioni scartate<br />

dalla colonna sonora di Amabili Resti), in collaborazione<br />

con i giovani discepoli Jon Hopkins ("programming")<br />

e Leo Abrahams (chitarre trattate). Se il tocco del primo<br />

è a tratti anche troppo caratterizzante e invadente (Flint<br />

March), gli interventi del secondo sono omeopatici e tutto<br />

sommato trascurabili. Small Craft Over A Milk Sea è<br />

una lussuosa vetrina di spunti incolori - non audaci, non<br />

classici, non così manieristici da giustificarsi come ricerche<br />

o giochi da scienziati del suono (Autechre) - che<br />

pescano nel solito bacino eniano ma senza guizzi, tra<br />

romantica ambient pianistica, intermezzi cinematici ora<br />

sinistri ora severamente contemplativi, morbida elettronica<br />

condita di concreta e tentativi di aggiornamento<br />

electro (e addirittura big beat, Dust Shuffle). Salviamo il<br />

grip del motorik 2 Forms Of Anger e il giocoso disimpegno<br />

per tastiere-basso, molto naïveté Ottanta, di Bone<br />

Jump. Per il resto, vuoto.<br />

(5/10)<br />

gABriele MArino<br />

BriAn WilSon - reiMAgineS gerShWin (eM<br />

recordS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o p<br />

Custodi di sogni, codici d'immaginario riassunti in un<br />

nome. In due nomi: George Gershwin e Brian Wilson.<br />

Lontanissimi e uguali. Assimilabili, in qualche modo,<br />

quali ridanciani sacerdoti di meraviglie in forma di canzone<br />

e oltre. Ecco, qui si entra nel mondo del sacro. Per<br />

questo forse la notizia che Wilson avrebbe dedicato un<br />

disco al canzoniere di Gershwin - inventandosi peraltro<br />

due pezzi inediti a partire da altrettanti canovacci<br />

incompiuti - mi lasciò una piuttosto indefinibile sensazione<br />

di blasfemia. Come un sincretismo possibile - non<br />

ne esistono di impossibili, credo - ma inopportuno. Un<br />

facile sillogismo chiamato a gettare luce su due misteri<br />

tanto scoperti quanto insondabili.<br />

A disco uscito, m'accorgo che l'esito è forse l'unico possibile<br />

(e auspicabile): entrambi i misteri rimangono al<br />

loro posto. Le dimensioni non s'incontrano mai davvero.<br />

Gershwin sembra un tema accidentale (avrebbe<br />

potuto essere Bacharach o i Beatles, e non è detto che<br />

non accadrà), l'acchito che incita Wilson a dar fondo a<br />

trucchi e vezzi del mestiere. L'ex-Beach Boys ci mette<br />

la tipica calligrafia posterizzata, è crooner impalpabile<br />

e giocoso, rinuncia volentieri all'effettistica 3D per il<br />

fascino vintage d'un cartoon tutto colori e dinamismo,<br />

infarcito di boogie e bossa, doo wop e - naturalmente<br />

- fregole surf. Sospeso tra un palco di Broadway, la<br />

spiaggia di Santa Monica e una sequenza del disneya-<br />

no I tre caballeros, si rivela per così dire un buon additivo<br />

per brani già resisi abbondantemente immortali<br />

negli ultimi ottanta anni o giù di lì. Ma non ne coglie<br />

il cuore. Più che reimmaginarli, li contabilizza. Col mestiere<br />

patinato, un po' bolso ma inesorabile d'una star<br />

a Las Vegas.<br />

E poi non tutto va per il verso giusto: c'è nel suo approccio<br />

una leggerezza quasi soprannaturale che se<br />

esalta il setoso languore di I Love You Porgy o la verve di<br />

They Can’t Take That Away From Me, si rivela incompatibile<br />

con l'inquietudine infinita di Summertime e rende<br />

banalotta l'euforia di I Got Rhythm. Quanto ai due inediti<br />

- The Like In I love You e Nothing But Love - si lasciano<br />

gradevolmente ascoltare e dimenticare. Come tutto il<br />

disco.<br />

(5.5/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

cArricK - nASTy AffAir (enzone recordS,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: indie-G a r a G e<br />

Un tre più uno - almeno così pare di capire dai crediti<br />

del disco - dedito a un indie-rock testosteronico (nonostante<br />

la batterista donna) in bilico tra garage e punk. Il<br />

cantato è rubacchiato al duo Libertines / Clash, sdrucito<br />

e sboccato come prevede la scuola inglese, con la<br />

strumentazione ridotta a un incrocio di chitarra elettrica,<br />

batteria e basso che non va per il sottile.<br />

Anche se la formazione milanese è tutt'altro che una<br />

congrega di sprovveduti con la mano pesante, almeno<br />

a giudicare da una tracklist che sa come trattare<br />

la melodia (Back One Step, la title track) e da richiami<br />

strumentali sparsi un po' ovunque - qualche assolo ricorda<br />

addirittura certi Oasis d'antàn - utili a garantire<br />

al suono un' apertura insolita per prodotti sul genere.<br />

Pur nell'ottica di un disco d'esordio con qualche difetto,<br />

nello specifico troppe idee a cui dar forma e poca<br />

esperienza per focalizzarle nella giusta maniera.<br />

(6.2/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

cindyTAlK - up here in The cloudS (Mego,<br />

SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: indusTrial<br />

Gordon Sharp sembra vivere una seconda giovinezza,<br />

ammesso che abbia mai vissuto la prima. Una nuova<br />

incarnazione sonora segna infatti il ritorno del progetto<br />

dello scozzese dopo un’assenza ultradecennale che<br />

sapeva tanto di ritiro dalle scene: prima con The Crackle<br />

Of My Soul dello scorso anno e ora con Up Here In The<br />

Clouds (prossimi alla ristampa in box vinilico con ag-<br />

48 49


giunta di un 7"). Più dilatato e visionario, il suono del<br />

nuovo corso di Cindytalk sfrutta tutto l’armamentario<br />

post-industrial per disegnare trame di largo respiro tra<br />

elettronica sporca, grumi di sinfonie microrumoriste e<br />

ambient textures mefitiche. Ne esce un disco sulla scia<br />

di The Crackle , pervaso da una densa caligine, brumosa<br />

e ottundente, rotta da qualche sparuta vocals loopata<br />

di matrice haunted, da sibili disturbanti che si sciolgono<br />

in folate al limite dell’harsh o da deturpati field recordings.<br />

Da quella coltre spessa e a tratti apparentemente invalicabile,<br />

emerge però un taglio visionario ed evocativo,<br />

astratto e destrutturato. The Eighth Sea (liquido fluire<br />

magmatico in modalità field-recordings), Guts Of London<br />

(sbuffi da rumorismo cubista), Hollow Stare (microrumorismo<br />

e white noise senza soluzione di continuità),<br />

We Are Without Words (droning evanescente e<br />

chiesastico) sono solo alcune delle frecce nell’arco di<br />

Sharp, ormai maturo sound-artist in grado di manipolare<br />

uno spettro sonoro ampio e screziato. Up Here In<br />

The Clouds è un album sfiancante, monolitico, densissimo<br />

di suggestioni, variazioni e rimandi e che non si<br />

smette di ascoltare.<br />

(7/10)<br />

STefAno pifferi<br />

coMMix - re:cAll To Mind (MeTAlheAdz,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: ho u s e, a m b i e n T<br />

La premessa è quasi d’obbligo. Parliamo di un remix album<br />

di uno degli album d’n’b più esaltati degli ultimi<br />

anni assieme all’esordio di Utah Jazz ed è inutile ribadire<br />

ancora una volta la quantità di riflettori e inserti<br />

nei mix che il genere più dimenticato dalla critica ha<br />

avuto negli ultimi tre anni. Il 2010 doveva essere l’anno<br />

del ritorno vero e proprio ed eccoci qui attorno ai Commix<br />

pronti a scattare la foto della nuova scena cassarullante<br />

in una decina di remix tra cui troviamo nuovi<br />

rampolli e superstar diversissime per estrazione quali<br />

Burial e gli Underground Resistance. Ebbene?<br />

RE:Call To Mind non è un album che rimescola le carte:<br />

prende un nuovo mazzo e ce lo mette accanto. Il<br />

già piuttosto contaminato lavoro originale è ora una<br />

bestia completamente nuova che si muove attraverso<br />

ritmi e scenari anche molto distanti. Troviamo il duo<br />

Instra:mental rimette le mani su Japanise Electronics<br />

ripensando alla chill out ibizenca, aggiungendo effetti<br />

glitch e tocchi jap à la Sakamoto; Panagea piroettare<br />

dub e interventi tech decisamente quadrati trasformando<br />

l’estate’92 di Steve Spacek in un tunnel di speed<br />

e keta da pieni anni zero (How You Gonna Feel); A Made<br />

Up Sound (ovvero Dave Huismans, noto ai più come<br />

2562) purgare la blackness di Change (con Nextmen)<br />

cavandone asettici ritmi tech-house, folate dubstep e<br />

visioni a raggi infrarossi.<br />

In pratica, in tanta avventurosità e ricerca, e un'unica<br />

traccia a conservare i fondamenti d’n’b (il remix di Belleview<br />

da parte di DBridge) è quasi un peccato che le<br />

due citate star rivestano semplicemente di se stessi le<br />

rispettive tracce (Be True di Burial ne esce haunted 2<br />

step, Satellite Song si trasforma in una traccia techno<br />

detroit); molto più interessante il trittico house della<br />

raccolta a base di stilemi deep (grandioso Kassem Mosse<br />

in Stricktly), classic (Two Armadillos in Spectacle) e<br />

glitch house (Sigha She in Emilys Smile), nonché l'intervento<br />

techno di Marcel Dettmann (Satellite Type 2).<br />

Pensando alla chiusura del mondo d'n'b fino al 2007,<br />

Re:CAll To Mind è un remix album doppiamente importante:<br />

si arrende alla contaminazione a 360° come<br />

unica base per una rinascita ed è basato su uno streaming<br />

coeso, ovvero con una logica da album. Morale:<br />

il d’n’b, nel 2010, anche grazie al successo dell'ultimo<br />

Prodigy e a commecialoni quali i Pendulum, sarà anche<br />

tornato. Eppure, over-come-under-ground, è soltanto<br />

facendosi ibridare di nuovo che possiamo auspicarne<br />

una rinascita vera.<br />

(7.2/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

curV - BeTWeen here And noWhere (Vinyl<br />

ViBeS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: sp a c e d i s c o<br />

Rainer Düring è un veterano del suono electro berlinese.<br />

Partito alla fine degli anni Novanta come metà<br />

di Thrust & !Pez, ha pubblicato numerosi singoli su etichette<br />

culto del calibro di Vienna Scientists, Stereo Deluxe<br />

e Ministry of Sound. Come Curv è attivo dal 2001 e<br />

questo disco è il primo full length col nuovo moniker.<br />

Infatuato del suono spacey di Daniele Baldelli e di<br />

Prins Thomas, il ragazzo ci fa volare su pianeti e cosmi<br />

seducenti, facendoci passare per spiagge tribali, ricordi<br />

in odore del baffo di Moroder e tanta tanta progressività,<br />

che il più delle volte non si accosta tanto al verbo<br />

house, bensì lascia nell’aria un sapore chill, che ricorda<br />

vagamente le proposte dei primi Orb.<br />

Ascoltabilissimo da chiunque viaggi sulle onde cosmiche<br />

di Lindstrøm e compagnia cantante. Da viaggio.<br />

(7/10)<br />

MArco BrAggion<br />

highlight<br />

Bjørn TorSKe - KoKning (SMAllToWn, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: d o w n T e m p o , k r a u T<br />

Bjørn Torske non è solo uno degli artefici della scena di Bergen, ma probabilmente l’animatore principale<br />

che ne ha fatto il place to be lungo tutti gli anni Zero. Da sonnacchioso dormitorio universitario<br />

a Nord della Norvegia, la cittadina è diventata, grazie a gente come lui, Erol, Annie, Mikal Telle e i Röyksopp,<br />

il posto dove fare girare elettronica e folk (vedi alla voce Kings Of<br />

Convenience), dove ballare e sballare, divertirsi e ogni tanto aprire qualche<br />

libro. Torske, da vero capobanda, s’è pure inventato uno stile di house,<br />

la skrangle-house, per alzare la temperatura dei club. I singoli di allora erano<br />

Disco Members (2000, Tellé) e Aerosoles (2000, SVEK), mentre oggi sentiamo<br />

quel sound in brani come Furu o Bergensere, cassa in quattro, dub/<br />

deep, remember disco, percussioni magrebine. C'è pure qualche segnale<br />

dallo spazio che rimanda diritto a Baldelli e alla space disco, materia di cui<br />

quest’uomo, classe '71, è maestro, ancor prima di Lindstrøm e Prins Thomas<br />

(che sono chiaramente figli suoi).<br />

Kokning è un disco che sembra chiudere un cerchio e aprirne un altro. Kokning è il gesto che i norvegesi<br />

fanno quando mettono le patate a cuocere e vanno a pescare, per poi ritornare e cucinare il pasto. Vuol<br />

dire farlo alla loro maniera, in modo leggero. Torske ha un modo unico d’inserire i kraut tedeschi o l’ambient<br />

di Brian Eno-iana memoria nella disco music o in qualche landscape che non bisogna temere<br />

di chiamare folk (Kokning, Slitte Sko). L’album è stato concepito tra Feil Knapp (2007) e l’inizio del 2010<br />

e, rispetto alla prova precedente, suona decisamente più acustico e concreto. Troske sa esattamente a<br />

che punto dello stream inserire certi dettagli del reale e del quotidiano, che siano sopra gli smalti dei<br />

synth, i jingle jangle della chitarra o i theremin (Kokning, Bryggesjau). Non solo, la bravura si riconferma<br />

anche nei groove dove, partendo da un battito e un clapping disco, il Nostro imbastisce un brano<br />

space-deep-cosmico della madonna come Bergensere. Oppure ancora, quando narra senza parole una<br />

di quelle storie ambientate a Düsseldorf (i Kraftwerk all’ananas di Slitte Sko) che i compagni Röyksopp<br />

non raccontano più (notare ancora l’innesto concreto che fa la qualità della produzione).<br />

Troske chiude il decennio (e l’epopea Bergen) iniziandone una propria, a Tromsø, in mezzo al niente, nel<br />

luogo da dove è partito. Registrando in un semiterrato di cemento, senza finestre, sfruttando il riverbero<br />

creato dal lungo corridoio adiacente. La sua musica non è ambient né folk, space disco, dub, psych o<br />

balearica. E’ tutta roba sua. Disco down-tempo dell’anno.<br />

(7.4/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

cuT in The hill gAng - MeAn BlAcK cAT<br />

(STAg-o-lee, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: p u n k r o o T s<br />

Johnny Walker, già nei modesti Soledad Brothers,<br />

giunge al secondo lp con gli amichetti Lance Kaufman<br />

e Reuben Glaser convocando John Wesley, organista e<br />

cantante dei Black Diamond Heavies. Aggiunta che<br />

trova motivo nella natura del lavoro, interamente dedicato<br />

a brani altrui e preceduto la scorsa primavera da<br />

un 7" che omaggiava i bluesmen preferiti dalla cricca.<br />

Da lì è stato un gioco confezionare un 33 pescando<br />

oculatamente dentro a un pozzo infinito. Diversamente<br />

dall’operazione condotta dai Morlocks, però, le do-<br />

dici battute lasciando spazio a una più ampia indagine<br />

punk-roots e pure la trascendono, consentendo a una<br />

livida Serves Me The Right To Suffer (John Lee Hooker)<br />

di affiancarsi all’energica resa del "traditional" Help Me;<br />

al disinvolto medley tra Kills/Spacemen 3 di fare bel<br />

paio col gemello che unifica Hound Dog Taylor ed<br />

MC5.<br />

Ne desumi un’apertura mentale superiore alla media,<br />

una concezione delle "radici" che adatta l’esempio prezioso<br />

offerto tre decenni fa da quei Gun Club dei quali<br />

è presente la struggente Promise Me. Assai più vigoroso<br />

il resto della scaletta (Please Give Somethin' di Bill<br />

Allen suona come i Jesus & Mary Chain che incidono<br />

50 51


Automatic ai Sun Studios; la ripresa di Gary US Bonds<br />

I Wanna Holder tambureggia crudo errebì; The Right To<br />

Love You di Mighty Hannibal è soul con nerbo) quando<br />

non semplicemente deragliante, come può solo chi<br />

conosce a menadito la materia per esserci cresciuto<br />

dentro. Abilità che non è sfuggita a Jack White, pronto<br />

a pubblicare la prossima fatica dei ragazzi su Third<br />

Man. Nell’attesa tiratevi questo calcio in fronte più volte,<br />

visto come rinvigorisce senza lasciare ematomi.<br />

(7.2/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

dAnuel TATe - MexicAn hoTBox (WAgon<br />

repAir, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: e l e c T r o, n u -j a z z<br />

Il tastierista dei Cobblestone Jazz parte in solitaria e<br />

si cimenta con l’esordio sulla lunga distanza su Wagon<br />

Repair. L’etichetta canadese - che ha già pubblicato singoli<br />

del trio da cui Danuel proviene - ha nel suo roaster<br />

gente eterogenea nel panorama elettronico mondiale,<br />

nomi che vanno dalla pesanteza del quattro sghembo<br />

di Seth Troxler, al minimalismo di Dinky, al dub di Deadbeat<br />

e alle uscite in singolo dell’altro Cobblestone<br />

Mathew Jonson.<br />

L’ampiezza di visioni e di esperienze dell’etichetta sembra<br />

fittare a fagiolo con la proposta del buon Tate. La<br />

scatola messicana è un prodottino da consigliare chiavi<br />

in mano a chi ama l’elettronica non troppo intrusiva,<br />

i party che vanno su e giù di bpm senza sconvolgere<br />

troppo gli ospiti. In una parola coolness distillata<br />

sapientemente, attraversando ere e stili disparati (lo<br />

swing, il latin, il funk e l’electro per dirne quattro) che si<br />

riconducono sì al lavoro di composizione con il trio, ma<br />

che allo stesso tempo se ne discostano con un guizzo<br />

più chic.<br />

Qui verrebbe da fare un paragone con un’altro mago<br />

del ritmo e della riscoperta delle tastierine analogiche<br />

di cui ci siamo infatuati molte volte: Danuel è uno Luke<br />

Vibert che guarda alla lounge da una prospettiva nuova,<br />

filtrata di esperienze live e di set in acidità behind<br />

the console. Senti il riffetto a 8 bit di Populatio e non<br />

potrai che memorizzarlo istantaneamente, sorseggiando<br />

un Martini; prova la coolness di Big Spender, la strizzatina<br />

ai privé Ottanta di California Can Can e ti accorgerai<br />

che Danuel ci sa fare di brutto. Anche da solo.<br />

(7.3/10)<br />

MArco BrAggion<br />

dArren hAyMAn - dArren hAyMAn & The<br />

SecondAry Modern - eSSex ArMS (forTunA<br />

pop!, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: s o n G w r i T i n G<br />

Seconda parte di una trilogia, di cui il penultimo Pram<br />

Town (2009) costituisce la parte iniziale, Essex Arms<br />

riporta il songwriter Darren Hayman su atmosfere<br />

prettamente acustiche ed essenziali rispetto all’abituale<br />

pienezza di suono. Ricordiamo che Hayman è autore<br />

assai prolifico e con una carriera ormai piuttosto lunga,<br />

essendo stato coinvolto negli ultimi dieci anni in una<br />

serie di formazioni (tra cui gli Hefner poi diventati il<br />

suo progetto in solitaria).<br />

La vita in campagna e i suoi lati più nascosti, amore<br />

compreso, fanno da tema a quest’ultimo album ambientato<br />

nel natale Essex, dopo la celebrazione della<br />

vita nelle piccole città del precedente Pram Town e i<br />

racconti cittadini dei primi due dischi. Atmosfere acustiche<br />

si diceva, piuttosto spoglie, per canzoni ridotte<br />

all’essenziale, che lo riconducono al consueto revival<br />

byrdsiano alla Robyn Hitchcock e R.E.M, misto al songwriting<br />

di marca UK (Elvis Costello e affini), e una<br />

buona fluidità nei testi; il Nostro è infatti un ottimo<br />

scrittore e un accorto songwriter e si sente.<br />

Una conferma quindi.<br />

(7/10)<br />

TereSA greco<br />

dj nATe - dA TrAK geniouS (plAneT Mu<br />

recordS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: u r b a n b r e a k/f o o T w o r k<br />

Pare che Mike Paradinas abbia scoperto questo microcosmo<br />

urban su Youtube. E giustamente non se lo<br />

lascia scappare. Ecco allora il bollo Planet Mu su due<br />

dischi usciti praticamente in contemporanea con i quali<br />

intende sdoganare il (sotto)genere fuori dal ghetto. I<br />

dischi del giovanissimo Dj Nate (vent'anni) e di Dj Roc,<br />

entrambi di Chicago, sono due gemelli diversi, figli dello<br />

stesso mo(n)do dance a tinte forti chiamato footwork<br />

distinguibili grazie ad alcune piccole significative differenze.<br />

Se in sintesi il footwork - il nome dice già tutto - è<br />

un tappeto di breakbeat (non di matrice d'n'b, ma costruiti<br />

su bolle techno-rave) doppiato da un taglia&cuci<br />

ossessivo di voci trip hop (o di voci da trick/trip djistici<br />

usate con funzione strutturale e non semplicemente<br />

effettistica) che agisce decostruendo sfondi di house<br />

superaccelerata e di tastiere grime, ecco che Roc risulta<br />

più barocco, colorato e legato al suo retroterra house e<br />

Nate più stilizzato, minimalista, videogameistico. I due<br />

album comunque dialogano, lo dimostra il fatto che<br />

Roc cita Nate a inizio tracklist campionando alcuni mi-<br />

croframmenti da un suo pezzo. Insomma, avete capito,<br />

ascoltateli insieme questi due dischi.<br />

Per Nate, parafrasando Aphex Twin, Da Trak Genious<br />

è una specie di "Selected Footworks 2005-2010" che<br />

raccoglie trax uscite su cd-r e messe in giro per il web<br />

prodotte quando il ragazzo aveva anche 15 anni. Come<br />

Roc, anche Nate mette in evidenza il sapore artigianale<br />

della produzione (si sentono tutti i tagli), la componente<br />

- spesso anche spintamente - giocosa e deformante<br />

(vocine pitchatissime, tra il divertente e l'irritante, a<br />

due passi dai Chipmunk) di questa che in fondo è una<br />

musica da ballo street, e puntate che ne scoprono le<br />

radici assolutamente nere attraverso numeri più marcatamente<br />

rappusi e loop vintage di matrice funksoul<br />

(quindi, ancora e sempre rappusi). Senza dimenticare<br />

la melodia: note di piano (trip hop enfatico), ricordi di<br />

colonne sonore Ottanta (Halloween), citazionismo pop<br />

(Lady Ga Ga).<br />

Nate e Roc ci introducono a un'estetica molto interessante<br />

e dalle grandi potenzialità, veicolata da ottimi<br />

episodi singoli e forte dell'impatto massiccio di un suono<br />

- paradossalmente - monolitico. Estetica però che<br />

non sembra ancora reggere benissimo il formato lungo:<br />

non tutti i pezzi hanno lo stesso appeal; non tutte<br />

le trovate hanno la stessa efficacia; accanto a pezzi che<br />

suonano inequivocabilmente come nuovi, ce ne sono<br />

molti che non si discostano troppo dalla koiné grime/ghettohouse.<br />

Insomma, ancora da affinare, come<br />

si dice. Esperimento: prendete Wind It Up di Mark<br />

Pritchard/Om'Mas Keith, acceleratela e infarcitela di<br />

breaks, e vedete un po' se non è footwork quello lì.<br />

(7/10)<br />

gABriele MArino<br />

dj roc - The crAcK cApone (plAneT Mu<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: ch i c a G o ju k e<br />

Il ghettotech evoluto di DJ Roc si chiama Juke. E viene<br />

da Chicago. Insieme al Jit di Detroit è la nuova sensation<br />

del ballo nero americano, denominato da molti<br />

con l’appellativo omncomprensivo di footwork. Una<br />

cosa da strada e profondamente urban che investe<br />

da anni la cultura post-breakdance e di cui solo oggi<br />

ci accorgiamo grazie all’interessamento di Paradinas<br />

della Planet Mu. In questo disco appaiono tracce che<br />

viaggiano sui 150-160 bpm, battiti utili per far saltare le<br />

gambe e i piedi in modo spastico. E come spastica era la<br />

musica dei rave del 92, anche in questo caso ci sono le<br />

ripetizioni ossessive (Fuck Dat), le vocine (Let’s Get This<br />

Started) e gli altri tools, ma il tutto viene integrato con<br />

delle atmosfere gloomy ereditate dal miglior Terror<br />

Danjah (il coro post-operistico e rituale nell’ostinato di<br />

Phantom Call), quelle cose oscure che mai si sarebbe<br />

pensato potessero arrivare ad essere applicate al ballo<br />

o con una sensibilità soul blackissima (splendido il<br />

meshing di voce ispirata e di ritmi à la Four Tet in Lost<br />

Without U).<br />

Questo disco è un segnale americano che gioca a ping<br />

pong con le più recenti evoluzioni del suono UK bass<br />

(vedi le ottime compilation Elevator Music e Future<br />

Bass). Lo stile dei cugini inglesi Ramadanman e Toddla<br />

T viene trapassato in due con passi velocissimi e<br />

figurazioni nuove, la voglia di segnalare un mondo che<br />

prende il rave, lo attualizza e lo sdogana alle generazioni<br />

post-00 apparentemente senza l’ausilio di droghe<br />

(provate a guardare su youtube qualche video di footwork<br />

e capirete perché).<br />

Ballate su questi ritmi spezzati, dedicatevi a perfezionare<br />

il vostro passo su questi singoli da tre minuti. La<br />

proposta di Clarence Johnson definisce un’ortodossia<br />

pesante, sia sulle scelte ritmiche che su quelle melodiche:<br />

ma è così che di solito si costruisce qualcosa<br />

di duraturo (vedi l’eredità Underground Resistance).<br />

Il wonky per definizione aveva un range amplissimo;<br />

qui si restringe la variabilità a pochi mattoni squadrati<br />

ma più che mai distinguibili, già testati sulle streets di<br />

Chicago. DJ Roc è il padrino dello spezzettamento del<br />

ritmo. Baciamo le mani.<br />

(7.3/10)<br />

MArco BrAggion<br />

druM eyeS - girA girA (upSeT The rhyThM,<br />

SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: n e o -k r a u T<br />

Un nome che racchiude due dei termini più in voga nel<br />

sottobosco mondiale non può che portare buone cose.<br />

La drum thunder worship gang di DJ Scotch Egg aka<br />

Shigeru Ishihara (uno con uscite su Load, tanto per capirsi)<br />

raccoglie gentaglia del giro Boredoms e Trencher,<br />

condivide stage con Omar Souleyman e Damo Suzuki e<br />

si mostra eclettica e disturbata in questo suo esordio.<br />

Evidente matrice neo-krauta e attitudine free-noise<br />

percussiva, Gira Gira è uno di quei dischi bastardi che<br />

entrano in circolo al primo ascolto e non fanno prigionieri:<br />

space-rock alla Can/Neu! rotto da schizofreniche<br />

aperture casio-oriented e tribalismo acceso (50-50),<br />

passaggi limitrofi ai Laibach più pacchianamente marziali<br />

che suonano Moroder sotto acido (Future Police), i<br />

Neurosis di Enemy Of The Sun catapultati in una quarta<br />

dimensione in cui a farla da padrone è l’elettronica per<br />

come possono intenderla i Fuck Buttons (Future Yakuza).<br />

Di carne al fuoco ce n’è tantissima e ce ne sarebbe-<br />

52 53


highlight li, procedono allo stesso modo per venti minuti e poi<br />

prendono direzioni diverse, per poi convergere di nuo-<br />

Blind jeSuS - Blind jeSuS (Von, Aprile 2010)<br />

vo alla fine, intorno al cinquantesimo minuto. Ogni<br />

Ge n e r e: a v a n T r o c k<br />

tanto l’ascolto sale in primo piano, poi ritorna come<br />

C’è tutto un gotha, in Blind Jesus, a partire dal packaging del vinile. Immagine coordinata di Carlos<br />

accompagnamento dei nostri pensieri. E si legano le<br />

Casas (imparentata con quella dell’ultimo Netmage), label Von - recente creatura discografica di Nico<br />

somiglianze, i punti che di un disco ci ricordano l’altro,<br />

Vascellari - e poi quei nomi presenti in calce. C’è Stefano Pilia, la mente principale del progetto, che<br />

in un circolo in cui è difficile risalire all’origine. Chi asso-<br />

ormai potremmo chiamare l’artigiano della musica sperimentale nostrana di più alto livello, una figura<br />

miglia a chi, in una coppia di gemelli?<br />

costante, laboriosa, fortemente duttile, un artigiano, appunto. C’è Giusep-<br />

Due versioni lasciate a disposizione persino di chi al CD<br />

pe Ielasi al mastering. Ci sono i nastri e i delay di Andrew L. Hooker, artista<br />

preferisce il video (in DVD) realizzato in collaborazione<br />

multimediale che con Pilia ha condiviso live e performance, producendo il<br />

con Andrew Schenker e Angel Oloshove. Finalmente<br />

sostrato per l’esordio a nome Blind Jesus.<br />

un album con un concept dietro, un’idea forte che non<br />

Ci sarebbero anche le avvisaglie per un progetto di raffinata caducità. La<br />

ci fa parlare di carriera solista, ma di sviluppo delle pos-<br />

musica di Blind Jesus deriva dall’arrangiamento produttivo di Stefano di<br />

sibilità di un’idea in musica. Che cosa scegliere? Prefe-<br />

quel materiale per lo più improvvisativo derivante dalle sessioni live con<br />

risco il primo o il secondo? E ogni volta siamo costretti<br />

Andrew. Ma Pilia è maestro nell’usare studio, voci, strumenti, materia prima<br />

ad ascoltarlo tutto Premiamo la stranezza, e la com-<br />

e livelli di fuoco. Usa spostamenti cognitivi e armonici alla Jandek, lamenti<br />

piutezza con la quale è stata perseguita.<br />

alla Genesis P-Orridge, chiude il lato A con urla strozzate di Kubrick. Riprende con tensioni ambientali<br />

(7/10)<br />

non distanti dagli Excepter, solitudini chitarristiche, e mantiene sempre una capacità espressiva e una<br />

lucidità compositiva, pur nello sfilacciamento dei brani, impeccabili. Il gotha non strombazza i propri<br />

gASpAre cAliri<br />

nomi senza aggiungere peculiarità e spendere personalità. Pilia e Hooker alzano la posta dell’ambien-<br />

edWood - godSpeed (A cup in The gArden,<br />

te, confezionano timbriche e architettano sviluppi con un’impressionante facilità di comunicare sensa-<br />

oTToBre 2010)<br />

zioni, stati d’animo, e di tenere incollato l’ascoltatore.<br />

Ge n e r e: indie w a v e<br />

Blind Jesus è uno dei parti migliori della Von (è il numero 6 del catalogo), e si adegua peraltro perfetta-<br />

Tornano gli Edwood dopo l'excursus in italiano sotto<br />

mente al concept dell’etichetta: sposare musica (di improvvisazione, spesso) e media art (nelle vesti di<br />

l'egida Intercity, solito il senso di apprensione futuristi-<br />

Andrew). Ma ciò che preme dire è che qui accade una cosa molto rara: questa musica è spendibile, legca,<br />

la dietrologia onirica che rende palpabile il timore di<br />

gibile, abile a circolare anche fuori dal circuito avant. Sarebbe perfetta ambasciatrice, pur essendo per<br />

vivere in un oggi sbalzato dallo ieri. La cifra melodica e<br />

nulla commerciale o popolare. Il gotha ha lavorato con una sensibilità rara, e ha dato gambe proprie a<br />

sonora dei cinque bresciani è un impasto assieme den-<br />

un progetto che speriamo davvero di veder camminare a lungo.<br />

so e aereo di trepidazioni hardcore-pop à la Grandad-<br />

(7.5/10)<br />

dy, sussulti post/wave Notwist, indie mutante Broken<br />

gASpAre cAliri<br />

Social Scene e una spruzzatina di nostalgia shoegaze.<br />

Non ti regala scossoni inauditi, ma funziona.<br />

Tanto le ballate più soft (i languori spacey della title<br />

track, la sognante Millions arricchita dalla presenza di<br />

ro ancora tante di band e suggestioni da tirare in ballo<br />

Sara Mazo, indimenticata vocalist degli Scisma) che gli<br />

- Black Dice, Wolf Eyes, Test Department, avant-rock,<br />

episodi più mossi (The Pianist, Happy Togheter) sembra-<br />

sludge-metal, tribalismo industrial - a dimostrazione di<br />

no immerse in una stessa glassa, in quella scenografia<br />

eclettismo e coraggio nel percorrere strade nuove. Gira<br />

pervadente e permanente che è assieme punto di for-<br />

Gira è una gran bella sorpresa suggerita ad ascoltatori<br />

za e di debolezza. Però, giusto un attimo prima di sem-<br />

open-minded e a curiosi indagatori delle estremità più<br />

brarti monotono, Godspeed mette in gioco arguzia,<br />

free delle musiche contemporanee.<br />

eleganza e la più concisa delle trepidazioni. E sa farsi<br />

(7.1/10)<br />

voler bene.<br />

STefAno pifferi<br />

(6.7/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

duSTing Wong - infiniTe loVe (Thrill<br />

jocKey, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: G u i T a r-minimalism<br />

"Tutto nacque quando il mio amico Andrew mi chiese di<br />

fare un concerto solista la scorsa estate": così, Dustin<br />

Wong, chitarrista e bassista dei Ponytail, descrive i primi<br />

passi di Infinite Love, primo atto solista, dopo che<br />

per anni suonare in solitaria era stato per lui un training<br />

autogeno senza pubblico.<br />

La scuola, a compiti fatti, è chiara, le discendenze anche:<br />

entrambe portano i segni di un minimalismo progressivo<br />

per sola chitarra (e batteria, per i minuti finali)<br />

che risale la genealogia - o ridiscende l’albero genealogico<br />

- da Don Caballero e Dave Pajo a Robert Fripp.<br />

Quest’ultimo è presentissimo con le sue tecniche chitarristiche<br />

e compositive, che alternano momenti di intensità<br />

a momenti di distensione ambientale. Niente di<br />

originale, eppure, nonostante la gran quantità di questa<br />

musica che è passata dalle nostre orecchie, Infinite<br />

Love non va a noia. Si sente la leggerezza, aldilà dell’ingombro<br />

dei riferimenti.<br />

Il segreto è anche nascosto anche nella trovata che<br />

sta alla base della pubblicazione. Infinite Love è fatto<br />

di due composizioni (una per CD) che iniziano ugua-<br />

el SAnTo nAdA - Tuco (AuToprodoTTo,<br />

noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: d e s e r T f o l k r o c k<br />

Impressioni di un album di debutto che - al momento<br />

in cui scriviamo - ancora non c'è. Di Tuco, esordio per<br />

El Santo Nada ovvero il Santo Niente in tenuta tex-<br />

mex, abbiamo ascoltato una pre-release. Non è chiaro<br />

il quando e il come verrà distribuito. Forse, nella peggiore<br />

(?) delle ipotesi, anche solo ai concerti della band.<br />

In ogni caso, ci sembra giusto mettervene a conoscenza<br />

adesso: si tratta di nove pezzi inediti, strumentali,<br />

frammenti di deserto trapiantati in un immaginario di<br />

frontiera sempre più apolide, globale, collettivo. Magari<br />

qualcuno si ricorderà di Tuco, il "brutto" del celebre<br />

film di Sergio Leone interpretato da un indimenticabile<br />

Eli Wallach: personaggio emblematico ieri e ancor più<br />

oggi, incarnazione della rivalsa individuale che nessun<br />

muro, check point o foglio di via potrà mai realmente<br />

sopprimere.<br />

Un clandestino della Storia nella Storia, un uomo e la<br />

semplice feroce brama di vivere, un evento naturale interpretato<br />

dal sistema come un'anomalia, il granello di<br />

polvere che può inceppare il meccanismo. Questa - al<br />

di là delle splendide suggestioni mariachi, dei miraggi<br />

desert rock, delle fregole surf e delle brume balcaniche<br />

- è l'anima del disco. La soundtrack di un film invisibile<br />

che sta accadendo davvero.<br />

(7.4/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

elecTric SixTy nine - corneliuS The<br />

colonel & The hoT Air BAloon cluB (fAce<br />

liKe A frog recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: ro c k<br />

Una piacevole sorpresa quella che arriva dal novarese,<br />

anche se non stiamo certo parlando di una band di novizi.<br />

Gli Eletric Sixty Nine sono una compagine formata<br />

da ex militanti della scena hardcore-punk di Novara.<br />

Da anni sono dediti ad un rock senza additivi, prefissi<br />

e suffissi, con Who, Mc5, Hendrix come numi tutelari<br />

anche se riletti con la freschezza della band scandinave<br />

post Hellacopters.<br />

Cornelius The Colonel & The Hot Air Baloon Club<br />

è il loro terzo album, è stato registrato agli Electrical<br />

Studios di Steve Albini ed è uno di quei dischi che ti<br />

riavvicina alla muscolarità del rock, alla sua passione e<br />

al sudore che ne traspira, tenendo fuori gli aspetti più<br />

retorici e deteriori. Il tutto grazie al fluire di energia positiva<br />

che dall'opener Magnolia (wah wah a piede libero<br />

e chorus liberatorio) irrora l'album da cima a fondo,<br />

donandogli momenti di intenso lirismo.<br />

Brani come Bone Ambitious Times e Whoohee si ricollegano<br />

a quel neo tradizionalismo rilanciato dai Pearl<br />

Jam e da quelle band che nei primi 90s inserivano nelle<br />

loro partiture southern buone dosi di psichedelia,<br />

il che ne fa qualcosa di lontano da tanto pessimo neo<br />

grunge che intasa l'etere delle stazioni americane. Nel<br />

54 55


highlight piatto il portato lisergico del kraut-rock più intenso<br />

(Can e Neu! su tutti) così come la devastante prova di<br />

dArKSTAr - norTh (hyperduB recordS, oTToBre 2010)<br />

forza che fu Sheets Of Easter degli Oneida.<br />

Ge n e r e: p o p w a v e<br />

Un solo giro di organo su base percussiva si protrae<br />

Leggi Hyperdub e ti aspetti il solito clone di Kode9 o Burial. Invece questo nuovo Darkstar spinge su<br />

per gli oltre 12 minuti dell’opener creando sfilaccia-<br />

una pista non ancora battuta (per lo meno dai music makers del suono now UK) e per questo degna<br />

menti nella percezione dell’ascoltatore. Quando ormai<br />

di essere praticata a ripetizione. La proposta del trio britannico viaggia su un territorio che mescola la<br />

la trance sembra prendere il sopravvento, ecco la voce<br />

wave al glo, le ritmiche squadrate del pop alla melodia che dall'estate scor-<br />

di Nisa: mantrica e perversa come una Nico sciamanisa<br />

ci travolge con fiumi di lacrime ipnagogiche che mai avremmo pensato<br />

ca, non spezza l’incanto, ma stende definitivamente al<br />

di poter versare ancora, noi post-adolescenti invecchiati a pane e melan-<br />

tappeto. Nello stesso modo, la traccia conclusiva - altri<br />

conia My Bloody Valentine.<br />

abbondanti undici minuti - si snoda come un raga os-<br />

Sarà merito delle vocals del nuovo arrivato James Buttery (il gruppo era<br />

sianico, maligno, parossistico proprio alla maniera dei<br />

fino a qualche tempo fa un duo dubstep formato da James Young ed Ai-<br />

citati Oneida, intenti però a rielaborare il drone-rock<br />

den Whalley), saranno i riferimenti agli onnipresenti Four Tet, Apparat<br />

della Vibracathedral Orchestra.<br />

e Morr Music, sarà che la techno da dancefloor l'avevano già esplorata a<br />

Robotici come i Suicide e minimali come discepoli anti-<br />

fondo altri maestri. Possibilità di riferimenti incrociati che si aggiungono<br />

accademici e sfrontati di Terry Riley, i due dimostrano<br />

al pianismo Ottanta semplice ma intriso di midi e 8-bit in Gold, alle chitarre dei Cure e allo spleen del<br />

di saper giostrare col free-rock anche nei restanti 3 pez-<br />

dark in Deadness, al minimalismo nel singolo (già noto ai fan di Harmonic 313 e osannato nel 2009 da<br />

zi, dal minutaggio più umano: paranoici sing-a-long e<br />

Pitchfork) Aidy's Girl Is a Computer e agli stupendi rimandi kraut nei synth di Two Chords e Ostkreuz.<br />

ipnotiche influenze velvetiane, esoterici richiami orien-<br />

Che Londra e l'oscurità siano definitivamente da riporre nel diario dei ricordi? Passeggiando per i vicoli<br />

tali e trance strumentale si alternano senza soluzione<br />

bui dello sprawl britannico restiamo abbagliati da un retrogusto di malinconia che si apre al pop tout<br />

di continuità, dando la misura di un disco-bomba. Spi-<br />

court e che preannuncia rivoluzioni. Quando un piccolo disco promette universi e deviazioni, quando<br />

ritualmente pagano, musicalmente trascendentale.<br />

una manciata di tracce accadono alla fine di un decennio, qualcosa di profetico ci sarà. Segnatevelo. Già<br />

(7.5/10)<br />

in top ten di fine anno per chi scrive.<br />

(7.8/10)<br />

STefAno pifferi<br />

MArco BrAggion<br />

fArABruTTo - eSTreMorienTe Mediocre<br />

occidenTe (freecoM, oTToBre 2010)<br />

sound degli Electric Sixty Nine la vena radiofonica c'è,<br />

ma viene direttamente dai 70s e suona come una ventata<br />

d'aria fresca.<br />

(6.5/10)<br />

diego BAllAni<br />

elio p(e)Tri - non è MorTo neSSuno<br />

(MATTeiTe, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: c a n T a u T o r a T o indie<br />

Emiliano Angelelli è giornalista e cantautore di origini<br />

umbre ma stanziato a Roma, la fama di bizzarro confermata<br />

dalla scelta d'imporre al suo progetto solista<br />

il nome di un grande regista morto troppo presto, fatto<br />

salvo un uso non convenzionale delle parentesi. Ma<br />

Elio P(e)tri non esisterebbe senza il decisivo contributo<br />

di Matteo Dainese, batterista in primis (già Ulan Bator<br />

e Jitterbugs) e in questo caso anche produttore. I<br />

due si sono conosciuti nel 2009, intesa fruttuosa che,<br />

a partire da demo casalinghi risalenti all'ultimo lustro,<br />

confeziona oggi un album di debutto degno di considerazione.<br />

Dieci tracce in italiano, testi come haiku in loop a cele-<br />

brare una travagliata ricerca (e riscoperta, e smarrimento)<br />

di sé, trame sonore elettroacustiche che rammentano<br />

dei Blur in fregola zen, certo camerismo corrucciato<br />

dEUS, angolosità poetiche Marco Parente, lirismo<br />

rappreso La Crus oppure un Paolo Benvegnù robottizzato<br />

Warp. Non spiace l'aria grave continuamente<br />

stemperata tra disillusione e autoironia, come un'intensità<br />

spacciata per scherzo. Infine, giusto mettere in<br />

rilievo due pezzi come Rachmaninov e Bradipo, che nel<br />

fantomatico mondo dei giusti avrebbero i numeri per<br />

farsi largo nelle migliori playlist.<br />

(7/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

fABulouS diAMondS - fABulouS diAMondS<br />

ii (SilTBreeze recordS, giugno 2010)<br />

Ge n e r e: f r e e-r o c k<br />

Cinque tracce untitled per una mezzora abbondante<br />

di reiterato, ossessivo e circolare free-rock. Così si presenta<br />

il ritorno dell’accoppiata australiana Nisa Venerosa<br />

(batteria/voce) e Jarrod Zlatic (voce/tastiere) dopo<br />

l’eponimo esordio di un paio di anni fa: mettendo sul<br />

Ge n e r e: c a n T a u T o r a T o r o c k<br />

Un trio da verona sbocciato allo scoccare degli anni<br />

zero, al debutto nel 2004 con Alzare la voce che si<br />

guadagnò attenzioni al Tenco (terza piazza categoria<br />

opere prime). Quanto al successore, dovevamo riparlarne<br />

solo sei anni più tardi, ovvero oggi. Estremoriente<br />

Mediocre Occidente mette in fila undici tracce di<br />

cantautorato (folk) rock, il piglio intenso e disturbante,<br />

lo strano contrasto tra la flemma quasi garbata, gli spasmi<br />

acidi e le sferzate post-punk, tra il sostrato acustico<br />

e i watt in derapage.<br />

Potremmo collocarli da qualche parte tra la passionalità<br />

obliqua di Paolo Benvegnù e i Perturbazione più<br />

pensosi, con memorie Eugenio Finardi, particelle Andrea<br />

Chimenti e un più che palpabile retroterra artwave.<br />

La triangolazione sonora è comunque inedita,<br />

che io ricordi: chitarra acustica, mandolino elettrico<br />

e "ground drums". Ed efficace. Molto buono il singolo<br />

Vivere, ottime intuizioni in Retorica, climax degno del<br />

miglior Ivano Fossati in Contenimento. Unica pecca il<br />

canto un po' monocorde, ma sospetto si tratti di una<br />

scelta precisa.<br />

(7/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

forMer ghoSTS - neW loVe (upSeT The<br />

rhyThM, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: s y n T h -p o p<br />

Il nuovo amore dei Former Ghosts non si discosta da<br />

quello vecchio. A brillare nel firmamento della band di<br />

Freddy Ruppert - al solito coadiuvato da mr. Xiu Xiu<br />

Jamie Stewart e Nika Zola Jesus Roza e dalla new entry<br />

Yasmine Kittles dei Tearist - brillano synth-pop Ottanta<br />

(quello più dark e alienato) e soprattutto la stella nera<br />

dei Joy Division.<br />

Quelle create dalla formazione losangelina sono infatti<br />

claustrofobiche atmosfere synth-oriented messe<br />

al servizio di una poetica struggente, pregne di un<br />

romanticismo decadente e spaccacuori che trasuda<br />

disperazione e smarrimento nel narrare storie di cuori<br />

infranti, gelosie e ossessioni personali proprio nella migliore<br />

tradizione JD.<br />

È un continuo vortice spazio-temporale tra l’here&now<br />

e un passato introiettato alla grande, New Love. Un<br />

omaggio, un plagio, una rielaborazione e riedizione<br />

continua degli stilemi più evidentemente e marcatamente<br />

propri della storica formazione di Manchester<br />

(And When You Kiss Me e Bare Bones sono puro JD<br />

sound, con un baritonale e melodrammatico Ruppert<br />

in pieno mega-trip Curtisiano). Ma anche una maniera,<br />

troppo evidente per sembrare artefatta, per smarcarsi<br />

dall’emul-rock che in questi anni ’00 ha usato e abusato<br />

di quel sound, di quell’immaginario, di quelle cicatrici<br />

dal lato più commercialmente spendibile (vedi Interpol<br />

et similia).<br />

New Love è indubbiamente più "pop" rispetto al predecessore<br />

Fleurs, ma resta sempre in filigrana una sensazione<br />

di imminente tragedia, di tocco al cuore, di ferita<br />

non rimarginata. Sempre in tensione, sempre emotivamente<br />

instabile. Che a ben vedere è proprio ciò che si<br />

chiede ad un certo tipo di musica.<br />

(7.2/10)<br />

STefAno pifferi<br />

friSVold & lindBæK - diSKoSM (BeATSerVice<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: eT n o, a m b i e n T , d a n c e<br />

Rune Lindbaek e Kare Frisvold, sono due dei numerosi<br />

personaggi di culto della cricca space disco di Oslo,<br />

gravitante attorno a Prins Thomas, Lindstrøm e Bjørn<br />

Torske. La loro specialità consiste nel mescolare dub,<br />

ambient balearico e sample bleepy in una serie di traiettorie<br />

etno - come piacerebbero a Bill Laswell ma<br />

soprattutto ai Future Sound Of London - aggiornando<br />

il tutto al clubbing odierno. Niente di nuovo per i<br />

movimenti di un personaggio come Torske: la coppia<br />

56 57


punta infatti a un'analoga zona di confine tra house e<br />

decompressione in Diskosm, una compila di remix che<br />

è sin’ora il loro unico disco lungo.<br />

Nella proposta di accostamento troviamo i newyorchesi<br />

Phenomenal Handclap Band opportunamente<br />

cocktalizzati e sparati su una spaggia su marte (All<br />

Of The Above), oscuri norvegesi che si abbeverano alla<br />

techno pop Kraftwerk-iana (The New Wine The Bridge),<br />

sanfranciscoani IDM fine ’80 (Lemonade, Bliss Out) e fischiettate<br />

cinematiche (Kohib, Tales from a Nomad). Ma<br />

soprattutto una manciata di track 4/4 belle bombate e<br />

tagliate funk house (Holy Heckler, I Wish for You), deep<br />

(Kurt Maloo, Afterglow) e jazz (Skatebård, Vuelo).<br />

Quando calcano sui bpm, Frisvold & Lindbæk hanno<br />

i numeri per spaccare, eppure a tradirli spesso è una<br />

voglia di mesh di scuola francese che andrebbe tenuta<br />

a bada (Mungolian Jetset, Moon Jocks). Calibrando la<br />

generosità dell'offerta scopriamo un gusto già solido<br />

su ritmi caldi, senza distinguo tra Est e Ovest del mondo.<br />

Godibile.<br />

(6.5/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

giAnT SAnd - Blurry Blue MounTAin (fire<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: a m e r i c a n a<br />

Parafrasando Forrest Gump, ascoltare un album di<br />

Howe Gelb equivale ad aprire una scatola di cioccolatini.<br />

Non sai mai bene cosa farà costui e come lo farà: un<br />

pregio proprio dell'indole arruffata e spontanea di chi<br />

sa sfruttare il momento e porge gemme che scavano<br />

come formiche nella terra: calme, tenaci e figlie del genio.<br />

E anche di un caso piegato splendidamente dentro<br />

rock turgidi (Thin Line Man) oppure aciduli (Monk’s<br />

Mountain), dentro serafiche istantanee (Better Man<br />

Than Me) e ballate da deliquio (Fields Of Green), dentro<br />

un jazz come lo suonerebbero Thelonious Monk da<br />

un lounge-bar di provincia (Chunk Of Coal) o un giovane<br />

Waits già "out" (Time Flies). Se non che talvolta l’approssimazione<br />

butta lì robetta che confonde e addirittura<br />

irrita: se Howe rifinisse e scartasse, rischieremmo<br />

però di perdere personalità e magia.<br />

Così è trascorso un quarto di secolo, oggi festeggiato<br />

con l’accasarsi alla Fire avviando un interessante piano<br />

di ristampe e questo album nuovo di zecca. Che manco<br />

a dirlo è amorevolmente sconclusionato, svolto tra canzoni<br />

odorose di nottate spese a guardare le stelle e levare<br />

sabbia dai cardini con qualche amico - la band danese<br />

che lo ha accompagnato dal vivo di recente - e poco che<br />

soccombe alla svagatezza (il girare a vuoto di Brand New<br />

Swamp Thing, una Spell Bound col pilota automatico). Per<br />

il resto, solo assi di cremosa narcolessia che diresti scritti<br />

ed eseguiti da visionari assonnati (The Last One, No Tellin’)<br />

e che mai scambieresti con belle forme senz’anima.<br />

Sommate a quanto sopra, a una sublime Ride The Rail più<br />

realista di Re Johnny Cash e allo struggente commiato<br />

Love A Loser, danno una sostanza che non gusti spesso.<br />

Altri venticinque anni come questi, Mr. Gelb.<br />

(7.2/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

gooSe - SynriSe (!K7, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: n u -r a v e<br />

Anche se la copertina è di Storm Thorgerson, il designer<br />

che ha creato il monolite dei Pink Floyd Dark Side<br />

of the Moon, il disco dei belgi Goose non può essere<br />

propriamente definito un classico. Impantanato su vaghe<br />

coordinate nu-rave e qualche progressività Ottanta,<br />

il sophomore (dopo l’esordio del 2006 Bring It On)<br />

replica un sentire ormai fatiscente, impolverato e autoreferenziale,<br />

che ha già dato e/o detto tutto.<br />

Non serve chiamare Peaches a cantare i cori della traccia<br />

che da il nome all’album, scimmiottare i Depeche<br />

Mode di Speak & Spell (After, Like You, Words) o i Duran<br />

Duran (Can’t Stop Me Now). Questi Goose, come molte<br />

band che cavalcano l’onda del retrofuturismo spicciolo<br />

durano il tempo di un veloce skip. Meglio riprendere<br />

in mano quei vecchi dischi con il baffo di Moroder che<br />

traguardava utopie eurodisco. Un’inutile tamarrata.<br />

(3.5/10)<br />

MArco BrAggion<br />

hArMoniouS TheloniouS - TAlKing (iTAlic,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o l i-minimalism<br />

Si descrive facilmente, la musica di Harmonious Thelonoius.<br />

È sufficiente leggere la mission del combo,<br />

dichiarata su sito ufficiale: american minimalists VS<br />

african drumming VS european sequencing. Talking<br />

è costruito come un flusso indefesso di percussioni<br />

africane sposate a tecniche di ripetizione minimalista,<br />

con innesti di beat elettronici e sequenze percussive di<br />

macchine. Un para-live infinito, che assume a principesco<br />

riferimento la cricca Konono N°1 (Makeshift, Primitive,<br />

Persuasive, Provocative Percussion), soprattutto per<br />

le armonie minime scaturite dalla jam e dai tamburi<br />

(senza pelli, nel caso degli africani, come sappiamo).<br />

Dietro al progetto c’è Stefan Schwander, maggiormente<br />

noto come Antonelli o Antonelli Electr. La provenienza<br />

del Nostro è flebile giustificazione dei sentori<br />

di motorizzazioni kraute dietro al sound di HT, ma non<br />

dice nulla sulla evidente intenzione (dentro alla musi-<br />

ca, non all’autore) di nascondere la propria penna, di<br />

sottrarsi dal ruolo di scrivere musica, per godere del<br />

risultato di un tipo musicale, anzi di un intreccio di tipi<br />

oggi molto in voga. Per adagiarsi su quella che in effetti,<br />

sulla carta, sembra a formula perfetta.<br />

È molto furbo, Stefan, ma lo sarebbe stato di più un<br />

paio di anni fa, quando l’ondata dei tribalisti metropolitani<br />

surfava ancora sulla maggior vivacità della propria<br />

cresta. L’effetto di Talking è un appagamento completo<br />

dell’orecchio ma un annebbiamento dell’attenzione<br />

cognitiva. Nonostante i beat, i poliritmi e le ripetizioni<br />

minimaliste, resta in mente un vuoto ipnotico, una<br />

sospensione immobile, pur martellata di percussioni.<br />

Non siamo lontanissimi dal trip indotto dai Konono,<br />

ma onestamente neanche vicini.<br />

(6/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

heliogABAle - Blood (leS diSQueS du<br />

hAngAr 221, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: indie-n o i s e -r o c k<br />

Con un nome di artaudiana memoria e un suono spigoloso<br />

e distorto, i francesi Heliogabale rappresentavano<br />

nella seconda metà dei ’90 uno dei vertici della<br />

ventata rumorosa proveniente d’oltralpe. Ora, dopo<br />

uno iato più che quinquennale (Diving Rooms del 2004<br />

l’ultimo passo conosciuto) tornano con un album che<br />

lima le asperità e le peripezie da funamboli del mathrock<br />

noise che ne segnavano la proposta per adagiarsi<br />

su un rock corposo, rotondo e accessibile.<br />

Molto nel suono del quintetto parigino ruota intorno<br />

alla personalità della vocalist Sasha Andrés, debordante<br />

e fin troppo catalizzatrice degli umori di un disco<br />

che invece ha nelle soluzioni strumentali varie e non<br />

noiose una buona lezione di indie-rock "della maturità".<br />

I Come di Thalia Zedek, alcuni passaggi shellacchiani<br />

nelle parti di chitarra, un andamento noise-blues<br />

sottotraccia, una spruzzata di Sonic Youth del medio<br />

periodo, una buona tenuta indie sono messe al servizio<br />

della chanteuse francese e dei suoi toni chiaroscurali e<br />

ondivaghi, ora da Joplin indemoniata, ora sensuale e<br />

roca come una Kim Gordon ventenne. Trovare il giusto<br />

equilibrio è possibile e potrebbe essere la mossa giusta<br />

per rilanciare un'onesta carriera.<br />

(6.2/10)<br />

STefAno pifferi<br />

hjAlTAlín - TerMinAl (Borgin, SeTTeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: c h a m b e r p o p<br />

Facilità melodica e leggerezza, si diceva l’anno scorso<br />

a proposito del bel debutto (Sleepdrunk Seasons)<br />

del collettivo islandese Hjaltalín - guidato da Hogni<br />

Egilsson - che si ripropone ora a distanza di un anno e<br />

mezzo circa con Terminal (già uscito nel 2009 in patria<br />

e ora distribuito).<br />

Chamber pop cantato spesso a due voci, maschile e<br />

femminile, con massime variazioni in tempi e mood: le<br />

caratteristiche fondamentali del gruppo sono rimaste<br />

inalterate per questo sophomore album, in cui la cifra<br />

lirica è sempre presente, così come il talento compositivo<br />

e l’alchimia di gruppo, che avevamo già rilevato.<br />

Degli Arcade Fire meno impetuosi, o meglio dei Broken<br />

Social Scene, con un amore per Burt Bacharach,<br />

Lee Hazlewood, Beach Boys, così come per la musica<br />

colta.<br />

Di nuovo in Terminal c’è un maggiore senso della<br />

coralità e un avvicinamento ad atmosfere da musical<br />

(Antony sembra essere dietro l’angolo) e in generale<br />

al pop sixties che prima era meno evidente - si prenda<br />

per esempio un pezzo come la mini suite Feels Like<br />

Sugar, che ricorda i duetti di Bacharach e certe cose<br />

di Dusty Springfield - per evidenziare questa piccola<br />

svolta. Non mancano anche piccoli richiami soul funk<br />

e disco assenti finora (la mutevole Seven Years con tentazioni<br />

Abba e Water Poured In Rain) e omaggi neanche<br />

troppo celati al maestro Robert Wyatt (la variabile<br />

Song From Incidental Music).<br />

Talento confermato.<br />

(7.2/10)<br />

TereSA greco<br />

hugo rAce - fATAliSTS (inTerBAng recordS,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: indie-f o l k-r o c k<br />

A livello superficiale, il mondo sonoro di Hugo Race<br />

appare come certi film di fantascienza sociale degli<br />

anni Settanta: una situazione normale, ordinaria che<br />

nasconde piccoli scarti verso il nero, il disperato, l'indicibile,<br />

ma senza che tutto ciò sembri turbare gli abitanti<br />

di quel mondo. Una musica, quindi, che se ascoltata<br />

distrattamente potrebbe scorrere nelle nostre cuffie<br />

come l'ennesimo disco di rock che affonda nelle radici<br />

più sanguigne della tradizione, similmente al Mark Lanegan<br />

onnipresente di oggi, con o senza Greg Dulli,<br />

con o senza la biondina scozzese.<br />

Ma se gli intarsi vocali di Will You Wake Up possono ricordare<br />

le fatiche dell'ex Screaming Trees in compagnia<br />

di Isobel Campbell, l'iniziale Call Her Name mette<br />

su altri binari queste otto tracce di Hugo Race: i pochi<br />

squarci di luce nel cielo nuvoloso vengono ricacciati indietro<br />

a suon di disperate mutazioni di slideguitar, at-<br />

58 59


mosfere esiziali e una tendenza all'assoluto che lascia<br />

senza fiato. Lo stesso si deve dire di Coming Over, che<br />

sa di marcia funebre, contornata di corvi in volo sopra<br />

la bara, o della corsa a fari spenti nella notte di Nightvision.<br />

D'altra parte, questo disco incentrato sul concetto di<br />

morte, è stato registrato mentre lo stesso Hugo superava<br />

la polmonite in una villa nella campagna italiana<br />

(Italia che deve proprio piacere a Race, tanto che per<br />

qualche tempo ha vissuto a Catania) durante lo scorso<br />

autunno: "faceva freddo e per tutto il tempo della produzione<br />

me ne sono dovuto stare a guardare e ascoltare<br />

a causa della febbre". Più fatalista di così...<br />

Non tutto è allo stesso livello, a partire da una poco<br />

convinta In The Pines già resa nota dall'Unplugged dei<br />

Nirvana, e una Serpent Egg che sembra proprio un outtake<br />

di Here Comes That Weird Chill proprio di Lanegan.<br />

Detto questo, il resto fa scendere più di qualche brivido<br />

lungo la schiena. Di disturbante piacere.<br />

(6.8/10)<br />

MArco BoScolo<br />

iSlAjA - KerAAMinen pää (fonAl, noVeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: f o l k, e l e T T r o n i c a<br />

Se n'è parlato tanto della freakerie finlandese: terra di<br />

folletti lo-fi, registratori magici, strumenti scordati che<br />

somigliano ad incantesimi pagani. Islaja ne è stata<br />

l'indiscussa regina e ora con Keraaminen Pää, abbandonati<br />

balalaika, orpelli e plaid boschivi, tenta la svolta<br />

vestendosi di un suono di disincantata inattualità poggiato<br />

su elettroniche e calore vocale inedito.<br />

E' infatti l'Occidente di Soap & Skin (così come<br />

quest'ultima riscrive la mitteleuropa di Nico) l'ambito<br />

che la folkster guarda con interesse rinunciando alle<br />

corde per liberarsi in sarabande corali (Joku Tai Roden),<br />

reggae per organetto (Dadahuulet), monologhi solitari<br />

da sirena oceanica (Pimeyttä kohti), loop etno-tribali<br />

(Rakkauden palvelija 14), trasfigurazioni eighties similbjorchiane<br />

(Ajanlaskun Aatto).<br />

Testimoni del salto avvenuto, i saliscendi di pianoforte<br />

nell'avveniristica cornice barocca, la preziosità di certi<br />

arrangiamenti che hanno un sapore lirico e certi accostamenti<br />

elettronico-orchestrali dall'impatto luminescente<br />

e disinvolto. Proprio sul versante laptop - come<br />

anche con Es, ed i conterranei Paavoharju - il passaggio<br />

al suono algoritmico ha fornito ulteriori elementi di<br />

arricchimento e trasversalità.<br />

(7/10)<br />

SAlVATore Borrelli<br />

jocelyn pulSAr - il gruppo SpAllA non fA<br />

il SoundchecK (i diSchi dellA lAVATrice,<br />

Aprile 2010)<br />

Ge n e r e: indie-p o p<br />

Ormai è un fatto assodato: nell'indie nostrano esiste<br />

una scuola "romagnola". Una via leggera e scazzata al<br />

pop capace di riassumere in sé tutti quelli che sono i<br />

caratteri fondanti di chi nella terra del cappelletto è<br />

nato: indifferenza nei confronti del mercato, ironia che<br />

ammicca al demenziale, flagello di "c" e di "z" in una<br />

pronuncia che è carta di identità in tutto e per tutto (e<br />

credetemi, so di cosa parlo). Agli ultimi Granturismo<br />

e Nobraino si aggiungono ora i Jocelyn Pulsar - anzi<br />

si sono aggiunti già da un po', visto che parliamo del<br />

quinto disco della formazione -, al secolo Francesco<br />

Pizzinelli da Forlì. Con un tripudio di chitarre acustiche<br />

e melodie appiccicose orgogliosamente provinciali,<br />

autobiografiche, irrimediabilmente nerd ma anche<br />

"modaiole", almeno nell'accezione del termine tipica di<br />

una Romagna estiva e fin troppo easy.<br />

I proverbiali Mr. Brace stavano su un altro livello, è<br />

vero, sia dal punto di vista del suono - qui è un po' tutto<br />

uniforme, senza picchi né particolari cadute di tono<br />

- che dei testi. Tuttavia il pop disimpegnato da sabato<br />

pomeriggio in centro dei Jocelyn Pulsar lo si ascolta<br />

volentieri, una volta spenti gli interruttori del pensiero<br />

critico più impegnato.<br />

(6.7/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

john roBerTS - glASS eighTS (diAl, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: de e p<br />

Se da una parte la deep spopola ancora sul dancefloor,<br />

a Berlino la voglia di IDM non è passata, anzi c'è pure<br />

molta spinta a portarla nei teatri, questa house oramai<br />

istituzionalizzata. Dopo la dream di Apparat, i ghiacci<br />

di Pantha Du Prince, le atmosfere di Efdemin e Lawrence<br />

e il pianoforte in cassa di Francesco Tristano<br />

arriva John Roberts. Lui è un giovane produttore proveniente<br />

da Cleveland attualmente residente a Berlino<br />

già fattosi apprezzare da Resident Advisor per un paio<br />

di uscite su Dial Records (dove tutt'ora è l'unico artista<br />

non krauto del roaster).<br />

A parte Pruned apparsa su Mirror EP della scorsa estate,<br />

quest'esordio sulla lunga distanza è interamente formato<br />

da materiale inedito e parla la lingua della deep<br />

house classica e della Warp primi Novanta. Di suo Roberts,<br />

oltre a claps e drum machine Roland, un basso<br />

avvolgente e synth analogici, ci mette il pianoforte<br />

classico proprio come Tristano, ma con finalità in tutto<br />

e per tutto ambient, attingendo per costruire la sua tavola<br />

da tipici paesaggi germanici tra pioggia e finestrini<br />

appannati, cementi diroccati e cieli color piombo.<br />

C'è tanto cuore nell'house dell'americano ma anche<br />

capacità di sceneggiatura come si nota in August (note<br />

uggiose, tocchi ironici delle vocals, i synth e la linea melodica<br />

appena accennata) e Went (solo piano e gracchi<br />

del giradischi in remember glitch). Da avere.<br />

(7/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

joSephine foSTer - & The VicTor herrero<br />

BAnd - AndA jAleo (fire recordS,<br />

noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: m u s i c a l p o e T r y<br />

Ancora una scelta sui generis, in questo caso di natura<br />

politica e autoriale, è alla base del nuovo album di<br />

Josephine Foster realizzato con The Victor Herrero<br />

Band: si tratta di una serie di canzoni popolari scritte<br />

da Federico Garcia Lorca e contenute nel libro Las<br />

Canciones Populares Espanolas, le quali hanno rappresentato<br />

la dissidenza contro il regime spagnolo franchista.<br />

Bandite all’epoca in Spagna durante gli anni della dittatura,<br />

sono state un importante veicolo culturale e<br />

vengono oggi riscoperte grazie all’autrice americana e<br />

al suo compagno Victor Herrero. Già testimone coraggiosa<br />

di scelte altre, si veda il recentissimo Graphic As<br />

A Star (Emily Dickinson in musica), nonché la rivisitazione<br />

di una serie di lieder tedeschi di Shubert, Brahms<br />

e Schumann (A Wolf In Sheep's Clothing, 2006), la Foster<br />

qui riduce all’osso la sua musica, che diventa performance<br />

a due prettamente acustica, accompagnata<br />

un ristretto numero di musicisti; registrato dal vivo<br />

Anda Jaleo ripercorre con vigore le canzoni del poeta<br />

spagnolo, rispettandone tempi e modi in una riproposizione<br />

appassionata e filologicamente impeccabile. Al<br />

solito la voce della Nostra si snoda tra tentazioni folk e<br />

personalità da vendere, e fa perciò la differenza in queste<br />

cover sghembe e fascinosissime. Grande musica<br />

d’autore.<br />

(7.3/10)<br />

TereSA greco<br />

juleS noT jude - All AppleS Are red, excepT<br />

for ThoSe Which Are noT red (produzioni<br />

dAdA, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p s y c h p o p<br />

L'ep Clouds Of Fish col quale li ho conosciuti, vi dirò,<br />

mi è rimasto incastrato da qualche parte tra l'anima e<br />

il cuore. Una di quelle cose che ti capitano e dici che<br />

bello, il refolo d'aria fragrante in mezzo a troppi respiri<br />

affannosi. Ai tempi - pochi mesi fa - i Jules Not Jude<br />

erano un duo. Oggi, in occasione dell'album d'esordio,<br />

diventano quartetto: ai fondatori Simone Ferrari e Mirza<br />

Shaman si sono aggiunti il bassista Mauro Parolini e<br />

la drummer Marzia Savoldi. Il suono ne esce più sbrigliato<br />

e definito, perdendo un po' di quell'alone caliginoso<br />

sui cui - a mò di cortina fumogena - si proiettavano<br />

aspettative e dolci misteri psych-pop.Peccato? Ok,<br />

peccato. Ma è un prezzo congruo se sul piatto della bilancia<br />

ci metti una disinvoltura che somiglia parecchio<br />

alla piena consapevolezza di mezzi e obiettivi.<br />

Gli undici pezzi caracollano tra gli Samshing Pumpkins<br />

più soft (il canto di Ferrari strizza spesso l'occhio<br />

a quello di Corgan), i Belle And Sebastian e tutto un<br />

poppeggiar bucolico che pesca suggestioni sixties<br />

(Zombies, i primi Small Faces) e contemporanee (Delgados,<br />

Super Furry Animals), per non dire nostrane<br />

come Annie Hall e Le Man Avec Les Lunettes (entrambi<br />

a vario titolo presenti nei credits). Buon disco,<br />

col valore aggiunto di un potenziale hit come Caramel<br />

Lovelypop.<br />

(7/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

KeiTh fullerTon WhiTMAn - diSingenuiTy<br />

B/W diSingenuouSneSS (pASTA BASe,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: c l a s s i c T r o n i c a<br />

Keith Fullerton Whitman aka Hrvatski torna al full<br />

lenght vinilico dopo quattro lunghi anni passati a diffondere<br />

il verbo dell’avanguardia elettronica classica in<br />

serate live, split, mini 12’’, edizioni limitate, nastri e attivismo<br />

culturale. Due facce del disco per due pezzi che<br />

riprendono registrazioni dal vivo degli ultimi anni, passati<br />

tra Cambridge (il ragazzo ha studiato alla Berklee),<br />

New York e Toronto e li rielaborano seguendo un approccio<br />

anticommerciale senza nessun compromesso<br />

o pelo sulla lingua.<br />

La mezz’ora complessiva delle tracce è una selezione<br />

da una più lunga improvvisazione, basata su field<br />

sounds di elicotteri (e qui ritorna il fantasma del quartetto<br />

di Karlheinz Stockhausen), passeggiate nella<br />

neve e voci di bambini riversati su una macchina Nagra<br />

a nastro, che non registra solo il suono degli speakers,<br />

ma anche i rumori dei chip interni. Il risultato è distante<br />

dalle prove di musica informatica (costruita cioé solo<br />

con l’elaboratore o con le macchine), cui ci ha abituati il<br />

ragazzo Whitman: oggi ci si confronta con le sperimentazioni<br />

live dei francesi, passando per lo Studio di Fonologia<br />

milanese di Nono, Berio, Maderna e Zuccheri.<br />

60 61


highlight lo-fi psichedelico, piuttosto romantico, l'aria matura e<br />

indolenzita di chi ormai ha masticato parecchia disillu-<br />

frAnceSco TriSTAno SchliMé - idioSynKrASiA (infiné, noVeMBre 2010)<br />

sione ma non rinuncia alle fatamorgane rock. Li senti<br />

Ge n e r e: de T r o i T p i a n o<br />

muoversi tra dissonanze My Bloody Valentine ed in-<br />

Prima la collaborazione con Murcof (sua la produzione di Not For Piano), poi con Moritz Von Oswald<br />

cubi psicoattivi Flaming Lips (Gimme Lies), tra melodie<br />

in Auricle Bio On e infine oggi con Carl Craig su questo nuovo full length. La parabola di Tristano si<br />

deragliate Daniel Johnston e post-glam sfrigolante<br />

aggancia alle visioni di un ambient/classica ormai sempre più a portata di club, tanto che la prova ge-<br />

Brian Eno (Red Eyes), spiegazzando dolcezze malmonerale<br />

di queste nove tracce si è tenuta proprio in una delle mecche del clubbismo europeo. Lo scorso<br />

stose Magnetic Fields in salsa Sparklehorse (You<br />

luglio allo Space ibizenco, gli increduli spettatori hanno infatti assistito alla prova generale preludio di<br />

Should Wear A Dress) o Radiohead (Raged Nights), per-<br />

questo bel disco: un pianoforte gran coda immerso nel buio nel tempio della house e un Cark Craig che<br />

mettendosi di sdolcinare Beck in un brodo Polypho-<br />

comanda l’iPad per modificare dal vivo il suono del ragazzo, aggiungendo<br />

nic Spree (Motor Fear) oppure d'incendiare languori da<br />

i suoi tocchi magico-estatici. Da quella serata il duo ha tratto la forza e la<br />

camera Nick Cave con un tripudio di svalvolate spacey<br />

consapevolezza di essere sulla giusta strada per un progetto definitivo.<br />

(Away And Still Cold).<br />

Ai confini con una visione che distilla il sentire soul di Detroit (le registra-<br />

Ogni pezzo azzecca un equilibrio prodigioso sulla prozioni<br />

sono state effettuate negli studi Planet E di Craig, impiantati nel supria<br />

obliqua congiuntura sonica: come una trottola che<br />

burbio della Motor City della techno), le nove tracce che abbiamo l’onore<br />

traballa ma non smette di girare, come una generosa<br />

di ascoltare oggi si adattano all’ascolto per palati sopraffini, delineano toc-<br />

problematica ostinazione, come un rammarico che<br />

chi ritmici che vanno ad ampliare il suono del gran coda senza sovrastarlo,<br />

non rassegna a spegnersi. Disco che vibra vivo dalla<br />

quasi dei piccoli incantesimi che elevano l’antesignano acustico di tutte le<br />

prima all'ultima nota.<br />

consolle a culto. Idiosincrasia appunto, che si adagia sui territori ambient: un viaggio, dice Francesco,<br />

(7.5/10)<br />

"in qualche modo tra l’acustico e l’elettronico. La mia ambizione è quella di conferire al pianoforte una nuova<br />

identità, poiché è spesso associato con la musica classica ed è visto come uno strumento del passato. Io<br />

STefAno SolVenTi<br />

lo vedo invece come uno strumento proiettato nel futuro".<br />

KingS of leon - coMe Around SundoWn<br />

Ben vengano quindi gli intagli con la tradizione techno, purché dosati con parsimonia e savoir faire da<br />

(rcA, oTToBre 2010)<br />

rodati arrangiatori: il sapore sudamericano di Fragrance De Fraga, i sogni che ricordano l’ultimo David<br />

Ge n e r e: in d i e r o c k<br />

Sylvian in Lastdays, le visioni post-jazz cubiste con gli echi dei migliori Underworld (Mambo), i silenzi<br />

Il precedente Only By The Night è stato un vero e pro-<br />

di Vladislav Delay mescolati al minimalismo classico di Philip Glass in Nach Wasser Nor Erde, la proprio<br />

nuovo inizio per i Followill. Dopo il classico esordio<br />

gressione à la Steve Reich contaminata con l’anima black in Idiosynkrasia, il ricordo easy listening con<br />

da next big thing e l'inevitabile parabola discendente<br />

i clap uptempo di Eastern Market, Single And Doppio che potrebbe essere l’unica traccia destinata a un<br />

tipica di chi ha invaso per mesi le pagine dell'NME, i<br />

DJ set dei più ispirati e per finire la lunghissima chiusa psych con i synth di Craig nei dieci minuti e più<br />

quattro del Tennessee hanno saputo ricalibrare il pro-<br />

di Hello-Inner Space Dub. Tristano e Craig: grandissima abbinata. Puntate tutto su di loro.<br />

prio sound su un alt rock decisamente più edulcorato<br />

(7.6/10)<br />

rispetto al garage degli esordi, tuttavia non privo di<br />

MArco BrAggion<br />

spunti.<br />

I maligni li hanno già ribattezzati i "Southern U2", per<br />

l'attitudine da "stadium song" di brani come Sex On<br />

Fire. Ecco allora che questo Come Around Sundown<br />

Il viaggio attraverso le tecniche classiche di elabora- vedere nuovi mondi di cui non conoscevamo l’esisten-<br />

funge cartina di tornasole per testarne la reale consizione<br />

del suono in Disingenuity sembra non avere un za. Non è di immediato appealing come Lisbon, ma in<br />

stenza, anche alla luce dell'imponente dispiegamento<br />

punto di riferimento, è un collage di sperimentazioni qualche modo scovatelo questo vinile, anche se è già<br />

di mezzi che presumibilmente l'etichetta avrà conces-<br />

adatte per un trip acido che ricorda le infatuazioni per esaurito su tutti i siti. Non ne uscirete vivi.<br />

so loro.<br />

il concretismo di Parmegiani o del primo Xenakis. Se (7.2/10)<br />

La cosa che colpisce, infatti, non appena partono le<br />

il lato A si confina ad un eremitaggio per pochi eletti,<br />

MArco BrAggion<br />

prime note dell'opener The End (!), è l'imponenza della<br />

la seconda faccia (Disingenuousness) parte invece con<br />

produzione. Col precedente lavoro, hanno assaporato i<br />

una progressività minimal glitch che richiama la mitica King Me - TheM BrAWlerS (A cup in The<br />

grandi spazi, ma i nuovi brani gettano lo sguardo anco-<br />

serie Octagon della Hard Wax, il sogno Basic Channel gArden, oTToBre 2010)<br />

ra più lontano, rallentando il ritmo, facendo respirare le<br />

che entra nelle classi di musica elettronica e ne esce Ge n e r e: l o -f i p s y c h<br />

armonie e aprendosi a suggestive soluzioni shoegaze,<br />

ancora più spaced out di quanto già non fosse di suo I King Me sono un sestetto olandese con undici anni<br />

affermazione quest'ultima su cui è necessario aprire un<br />

all’origine.<br />

di carriera alle spalle e, col qui presente Them Braw-<br />

inciso.<br />

Keith ci porta con ostinata e certosina pazienza a toclers, ormai sei album all'attivo. Non so voi, io non ne<br />

Quello che siamo soliti descrivere come "shoegaze", incare<br />

ancora una volta con mano la potenza del suono avevo mai sentito parlare. Ma, ad occhio e croce, sono<br />

fatti, è un mix di chitarre psichedeliche nebulizzate che<br />

sperimentale, che se sapientemente costruito, può farci una grande band. Con un'idea non precisa ma forte di<br />

baluginano all'orizzonte; un espediente sonoro che, al<br />

pari del tipico chitarrismo effettato "alla The Edge" o di<br />

certe soluzioni ritmiche introdotte da band new wave,<br />

sono diventate patrimonio comune di qualunque pop<br />

band voglia apparire anche solo minimamente up to<br />

date. Il languore psichedelico di canzoni come The Face<br />

è qualcosa che si inserisce agevolmente in questo solco;<br />

eppure, con la voce impastata di Caleb Followill a<br />

fare da contrappunto, l'effetto è estremamente affascinante.<br />

Ecco dunque la chiave di lettura dell'album e la peculiarità<br />

che rende questi Kings Of Leon ancora degni di<br />

considerazione. I Followill sono come quei redneck che<br />

si vestono da damerini per una notte brava da spendersi<br />

fra le luci della città: hanno abiti firmati ma quando<br />

parlano d'amore, come nella ballata Mary, si portano<br />

dietro lo spleen della campagna. Quando poi accelerano<br />

e irrobustiscono le trame (come nel moderno boogie<br />

di No Money) la sporcizia è ancora lì, sotto le unghie,<br />

e non importa quanto si cerchi di nasconderla.<br />

(6.8/10)<br />

diego BAllAni<br />

KiT doWneS - KiT doWneS Trio - golden<br />

(BASho recordS, noVeMBre 2009)<br />

Ge n e r e: j a z z<br />

Arriva solo ora in Italia questo esordio del Kit Downes<br />

Trio. In realtà il disco risale a fine 2009 e dal momento<br />

della sua uscita non ha raccolto che elogi da stampa<br />

specializzata e non. Comprensibile, dal momento che il<br />

jazz del diretto interessato - pianista britannico con un<br />

curriculum di tutto rispetto alle spalle - sa gravitare con<br />

stile tra modernità e classicismo. Nello specifico, tra un<br />

approccio piuttosto elastico e per nulla intimidito nel<br />

mescolare cambi di registro repentini (l'ottima Jump<br />

Minzi Jump in cui si passa da un suono crepuscolare a<br />

un Sud America appena abbozzato a un'esplosione di<br />

note quasi in sbornia free) e una formazione "tipo" (col<br />

contrabbasso di Calum Gourlay e la batteria di James<br />

Maddren) legata a filo doppio alla golden age del jazz.<br />

Keith Jarrett benedice i fraseggi elaborati ai limiti della<br />

classica, Bill Evans è chiamato in causa dalla raffinatezza<br />

di certe atmosfere (Homely), Thelonious Monk<br />

è il nume tutelare di alcune soluzioni armoniche non<br />

troppo rotonde. Racchiusi in un'opera forse poco rivoluzionaria<br />

ma assai godibile, in cui spiccano oltre all'ottimo<br />

interplay tra gli strumenti anche le buone doti di<br />

compositore del titolare del progetto.<br />

(7.1/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

62 63


KongroSiAn Trio - BooTSTrAp pArAdox (AuT<br />

recordS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: i m p r o j a z z<br />

I Kongrosian sono un trio, diciamo così, trevigiano, che<br />

come il (giustamente) celeberrimo radicchio si esalta<br />

espandendosi, apparentando sapore e consistenze con<br />

altri sapori altre consistenze. Tendono naturalmente al<br />

quartetto, e infatti vantano collaborazioni col notevole<br />

sassofonista Beppe Scardino e col drummer Stefano<br />

Giust tra gli altri. Di base, i tre combinano una misticanza<br />

insolita: clarinetto (alto e basso), sax (contralto e<br />

soprano) e un altro sax (baritono), quest'ultimo spesso<br />

e volentieri barattato con un mellofono.<br />

Coadiuvati in questo album d'esordio dal clarinettista<br />

Oreste Sabadin, sfornano impro con piglio dadaista e<br />

patafisico ma sanno metterci sotto (e sopra, e di lato)<br />

qualche batuffolo di mistero e un pizzico di serietà, così<br />

da sembrare una brass band ebbra sul ponte sospeso<br />

tra l'Apocalisse e il Paese dei Balocchi. Sedici tracce<br />

folgoranti (durata media sui due minuti) come micro<br />

massaggi neuronali o sketch ora garruli ora enigmatici,<br />

col jazz (passato, presente, futuro?) ridotto in coaguli<br />

scarmigliati e fragorosi, insospettabilmente lucidi.<br />

(7.1/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

le luci dellA cenTrAle eleTTricA - per orA<br />

noi lA chiAMereMo feliciTà (lA TeMpeSTA<br />

diSchi, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />

Recensire il secondo disco di Vasco Brondi è un po'<br />

come giocare alla roulette russa. Con il revolver puntato<br />

alla tempia e il colpo in canna. E non tanto per<br />

un discorso legato al giudizio sulla qualità effettiva<br />

dell'opera, quanto per quello che il Brondi-pensiero<br />

rappresenta per una buona fetta di ascoltatori. Specchio<br />

di una generazione, oltre che modello musicale di<br />

riferimento, abbastanza diretto e disperato da assurgere<br />

al ruolo di vera e propria icona con tutti i pro e i<br />

contro del caso. Tra questi ultimi, un'aura da intoccabile<br />

cucitagli addosso da un seguito fin troppo acritico<br />

con il proprio paladino in virtù di un'onestà artistica<br />

evidente ma, a nostro avviso, ancora tutta da formare.<br />

E' un intercettare involontario il momento storico, l'arte<br />

del Brondi, unito alla capacità di scrivere testi "universali",<br />

frammentari, comunque profondi, in linea con la<br />

velocità di assimilazione che richiede il nuovo millennio.<br />

Con la chitarra acustica al centro e brani da un paio<br />

di accordi a fare da cavallo di Troia. Come se si unisse<br />

l'immediatezza DIY del punk - con tutto il meccanismo<br />

di identificazione che ne deriva - alla profondità della<br />

canzone d'autore, in una convergenza tra il pubblico<br />

giovanile e quella critica "adulta" che non ha esitato<br />

un attimo a gratificarlo, la scorsa stagione, col Premio<br />

Tenco.<br />

In Per ora noi la chiameremo felicità Brondi scrive per<br />

loro. Non per chi non lo conosce ancora, non per far<br />

cambiare opinione a chi lo ha già catalogato come un<br />

"difetto" del sistema indie e nemmeno per dimostrare<br />

di aver compiuto un percorso. Soltanto per ritrovare<br />

quell'unità di intenti che ha reso il suo esordio un caso<br />

discografico e i suoi concerti degli happening in pieno<br />

stile. Tanto che non ci si muove di un millimetro dall'approccio<br />

che aveva reso Canzoni da spiaggia deturpata<br />

quello che era, replicando estetica, forma e immaginario.<br />

Stesso stile, stessa poetica e soprattutto nessun accenno<br />

a tematiche inedite o a cambi di direzione. Nella<br />

pratica, tutto si riduce al solito cut up che trita paesaggi<br />

urbani e storie lungo i bordi, legate a filo doppio ad<br />

una sfera individuale claustrofobica, omnicomprensiva<br />

ma, in qualche caso, anche fin troppo vaga. Dal fiume<br />

in piena si salvano due o tre brani particolarmente riusciti<br />

(Quando tornerai dall'estero, Una guerra fredda,<br />

L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici) e<br />

gli arrangiamenti, questi ultimi giocati su una musica<br />

"atmosferica", stratificata e più varia rispetto al passato,<br />

frutto del buon lavoro di Giorgio Canali, Stefano Pilia,<br />

Rodrigo D'Erasmo e Enrico Gabrielli.<br />

Per una continuità che rasenta il vicolo cieco. Anche<br />

perchè le scritte sui muri, le case inagibili o le polveri sottili<br />

che rendevano riconoscibile il Brondi degli esordi<br />

guadagnano qui un'immobilità quasi dannosa, come<br />

se consolidare significasse ripetersi ad libitum e non rielaborare<br />

un esordio a cui si perdonava molto in virtù<br />

di una vis comunicativa enorme. E che almeno possedeva<br />

"inni generazionali" come Per combattere l'acne.<br />

(6.2/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

leo zero - diSconnecT (STruT recordS,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: dj f a v o u r i T e s<br />

Bella partenza per la nuova serie di mix della Strut Disconnect,<br />

che affida ad alcuni tra i migliori DJ del globo<br />

un CD da stipare con stranezze, rarità e gioielli dimenticati<br />

delle proprie collezioni di dischi. Si parte col<br />

britannico Leo Zero, nella vita di tutti i giorni (?) Leo<br />

Elstob, noto da tre lustri e impegnato in diverse situazioni,<br />

dal figurare come "resident" allo Shrink2Fit durante<br />

il boom della techno detroitiana dei ’90 all’aver<br />

inventato serate deep house con Stuart Patterson e<br />

aver partecipato al collettivo Faith. Non contento, a un<br />

highlight<br />

giAncArlo onorATo - SAngue BiAnco (liliuM produzioni, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />

Per parlare di Giancarlo Onorato occorre parlare di un cantautore come ce ne sono ormai pochi. Non<br />

tanto e non solo per la qualità di una produzione diradata nel tempo ma<br />

fondamentale negli esiti (quattro dischi dal 1996 ad oggi, dopo la fine<br />

dell'esperienza con gli Underground Life), quanto per la peculiarità di<br />

una scrittura da sempre differente rispetto alle tendenze in circolo. Come<br />

altri inestimabili outsider prima di lui (Flavio Giurato, Juri Camisasca, il Fausto<br />

Rossi degli anni novanta) Onorato ha sempre cercato la massima potenza<br />

espressiva delle sue canzoni attraverso un lavoro sulla densità della<br />

parola, proprio intesa letterariamente, e nel suo caso poeticamente. E di<br />

poeticità per una volta è bene parlare quando siamo dinanzi ad un autore<br />

che non teme la nudità estrema (eccolo probabilmente il maggior punto di contatto con gli outsider di<br />

cui sopra), l'imprevedibile e inconsueto utilizzo lessicale, in ultimo lo zenit comunicativo intercostale e<br />

sovrumano.<br />

Sangue bianco, a sei anni di distanza dal precedente Falene, schiera le sue canzoni al bivio tra nascita<br />

e nulla, lungo un orizzonte lirico che mischia dolcezza essenziale ed erotismo radicato, laddove la carne<br />

si confonde con la purezza in un lascito di fecondità e misticismo. Sono per lo più ballad, arrangiate<br />

classicamente ma con lievi dettagli a determinare ogni singolo brano, in cui la grande gamma strumentale<br />

e i venticinque musicisti coinvolti (fra di essi un nugolo di nomi nuovi da tenere d'occhio ognuno<br />

nei propri campi: Christian Alati, Mario Congiu, Attila Faravelli, Christian Rainer, Davide Tosches)<br />

non mettono a repentaglio la compattezza di un lavoro che pulsa grazie alla forza dei propri spunti<br />

originari.<br />

&#8232;Ascoltate tracce come Else lied (dove i versi della poetessa tedesca Else Lasker-Schüler vengono<br />

immersi di una soffusa luce d'alba), Il tuo venire, Io ti battezzo (intrinsecamente religiosa, seppur in un<br />

senso del tutto anti-dottrinale) e la conclusiva Reginebambine, un'autentica preghiera d'amore generativo<br />

distante anni luce dalle lagne camerettarde di questi anni, e diteci se non è vero che di canzoni<br />

così ce ne sono sempre meno, se chi scrive non dovrebbe tornare con più frequenza - e soprattutto<br />

urgenza - al sangue, alle lacrime, alle ossa. In una parola alla vita: "passo e ripasso la lingua gentile sulla<br />

ferita / immaginandola colma di bellezza traboccata / fonte segreta, bocca di un nulla dimenticato".<br />

(7.5/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

certo punto ha preso a produrre e remixare senza posa<br />

(benché non sempre a ragion veduta: sua la porcata<br />

su Satellite Of Love di qualche anno fa) e ricoperto un<br />

ruolo fondamentale nel progetto A Mountain Of One.<br />

Come remixer lo hanno preteso Paul Weller, Florence<br />

& The Machine, Bryan Ferry.<br />

Quanto c’è di tale molteplicità di gusti e interessi in<br />

questo mix? Tantissimo, giacché si passa con "cut" eleganti<br />

e raffinati da afro-pop a disco e reggae tramite<br />

le contaminazioni new-wave di Basement 5 (un possente<br />

"extended" di Silicon Chip) ed Essential Logic;<br />

successivamente planando sugli Ottanta di Chris &<br />

Cosey (Exotica) e Propaganda per rapirsi il cervello in<br />

un frammento di Halleluwah dei Can senza perdere di<br />

vista l’Africa e le morbidezze da dancefloor, chiudendo<br />

con la dolcezza di Spinning Away (Eno/Cale) e la marpiona<br />

My Oasis di The Countach. Saliscendi brillante a<br />

medio livello di BPM e bello sfoggio di apertura mentale.<br />

(7/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

leS SAVy fAV - rooT for ruin (frenchKiSS<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: in d i e ro c k<br />

Appena tre anni fa Let's Stay Friend mieteva consensi<br />

unanimi da parte di critica e pubblico, mentre oggi il<br />

quinto lavoro dei newyorchesi esce quasi in sordina.<br />

64 65


highlight<br />

loBi TrAorè - rAiny SeASon BlueS (gliTTerhouSe, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: ba m b a r a b l u e s<br />

Chissà che costa stavate facendo il 9 agosto del 2008. Lobi Traorè era ai Bogolan Studio di Bamako,<br />

Mali. Stava registrando l'ultimo disco della sua vita. Poco meno di due anni dopo, lo scorso giugno,<br />

sarebbe morto, improvvisamente e senza tante spiegazioni di contorno. In studio con lui c'era l'ex<br />

Walkabouts Chris Eckman e se ci avete seguito negli scorsi mesi durante<br />

le nostre peregrinazioni sulle ultime novità in fatto di musica dalle parti<br />

del delta del Niger sapete già che ci stiamo nuovamente inoltrando in un<br />

qualcosa che va ben oltre la semplice uscita discografica ma riguarda gli<br />

incontri intesi come le vite che s'incrociano e rifioriscono.<br />

In pratica Traorè conosce Eckman durante le registrazioni del secondo disco<br />

dei Dirtmusic, sul quale il chitarrista maliano mette il proprio strumento<br />

in un paio di pezzi. Eckman aveva ascoltato di Traorè, innamorandosene<br />

perdutamente, The Lobi Traorè Group, ovvero il lato elettrico del<br />

musicista, ovviamente figlio di Ali Farka Tourè ma anche grande ascoltatore del blues di questa parte<br />

di mondo, John Lee Hooker su tutti. Da lì nasce una vicenda di demo registrati alla buona per una<br />

nuova pubblicazione di Lobi che fatica a trovare un'etichetta in grado di sostenerlo - nonostante una<br />

carriera più che ventennale - e poi scambi di mail, fraintendimenti dovuti alle differenze linguistiche<br />

(Traorè parla soprattutto il Bambara, lingua a cui corrisponde una tradizione musicale di cui il suono<br />

della sua chitarra è profondamente intriso) e infine questo disco benedetto.<br />

Registrato tutto dal vivo, senza una setlist prestabilita, durante una session di quattro ore, Rainy Season<br />

Blues illustra il Traorè acustico, solo chitarra, voce e storytelling. Le canzoni sono legnose di un<br />

legno brulicante di vita, la chitarra brucia di un'inquietudine ritmica figlia dei primi passi da percussionista<br />

del titolare (suonava le maracas in una banda di quartiere e le timbalas in un gruppo per matrimoni).<br />

La voce è vigorosa, muscolare, eppure straordinariamente lirica. Oltre ai nomi citati nell'aria c'è<br />

anche Howlin' Wolf e insomma Traorè è un altro di quegli alvei provenienti dal Mali e non solo al quale<br />

è impossibile per noi occidentali non andare a dissetarsi come ci si disseterebbe ad una fonte capace di<br />

farci conoscere l'unica vera nostra origine, il grande Ritorno.<br />

La storia completa di come sia nata un'opera come questa la trovate raccontata dallo stesso Eckman<br />

nel booklet del disco. Vi anticipiamo solo che ha tutta l'epica, la purezza e la tragicità della musica di<br />

quelle parti. Lobi Traorè è morto a quarantanove anni, non sappiamo cosa avrebbe potuto suonare ancora<br />

ma, credeteci, questa decina di canzoni scompaginano quella sublime indifferenza in cui la morte<br />

farà cadere tutti noi e la memoria del nostro transito qui: per Lobi non sarà esattamente la stessa cosa.<br />

(7.4/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

La smania di novità rischia di farci perdere uno degli<br />

album più focalizzati e maturi di Tim Harrington e soci,<br />

un inarrestabile fluire di elettricità policroma, che si<br />

apre con il riff dissonante di Appetite e prosegue con<br />

una serie di brani carichi di adrenalina: geometrie post<br />

punk per chi, artisticamente, è cresciuto col melodismo<br />

schizofrenico di Pixies e Superchunk.<br />

I LSF non hanno intenzione di cedere di un millimetro<br />

di fronte all’età che avanza anche se oggi a colpire, più<br />

che la follia del barbuto singer, è un chitarrismo sugge-<br />

stivo e coloratissimo, ricco di riverberi ed effetti assortiti<br />

che avvicinano Dirty Knails e Lips’n Stuff al surf spaziale<br />

dei Man Or Astroman? e che illuminano di bagliori<br />

psichedelici la filastrocca di Sleepless In Silverlake.<br />

Root For Ruin è la somma algebrica delle esperienze<br />

di una band nata 90s, ma che continua ad elaborare<br />

con gusto ed originalità le sonorità contemporanee.<br />

(6.7/10)<br />

diego BAllAni<br />

lonerS - i reMeMBer A dreAM (BooM deVil<br />

recordS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: f o l k r o c k<br />

Che c'azzeccano due siracusani con un blues rock<br />

asperso di umori southern, dalle venature contry-psych<br />

luccicose come ne intarsiavano i Grateful Dead del<br />

periodo Arista, il cuore ora in piena e ora in ambasce<br />

- conteso tra palpitazioni ruspanti e spasmi angolosi<br />

- come una disputa tra Wilco e Black Crowes? Abbastanza,<br />

perché Sante Barbagallo e Salvo Rizzuto iniziarono<br />

a staccare il biglietto per il loro sogno di rock'n'roll<br />

trent'anni orsono, abbozzando un sodalizio mai approdato<br />

ad alcunché di concreto. Un cerchio che si aprì<br />

quando Salvo abbandonò la terra natìa per l'ambita<br />

Londra, dove ebbe modo di farsi apprezzare come cantante<br />

lavorando con Trevor Horn e Stephen Duffy tra<br />

gli altri.<br />

Sante invece è rimasto a Siracusa dove ha aperto un<br />

negozio (di dischi, of course) senza però smettere il vizio<br />

di fare musica, suonando in diverse band della scena<br />

cittadina e organizzando eventi. Tre decadi dopo,<br />

cioè oggi, quel cerchio si è chiuso, ovvero l'intesa tra<br />

i due ha potuto finalmente compiersi, col non piccolo<br />

aiuto di Carlo Barbagallo (già Albanopower) in fase<br />

di arrangiamento e produzione. Al netto di qualche eccesso<br />

melodico, è un disco di ballate calde, intense, generose,<br />

capace di languori power pop (la notevole So<br />

Wrong) così come di abbozzare ombre Mark Lanegan<br />

in Brand New Day. Mai dimenticarsi di ricordare i sogni<br />

migliori. Vero?<br />

(7/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

loVe in eleVATor - il giorno dell'ASSenzA<br />

(go doWn recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: no i s e r o c k<br />

Siamo un popolo di navigatori, di santi e, forse, di eroi,<br />

ma di sicuro non di shoegazers. Poi arriva un gruppo<br />

come i Love In Elevator, che non solo sfoggia la liquidità<br />

psichedelica del dream pop, ma dimostra di saperla<br />

coniugare con i costrutti più fisici del noise a stelle e<br />

strisce e del post punk.<br />

Il gruppo, fra vari cambi di formazione, esiste dal 2001<br />

e giunge al terzo album con uno stile personale che fagocita<br />

trent'anni di rumorismo per creare il proprio magniloquente<br />

affresco psichedelico. Magari non sempre<br />

equilibrato: gli otto minuti della monolitica Dune, maelstrom<br />

sonico con contrappunto di violini, richiedono<br />

più di qualche ascolto per essere metabolizzati. Di certo<br />

non fa difetto una sana ambizione che li porta a trattare<br />

con maestria una materia estremamente urticante<br />

e variegata, a base di sfuriate punk e deliqui noise, e a<br />

cui la voce eterea della brava Anna Carazzai concede<br />

sempre una raffinata gentilezza pop.<br />

A fine ascolto resta ancora il fiatone per il tour de force<br />

de I Cieli Di Munch e il piacevole perdersi nelle suggestioni<br />

de Il Sesso Delle Ciliegie e Mata Hari, fra le cui<br />

complesse trame risuonano gli echi dei mai dimenticati<br />

Scisma.<br />

(6.8/10)<br />

diego BAllAni<br />

loW freQuency cluB - WeST coAST (foolicA,<br />

noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: e l e c T r o f u n k<br />

Una chitarra che graffia nervosetta l'estro funk, tastiere<br />

(tastierine, tastierone, tastieracce) a pennellare frizzi<br />

e lazzi disco anni ottanta più o meno italo, traslati poi<br />

nelle aciderie club dei nineties con tutto il sovraccarico<br />

di tensione febbricitante e liberatoria, il tutto attualizzato<br />

per gli anni zero con piglio DFA. Due anni (quasi<br />

tre) dopo l'omonimo debutto, a pochi mesi dalla cover<br />

di Johnny Come Home (pezzone targato Fine Young<br />

Cannibals) che annunciava il nuovo corso su Foolica<br />

Records, i tre Low Frequency Club tornano con questo<br />

West Coast per ragguagliarci sulla loro frizzante<br />

ossessione.<br />

Traccia via traccia, cogli entusiasmo, impudenza, energia,<br />

la cura ludica dei dettagli, la saldezza affilata degli<br />

intenti. Una scrittura capace di sfornare potenziali craque<br />

come Disturbed Dancer o la feroce We Are Wolves.<br />

Roba felice e facile col ghigno nel taschino, attenta<br />

(giustamente) solo al qui e ora, tuffandosi dal trampolino<br />

di un passato ancora turgido. Capiterà ai bradipi<br />

come il sottoscritto di chiedersi: ma perché? Solo per<br />

sentirsi rispondere: perché no?<br />

(6.6/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

M.o.f. 5TeT - eMBArrASSing dAyS (MArco<br />

forieri edizioni MuSicAli, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: a v a n T j a z z<br />

Cinque ragazzi freschi di conservatorio (il Frescobaldi di<br />

Ferrara) portatori sani di disparità geografica (Veneto,<br />

Abruzzo e Sicilia) diventano un combo jazz con licenza<br />

di evadere. Condiscono la misticanza di trombone, sax,<br />

chitarra, basso e batteria con effetti sintetici e un diffuso<br />

estro avant-rock. E' tutto un giocare col fuoco, lo spirito<br />

lieve e serioso di chi sa le regole ma non può fare a<br />

meno di pasticciarle. Un processo irreversibile che produce<br />

imbastardimenti arguti, frutto d'istinto ma anche<br />

di evidente premeditazione.<br />

66 67


Tengono le porte aperte anzi non ce ne sono proprio, e<br />

non a caso nella ragione sociale hanno messo l'acronimo<br />

del Mercato Orto Frutticolo, un parcheggio gratuito<br />

del centro, luogo di passaggi e incroci e guarda un po'<br />

chi si rivede. L'esordio Embarassing Days mette in fila<br />

otto pezzi originali che spaziano tra post-bop allucinato<br />

e disinvolta pensosità (la fascinosa Giù lì a Portobello),<br />

tra Blue Note ed E.S.T. (la title track), tra eleganza e<br />

sconcerto (Via delle Belle Arti). Più una cover genialoide,<br />

No One Knows dei Queens Of The Stone Age, virata in<br />

uno swing tra il maligno e lo sbarazzino. Disco che diverte<br />

e sbalordisce. Bravi ma bravi davvero.<br />

(7.4/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

MAciSTe - MAciSTe (deVil'S ruin recordS,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: e T n o b l u e s f o l k<br />

Neanche il tempo di segnalarli sul Re-boot che i Maciste<br />

esordiscono con un album tutto intero e "ufficiale".<br />

Ribadiamo la bella impressione ricavata dal demo:<br />

il loro teatrino da folk-rock tarantolato, balcanico, circense,<br />

portatore insano di febbre garage e vintagismi<br />

psych, riesce a stare in piedi anzi a zompare come un<br />

bucaniere elettrificato. Ogni canzone una baracconata<br />

di trombe, tromboni, theremin, hammond, farfisa, chitarre,<br />

pelli sbatacchiate con soverchiante foga.<br />

La bombetta ben calata sul cranio, i cinque non fanno<br />

sconti alla loro voglia di ghigni, visioni alcoliche e sudori<br />

polverosi. Scomodano Tom Waits e Cramps, Jon<br />

Spencer ed Emir Kusturica, Sonics e Gogol Bordello,<br />

per un bailamme che diverte travolgendo (e viceversa).<br />

La multicefala God Is My Klaxon, la truce Callaghan<br />

Is Dead ed il folle barnum di B.B.B. sono forse i momenti<br />

migliori di una scaletta che non conosce tregua.<br />

(7.2/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

MAdAMe lingerie - d'AMore, Soldi e<br />

VendeTTA (, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: ro c k<br />

Una sorta di riuscita versione italiana degli Interpol, così<br />

si definiscono i Madame Lingerie, band romana che<br />

con l'esordio D'amore, soldi e vendetta sforna dodici valide<br />

tracce di noise rock filo americano in bilico tra un<br />

crooning à la Interpol e un declamato letterario firmato<br />

Pierpaolo Capovilla.<br />

La prima traccia, Piu' niente, ha le carte in regola per<br />

una degna apertura: ritornello martellante su disilluse<br />

parole d'amore; ma nell'album quel che colpisce sono i<br />

cambi calcolati, i netti tagli ritmici, lo stile oscuro delle<br />

liriche che declinano sentimenti persi in meandri dark.<br />

Ponciarello immerge le proprie radici nell'hardcore<br />

evoluto dei '90, quello del milieu Touch'n'Go per intenderci,<br />

Titanioc e E R R E macinano un grumoso basso Big<br />

Black, quando altrove un'altra strategia vincente sta nel<br />

dosare l'urgenza col taglio wave e il respiro maestoso<br />

dei cugini di Banks e co, ovvero gli Editors.<br />

Il quartetto, disincanto da false promesse e coscienza<br />

di ogni sfumatura dei propri riferimenti musicali, ha<br />

un impatto sonico egregiamente autoprodotto. Anzi,<br />

per dirla tutta, questo è uno dei casi in cui autoproduzione<br />

fa rima con qualità in missaggio e produzione,<br />

con l'unico difetto - che non andrebbe troppo stigmatizzato<br />

- dei testi di Alessandro, certamente ancora<br />

troppo succubi del frontman del Teatro degli Orrori<br />

sia quando s'affrontano temi di lucida rassegnazione<br />

(L'abbiamo pagata cara noi la nostra ingenuità / ma<br />

quanto ancora? Così seducente ed affascinante / ma l'oro<br />

che hai non brillerà mai da Titanioc), sia quando conducono<br />

l'amore al limite (Voglio una vita di stenti e che tu<br />

ti accontenti soltanto di me sempre da Titanioc), oppure<br />

ancora quando, pensando a Manuel Agnelli, cacciano i<br />

sentimenti in faccia (Ti regalo un po' della mia giovinezza<br />

per avere l'incubo nel cuore di non farcela / non ce la<br />

fai più ad amare / non ce la fai più a sentire quella voce<br />

che diceva 'tutto cambierà da La cartomante).<br />

Lavorando in personalità, sulla padronanza dell'articolazione<br />

lirica e limando certe cadenze à la Banks, dai<br />

Madame Lingerie possiamo aspettarci grandi cose. Per<br />

il momento abbiamo un esordio potente e coeso, dalle<br />

dinamiche chitarristiche e ritmiche notevoli.<br />

(6.9/10)<br />

giulio BArToloMei<br />

MAgdA - froM The fAllen pAge (MinuS<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: minimal<br />

Nonostante sia accanto a Richie Hawtin sin dai tempi<br />

di Detroit, ovvero dai primordi di Plastikman, Magda,<br />

che nella scuderia ora berlinese del maestro è probabilmente<br />

la migliore scoperta, arriva soltanto oggi a<br />

pubblicare l'esordio sulla lunga distanza.<br />

From The Fallen Page è una bestia scura che ti cattura<br />

lentamente: ritmi minimal a basso contenuto di bpm,<br />

groove bituminosi che grondano dalle pareti dei club<br />

techno di mezza Europa di cui la ragazza conosce ogni<br />

segreto e tocchi di fantomatiche soundtrack operistiche<br />

o sci-fi (Lost In Time) che se, da una parte, sciorinano<br />

l'industrial danzereccia, dall'altra mandano a memoria<br />

i Kraftwerk amati dalla città dei Motori (Music<br />

Box) e persino il post-punk newyorchese accarezzato<br />

dalla cricca Gigolo (Little Bad Habits). A Detroit, Magda<br />

c'ha abitato dai nove ai trent'anni. Ora che sta a Berlino,<br />

quest'album sembra un dedica alla culla della mitteltechno<br />

delineata attraverso originali e preziosi toni di<br />

grigio, chiaroscuri '80/'90 e quell'amore viscerale per le<br />

Roland più scrause e nerdy. La polacca poi, ci aggiunge<br />

l'inquietudine fast inguaiata con la keta, che è un po' il<br />

sign o' the times 00, dosandola egregiamente dall'inizio<br />

alla fine; proprio nel finale Japan rilascia l'adrenalina<br />

sotto forma di cocktail Ottanta, sempre e comunque<br />

guidato dall'implacabile beat che borbotta, gorgoglia,<br />

gracchia. Ti prende.<br />

(7.2/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

MAgneTic MAn - MAgneTic MAn (coluMBiA<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: du b a l l s T a r s T e p<br />

Sembrava dovesse venir giù il mondo con lo sbarco degli<br />

uomini magnetici, tre ragazzi stanziati a Croydon,<br />

South London, che un lustro abbondante fa contribuirono<br />

a creare la miscela esplosiva che dette origine al suono<br />

elettronico più famoso degli anni Zero, il dubstep.<br />

Abbiamo invece un debutto diviso tra una noiosa parte<br />

strumentale e un’altalena di potenziali singoli dal taglio<br />

pop (e un tocco di grime) che flirtano con l’immaginario<br />

rave e cercano spasmodicamente di incunearsi nei gusti<br />

allargati di due generazioni ravetroniche. Per i catastrofisti<br />

e i puristi, il 2010 sarà l’Altamont del dubstep, più concretamente<br />

il debutto di Magnetic Man lo banalizza togliendogli<br />

quasi ovunque la carica anthemica e offrendo<br />

in cambio al massimo due canzoni di futile appeal.<br />

Provenienti da un genere pop per eccellenza come il<br />

2step e da pionieri quali gli Horsepower Production<br />

(primi destinatari dell’etichetta nel 2002 che le canzoni<br />

le sapevano fare), i tre supereroi del dubstep, Benga,<br />

Skream e Artwork, più vicini al grime (hip hop e ragga)<br />

che allo stepping e all'immaginario di un Burial,<br />

faticano a trovare le soluzioni melodico-ritmiche per<br />

reinventarsi mainstream (Boiling Water con Sam Frank<br />

è imbarazzante), mentre trovano alcune suggestive<br />

soluzioni sul lato black della scaletta dove il tocco di<br />

Benga è evidente e la consolle libera dai compromessi<br />

(Fire, The Bug).<br />

Di fatto più che su un discorso di strofe, il grande successo<br />

del singolo apripista I Need Air è un gioco sul bliss<br />

da rave ed è un peccato che l’album punti proprio su<br />

quelle, fallendo inesorabilmente la sua riuscita (Crossover).<br />

La parte strumentale, dicevamo, è spesso inutile:<br />

Anthemic e Mad mescolano edulcorati gracchi Terror<br />

Danjah con noiosi interventi di synth cinematici e me-<br />

morabilia IDM, Ping Pong si butta soltanto su questi ultimi<br />

con risultati ancora più inconsistenti.<br />

Verso il finale, Skream si cimenta in territori Aphex<br />

Twin con la discreta ambient psych di Box Of Ghosts<br />

e un attacco d’ouverture (Karma Crazy) che convertirà<br />

nelle vecchie maniere. E’ troppo tardi però. Il pasticcio<br />

è già fatto. "Getting Nowhere" canta in toni soul John<br />

Legend nell’omonima track, ed è l'unico episodio veramente<br />

degno di nota.<br />

(5/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

MAMBASSA - lp (eMi, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o p d'a u T o r e<br />

Compito non facile quello di tornare dopo sei anni<br />

- che alla voce pop italiano hanno significato molto:<br />

fatela voi una lista dei dischi importanti usciti nel mentre.<br />

Eppure i Mambassa ci riprovano, con l'orgoglio di<br />

aver rappresentato un bel capitolo della nuova musica<br />

italiana a cavallo tra la fine del secolo scorso e l'inizio<br />

del nuovo e con la forza di tante esperienze musicali e<br />

non solo (vedasi il libro e il film realizzati nel frattempo<br />

dal leader Stefano Sardo). A ciò aggiungete anche due<br />

cambi di formazione (dentro il tastierista Fu, fuori durante<br />

la lavorazione il chitarrista Ninotosh) e i predicati<br />

ci sono tutti: LP, ovvero Lonely Planet, è il racconto di<br />

una contemporaneità affollata ma carica di solitudine<br />

da parte di chi, superati i trenta, traccia bilanci, riparte,<br />

si disillude. Il tutto vergato in una serie di pop-ballad<br />

che definiamo manualistiche per parlarne bene, tra i<br />

canonici climax a gradoni d'intensità de La costruzione<br />

della notte, le voci di cuori digitali in zona Subsonica<br />

via Air di Immolando e la presa rapida di un singolo<br />

tutt'altro che ruffiano ma gravido di buone idee (in primis<br />

la chiusura tranchant) come Casting.<br />

Tuttavia viene difficile non pensare ai Mambassa come<br />

ad un gruppo che da qui in poi dovrà inseguire. Vuoi<br />

perché gli anni intanto sono passati e i novanta non<br />

hanno più quella fortuna, vuoi per qualche lirica un po'<br />

semplicistica, vuoi per i rimandi continui che rallentano<br />

qualche traccia (a realtà anche contigue: i Perturbazione<br />

qua e là, oltre ai già citati torinesi), alla fine succede<br />

che Lonely Planet decolla, sì, ma rimane a mezz'aria o<br />

poco più su. E dire che ci piacerebbe trovarli in radio<br />

al posto dei Negramaro è un complimento che non<br />

basta. Meglio concentrarsi sul fiore all'occhiello delle<br />

coloriture de La pioggia di settembre o sull'ossatura vintage<br />

da Pregherò di Ora che non ci sei più tu. Segnali non<br />

tanto piccoli di un gruppo comunque ancora in gara.<br />

(6.5/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

68 69


MArK chAdWicK - All The pieceS (STAy By,<br />

SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: fo l k biopic<br />

Chi seguiva le vicende della terra d'Albione a cavallo tra<br />

Ottanta e Novanta, ricorderà come Mark Chadwick e i<br />

suoi Levellers fossero qualcosa di molto vicino a rock<br />

star. Il loro folk-punk era riuscito ad infilarsi nelle posiozioni<br />

alte delle classifiche e il loro culto era cresciuto un<br />

po' ovunque nel biennio successivo al debutto A Weapon<br />

Called the Word nel 1990. In seguito le cose non<br />

sono andate tanto bene, decretando un primo stop<br />

all'attività già nel 1998. Gli anni zero li hanno rivisti in<br />

azione, con due album che non hanno spostato di una<br />

virgola la loro storia e che hanno solo soddisfatto i nostalgici.<br />

Oggi il loro leader e frontman esordisce in solitaria, con<br />

dodici brani che rappresentano una sorta di piccola autobiografia<br />

in musica e che ce lo restituiscono in una<br />

forma notevole. Non che All The Pieces faccia gridare<br />

al miracolo, ma è sicuramente il miglior lotto di canzoni<br />

che il cantautore di Brighton scrive da almeno un decennio.<br />

Rispetto al gruppo-madre, qui si spinge il tutto<br />

in territori più pop, senza rinunciare a qualche messaggio<br />

tra l'ironico e l'impegnato ("stop the war/and all of<br />

that/just keep drinking/perhaps we're better at that"<br />

canta in Indians). Gli episodi migliori sono quelli più solari<br />

e corali, oltre alla già citata Indians, la titletrack (tra<br />

le cose più appiccicose dell'anno), Havens, Empty Now.<br />

Non sarà l'evento dell'anno, ma la freschezza delle melodie,<br />

la semplicità degli hook e una maturità serena<br />

dicono di un musicista con il quale fare ancora i conti.<br />

(6.7/10)<br />

MArco BoScolo<br />

MArnie STern - MArnie STern (Kill rocK<br />

STArS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: ma T h r o c k<br />

Non è eccessivo affermare che i due precendenti lavori<br />

di Marnie Stern avevano lasciato sbigottiti anche<br />

i recensori più smaliziati. Quel brutale cozzare di stili<br />

(rock, metal, prog, noise, psichedelia e chissà quant'altro)<br />

lasciava sul campo un'installazione surreale che<br />

proprio non si sapeva da che parte iniziarla ad ascoltare:<br />

affascinante, come tutte le cose di cui ancora non<br />

si comprende bene la portata, ma solo per i primi minuti.<br />

Superato lo stupore iniziale iniziava a subentrare<br />

un certo senso di irritazione destinato a protrarsi per il<br />

resto dell'ascolto.<br />

L'effetto viene in parte lenito in questo terzo e omonimo<br />

album, infarcito di un math rock metallifero senza<br />

posa, con batteria in assolo perenne, chitarra tormen-<br />

tata e una vocalità portata a raggiungere note impossibili.<br />

Il problema di fronte ad un tour de force sonoro<br />

così deliberato è capire fino a che punto arriva la spontaneità,<br />

non tanto perché sia interessante sapere se la<br />

Stern soffra realmente di qualche sindrome isterica,<br />

quanto perché, a tratti, tutto ha il sapore un pò artefatto<br />

dell'esercizio di stile.<br />

L'euforia declinata nel febbrile finger picking è un'idea<br />

interessante, ma quando se ne fa un uso così sistematico,<br />

finisce per inficiare sul risultato finale. Basterebbe<br />

poco, magari solo un piccolo aggiustamento, tipo ripiegare<br />

su formule più contenute, come accade nella<br />

più rilassata e focalizzata Tranparency Is The New Mistery,<br />

in cui l'irruenza della bionda chitarrista viene disciplinata<br />

in geometrie più intellegibili, consentendole di<br />

trasmetterci un pò di quel fuoco sacro che da tempo<br />

sembra essersi impossessato di lei.<br />

(6.3/10)<br />

diego BAllAni<br />

MATTheW herBerT - one cluB (AccidenTAl,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: m i n i m a l, c o n c r e T e<br />

"Dai free party siamo finiti nei Club e da lì il discorso non<br />

si è spostato, anzi, nei Club c’è la vita reale, ci sono le compagnie<br />

di tabacco, telefonia, alcol. Insomma c’è la pubblicità,<br />

gli sponsor e cose così. Invece di aprire la mente alla<br />

gente, il Club gli ha fatto accettare una realtà corporativa.<br />

Con la mia musica sto cercando rendere chiari questi<br />

link".<br />

Lo scorso giugno Matthew Herbert, in un misto di<br />

nostalgia e rabbia, ce la dipingeva così la vita nei Club<br />

odierni, dal punto di vista di un uomo che dopo essersi<br />

vissuto il meglio dell'epopea free party, si ritrova<br />

di fronte a una realtà di contenitori sociali totalmente<br />

controllati da multinazionali lecite e illecite. Da lì One<br />

Club, il disco di musica da ballo imballabile, la telecronaca<br />

del weekend sballone dove tutto è meccanizzato<br />

fin nei più minimi bit, dal ritmo all’accensione di una<br />

sigaretta, dal blin blin della cassa, al succhio della cannuccia<br />

del cocktail.<br />

L’ex Dr. Rockit che in passato pionierizzò la microhouse<br />

ritorna sulla dance per parlarci dei legami subdoli che<br />

ora la alimentano. Le sorgenti dell’album sono state<br />

prese in un’unica serata al Robert Johnson, un nightclub<br />

di Francoforte. Herbert li ha successivamente tagliati,<br />

cuciti e messi in battute industrialeggianti (Jalal Malekidoost),<br />

rotonde o robotiche con il preciso scopo di<br />

generare nell’ascoltatore un rise da pasticca marcio e<br />

distante, inebriantemente guastato o disumano tout<br />

court (Robert Johnson). L'unico tocco uber alienazione<br />

che apre alla cosiddetta creatività - completamente assente<br />

nella minimal di molti set - è un coro che è poi<br />

il leitmotiv del disco: ballerini di musical (?) che sporadicamente<br />

rompono la monotonia, come se dal cubo<br />

club si passasse al teatro, dove tutto è più gruppale e<br />

umano.<br />

One Club è un lavoro tanto sociologicamente riuscito<br />

quanto sonicamente controverso. Da un lato ricorda<br />

alcuni lavori giovanili dei Matmos o i Residents di Diskomo<br />

(Marlies Hoeniges); dall’altro, resistendo alle ipotesi<br />

gigione o sarcastiche, costringe l’ascoltatore a una<br />

seduta musicalmente anomica e monodimensionale.<br />

Forse al Sonar chi ha fischiato Herbert non aveva tutti i<br />

torti questa volta. Aspettiamo One Pig. Finale della trilogia<br />

nonché l'episodio più atteso.<br />

(6/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

MAxiMuM BAlloon - MAxiMuM BAlloon<br />

(inTerScope recordS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: f u n k p o p<br />

David Andrew Sitek risponde al coming out solista di<br />

Tunde Adebimpe - sotto le spoglie dei Rain Machine<br />

- gettando ulteriore luce sulla ricetta Tv On The Radio.<br />

Come dire: se Adebimpe costituisce il portato black con<br />

tutte le rifrazioni psych, soul, hip-hop e gospel, Sitek è<br />

l'emisfero sinistro synth-pop impegnato a razionalizzare<br />

il virus funk. C'ha la stoffa, il passo, la vena del produttore,<br />

quello che tiene il suono nei ranghi, come ha<br />

già dimostrato lavorando per Yeah Yeah Yeah's, Foals<br />

e Scarlett Johansson. Per questo debutto del se stesso<br />

cammuffato da Maximum Balloon, intendeva confezionare<br />

tracce da ascoltarsi "in auto, in banca, uscendo con<br />

la ragazza, in qualsiasi circostanza". Elogio del medium<br />

freddo, coinvolgimento epidermico, understatement<br />

emotivo: in effetti, c'è riuscito.<br />

La scaletta celebra un intrattenimento agile e arguto,<br />

ingredienti e dosaggi azzeccati, interpreti compresi.<br />

C'è soprattutto un'anima talkingheadsiana che pompa<br />

funky in Tiger (affidata all'ottimo Aku, singer dei Dragons<br />

of Zynth), s'imbizzarrisce d'umori Prince in Groove<br />

Me (per la voce del rapper newyorkese Theophilus<br />

London) e ciondola etniche ironie in Apartment Wrestling<br />

(a cura del maestro David Byrne). C'è poi la verve<br />

Gorillaz diluita Bob Sinclair di If You Return (ospiti gli<br />

svedesi Little Dragon) e tanta voglia di eighties in guisa<br />

Human League e David Bowie che zampilla in Young<br />

Love (per la voce equivoca di Katrina Ford). Sono episodi<br />

gradevoli e intensi come caramelline di zucchero ed<br />

altrettanto effimeri, alla pari di Communion (feauturing<br />

Karen O) e delle pur vagamente eniane Pink Bricks (can-<br />

ta Ambrosia Parsley) e The Lesson (per una interessante<br />

Holly Miranda).<br />

Lo pseudo ricongiungimento della band madre in Absence<br />

Of Light non esalta, però serve a ricordarci che<br />

spesso il totale supera la somma delle parti. E neanche<br />

di poco.<br />

(6/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

MeThod of defiAnce - nihon (rArenoiSe,<br />

SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: f u s i o n i m p r o<br />

I Method Of Defiance sono il considerevole sfizio allestito<br />

da Bill Laswell per esplorare ed escogitare una sua<br />

certa idea di fusion contemporanea. Che prevede inneschi<br />

e incroci dub, electro-hardcore, improv jazz, drum<br />

& bass e spurghi noise. Una formula a tratti incendiaria,<br />

soprattutto quando in Method Plan One e Black Rain<br />

preme sull'acceleratore e scioglie le briglie alla tromba<br />

di Toshinori Kondo, col suo lirismo vetrificato e luciferino<br />

che si sposa assai bene coi vocalizzi mutanti di Dr.<br />

Israel.<br />

Bei momenti, una strana dimensione da rave espanso,<br />

brodo di cagna nel drink energetico, hammond (a cura<br />

del leggendario Bernie Worrell) che gronda sudori antichi<br />

per estasi nuove. La fase dub è invece più scontata e<br />

dispersiva, insegue suggestioni che - soprattutto negli<br />

assolo del bassista - non vanno oltre una maniera cortocircuitata,<br />

e la band finisce per sembrare un manipolo<br />

di virtuosi al guinzaglio di un'idea bolsa e un po' dispotica.<br />

Disco comunque zeppo di spunti interessanti,<br />

esaltati dall'incisione live (due set giapponesi del 2007)<br />

giustamente testimoniata dal DVD allegato.<br />

(6.3/10)<br />

STefAno SolVenTi<br />

MidnighT juggernAuTS - The crySTAl AxiS<br />

(SiBeriA recordS, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: s y n T h p o p<br />

The Crystal Axis lavora su un contesto estremamente<br />

definito: synth pop alla Ultravox con ambientazioni<br />

Kraftwerk-iane. Pop e "canzoni" per androidi d’antan.<br />

Nonostante la formula assodata, però - e forse proprio<br />

con un peso così grande sulle spalle - è proprio ciò che<br />

porta tale retroterra nel "popolare" a evidenziare delle<br />

pecche. Ossia, detto semplicemente, l’avvicendamento<br />

strofe / refrain.<br />

Sono proprio i ritornelli, quei momenti che dovrebbero<br />

imperniare attorno a sé l’efficacia di una canzone, nello<br />

schema scimmiottato del rondò, che finiscono per rovinare<br />

i brani (Lifebllod Flow), laddove nella costruzione<br />

70 71


delle parti restanti dei brani si nota una certa abilità a<br />

gestire gli strumenti pop-androidi dei già citati Kraftwerk,<br />

Ultravox, oppure Jean Michel Jarre, delle volte<br />

Roxy Music (This New Technology) Anche quando<br />

l’architettura della canzone sta in piedi e mostra delle<br />

buone "solette" (il riff di Lara Versus The Savage Pack), le<br />

melodie - e la voce che canta - non si distinguono per<br />

personalità, eppure risultano evidentissime, perché in<br />

primo piano (eclatanti in Dynasty).<br />

I Midnight Juggernauts hanno sicuramente ascoltato<br />

e interiorizzato le cose migliori del genere. Epperò<br />

gli australiani, pur essendo attivi da cinque anni, non<br />

sembrano aver trovato una buona penna con la quale<br />

scrivere, solo un set per fare miniature e disegnare<br />

paesaggi siderali. Rispettabile compito. E lo faremmo<br />

volentieri un viaggio, nella galassia stereotipata degli<br />

uomini macchina. E invece dobbiamo starcene a guardare<br />

l’astronauta partire, dal pianeta Terra.<br />

(5/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

MilVA - non conoSco neSSun pATrizio!<br />

(uniVerSAl, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o p d'a u T o r e<br />

Questi due insieme hanno fatto faville. Milva e Franco<br />

Battiato, negli anni Ottanta, lei già consacrata qualche<br />

interprete brechtiana, lui eccentrico re mida del pop di<br />

casa nostra, due dischi insieme (Milva e dintorni, 1982,<br />

Svegliando l'amante che dorme, 1989) da avere assolutamente<br />

quali gioielli laterali di un decennio che<br />

cambiava le regole dello scrivere canzoni in italiano - e<br />

a cambiarle c'era proprio lui, che per la Rossa scriveva<br />

la celebre Alexander Platz, ma anche Poggibonsi, Atmosfera:<br />

cercateli in rete (visto che la discografia langue) e<br />

fateli vostri.<br />

Proprio da due canzoni di quel periodo (Una storia inventata<br />

e I processi del pensiero, entrambe dal secondo<br />

disco) riparte oggi la collaborazione. E fa strano ritrovarli<br />

insieme in quella che fu una partnership mitologica,<br />

se non altro perché se là di oro si trattava qui è<br />

di bigiotteria che parliamo, di quella d'artigianato vero<br />

però, certo non così inarrivabile eppure di tutto rispetto<br />

visti anche gli anni passati (Milva ha annunciato la<br />

fine della propria carriera dal vivo) e le situazioni differenti.<br />

Il repertorio scelto è di quello che non t'immagini del<br />

tutto, ed è forse questa imprevedibilità senza troppo<br />

clamore il quid di Non conosco nessun Patrizio!.<br />

Come a dire che la coppia si voleva divertire, trovarsi<br />

insieme ancora una volta a fare musica e niente di più.<br />

Oltre ai ripescaggi dai dischi precedenti, debitamente<br />

riarrangiati (splendida I processi del pensiero), troviamo<br />

due canzoni da Il vuoto (non fra i momenti memorabili<br />

della produzione di Battiato) rinvigorite da lei con<br />

la giusta dose di ieraticità per I giorni della monotonia<br />

e uno slancio vitale per Io chi sono, l'episodio migliore<br />

dell'intero lotto, trasformata da meditazione sintetica<br />

alla Eno in illuminazione pop su un lago calmo di synth.<br />

Poi l'inedito, una title-track immalinconita, lì a metà tra<br />

le ultime cose del siciliano e L'ombrello e la macchina<br />

da cucire. Infine una serie di recuperi anche coraggiosi<br />

(Il ballo del potere, un vestito insolito addosso a Milva<br />

ma portato con dignità), a volte condotti tramite eccessiva<br />

verbosità (Le aquile, Bis Du Bei Mir) altre volte<br />

con la giusta dose di dramma vista l'apoteosi d'archi di<br />

contorno (Segnali di vita).<br />

Certo, lo dicevamo, negli anni ottanta era tutt'altra storia.<br />

Oggi Battiato pare in preda ad un'ansia da lavoro su<br />

materiale già esistente (suo e di altri) che non ha però<br />

portato a chissà quale exploit. Milva invece saluta lasciando<br />

un filo di rimpianto: potrà piacere o meno, ma<br />

scorrete la sua discografia e diteci il nome di un'altra<br />

interprete, anche oltreconfine, che ha cantato così tanti<br />

autori e così diversi.<br />

(6.8/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

MiniSTri - fuori (uniVerSAl, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: r o c k i T a l i a n o<br />

Giunti alla quarta uscita in quattro anni (tre dischi sulla<br />

lunga distanza e un ep) i Ministri deviano sensibilmente<br />

verso un songwriting meno furente, più concentrato<br />

nei dettagli e nella rotondità di forme. Non è tanto il<br />

marchio Universal a guidarli - siamo pur sempre distanti<br />

da una qualsivoglia possibilità radiofonica - ma l'esigenza<br />

di un cambiamento che li salvaguardi da ogni<br />

manierismo in agguato.<br />

Se Fuori lascerà piuttosto tiepidi i fan della prima (e<br />

della seconda) ora non sarà solo per l'introduzione di<br />

un pianoforte qua o di un banjo là, per qualche cascame<br />

new-wave che si profila non così inaspettato<br />

all'orizzonte o per una manciata di interventi elettronici<br />

tutt'altro che invasivi. A mancare semmai è l'impeto<br />

delle prove precedenti, volutamente calmierato in favore<br />

di un mood più interiore, personale.<br />

Nessuno slogan, nessuna citazione di nomi e cognomi;<br />

piuttosto un'indole cantautorale che racconta storie<br />

attraverso frame fotografici o visioni vagamente surreali<br />

su linee melodiche anche seduttive. Funziona? Non<br />

troppo. I testi di Federico Dragogna non reggono per<br />

dodici tracce e a volte faticano a scorrere lungo l'incedere<br />

più sciolto di un tempo dei brani; la voce di Davi-<br />

de Autelitano compensa con le solite eccellenti parti<br />

urlate (al limite dello screaming più puro) un'interpretazione<br />

che nei momenti meno concitati fatica a trovare<br />

una sua espressività.<br />

Innegabile dunque il gap tra intenzione e attuali capacità:<br />

nonostante ciò Fuori strappa una sufficienza risicata<br />

grazie un'urgenza che, seppur oggi più sottocutanea,<br />

a differenza di altri nomi-simbolo degli anni zero<br />

italici non è venuta a mancare.<br />

(6.2/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

MT. deSolATion - MT. deSolATion<br />

(cooperATiVe MuSic, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o p s u p e r G r o u p<br />

Raccontata così sembra una barzelletta: ci sono due<br />

Keane (Tim Rice-Oxley, Jesse Quin), uno dei Killers<br />

(Ronnie Vannucci) e un tizio di Noah And The Whale<br />

(Tom Hobden) che hanno deciso di formare un supergruppo<br />

con Winston Marshall dei Mumford And<br />

Sons. Uno dal discreto talento, quest’ultimo, che messo<br />

a confronto con gli altri nomi coinvolti passa per<br />

genio e comunque non impedisce il naufragio di uno<br />

scontato country-folk che degenera in irritante banalità<br />

da FM. Salviamo giusto il brio dell’iniziale Departure,<br />

la morbida efficacia di Bridal Gown e la malinconica My<br />

My My da cinquanta minuti che svelano subito la natura<br />

di passatempo allestito da mezze tacche più un onesto<br />

musicista, giocati tra pulite esecuzioni buone per la<br />

radio di un centro commerciale, belle forme senza un<br />

filo d’ironia e qualche pallido esercizio di stile.<br />

Roba priva di un perché, quando di dischi ne escono<br />

cento e anzi mille in un mese e un pubblico che li acquisti<br />

non esiste praticamente più, ma figurarsi se costoro<br />

si sono posti il problema. Siccome la pubblicità è<br />

l’anima del commercio (e in questo caso de li mortacci<br />

loro), il comunicato stampa informa che il progetto è<br />

nato dopo una colossale sbronza al pub. Ripensarci<br />

la mattina seguente dopo un bel caffé forte e un paio<br />

d’aspirine pareva brutto, eh?<br />

(4.5/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

orB (The)/dAVid gilMour - MeTAllic<br />

SphereS (coluMBiA recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: am b i e n T , p s y c h<br />

L’egregio David Gilmour è uno vecchio stile. Alla politica<br />

ci guarda e ai charity event - come li chiamano in Inghilterra<br />

- è sempre in prima linea. Lo scorso 11 luglio ha<br />

nuovamente condiviso il palco con il non troppo amico<br />

Roger Waters per dare speranza alla prossima genera-<br />

zione di palestinesi che cresceranno nella famigerata<br />

striscia di Gaza, mentre lo scorso anno aveva registrato<br />

un contributo così così (Chicago) per una canzone pro<br />

Gary Kinnon, il famoso hacker reo di aver operato la più<br />

grande intrusione informatica di tutti i tempi. Il ritornello<br />

lo potete ancora ascoltare: si trova nella seconda<br />

delle due suite di questa improbabile collaborazione.<br />

Ci sentite Gilmour, nel classico registro alto e roco, intonare<br />

"do you believe in justice / do you believe in freedom"<br />

e in sottofondo - pare ancora di sentirceli - i due vecchi<br />

amici Alex Paterson e Martin "Youth" Glover farsela sotto<br />

dal ridere.<br />

Mille anni fa il primo iniziò la carriera musicale come<br />

roadie dei Killing Joke - e per lui galeotto fu l’ascolto<br />

del Brian Eno di Music For Films sotto LSD - mentre<br />

il secondo, bassista di quella stessa band, fu l’artefice,<br />

assieme ai compagni, di quella fusione tra post-punk e<br />

metal che sarà poi la base per dozzine di gruppi vampironi<br />

d’oggi e nu metal di ieri.<br />

Quei due oggi sono persone diverse. Youth, ad esempio,<br />

è un produttore di grido nonché cofirmatario di un<br />

progetto con Paul McCartney. Eppure il credo punk e il<br />

disprezzo hippy non sono cose che si cambiano facilmente,<br />

specie se cresci a pane e sound system e ti trovi<br />

dietro al vetro non più un Steve Hillage qualsiasi, ma il<br />

chitarrista più odiato dalla tua generazione. Negli anni<br />

d’oro gli Orb confezionavano alcuni singoli dal minutaggio<br />

impegnativo (Blue Room), prendevano in giro i<br />

Pink Floyd di Animals nella copertina di un loro album<br />

live (Live 93) e soprattutto davano alle stampe un monolite<br />

come The Orb's Adventures Beyond The Ultraworld<br />

che altro non era se non una grande truffa di visioni<br />

pastorali, campioni rubati a gente famosa tipo Steve<br />

Reich, robusti reggae dub e spruzzate psichedeliche<br />

tutt’altro che serie ma funzionali alle amplificazioni<br />

emotive della generazione E.<br />

Oggi ritroviamo quelle suggestioni, un po' rabbonite<br />

ma non senza la proverbiale ironia, in un viaggio psych<br />

che è come ce lo si aspetta: due lunghe suite (divise al<br />

loro interno in cinque parti) d’ambient house primissimi<br />

Novanta, tra accordi blues, folk e new age (à la Wish<br />

You Were Here, per intenderci) con il chitarrista inglese<br />

più presente nella prima e qualche cedimento narrativo<br />

sulla seconda. Ad ogni modo, un tassello indispensabile<br />

nella discografia orbiana.<br />

(7/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

72 73


oWen pAlleTT - A SWediSh loVe STory ep<br />

(doMino, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: c h a m b e r p o p<br />

EP di inediti che segue di alcuni mesi Heartland uscito<br />

a inizio 2010, A Swedish Love Story EP ripercorre da<br />

abbastanza vicino per mood l’album concept che lo ha<br />

preceduto: chamber e synth pop, indie e songwriting<br />

classico, analogico e digitale, con il consueto rimescolamento<br />

che il Nostro fa ormai con padronanza e maturità.<br />

Van Dyke Parks, Brian Wilson e chamber pop: insomma<br />

ritroviamo qui gli elementi basici della sua musica.<br />

Ma a differenza di Heartland, Pallett ha registrato<br />

i quattro pezzi dell’EP molto velocemente a New York,<br />

usando il violino, il Moog, il basso e una batteria elettronica.<br />

Una semplificazione forse necessaria dopo<br />

l’elaborato parto precedente. Essenziale.<br />

(6.8/10)<br />

TereSA greco<br />

pAolo conTe - nelSon (uniVerSAl, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />

Paolo Conte è di quella genia di songwriters la cui imitazione<br />

non è solo impossibile, ma vana. Troppo personale<br />

e rigorosa una poetica che dal 1974 (anno d'esordio<br />

come titolare, dopo un decennio come autore per<br />

altri) lo ha visto costruirsi un mondo suo proprio, d'immaginazione<br />

unica eppure così solidamente legata ad<br />

alcune immancabili influenze (il jazz fino ai cinquanta,<br />

la canzone francese, il tango e poco altro). Negli anni<br />

è diventato un classico vivente ed è dunque normale<br />

che gli ultimi dischi della sua produzione ripassino un<br />

repertorio di soluzioni prestabilite, giocando sul filo<br />

sottile di variazioni minime e ritorni.<br />

Per chi scrive l'ultimo grande capolavoro contiano è<br />

Una faccia in prestito (1995), da lì in poi una produzione<br />

sempre sopra la media, con qualche grande momento<br />

e tanto (buon) mestiere. Così è per Nelson, titolo-dedica<br />

ad un suo cane, un pastore francese «dal carattere<br />

difficile ma con orecchie musicali», e quindici tracce<br />

che smentiscono l'annunciata crisi creativa di qualche<br />

anno fa.<br />

L'iniziale Tra le tue braccia ripropone una classica ballad<br />

tra il malinconico e il dolorante-dondolante; Jeeves<br />

omaggia Woodhouse con uno swing brioso e elegante;<br />

Enfant prodige è languideria in francese; Clown una Max<br />

ripassata Nino Rota; Nina vorrebbe osare di più sul versante<br />

carioca ma si sa che l'Avvocato il fiume di gennaio<br />

l'ha visto solo dall'aereo. Dopo Galosce selvagge (sequel<br />

podistico di quell'inno alla due ruote che fu Silenziosa<br />

velocità nel precedente Psiche), Storia minima è il primo<br />

dei tre apici del disco, un piano-voce teatrale sull'onda di<br />

Dal loggione seppur più moderato nei toni.<br />

Da lì in poi Nelson riprende quell'invaghimento per i<br />

suoni sintetici già comune in alcuni dischi degli anni<br />

ottanta e che era anche la maggior novità di Psiche.<br />

C'est beau, ancora in francese, gioca su un quadratissimo<br />

pop modernista; Massaggiatrice è puro e pudico<br />

relax in forma canzonettara con sonnacchiosa batteria<br />

elettronica sullo sfondo; Sarah, secondo apice, è quasi<br />

downtempo con synth aeriformi luminosi e testo in<br />

inglese lamentativo. Le cineserie di Sotto la luna bruna<br />

anticipano poi il terzo apice, una Suonno è tutt'o suonno<br />

intrisa in synth subcoscienziali con violino solitario<br />

e versi onirici, mentre il trittico finale (Los amantes del<br />

mambo in spagnolo, il gustoso singolo L'orchestrina e<br />

Bodyguard for myself) chiude un disco la cui dedica a<br />

Renzo Fantini è un sigillo di memoria e commozione.<br />

(6.8/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

pAul SMiTh - MArginS (V2 MuSic, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: so n G w r i T i n G<br />

Mentre i Maxïmo Park si leccano ancora le ferite per<br />

non essere stati in grado di dare un degno erede a<br />

Our Earthly Pleasures, Paul Smith, che ne è il fulgido<br />

frontman e songwriter, si prende due dei migliori pop<br />

maker in circolazione, i Field Music, e sforna un side<br />

project a proprio nome, Margins.<br />

Messa così sembra promettente, ma già dopo la prima<br />

passata, il risultato è la solita minestra: come accadeva<br />

in Quicken The Heart, dove a latitare erano proprio<br />

le canzoni, anche qui mancano i numeri per catturare<br />

davvero l’attenzione dell’ascoltatore. Smith para<br />

sul confidenziale nel classico registro cristallino che lo<br />

contraddistingue sin dagli esordi, piega le strofe del<br />

suo gruppo in una faccenda folk (This Heat) o in qualcosa<br />

di Morrissey-iano (I Drew You Sleeping), magari con<br />

l’aiuto degli ospiti (Strange Fiction è un brano dei Field<br />

Music?), eppure non riesce mai a darci l’impressione<br />

di crederci davvero. Brani dal crooning accorato come<br />

Alone, I Would’ve Dropped, oppure episodi sul lato più<br />

emozionale/rockista del disco (il remember anni ’90 di<br />

Dare Not Dive) sono la dimostrazione di quanto piacevolmente<br />

inutile sia un’operazione del genere. O quanto<br />

sia inadeguato Smith quando pretende d'arrangiare<br />

un brano à la Micah P. Hinson, con chitarrini e archi<br />

(Pinball). Si può salvare The Tingles, il resto alle ortiche.<br />

(5.5/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

peppe VolTArelli - ulTiMA noTTe A MAlá<br />

STrAnA (on The roAd, Aprile 2010)<br />

Ge n e r e: e T n o -f o l k<br />

Non è world la musica di Peppe Voltarelli, ma di scorribande<br />

in giro per il mondo certamente si nutre. Quelle<br />

dell'ex frontman de Il Parto delle Nuvole Pesanti,<br />

come anomalo ambasciatore italiano in terra straniera<br />

con le sue canzoni, e quelle di un'indole che raccorda<br />

radici diverse, proprie ed altrui. Così in questo secondo<br />

disco in solitaria, complice la buona produzione di Finaz<br />

della Bandabardò, gli arrangiamenti smagriscono<br />

e a giovarne è l'interpretazione - da parte di un cantante<br />

dalla voce salina e potente, che è anche attore e performer<br />

imprevedibile - fermo restando che le canzoni<br />

raggiungono una qualità media inedita prima d'ora.<br />

Facile allora, fatte queste premesse, immaginarsi cosa<br />

contenga Ultima notte a Malá Strana: strizzate d'occhio<br />

al folk globalista di Manu Chao, fragranze manouche<br />

e profluvi di mandolini, lo spirito sarcastico<br />

e rabbioso di Matteo Salvatore come quello volto<br />

a nobilitare la tradizione di Domenico Modugno. In<br />

mezzo anche una cover PartoBanda de Gli anarchici<br />

di Leo Ferré cantata con Enrico "Enriquez" Greppi.<br />

Meritata la vittoria al Tenco nella categoria dialetto -<br />

dei cinque finalisti era il migliore - certo è che su disco<br />

Voltarelli non riesce ancora a convogliare tutta l'energia<br />

dei live.<br />

(6.6/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

peTe SWAnSon - feelingS in AMericA (rooT<br />

STrATA, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p s y c h-n o i s e<br />

Lo aveva già annunciato lo scorso anno in occasione<br />

di un'intervista, che la sua attività di musicista non si<br />

sarebbe interrotta con i Yellow Swans, ed ecco ora per<br />

Root Strata l'esordio da solista di Pete Swanson. Con<br />

300 copie in vinile non si tratta di certo di un'operazione<br />

in grande stile, ma considerata la rapidità con cui il<br />

disco è andato sold-out si può immaginare che c'era<br />

una certa attesa per il lavoro del musicista di Portland.<br />

E sicuramente i vecchi fans di Yellow Swans non saranno<br />

delusi: Feelings in America non si allontana molto dai<br />

tragitti percorsi dalla vecchia band, se non per dei toni<br />

meno aggressivi ed una maggiore predilezione per scivolate<br />

droniche, mentre la totale assenza di parti percussive<br />

e scarti improvvisi lascia intuire che dei due era<br />

Gabriel Saloman a costituire il versante tecnoide. Delle<br />

due lunghe tracce, migliore sicuramente The Fermata,<br />

dove sparse note di chitarra tracimano inesorabilmente<br />

verso un wall of sound da annebbiare l'udito, mentre<br />

senza che ci si renda conto di niente, accade di tutto.<br />

Da manuale delle musiche immobili.<br />

(6.9/10)<br />

leonArdo AMico<br />

philip jecK - An ArK for The liSTer (Touch<br />

MuSic uK, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: sp i r a l-ac u s m a T i c a<br />

An Ark of the listener prende spunto dagli oscuri sonetti<br />

di "The Wreck of the Deutschland" del gesuita<br />

Gerard Manley Hopkins, ordigno di mistica negativa la<br />

cui visioni apocalittiche pare abbiano stregato l'inconsolabile<br />

Philip Jeck, sempre alla ricerca di un equilibrio<br />

spirituale.<br />

All'appuntamento l'artista inglese si presenta armato<br />

dei soliti attrezzi e fini: una casio da mercatino, vecchi<br />

fonografi modificati, un delay della boss e un DAT mandati<br />

più o meno in random con l'aggiunta di riverberi<br />

parasinfonici. Che tradotto significa: i loop disintegrati<br />

di William Basinski e i rigurgiti memoriali di Janek<br />

Shaefer, con l'unica differenza che qui i suoni non collimano<br />

più, non s'infrangono più come onde.<br />

A parte The all of water e The pilot, dove affiora un<br />

po' della stralunata ricchezza dei debordanti esordi,<br />

il resto pare ripiegato su se stesso, privo di ricami.<br />

La mistica del gesuita si traduce così in un b-horror<br />

monotimbrico e avviluppato nel disagio isolazionista<br />

dell'artista inglese che pare essersi lasciato alle spalle<br />

la vena maledetta ed essenziale dei suoi importanti<br />

inizi.<br />

(6/10)<br />

SAlVATore Borrelli<br />

pQ - you'll neVer find uS here (expAnding<br />

recordS, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: a m b i e n T<br />

Furbi sono furbi, i Pq. Interessati a dare un immagine<br />

dell'ambient quanto più friendly e malinconica possibile,<br />

tra accenni post-rock su arpeggi di chitarre acustiche<br />

(Somebody Should Repeat My Summer) e archi in<br />

deriva cinematica (The Cairo Truth), elettronica minimal<br />

e crepitante (Jocelyn) e intimità soffuse in stile Yann<br />

Tiersen condite da un retrogusto psichedelico (A Taste<br />

Of Diminished Expectation).<br />

Il duo belga (Samir Bekaert e Maarten Vanderwalle<br />

dietro alle macchine) dimostra comunque un gusto<br />

sopraffino nell'assemblare i suoni di You'll Never Find<br />

Us Here, un misurare maniacale influenze, sfumature e<br />

ceselli strumentali da cui traspare evidente la matrice<br />

nord-europea/francofona del progetto.<br />

Per un disco sospeso tra melodia e costumer care, in un<br />

74 75


gioco di atmosfere che va per sottrazione riuscendo<br />

nel contempo a suonare cool.<br />

(6.9/10)<br />

fABrizio zAMpighi<br />

QueST for fire - lighTS froM pArAdiSe (Tee<br />

pee, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: p s y c h-s T o n e r<br />

La Tee Pee, label americana che si muove in ambito<br />

psichedelico con piacevoli invasioni di campo sul versante<br />

hard & heavy, ultimamente non perde un colpo.<br />

L’ultimo colpaccio è il sophomore dei Quest For Fire,<br />

quartetto canadese formato dagli ex Deadly Snakes<br />

Chad Ross e Andrew Moszynski con Josh Barman e<br />

Mike Maxymuik che aveva già sorpreso due anni fa con<br />

l'omonimo esordio Quest For Fire. Costretti a bissare<br />

una prova ben accolta ovunque, i quattro allargano la<br />

prospettiva introducendo di elementi apparentemente<br />

estranei al contesto stoner/sludge monolitico che li<br />

contraddistingueva.<br />

Light From Paradise è infatti legato a doppia mandata<br />

con una psichedelia dilatata, visionaria, pinkfloydiana<br />

che predilige emotivi slanci semi-orchestrali, scarti<br />

desert-rock o grunge alla maniera di Skin Yard o Meat<br />

Puppets e una vocalità che abbraccia l’ampio spettro<br />

circoscritto tra gli Om meno salmodianti e gli Alice In<br />

Chains più corposi e afflitti. Non solo hard-rock in overdrive<br />

alla Hawkwind come in Set Out Alone o In The Place<br />

Of A Storm ma lande drogatissime e più contemplative<br />

con soluzioni personali e varie (il mantra acustico di<br />

Psychic Seasons, gli archi di The Greatest Hits By God, le<br />

afasie umorali della esemplare Sessions Of Light). Pura<br />

gioia per chi ama il versante più diluito e liquido della<br />

psichedelia dura del terzo millennio.<br />

(7/10)<br />

STefAno pifferi<br />

roBerT WyATT - for The ghoSTS WiThin<br />

(doMino, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: j a z z<br />

Sin dall’inizio l’uomo di Canterbury ci ha abituato<br />

all’anticonvenzionalità. Benissimo, giacché un mondo<br />

senza Rock Bottom o i Soft Machine è duro da immaginare<br />

e sarebbe in ogni caso più banale. Mente pronta<br />

allo scambio e ad adattarsi, lo trovi a fianco di Cristina<br />

Donà e di musicisti africani, intendo a sfumare surrealismi<br />

e indignarsi con un’invettiva. Oggi eccolo a ricordarci<br />

la sua passione per gli standard jazz in compagnia<br />

di Gilad Atzmon (sassofonista abile e misurato già in<br />

Cuckooland e Comicopera) e Ros Stephen agi archi.<br />

Sfrondate da ogni calligrafismo e ridotte all’osso di gra-<br />

na vocale, fiati e quartetto d’archi (con gli occasionali<br />

piano e ritmica in punta di dita), le celeberrime Lush<br />

Life e In A Sentimental Mood, una fischiettata Round<br />

Midnight e lo struggimento di What A Wonderful World<br />

perdono la banalità accumulata negli anni aprendosi a<br />

quella inconfondibile voce.<br />

Che potrebbe cavar poesia anche dal menu di un ristorante,<br />

dunque figuratevi se alle prese con brani dal<br />

cuore melanconico e mai nostalgico per gli inusuali arrangiamenti<br />

cui sono sottoposte. Trattasi di autentiche<br />

interpretazioni, insomma, come allorquando Robert<br />

torna sulla sua meraviglia Maryan o ripesca At Last I<br />

Am Free - degli Chic, già riletta negli ’80 - con esito coerente<br />

all’atmosfera. Organica e piacevolissima, spezzata<br />

soltanto dall’inutile etno-rap Where Are They Now,<br />

comunque redento da quanto sopra, dall’accorata Lullaby<br />

For Irena e dall’autografa title-track. Divertissement<br />

d’autore esteso a chi ascolta: rarità che con Wyatt diviene<br />

norma.<br />

(7/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

roBerTA di lorenzo - l'occhio dellA lunA<br />

(rAiSer, feBBrAio 2010)<br />

Ge n e r e: c a n z o n e d'a u T o r e<br />

Se quella del songwriting (in) italiano è una piazza affollatissima,<br />

qualche anfratto libero (forse) c'è ancora<br />

nel settore cantautorato al femminile. Cade a puntino<br />

dunque questo esordio di Roberta Di Lorenzo prodotto<br />

da una vecchia conoscenza in ottimo stato di salute<br />

come Eugenio Finardi. Di Lorenzo è cantautrice<br />

ancora in via di formazione, lo testimoniamo una serie<br />

di tracce gradevoli ma senza l'effettivo mordente per<br />

rimanere - ad eccezione di Circe, piccolo gioiello di pop<br />

nobile con liriche efficaci ad intrufolare nel mito un po'<br />

di biografismo. Nonostante ciò L'occhio della luna si<br />

lascia riascoltare per il lavoro d'artigianato degli arrangiamenti,<br />

rimescolati senza stravolgimenti brano dopo<br />

brano e calibrati sulla direzione di ogni singolo episodio.<br />

Intrecci di acustiche e mandolini per Anima dolce liquida,<br />

con bouzouki in Antigone (cofirmata dallo stesso<br />

Finardi). Rhodes lunare per Corollario, folate d'archi per<br />

Vento di costiera. Retrogusto country-folk su Faccia e<br />

speziatura di sitar ne L'attesa. Visti i tre episodi con la<br />

titolare solitaria alla chitarra (Luna) e al pianoforte (La<br />

ballerina e il clown, Doloroso istinto), occorre una scrittura<br />

con la schiena più dritta, che cerchi l'epidermide di<br />

chi ascolta più che la corteccia cerebrale.<br />

(6.2/10)<br />

lucA BArAcheTTi<br />

royAl BAThS - liTAnieS (WoodSiST, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: a r T-p o p sixTies<br />

Siete in astinenza da Crystal Stilts et similia? Non riuscite<br />

a uscire dalle sabbie mobili del revival sixties più<br />

arty? Fiondatevi su questi californiani Royal Baths, freschi<br />

di cambio di ragione sociale e all’esordio lungo,<br />

dopo non più di un paio di 7".<br />

Stessa forza affabulatoria del citato quartetto newyorchese<br />

e del sound più artistoide di Williamsburg,<br />

in generale, nel rivedere le spinte sixties-pop alla<br />

luce dell’avanguardia velvetiana, Litanies lascia da<br />

subito a bocca aperta per maestria e equilibrio nel<br />

gestire una materia iper-abusata. Mezzi pochi - doppia<br />

voce maschile per un terzetto dalla strumentazione<br />

classica - ma soluzioni non banali che conquistano<br />

dai primi secondi dell’opener After Death.<br />

Obliquo e groovey, ossessivo senza essere claustrofobico<br />

Litanies è pieno zeppo di piccoli tesori tanto<br />

minimali quanto perfettamente dosati, capace di tirare<br />

in ballo l’ovvio pop dei sessanta, il rock inacidito<br />

dei Velvet, la psichedelia più corposa e visionaria e<br />

un tocco di weirdismo arty che li cala non a caso nel<br />

catalogo Woodsist.<br />

Psych-pop oscuro e gloomy, ritmica scheletrica e chi-<br />

tarrismo in modalità garage/lo-fi per tanti pezzi al di<br />

sopra della già alta media di casa, e con almeno un<br />

capolavoro: Sitting In My Room, 5 minuti di dolce, fluttuante<br />

e ossessiva paranoia, che culla verso la California<br />

della Summer Of Love e, contemporaneamente,<br />

verso lontani mondi orientali. Consigliatissimo.<br />

(7.3/10)<br />

STefAno pifferi<br />

SAcri cuori - douglAS & dAWn (inTerBAng<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: d e s e r T-r o c k<br />

Partiamo dai nomi coinvolti per dare la misura di questo<br />

progetto estemporaneo dal nome evocativo. Su<br />

Douglas & Dawn appaiono a vario titolo John Convertino,<br />

Jacob Valenzuela e Nick Luca dei Calexico, Howe<br />

Gelb, Anders Pedersen e Thøger Lund dei Giant Sand,<br />

Bill Elm (Friend of Dean Martinez), Marc Ribot, James<br />

Chance, John Parish (responsabile dietro al mixer) quale<br />

rappresentanza internazionale cui si unisce quella<br />

nostrana formata dai vari Massimo Sbaragli, Christian<br />

Ravaglioli, Rico Farnedi, Denis Valentini, Mirko Monduzzi<br />

e Andrea Costa.<br />

Un firmamento di brillanti stelle che ruota indubbiamente<br />

intorno al "cuore" di Sacri Cuori: Antonio Gra-<br />

76 77


mentieri, deus-ex-machina del festival ferrarese Strade<br />

Blu e apprezzato chitarrista di base bluesy, e Diego Sapignoli,<br />

sono infatti un apprezzato duo protagonista di<br />

molti progetti nazionali e internazionali (da Hugo Race<br />

al recente Saluti da Saturno di Mirco Mariani).<br />

L’amore per una musica soundtrack-oriented, evocativa<br />

e visionaria in quanto pensata come sostrato sonoro<br />

per performances varie, si manifesta in questo esordio<br />

vinilico sempre sul crinale tra forme avant-folk minimale,<br />

psichedelica desertica e polverosa, blues atavico e<br />

passionale, slow-core romantico. Musica prevalentemente<br />

strumentale, se si eccettua la Dylaniana Shelter<br />

From The Storm cantata da Howe Gelb, che trascina<br />

l’ascoltatore verso paesaggi jorodowskiani, polverosi<br />

e mistici, ora delicatamente traditional, ora ossessivamente<br />

reiterati.<br />

Disco particolare che stuzzicherà l’appetito di chi apprezza<br />

i nomi coinvolti, ma non solo.<br />

(7/10)<br />

STefAno pifferi<br />

ShAnnon WrighT - SecreT Blood (ViciouS<br />

circle, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: p o s T c a n T a u T o r a T o<br />

Basta poco a Shannon Wright per ammaliare: una voce<br />

intensa nel porgersi, una ritmica secca e precisa, qualche<br />

tastiera e corda elettrica ma d’acustico sentire (e<br />

viceversa ). Grossomodo come se PJ Harvey si domiciliasse<br />

nella Chicago del decennio scorso, per quanto il<br />

paragone sia in ogni caso riduttivo verso chi possiede<br />

una cifra autoriale propria. Che sa alternare rabbia (Violent<br />

Colors) e sperimentazione (Palomino) tanto quanto<br />

rinvigorire in modo esperto le strutture della forma<br />

canzone (Dim Reader) oppure concedersi suggestioni<br />

cameristiche (Chair To Room).<br />

Messo da parte quel poco d'elettronica casalinga che<br />

faceva capolino nel precedente Honeybee Girls, Shannon<br />

torna a cacciare la testa fuori della camera e guardare<br />

giù in strada, declinando post il verbo folk-rock<br />

con furore più (Commoners Saint) o meno (Fractured)<br />

meditativo.<br />

Trovando - lei e noi - requie in un pugno di ballate dalla<br />

pienezza autoriale non comune come il capolavoro On<br />

The Riverside, oppure come le Satellites, Merciful Secret<br />

Blood Of A Noble Man e Under The Luminaries capaci di<br />

dipanare con mano ferma incantesimi di semioscurità<br />

e deboli chiarori. Ci si addentra nel disco per nulla respinti<br />

dalle sue forme, osservando anzi l’intimismo farsi<br />

pian piano largo tra le maglie della tensione, come se<br />

Shannon volesse riassumere in trentatré minuti un intero<br />

percorso decennale. Fino ad oggi sempre persua-<br />

sivo e appassionato, come le gocce di questo "sangue<br />

segreto".<br />

(7.2/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

ShAron VAn eTTen - epic (BA-dA-Bing,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: f o l k<br />

Sharon Van Etten è una vagabonda che nel tragitto<br />

New Jersey/Tennessee/Brooklyn s’è fatta espellere da<br />

scuola, ha lavorato da sommelier, poi in un non meglio<br />

specificato "locale per tutte le età" e per un’etichetta<br />

discografica. Già che c’era, si è incasinata la vita con<br />

qualche ragazzaccio che le ha spezzato il cuore. Questo<br />

se presti fede a quei moderni racconti mitologici<br />

che sono i comunicati stampa. Che si premurano di<br />

informarci inoltre che Sharon non è "una cantante che<br />

predilige prospettive femminili e non è una provocatrice"<br />

e che risulterà gradita a chi "è stufo del provincialismo di<br />

altre artiste" per le sue "osservazioni incisive e universali<br />

su perdita e amore".<br />

Al netto di tutto ciò, chi scrive ha incontrato una versione<br />

- logico, data la residenza - più urbana ma pure scolorita<br />

di Alela Diane (buone Save Yourself e la minimale<br />

Love More; Don’t Do It si agghinda e si piace troppo),<br />

che accelera il passo con discreto esito (A Crime, Peace<br />

Signs) e inciampa nel deplorevole FM anni ’70 One Day<br />

(a giustificazione della dedica ai Fleetwood Mac nel<br />

booklet). Chi scrive ha incontrato una volenterosa che,<br />

nello stanzone strapieno di colleghe, siede in fondo e<br />

raramente parla con autorità. Quando succede, le esce<br />

il sensazionale traslucido bordone da Kendra Smith<br />

terrena Dsharpg. Sulla base del quale chi scrive spera<br />

di incontrarla, infine matura, per il terzo album.<br />

(6.7/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

SiSKiyou - SiSKiyou (conSTellATion<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: indie f o l k<br />

L'ennesima band di area Constallation arriva al debutto.<br />

Si tratta di un duo canadese formato dall'ex Great<br />

Lake Swimmers Colin Huebert e di Erik Arnesen, che<br />

nella band madre, invece, c'è rimasto. Rispetto alle altre<br />

incarnazioni di Huebert, qui il sound è più lo-fi, caratterizzato<br />

quasi esclusivamente dalla sua vena di songwriter<br />

malinconico e crepuscolare. Pare che le dodici tracce<br />

che compongono il disco siano state registrate un<br />

po' qua e un po' là, "sulle scale, in stanze d'albergo" e<br />

altrove, semplicemente per mettere su cd un eccesso di<br />

brani che Huebert aveva scritto per il suo progetto soli-<br />

sta. Diciamo che si sente: non c'è nulla che non vada in<br />

queste canzoni che lasciano intravvedere una spiccata<br />

facilità alla coralità che tanto va di moda in ambienti<br />

indie, ma che sembrano non essere state digerite a dovere.<br />

L'impressione è di un notebook di appunti, con<br />

canzoni che superano raramente i due minuti e mezzo,<br />

come di quei taccuini di viaggio di prima della fotografia.<br />

la domanda è se abbiano ancora spazio, oggi che<br />

siamo abituati alle foto, ai video, a Internet.<br />

(6/10)<br />

MArco BoScolo<br />

SMAll BlAcK - neW chAin (jAgjAguWAr,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: Gl o -fi<br />

Gli ultimi della nidiata hypnagogica che un anno fa<br />

riempiva colonne e copertine dei magazine musicali<br />

di mezzo mondo sono un quartetto proveniente da<br />

Brooklyn. Dopo un singolo passato immeritatamente<br />

sottotraccia (Despicable Dogs su Trasparent) e un<br />

omonimo EP non altrettanto riuscito, i nostri arrivano<br />

al primo full-lenght proprio mentre la versione nera del<br />

glo-fi (leggi witch-house) comincia a scalzare dalle prime<br />

pagine i padrini Neon Indian e Washed Out.<br />

Fa uno strano effetto risentire i toni solari e sfuocati<br />

propri di questa progenie mentre le nenie doloranti dei<br />

Salem rubano l’attenzione dei media di genere. New<br />

Chain non è un cattivo lavoro, raccoglie dieci tracce di<br />

beat riverberati d’ordinanza, aperture synth e cantato<br />

dilatato che ci riporta a un paio d'estati fa come se nulla<br />

fosse; le melodie annacquate di Camouflage e quelle<br />

più "elastiche" di Photojurnalist, assieme alle sincopi<br />

electro della title-track, reggono una tensostruttura<br />

che se pur non brilla risulta decisamente godibile.<br />

(7/10)<br />

AndreA nApoli<br />

SonneTS (The) - WeSTern hArBour Blue<br />

(deSpoTz, SeTTeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: s m o o T h p o p, s o u l<br />

Perché ci vuole stile. Avete presente quando Paul Weller<br />

ha dato un calcio ai Jam, ha afferrato per un braccio<br />

Mick Talbot, si è messo un maglioncino sulle spalle ed<br />

è andato a farsi fotografare sotto la Tour Eiffel? Quello<br />

stile. Niente può batterlo, sarai sempre più cool degli<br />

altri. Questo, i Sonnets, lo hanno capito benissimo - e,<br />

soprattutto, prima degli altri. Magari il loro nu blueeyed<br />

soul non arriverà a diventare una tendenza del<br />

pop mondiale, ma nel "nostro" panorama costituisce la<br />

proverbiale boccata d'aria fresca, e non importa quanto<br />

sappia di già sentito. Non importa certo quando<br />

scegli consapevolmente di aprire un disco con la più<br />

smaccata delle citazioni, il rapidissimo crescendo di archi<br />

del Love Theme della Love Unlimited Orchestra: la<br />

dichiarazione d'intenti è infatti palese sin dall'incipit<br />

di No Hollywood Ending, romanticissimo giro in barca<br />

accompagnato dal crooning soffice, fragile ed emotivo<br />

di un Roddy Frame o un Edwyn Collins, o ancor di<br />

più nelle affettuose riprese di Shout To The Top, My Ever<br />

Changing Moods e Long Hot Summer chiamate rispettivamente<br />

Sebastian Said, The Blue Train e Everybody's<br />

On a High. C'è però una freschezza innegabile lungo<br />

gli appena trenta minuti di Western Harbour Blue - durassero<br />

tutti così, i dischi pop! - che fa perdonare ogni<br />

indulgenza di questo tipo: non c'è niente di male nel<br />

rievocare precisamente gli '80 di Style Council, Prefab<br />

Sprout e (perché no?) Wham! quando si possiede un<br />

gusto tanto raffinato, e pazienza se probabilmente si<br />

tratterà di un dischetto in fondo splendidamente effimero,<br />

di quelli di cui fra tre o cinque anni ci ricorderemo<br />

in pochi. Eccome se ce ne ricorderemo, però (a<br />

proposito, chissà dov'è finita quella vecchia copia masterizzata<br />

di Lesser Matters...).<br />

Ultima considerazione: che un disco così venga da Malmoe<br />

e non da Londra, la dice lunga sull'aria non propriamente<br />

salubre che da un po' tira ad Albione, ahilei<br />

non più culla di fenomeni pop realmente genuini (sarà<br />

mica un caso se i Belle And Sebastian sono ormai di<br />

casa a L.A.?). Ma tutto questo finisce per interessarci<br />

davvero poco, non appena rimettiamo su il disco per<br />

l'ennesimo, piacevole ascolto. E l'inverno sembrerà<br />

sempre lontano, anche con la pioggia che batte sui vetri.<br />

(7.1/10)<br />

AnTonio pugliA<br />

SpiriTuAl fronT - roTTen roMA cASino<br />

(TriSol, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: nihilisT suicide-p o p<br />

Eccolo il disco della maturità "pop" per la formazione<br />

romana. Lo auspicavamo al tempo di Armageddon Gigolo,<br />

quando utilizzavamo la formula - suggerita dalla<br />

band stessa - di "suicide-pop" per riassumere un suono<br />

decadente, viscerale, drammatico eppure accessibile<br />

ed aperto. Ora Rotten Roma Casino conferma e amplifica<br />

quella sensazione, anche grazie al supporto visivo (e<br />

visionario) affidato al dvd accluso che, tra video, corti e<br />

interviste, rievoca le stelle più oscure del firmamento<br />

maudit della band: dal lato filmico, Fassbinder e Lynch,<br />

da quello letterario Pavese, Majakovskji e Pasolini.<br />

Sul versante musicale, il retroterra da folk noir e apocalittico<br />

da cui il progetto prendeva le mosse agli esor-<br />

78 79


di è sempre presente, seppur relegato a semplice eco<br />

sottotraccia. A farla da padrone è una forma noir-cabarettistica<br />

di moderna canzone pop, finalmente compiuta<br />

e matura, raffinata ed elegante e che stupisce per<br />

sfumature, soluzioni e accessibilità. Musica struggente<br />

e passionale che alterna ballads dal sapore mitteleuropeo<br />

a orchestrazioni da western morriconiano, torchsongs<br />

oscure alla Black Heart Procession a passaggi<br />

alla Nick Cave più lirico ed intimista. Solo vaghi punti<br />

di riferimento, perché si potrebbero tranquillamente tirare<br />

in ballo gli Ostara di Secret Homeland, i claudicanti<br />

bozzetti di Kurt Weill, desertici echi di solitudine e disperazione,<br />

l’esistenzialismo più marcatamente nichilista<br />

e mitteleuropeo e altro ancora.<br />

Ad accompagnare Simone Hellvis Salvatori, c'è una rodata<br />

e affidabile band (il basso di Federico Amorosi, la<br />

batteria di Andrea Freda e la chitarra elettrica di Giorgio<br />

Maria Condemi) più una infinità di ospiti. Tra corde,<br />

piano e trombe, le trame sonore di Rotten Roma Casino<br />

si ispessiscono senza però perdere in espressività e accessibilità.<br />

Una soluzione che ne aumenta l’appeal, fornendo<br />

una buona (unica?) via per uscire dal pantano<br />

spesso autoreferenziale del milieu neo-folk.<br />

(7.1/10)<br />

STefAno pifferi<br />

SQuArepuSher - ShoBAleAder one:<br />

d'deMonSTrATor (WArp recordS, noVeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: vo c o d e r p o p<br />

Cosa sarà mai preso a Squarepusher? Un disco di canzoni<br />

easy listening a base di pop, nu soul, r'n'b, eighties<br />

cantate rigorosamente al vocoder e arrangiate con<br />

chitarra, drum machine, basso e synth? Shobaleader<br />

One: d'Demonstrator è senz'altro l'album più smaccatamente<br />

ruffiano dell'anno. Ci puoi sentire gli arrangiamenti<br />

sfarzosi da fantasilandia kitsch (Frisco Wave),<br />

una tonnellata di Moroder passato al colino del french<br />

touch di chi sapete bene (Megazine), fino a una sorta di<br />

risposta al culto glo-pop di Neon Indian e soci. In più,<br />

oltre a proverbiali arrangiamenti slap e funk, ci si respira<br />

pure quel gusto (che una volta chiamavamo) fusion che<br />

tanto piace a mister Jenkins, decorato con gli scacchi<br />

colorati al neon delle vecchie disco coi pattini.<br />

Bello? Dipende da quanto a fondo andiamo nella faccenda.<br />

Mr spaccino non si è purgato d'anni d'accelerazioni<br />

abbandonandosi semplicemente a un'innocua<br />

e spiazzante easy listening. A primo acchito l'album<br />

sembra un'enorme truffa, poi capisci che il Leonardo<br />

della situazione gioca nell'inserirti trame e riferimenti<br />

praticamente in ogni canzone. A fine scaletta la scatola<br />

si apre e tiri le fila, trovi un'overture prog-metal di dieci<br />

minuti che parte con dei King Crimson borchiati, passa<br />

al grind e conclude con un giro d'arpeggi e pomp-metal<br />

rallentati. La verità, dissimulata sotto a un chirurgico<br />

clashing di epoche, culture e continenti, è che l'electrohead<br />

britannico ammette la superiorità francese in fatto<br />

di pop al silicio.<br />

Questa confessione porta alla catarsi intrisa di Daft<br />

Punk, Sébastien Tellier, Air (e prima il sempreverde<br />

Giorgio Moroder): Squarepusher non potrà mettere<br />

piede al pub per un po', ma la sua versione d'elettro pop<br />

nerd modificata (micro inserti metal e sensibilità prog<br />

seventies a tutto tondo) è pienamente riuscita.<br />

(7/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

STAn ridgWAy - neon MirAge (A440, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: w a v e f o l k s i n G e r<br />

Sin dai Wall Of Voodoo questa voce inconfondibile<br />

intrattiene con le radici un rapporto ambivalente. Nel<br />

senso che, nell’attraversare la new wave per approdare<br />

a una forma splendidamente attuale di cantautorato,<br />

le ha trasfigurate e omaggiate. Se dunque l’epoca delle<br />

rivoluzioni arriva una volta sola e accadde trent’anni<br />

fa con Ring Of Fire, di Johnny Cash Stan oggi può dirsi<br />

erede spirituale. Canzoni come storie, le sue, che danno<br />

corpo a hard bolied da bassifondi, a mini-sceneggiature,<br />

a inquietudini future da uomo metropolitano del duemila,<br />

e la differenza sta lì.<br />

Che, a questo giro, veste di abiti talvolta tradizionalisti<br />

riflessioni frutto di recenti disgrazie (la dipartita del padre<br />

e di uno zio; il suicidio della strumentista e amica<br />

Amy Farris, qui presente) e si riallaccia - com’è stato<br />

giustamente notato da altri - al suo Black Diamond del<br />

’95. Lo fa tramite la bella ripresa di una ballata colà inclusa<br />

(Underneath The Big Green Tree), un’altra cover di<br />

Bob Dylan (la vibrante Lenny Bruce) e il tono malinconico<br />

che la versatilità degli arrangiamenti rende avvolgente<br />

e non cupo. Un disco di mezza età, se vi pare, sia<br />

in termini di classe che di occasionale fiatone, sicché<br />

al maldestro rock latineggiante Scavenger Hunt e alla<br />

piatta Wandering Star rispondono una Halfway There<br />

tra tex-mex e Irlanda e lo struggente crepuscolo Behind<br />

The Mask.<br />

Tra le due estremità un poco di mestiere e parecchia<br />

bontà a piene mani: dal reggae della prateria (Flag Up On<br />

A Pole) alle tipiche atmosfere morriconiane (This Town<br />

They Call Fate), da una sarcastica bossanova (Desert Of<br />

Dreams) a ipotesi di Blonde On Blonde se fosse appartenuto<br />

a Van Morrison (Day Up In The Sun). Gemme che<br />

al sottoscritto bastano per garantire a Neon Mirage un<br />

posto nel cuore e negli scaffali. Avanzano, perfino.<br />

(7.1/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

STyrofoAM - diSco SynTheSizerS & dAily<br />

TrAnQuilizerS (neTTWerK MuSic group,<br />

oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: sy n T h p o p<br />

Styrofoam alle mode c'è sempre stato attento. Molto attento.<br />

All'inizio, a tiro Duemila, cavalcava perfettamente<br />

l'ondata Morr con glitch e melanconie mittel, poi lestissimo<br />

è salito sul cavallone Anticon mettendo un po' di<br />

hop bianco dentro l’impasto indietronico, poi è arrivato<br />

il boom degli '80 e s’è dato una bella spalmata di ottimismo<br />

e synth pop mascherandosi sempre meno europeo<br />

e sempre più filo britannico, tra uggia e tanti raggi<br />

di sole pop. In tutto ciò, featuring rap a parte, il senso<br />

melodico lo ha sempre salvato. A Arne Van Petegem<br />

non è mai mancato e i suoi testi piacevoli, automatici<br />

il più delle volte, hanno sempre conservato quell'intoccabile<br />

aura indie pop, hanno cioé sempre avuto il taglio<br />

melodico al momento giusto.<br />

Oggi, a due anni da A Thousand Words con Disco Synthesizers<br />

& Daily Tranquilizers il Belga s'è rotto anche<br />

di quest'abito: basta indie-genza, basta quel suono per<br />

pochi.<br />

Il nuovo Styrofoam non si vergogna di cantare con il<br />

vocoder, di prendersi al missaggio uno come grosso<br />

come Wally Gagel (Eels, Folk Implosion, Muse), d’incidere<br />

in uno studio ancor più famoso come il TTG/WAX e di<br />

puntare diritto al pop da classifica con il suono che va<br />

oggi, un misto di luccicanti synth un po’ techy, aperture<br />

chitarristiche à la New Order, folate da soundtrack scura<br />

à la Depeche Mode e in generale quell’approccio tra<br />

suonato live e synth in remember Ottanta.<br />

Ma i numeri killer ci sono? Get Smarter e Extra Careful ci<br />

provano e funzionano senza uscire dai soliti seminati.<br />

Il resto è prodotto molto bene senza che la sensazione<br />

di già sentito abbandoni mail l'ascoltatore. In pratica<br />

Styrofoam è neither Fish Nor Fles, il pubblico di massa<br />

non lo raggiungerà, e gli indie kid gli volteranno le<br />

spalle.<br />

(6/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

Sun AirWAy - nocTurne of exploded<br />

crySTAl chAndelier (deAd oceAnS, oTToBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: po p<br />

L'album di debutto del duo di Philadelphia è un omag-<br />

gio al synth pop, ma con le dovute differenze che l'era di<br />

Ableton ha portato all'elettronica. I Sun Airway cercano<br />

di creare un punto d'incontro fra tentativi sperimentali<br />

più ricercati e l'influenza del mainstream pop degli<br />

inglesi Coldplay: a volte ci riescono, a volte meno come<br />

nel caso dell'intro Infinity (dove l'interpretazione vocale<br />

di John Barthmus è fin troppo simile a Chris Martin) o<br />

Shared Piano (la cui spumeggiante esplosione electropop<br />

è incredibilmente somigliante a Viva La Vida). Più<br />

personali tracce come American West, con le festive tastiere<br />

svolazzanti bliss-pop, e Put The Days Away, il cui<br />

crescendo ci conduce fino a una rilettura indie-pop priva<br />

delle chitarre sporche degli Strokes. Come in ogni<br />

disco pop che si rispetti arrivano anche la ballata malinconica<br />

e lenta, Swallowed By The Night, e il dance-pop<br />

oriented di Waiting on you: entrambe rimangono tentativi<br />

non proprio brillanti dalle melodie vocali insipide e<br />

dagli arrangiamenti scontati. Un esordio piacevole ma<br />

non del tutto convincente.<br />

(6.3/10)<br />

geMMA ghelArdi<br />

Third eye foundATion - The dArK (fire<br />

recordS, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: a m e r i c a n a<br />

Da un decennio Matt Elliott non comunicava col mondo<br />

tramite la Fondazione. Soltanto remix da un Little<br />

Lost Soul che usciva per l’appunto nel 2000 ed era delle<br />

sue la missiva a più alto tasso melodico, che così preparava<br />

il terreno allo splendido cantautorato "modernista"<br />

della trilogia Songs. Proveniente da una Bristol<br />

lontana dai riflettori, il ragazzo aveva sin lì assemblato<br />

col giusto distacco il dub e le stratificazioni sonore, le<br />

chitarre trasfigurate e il ritmo dilatato senza troppo riguardo<br />

per la forma canzone. Degli abiti appena smessi<br />

- non si sa per quanto tempo - da chansonnier notturno,<br />

The Dark non può però esimersi dal tenere conto, visto<br />

il loro peso emotivo e artistico che cogli anche qui, al di<br />

là della copertina, delle prese di posizione politiche o<br />

della visione del mondo.<br />

In un’attenzione allo svolgimento del suono, semmai;<br />

al mescolarlo affinché gli elementi compositivi risultino<br />

indistinguibili e divengano il messaggio sostituendosi<br />

alle parole. Avrete così in mano un gomitolo spinoso<br />

composto da cinque movimenti, risolti in grigiori ambientali<br />

che raccontano un approccio sulfureo a triphop<br />

e drum n’ bass, suggestioni etniche e orchestrazioni<br />

sottratte al minimalismo colto, stordimento e rabbia<br />

sotto pelle. Non fatevi però depistare da ipotesi di revival<br />

post-rock, ché qui - con Chapelier Fou e Chris Cole<br />

a gestire diversi strumenti e leggere la mente di Matt - si<br />

80 81


espira un’aria contemporanea e, com'è giusto, spinta al<br />

di là delle definizioni. Malsana e ad alto tasso di personalità,<br />

anche, e dunque bentornato, Terzo Occhio.<br />

(7.2/10)<br />

giAncArlo TurrA<br />

TriSTe colore roSA - ScoMpArire in 11<br />

SeMplici MoSSe (AuToprodoTTo, SeTTeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: s o n G w r i T i n G<br />

Giocano sulle atmosfere i Triste Colore Rosa con il disco<br />

di esordio Scomparire in 11 semplici mosse, frutto<br />

della collaborazione e la partecipazione di diversi musicisti<br />

su cui il progetto musicale della band si basa nella<br />

sua ultima incarnazione.<br />

Atmosfere si diceva, sin dal nome in attenuazione di colore<br />

scelto, per musica cantata in italiano, che passa con<br />

disinvoltura dall’elettronica al pop rock all’indie, sospesa<br />

tra momenti più acustici e momenti più tirati. Essendo<br />

essenzialmente creatori di effetti soffusi, i Triste Colore<br />

Rosa riescono meglio in pezzi tenui dove mostrano una<br />

buona padronanza dei mezzi, anche in una formazione<br />

variabile. Nel resto ci sembrano meno a fuoco. La personalità<br />

di gruppo è comunque ben strutturata e questo<br />

esordio fa ben sperare per le mosse successive.<br />

(6.8/10)<br />

TereSA greco<br />

TriViSion - MuoVerSi nel liQuido (indeed!<br />

recordS, noVeMBre 2010)<br />

Ge n e r e: n u -m e T a l /r o c k<br />

I Trivision sono una band di Casalpusterlengo (provincia<br />

di Lodi) che approcciano il rock pesante con metodo<br />

molto connotato (e poche e piccole variazioni sul tema).<br />

Fanno nu-metal senza ibridazioni, una versione normalizzata<br />

dei System Of A Dawn in pratica, faro principale<br />

ma non esclusivo dei lombardi che si nota soprattutto<br />

nei primi brani (Involucro, Negativa, Dentro la crisi).<br />

Muoversi nel liquido, prima fatica del combo, prova<br />

anche ballate (Cronotopo I) ma soprattutto rock mainstream<br />

(Ore riflesse) o metal tout-court (Zanapra, con<br />

evidenti difficoltà nell’incastro tra liriche - dionisiache<br />

- e musica).<br />

La formula è sostanzialmente sempre la stessa: uso di<br />

testi (e vocalità) struggenti e romantici sopra a riff pesanti.<br />

Un disco di genere. Forse troppo di genere.<br />

(5/10)<br />

gASpAre cAliri<br />

WorKing for A nucleAr free ciTy - jojo<br />

Burger TeMpeST (Melodic uK, SeTTeMBre<br />

2010)<br />

Ge n e r e: pr o G/el e c T r o<br />

Bastano tre parole per descrivere tutto quello che<br />

manca a Jojo Burger Tempest: selezione, coerenza,<br />

moderazione. Il resto del vocabolario è tutto nel disco<br />

a partire da Do A Stunt: esemplare introduzione delle<br />

schizofreniche trame prog-folk imbastite dal quintetto<br />

di Manchester, una perfetta premessa per chiarire<br />

cosa accadrà nell'oretta e mezzo a seguire, ovvero un<br />

potpourri d'elettronica e psichedelia su basi prog che<br />

lasciano il tempo che trovano.<br />

Non è tutto da buttare, qualcosa riesce a salvarsi dalla<br />

furia compositiva in Alphaville dove il canto del bassista<br />

Ed Hulme riesce a trovare una giusta collocazione, e<br />

Low con i suoi volumi maggiormente equilibrati. Del resto,<br />

i ragazzi amano la briglia sciolta e in un secondo cd<br />

monotraccia (i trenta minuti di Jojo Burger Tempest) sfogheranno<br />

ogni velleità indie, psichedelica, elettro, funk,<br />

dai Genesis ai Gong passando per gli Yes e mezzo prog<br />

degli anni '70 (notare la lunghissima lista di influenze<br />

dichiarate sul myspace).<br />

Il male di Jojo Burger Tempest è proprio questo: l'aver<br />

voluto il disco monstre. Ed aver fallito.<br />

(5/10)<br />

geMMA ghelArdi<br />

zeuS! - zeuS! (BAr lA MuerTe/off-SeT/<br />

SMArTz/eScApe froM TodAy/ShoVe/<br />

SAnguediSchi, oTToBre 2010)<br />

Ge n e r e: f r e e-n o i s e<br />

Scende dall’Olimpo del rumore per punire noi poveri<br />

mortali, Zeus!, progetto a due di nomi noti della musica<br />

italiana. Luca Cavina (bassista per Calibro 35) e Paolo<br />

Mongardi (ex Jennifer Gentle e ora Il Genio) si smarcano<br />

però dalle coordinate dei gruppi madre per innalzare<br />

un muro di noise strumentale basso-batteria che<br />

nulla invidia ai più famosi ed efferati progetti dall’approccio<br />

simile.<br />

Ora sul versante più tribale alla Lightning Bolt, ora più<br />

su quello prog-noise alla Ruins, ma di norma su velocità<br />

made in Locust e scelleratezza zorniana altezza Naked<br />

City, il sound del duo è sempre sfrenato e sfrontato,<br />

irrequieto e sporco, sempre al limitare tra sconquasso<br />

strumentale e follia ritmica. Gli occasionali e prestigiosi<br />

ospiti (Giulio Ragno Favero, Enrico Der Maurer Gabrielli,<br />

Valerio Canè di Mariposa e Andrea Mosconi) forniscono<br />

poi digressioni a margine del compatto suono originario<br />

arricchendone lo spettro: Koprofiev con le sue volute<br />

sci-fi da theremin rimanda ad ipotesi di grind alieno e<br />

la conclusiva Golden Metal Shower, manifesto via rifferama<br />

cosmico del duo, sono dimostrazioni di una band<br />

dinamica e non fossilizzata sul canone di genere.<br />

Non è prog, non è metal, non è grind né tanto meno<br />

noise o math: Zeus! è tutto questo frullato insieme. Deliranti<br />

e ironici il giusto (titoli come Grindmaster Flesh,<br />

Cowboia o Suckertorte sono a dir poco geniali), violenti<br />

e spregiudicati, Zeus! portano sulla terra la via degli dei<br />

al culto del rumore. Noi, sinceramente, non possiamo<br />

che sottometterci.<br />

(7.2/10)<br />

STefAno pifferi<br />

82 83<br />

.com


Gimme Some<br />

Inches #10<br />

Vinili e cassette inondano il nostro<br />

spazio dedicato questo mese. Ritorni<br />

ed esordi come al solito, in uno spettro<br />

sonoro sempre più ampio: Zola<br />

Jesus, Holidays, Movie Star Junkies<br />

and many more.<br />

Anche realtà apparentemente<br />

distanti dalla filiera produttiva del<br />

disco come promoter e organizzatori<br />

sembrano non poter rinunciare<br />

al supporto vinilico, vero e proprio<br />

must di questo terzo millennio. Alla<br />

faccia di chi lo voleva morto già da<br />

qualche decennio.<br />

Ci riferiamo a Keep It Yours, collettivo<br />

romano responsabile del<br />

“worst club nite in Rome” e traghettatore<br />

di suoni hype come quelli di<br />

The XX, Crystal Castles, Telepathe,<br />

These New Puritans, Toro Y Moi.<br />

Ora in attesa della celebrazione<br />

di Unknown Pleasures per mano<br />

di Peter Hook e di sdoganare sul<br />

territorio italiano i precursori della<br />

scena witchy, quei Salem da noi indagati<br />

il mese scorso, KIY aggiunge<br />

il suffisso Records alla propria ragione<br />

sociale e produce i primi due<br />

vinili piccoli.<br />

Too Young To Love e Holidays,<br />

volti diafani e sintomatici del nuovo<br />

trend degli indie-kids, tra colorito<br />

emaciato e vestiario skinny, tracciano<br />

le linee su cui si muove l’orizzonte<br />

musicale della neo-label. I primi,<br />

terzetto da Torino, vanno di electropop<br />

capace di tirare in ballo il synthpop<br />

alla maniera dei Pet Shop Boys<br />

cristallizzandolo in uno scenario al<br />

limite dello shoegaze più etereo e<br />

poppy (Frozen Fields) o come dei<br />

MGMT meets These New Puritans<br />

dopo una sbornia notturna a base<br />

di electro-rock inglese: Mytria è<br />

pura wave fredda-ma-non-troppo.<br />

I secondi pur provenendo da zone<br />

musicalmente depresse (Viterbo)<br />

mostrano ottima capacità di introiezione<br />

dei trend del momento,<br />

muovendosi con scioltezza nella<br />

nuova onda british affrontata senza<br />

timori reverenziali. Believe è un<br />

bel sing-a-long che strizza l’occhio<br />

al versante più orecchiabile e accessibile<br />

della nuova wave inglese<br />

senza suonare troppo ossequioso<br />

dei modelli di riferimento, ma spingendo<br />

sul versante dancey. Non un<br />

caso che sul lato b si trovi un remix<br />

a firma Andrea Esu che apre totalmente<br />

al dancefloor più poliritmico<br />

e eterogeneo.<br />

Su tutt’altri orizzonti si muove<br />

una vecchia conoscenza di SA.<br />

Matteo Bernacchia aka Above The<br />

Tree, dopo la release su Boring Machines<br />

e lo split 12” con Musica Da<br />

Cucina, arriva ad un altro live su<br />

cassetta. Live A Ca’ Blasè, edito in<br />

cassetta dalla benemerita Bloody<br />

Sound Fucktory, è un vero e proprio<br />

album per durata e omogeneità<br />

di fondo che mette in evidenza<br />

lo spessore del progetto mascherato.<br />

Una forma di blues intimo e disidratato,<br />

ossessivo e reiterato che<br />

parte da suggestioni à la Fahey per<br />

arrivare a lambire territori da musica<br />

concreta, in cui la chitarra è strumento<br />

anche non convenzionale.<br />

Giri ipnotici di chitarra che attualizzano<br />

il blues del delta alle weirdità<br />

più astruse degli anni ’00. Sempre<br />

con gran classe.<br />

Un’altra cassetta proviene invece<br />

dalla Winged Sun, etichetta di Max<br />

aka High Wolf. Di L’Amazon RAM<br />

Arkestra poco si sa, nella miglior<br />

tradizione del francese, se non che<br />

nelle due lunghe tracce untitled riesce<br />

ad unire le istanze più free del<br />

raga-rock (altezza Vibracathedral<br />

Orchestra, per intendersi) con il tropicalismo<br />

più droning e ritualistico.<br />

Biotope psychedelic music la definisce<br />

l’etichetta e il concetto non è<br />

poi così astruso.<br />

Scivolando su territori più aspri,<br />

ecco tornare i temibili Robedoor<br />

con un nuovo 7 pollici sulla label<br />

di casa, la Not Not Fun. Pacific Drift<br />

offre tre brani in cui il combo californiano<br />

continua la strada già battuta<br />

con gli ultimi due album (Raiders<br />

e soprattutto Burners). Quindi<br />

ancora oscuri terremoti drone incalzati<br />

da giri di basso apocalittici<br />

e grevi litanie a recitare l’ultimo<br />

sabba. Nota di merito per l’artwork<br />

stile sci-fi anni Cinquanta finto vintage.<br />

Sempre negli USA, a breve distanza<br />

da Stridulum II torna anche<br />

Zola Jesus con quattro brani raccolti<br />

sotto l’oscura marca di Valusia,<br />

regno fantastico nato da penna<br />

di Robert E. Howard (inventore, tra<br />

gli altri, di Conan il barbaro). Sull’EP<br />

Nika recupera i tre brani precedentemente<br />

inclusi come bonus tracks<br />

nella ristampa europea di Stridulum<br />

(Tower, Sea Talk e Lightsick),<br />

rilasciando un solo inedito (Poor<br />

Animal) con cui conferma la svolta<br />

new wave/new age delle ultime<br />

uscite. Niente di nuovo sotto il sole,<br />

ma sempre il grande pathos della<br />

beniamina degli odierni romantici.<br />

Prima di concludere torniamo in<br />

patria con la seconda tape di Heinz<br />

Hopf, dopo una prima autoprodotta,<br />

per la Joy De Vivre di Napoli. Il<br />

duo di ultra noise spacca timpani<br />

formato da Dan Johansson (Sewer<br />

Election) e Matthias Andersson<br />

(tenutario della RTB e membro dei<br />

Källarbarnen) rilascia due pezzi che<br />

dire harsh è un eufemismo: titoli geniali<br />

quali We vote Incapacitants! e F<br />

is for Femi Benussi per venti minuti<br />

di puro rumore assordante. Presto<br />

anche un 12 pollici per la rinomata<br />

A Dear Girl Called Wendy. Infine<br />

nuovo EP per i garage-rockers più<br />

infuocati d’Italia. In A Night Like<br />

This viene rilasciato in solo vinile<br />

10” in joint-venture tra la nostrana<br />

Ghost (per il mercato europeo)<br />

e la californiana Kill Shaman (per<br />

quello d’oltre oceano) e suona un<br />

po’ come la metà nascosta di A Poison<br />

Tree. Due pezzi di scuola ormai<br />

classicamente Movie Star Junkies<br />

cui fanno da contraltare le vertigini<br />

di Odyseey Of Jason, che ci riportano<br />

agli esordi documentati dal<br />

mini-LP Junkyears, e il voodoobilly<br />

di Death Sleep and Silence che pare<br />

rubato ai Cramps degli anni d’oro.<br />

STefAno pifferi<br />

AndreA nApoli<br />

84 85


Re-Boot #9<br />

Sempre più schizoide è la scena, discontinua<br />

per intensità e direzioni,<br />

ma generosa. Sempre.<br />

Che strane sensazioni regala<br />

l'ascolto di Marie Antoinette, al<br />

secolo Letizia Cesarini da Pesaro:<br />

una rabbia "riot" tenuta al guinzaglio<br />

di una vena cantautorale tesa,<br />

voce che s'incapriccia d'inquietudini<br />

Beth Gibbons e guizzi Billie<br />

Holiday un attimo prima di pagare<br />

pegno a Nina Nastasia o PJ<br />

Harvey, la chitarra come mitraglia<br />

ritmicoarmonica, il glockenspiel a<br />

sgocciolare incantesimi, canzoni<br />

come battaglie ormai spente che<br />

non smettono di gridare dolore.<br />

L'album Marie Antoinette Wants<br />

To Suck Your Young Blood (Picicca<br />

Studio, 7.4/10) sembra la tipica<br />

istantanea d'artista nella sua fase<br />

iniziale, con quella grazia ruvida e<br />

grezza, l'entusiasmo sanguigno e<br />

un po' disperato. Teniamola d'occhio.<br />

I Luther Blisset da Bologna<br />

iniziarono nel 2007 come un duo<br />

basso + batteria, poi l'espansione a<br />

quintetto con l'innesto di contrabbasso,<br />

chitarra elettrica e sax. For-<br />

mula inconsueta sì, però è naturale<br />

quando l'improv chiama a raccolta<br />

istinti e volontà. Eccoci quindi<br />

al disco omonimo (Eclectic Polpo<br />

Record, 7.2/10) che sgrana groove<br />

tosti e spasmodici incrociando le<br />

due linee di basso come binari del<br />

rollercoaster. Tensione e vitalismo,<br />

urlo primordiale e discesa in folle,<br />

ciak si gira un noir spietato e ridanciano.<br />

Sono appena al secondo<br />

lavoro, sembra che di strada ne abbiano<br />

fatta già tanta, e tanta ancora<br />

ne faranno.<br />

Tolta la retorica obsoleta di alcuni<br />

testi (citiamo un “leccare il mondo<br />

con l'anima / sentirlo sulla pelle”<br />

che sa tanto di Manuel Agnelli fuori<br />

tempo massimo) e il solito dubbio<br />

del “ci è o ci fa?” legato a un'onestà<br />

artistica un po' facciata (e che facciata!)<br />

e un po' reale esigenza comunicativa,<br />

A volte capita (6.1/10,<br />

Dcave) della torinese Monica P<br />

rimane un esordio musicalmente<br />

non disprezzabile. Anzi, con qualche<br />

ottima idea, visto che si viaggia<br />

tra il blues contaminato della<br />

P.J.Harvey di Rid Of Me e una<br />

concezione di pop all'italiana trasversale<br />

e piena di spigoli. Piace<br />

Un mese di ascolti<br />

emergenti italiani<br />

soprattutto, oltre a una voce ruvida<br />

quanto basta, il sapersi muovere<br />

con agilità tra arrangiamenti affatto<br />

banali (chitarre acustiche, accenni<br />

noise, registrazioni in reverse,<br />

synth). Merito, crediamo, dell'ottimo<br />

lavoro in fase di produzione<br />

di un Daniele Grasso già collaboratore<br />

di Cesare Basile, Afterhours,<br />

Hugo Race e John Parish.<br />

Una solida preparazione accademica<br />

alle spalle (diploma al<br />

Conservatorio in musica jazz), un<br />

background da polistrumentista<br />

(tromba, basso, synth, ukulele,<br />

banjolele, batteria e chissà cos'altro)<br />

e una versatilità musicale che<br />

non fa sconti (turnista per il liscio di<br />

Castellina Pasi e lo swing dei Good<br />

Fellas, oltre che co-fondatore con i<br />

Quintorigo Andrea e Gionata Costa<br />

del progetto Big!Bam!Boo!). Lui è il<br />

romagnolo Enrico Farnedi e il suo<br />

esordio solista Ho lasciato tutto<br />

acceso (6.9/10, Sidecar) è l'ennesimo<br />

esempio di un cantautorato<br />

ironico e di basso profilo. A far da<br />

mattatore, l'ukulele, riciclato un po'<br />

in tutte le salse, siano esse il valzer<br />

in odore di Messico di Quanto<br />

piangere o il Ben Harper allo strut-<br />

to di Lonely Planet, il blues-country<br />

della title track o i caraibi del trip<br />

demenzial-gastronomico Salsa di<br />

lumaca. Spicca l'ottima scrittura,<br />

capace con pochi suoni essenziali<br />

di tratteggiare un universo affezionato<br />

a un localismo sentimentale e<br />

accogliente.<br />

I Kozminski sono un quartetto<br />

milanese dedito ad un folk-rock<br />

psichedelico in italiano assieme<br />

ruspante e sghembo, squarci su<br />

atmosfere acidule e tentazioni di<br />

cantautorato più o meno indiepop<br />

(Lettera dall'Etna), su cui talora<br />

tepori di tastiere e fiati (sax, diamonica)<br />

arrivano a pennellare trepidazione.<br />

L'omonimo album d'esordio<br />

(autoprodotto, 7.0/10) riallaccia legami<br />

che credevo perduti tra il presente<br />

ed il miglior pop rock italiano<br />

a cavallo tra settanta e ottanta<br />

(Dalla, Fortis...), più per attitudine<br />

che altro, ovvero per quella volontà<br />

generosa e cocciuta di raccontare<br />

visioni ora pungenti e ora accorate.<br />

Ben venga poi che essi stessi<br />

dichiarino d'ispirarsi a Wilco o Arcade<br />

Fire tra gli altri.<br />

Stessa citta ma diverso il fronte<br />

sonoro. Un trio con la ragione so-<br />

ciale tra il goliardico e il blasfemo:<br />

Black Wojtyla. Batteria, tromba,<br />

basso. Effetti elettronici e distorsioni.<br />

Funk, rock e dance in una più<br />

vasta fregola jazz. Una visione post<br />

senza l'angoscia del post, neanche<br />

una briciola. Sei tracce che fanno<br />

un ep omonimo (autoprodotto,<br />

7.0/10) dove l'estro scorre, guizza,<br />

zompa come più il momento<br />

gli aggrada. Semplicità metodica,<br />

trame acattivanti e fragore impro.<br />

Visioni di celluloide e brume noir.<br />

Frenesia e fragore. E la sensazione<br />

di un linguaggio che ancora deve<br />

sperimentare il proprio estremo. I<br />

nostri più cari auguri.<br />

Dal post-rock degli A New Silent<br />

Corporation provengono i quattro<br />

quinti de Il Buio, ma le coordinate<br />

ora sono del tutto diverse. L'hcpunk<br />

d'autore con testi in italiano<br />

del loro primo ep disponibile solo<br />

in vinile (autoprodotto, 7.2) ha tutta<br />

l'intensità d'asfalto e la densità<br />

elettrica di pelli e corde degli ultimi<br />

Fine Before You Came, seppur più<br />

compatti. Vengono da Thiene, ed è<br />

da qui che si origina quella mescola<br />

di esistenzialismo e sguardo critico<br />

sulla provincia potenziati da un'ur-<br />

genza rara, essenziale, ossea. La<br />

dedica a Georg Elser (vano attentatore<br />

di Hitler) e versi basilari come<br />

“un nulla eravamo e siamo ancora e<br />

resteremo fiorendo nessuno ci impasta<br />

dalla terra e dal fango nessuno<br />

dà parola alla nostra polvere” ce li<br />

rendono cari per il futuro, li seguiremo.<br />

Infine, perderebbe d'interesse e<br />

presa il rock variegato (pop, stoner,<br />

canzone d'autore, disco) dei messinesi<br />

SansPapier senza il ripieno<br />

di liriche sfacciate e sardoniche del<br />

loro esordio Manuale d'uso per<br />

giovani inesperti (Imago Sound,<br />

6.4). Un bignami per sopravvivere<br />

a “paure atmosferiche, ubiquitarie,<br />

fumose, anticipatorie”, come recita<br />

la prefazione nel booklet, ad anticipare<br />

le voci di Valeria e Già, eccentriche<br />

quanto basta (in Vodka con<br />

ghiaccio c'è un po' di Battiato) per<br />

emergere dal suono robusto del resto<br />

della banda. Al mese prossimo.<br />

STefAno SolVenTi, TereSA greco,<br />

fABrizio zAMpighi, lucA BArAcheTTi<br />

86 87


incapacità, da parte degli uomini, a<br />

comprendere; l’impossibilità di conoscere...<br />

di capire veramente la vita.<br />

La possibilità di coglierne solo un<br />

aspetto come nel cinema per ciechi<br />

dove non puoi vedere le immagini<br />

ma puoi ascoltare le voci per capire<br />

un film. Ma questa comprensione in<br />

realtà non potrà mai essere corretta,<br />

o meglio, completa. D’altronde<br />

anche i fraintendimenti della realtà<br />

sono una cosa positiva. Voglio dire<br />

che tutte le forme di comprensione<br />

sono estremamente interessanti.<br />

Quello che voglio esprimere è un<br />

qualcosa di simbolico: ogni persona<br />

può anche capire la vita nella maniera<br />

piu sbagliata, ma può far leva<br />

su se stesso, sulla sua visualizzazione<br />

per dare un senso alle cose.”<br />

Ad ogni concerto Comprare casa<br />

e Bambino cinese sono i due titoli<br />

più invocati dal pubblico. Il primo<br />

pezzo rievoca ironicamente il suicidio<br />

economico di molte famiglie<br />

cinesi, disposte a rinunciare a tutto<br />

pur di avere una casa, il che oggi in<br />

Cina corrisponde ad una affermazione<br />

sociale senza eguali per la gente<br />

comune, una questione di reputazione.<br />

La seconda canzone è ancora<br />

più coraggiosa; si tratta di un pezzo<br />

di pura denuncia, che rievoca una<br />

ad una le sfortune di bambini nati in<br />

diversi punti della Cina e colpiti da<br />

disgrazie per incuria politica e del<br />

potere. Fino all’esplosione finale in<br />

cui l’autore canta:<br />

“Non voglio essere un bambino<br />

cinese, madri e padri sono entrambi<br />

dei codardi<br />

che per dimostrare la loro risolutezza,<br />

di fronte alla morte danno<br />

priorità ai loro leader.”<br />

Il riferimento è ad un fatto di cronaca<br />

avvenuto in Xinjiang nel 1994,<br />

quando scoppiò un incendio in un<br />

teatro dove alcuni leader politici sta-<br />

vano assistendo ad uno spettacolo<br />

con i giovani del posto. In quell’occasione<br />

ai dirigenti fu data la precedenza<br />

per uscire in salvo mentre<br />

nella sala bruciarono quasi trecento<br />

ragazzi.<br />

Zhou Yunpeng non ama essere<br />

ricordato per queste canzoni, che<br />

sono racconti di denuncia, problemi<br />

reali. Preferirebbe non dovere scrivere<br />

né cantare certi pezzi. Durante<br />

una sua esibizione ha ripreso una<br />

celebre melodia di Micheal Jackson<br />

sostituendo le parole con un testo<br />

molto toccante, ancora una volta<br />

di denuncia, La cenere di Wenchuan<br />

in memoria delle vittime colpite da<br />

uno dei più grandi disastri della storia<br />

recente della Cina (Wenchuan è<br />

l’epicentro del devastante teremoto<br />

che ha colpito la provincia cinese<br />

del Sichuan nel 2008, n.d.r.). Quando<br />

gli chiedo se ritiene possibile che<br />

un disastro naturale di quella portata<br />

possa aver contribuito allo sviluppo<br />

di una coscienza sociale tra<br />

la gente comune, replica con una<br />

risposta stizzita e sostiene di non<br />

potere accettare che l’avanzamento<br />

sociale debba nutrirsi della morte e<br />

della sofferenza delle persone. Dice<br />

di amare l’atmosfera che si respira<br />

nei festival musicali, come quello in<br />

cui ci troviamo a parlare:<br />

“La Cina oggi ha bisogno di festival<br />

come quello di oggi perché i giovani<br />

possano ritrovarsi in un luogo<br />

di festa, tutti insieme ad ascoltare<br />

la musica felici. I cinesi hanno bisogno<br />

di essere felici, hanno bisogno<br />

di una qualsiasi felicità, hanno bisogno<br />

di esprimere felicità. Il terremoto...<br />

È stata detta una frase, non so<br />

se la conosci: «Dopo Auschwitz gli<br />

uomini non potranno più scrivere<br />

liriche». Poiché ad Auschwitz furono<br />

uccise così tante persone, morirono<br />

tante persone, in seguito non sarebbe<br />

stato possibile scrivere altre<br />

poesie e canzoni... ma in realtà l’uo-<br />

mo deve continuare a vivere. Anche<br />

per le canzoni è così. Da un lato non<br />

puoi dimenticarti di questi disastri,<br />

da un altro devi continuare a cantare<br />

la felicità della vita o almeno<br />

a continuare a vivere. Ma non puoi<br />

dimenticare, voglio solo dire di non<br />

dimenticare.”<br />

Problemi sociali, denuncia delle<br />

ingiustizie dei potenti e cantore<br />

della gente comune. Eppure Zhou<br />

Yunpeng sembra non aspirare a<br />

quello che in altri tempi sarebbe<br />

stato definito il ruolo del cantante<br />

di protesta, o almeno non solo. Apprezza<br />

Calvino perché pur suggerendo<br />

percorsi sognanti, alternativi<br />

ai problemi della società, non può<br />

per questo essere considerato un<br />

attivista. In Zhou Yunpeng a prevalere<br />

è la coscienza della componente<br />

artistica all’interno delle opere.<br />

Ammira Dante perché pur avendo<br />

compilato un’opera, la Divina Commedia,<br />

“socialmente all’avanguardia,”<br />

essa non sarebbe pervenuta a<br />

noi se non avesse posseduto uno<br />

spessore artistico letterario:<br />

“Quella degli artisti è la stessa<br />

la responsabilità sociale che hanno<br />

tutte le persone: quando c’è qualcosa<br />

di ingiusto devi parlare. La<br />

differenza è solo che l’artista probabilmente<br />

attraverso una propria<br />

forma, attraverso delle parole molto<br />

belle riesce a creare un’opera.”<br />

Sia nella sua produzione musicale<br />

che in quella poetica i riferimenti<br />

alla Cina e ai suoi problemi<br />

sono tanti: poesie volte alla demistificazione<br />

della retorica socialista<br />

a servizio del popolo, provocazioni<br />

accennate (“pensava all’inerzia di Lu<br />

Xun e dei cinesi”) o interi pezzi. Ma<br />

Zhou Yunpeng non è un dissidente,<br />

almeno non nella forma in cui ce lo<br />

immagineremmo in Italia. Lontano<br />

da impeti rivoluzionari, e da aperta<br />

ostilità verso il partito, preferisce<br />

muovere le sue riflessioni dalla gente,<br />

ne fa una questione sociale ancor<br />

prima che politica. Le sue canzoni<br />

nascono dall’interpretazione, dalla<br />

rielaborazione con parole e musica<br />

di bisogni primari degli individui<br />

all’interno della società:<br />

“La cosa piu importante è la voce<br />

degli individui. In Cina abbiamo a<br />

lungo dato importanza alla voce<br />

collettiva, a partire da una forma di<br />

coscienza fino alla considerazione<br />

dello stato. Io penso che la dimensione<br />

piu importante sia quella del<br />

pensiero individuale, della coscienza<br />

individuale e della possibilità per<br />

ognuno di esprimere il proprio pensiero,<br />

o il proprio percorso. Quando<br />

si parla di società cinese in termini<br />

generali, credo che essa sia in condizioni<br />

simili a quella occidentale.<br />

C’è bisogno di una trasformazione<br />

graduale e lenta, non quel tipo di<br />

sconvolgimento improvviso come<br />

le rivoluzioni violente. Di persone<br />

in grado di ricevere un’educazione e<br />

avere diritto di parola e non improvvisamente<br />

diventare un qualcos’altro,<br />

in prima analisi perché sarebbe<br />

irrealistico e poi perché avrebbe<br />

effetti disastrosi. Le mie riflessioni<br />

muovono verso lo sviluppo di una<br />

società civile, intendo il potere decisionale<br />

dei cittadini, la libertà individuale<br />

per esprimere una propria<br />

scelta, la possibilità per ogni persona<br />

di esprimere se stessa. Questo<br />

per me è un buon obiettivo, se ogni<br />

persona si impegnasse sempre di<br />

più in questo senso allora le cose<br />

andrebbero sempre un po’ meglio.<br />

Non serve quel tipo di eroe o un<br />

agitatore di folle, non serve passare<br />

per la violenza, ma un cambiamento<br />

lento, naturale. Una società che<br />

possa procedere naturalmente verso<br />

un miglioramento, non si tratta<br />

di un balzo ma di un miglioramento<br />

progressivo.”<br />

Una società che sa crescere con<br />

pazienza attraverso la coscienza di<br />

se stessa, barlumi di società civile,<br />

contro la facile condanna e speculazioni<br />

spicciole sui diritti umani.<br />

Con la musica come parte di questo<br />

movimento; una delle tante storie<br />

ancora da cantare, sospesa tra coscienza<br />

sociale ed arte, in un ideale<br />

di poesia che può arrivare dritto alla<br />

Ascolti:<br />

Myspace: http://www.myspace.cn/yunyunyunyunyun<br />

Douban: http://www.douban.com/artist/zhouyunpeng/<br />

Xiami: http://www.xiami.com/artist/1270<br />

opere:<br />

Il respiro silente del mistero (CD, 2004)<br />

Critiche di primavera (raccolta poetica, 2004)<br />

Bambino cinese (CD, 2007)<br />

Melone amaro saltato in padella (CD, raccolta di demo 2008)<br />

Mucche e capre scendono dalla montagna (CD, 2010)<br />

vita della gente comune pur mantenendo<br />

sensibilità e perfezione<br />

estetica. Come fosse un frammento<br />

dell’ispirazione di un cammino verso<br />

un mondo migliore:<br />

“La forza della musica in realtà è<br />

infinitamente sottile, microscopica<br />

e lenta. Si manifesta poco per volta.<br />

Proprio come la pioggia. Non sai<br />

che forza ha la pioggia che cade. Ma<br />

la pioggia può intervenire sui semi,<br />

può far sì che la terra diventi umida<br />

e permettere al frumento di crescere<br />

e dare i suoi frutti. Ma forse non<br />

puoi assistere a quel giorno, perché<br />

il frumento ha bisogno di un anno<br />

o di quanto per crescere. La musica<br />

ha una forza del tutto simile: sa<br />

penetrare poco a poco nell’animo<br />

degli uomini, sa renderli più morbidi,<br />

buoni, li cambia aggiungendo<br />

calore, proccupazione per gli altri,<br />

facendo capire cosa sia giusto. Ma<br />

tutto questo avviene in un processo<br />

lento, non è quel tipo di piacere di<br />

cui puoi godere sul posto, è un qualcosa<br />

che penetra lentamente.”<br />

Il blog di Zhou Yunpeng (in lingua cinese) è all’indirizzo: http://zhouyunpengblog.blog.163.com/<br />

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Rearview Mirror<br />

—speciale Vocalese: stile di jazz canoro nel quale le lyrics vengono<br />

composte in base alle melodie eseguite nella<br />

composizione o nell’improvvisazione originale di riferimento;<br />

a differenza della tecnica scat perciò questo<br />

fraseggio adopera, per il proprio assolo, una versificazione<br />

scritta e di senso compiuto.<br />

In ambito solista la voce più nominata nell’ambiente<br />

è senza dubbio quella polverosa di Eddie Jefferson,<br />

Manhattan Transfer<br />

Nati per armonizzare<br />

Attraverso la testimonianza del suo fondatore, Tim Hauser,<br />

viaggio nel mondo dei Manhattan Transfer, il più<br />

famoso gruppo vocale nella storia del jazz.<br />

Testo: Filippo Bordignon<br />

pioniere del genere con la sua versione della celebre So<br />

What di Miles Davis. Tra i gruppi invece, è doveroso citare<br />

il trio Lambert, Hendricks e Ross, il quale contribuì<br />

a complicare la faccenda grazie alle armonizzazioni<br />

delle tre voci e a uno stile che, sfruttando a piene mani<br />

versi sillabici pesantemente influenzati dal bebop, riversa<br />

sull’ascoltatore una cascata di parole dalla stordente<br />

bellezza (si ascolti il loro album omonimo del 1960).<br />

I Manhattan Transfer, attraverso una carriera di<br />

oltre trentacinque anni, si confermano il gruppo di vocalese<br />

più famoso e premiato nella storia, avendo contribuito<br />

all'elevazione di uno stile altrimenti ristretto<br />

alla cerchia dei suoi fedelissimi. Ciò che va riconosciuto<br />

all’opera della band, letta nella sua totalità, è una predisposizione<br />

al conio della canzone popolare perfetta,<br />

summa di generi e influenze la cui base di riferimento<br />

resta il jazz degli anni d’oro, ma solo per convenzione.<br />

Lavorando a partire dal proprio innegabile talento,<br />

i Manhattan hanno sperimentato, nel disinteresse<br />

dell’intellighenzia musicale, contaminazioni e soluzioni<br />

che ne hanno arricchito la discografia al punto da trasformarla<br />

in un iperbolico affresco studiato (ahinoi) sistematicamente<br />

per sommi capi.<br />

Rapace collezionista di 78 giri oggi introvabili, il<br />

cantante Tim Hauser (New York, classe 1941) sognava<br />

un proprio gruppo vocale che attraversasse le tante<br />

diramazioni del jazz per portarle al grande pubblico,<br />

reinventando brani più o meno noti ma pure omaggiando<br />

episodi 'minori' di compositori noti solo ai<br />

propri aficionados. Il nome scelto omaggia un celebre<br />

romanzo di John Dos Passos ambientato nella New<br />

York Anni '20, metropoli di febbricitante modernismo<br />

e inesauribili contraddizioni. Un'embrionale formazione<br />

Manhattan Transfer muove i primi passi a partire dal<br />

’69 e comprende, oltre a Tim, Erin Dickens, Marty Nelson,<br />

Gene Pistilli, e Pat Rosalia. L’esordio è dunque in<br />

quintetto con Jukin’ (1971, Capital), episodio di ardua<br />

reperibilità per fan della primissima ora, liquidato dallo<br />

stesso Hauser come una prova generale quasi subito<br />

interrotta dalla defezione di Pistilli, il quale lascia per<br />

divergenze sulla direzione artistica, appassionato più<br />

di country & western che di sonorità affini all’universo<br />

jazzistico.<br />

L’anno successivo Tim ci riprova tentando un nuovo<br />

organico in quartetto: vi prendono parte Laurel Massé,<br />

Janis Siegel e Alan Paul (distintosi a Broadway nel<br />

primo allestimento del musical Grease).<br />

La soluzione con due voci femminili e due maschili<br />

si rivelerà nel tempo asciutta ma capace di coprire una<br />

gamma cromatica praticamente illimitata; dopo tre<br />

anni di gavetta giunge finalmente una ghiotta proposta<br />

dalla storica etichetta Atlantic Records (bastino i<br />

nomi di Ray Charles, John Coltrane e Aretha Franklin)<br />

che lancia sul mercato l’esordio ufficialmente riconosciuto<br />

The Manhattan Transfer (’75). Pur non essendo<br />

una pietra miliare per il genere l’album getta il seme<br />

di una carriera eclettica e godibilissima, bilanciata con<br />

sapienza e mestiere tra easy jazz pronto a conquistare<br />

i mercati esteri (il 24simo posto nelle classifiche inglesi<br />

di Tuxedo Junction, il successo di critica Operator), prelibatezze<br />

pop (la Sweet Talking Guy che fu delle Chiffons)<br />

e tentazioni contemporanee (il funky bianco di<br />

Occapella).<br />

Rispedite al mittente le accuse di certa critica che<br />

attribuiscono al gruppo un atteggiamento eccessivamente<br />

nostalgico (accentuato spesso da costumi di<br />

scena che ripropongono con ironia le mode di tempi<br />

evidentemente trascorsi), il successivo Coming Out<br />

(’76, Atlantic) sembra investigare scelte relativamente<br />

più attuali con l’aiuto di qualche cameo (la batteria di<br />

Ringo Starr e il piano di Dr. John in Zindy Lou, il sax<br />

dell’oggi glorificato Michael Brecker nella delicata<br />

Poinciana). L’inaspettato successo del singolo Chanson<br />

d’Amour – un motivetto di fine Anni ’50 – consacra definitivamente<br />

i Manhattan in Europa (primo posto in<br />

Francia e Inghilterra) grazie all’intuizione dell’istrionica<br />

Massè la quale, al primo take, registra la propria linea<br />

vocale utilizzando un’inflessione ‘francese’ omaggiante<br />

Edith Piaf. Con Pastiche (’78, Atlantic) Hauser produce<br />

una delle opere preferite della band, spaziando tra<br />

arrangiamenti per big band (Four Brothers, cavallo di<br />

battaglia in ambito concertistico), atmosfere country &<br />

western (Love For Sale) e ritagliando occasioni soliste<br />

cucite apposta per la predisposizione melodica di Paul<br />

e l’abilità ‘scat’ della Siegel.<br />

Intenzionato a evocare le atmosfere della Berlino<br />

nel primo dopoguerra mondiale, il regista inglese David<br />

Hemmings contatta i nostri affinché registrino una<br />

manciata di brani da inserire nel suo Gigolò, pellicola<br />

senza infamia e senza lode, nota per tenere David<br />

Bowie come protagonista oltre a una fugace (l’ultima)<br />

apparizione di Marlene Dietrich sul grande schermo.<br />

Tratto da alcune date londinesi, The Manhattan<br />

Transfer Live (’78, Atlantic) è il primo live ufficiale del<br />

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gruppo e l’ultima uscita discografica con la Massè, di lì<br />

a poco vittima di un incidente automobilistico che la<br />

costrinse lontana dalle scene per quasi due anni. Decisa<br />

ad abbandonare il mondo della musica la cantante<br />

optò poi per un ripensamento, inaugurando una discreta<br />

attività solista con Alone Together nell’84. Al suo<br />

posto venne ingaggiata Cheryl Bentyne, pervenendo<br />

così alla formazione definitiva nota al grande pubblico.<br />

La Bentyne arriva in tempo per prendere parte al<br />

primo indiscusso capolavoro, quell’Extentions (’79,<br />

Atlantic) con in copertina i disegni degli abiti di scena<br />

creati da Jean Paul Gautier per il quartetto. L’opera è<br />

raccolta esemplare di fusion(e) tra generi: c’è spazio per<br />

la new wave disumanizzata in Coo Coo U (senza mai rinunciare<br />

a un pizzico di ironia), il pop magnificamente<br />

arrangianto degli Airplay di Nothin' You Can Do About It<br />

(merito della produzione di Jay Graydon) e il sentimentalismo<br />

a cappella in Foreign Affair (Tom Waits). Una<br />

menzione a parte merita l’arcinota Birdland, tratta dal<br />

repertorio degli Weather Reaport o, più precisamente,<br />

dall’unione artistica dei fuoriclasse Joe Zawinul + Jaco<br />

Pastorius. Il brano sarà il più ascoltato in ambito jazz<br />

di tutto il 1980 in virtù di tre elementi imprescindibili:<br />

validità della linea melodica (accattivante e originale<br />

al contempo), prestazione vocale (la Siegel si aggiudicò<br />

un Grammy per la propria interpretazione) e intelligenza<br />

del testo. Quest’ultimo fu originalmente affidato<br />

nientemeno che a Eddie Jefferson, il quale però verrà<br />

ucciso prima di portarlo a termine (l’album è dedicato<br />

alla sua memoria). L'ingrato compito di sostituirlo fu affidato<br />

a Jon Hendricks. Il risultato è una spassosa declamazione<br />

dei principali frequentatori del leggendario<br />

jazz club newyorkese: sfruttando nomi e nomignoli dei<br />

celebri jazzisti (“Bird would cook/ Max would look/ Miles<br />

came through/ ‘Trane came too”) il paroliere fornisce<br />

all’interprete versi ritmici ideali per un’interpretazione<br />

swingante e ‘catchy’, soluzione questa qui abbracciata<br />

magnificamente negli ambiti solisti e coristi.<br />

Il successivo Mecca For Moderns (’81, Atlantic) strizza<br />

l’occhio alla classifica una volta di troppo, col risultato<br />

di incoronare i Manhattan il primo gruppo a vincere<br />

un Grammy lo stesso anno sia nella categoria pop che<br />

jazz. La piacioneria alla base della hit Boy From New York<br />

City sbilancia la credibilità di una band che, per capacità<br />

tecniche e stile, avrebbe potuto azzardare un ulteriore<br />

passo in avanti nella propria crescita artistica. Ma premi<br />

e riconoscimenti piovono in abbondanza e i nostri non<br />

sembrano crucciarsene. La sola eccezione di rilievo è<br />

Kafka del polacco Bernard Kafka, efficace esempio di<br />

frizzantura fusion contemporanea e ricca di mordente.<br />

Il processo di commercializzazione avanza su Bo-<br />

dies And Souls (’83, Atlantic), producendo un pop<br />

sintetico amplificato dalla partecipazione di Stevie<br />

Wonder all’armonica (Spice Of Life), sdoganando così<br />

i Manhattan nelle classifiche r’n’b e concedendo l’ennesimo<br />

Grammy per l’interpretazione di Why Not!. Al<br />

di là dai clamori della stampa l’album suona come una<br />

raccolta oggi datata di canzoni ben arrangiate, adatte<br />

per un film sentimentale da cassetta e poco di più. Leggerino<br />

e svagato, Bop Doo-Wop (’85, Atlantic) mischia<br />

sei canzoni dal tour giapponese a materiale di studio,<br />

sfornando comunque quella Route 66 di Nat King Cole<br />

per il filmetto di Burt Reynolds Pelle di sbirro che, guarda<br />

un po’, frutta l’ennesimo Grammy come ‘Miglior prestazione<br />

vocale in ambito jazz’. Il materiale live verrà<br />

ripreso e ampliato dieci anni più tardi con la pubblicazione<br />

del discreto Man-Tora! ('96, Rhino).<br />

Sfumata la possibilità di una collaborazione con<br />

Count Basie a causa della morte di quest’ultimo, il bandolo<br />

della matassa viene ripigliato col monumentale<br />

Vocalese (’85, Atlantic), summa delle tante influenze<br />

dei suoi protagonisti e quindi vaudeville, swing, r’n’b,<br />

soul, doo-wop, r'n'r e jazz nelle sue tante sfaccettature.<br />

Il prevedibilie omaggio a Basie riguarda le trascurabili<br />

Rambo e Blee Blop Blues, per le quali ci si avvalse della<br />

sua orchestra ufficiale. Ben più meritoria Another Night<br />

In Tunisia, sorniona versione della A Night In Tunisia di<br />

Dizzy Gillespie, la quale si aggiudica altri due Grammy<br />

(gli ultimi che, per ragioni di spazio, segnaleremo). Il<br />

registro melodrammatico viene rispolverato invece con<br />

Oh Yes, I remember Clifford e con la struggente To You.<br />

Il successo è ormai planetario: le dodici nomination ai<br />

Grammy di Vocalese per poco non battono Thriller<br />

di Michael Jackson. La motivazione, oltre alle assodate<br />

capacità del quartetto e a impeccabili esecuzioni<br />

strumentali, sta nella scelta di un repertorio particolarmente<br />

azzeccato che concede episodi appassionanti e<br />

mozzafiato (basterebbe l’ascolto di Airegin o That’s Killer<br />

Joe), nuovamente impreziositi dai testi di Hendricks.<br />

Live (Atlantic, ’87) contiene la selezione da un concerto<br />

a Tokyo del 1986: secondo album live e primo con la<br />

Bentyne a sostituzione della Massé è il ritratto perfetto<br />

del gruppo al suo apice; si consiglia la versione dvd<br />

Vocalese Live, con una tracklist estesa a 80 minuti e la<br />

possibilità di gustare i nostri in gigionesche coreografie<br />

e stravaganti costumi.<br />

Le influenze sudamericane derivate dalla preziosa<br />

collaborazione col cantante e compositore brasiliano<br />

Djavan in Brasil (’87, Atlantic) danno vita a uno degli<br />

album più riusciti nel sottogenere Aor, al pari di masterpiece<br />

quali The Nightfly di Donald Fagen o dell’esordio<br />

omonimo di Christopher Cross. Dall’arcinota Soul<br />

Food To Go passando per l’easy-rock Metropolis fino a<br />

certe complicazioni melodico/armoniche evidenti nel<br />

finale Notes From the Underground, l'opera è gioiello<br />

per un pubblico adulto, capace di riconoscerne le tante<br />

finezze ma pure l'indubbia fruibilità. Unica puntualizzazione,<br />

per onor di franchezza: la versione di Agua<br />

suona decisamente inferiore a quella di Loredana Berté<br />

(Acqua), la quale aveva già collaborato con Djavan in<br />

Carioca, nel 1985.<br />

L’ingresso nel nuovo decennio stimola i Manhattan<br />

a testarsi in veste di compositori: ne risulta il transitorio<br />

The Offbeat Of Avenues (’92) che, col successivo The<br />

Christmas Album, esaurisce la breve esperienza per la<br />

Columbia Records. Si segnalano alcune bizzarre tentazioni<br />

di hip-hop sui generis nel primo e la beatlesiana<br />

Goodnight nel secondo. Sorvolando il trascurabile<br />

The Manhattan Transfer Meets Tubby The Tuba (’94,<br />

Summit) – sorta di Pierino E Il Lupo americano – Tonin’<br />

(’95) rappresenta il felice ritorno in casa Atlantic, con<br />

una mirabile raccolta di classics Anni '50-'60 in duetto<br />

con artisti del calibro di James Taylor (nella sognante<br />

Dream Lover) e con la leggenda della Motown Smokey<br />

Robinson (I Second That Emotion).<br />

Le fatiche discografiche dei quattro proseguono<br />

con una reimmersione nel passato in Swing (’97, Atlantic)<br />

e con l’omaggio al repertorio di Louis Armstrong<br />

The Spirit Of St. Louis (2000, Atlantic), da sempre influenza<br />

imprescindibile per Tim.<br />

A riprova di una primavera artistica che sembra non<br />

aver mai fine Couldn't Be Hotter (’03, Telarc) è forse il<br />

live migliore pubblicato a oggi, forte di esecuzioni effervescenti<br />

e di una carica emotiva sapientemente miscelata<br />

a un controllo vocale in grado di far scuola e<br />

intrattenimento al prezzo di un solo biglietto. Vibrate<br />

(’04, Telarc) intende aggiornare il repertorio, iniettando<br />

le composizioni melò del giovane cantautore Rufus<br />

Wainwright e tentando il Miles Davis di Tutu (ma se<br />

ne esce con un occhio pesto). Dopo un secondo album<br />

natalizio (An Acapella Christmas Album, ’04, King Rec)<br />

la nuova sfida è con una vera e propria orchestra sinfonica<br />

in The Symphony Sessions (’06, King Rec). Ne<br />

deriva un album di straordinario impatto emotivo, certamente<br />

uno dei più sottovalutati nell’intero repertorio<br />

(si ascoltino To You, Clouds o The Offbeat Of Avenues).<br />

L’ultimo sorprendente guizzo di vitalità, alla faccia<br />

di chi da sempre taccia i Manhattan come un barbershop<br />

group spintosi troppo in là, è titolato The Chick<br />

Corea Songbook (’09, Four Quarters Entertainment).<br />

Cimentandosi col repertorio del famoso jazzista americano,<br />

l’occasione è buona per approfondire lo studio<br />

sulle sonorità latine, come pure per interpretare un<br />

approccio compositivo contemporaneo e certamente<br />

meno fruibile rispetto agli episodi più acclamati.<br />

Il futuro dei Manhattan Transfer a quanto sembra,<br />

oltre all’instancabile attività live, riserverà per l’ascoltatore<br />

disponibile sorprese pronte a deliziarne le orecchie<br />

e, al contempo, a educarle.<br />

l' i n t e r v i s t a<br />

Tim, iniziamo dal presente: in che stato versa il vocalese<br />

oggidì?<br />

Devo ammettere, non senza una certa sorpresa, che<br />

attualmente sto scoprendo un nuovo pubblico nei giovani,<br />

specialmente quelli che magari cantano nel coro<br />

jazz della propria università.<br />

A dispetto di chi vi etichetta come ‘easy listening’<br />

l’anno scorso siete tornati con un progetto assolutamente<br />

ambizioso, reinterpretando Corea…<br />

Già, un progetto davvero interessante. Letto nella sua<br />

interezza, l’album si distingue dal resto della nostra discografia<br />

per la sua spiccata complessità; era la prima<br />

volta che interpretavamo il repertorio di Chick e credimi<br />

se ti dico che si è trattato forse del lavoro più impegnativo<br />

della nostra carriera, sia in termini di comprensione<br />

che di riproduzione armonica del cantato.<br />

Non solo: in Another Roadside Attraction, a esempio,<br />

emerge una componente sperimentale che aggiunge<br />

un importante tassello alla vostra biografia.<br />

Mi fa molto piacere che tu abbia notato proprio quella<br />

canzone. La penso come te e ti devo confessare che<br />

Another Roadside Attraction può vantare l’arrangiamento<br />

di mio figlio, Basie. Il risultato è ancor più sorprendente<br />

se consideri che ha ventun'anni.<br />

Lo show biz è orribile come lo si dipinge?<br />

Sai com'è, ci sono sempre stati e sempre ci saranno<br />

gruppi di persone, all’interno di questo settore, animati<br />

da uno spirito 'predatorio'. Purtroppo è così che va il<br />

mondo: alcuni individui si arricchiscono sulle spalle di<br />

talenti giovani e inesperti.<br />

Svariati i lavori che hai abbracciato per sostentarti<br />

durante la gavetta musicale; ne ricordi qualcuno<br />

con particolare affetto?<br />

Ho fatto veramente di tutto e ti assicuro che ogni impiego<br />

mi ha insegnato cose importanti a livello umano<br />

e non solo. Non mi vergogno di nessuna mansione<br />

svolta: tra quelle che mi tornano alla mente ora…<br />

vediamo… sono stato analista marketing, caddie per<br />

un golf club, cuoco in un diner (una specie di tavola<br />

calda molto diffusa qui negli States) e tassista. Una notte<br />

stavo guidando il mio taxi quando ho caricato questa<br />

ragazza dai capelli rossi. Al tempo lavorava come<br />

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cameriera ma la sua passione era il canto. Fu così che<br />

incontrai Laurel Massé!<br />

Elemento spesso trascurato dalla critica riguardo<br />

ai vostri album: la straordinaria qualità degli arrangiamenti<br />

strumentali…<br />

Avrai notato che, fin dagli esordi, abbiamo sempre tentato<br />

di procurarci la crema tra i session men sul mercato<br />

anche se, ovviamente, questo comportava per<br />

noi un maggiore investimento economico. Una volta<br />

in studio non seguiamo un modus particolare: ci diamo<br />

dentro mettendo sul tavolo intuizioni, mestiere ed<br />

esperienze, cercando di pianificare gli arrangiamenti<br />

e il ruolo da conferire a ogni strumento all’interno dei<br />

brani selezionati.<br />

Quali sono le qualità imprescindibili per un cantante?<br />

A costo di sembrarti banale, tutti questi anni nel mondo<br />

della musica mi hanno insegnato che, in ultima analisi,<br />

l’unico requisito fondamentale è l’abilità di arrivare<br />

dritti al cuore dell’ascoltatore e lasciarci dentro un po’<br />

di se stessi.<br />

Un gruppo vocale ingiustamente sottostimato?<br />

Tra i tanti nomi che mi vengono in mente scelgo<br />

senz’ombra di dubbio il quartetto degli Hi-Lo’s. Loro<br />

non sono mai riusciti a sfondare veramente e avrebbero<br />

meritato molto; la ragione sta forse nel fatto che, sotto<br />

un profilo musicale, avevano un non so che di 'esoterico'.<br />

Ma credimi se ti dico che erano grandissimi.<br />

Magari mi riesce di estorcerti il nome del musicista<br />

più sopravvalutato nella storia del jazz?<br />

Anche se ti dicessi chi ho in mente non vorrei che venisse<br />

pubblicato, perciò…<br />

Il tuo stile lascia pensare che non ti sia andata a genio<br />

la ‘new thing’ esplosa negli Anni ’60…<br />

Beh, oltre al free quel periodo ha elargito be-bopper del<br />

calibro del tenorsassofonista Benny Golson, del quale<br />

reinterpretammo Killer Joe su Vocalese. In questi giorni<br />

invece stiamo lavorando su Sidewinder, altro pezzo interessante<br />

di un trombettista dei ’60, Lee Morgan.<br />

Qualcuno ti avrà certamente accusato di essere<br />

nient’altro che un nostalgico…<br />

Quelli che sollevano questa critica mancano spesso di<br />

una conoscenza musicale approfondita.<br />

Igor Stravinsky: "La mia musica la capiscono sopratutto<br />

bimbi e animali". Riesci a tratteggiare il profilo<br />

del tuo ascoltatore tipo?<br />

Non saprei; non sono mai riuscito a delineare un filo<br />

conduttore tra i nostri fan. Credo si tratti di un’inspiegabile<br />

qualità percettiva, che porta una persona a scegliere<br />

un filone musicale piuttosto che un altro.<br />

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare la<br />

dimensione live è un aspetto molto importante nei<br />

Manhattan. Le tournée non ti snervano?<br />

Alla gente dico sempre: “Canto a gratis, vengo pagato<br />

per dover viaggiare”.<br />

Tutti furono d’accordo nel decretare un enorme<br />

successo a Extentions; da cosa credi sia dipeso?<br />

Extentions ha rappresentato un vero e proprio punto<br />

di svolta, sia per la qualità del materiale che per le<br />

scelte di Jay Graydon in veste di produttore (da allora<br />

in avanti è stato richiesto da artisti del calibro di Al Jarreau,<br />

Art Garfunkel e Dionne Warwick). Jay è stato<br />

determinante per la formulazione di un sound ibrido<br />

che in definitiva attualizzò il nostro stile, avvicinandoci<br />

così a un pubblico ancor più vasto. Va poi evidenziato il<br />

contributo creativo delle voci di Alan (ascoltalo in Twilight<br />

Tone) e di Janis, la cui interpretazione di Birdland<br />

le valse un Grammy.<br />

Spesso i vostri album ricevono un'accoglienza più<br />

calda in Europa rispetto agli States...<br />

Sono convinto che gli europei in genere riescono ad<br />

apprezzare il jazz americano molto più degli americani<br />

stessi. Triste a dirsi, ma è la pura verità.<br />

Riascoltando Tonin’ riflettevo sul fatto che quell’album<br />

contiene con tutta probabilità l’ultima registrazione<br />

da studio di Laura Nyro, prima della sua<br />

morte a soli cinquant’anni.<br />

Ecco appunto, a proposito di gusti musicali: la Nyro, fin<br />

dal suo esordio, è stata una delle mie cantanti preferite,<br />

in assoluto. Ricordo ancora l’impressione che mi fece il<br />

suo primo album per la Verve Forecast More Than A<br />

New Discovery. Ho ascoltato quel vinile tante di quelle<br />

volte che ora è completamente consumato. Ho anche<br />

avuto il privilegio di lavorarle a fianco una volta, ai tempi<br />

dei primi Manhattan, nel 1970, se ben ricordo. Pensa<br />

che siamo l’unico gruppo con cui ha accettato di registrare<br />

un duetto, fatta eccezione per il brano Promenade<br />

in coppia col compositore Kenny Rankin, anche se<br />

non mi risulta che il pezzo sia mai stato pubblicato.<br />

Comparando il jazz nella sua età dell’oro (Anni '30<br />

e '40) con la scena attuale, quali sono le tue conclusioni?<br />

Bisogna tener presente che in quegli anni il jazz veniva<br />

considerato la musica popolare del momento. Trascorso<br />

quel periodo è innegabile che, generalizzando, la<br />

sua diffusione rispetto alle grandi masse si sia abbassata<br />

significativamente in favore di altri generi ben più<br />

immediati.<br />

Bando agli intellettualismi: non trovi che arrangiare<br />

una canzone sia molto simile a cucinare una pietanza?<br />

Hai assolutamente ragione. Tra l’altro devo confessar-<br />

ti che adoro far da mangiare e mi capita spesso di cimentarmi<br />

con qualche ricetta italiana. Cucinare è veramente<br />

simile a quando ti stai approcciando a un brano<br />

ancora grezzo e decidi come sagomarlo, cosa aggiungere,<br />

quali sono le modifiche che ne determineranno<br />

un feeling specifico.<br />

Nell’ambiente è nota la tua passione per il collezionismo<br />

di vinili rari: qual è il titolo della tua discoteca<br />

a cui ti senti più attaccato?<br />

Questa è dura… spero di poter scegliere, in blocco, tutta<br />

la parte dedicate ai gruppi vocali di r’n’b, dagli Anni<br />

'30 e fino ai ’50 compresi.<br />

A proposito di collezionismi: pare che anche le auto<br />

d’epoca facciano parte delle tue debolezze…<br />

Oh sì! Attualmente mi sto godendo una Mercedes Benz<br />

190 Sl del 1961, che restauro pazientemente da una<br />

vita. E tra un paio di settimane sarà finalmente pronta<br />

la mia Coupé-Cabriolet Mercury del ‘41. Sto anche<br />

modificando una Ford Coupé del ’50: ho recentemente<br />

sostituito il tettuccio con uno del ’51 e mi sono procurato<br />

una calandra proveniente da una Pontiac datata<br />

1954. Voglio anche cambiarle il colore con un bel blu<br />

metallo.<br />

Com’è la tua giornata ideale?<br />

Ti sembrerò scontato ma direi la giornata in cui riesco<br />

a sbrigare tutto quello che mi sono prefissato senza alcun<br />

tipo di intoppo esterno.<br />

Louis Armstrong dichiarò: "Un musicista non si ritira<br />

mai: smette solo quando non c’è più musica<br />

dentro di lui". Mai avuto la tentazione di mollare la<br />

carriera per un'esistenza meno movimentata?<br />

Naaa, non sono il tipo che molla. Anche perché, riflettendoci,<br />

non saprei che altro fare della mia vita.<br />

Nonostante trentacinque anni nel mondo della musica<br />

sei l’ultimo dei Manhattan ad aver registrato<br />

un album solista, nel 2007. Quale necessità hai soddisfatto<br />

con Love Stories?<br />

Avevo bisogno di esprimere un particolare aspetto della<br />

mia personalità, un lato 'intimista', diciamo, che coi<br />

Manhattan non era mai veramente emerso. Mi sono<br />

limitato a scegliere quelle canzoni del passato che mi<br />

affascinavano profondamente, quei pezzi in grado di<br />

emozionarmi ancor oggi.<br />

Un consiglio che t'ha illuminato?<br />

Agli inizi lavorammo con Baby Lawrence e sua moglie<br />

Dorothy Bradley. Baby era noto nell'ambiente come<br />

il 'Charlie Parker del tip-tap' e Dorothy era la vedova<br />

di Buddy Bradley, coreografo attivo nel cinema per<br />

star come Fred Astaire. In sostanza dovevano insegnarci<br />

le basi per muoverci sul palco, oltre a certi passi<br />

tipici del jazz ballato (tipo il 'camel walk', lo 'shorty george'<br />

ecc.). Mi resterà sempre impressa la volta in cui<br />

Baby mi disse: "Tienilo bene a mente Tim; solo due cose<br />

sono fondamentali nello show business: atteggiamento<br />

e portamento, sta tutto lì". Non me lo sono più scordato,<br />

anche perché con gli anni ho scoperto quanto<br />

avesse ragione.<br />

Dopo una carriera costellata di premi e riconoscimenti<br />

resta da chiedersi quali siano i tuoi prossimi<br />

traguardi…<br />

In realtà ci sono ancora una serie di progetti di cui da<br />

anni discutiamo la fattibilità, in ambito Manhattan. Il<br />

mio intento è perciò quello di adoperarmi affinché presto<br />

o tardi si riesca a concretizzarli, come nel caso di<br />

The Chick Corea Songbook, album che gravitava nella<br />

mia mente dagli Anni ‘70.<br />

Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?<br />

Essere in grado di sostenere me e la mia famiglia: questo<br />

è un vero e proprio dono, un privilegio che non<br />

darò mai per scontato. E poi ho sempre pensato che<br />

questa mia professione, per quanto complessa, sia pur<br />

sempre preferibile a una vita in ufficio.<br />

96 97


(GI)Ant Steps #43<br />

Louis Armstrong The Charlatans<br />

The ulTiMATe collecTion (VerVe MuSic group, luglio 2000)<br />

Le antologie di solito le evitiamo. Eppure il fine che si<br />

pone questo formato quando si parla di jazz, blues,<br />

folk e in generale di una musica lontana nel tempo e<br />

registrata su supporti dispersivi come il settantotto<br />

o il quarantacinque giri, è assai nobile. Testimoniare,<br />

in primis, e poi creare ponti ideali che permettano di<br />

apprezzare il concetto di evoluzione. Discorso banale,<br />

ma che vale soprattutto per Louis Armstrong. Uno<br />

che la sua storia l'ha scritta attraversando tutto il jazz<br />

che conta. Tre CD per cinquantanove brani incisi tra il<br />

1924 e il 1968. Quarant'anni di musica suonata da un<br />

tromba a suo modo rivoluzionaria, in un periodo in cui<br />

esserlo non significava destrutturare all'estremo come<br />

farà il free-jazz ma personalizzare nei limiti imposti<br />

dalla metrica dei tempi. Con un vibrato allusivo,<br />

un'impro inscatolata nella melodia, lo swing".<br />

Tre i Louis Armstrong che emrgono da The Ultimate<br />

Collection. Il primo è il giovane musicista di inizio<br />

anni Venti con alle spalle il riformatorio (dove impara<br />

a suonar la cornetta), le orchestrine da strada, un matrimonio<br />

fallito e una serie di impieghi temporanei tra<br />

Storyville (il quartiere dei bordelli di New Orleans),<br />

i battelli del Mississipi e la Creole Jazz Band di King<br />

Oliver. Lo stile ricalca a grandi linee quello dell'Oliver<br />

padre putativo, virtuoso e rotondo, in un misto di ragtime<br />

e blues (Copenhagen) disciplinato e rafforzato dal<br />

lavoro di big band tradizionali (tromba, trombone, clarinetto,<br />

sax, banjo, tuba, batteria). Un Armstrong rigoroso<br />

ma anche versatile, capace di passare senza batter<br />

ciglio dalla Fletcher Henderson Orchestra alla Erskine<br />

Tate's Vendome Orchestra della sua seconda moglie,<br />

dai Johnny Dodds's Black Bottom Stompers ai Jimmy<br />

Bertrand's Washboard Wizards. In una girandola di<br />

esperienze che a fine anni Trenta lo ha già consacrato<br />

al pubblico dei grandi numeri.<br />

Del resto siamo nel periodo di When The Saints Go<br />

Marching In e di un Louis dal suono pulito, nitido, squillante<br />

e assai meno incartato rispetto agli esordi, fuori<br />

dal purismo nero e sempre più vicino ai palcoscenici<br />

bianchi ed europei. Quelli che il Nostro calca portando<br />

in dote classici come Rockin' Chair, West End Blues,<br />

Savoy Blues (raccolti sul secondo disco), in una inseguimento<br />

dei gusti degli ascoltatori che sarà una costante<br />

della vita artistica del trombettista americano. Lo standard,<br />

allo scoccare degli anni Quaranta, sono i tempi<br />

lenti, un cantato ruffiano e una tromba piaciona che<br />

sostiene le note, improvvisando in maniera più strutturata<br />

rispetto al passato tra blues (la Blueberry Hill che<br />

Fats Domino farà sua negli anni Cinquanta) e classici.<br />

Inesorabilmente alla ricerca di un jazz elegante e al<br />

tempo stesso estremamente popolare.<br />

Come testimonia anche la terna Dream A Little Dream<br />

Of Me / Hello Dolly / What A Wonderful World di un<br />

terzo supporto che non si scandalizza per gli archi di<br />

It's All In The Day, puo' contare sui duetti con Ella Fitzgerald<br />

(Stompin' At The Savoy) e Oscar Peterson (Sweet<br />

Lorraine), scopre il gusto dello scat. Nel momento<br />

di massima notorietà Armstrong non è più un jazzista<br />

classico ma un intrattenitore a tutto tondo, con tanto<br />

di mimica ad effetto e trucchetti da avanspettacolo<br />

da usare sul palcoscenico. Gli stessi che con la musica<br />

suonata e una carriera decennale alle spalle gli garantiranno<br />

lo status di ambasciatore del jazz in giro per il<br />

mondo e un'onestà artistica tutta sua. Fino alla morte,<br />

avvenuta nel 1971.<br />

fABrizio zAMpighi<br />

classic album rev<br />

SoMe friendly (BeggArS BAnQueT, SeTTeMBre 1990)<br />

Fateli i conti, che male non è e - specialmente in retrospettiva<br />

- senza dubbio aiuta. Meraviglie del distacco<br />

che permette di rileggere serenamente e (ri)contestualizzare<br />

fenomeni e tendenze. Chissà che diremo<br />

tra vent’anni del glo-fi, tanto per dirne una: seccature<br />

delle generazioni che saranno, se un giornalismo musicale<br />

esisterà ancora e soprattutto un mondo a contenerlo.<br />

Prendete ad esempio la fulminea stagione di<br />

Madchester: scaduta l’Ecstasy, cosa resta? Un Capolavoro<br />

assoluto nell’ultimo anno dei Capolavori assoluti<br />

(Screamadelica); un disco splendido ma che c’entrava<br />

nulla, semmai era tra gli ultimi esempi di chitarrismo<br />

anni ’80 britannico (The Stone Roses); i borgatari Happy<br />

Mondays, che condussero accidia e cinismo in classifica;<br />

qualche singolo di Inspiral Carpets a rendere<br />

meno tristi le spente ceneri. Gli elettronici 808 State,<br />

ma anche lì era un’altra storia.<br />

Aggiungete pure un altro lp, che al tempo fece tremare<br />

la stampa nazionale in virtù del physique du role<br />

di Tim Burgess, cantante della band che ne era autrice.<br />

Dei Charlatans di Some Friendly, oggi, colpisce il porsi<br />

in una nicchia dalla quale osserva i coetanei e quanto<br />

seguì - sfortune e tragedie incluse - il suo fiorire appassionato<br />

e caldo. Se nessuno dei tanti lavori successivi<br />

dei Ciarlatani lo vale, rimane faccenda notevole che<br />

ricorda come, da sempre, il miglior pop d’oltremanica<br />

paghi pegno alla musica nera. Dal suono sensuale<br />

tuttavia sostenuto dei mancuniani (Northwich, per la<br />

precisione) risali a Brian Auger, alla Graham Bond<br />

Organization, allo Spencer Davis Group (il tastieri-<br />

sta Rob Collins esemplare e idem lo scintillante traino<br />

nelle charts The Only One I Know). E anche, in versione<br />

light, a quei Prisoners da dove sbucava il traghettatore<br />

dell’organo Hammond, James Taylor. Non fosse che<br />

quanto era ruvido errebì in buccia d’orecchiabilità si<br />

era col senno di poi venato di jingle-jangle (l’innodica<br />

Sproston Green vicina ai R.E.M. di Green) pur seguitando<br />

a voler la pelle nera con Believe You Me e Polar Bear (i<br />

ragazzi collezionavano anche 12" di house chicagoana;<br />

anni dopo, Burgess avrebbe cantato con i Chemical<br />

Brothers, pronti a ricambiare tramite un remix) e ricordare<br />

i ’60 (White Shirt).<br />

Erano baggy come Elvis Costello era punk - cioè<br />

poco o nulla: l’errore era prospettico - e semmai preferivano<br />

sapevano incupirsi (Then) e lanciarsi in una<br />

neo-psichedelia morbida tipicamente albionica (You're<br />

Not Very Well, Sonic). Cercavano il groove cautamente<br />

danzabile mentre erano in "viaggio" e viceversa: ecco<br />

l’alchimia che qui funziona con costanza e sarà per<br />

loro l’unica volta. Prova ne sia che, a fine estate 2010,<br />

ne è stata pubblicata una doppia versione "deluxe" su<br />

cd con session radiofoniche e varie chicche aggiunte;<br />

e che, più di ogni altra cosa, riascoltarlo non abbia offerto<br />

semplice nostalgia. Melting Pot si intitolava una<br />

ben compilata raccolta del '98 che consigliamo a integrazione,<br />

ed era vero: confuso e forse involontario, ma<br />

lo era.<br />

giAncArlo TurrA<br />

98 99


www.sentireascoltare.com

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